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Kant

Kant è stato definito un “Giano bifronte”: è una grande personalità che vive a cavallo tra la civiltà dell’Illuminismo e
quella del Romanticismo. Si può considerare il più conseguente degli illuministi, ma nello stesso tempo apre le
prospettive dell’età successiva. Kant riprende ed esalta la fiducia nella razionalità portandola all’estremo, nel senso
che la ragione, dopo avere giudicato con l’Illuminismo la storia, la religione, l’autorità della tradizione, i miti, le
credenze dei popoli, adesso sottopone anche se stessa a giudizio.
La Critica della ragion pura è una sorta di tribunale in cui il giudice delle capacità conoscitive dell’uomo è la
razionalità stessa. Con Kant la ragione impera sovrana: non viene riconosciuto alcun giudice superiore alla ragione
stessa, e la ragione non si sottopone ad alcun altro tribunale, che a quello in cui giudice è essa stessa. Non c’è
un’autorità superiore.
La ragione illuministica si limita alla conoscenza del mondo finito e la sua manifestazione più emblematica è
l’Encyclopédie di Diderot e D’Alembert, in cui tutto lo scibile umano è raggruppato pezzo per pezzo, frammento per
frammento dando l’idea di un sapere disgregato, frantumato, che viene messo insieme in maniera puramente
sommatoria. La massima impresa illuministica, l’Enciclopedia, consiste nel mettere assieme l’immagine del mondo
come un mosaico con tante tessere; il mondo è concepito dagli illuministi come composto di tante entità separate
finite e limitate. Ciò vuol dire che l’Illuminismo aveva dato per scontato che la ragione non si può avventurare in
campi come l’assoluto, la metafisica: non c’è una metafisica dell’Illuminismo; la ragione illuministica si applica
esclusivamente al finito.
Kant è un grandissimo illuminista, ma va anche oltre l’Illuminismo già nella Critica della ragion pura tocca il problema
metafisico, che era stato trascurato dall’Illuminismo. La nuova filosofia di Kant, che viene chiamata “criticismo”, si
confronta con la metafisica, e anche se Kant riconoscerà che per le vie tradizionali il discorso metafisico non si può
affrontare, in fondo aprirà una strada diversa per tentare un discorso su Dio, sull’anima, sul mondo, quindi sui grandi
oggetti della metafisica.
“Criticismo” significa bilancio critico delle facoltà conoscitive umane. Col criticismo kantiano l’Illuminismo
raggiunge il suo culmine e viene superato, ma raggiunge il suo culmine anche la filosofia moderna nella sua
interezza, che aveva avuto il momento di massima accelerazione con Cartesio che aveva spostato l’attenzione della
filosofia dal mondo, dall’oggetto, al soggetto della conoscenza, all’uomo e alle sue strutture conoscitive. Questo era
stato vero per il razionalismo, ma era stato vero in gran parte anche per l’empirismo, la cui opera maggiore è il
“Saggio sull’intelletto umano” di Locke, che segnala già nel titolo un’attenzione alle facoltà conoscitive umane. Lo
spostamento dell’attenzione della filosofia dal mondo oggettivo alle strutture del soggetto raggiunge l’apice nel
criticismo kantiano. Kant conclude la filosofia moderna e apre quella contemporanea con un discorso sulle facoltà
conoscitive dell’uomo. Il criticismo che implica un profondo riesame delle filosofie precedenti e un bilancio delle
facoltà conoscitive umane quali erano state identificate dalla filosofia dei secoli precedenti.
La filosofia del Seicento e del Settecento si era concretizzata nei due filoni dell’empirismo e del razionalismo. Kant, in
due momenti successivi della sua stessa vita di studioso, è prima razionalista, poi empirista: in un primo momento
aderisce al razionalismo nella forma tedesca, nella forma wolffiana e leibniziana, poi la lettura di Hume, grande
empirista inglese, lo risveglia dal “sonno dogmatico”, dall’adesione al razionalismo, e lo convince del fatto che la
conoscenza ha sempre a che fare prima di tutto con l’esperienza sensibile.
Kant si confronta con i due secoli che lo hanno preceduto, superandoli. Per questo è importante, nella esposizione
del pensiero di Kant, partire dalle critiche che egli rivolge all’empirismo e al razionalismo: il vero punto di vista del
criticismo kantiano non si può cogliere se non come superamento delle due scuole di pensiero precedenti.
Empirismo: è noto che Hume stesso aveva dovuto fare confessione di scetticismo. Questo si può capire agevolmente:
se mi affido alla conoscenza sensibile è chiaro che non riuscirò mai ad arrivare a una conoscenza che sia universale e
necessaria, sarò sempre costretto a riferirmi a qualche cosa di estremamente limitato e, in fondo, alla mia stessa
esperienza personale. Hume con la critica dell’idea di causalità aveva sgretolato le basi stesse della scienza; la scienza
si fonda sul principio di causalità e sull’aspirazione ad arrivare ad affermazioni che siano valide per tutti e in ogni
tempo (universali e necessarie). L’empirismo portava a un naufragio della scienza, a non poter affermare niente di
sicuro, niente di universale. Addirittura Hume giunge a dire che soltanto affidandosi al buon senso si può dire che
domani sorgerà il sole. Dalla prospettiva dell’empirismo non si può avanzare nessuna previsione sui fenomeni futuri,
ma la scienza invece pretende proprio questo, di giungere a leggi universali, necessarie, che ci permettano di predire
anche come andranno i fenomeni domani e dopodomani, oltre a sapere come sono andati oggi e ieri.
Razionalismo: con il suo metodo del tutto opposto, fondato sulle conoscenze a priori, non riusciva a spiegare come si
può operare il salto dalle costruzioni a priori della mente al mondo a posteriori dell’esperienza. Esso si poneva su un
piano di universalità, ma di un’universalità astratta. Se l’empirismo portava allo scetticismo, il razionalismo riusciva a
conseguire universalità, ma un’universalità non accettabile da parte della scienza, perché consistente in costruzioni a
priori, non verificabili nell’esperienza stessa. Il razionalismo si irrigidiva nel “dogmatismo”, nella pretesa di validità
(non dimostrata) delle deduzioni a priori.
Kant nella Critica della ragion pura, demolisce e supera empirismo e razionalismo.
Il conoscere, dice Kant, è giudicare: si ha una conoscenza quando si collega un soggetto con un predicato. Il giudizio è
appunto unione di un soggetto con un predicato. La conoscenza scientifica consiste in una concatenazione di termini.
La più elementare concatenazione di termini è il giudizio. Kant, analizzando come funzionano i giudizi nell’empirismo
e nel razionalismo, ne riesce a mettere in rilievo la debolezza. L’empirismo, col suo metodo induttivo, cioè col
metodo che va dal particolare all’universale, e si fonda sui sensi, dava luogo a giudizi sintetici a posteriori.
«Il corpo è pesante». Perché questo giudizio è sintetico? Perché nel concetto di corpo non è implicita
necessariamente la pesantezza, quindi soltanto verificando coi sensi la pesantezza del corpo si può dire che esso è
pesante; e dire «il corpo è pesante» vuol dire sintetizzare, unire – sintesi in greco significa unione – due termini,
“corpo” e “pesantezza”, che di per sé sono distinti. Questo giudizio è sintetico e, nello stesso tempo, è a posteriori.
Perché soltanto dopo – a posteriori, dal latino “postea” – che ho fatto la verifica sensibile della pesantezza del corpo,
posso dire che il corpo è pesante.
Il giudizio è sintetico perché unisce due termini non necessariamente collegati fra loro, ed è a posteriori perché lo
posso enunciare soltanto dopo che l’ho verificato con i sensi. Questo tipo di giudizio presenta un vantaggio: è
produttivo di vera conoscenza in quanto il predicato mi dice qualche cosa di nuovo rispetto al soggetto. A fronte di
questo vantaggio c’è però un elemento negativo: questo tipo di giudizio non riesce mai a pervenire all’universalità e
alla necessità della scienza, in quanto è fondato sui sensi.
Dall’altra parte il razionalismo, con il suo metodo deduttivo, per cui si parte da affermazioni universali e si cerca di
arrivare a conoscenze più particolari, si fonda su giudizi analitici a priori.
L’esempio che fa Kant nella Critica della ragion pura è: «Il corpo è esteso». Questo giudizio è tipico del razionalismo.
Perché è un giudizio analitico a priori? È analitico in quanto analizzando – anche analizzare viene dal greco e significa
“sciogliere nelle componenti” – sciogliendo il soggetto, “il corpo”, nelle sue componenti, ritrovo già necessariamente
l’estensione. Lo sappiamo dal concetto di res extensa di Cartesio: non ci può essere un corpo che non sia esteso, al
concetto di corpo è connaturato quello di estensione. Quindi, il giudizio: «Il corpo è esteso» è un giudizio analitico in
quanto analizzando il soggetto ritrovo il predicato, ed è a priori perché non ho bisogno di verificare con i sensi
l’estensione di un corpo: che un corpo è esteso lo posso sapere prima dell’esperienza sensibile per via di
ragionamento, senza né vederlo né toccarlo.
Il giudizio razionalistico presenta quindi questo vantaggio: è un giudizio assolutamente necessario. Visto che nel
predicato non faccio altro che ripetere quello che è già presente nel soggetto, sono sicuro della verità. Conseguito
però il vantaggio della necessità non mi ritrovo più quello della produttività, della estensione delle mie conoscenze. Il
giudizio analitico è sterile, non è produttivo: quando ho detto che il corpo è esteso, non ho aggiunto una nuova
conoscenza a quella che già avevo col concetto di corpo, ho semplicemente sottolineato un aspetto di questo
soggetto che è il corpo, ma non ho fatto un passo in avanti nella conoscenza, sono rimasto al punto di partenza. I
giudizi analitici a priori sono necessari, sono universali ma non ci danno nuove conoscenze.

Kant sostiene che esistono giudizi che sono sintetici e a priori insieme: riesce a unificare gli aspetti positivi del
giudizio dell’empirismo e di quello del razionalismo identificando i giudizi sintetici a priori, i quali presentano tutti i
vantaggi del giudizio empirico e di quello razionalistico senza averne gli svantaggi. I giudizi di Kant sono sintetici,
quindi produttivi di conoscenza, ampliano il sapere, ma nello stesso tempo, essendo a priori, sono universali e
necessari, quindi rispondono al canone scientifico dell’assolutezza e della necessità. Essi, quindi, raccolgono tutti gli
aspetti positivi e respingono gli aspetti negativi dei tipi di giudizi dell’empirismo e del razionalismo.

Ora, la posizione specifica di Kant si comincia a delineare nell’analisi del concetto di esperienza. Questo è il fatto
decisivo, che distacca Kant dall’empirismo: la conoscenza inizia con l’esperienza, ma poi c’è l’apporto formale della
ragione umana; la conoscenza quindi inizia con l’esperienza, ma non deriva tutta dall’esperienza: «Infatti la nostra
conoscenza è un composto di ciò che noi riceviamo mediante le impressioni e di ciò che la nostra propria facoltà di
conoscere trae da se stessa». Le impressioni sensibili sono semplicemente uno stimolo e non costituiscono l’essenza
della conoscenza come negli empiristi. Quello che è importante è la forma che la nostra ragione dà a queste
impressioni.
Rivoluzione Copernicana
Come fa Kant a sostenere che esistono giudizi universali, necessari e insieme estensivi del sapere, cioè giudizi
sintetici a priori? Per arrivare ad affermare questo, egli deve capovolgere le prospettive della conoscenza come
erano state interpretate fino ai suoi tempi, deve dare luogo a quella che egli stesso ha definito “rivoluzione
copernicana” della conoscenza. Fino a Kant c’era stato un dogma, cioè una credenza non dimostrata: che il mondo
fosse ordinato, che la natura, la realtà, avesse leggi, ordine in se stessa. L’uomo va alla ricerca, alla scoperta di queste
leggi. Con Kant, invece, la prospettiva è capovolta: il soggetto conoscente ha in sé meccanismi di funzionamento,
leggi, forme, che proietta nell’oggetto conosciuto. È l’uomo il legislatore della natura, non è la natura ad avere in sé
una legge che l’uomo deve andare a ricercare. «L’io è il legislatore della natura», afferma Kant.

Compito del filosofo sarà allora quello di indagare le strutture conoscitive umane, che Kant chiama nel loro insieme
“ragione”, e che sono articolate in intuizione, intelletto e ragione propriamente detta.
Kant, quindi, fa la critica, il bilancio critico della ragion pura, cioè della ragione nella sua purezza formale, a
prescindere dai contenuti che essa conosce. Dei contenuti Kant non si interessa: egli indaga l’aspetto puramente
formale della ragione. Va notato che Kant usa il termine “ragione” in senso lato per intendere le facoltà conoscitive
dell’uomo nel loro complesso, in senso stretto per indicare la più alta facoltà conoscitiva umana. L’insieme delle
facoltà conoscitive umane, ovvero la ragione, per Kant è come una forma che si va a stampigliare sui contenuti di
conoscenza che il mondo ci offre. Non possiamo avere alcuna conoscenza delle cose quali sono in loro stesse,
prescindendo dall’apporto formale, dall’aggiunta formale, che noi stessi diamo alla conoscenza. Non possiamo mai
raggiungere la conoscenza delle cose nella loro oggettività, quali esse sono in loro stesse. Di conseguenza abbiamo
una conoscenza soltanto fenomenica del mondo. Per Kant la conoscenza della cosa quale essa è in se stessa non è
mai raggiungibile. Vediamo le cose soltanto quali appaiono a noi. A questo punto sembrerebbe che siamo ricaduti in
una posizione ancora peggiore dello scetticismo di Hume. E invece non è così, perché Kant sostiene che è vero che
trasformiamo ogni conoscenza del mondo esterno, ma ognuno di noi opera una trasformazione analoga, identica a
quella degli altri. Anche in questo senso Kant è fortemente illuminista: per gli illuministi la ragione è una struttura
universale, è propria cioè di tutti gli uomini, è ciò che rende uguali tutti gli uomini. Fino a Kant ciò che è soggettivo è
personale, è arbitrario, mentre ciò che è oggettivo è universale. In Kant invece si raggiunge l’universalità all’interno
della soggettività: le strutture soggettive (intuizione, intelletto e ragione), essendo uguali in tutti gli uomini, danno
luogo a conoscenze universali.
Per Kant ogni conoscenza di un elemento materiale e di un elemento formale. L’elemento materiale è quello che
viene dall’esterno, ma ad esso è inevitabilmente aggiunto un elemento formale, che è un apporto della nostra
ragione. È come se, in tre fasi successive, avvenisse una donazione di forma alla materia. Ci sono come tre
rielaborazioni, tre filtraggi successivi della conoscenza, che avvengono ad opera dell’intuizione, dell’intelletto e della
ragione.
Secondo Kant, anche nella conoscenza sensibile più elementare c’è già la forte presenza di una forma dovuta alla
nostra facoltà dell’intuizione. Infatti, non appena apriamo gli occhi sul mondo, collochiamo gli oggetti in uno spazio,
collochiamo le cose a destra, a sinistra, avanti, dietro, in alto, in basso, “spazializziamo” gli oggetti, i quali non si
trovano di per se stessi nello spazio. Il fatto che la lavagna sia sulla destra e la porta sulla sinistra non è un fatto
indipendente da noi osservatori, è vero soltanto per un osservatore posto nella mia posizione, oppure, viceversa,
nella vostra posizione. Quello che per Kant conta è che chiunque si metta al posto mio, vedrà a destra la lavagna e a
sinistra la porta. La conoscenza, pur essendo soggettiva, perché è il soggetto, l’uomo conoscente che inserisce la
relazione spaziale, è però una conoscenza universale.
A tutte le forme a priori della conoscenza Kant aggiunge sempre l’aggettivo “trascendentale”, termine cardine della
sua filosofia, in cui si condensa la novità del suo pensiero. Infatti il trascendentale di Kant è opposto sia all’empirico,
sia all’a priori dei razionalisti, è una via di mezzo rispetto all’a posteriori sensibile degli empiristi e all’a priori dei
razionalisti.
Spazio e tempo
Lo spazio è una facoltà spazializzatrice del soggetto, che entra in moto quando il soggetto si trova due oggetti da
collocare in reciproca posizione l’uno rispetto all’altro. Lo spazio non c’è né empiricamente nella realtà oggettiva, né
nella mente come un’idea a priori: esso c’è nel momento in cui la ragione, più specificamente la facoltà
dell’intuizione, si incontra con gli oggetti e li colloca uno a destra e l’altro a sinistra, uno in alto e l’altro in basso, uno
avanti e l’altro dietro, ecc. Lo spazio quindi non è né nell’esperienza, nell’oggetto, né nel soggetto, bensì è
“trascendentale”, è una forma a priori trascendentale in quanto esiste soltanto nell’incontro tra soggetto e oggetto.
Il tempo invece è qualche cosa che noi aggiungiamo alla realtà. Kant sottolinea che il tempo è più estensivo dello
spazio, in quanto, mentre lo spazio si applica soltanto agli oggetti esterni, il tempo si applica sia agli stati interiori, sia
agli oggetti esterni. Ogni evento esterno, essendo inquadrato dalla nostra intuizione, viene assorbito dalla nostra
facoltà intuitiva. Mentre gli atti di volontà, i desideri, ecc. non vengono collocati spazialmente, le percezioni che
vengono dal mondo esterno vengono da noi interiorizzate e collocate in successione nel tempo. Tutte le sensazioni,
sia esterne sia interne, sono messe in successione dalla forma del tempo: mentre la forma dello spazio è limitata solo
agli oggetti esterni, la forma del tempo è estesa invece a tutte le nostre percezioni, sia esterne sia interne.

Una volta che i fenomeni sono stati inquadrati nelle forme dello spazio e del tempo essi subiscono un’ulteriore
rielaborazione: vengono unificati dall’intelletto. L’intelletto è una facoltà capace di emettere giudizi, e quindi di
conoscere in maniera piena, infatti, come abbiamo detto prima, per Kant conoscere è giudicare, connettere termini
fra di loro. L’intelletto dà luogo quindi a una visione del mondo atomizzata, non riesce ad arrivare alla grande sintesi
delle conoscenze che invece costituisce l’ambizione della ragione. La distinzione tra intelletto e ragione è questa:
l’intelletto è una facoltà analitica, che si ferma a un mondo frammentario, mentre invece la ragione in senso stretto
ha l’ambizione di cogliere la totalità del mondo, la totalità delle conoscenze, cioè di operare grandi sintesi.
Come fa l’intelletto a operare le limitate sintesi di soggetto e predicato? Mediante dodici categorie o concetti, cioè
dodici modi di connessione dei fenomeni tra di loro. Come giunge Kant ad affermare che sono dodici? Lo ricava dalla
storia della conoscenza umana: considera i giudizi storicamente dati, e sostiene che tutti i giudizi si possono
raggruppare in giudizi di quantità, di qualità, di modalità e di relazione. Ognuno di questi quattro tipi si articola in tre
caratterizzazioni, si giunge così a dodici tipi di giudizi, in cui si possono catalogare tutti i giudizi conoscitivi possibili. Se
ci sono dodici tipi di giudizi ci devono essere dodici modi per connettere soggetti e predicati, cioè dodici categorie:
Kant chiama categorie o concetti questi modi di connessione del soggetto col predicato. Le categorie non sono idee
che abbiamo nella nostra mente, ma meccanismi di funzionamento del nostro intelletto che entrano in gioco quando
hanno un materiale concreto da poter riordinare, da poter mettere insieme. Se non c’è materia del conoscere,
l’intelletto non entra in movimento: esso entra in azione soltanto quando si può mettere a lavorare sui dati e li può
connettere unificando un soggetto con un predicato. Questo fatto è caratterizzato dal termine “trascendentale”.

abbiamo detto che la Critica della ragion pura è un tentativo di bilancio delle facoltà conoscitive; a questo punto
possiamo dire che Kant afferma la validità scientifica della matematica e della fisica: la matematica si basa sulle
forme a priori di spazio e tempo, è concretamente fondata su queste forme a priori universali e necessarie, in quanto
la geometria si fonda sulle relazioni spaziali, quindi sulla forma di spazio; l’aritmetica, con tutto quello che ne
consegue, in quanto fondata sulla successione dei numeri, nasce dalla successione del tempo, e il tempo è
altrettanto una forma trascendentale a priori dell’intuizione. Ora la categoria di causalità cheera stata rifiutata da
Hume, ora viene riproposta come una categoria a priori dell’intelletto, quindi la fisica, che si fonda sulla categoria di
causalità, è anch’essa giustificata, perché si fonda sulle categorie, cioè sulle forme che sono a priori e quindi danno
luogo ad una conoscenza universale e necessaria. La matematica e la fisica sono scienze a pieno titolo, sono investite
di nuova validità alla luce delle scoperte di Kant. La sua ambizione però era di verificare la possibilità della metafisica.
È chiaro che ci avviamo verso un discorso per cui la metafisica nel senso tradizionale è impossibile, in quanto le
categorie dell’intelletto, che danno luogo alla conoscenza, sono trascendentali, cioè si applicano solo a concreti
contenuti di esperienza. Gli oggetti tradizionali della metafisica, Dio, l’anima, il mondo nella sua interezza, non sono
oggetto di intuizione, non sono inquadrati nello spazio e nel tempo; non essendo oggetto di intuizione, non possono
essere oggetto di elaborazione da parte dell’intelletto e quindi di conoscenza. Di conseguenza la metafisica non è
una scienza, come invece lo sono la matematica e la fisica.

Concetto di cosa in sé.


Possiamo conoscere la realtà quale ci appare, ma la realtà quale è in se stessa ci sfugge irrimediabilmente. Kant la
chiama cosa in sé e la considera inattingibile, irraggiungibile. Il fatto che la realtà in sé non sia conoscibile non implica
che non possa essere pensata. Pensare non significa conoscere; si può pensare anche qualche cosa di fantastico o di
immaginario. Kant chiama perciò la cosa in sé anche noumeno (noûs in greco significa mente): la cosa in sé è una
realtà pensabile, ma non conoscibile. Si comincia a delineare in Kant un dualismo tra fenomeno e noumeno.
Noi vediamo il mondo come è filtrato dalle nostre strutture conoscitive, strutture conoscitive che non è detto che
appartengano a ogni essere, sebbene appartengano, però, a tutti gli uomini. Esse sono quindi universali e vengono
da Kant indicate anche con la formula: “Io penso”. Con questa espressione Kant vuol sottolineare che esistono dodici
categorie, ma le dodici categorie sono pur sempre categorie adoperate da un unico soggetto: l’“Io penso” è il
soggetto portatore di tutte le categorie.

«Quando noi consideriamo, come è giusto, gli oggetti dei sensi come puri fenomeni, ammettiamo con questo nello
stesso tempo che ad essi sta a fondamento una cosa in sé, quantunque noi non la conosciamo come è costituita in
sé, ma ne conosciamo solo il fenomeno, ossia il modo con cui questo ignoto qualcosa impressiona i nostri sensi.
L’intelletto quindi, pel fatto stesso che ammette i fenomeni, ammette anche l’esistenza di cose in sé, e pertanto noi
possiamo dire che la rappresentazione di questi esseri che stanno a fondamento dei fenomeni e cioè la
rappresentazione di puri esseri intelligibili [noumeni] non solo è legittima, ma è inevitabile». L’uomo non può
raggiungere il mondo noumenico, il mondo delle cose come sono in loro stesse, ma c’è, dice Kant, un’illusione
trascendentale di poterlo fare.

Mentre le forme trascendentali dell’intelletto sono le categorie dell’intelletto, quelle della ragione sono tre idee: Dio,
anima e mondo, le quali sono grandi direttrici di sintesi delle conoscenze. L’idea di mondo è la tendenza alla sintesi di
tutte le conoscenze esterne; l’idea di anima è la tendenza alla sintesi di tutte le conoscenze interne, degli stati
interiori; l’idea di Dio è la tendenza alla sintesi di tutte le conoscenze esterne e interne. Ma delle idee della ragione,
che segnalano una esigenza metafisica dell’uomo, si fa un uso sbagliato, un uso costitutivo. La metafisica ha
compiuto questo errore: ha considerato queste tre idee come tre cose. Le tre idee, che sono forme della ragione, le
ha viste come costituenti tre entità. La tendenza a unificare tutte le conoscenze esterne, che è un’idea, è stata vista
come il mondo; la tendenza a unificare tutte le sensazioni interiori è stata sostanzializzata nell’anima e così si è
sostanzializzata l’idea di Dio in un Dio esistente come entità suprema. Per Kant l’uso corretto delle idee è invece l’uso
regolativo, cioè quello che spinge a scorgere insiemi di conoscenze sempre più vasti, a superare la limitatezza
dell’intelletto, la limitatezza analitica, nello sforzo di raggiungere una visione complessiva e organica della realtà:
l’intelletto ci fornisce come le tessere di un mosaico, che la ragione cerca di mettere insieme.
Kant precisa la sua critica alle tre parti della metafisica tradizionale: la cosmologia razionale, la psicologia razionale e
la teologia razionale. Per quanto riguarda la cosmologia razionale, la parte della metafisica che si occupa del mondo,
Kant enumera le antinomie della cosmologia, cioè dà una prova storica dell’infondatezza della cosmologia
Storicamente, la metafisica ha detto tutto e il contrario di tutto sul mondo, perché evidentemente quello che si dice
sul mondo nella sua interezza non è verificabile. Egli enumera allora le quattro antinomie della cosmologia, cioè
affermazioni che sono in contrasto tra di loro e non sono conciliabili. Kant vede una dialettica dicotomica, a due
termini: una tesi e un’antitesi di cui l’una esclude l’altra. Per Kant tesi e antitesi sono assolutamente inconciliabili,
cioè sono una opposta all’altra (a differenza di quanto sosterrà Hegel).
TESI
Il mondo è: ANTITESI
a) finito nello spazio e nel tempo; Il mondo è:
b) costituito di elementi semplici  in  numero finito; a) infinito e eterno;
c) implicante una causa libera come cominciamento della b) divisibile all'infinito;
serie dei cambiamenti; c) soggetto al determinismo che esclude ogni libertà;
d) fondato nella sua contingenza su un essere d) in tutto contingente e mutevole.
assolutamente necessario.

La parte della metafisica che affronta il mondo, la cosmologia razionale, si distrugge da sé perché formula
affermazioni contraddittorie; la parte della metafisica che affronta l’anima, la psicologia razionale, cade in un errore
fondamentale, in un paralogismo. Il paralogismo è una forma di sillogismo sbagliato, in cui si ha l’impressione di
usare il termine medio correttamente, invece in effetti lo si usa in due accezioni diverse e quindi il sillogismo non
funziona. Il termine medio, “l’anima”, viene usato in una maniera sbagliata dalla metafisica; essa una volta lo usa
come una sostanza, e un’altra volta come una funzione. Il concetto fondamentale qual è? Che per la metafisica le
nostre funzioni di unificazione della conoscenza, quelle che Kant chiama “Io penso”, sono scambiate per una
sostanza. L’ “Io penso” invece è anch’esso trascendentale come tutte le categorie, cioè esiste in quanto unifica, dà
ordine, dà forma all’esperienza sensibile; quando non c’è nessuna esperienza sensibile non c’è nessun “Io penso”.
Per questo Kant lo denomina anche “appercezione trascendentale”. La metafisica, con un falso ragionamento, con
un paralogismo, scambia la funzione dell’“Io penso” per una cosa, la vede come una sostanza, chiamandolo “anima”,
non vede l’“Io penso” come trascendentale bensì come un qualche cosa di esistente di per sé. Sulla base di questo
errore essa finisce col dire cose opposte sull’anima: una parte della metafisica afferma che l’anima è semplice,
un’altra che è composta; una che è mortale, l’altra che è immortale, ecc.: anche sull’anima si finisce col dire cose
contraddittorie.

Prove dell’esistenza di Dio


Infine Kant analizza la teologia razionale e critica le prove dell’esistenza di Dio. Queste per Kant sono riducibili a tre,
ma il loro schema di ragionamento in fondo è uno solo: il famoso argomento ontologico di Sant’Anselmo, poi ripreso
da Cartesio. L’argomento ontologico di Sant’Anselmo sostiene: dato che chiunque (anche l’ateo che la nega) è in
possesso dell’idea di suprema perfezione, cioè dell’idea di Dio, l’idea di suprema perfezione non può mancare di
quella parte della perfezione che è l’esistenza, e di conseguenza dall’idea di Dio si può passare all’esistenza reale di
Dio. Kant a questo proposito ricorre a una famosa frase ironica: «Cento talleri (la moneta prussiana) nella mia mente
non sono cento talleri nella mia tasca». Vuole dire ovviamente che alle idee non corrispondono necessariamente le
cose. Kant cioè nega che si possa applicare la categoria dell’esistenza a un’entità puramente ideale come l’idea di
perfezione, l’idea di Dio. Cade così anche la teologia, parte culminante della metafisica: la metafisica tradizionale non
è possibile come scienza. Kant è un pensatore complesso: nel momento in cui nega la metafisica, ci tiene però a dire:
«Guardate che non per questo sono un materialista; su Dio non si può dire niente sulle basi della metafisica, non si
può dire né che è causa del mondo, però non si può dire neppure l’inverso. Le tre idee trascendentali di Dio, anima e
mondo, usate male dalla metafisica, sono però il segnale che l’uomo aspira e può aspirare a un mondo diverso, può
entrare in contatto col mondo superiore del noumeno. Non riesce ad accedere a questo mondo per via conoscitiva.
L’analisi delle facoltà conoscitive si è chiusa. Il bilancio, da positivo che era per matematica e fisica, è diventato
totalmente negativo per la metafisica. L’uomo con la conoscenza non si può mettere in relazione con Dio e con
l’anima, ma la presenza in lui di queste idee trascendentali lascia intravedere uno spiraglio per cui può aspirare, per
altra via, a entrare in contatto con queste entità.
Critica della ragion pratica
Kant nega la metafisica nel senso tradizionale come tentativo di conoscenza di Dio, anima e mondo, ma ne avverte
l’esigenza. Questa esigenza viene da lui ripresa, da tutt’altra angolazione, nella Critica della ragion pratica, che ci
conferma pertanto l’impressione di una ambivalenza di Kant: l’appartenenza all’Illuminismo e l’andare oltre.
L’appartenenza all’Illuminismo la noteremo subito anche nella Critica della ragion pratica, che si fonda su una
estrema fiducia nella ragione umana. Kant non pensa di doversi affaticare a dimostrare l’esistenza della ragione nel
campo pratico: egli semplicemente afferma che la ragione è di per se stessa anche pratica. La ragione fa sentire la
sua voce anche nella sfera dell’azione. Non c’è bisogno di chiedersi il perché: la presenza della ragion pratica va
constatata semplicemente come un fatto. La ragione si fa sentire sotto forma di imperativo, quello che il linguaggio
comune chiama “voce della coscienza”. La presenza della ragione nell’uomo, dal punto di vista pratico, si avverte
sotto la forma di imperativi, cioè di comandi che richiedono obbedienza. Nella Critica della ragion pura, la ragione ci
dà semplicemente la forma: lo spazio, il tempo, le categorie. Il problema dei contenuti non riguarda la filosofia, che si
occupa soltanto delle forme. La ragione ci fornisce le forme; i contenuti vengono dall’esterno, se vogliamo, vengono
dalla cosa in sé. Nella morale è la stessa cosa: la ragione fa sentire la sua voce ma si fa sentire indicando
semplicemente la forma in cui bisogna volere le azioni, mentre i contenuti dell’azione morale sono estremamente
vari e sono offerti dalle più diverse circostanze. Possiamo quindi dire che un elemento di continuità tra la prima e la
seconda Critica è questo: in tutt’e due i casi è al centro la ragione puramente formale, nel primo caso essa ci dà la
forma del conoscere, ma i contenuti della conoscenza vengono dall’esterno; nel secondo caso ci indica la forma del
volere, ma i contenuti del volere, i contenuti dell’azione dipendono dalle circostanze esterne.

Gli illuministi sono stati i padri teorici della Rivoluzione francese, che aveva tra le sue parole d’ordine appunto
l’uguaglianza. L’uguaglianza scaturisce dalla centralità della ragione. Mentre il sentimento, le passioni, i gusti, sono
variabili da individuo a individuo, la ragione è la facoltà presente in maniera identica in ogni individuo. Dalla
centralità della ragione scaturisce immediatamente l’universalità, come scaturisce l’uguaglianza. La morale kantiana,
quindi, essendo fondata sulla ragione, è una morale che si batte contro quelle che Kant chiama, con termine molto
significativo, inclinazioni. I sentimenti, i gusti, le passioni, i desideri sono per Kant inclinazioni e per lui devono essere
evitate. La ragione, quindi, implicherà una lotta con le inclinazioni, ma implicherà anche l’universalità. Si delinea
un’altra analogia con la Critica della ragion pura: ancora una volta Kant recupera l’universalità all’interno della
soggettività; in ogni soggetto umano c’è la ragione, e ispirandosi alla ragione l’uomo può trovare la via del corretto
comportamento, del comportamento virtuoso, ma ogni altro uomo che si trovi nelle sue condizioni dovrà seguire il
suo esempio, se si vorrà comportare in maniera buona, in maniera virtuosa.

La morale kantiana è fondata sulla ragione e per questo è una morale formale: la ragione ci indica la forma, ma non
il contenuto delle azioni morali; essendo fondata esclusivamente sulla ragione, sarà una morale rigoristica, che
escluderà le inclinazioni, le passioni, i sentimenti, i desideri, gli istinti dell’uomo; essendo fondata sulla ragione
presenta ancora un’altra caratteristica forte, di tipo illuministico: è una morale universale, come universale è la
ragione. Tutto questo fa dell’etica kantiana uno dei punti più alti di tutta la tradizione filosofica. Prima di Kant e dopo
di Kant troviamo morali di ispirazione diversa, fondate sul cuore, fondate sui sentimenti, e quindi tendenzialmente
soggettive, e questa è anche una tendenza prevalente oggi, quando spesso si sostiene che ognuno si deve
comportare a proprio arbitrio. Per Kant, invece, il comportamento deve essere ispirato alla propria interiorità, ma
non alla propria soggettività in generale: l’uomo è un essere composito, e deve farsi guidare da quella parte della
propria interiorità che è la ragione, la quale è in contrasto con le altre tendenze. Un’ulteriore caratteristica della
morale kantiana è l’autonomia: ritroviamo la ragione in noi stessi, di conseguenza la morale kantiana è una morale
della libertà, è una morale autonoma. Obbedendo alla voce della ragione, obbedisco a una voce che trovo all’interno
di me stesso, e quindi sono autonomo (dal greco autós, se stesso, e nómos, legge: mi do la legge da me stesso, non
ritrovo la legge all’esterno, non sono dipendente da costrizioni esterne, di conseguenza sono libero).

Partendo dalla ragione, abbiamo parlato di uguaglianza, di universalità, ora di libertà: emergono due delle tre parole
d’ordine della Rivoluzione francese: libertà, uguaglianza, fratellanza. Kant si delinea come un pensatore attento alla
Rivoluzione francese. Secondo una ricerca approfondita dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, Kant è stato
costretto ad autocensurarsi per non incorrere nei rigori della censura prussiana, ma è stato un deciso sostenitore
della Rivoluzione francese. Le parole d’ordine della Rivoluzione francese, libertà, uguaglianza e fratellanza, sono
tutt’e tre presenti nella sua etica. La libertà, per l’autonomia della morale ispirata alla ragione propria di ogni uomo;
l’uguaglianza, perché la ragione che ispira il comportamento è una facoltà universale; la fratellanza, che troviamo
nella seconda formula dell’imperativo categorico, in cui Kant afferma che bisogna trattare gli alla stessa stregua di
noi stessi, come noi stessi, come fratelli.

Brani tratti dalla Critica della ragion pratica e da La metafisica dei costumi: “la ragione comanda per sé, ed
indipendentemente da tutti i fatti, ciò che deve avvenire; che quindi azioni, delle quali il mondo non ha forse mai
ancora offerto il minimo esempio fino ad oggi e la cui stessa possibilità potrebbe essere messa in dubbio da chi tutto
fonda sull’esperienza, sono tuttavia comandate inesorabilmente dalla ragione”. Questa affermazione è molto
importante: qui Kant prende le distanze da ogni empirismo nell’etica. Nell’etica non conta l’essere, cioè i fatti e
questo è dettato dalla ragione. I fatti possono anche andare contro la ragione e quindi contro la morale, ma non
tolgono niente alla validità degli imperativi morali. Può anche darsi che nessun uomo sia mai stato leale in tutta la
storia dell’umanità, e quindi che non si possa qualificare neppure un individuo come leale, ma la lealtà è sicuramente
un altissimo valore morale; anche se i fatti negassero che sia mai esistito un sol uomo leale, la lealtà varrebbe
ugualmente di per sé.
Quello che interessa a Kant è di fondare una morale ancorata nel soggetto, ma insieme oggettiva e quindi universale.
Devo agire ispirandomi alla mia ragione, ma essa è uguale alla ragione di tutti gli altri, pertanto, se veramente starò
seguendo la ragione, starò identificando un principio oggettivo universale, cioè un principio che tutti devono
riconoscere, che tutti gli altri devono seguire. Nella mia interiorità, nella mia soggettività (soggettività sotto forma di
ragione), trovo l’universale. «Tutti gli imperativi sono espressi con la parola dovere, ed indicano con questo la
relazione tra una legge oggettiva della ragione e una volontà che, secondo la sua costituzione soggettiva, non è
necessariamente determinata da questa legge». In queste due righe è racchiusa tutta la drammaticità della morale
kantiana: la legge del dovere è una legge oggettiva, però, «…la volontà, secondo la sua costituzione soggettiva, non è
necessariamente determinata da questa legge». C’è una lotta tra la volontà e il dovere, tra la volontà e l’imperativo,
tra la volontà e la ragione. La ragione indica inesorabilmente il dovere, qualcosa di universale e di oggettivo, ma non
è detto che la volontà si pieghi con scioltezza a seguire l’imperativo della ragione, perché la volontà, che è un’altra
facoltà umana, può anche seguire la voce del piacere, la voce del desiderio. C’è una continua lotta all’interno
dell’uomo. L’uomo è un fascio di forze, è complesso. La ragione deve avere la prevalenza, ma ci sono anche altre
facoltà che tirano da altre parti, le inclinazioni. Si può pensare al grande modello classico di Platone che paragona
l’anima a una biga alata: c’è l’auriga, la ragione che deve guidare il corso dell’esistenza, ma ci sono anche i cavalli
bianco e nero che tirano in altre direzioni. I cavalli del mito platonico simboleggiano passioni e istinti. A tal proposito
Kant è estremamente rigido poiché, in quanto protestante, in quanto pietista, l’uomo nasce afflitto dal “male
radicale”, dal peccato originale, come aveva predicato Lutero. Al contrario di Rousseau, Kant propone una
concezione pessimistica dell’uomo. Avendo una natura debole, corrotta, l’uomo deve fare un enorme sforzo per
imporsi la virtù. Egli riprende la dottrina luterana secondo cui l’uomo è macchiato dal peccato originale, e questa
macchia gli impedisce di condurre spontaneamente una vita morale. Per essere buono, l’uomo non può seguire la
propria spontaneità, ma deve combattere con se stesso, deve fare uno sforzo su se stesso.

La ragione si fa sentire sotto forma di imperativi. «Se gli imperativi sono condizionati, se cioè determinano la volontà
non semplicemente come volontà, ma soltanto in vista di un effetto desiderato, sono imperativi ipotetici. Gli
imperativi ipotetici rappresentano la necessità pratica di un’azione possibile come mezzo per qualche altra cosa che
si vuole conseguire». Gli imperativi non hanno tutti lo stesso valore: vi sono gli imperativi ipotetici e l’imperativo
categorico. Quello che ci riguarda dal punto di vista morale è l’imperativo categorico; gli imperativi ipotetici non sono
imperativi morali, ma solo pratici. Kant distingue gli imperativi ipotetici in due specie: gli imperativi dell’abilità e
quelli della prudenza. Gli imperativi dell’abilità sono quelli che implicano di usare un certo strumento per
raggiungere uno scopo “se voglio scrivere, devo usare la penna”.

Per Kant quello che conta è “il regno dei fini”. Oggi per lo più, anche fra i giovani, non si pone mai il problema del fine
e del significato di ciò che si vuole conseguire. Viviamo in una civiltà fondata sulla razionalità strumentale: ci sono
formidabili strumenti tecnici per poter raggiungere fini che però non vengono posti in discussione. Per Kant invece
tutto è orientato verso il fine dell’uomo. Il fine dell’uomo è quello dell’auto perfezionarsi, cioè di migliorare la
propria umanità. L’organizzazione del mondo contemporaneo in questo ha sconfitto Kant: gli uomini non si pongono
il problema dei fini, e nei loro rapporti reciproci si usano come strumenti, vige una strumentalizzazione continua
degli altri, e siamo spinti anche a una strumentalizzazione di noi stessi.
In questo senso è stato detto che la vittoria nella società contemporanea non è stata di Kant e della Critica della
ragion pratica, ma di un avversario molto sottile di Kant, il marchese de Sade. Il marchese de Sade che argomenta il
contrario: ogni uomo è uno strumento, ogni uomo ha valore soltanto in quanto mi serve per qualche cosa, se non mi
serve a niente lo posso anche sopprimere, o lo posso sopprimere perché mi è utile sopprimerlo, ma in ogni caso
l’altro è sempre uno strumento. Nel nostro secolo la Scuola di Francoforte ha rilevato che, per certi aspetti, la vittoria
nel mondo contemporaneo non è stata della morale kantiana, ma della morale antagonista a quella di Kant, la
morale del marchese de Sade. Nel nazismo, nei grandi fenomeni bellici della nostra epoca, e non solo in questi, i
nemici, gli altri, sono semplicemente strumenti, non c’è rispetto dell’altro in quanto altro essere umano: l’altro
essere umano è considerato come un oggetto da utilizzare.

«Tutte le scienze hanno una parte pratica, che si compone di proposizioni in cui si afferma che qualche fine è
possibile per noi, e d’imperativi che indicano come quel fine possa essere conseguito. Questi possono perciò
chiamarsi in generale imperativi dell’abilità. Le prescrizioni che segue il medico, per guarire radicalmente il suo
malato, e quelle che segue l’avvelenatore per uccidere un uomo con certezza, sono di egual valore in questo senso,
che le une e le altre servono ad attuare pienamente il loro scopo». Dal punto di vista dell’imperativo ipotetico sono
equivalenti, l’uno e l’altro si porranno il problema di qual è lo strumento più adatto per il loro scopo. L’imperativo
ipotetico è neutro dal punto di vista morale.

«Vi è d’altra parte uno scopo, che si può supporre come reale in tutti gli esseri ragionevoli, uno scopo quindi che non
soltanto essi possono proporsi, ma di cui si può con tutta sicurezza supporre che essi se lo propongono tutti
effettivamente per una necessità naturale, e questo scopo è la felicità. E si può dare il nome di prudenza nel senso
più stretto della parola all’abilità nella scelta dei mezzi per il proprio massimo benessere». Questo è il secondo e
ultimo tipo di imperativo ipotetico: l’imperativo della prudenza. Kant sostiene che tutti gli uomini tendono al loro
benessere, alla loro felicità, e quindi ci saranno imperativi che riguardano la ricerca della felicità, il perseguimento di
questo fine, ma egli nega a questi imperativi il valore supremo di imperativi assoluti. «Per esempio dite a qualcuno
ch’egli deve lavorare e risparmiare in gioventù, per non soffrire stenti nella vecchiaia: questo è, certo, per la volontà
un precetto giusto e anche importante. Ma è facile vedere che la volontà qui è rinviata a qualche altra cosa, di cui si
suppone ch’essa la desideri; e questo desiderio dev’essere lasciato all’arbitrio dell’agente stesso, sia che egli preveda
altre risorse all’infuori di quelle che gli derivano dalle ricchezze già acquistate, sia che non speri di diventar vecchio,
sia che pensi di rassegnarsi un giorno, in caso di bisogno, a sbarcare il lunario alla peggio». Kant voleva dire questo:
l’imperativo della felicità, del benessere personale, in fondo è un imperativo soggettivo, non si può pretendere di
elevarlo a imperativo universale valido per tutti gli uomini; tutti ricercano il proprio benessere, ma ognuno a modo
suo, è un fatto decisamente limitato alla persona, alla soggettività in senso individuale. Ognuno cerca questa felicità
a modo suo, quindi gli imperativi della prudenza sono imperativi soggettivi.

Quando l’uomo vuole la felicità, in fondo vuole qualcosa di esterno, non è ancora il volere la ragione per la ragione,
cioè il bene identificato dalla ragione per il bene. Per Kant, invece, l’autonomia della morale consiste proprio in
questo: che si vuole qualche cosa di interiore che non rinvia ad altro, il bene per il bene, la ragione per la ragione. Per
la mia felicità posso desiderare, per esempio, di accumulare una somma di denaro, oppure di procurarmi la salute
fisica, ma allora desidererò la salute fisica per essere felice, il denaro per essere felice, cioè un mezzo per qualche
cosa di altro, invece il bene, il vero bene morale, è fine in sé, non è uno strumento per raggiungere un fine che sta
fuori, che sta oltre. Il vero bene morale, la vera virtù, è premio a se stessa, è fine a se stessa, non è uno strumento
per qualche cosa d’altro. La caratteristica dell’imperativo categorico è di essere fine a se stesso, non mezzo per
arrivare a qualche fine esterno. È fine in sé. Arriviamo alla famosa prima formula dell’imperativo. L’imperativo
categorico è solo uno; infatti esso consisterà nell’applicare la forma della razionalità a tutte le azioni. Quale sarà la
forma della razionalità? L’universalità. Agire moralmente che cosa vorrà dire? Agire secondo ragione. Ma agire
secondo ragione, significa agire in maniera universale, agire in modo che chiunque altro al posto mio per agire
moralmente debba fare la stessa cosa che ho fatto io. Devo poter essere sicuro che la regola, che sto seguendo
implicitamente anche se non me ne accorgo, possa valere come regola universale, cioè che qualunque essere
umano, per essere veramente morale, cioè razionale, la debba seguire. Si tratta di una morale fortemente
improntata all’universalità.
Formule dell’imperativo:

1. La prima formula dice: «Agisci soltanto secondo quella massima che tu nello stesso tempo puoi volere che
divenga una legge universale»; c’è una accentuazione della universalità oggettiva: quello che fai deve valere
come legge universale.
2. «Agisci in modo da trattare sempre l’umanità, così nella tua persona come nella persona di ogni altro,
sempre come un fine, e mai come un mezzo». Questa è la trasposizione filosofica del comandamento
cristiano secondo il quale, appunto, bisogna non fare agli altri quello che non si vorrebbe fosse fatto a se
stessi. “Ama il prossimo tuo come te stesso”: tu sei un fine, ti consideri e ti devi trattare come un fine, non ti
devi mai abbassare a essere strumento e non devi mai usare un altro. Dice Kant: «L’imperativo pratico è
formulabile nel modo seguente: Agisci in modo da trattare sempre l’umanità, così nella tua persona come
nella persona di ogni altro, sempre come un fine, e mai come un mezzo. In queste parole c’è un
insegnamento semplice e grandioso: l’unico fine che l’uomo si può porre è l’uomo stesso. Non c’è nessun
fine superiore all’uomo. In questo senso, Kant si rivela un continuatore degli ideali più alti di tutto
l’Umanesimo della civiltà europea moderna: l’uomo è l’essere dotato di maggiore dignità possibile, e il fine
di tutte le azioni umane deve essere appunto l’uomo stesso, cioè il rispetto dell’essenza dell’uomo e il
perfezionamento dell’umanità.
3. La terza formula è una sintesi delle prime due: la prima era sbilanciata sull’oggettivo; la seconda sul
soggettivo; la terza dice: «Agisci in modo che la tua volontà possa valere come legislatrice universale». La
volontà, che è qualcosa di soggettivo, deve valere come qualche cosa di universale, cioè di oggettivo. Oggi si
pensa che l’individuo debba poter agire nel modo che crede, fare le cose che crede, ecc. Invece per Kant
affidare tutto all’individuo non significa affidare tutto all’arbitrio, bensì affidare tutto alla parte più nobile
dell’individuo e cioè alla ragione.

Kant è un grande filosofo dell’epoca della Rivoluzione francese. Spera che il comportamento di ognuno si possa
armonizzare col comportamento di tutti gli altri in nome della ragione. Viviamo oggi in un’epoca in cui le parole
d’ordine più avanzate della Rivoluzione francese sono state sconfitte. Dopo Kant hanno preso il sopravvento le
tendenze più individualistiche. Per esempio già Schopenhauer ride di Kant, e si affida a una morale emozionale
puramente individuale. Dopo Kant, dopo l’idealismo soprattutto, inizia una fase di decadenza che porta l’individuo a
scostarsi dall’universale, e oggi “individuo” coincide con “arbitrio”, mentre per Kant “individuo” coincide con
“ragione” e con “universalità”.

“Il fondamento, dunque, di ogni legislazione pratica risiede oggettivamente nella regola o nella forma
dell’universalità, che (secondo il primo principio), la rende capace di essere una legge; e soggettivamente nel fine.
Ma il soggetto di tutti i fini è (conforme al secondo principio) l’essere ragionevole come fine in sé.” Qui Kant fonda il
concetto dell’autonomia della sua morale. Autonomia in due sensi: autonomia significa libertà; la ragione è un
contenuto interiore, e l’uomo che dipende dalla ragione dipende solo da se stesso. Kant contrappone la sua
posizione all’eteronomia, cioè al dipendere non da sé ma da altro. Ma Kant in quello che considera “altro” fa
rientrare per esempio anche il piacere, la sensibilità, la paura di un castigo eterno, ecc. Se invece di agire in base alla
ragione si agisce in base al piacere, per Kant si sta agendo non in base alla propria libertà e autonomia; se si sta
agendo in base al piacere si finisce con l’essere in qualche modo schiavi del piacere e cioè si è eteronomi, non
autonomi. “Autonomia” anche in un altro senso, più semplice: le morali che noi conosciamo per lo più sono morali
eteronome, in cui il precetto morale viene dall’esterno, viene da una chiesa, viene da un’autorità, viene da un
profeta, viene da un libro sacro. L’autonomia della morale kantiana invece implica che la legge morale si ritrova
dentro l’uomo, non in un libro sacro, in una setta, in una gerarchia ecclesiastica, in un precetto che viene
dall’esterno.

La morale kantiana è una morale decisamente intenzionale. Per essere buono, devo fare in modo che la mia volontà
aderisca all’imperativo della ragione, ma si tratta di un’operazione tutta interna, perché la volontà è qualche cosa di
interiore, la ragione pure è qualche cosa di interiore, e l’esterno è fuori gioco. Per essere buono devo far aderire la
mia volontà all’imperativo dettato dalla mia ragione, se poi le condizioni esterne mi impediscono di agire bene,
questo nulla toglie alla mia virtù. Se, per esempio, voglio aiutare una persona che è strangolata da un usuraio, ma
non ho i capitali per liberarla, questo non toglie niente alla mia bontà: l’importante è che io voglia aderire
all’imperativo della ragione. L’importante è che io abbia voluto che ci fosse una corrispondenza tra l’imperativo
morale, tra l’imperativo categorico come si configurava in quel momento, e la mia volontà. L’importante è che in
ogni circostanza io cerchi di comportarmi come secondo me si dovrebbe comportare ogni altro essere umano che usi
la ragione. I contenuti possono essere, anzi, sono senz’altro infiniti; possono variare da circostanza a circostanza, ma
ho una specie di bussola per orientarmi da me in ogni singola situazione. In questo senso Kant si può paragonare a
Socrate. Socrate ripeteva: «Conosci te stesso», non dava una regola morale, ma spingeva ciascuno a cercarla in se
stesso. Così la morale di Kant non detta contenuti di azioni morali: i contenuti sono vari e ognuno si orienta in base
alle circostanze con la propria bussola interiore, con la propria ragione.

Dice Kant: «La buona volontà è tale non in grazia dei suoi effetti o dei suoi successi, né della sua attitudine a
conseguire questo o quello scopo proposto, ma soltanto per il volere, ossia per se stessa; e, considerata per sé sola,
dev’essere stimata senza paragone superiore a tutto ciò che si può fare per mezzo di essa in favore di qualche
inclinazione o anche, se si vuole, in favore della somma di tutte le inclinazioni. Quando pure per una speciale
avversità della sorte o per l’avarizia d’una natura matrigna venisse a mancare a questa volontà ogni mezzo per
attuare i suoi disegni; quand’anche essa non ricavasse nulla dai suoi più intensi sforzi; quand’anche non dovesse
rimanere che la sola buona volontà (e s’intende che questa non è semplice velleità, ma implica l’uso di tutti i mezzi
che sono a nostra disposizione) [questa volontà non deve rimanere astratta: fino a dove posso arrivare con le mie
forze ci devo arrivare; posso non avere i soldi per aiutare la persona in difficoltà, posso non avere le forze per aiutare
la persona aggredita, ma devo usare tutte le mie forze fino a dove arrivano], essa brillerebbe tuttavia per sé stessa,
come una pietra preziosa, poiché trae da sé medesima tutto il suo valore». Il successo dell’azione è la montatura che
rende più bello il gioiello, ma il gioiello è la pura volontà. Nel fare queste affermazioni Kant rivela la sua natura di
protestante: per il protestantesimo, ripeto, le opere non contano: quello che salva, quello che rende virtuosi è la
fiducia in Dio.

Viene respinta ogni forma di eudemonismo. L’eudemonismo è una visione ottimistica per cui la virtù e la felicità
coincidono: l’uomo virtuoso è anche un uomo felice, se non altro perché è in pace con se stesso. Per Kant invece
l’eudemonismo non vale e la virtù può anche non essere ricompensata: per condurre una vita virtuosa si può anche
soffrire, si può anche procedere di rinuncia in rinuncia, non c’è conciliazione di virtù e felicità. L’uomo, a prescindere
dal gusto per la vita, si può dedicare a grandissimi ideali che lo trascendono completamente, non lo riguardano nella
sua persona, e per questo testimoniano del suo destino morale, della sua capacità di sganciarsi dal piano banale,
empirico. E Kant si conforta quando nota che tanta parte dell’Europa partecipa con slancio agli entusiasmi della
Rivoluzione francese: questa, dice lui, è una testimonianza del destino morale dell’uomo, in quanto si tratta di un
trasporto per cose che non portano nessun vantaggio personale e nessuna gioia personale.

La morale Kantiana è una morale estremamente rigorosa, o, meglio, rigoristica. L’uomo buono deve agire bene per
amore del bene. Punto e basta. Se agisce per ossequio alla legge, per un motivo esteriore, allora sta agendo per
legalismo, ma non per moralità. La volontà buona deve seguire l’imperativo categorico solo perché lo trova
razionale, non per altri motivi. Ricorriamo a un esempio: in una stessa situazione due individui possono non uccidere
un altro, non uccidere qualcuno che li stava aggredendo, ma uno lo fa per una partecipazione all’imperativo
categorico, l’altro per timore della legge, perché pensa che possa essere incolpato per eccesso di legittima difesa.
Tutti e due hanno agito secondo legalità, perché tutti e due non hanno proceduto a rispondere in maniera esagerata
all’aggressione, ma uno ha agito moralmente, perché era intimamente convinto e seguiva il dettame dell’imperativo
categorico, l’altro agiva soltanto per paura di incorrere in una pena e quindi agiva legalmente, ma non moralmente.

Ci può essere una divaricazione tra legalità e moralità. «Conservare, ad esempio la propria vita è un dovere, e inoltre
cosa per cui ognuno ha un’inclinazione immediata. Si bada al proprio corpo, alla propria salvezza, ma non per seguire
un imperativo; lo si fa spontaneamente per un istinto di sopravvivenza. Esteriormente ci si sta comportando secondo
un principio morale, ma, siccome non si sta aderendo intimamente a un imperativo categorico, non si sta agendo
moralmente. Quando però, per seguire l’esempio drammatico di Kant, un uomo è gravemente ammalato, è arrivato
a un punto per cui sarebbe portato a odiare la vita, eppure continua a mantenersi in vita, allora scatta la norma
dell’imperativo per cui si mantiene in vita non per un automatismo vegetale, ma per una scelta morale.

Veniamo ora alla parte finale della Critica della ragion pratica, quella in cui Kant ha fondato il primato della ragion
pratica sulla ragion pura. Mentre nella prima Critica Kant tiene una posizione agnostica, cioè dice non si può
conoscere niente di Dio e dell’anima, in quanto le categorie dell’intelletto si applicano solo ai materiali
dell’intuizione, invece nella Critica della ragion pratica egli giunge a Dio e all’immortalità dell’anima, ma per una via
che non è conoscitiva, è una via diversa; quella dell’esigenza dell’uomo morale. Questa esigenza si esprime con
postulati, punti di partenza indispensabili per le dimostrazioni, ma non si possono a loro volta dimostrare. Si devono
ammettere per veri, e in qualche modo se ne avverte la verità perché attraverso di essi si possono dimostrare tante
altre cose. Kant nella Critica della ragion pratica arriva alla libertà, all’immortalità dell’anima e a Dio, come postulati
morali: è vero che non si possono dimostrare, ma se attraverso di essi si possono dimostrare tante altre verità,
indirettamente si può dire che sono veri anche i postulati in geometria, e lo stesso vale anche nella morale.

Per Kant nella Critica della ragion pura non c’è alcuna libertà. Invece nella Critica della ragion pratica egli afferma che
il primo postulato per l’uomo morale è la libertà. Il motivo è semplice: se non si ipotizza la libertà non c’è neppure
moralità, in quanto l’essere morale implica lo scegliere tra il bene e il male, tra il vizio e la virtù. Abbiamo detto che
l’uomo vive continuamente una lotta tra l’imperativo categorico e le inclinazioni. Se vive questa lotta, ciò vuol dire
che l’uomo può scegliere due strade: vizio e virtù, bene e male.

Gli altri due postulati sono Dio e l’immortalità dell’anima. Come viene fondata l’immortalità dell’anima? L’uomo, per
i motivi che abbiamo detto poco fa, non riesce a realizzare l’azione morale: ognuno di noi, nonostante gli sforzi,
riesce a realizzare solo in maniera minima, se pure vuole agire moralmente, la bontà. L’aspirazione dell’uomo al
continuo perfezionamento, la sua insoddisfazione per il fatto di non essere all’altezza delle situazioni, di non essere
pienamente morale, lo spingono a sperare, a credere nell’immortalità dell’anima, nel fatto che possa avere un
cammino infinito ancora da percorrere per realizzare perfettamente il bene.

L’uomo, abbiamo detto prima, può essere virtuoso, ma contemporaneamente può essere anche infelice, può vivere
una vita assolutamente priva di soddisfazioni. È un dovere per noi promuovere il sommo bene, quindi non è solo un
diritto, ma un bisogno necessario connesso col dovere il presupporre la possibilità di questo sommo bene. Il quale,
poiché ha luogo solo sotto la condizione dell’esistenza di Dio, collega inseparabilmente la esistenza di Dio col dovere;
il che equivale a dire che è moralmente necessario ammettere l’esistenza di Dio. L’esistenza di Dio significa
l’esistenza di un essere onnipotente nel quale si conciliano la virtù e la felicità, si concilia il voler fare il bene e il
realizzare veramente il bene; per la sua onnipotenza Dio viene inteso come colui che tutto può e quindi può
effettivamente realizzare il bene, mentre l’uomo vive la frustrazione di voler fare il bene e di non riuscire a
realizzarlo.

I tre postulati della ragion pratica pongono questo problema: la Critica della ragion pura ci mostra un uomo
condizionato dalla cosa in sé, che è uno dei tanti anelli della concatenazione degli eventi causali, che non è libero e
non si può porre il problema di Dio e dell’anima; la Critica della ragion pratica ci mostra l’uomo, invece, libero di
agire moralmente, che trova in se stesso la forza dell’azione morale, che trova una via pratica per arrivare a Dio e
all’immortalità dell’anima. Tra le due Critiche c’è uno iato, c’è una distanza, c’è una contraddizione. È una
contraddizione che Kant tenta di sanare con La critica del giudizio.
Critica del giudizio

Nella Critica della ragion pura si presenta un mondo chiuso a ogni spazio di libertà: la visione del mondo della Critica
della ragion pura è meccanicistica. Il meccanicismo, già sostenuto per esempio da Democrito e da Hobbes, è una
visione del mondo secondo la quale la natura procede per una concatenazione di cause ed effetti che non è
indirizzata a nessuno scopo. Il meccanicismo è cieco: la natura non ha un fine, non ha alcuno scopo, essa è solo un
gioco di cause ed effetti senza finalità. Delle dodici categorie kantiane quella decisiva per l’interpretazione fisica della
natura è la causalità. I fenomeni sono tutti concatenati da relazioni causali che non hanno alcuno scopo. Nella Critica
della ragion pura si ritrovano dunque il dominio della causalità, il meccanicismo, il determinismo e non lascia
nessuno spazio alla libertà. Nella prima Critica, inoltre, Kant sosteneva che l’uomo ha un forte limite: può conoscere
soltanto il fenomeno, può conoscere solo il mondo come gli appare in quanto filtrato dalle sue stesse strutture
conoscitive: spazio, tempo, categorie e idee, ma non può assolutamente raggiungere la realtà quale è in se stessa. La
cosa in sé è inconoscibile. Il noumeno è assolutamente al di là delle nostre possibilità di conoscenza. Il mondo è
spaccato a metà: il fenomeno, soggetto alla necessità e al determinismo, e il noumeno, che è un continente oscuro e
inattingibile. L’uomo è prigioniero della conoscenza fenomenica.

La Critica della ragion pratica presenta uno spiccato finalismo: tutta la vita morale è tesa alla realizzazione del fine
del bene. Nella vita morale l’uomo si pone un fine: la virtù, il bene. Anzi, Kant aveva anche parlato di un “regno dei
fini”, cioè un regno ideale di tutti gli uomini che si rispettano vicendevolmente, e, seguendo la seconda formula
dell’imperativo, si trattano sempre come fini e mai come mezzi. Nella Critica della ragion pratica si presenta la libertà
come uno dei tre postulati, cioè uno dei tre requisiti fondamentali senza i quali la vita morale non può aver luogo.
Siamo dunque di fronte a questa contraddizione: da una parte Kant concepisce la natura come priva di ogni finalità e
come priva di libertà; dall’altra considera l’uomo come capace di porsi fini, e come operante in una dimensione di
libertà.

Alla fine della Critica della ragion pratica emerge con chiarezza una forte opposizione con le conclusioni della Critica
della ragion pura. Il tentativo di Kant nella Critica del giudizio è proprio quello di sanare queste contraddizioni. Tale
tentativo comporta lo sforzo di creare una nuova terminologia, il che fa della Critica del giudizio un’opera per certi
versi oscura, che si presta a varie interpretazioni, un’opera ancora aperta.

La Critica del giudizio è un tentativo di rintracciare la finalità nella natura. Se si rintraccia tale finalità l’opposizione si
supera: la natura è cieca, l’uomo si dà finalità, sono opposti, ma se ritroviamo la finalità anche nella natura la
conciliazione sarà avvenuta. Un altro elemento per capire dove si colloca la Critica del giudizio è questo: abbiamo
detto nella Critica della ragion pura si conosce solo il fenomeno, il noumeno è inconoscibile di per sé, quindi
l’assoluto, l’infinito, Dio, la cosa in sé, sono inconoscibili. Nella Critica della ragion pratica Dio e l’immortalità
dell’anima non vengono dimostrati, in quanto non sono oggetto di un discorso conoscitivo, ma sono postulati
attraverso i quali l’uomo entra in contatto con il noumeno. Si palesa quindi un altro antagonismo: nella sfera
conoscitiva l’uomo è confinato al fenomeno, nella sfera morale, invece, l’uomo attinge il noumeno. Kant affronta qui
un problema enorme della storia della filosofia: esiste un’unica realtà di cui l’uomo è parte, allo stesso titolo di tutti
gli altri enti, oppure l’uomo è qualche cosa di qualitativamente diverso dal resto della realtà? Su questo la filosofia, le
religioni, sono state in continua polemica, perché, per esempio, la religione cristiana implica che oltre al mondo
materiale c’è un mondo spirituale, che ha altre leggi, ha un’altra qualità; il platonismo implica il mondo sensibile e il
mondo delle idee; Cartesio divide la realtà tra la res extensa, il mondo materiale, e la res cogitans, con tutti i
problemi che derivano poi dal rapporto tra questi due mondi, ecc. Kant quindi, con un linguaggio nuovo, esprime un
problema molto antico. Per risolvere questo problema egli compie un grande sforzo teorico che comporta anche
un’innovazione linguistica. La prima innovazione è proprio nel titolo: Critica del giudizio. Bisogna tenere presente che
in tedesco il termine tradotto in italiano come “giudizio” è Urteilskraft, una parola composta da Kraft = forza, facoltà,
capacità, e Urteil = giudizio. Il titolo andrebbe quindi più esattamente tradotto come Critica della capacità di
giudicare. Evidentemente Kant si riferisce a un’altra capacità, oltre la ragione e la volontà. Infatti sostiene proprio
questo: l’uomo non è solo diviso tra teoria e pratica, tra conoscenza e agire morale: nell’uomo c’è anche un’altra
sfera che deve essere identificata, regolata, criticata, cioè capita nei suoi limiti, la sfera del sentimento, del gusto.
Tale sfera egli la vede come una facoltà da definire con un termine nuovo: la facoltà di giudicare. La facoltà di
giudicare, una facoltà intermedia che comprende il sentimento e il gusto, emette tipi di giudizi che si chiamano
giudizi riflettenti e sono tutta un’altra cosa rispetto ai giudizi conoscitivi trattati nella prima Critica.

È opportuno riepilogare i problemi terminologici: Critica del giudizio significa valutazione della facoltà di giudicare; i
giudizi sono di due tipi: da una parte c’è il giudizio della Critica della ragion pura, vale a dire il giudizio conoscitivo, il
giudizio sintetico a priori, che ora Kant chiama, con un nuovo termine, giudizio determinante. Perché questa
innovazione terminologica? Perché Kant sostiene che, per distinguerlo da quello riflettente, il giudizio sintetico a
priori si può chiamare “determinante” in quanto consiste in una reciproca determinazione, delimitazione, della
categoria e della cosa. ‘Determinare’ viene dal latino terminus, che significa confine. Un giudizio determinante è un
giudizio che restringe, cha dà limiti a qualche cosa. Che cosa viene limitato? Prima di tutto le categorie. Se
consideriamo per esempio la categoria di causalità, essa si può applicare a infiniti fenomeni causali; nel momento in
cui dico: “A è causa di B”, sto determinando la categoria di causalità, le sto ponendo limiti, applicandola a un caso
specifico, particolare. Così pure, a loro volta, gli oggetti vengono delimitati, si dà loro una caratterizzazione specifica
collegandoli attraverso la categoria di causalità. Il giudizio sintetico a priori, illustrato nella Critica della ragion pura, è
dunque determinante in quanto delimita, determina. Il giudizio determinante è un giudizio conoscitivo.

Il giudizio riflettente, proprio della Urteilskraft, cioè della facoltà di giudicare, invece non è un giudizio conoscitivo.
Bisogna tenere presente che col giudizio riflettente ci muoviamo in un’altra sfera. Il giudizio riflettente è un giudizio
di tipo particolare e si chiama “riflettente” perché, mentre nel giudizio determinante la categoria da applicare è già
nota, nel giudizio riflettente bisogna riflettere sull’oggetto per trovare la categoria, quindi la categoria non è già data,
ma deve essere rintracciata attraverso una riflessione. La categoria, che consiste qui in una specifica finalità
dell’oggetto, deve essere rintracciata attraverso la riflessione. Ma c’è anche un altro motivo, per cui il giudizio è detto
riflettente: in un oggetto della natura, o in un’opera creata dall’uomo, esso ci permette di cogliere riflessa la finalità
che ci portiamo dentro di noi. Abbiamo scoperto nella Critica della ragion pratica che siamo esseri che si danno fini,
si danno il fine morale del bene; ora, nel giudizio riflettente vediamo riflesso questo nostro finalismo all’interno di
certi tipi di oggetti della realtà. Questi tipi di oggetti sono gli oggetti belli da una parte, e gli organismi viventi
dall’altra. Il giudizio riflettente mi porterà a vedere riflessa la mia esigenza di finalismo negli oggetti belli e negli
organismi viventi, esso si dividerà in due sottotipi: il giudizio estetico e il giudizio teleologico. Il
giudizio estetico permette di ritrovare una finalità negli oggetti belli, fa ritrovare al soggetto riflessa negli oggetti belli
l’esigenza di finalismo, nel senso che gli oggetti belli sembrano essere fatti al fine di suscitare emozioni estetiche, di
suscitare un senso di armonia in chi li contempla, quindi danno l’impressione di avere una finalità rivolta verso
l’osservatore, il soggetto. Per questo Kant dice che i giudizi estetici sono giudizi riflettenti di finalità soggettiva, in cui
cioè la finalità sembra essere rivolta al soggetto. I giudizi teleologici, invece, sono giudizi che si riferiscono alla
considerazione degli organismi viventi. Questi ultimi sembrano essere fatti in modo che le parti siano finalizzate al
tutto: un organo di un organismo vivente, sia esso una pianta, un animale o un essere umano, non ha senso se non in
vista del fine della vita dell’organismo nella sua interezza: il braccio, la mano, il fegato, le radici, le foglie, non hanno
senso di per se stessi, ma solo in quanto servono al fine di mantenere in vita un determinato organismo vivente. In
questo caso il finalismo è rivolto all’oggetto, all’organismo, per cui Kant dice che i giudizi teleologici, cioè i giudizi
finalistici, sono giudizi riflettenti di finalità oggettiva, cioè interna all’oggetto stesso.

Ultime pagine della Critica della ragion pratica: «Due cose riempiono lo spirito d’un’ammirazione e d’una
venerazione sempre nuova e sempre crescente, quanto più la riflessione vi si applica: il cielo stellato sopra di me e la
legge morale in me. Il primo spettacolo, d’una moltitudine innumerevole di mondi, annulla, per così dire, la mia
importanza di essere animale, che deve rendere la materia di cui fu formato alla terra (un punto nell’universo), dopo
di essere stato per breve tempo (non si sa come) animato da una forza vitale». È una visione molto suggestiva e
drammatica: l’uomo è un granello di sabbia, egli deve rendere la sua energia vitale alla terra, che a sua volta è un
punto nell’universo. Nella prospettiva della natura l’uomo è annullato, è un granello di sabbia su un altro granello di
sabbia, sembrerebbe privo di qualsiasi valore. Al contrario, la legge morale ci fa scoprire il nostro enorme valore: «Il
secondo invece eleva infinitamente il valore di me come ragione per la mia personalità, in cui la legge morale mi
rivela una vita indipendente dall’animalità ed anche da tutto il mondo sensibile». Nell’agire morale l’uomo è
indipendente dalla materia. Questo è il dualismo, come Kant stesso lo ha espresso in maniera mirabile. A questo
punto finisce la Critica della ragion pratica e inizia la Critica del giudizio.
«Giudizio in generale è la facoltà di pensare il particolare come contenuto nel generale». Il giudizio riconduce un
particolare a un universale mediante una categoria. Si tratta di congiungere un soggetto con un predicato, un
soggetto particolare con un predicato universale: questo è il giudizio. «Se è dato il generale (la regola, il principio, la
legge) [in termini kantiani la categoria] il giudizio che a questo sussume il particolare è determinante. Se è dato
invece soltanto il particolare, il giudizio che deve trovare il generale [a cui sussumerlo] è semplicemente riflettente».
Kant dà questa definizione per distinguere i giudizi: il giudizio determinante è un giudizio in cui l’universale è già dato
sotto la forma di una categoria, invece nel giudizio riflettente ho di fronte a me il particolare e devo riflettere per
trovare qual è la sua finalità, sotto quale universale finalistico ricondurlo.

A questo punto Kant apre un discorso molto importante: cerca di fondare l’autonomia della sfera estetica. Kant
opera una rivoluzione copernicana anche nell’estetica. La rivoluzione copernicana nella conoscenza è racchiusa nella
formula: l’Io è il legislatore della natura. La seconda rivoluzione copernicana è quella della morale: non ci sono
contenuti buoni di azione, ma è il soggetto, con la sua ragione, a stabilire ciò che è buono, cioè corrispondente alla
ragione; anche nel campo morale il legislatore è l’Io, il soggetto, l’uomo. Infine nell’estetica, nella sfera del bello, è il
soggetto che decide che cosa è bello; è l’uomo che, con un’operazione di tipo trascendentale, ricerca il riflesso della
bellezza nelle cose. Una rivoluzione copernicana anche nell’estetica: l’essere bello di una cosa non dipende da fattori
di carattere empirico, materiale, ma da un elemento di carattere trascendentale. Su queste basi, Kant cerca di
distinguere con chiarezza il gradevole dal bello. In quanto trascendentale, anche il giudizio riflettente è universale;
questo sembra oggi un paradosso, in quanto dominano estetiche di tipo arbitrario. Kant afferma che il bello è
soggettivo ma universale nello stesso tempo: è vero che il bello è una proiezione del soggetto sull’oggetto, ma tutti
gli uomini attuano questa proiezione in maniera analoga. Kant afferma con nettezza: il bello non ha niente a che fare
col gradevole. Il gradevole risponde alla famosa massima latina “De gustibus non disputandum”: quello che è
gradevole per me può non essere gradevole per te, e non possiamo prevalere l’uno sull’altro. Quando si tratta del
bello, invece, secondo Kant si ha a che fare con una sfera universale: il bello non è soggettivo nel senso di arbitrario,
individuale. Tale è il gradevole. Il bello è soggettivo nel senso universale e trascendentale.

La prima caratteristica del bello è che esso è disinteressato: ci si trova in un rapporto di godimento estetico quando
non si ha alcun interesse per l’esistenza reale dell’oggetto. Kant specifica: «quando si tratta di decidere se qualcosa
sia bello o non bello, non si chiede se a noi o a qualunque altro importi o anche solo possa importare l’esistenza della
cosa, ma come noi la giudichiamo nell’atto della semplice pura contemplazione (intuizione o riflessione)». Quando
ho interesse a che una cosa esista, secondo Kant, è per tre motivi: o perché mi può dare piacere (desiderio); o perché
mi può essere utile (appetizione); o perché può portare al bene (volontà). Queste affermazioni di Kant sono state di
importanza grandissima nella storia dell’estetica. Il bello è definito come una qualità autonoma, disinteressata
rispetto all’esistenza dell’oggetto, quindi disinteressata rispetto a ogni finalità pratica. «Bello è ciò che piace
universalmente senza concetto. Circa il gradevole ciascuno riconosce che il suo giudizio, fondato su di un sentimento
personale, si limita, quanto al valore, alla sua persona. Il gradevole è soggettivo e personale, il gusto è invece
soggettivo ma universale, trascendentale; il gusto è quello che ci permette di formulare il giudizio estetico, che Kant
infatti chiama “giudizio estetico o di gusto”. Quest’affermazione sembra paradossale, ma riflettiamo con un esempio:
anche se consideriamo l’opera d’arte più riconosciuta, la Gioconda, qualcuno può dire di essere andato al Museo del
Louvre a vedere la Gioconda e di non aver vissuto alla sua vista alcuna emozione estetica. Si può mai sostenere che il
gusto è universale, come afferma Kant? Per raggiungere veramente il giudizio estetico bisogna prescindere da tutto
ciò che è empirico, da tutto quello che è fattuale, materiale. Se una persona è stanca o distratta non riesce ad
apprezzare la Gioconda, infatti c’è un elemento fisico, materiale, fattuale, che impedisce di mettere in moto la
funzione trascendentale superiore. Se una persona è stanca, non riesce neppure a dimostrare un teorema di
geometria, cioè a usare correttamente la ragione. Per Kant si può entrare in sintonia con la bellezza, si può emettere
il giudizio estetico, soltanto quando si sono messe da parte tutte le pesantezze dell’empiria. Ripeto, se non c’è una
disponibilità o una educazione all’apprezzamento della bellezza, purtroppo spesso avviene che non c’è neppure
un’educazione o una disponibilità all’uso dell’intelletto e della ragione. Allora, come una persona non colta, non
avendo avuto coltivata la propria razionalità, non riesce a risolvere un problema, così, non avendo avuto coltivata la
propria facoltà di giudicare, non riesce ad apprezzare un’opera d’arte; ciò non toglie che la capacità di risolvere il
problema e la capacità di apprezzare l’opera d’arte siano universali, a patto che però queste potenzialità umane
vengano educate ed esercitate. E Kant aggiunge anche un altro elemento: «Bello è ciò che piace universalmente
senza concetto». Si riesce a cogliere la bellezza di un’opera d’arte in maniera intuitiva, senza un ragionamento, senza
uno sforzo di carattere concettuale, senza riferimento alla conoscenza.
Il bello è disinteressato e universale, poi Kant aggiunge che è necessario. Ribadisce che tutti devono riconoscere, se si
mettono in sintonia con la cosa bella, che essa è bella, quindi il bello è appunto universale e necessario insieme.
Infine aggiunge un’altra definizione: il bello è finalistico senza scopo. Se avesse uno scopo, ricadremmo nell’empirico.
La bellezza presenta un ben diverso finalismo: il bello nasce quando c’è una finalità di armonia, di proporzione tra le
parti che compongono la cosa bella; questa finalità si manifesta poi nella finalità di rispondere al nostro senso di
armonia, di proporzione. Il bello è finalistico nel senso che ha il fine di attivare il senso di armonia del soggetto, di
mettere in moto il finalismo interno al soggetto. Queste sono le caratteristiche del bello per Kant.

Kant distingue il bello libero e il bello aderente. Il bello libero è quello che egli considera più puro. Nella valutazione
di una bellezza libera (secondo la pura forma) il giudizio di gusto è puro». La musica senza tema, gli arabeschi, le
greche, ecc., che non mirano a far immaginare niente e non sono la riproduzione di un’immagine, sono le forme di
bellezza più pure, in quanto non presentano il pericolo di inquinamento dell’emozione estetica da parte di un
interesse. Oltre al bello libero c’è anche un bello aderente, che aderisce all’oggetto. Dice Kant: «Ma la bellezza di una
figura umana (sia essa maschile, femminile o infantile), la bellezza di un cavallo, di un edificio (chiesa, palazzo,
arsenale, villa) presuppone il concetto di un fine che determina ciò che la cosa deve essere e quindi un concetto della
sua perfezione, ed è perciò una bellezza aderente». La bellezza libera non si riferisce a nessun concetto, a nessuna
immagine, a nessun modello. Il bello aderente è meno puro di quello libero in quanto cerca di rispondere alla
perfezione di un modello, di aderire a un modello, al concetto della cosa di cui è immagine, mentre invece il bello
libero non pretende di riprodurre alcuna immagine. Kant prosegue: «L’unione del buono (ciò per cui il molteplice è
buono a qualche cosa, secondo il suo fine) con la bellezza altera a sua volta il giudizio stesso». Nel bello aderente c’è
la tendenza a che la bellezza corrisponda a un modello che altera il giudizio estetico, non lo fa essere perfettamente
puro.

A questo punto Kant nella Critica del giudizio passa a un’altra dottrina cui accenno soltanto perché è importante per
il Romanticismo: a proposito del bello d’arte, afferma che il bello d’arte ha una caratterizzazione precisa, esso è
prodotto dal genio. Introduce un concetto che sarà al centro dell’estetica romantica: il bello artificiale per essere
prodotto ha bisogno di una personalità particolare, del genio. Il genio possiede una tale creatività originaria che
sembra dare luogo a fenomeni naturali. Esso è assolutamente alieno da regole; non può sottostare a regole. C’è una
polemica con il classicismo: il genio non si può ispirare a modelli, esso è semplicemente creatore. La forza
generatrice della natura è eguagliata soltanto da pochi uomini eccezionali, che hanno una sensibilità particolare, i
geni, la cui creazioni danno l’idea di un che di spontaneo come un organismo naturale.

Il bello è qualche cosa che ha una forma, che è caratterizzata da proporzione e armonia. Il sublime, invece, è qualche
cosa di informe. Per esempio sublimi sono la distesa dell’oceano, un massiccio montuoso, una nevicata, un’eruzione
vulcanica. Mentre il bello è sempre qualche cosa di circoscritto, di delimitato, che ha forma, il sublime, proprio
perché è informe, è tendenzialmente infinito, e si distingue dal bello anche perché ci procura un’inquietudine. Il
bello ci fa sentire a casa nostra, ci mette a nostro agio, ci sembra rispecchiare la nostra più intima finalità, è
pienamente consono con noi stessi. Invece il sublime ci spaventa, ci dà il senso della nostra piccolezza. Il sublime
presenta dunque una dinamica particolare: prima sembra essere qualche cosa di aggressivo, che schiaccia
l’osservatore, ma il soggetto, subito dopo, recupera il senso della propria superiorità spirituale su questa entità che
dal punto di vista fisico gli sembrava soverchiante e minacciosa. Il sentimento del sublime, che si manifesta nei
confronti dell’informe, del grandioso, presenta due manifestazioni: il sublime matematico e il sublime dinamico. Il
sublime matematico è generato da un’estensione immensa: il mare, il deserto, un ghiacciaio, un massiccio
montuoso. Invece il sublime dinamico è una forza soverchiante, una potenza straordinaria che sembra doverci
travolgere e di fronte a cui, invece, acquistiamo poi il senso della nostra grandezza morale; per esempio l’eruzione
vulcanica, il mare in tempesta, un uragano, una tormenta di neve, e così via. Il piacere del sublime è diverso da
quello del bello; questo infatti produce direttamente un sentimento di esaltazione della vita; quello invece è un
piacere che ha solo un’origine indiretta, giacché esso sorge dal sentimento di un momentaneo arresto delle energie
vitali, seguito da una più intensa loro esaltazione». Dapprima si ha un senso di oppressione e di sconfitta, poi ci si
riprende. Questa concezione influenzerà profondamente l’estetica romantica, anzi l’estetica fino a oggi, in quanto,
rispetto all’arte classica, all’arte rinascimentale, all’arte neoclassica, in cui tutto è ben proporzionato, ben delimitato
e c’è il senso della prospettiva, con la teoria del sublime anche l’informe e l’illimitato rientrano nella sfera estetica.
«Chi teme può tanto poco giudicare del sublime della Natura, quanto colui che è in preda delle passioni e degli
appetiti può giudicare del bello. Egli fugge la vista dell’oggetto che gli incute timore ed è impossibile provar piacere in
un timore effettivamente sentito. Perciò il senso di sollievo che ci dà il cessare di una minaccia è gioia. «In tal modo
la Natura nel nostro giudizio estetico non è giudicata sublime in quanto essa è temibile, ma in quanto essa risveglia
in noi una forza (che non è natura), per cui consideriamo come insignificanti quelle cose delle quali ci preoccupiamo
(i beni, la salute, la vita), e riconosciamo quindi che la forza della Natura (a cui noi, per rispetto a tali cose, siamo
assolutamente soggetti) non ha sopra di noi e sopra la nostra personalità, fuori di questo campo, un così assoluto
dominio che noi ci dobbiamo piegare ad essa, come se essa si estendesse alla sfera dei principii supremi della nostra
vita e riguardasse la loro affermazione o il loro abbandono». Il sublime è anch’esso trascendentale: la natura si
presenta come sublime non perché sia sublime in se stessa, infatti se mi trovo non di fronte a un uragano, ma
dentro, se mi trovo ad assistere a un’eruzione vulcanica, ma troppo da vicino, questo non mi dà il senso del sublime.
E qui è evidente che l’estetica di Kant è anti empirica. Ancora la rivoluzione copernicana: il bello, ma anche il
sublime, è trascendentale, è una proiezione umana sull’oggetto. Si tratta di un apporto soggettivo e non naturale.
«La Natura dunque è detta sublime in questo caso solo perché essa eleva l’immaginazione a rappresentare quei casi
in cui l’anima può sentire la sublimità della sua destinazione, anche al di sopra della Natura. La sublimità dunque non
sta in nessuna cosa della Natura, ma solo nell’animo nostro».

Segue il giudizio teleologico, cioè il giudizio che permette di rintracciare una finalità negli organismi viventi. Esso si
formula soprattutto di fronte alle piante, agli animali, agli organismi che danno l’idea che le parti sono fatte al fine di
rendere possibile la vita del tutto. Kant dice a proposito del giudizio teleologico: «La finalità d’un oggetto dato
dall’esperienza nel giudizio teleologico riposa su di un principio oggettivo, come accordo della forma dell’oggetto con
la possibilità della cosa stessa secondo un concetto di essa che precede e contiene il principio della sua forma». Nel
giudizio teleologico c’è un principio oggettivo, c’è una finalità che riguarda l’oggetto, mentre nel giudizio estetico
c’era una finalità che riguardava il soggetto osservante, il soggetto contemplatore. Gli organismi viventi danno l’idea
che ci sia stato un architetto che li ha disegnati. Sembra che gli organismi viventi ci facciano intuire che nella natura
c’è un finalismo. Gli esseri biologici sono costituiti di parti che sembrano fatte “al fine” del tutto, ma c’è anche un
finalismo superiore: sembra che tutta la natura abbia il fine di rendere possibile la vita dell’uomo. Sembrerebbe che
tutti i regni, minerale, vegetale e animale, siano costruiti, organizzati, al fine di rendere sempre migliore la vita
dell’uomo e sempre più possibile l’espressione dell’umano. A questo punto Kant delinea un passaggio molto
importante: l’espressione dell’umano, la vita dell’uomo, in che cosa consistono? Non nell’empirico e nei bisogni
naturali: consistono nella ragione. Sembra che gli organismi viventi contribuiscano a un regno della natura, che
sembra fatto apposta per l’uomo, e quindi favoriscano il fine dell’uomo che è il fine razionale, cioè morale. «La
natura sembra fatta al fine di favorire la cultura», la natura sembra finalizzata al bene.

A questo punto si chiude la Critica del giudizio e la riconciliazione è avvenuta: la natura all’inizio era deterministica,
estranea a fini, adesso la natura, attraverso il giudizio estetico, ma soprattutto attraverso il giudizio teleologico,
presenta oggetti, o, addirittura, tutto il suo insieme come rivolti a una finalità, quella di favorire la virtù dell’uomo.
L’uomo con la sua morale, la sua libertà, il suo fine del bene, non è più antagonista della natura, che anzi favorisce
questo fine.

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