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Il concetto di colpa e

responsabilità: un confronto tra


tragedia antica e dramma
moderno
Carmen Gallo MCS/00149 | Civiltà letterarie classiche |
Anno accademico 2020/2021
Introduzione

Leggere un testo classico, come l’Edipo re di Sofocle, a distanza di così tanto


tempo dal momento in cui è stato recitato e poi scritto, ci pone di fronte a difficoltà di
varia natura. È sicuramente necessario, prima di tutto, compiere un’operazione di
estraniamento dal contesto socio-culturale in cui viviamo, per avvicinarci a un altro
sistema di valori, appartenente a una civiltà lontana da questo presente nel tempo e nello
spazio.
Quando si parla di teatro, nel contesto ateniese classico, bisogna essere coscienti
della quantità di ambiti, nozioni, personaggi, riti, storie e miti cui si va incontro. Chi si
recava a teatro era consapevole della sua funzione educativa: attraverso le opere venivano
trasmessi specifici messaggi ideologici per fornire al cittadino-spettatore qualcosa di più
del semplice piacere visivo. Portare sulla scena una tragedia, ad Atene nel V sec. a.C.,
significava fondare e rifondare il mito stesso della polis, essendo la dimensione collettiva
e l’appartenenza a una comunità ristretta aspetti molto importanti del mondo greco; agli
autori, inoltre, non interessava lasciare la propria firma sull'opera creata: quel che più
contava per loro, infatti, era contribuire all’affermazione identitaria della polis in uno
spazio e in un tempo fortemente ristretti, equivalente rispettivamente al territorio della
polis stessa e alla durata della performance teatrale.
La diffusione delle biblioteche durante l’epoca ellenistica e l’inaugurazione della
cosiddetta “civiltà del libro” segnano un passaggio decisivo per la diffusione e la
trasmissione dei testi scritti: cambia il rapporto con il pubblico e anche la modalità di
composizione delle opere, modalità che, da un contesto orale-aurale, si sposta su un piano
meno immediato, tramite il medium del libro. La nascita della letteratura come esperienza
intima e individuale, vissuta dal singolo lettore, rappresenta un’importante momento di
transizione della storia culturale.
Date queste premesse e assodata la distanza temporale e culturale tra il cittadino
ateniese e il lettore moderno, questo lavoro vuole compiere un ulteriore salto nel tempo
mettendo a confronto la tragedia Edipo re di Sofocle e un romanzo di Dostoevskij
pubblicato nel 1866, Delitto e castigo. In particolare: nella prima parte si delineerà la
figura dell’eroe tragico e del destino ineluttabile a lui riservato; nella seconda parte ci si
soffermerà sul carattere connaturato all’uomo di superare se stesso e i suoi limiti; infine,
ci sarà una riflessione sulla tema della colpa come pena e del castigo autoinflitto.

Dall’eroe epico all’eroe tragico

Tra gli uomini e le divinità, in una posizione intermedia, trovano posto gli eroi. In
genere, ma non sempre, si tratta di semidei, figli cioè di una divinità e di un mortale; ciò
che sicuramente accomuna tutti è il fatto di essere personaggi particolarmente forti e
dotati di singolari caratteristiche che permettono loro di compiere grandi imprese.
L’eroe epico si caratterizza per il suo portamento forte e compatto, un tutt’uno con
il divino, qualità che non lasciano movimento al personaggio, lo rendono statico, privo di
evoluzione interiore; aderisce convenzionalmente alle leggi della società che coincidono
con quelle degli dei. Con l’introduzione di una nuova tipologia di eroe – quello tragico –
anche sul piano legislativo, avviene uno scontro: l’eroina tragica, Antigone, protagonista
dell’opera omonima di Sofocle, si trova a difendere una legge divina, ovvero l’obbligo di
dare una sepoltura ai propri cari, contro una legge sociale, imposta dallo zio Creonte, che
rinnegava questo diritto divino quando il defunto era accusato di tradimento verso la
patria. Antigone pagherà con la sua stessa vita la disobbedienza e la ribellione alle leggi
umane, personificate da Creonte, e il suo sacrificio sarà un ulteriore segnale di
un’avvenuta rottura tra il mondo degli eroi omerici e quello degli eroi tragici.
L’eroe, scelto come protagonista di una tragedia del V secolo, si distingue per il
suo carattere complesso e per una forte dinamicità, indice di cambiamento ed evoluzione
interiore che avverranno man mano che la tragedia si evolve. I monologhi interiori dei
personaggi vengono portati sulla scena e il loro conflitto interiore è reso, così, tangibile
agli spettatori: tutti diventano partecipi del dramma e grazie alla condivisione di un
patrimonio culturale comune è possibile apprezzare le novità proposte dagli autori per
intensificare e riaffermare, di volta in volta, la presenza del mito.
Una volta alterato il rapporto tra l’uomo e la divinità, è una conseguenza naturale
lo spostamento dell’attenzione dal divino all’umano e alla sua complessità; infatti, perché
vi sia azione tragica, occorre che i piani umano e divino siano abbastanza distinti per
contrapporsi, ma è necessario anche che non cessino di apparire inseparabili. 1
Nella tragedia, le azioni dell’uomo rientrano nell’ordine prestabilito dalla divinità e
soltanto compiendosi acquistano il loro vero senso. L’eroe tragico, quindi, pur godendo
di una certa libertà, resta vincolato al volere della divinità; in lui è forte la spinta ad agire,
a compiere una scelta, sempre condizionata dalla supervisione del dio, che può favorirla o
opporsi ad essa, crudelmente e indecifrabilmente. La libertà di cui gode l’eroe tragico,
allora, esiste esclusivamente nel campo di realizzazione di un destino preordinato, a cui
soccombere necessariamente. La consapevolezza di una tale limitatezza fa sì che si
verifichi il dramma: l’eroe si lascia attraversare da esso e, in alcuni casi, fino a farsi
sopraffare, a darsi la morte. È al tempo stesso responsabile e vittima di una scelta, in
costante tensione tra il commettere e il subire, tra l’intenzione e la costrizione.

Edipo e Raskòlnikov

Il mito di Edipo si presenta in varie versioni tramandate nei secoli; il pubblico conosceva
gli episodi più significativi della vicenda, come l’incesto e il parricidio, ma agli autori di
teatro veniva riservata la possibilità introdurre qualche elemento di innovazione per
aumentare l’intensità drammatica. Nello specifico, Sofocle aggiunge due elementi di
novità: la peste ad Atene e l’autoaccecamento di Edipo. Entrambi gli avvenimenti da un
lato rafforzano, ma dall'altro indeboliscono tutto il potenziale tragico dell’eroe: Edipo era
stato considerato dai tebani il più intelligente tra gli uomini dopo aver risolto l’enigma
della Sfinge e il suo governo su Tebe lo aveva reso un sovrano amatissimo dal popolo.
L’incombere di una seconda epidemia di peste porta i cittadini a chiedere nuovamente
aiuto al re, inconsapevoli del fatto che sia proprio lui l’uomo da cacciare dalla città per
porre fine alla maledizione di Laio. Dal più intelligente passerà ad essere il più miserabile
tra gli uomini e sarà proprio lo stesso eroe a correre incontro al suo destino, a causa

1 R. Macrì, La scelta tragica e la concezione della colpa: il mito di Edipo e l’Agamennone di


Eschilo. Introduzione alla tesi di laurea magistrale, reperibile a questo indirizzo:
https://www.tesionline.it/tesi/lettere-e-filosofia/la-scelta-tragica-e-la-concezione-della-
colpa-il-mito-di-edipo-e-l%E2%80%99agamennone-di-
eschilo/37114#:~:text=Perch%C3%A9%20vi%20sia%20azione%20tragica,l'uomo%20e%20gl
i%20sfugge.
dell’implacabile sete di conoscenza che lo caratterizza. La dismisura e l’eccesso vengono
condannati nel mondo antico, in quanto sono espressione della superbia umana, che tenta
di toccare l’intangibile, ovvero tutto quello che è sotto la sorveglianza degli dei
tradizionali. Sarà la smania di conoscere ad accecare il tiranno Edipo ancor prima delle
fibbie d’oro della veste di Giocasta.
Possiamo rintracciare, almeno in un primo momento della tragedia, il consolidarsi
di un’identità regale molto forte nel protagonista: in contrasto con il coro, che si affida
fiducioso all’aiuto degli dei, Edipo ripone molta fiducia nelle proprie doti umane. Anche
quando l’indovino Tiresia tenta di metterlo in guardia in maniera enigmatica sul suo
destino, Edipo tramuta gli avvertimenti in strategie politiche, dettate dalla volontà umana
di Creonte e di Tiresia di prendere il suo posto da sovrano.

(…) questo stregone che fabbrica tranelli, questo ciarlatano che pensa solo ad
arraffare ma nella sua arte è cieco dalla nascita. Avanti, rispondi: quando
mai ti sei dimostrato un vero indovino? Com’è che al tempo in cui la cagna
imperversava con i suoi indovinelli, tu non pronunciasti la parola che
salvasse i tuoi concittadini? E sì che non toccava al primo venuto svelare
l’enigma: occorreva quell’arte profetica che tu non dimostrasti di aver
appreso né dagli uccelli né da un dio.2

Edipo si rivela incapace di interpretare gli eventi perché forte è la sua tensione a
racchiuderli in una sfera di avvenimenti del tutto umana e, per questo, sotto il suo
controllo. Dopo lo scontro con Tiresia, c’è un dissidio con Creonte, chiamato sulla scena
per difendersi dalle accuse del sovrano. Tutto fa sì che Edipo appaia sempre più solo,
incompreso e dilaniato dalla volontà di conoscere la verità: ognuno dei personaggi
detiene una porzione limitata di verità ma, affinché possano conoscerla nella sua
completezza, è necessario ascoltare e mettere insieme tutte le loro singole testimonianze.
Tiresia, invece, è l’unico personaggio della tragedia a conoscere la verità fin da subito, a
prescindere da qualsiasi esperienza diretta o prova, ed è proprio per questo motivo che
egli non viene creduto dagli altri.

2
Sofocle, Antigone, Edipo re, Edipo a Colono, trad. di F. Ferrari, Milano, BUR Rizzoli, 2019
p. 173
Il processo a cui si sottopone Edipo mi ha portato alla mente quello che si
sviluppa nel corso del romanzo di Dostoevskij, Delitto e Castigo. Il progressivo sviluppo
psicologico del delitto pone il protagonista al centro di un lavoro di indagine su se stesso
in cui è allo stesso tempo l’accusatore e l’imputato; tuttavia non c’è soltanto il racconto di
un’unica voce che si confessa: il romanzo, definito “polifonico” da Michail Bachtin3,
raccoglie le voci di tanti personaggi in dialogo aperto con quella del protagonista.
La storia di Raskòlnikov comincia con due omicidi, uno premeditato (quello della
vecchia usuraia), l’altro necessario (quello della sorella della vecchia, unica testimone del
crimine). La verità, messa a tacere con quest’ultimo atto, continuerà a parlare dentro di
lui, fino a farlo impazzire e spingerlo a confessarsi, raccontandola agli altri. Nel corso
dell’indagine individuale, Raskòlnikov si confronterà per tre volte con il giudice istruttore
Porfirij, il quale, pur avendone intuito la colpa e il tormento, non lo sottopone a un
processo giudiziario, ma a un altro di tipo psicologico:

L’assassino si è dimenticato di chiudere la porta, però ha ucciso, ucciso due


persone, per obbedire a una sua teoria. Le ha uccise, ma non ha nemmeno
saputo prendere il denaro, e quel che è riuscito a sgraffignare lo ha nascosto
sotto una pietra. Non gli è bastato aver sofferto quella tortura, quando si trovava
dietro la porta, mentre da fuori cercavano di sfondarla e il campanello suonava;
no, eccolo che ritorna, quasi nel delirio, più tardi, nell’appartamento ormai
vuoto, per ricordarsi del suono di quel campanello; sente il bisogno di risentire
quel brivido nella schiena… Va bene, ammettiamo pure che sia malato, però ecco
un’altra ipotesi: ha ucciso, però si considera un uomo onesto, rispetta il suo
prossimo, va in giro con un’aria di angelo pallido… No, qui Nikòlka non c’entra
affatto, caro Rodiòn Romànovič, Nikòlka non c’entra affatto!.4

Dopo una riflessione sulle ragioni filosofiche alla base del delitto, il giudice lo
rassicura dicendogli che l’avrebbe lasciato libero, perché condannarlo significherebbe
concedergli il sollievo, la pace: ciò che Porfirij desidera è che Raskòlnikov paghi con il

3
P. Desogus, La polifonia secondo Michail Bachtin, materiale didattico Università di Siena
2011, reperibile all'indirizzo:
https://www.giovannimanetti.it/wp-content/uploads/2009/11/Bachtin-Desogus-2011-
PDF.pdf
4
F. Dostoevskiij, Delitto e castigo, trad. di V. Carafa de Gavardo, Roma, Newton &
Compton editori 2004, pp.346-347.
tormento la sua colpa e che alla fine la confessi. Non basta la condanna, l’accento si
sposta sull’esperienza della colpa.
Posti a confronto l’Edipo re di Sofocle e Delitto e castigo di Dostoevskij, risulta
necessario distinguere nell’uno e nell’altro le conseguenze e i motivi di uno stesso
crimine. Edipo, dopo aver conosciuto il responso dell’oracolo, decide di lasciare Corinto
per recarsi a Tebe. Lungo la strada, a un incrocio, si scontra con un uomo alla guida di un
carro che con arroganza lo colpisce per primo chiedendogli di farsi da parte per lasciarlo
passare. In risposta all’affronto ricevuto, Edipo lo colpisce violentemente, uccidendolo.
Raskòlnikov, dopo aver riflettuto a lungo sul compiere o meno quel gesto, decide di
metterlo in atto, ritenendolo necessario all’affermazione della sua teoria. È pur vero che
Edipo non aveva premeditato l’assassinio di un uomo (di suo padre, soprattutto) ma non
era così strano all’epoca concepire le ragioni di un omicidio avvenuto in seguito ad uno
scontro. Non è Edipo a premeditare l’atto, è insito nella cultura d’appartenenza dell’eroe
greco, rispondere a un’offesa con un gesto di estrema violenza. Stando a queste
riflessioni, l’omicidio commesso da Edipo è volontario, dettato dall’esigenza di affermare
con prepotenza la sua identità in seguito a un’offesa subita. Era necessario per Edipo
compiere quest’atto di affermazione di sé perché l’eroe epico, seppur con qualche ferita,
continua a convivere con l’eroe tragico. In Raskòlnikov il desiderio di compiere il
proprio dovere per l’umanità nasconde il superomismo di cui si vestono gli eroi
contemporanei. Come sottolinea lo stesso Porfirij, Raskòlnikov ha commesso il delitto
per obbedire a una sua teoria, secondo la quale gli uomini si dividono in due specie: i
grandi uomini, i Napoleone, a cui è consentito vivere e agire al di sopra della legge
morale e ai quali, in nome della loro grandezza e del beneficio che l’umanità trae dalla
loro esistenza, tutto è permesso; le persone comuni, i pidocchi, che devono invece
sottostare alle leggi e al senso comune, e nei confronti dei quali i Napoleoni hanno diritto
di vita e di morte. L’omicidio che Raskòlnikov compie è, almeno in parte, il modo che lo
studente ha per dimostrare a se stesso e al mondo di appartenere alla categoria dei grandi
uomini.
La condanna dell’eroe tragico e moderno

Le conseguenze del crimine dimostrano una verità che Raskòlnikov fa fatica ad


accettare. Come scrive L. Pareyson, «Raskòlnikov s’accorge che ha saputo soltanto
uccidere, ma non trasgredire cioè non è riuscito a scavalcare: ha ucciso la vecchia
usuraia, ma non ha superato la legge; ha perpetrato un omicidio, ma non si è collocato al
di là della norma morale»5. Il protagnonista di Delitto e castigo finisce per ammalarsi di
quella che Dostoevskij chiama febbre celebrale, per sottolineare il malessere fisico
provocato dal senso di colpa e, soprattutto, dall’accettazione del fallimento del suo
progetto rivoluzionario: il delitto avrebbe dovuto essere il primo di una serie di passi
indipendenti, un modo per liberarsi dalle convenzioni sociali.
La teoria che utilizza per decolpevolizzarsi non basta a tenerlo in guardia dai
fantasmi delle sue responsabilità e dal senso di colpa nato dal fatto di aver compiuto un
atto ignobile, che peraltro non è servito al suo riscatto sociale: si credeva un superuomo e
si è dimostrato un vigliacco e perciò sente di meritare il castigo.

La nostra epoca ha una caratteristica rispetto a quell'epoca della Grecia, quella di


essere più malinconica e perciò più disperata. Il nostro tempo è tanto
malinconico da sapere ch'esiste qualcosa che si chiama responsabilità.6

Nel passo testé citato, Søren Kierkegaard prosegue il suo confronto tra il tragico
antico e il dramma moderno, affermando che, mentre la colpa soggettiva, scontata
dall’eroe moderno, porta l’uomo all’isolamento e a una crescente sensazione di angoscia,
la colpa tragica, subita dall’eroe tragico che commette il delitto non avendo possibilità di
scelta alternativa, è una sorta di peccato originale, che rende la sofferenza più profonda
proprio per questa sua contraddittorietà: essere cioè colpa pur senza responsabilità. In
Sofocle, l’eroe era solo di fronte alla realtà e nel suo isolamento combatteva fino allo
stremo delle forze, prima di arrendersi davanti all’assoluta potenza degli dei; Edipo
approda alla verità dei fatti grazie alla sua razionalità indagatrice e giunge così alla soglia
del limite insito e proprio della natura umana: «il pensiero ricade su sé stesso quando è

5
Citato in La prospettiva etica in Dostoevskij di Mirko Bresciani, Independently published,
2019.
6
S. Kierkegaard, Aut-aut, citato in Kierkegaard e la possibilità di un tragico moderno di
Nicola Ramazzotto, «CoSMo Comparative Studies in Modernism n. 17 (Fall)», 2020.
messo alla prova dal tragico e mostra i suoi limiti e la sua impotenza: in quanto cosa
finita, il pensiero umano non è in grado di sciogliere i nodi del tragico e finisce anzi per
immergere ancor di più l’uomo nel suo dolore. La ragione mostra la necessità di qualcosa
che la superi: l’unica “soluzione” al tragico, che non risolve la contraddizione, ma che la
annega nella propria infinità è, infine, Dio». 7
L’opera di Dostojevskij si conclude con un’immagine rasserenante: dopo la morte
della madre, nonostante si trovi in Siberia a scontare la sua pena, Raskòlnikov dirige il
suo sguardo verso il futuro e verso una vita a cui desidera ritornare, redento, insieme alla
sua compagna Sonja, che non lo aveva mai abbandonato. La ricerca della libertà che
intraprende fin dall’inizio del racconto trova una pacificazione nella fede cristiana, a cui
si converte e grazie alla quale il carico di colpe e di responsabilità dell’uomo moderno
risulta più sopportabile. Raskòlnikov finisce per accettare i limiti imposti dalla propria
condizione umana, ridimensionando la sua soggettività e abbandonandosi alla grazia e al
perdono di Dio.
Diversamente, la condanna che sconta l’eroe sofocleo non ammette possibilità di
redenzione: l’ineluttabilità del fato obbliga Edipo a vivere in un orizzonte prestabilito di
spazio e tempo, al di là del quale regna l’ignoto. L’autoaccecamento di Edipo rappresenta
l’annientamento della vista, il principale strumento di conoscenza di cui si era servito
durante il suo percorso di ricerca della verità. Il delitto del padre e il rapporto incestuoso
con la madre gettano il protagonista in un abisso di dolore e perdizione, in cui le tenebre
risultano essere meno insidiose delle immagini illusorie a cui aveva sottoposto il suo
sguardo. La pena che si autoinfligge conserva un ultimo e timido tentativo di sorpassare i
limiti terreni per innalzarsi a un livello di conoscenza divina (quella posseduta da
Tiresia), in grado di garantirgli guida, verità e sicurezza nei giorni che gli restano da
vivere.

7
N. Ramazzotto, Kierkegaard e la possibilità di un tragico moderno, «CoSMo Comparative
Studies in Modernism n. 17 (Fall)», 2020.
Conclusione

Le possibilità di riflessione che il mito e la figura di Edipo offrono al lettore


moderno e contemporaneo sono molteplici; quella che ho scelto di trattare pone a
confronto la colpa tragica dell’eroe sofocleo e la responsabilità dell'uomo
dostoevskijiano. Così come Edipo concluderà la sua vita mendico e cieco, in cerca di
protezione e ospitalità con accanto soltanto sua figlia-sorella Antigone (come racconta
Sofocle in Edipo a Colono), Raskòlnikov, dopo essersi costituito, dichiarandosi colpevole
del duplice omicidio commesso, è costretto ad affrontare le conseguenze del suo
fallimento. Sonja e Antigone addolciscono le sorti di uomini sventurati, entrambi
colpevoli di aver osato collocarsi oltre il possibile e lo scibile umano. Le due vicende
tragiche, pur accomunate da esiti drammatici per i rispettivi protagonisti, costretti dal fato
e dal volere divino a ridimensionare la loro eroicità, sono cronologicamente separate da
molti secoli; forse solamente questo divario cronologico ha potuto permettere al lettore
moderno e contemporaneo di percepire come più accettabile, più possibile e conforme
alla natura dell'uomo stesso la distanza incolmabile tra la sfera umana e quella del divino.
Bibliografia
Testi e Traduzioni
SOFOCLE, Antigone, Edipo re, Edipo a Colono, trad. di F. Ferrari, Milano, BUR Rizzoli,
2019.
DOSTOEVSKIIJ F., Delitto e castigo, trad. di V. Carafa de Gavardo, Roma, Newton &
Compton editori 2004.
Articoli e Monografie
RAMAZZOTTO N., Kierkegaard e la possibilità di un tragico moderno, «CoSMo
Comparative Studies in Modernism n. 17 (Fall)», 2020.

ADKINS A., La morale dei Greci: da Omero ad Aristotele, trad. di R. Ambrosini, Laterza (26
ottobre 1987)

Sitografia

https://www.tesionline.it/tesi/lettere-e-filosofia/la-scelta-tragica-e-la-concezione-della-
colpa-il-mito-di-edipo-e-l%E2%80%99agamennone-di-
eschilo/37114#:~:text=Perch%C3%A9%20vi%20sia%20azione%20tragica,l'uomo%20e%20gl
i%20sfugge

https://www.giovannimanetti.it/wp-content/uploads/2009/11/Bachtin-Desogus-2011-
PDF.pdf

http://www.centrostudipareyson.it/Inventario_totale-senza-appendice-per-sito.pdf

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