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DIPARTIMENTO DI SCIENZE PURE E APPLICATE – DiSPeA

CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN


FILOSOFIA DELLA NATURA, DELLA CONOSCENZA E DELLA
SOCIETÀ

IMMAGINI ARCHETIPICHE
NELLA TRILOGIA SFERE DI
PETER SLOTERDIJK

Relatore: Chiar.mo Prof. Tesi di Laurea magistrale di


VENANZIO RASPA ALESSANDRO MAZZI

ANNO ACCADEMICO 2017-2018


INDICE

INTRODUZIONE..........................................................................................p. I

CAPITOLO I - IMMAGINI DELL’UNGHEUERE: IL MONDO SPAESANTE


E MOSTRUOSO...................................................................p. 1
I. La morte di Dio. Immagini dell’Anima Mundi, del Diluvio e
dell’Abisso.......................................................................................................p. 2
II. Dal Dio mostruoso allo spazio extraterrestre. Per una metafisica
trasfigurata......................................................................................................p. 29

CAPITOLO II – LA SFERA CHE PROTEGGE NELL’APERTO (DAS


OFFENE).......................................................................................................p. 49
I. La sfera e l’essere-nelle-sfere come archetipo universale del Sé................p. 50
II. Archetipi matriarcali-insulari: il Sé come uterotopo..................................p. 69

BIBLIOGRAFIA...........................................................................................p. 91
INTRODUZIONE

Nel panorama filosofico contemporaneo, Peter Sloterdijk (Karlsruhe, 1947) è una delle
principali figure della filosofia tedesca, dai tratti avveniristici e poliedrici, proprio per questo in
grado di offrire immagini filosofiche di notevole spessore e originalità. La sua opera, che in
Germania ha richiamato l’attenzione del grande pubblico fin dal primo volume, la Critica della
ragione cinica (Kritik der zynischen Vernunft, 1983), un bestseller filosofico salutato
entusiasticamente da Jürgen Habermas come uno dei più importanti eventi filosofici del momento,
nonostante sia arrivata in Italia nel corso degli ultimi anni, è ancora nel complesso poco studiata: le
sono dedicate solo alcune monografie e articoli apparsi su riviste.
Sloterdijk si distingue per essere un intellettuale al di fuori del panorama universitario
accademico. Non ha mai rivestito incarichi ufficiali nell’università tedesca, ma è attualmente rettore
e professore all’Hochschule für Gestaltung di Karlsruhe, uno dei principali centri artistici e
filosofici del Sud della Germania. La sua presenza mediatica è stata scandita dal 2002 al 2012 dal
ruolo di conduttore televisivo del programma Das philosophische Quartett, dove ha invitato e
intervistato periodicamente le maggiori personalità filosofiche del momento.
Cresciuto nella miscela del panorama accademico tedesco delle scienze della cultura
(Kulturwissenschaften)1, il pensiero di Sloterdijk è volutamente anti-sistemico e rizomatico,
strutturato in modo da essere flessibile per poter guardare alla visione d’insieme. Questo è il metodo
caratteristico delle scienze della cultura, come ricorda Antonio Lucci, uno dei principali studiosi
dell’opera sloterdijkiana in Italia, nel suo articolo a proposito della filosofia nelle università
tedesche.2 Le scienze della cultura sono campi di studio che si pongono l’obiettivo di affrontare la
complessità del nostro tempo non tanto rifacendosi a studi specialistici attorno a determinati autori o
problematiche, ma rintracciando una normatività comune in un tema prescelto e circumnavigarlo
ricercando materiale da diverse prospettive, dall’arte cinematografica alla letteratura, dalla cultura
pop alle scienze alla filosofia occidentale e orientale, in un contesto squisitamente
multidisciplinare.3
È tipico dello scienziato della cultura essere un intellettuale atipico e prismatico, muoversi in
contesti globali, arricchire la propria narrazione attraverso le diverse possibilità narrative e
1
Si rimanda al sito http://www.studiculturali.it/ per una panoramica dei vari settori culturali.
2
Cfr. A. Lucci, La filosofia si sporca le mani, doppiozero, 2018, https://www.doppiozero.com/materiali/la-filosofia-si-
sporca-le-mani.
3
Per un quadro relativo agli Studi Culturali in Italia, cfr. M. Cometa, Studi Culturali, Guida, Napoli, 2010; Id.,
Dizionario degli studi culturali, a cura di R. Coglitore – F. Mazzara, Booklet, Milano, 2004.

I
mediatiche offerte dai parametri testuali. Questo è vero in particolare per Sloterdijk, che al
linguaggio filosofico tecnico e concettuale affianca una terminologia creativa, spesso definita dai
suoi critici provocatoria, composta per buona parte da neologismi creati appositamente per il
discorso, o da rifacimenti concettuali che ne trasformano completamente il senso, come nel caso del
dialogo dell’autore con l’opera e la terminologia heideggeriane e nietzschiane. Tuttavia questo non
inficia la qualità dell’esposizione, ma la rende più fluida e malleabile. Grazie a una prosa letteraria,
il filosofo offre alla filosofia una certa vitalità e creatività capaci di creare nuovi paradigmi per la
complessità contemporanea.
Sloterdijk parla di cultural theory e di psicoantropologia, dalla questione della tecnica
all’estetica post-adorniana, dalla Visual Culture delle posizioni angloamericane alle scienze e alle
dinamiche geopolitiche della spatial turn filosofica, conciliando il tutto in una visione omogenea in
cui le immagini filosofico-poetiche e la teoria dei media si sposano nell’immediato di un vissuto
psichico che ne critica il ruolo nella dimensione essenziale dell’individuo e socioeconomica
globale. Il filosofo preferisce parlare dividendo lo svolgimento del suo discorso in molteplici
excursus attingendo alla letteratura, alla psicanalisi e alle diverse forme d’arte figurativa, guardando
all’arte non come qualcosa di omogeneo e fondato, non più possibile per la nostra epoca, ma come
ciò in cui può ritrovarsi un atteggiamento autopoietico «che non si lasci intrappolare nella “vorace
transitività dell’azione produttiva e del pensiero rappresentativo” e dia mostra di sapersi convertire
in una prassi esemplarmente decentrata e oblativa».4 Sloterdijk sostiene che in ambito estetico
«l’opera d’arte può ancora dire qualcosa perfino a noi, che abbiamo disertato la forma, perché essa,
in maniera del tutto palese, non fa propria l’intenzione di opprimerci».5
All’interno della sua produzione eclettica, il magnum opus sloterdijkiano più originale, che
qui prendiamo al centro della nostra analisi, si compone dei volumi della trilogia Sfere (Sphären),
intitolati rispettivamente Bolle (Blasen, 1998), Globi (Globen, 1999) e Schiume (Schäume, 2004). Si
tratta di una trilogia in cui viene esposta tutta la storia umana, a partire dal Neolitico fino ad arrivare
ai nostri giorni, attraverso la questione delle immagini del mondo e dell’archetipologia spaziale, una
dissertazione corredata per la maggior parte di illustrazioni per permettere, più che un discorso
esclusivamente dialogico, un rapporto fondato sull’immaginario. I titoli dei volumi mostrano fin
dall’inizio un’attenta sensibilità per le immagini materiali discusse nell’analisi psicanalitica del
filosofo francese Gaston Bachelard, le cui opere vengono citate direttamente da Sloterdijk come una
delle fonti principali dell’immaginario da cui vengono estratti i concetti psichici e filosofici di

4
P. Montanari, Prefazione in P. Sloterdijk, L’Imperativo estetico. Scritti sull’arte, tr. it. di S. Falone, Raffaello Cortina,
Milano, 2017, p. XVII.
5
P. Sloterdijk, Devi cambiare la tua vita, tr. it. di S. Franchini, Raffaello Cortina, Milano, 2010, p. 25.

II
sfere.6 La matrice dell’immagine è il fondamento del pensiero con cui Sloterdijk sviluppa il suo
discorso, e lo accompagna per tutta la sua opera. Dalle immagini archetipiche, Sloterdijk ritrova un
tesoro di espressioni da cui il pensiero attinge mantenendo sempre una visione d’insieme mediata
dal vissuto psichico della dimensione inconscia.
Sloterdijk attinge in diversi modi e tempi a tutta l’esperienza umana e non, contraddistinta,
nel suo aspetto essenziale e più accademico, da una ripresa ed estensione del volume heideggeriano
Essere e Tempo, per completare quel lavoro di ricerca del dove, che a detta dell’autore Heidegger ha
interrotto bruscamente, preferendogli un chi. Sloterdijk quindi si preoccupa prima di tutto di
fondare un Essere e Spazio, e di farlo non solo attingendo alla filosofia e alla poesia, ma anche, tra
gli altri, alla psico-ontologia di Jung.7 Il suo scopo risulta nella presentazione di una filosofia ibrida
alla ricerca di un fondamento archetipico oggettivo comune a tutti gli uomini, che ricalchi allo
stesso tempo tutta la storia dell’Homo Sapiens, intesa come storia degli spazi psico-ontologici, dai
primi sussulti di vita dell’embrione nell’utero materno ai grandi eventi cosmologici, trasformatori
dei luoghi umani.
Il filosofo di Karlsruhe riprende l’immagine della sfera introducendo la sferologia
(Sphärologie): lo studio di tutta l’esistenza umana, (pre-)individuale e collettiva, intesa come forma
psicoantropologica sferica. Nella sferologia vengono distinte tre aree di studio, una per ogni
volume. La microsferologia (Mikrosphärologie) è lo sviluppo degli spazi dell’intimità e
dell’interiorità, chiamati bolle, ricercati a partire dall’unità originaria prenatale tra embrione e
grembo materno, precedente la costituzione di un vero e proprio soggetto. Sloterdijk si concentra
qui brevemente sul noggetto (Nobjekte), una nuova classe ontologica di oggetti introdotta dal
collega Thomas Macho, per indicare il rapporto mediale e bipolare che interessa il soggetto non
ancora formatosi. Una relazione archetipica che va oltre la fenomenologia, esplorata attraverso la
mistica indiana e la psicologia prenatale, che offre la struttura originaria su cui si modellerà poi la
costituzione psichica dell’individuo e la sua esistenza nel mondo.
La macrosferologia (Makrosphärologie) riguarda invece l’espansione dell’unità uterina
attraverso la tecnica e il processo psicodinamico del transfert nello spazio esterno, per cui le
macrosfere sono protezioni simboliche per difendersi dallo spaesante e mostruoso mondo esterno
heideggeriano. Ne sono simboli le antiche mitologie matriarcali, la costruzione delle città e delle
cinta murarie, o anche le sfere celesti della metafisica filosofica e teologica d’occidente, che per

6
Sulla questione dell’immagine in Sloterdijk, cfr. T. Ariemma, Immagini e Corpi: da Deleuze a Sloterdijk, Aracne,
Roma, 2005.
7
Termine con cui Sloterdijk definisce la psicanalisi junghiana. Cfr. P. Sloterdijk, Cosa è successo nel XX secolo?, tr. it.
di M. A. Massimello, Bollati Boringhieri, Torino, 2017, p. 122.

III
Sloterdijk sono sempre fenomenologie particolari riconducibili ad una singola sfera uterina,
trasformata di volta in volta nel corso della Storia grazie alla sua proiezione spaziale.
Infine la sferologia plurale (Plurale Sphärologie), configurazione nata a partire dalla
rivoluzione cosmologica rinascimentale, ma caratteristica dell’epoca post-nietzschiana,
contraddistinta dalla rottura delle macrosfere metafisiche in microsfere locali a seguito della fine
delle grandi immagini del mondo, e del ridimensionamento di senso delle macrosfere religiose e
geopolitiche. Il risultato è un rovesciamento delle singole bolle in schiume, agglomerati di realtà
locali individuali e collettive, comunicanti attraverso rapporti liquidi di scambi simbolici, ma
appartenenti ognuna a visioni del mondo isolate.
Lo scopo del presente lavoro originale è seguire le tracce immaginali che Sloterdijk
ricostruisce attraverso la sua trilogia sferica, concentrandosi in particolare sulla microsferologia e
sulla macrosferologia, evidenziandone il legame con l’opera di Jung. Nella critica sloterdijkiana e
psicodinamica manca ancora uno studio che evidenzi i punti in comune tra i due, passando
principalmente non soltanto attraverso le letture dirette da parte di Sloterdijk delle immagini di Jung
e Bachelard, ma soprattutto per la loro interazione con le principali figure filosofiche e poetiche di
riferimento, cioè Nietzsche, Heidegger e, in minor misura, Rilke. Si cercherà di rispondere alle
motivazioni che stanno alla radice della sferologia, facendo perno in particolare sulla presenza
junghiana nei testi, indagando la relazione che le principali fonti di Sloterdijk hanno intrattenuto
con il poetico, sorgente da cui viene tratto il cerchio vitale.
Sarà ricostruita attraverso la psicologia del profondo il ruolo che l’analisi della psiche e delle
immagini archetipiche circolari ha giocato in Sloterdijk per affrontare il mostruoso spaesante, e
come queste siano originariamente la trasposizione nello spazio di un fenomeno tipicamente
presente attraverso le impressioni archetipo-poietiche della psiche umana. Il fine ultimo è ampliare
la riflessione critica sull’opera sferologica attraverso l’incontro con l’esperienza di Jung attorno alla
sfera e al rotundum, apparso non solo nelle visioni e nei sogni dello psicanalista, ma anche nello
studio della sua opera e nei vari fenomeni collettivi da lui esaminati nel corso degli anni.
Per fare ciò, più che concentrarsi esclusivamente su un’analisi concettuale, verranno seguite
le metodologie sloterdijkiana e junghiana di un’esposizione letteraria per immagini. Si è costruito
così un percorso simbolico e fenomenologico, che segue il naturale svolgimento dell’immaginario,
attingendo fra le altre a un rinnovato interesse per le immagini portato dalla filosofia
dell’immaginazione di Jean-Jacques Wunenburger.
Lo studioso francese, direttore del Centre Gaston Bachelard de recherches sur l’imaginaire
et la rationalité, mira a ritrovare e recuperare l’immaginario come fonte per l’esposizione filosofica,
tradizionalmente lasciato in secondo piano nella storia della filosofia, in virtù di un’attenzione più

IV
centrata sulla percezione e sul pensiero fondato sull’esposizione concettuale e dialogica. Di contro,
Wunenburger vuole rifarsi ai diversi campi dell’immaginario, in particolare il mitologico,
l’alchemico, l’estetico, l’antropologico, e alle categorie attraverso cui questi si esprimono, per
arricchire il dibattito filosofico, riconoscendo il valore che l’immagine ha all’interno della psiche
umana. Una prospettiva che ben si sposa con la psicologia del profondo, da cui Wunenburger
attinge a più riprese, e col lavoro sloterdijkiano, al punto da poterne essere prezioso complemento.
Per stilare questo lavoro, si è quindi svolto il discorso attorno al nucleo della realtà psichica e
dell’immaginale, come sostrato di riferimento.8
L’immaginale in particolare è una categoria che Wunenburger riprende dallo studioso Henry
Corbin, noto per la sua collaborazione coi circoli della psicologia del profondo e col gruppo
conferenze di Eranos. Il campo di studio di Corbin è legato all’immaginario e al tema del sacro così
come sono vissuti in particolare nell’islamismo e nel sufismo, ma il rapporto che lega questi campi
viene allo stesso tempo esteso universalmente a tutte quelle immagini archetipiche che definiscono
esistenzialmente il fondamento della psiche umana. Si tratta di

una forma d’immaginazione meta-psicologica attraverso cui la coscienza esperisce un mondo


d’immagini autonome, definito immaginale, che costituiscono altrettante manifestazioni
sensibili di un mondo intelligibile.9

La prerogativa dell’immaginale è particolarmente rilevante qui, dato che Jung, Bachelard e


Sloterdijk, ma anche Nietzsche e Heidegger, parlano e raccontano con immagini non nel senso di
metafore o allegorie, ma di realtà effettive che formano direttamente l’esperienza del mondo del
soggetto. L’immagine è incorporazione del reale, nella propria interiorità come nel mondo esterno.
Nel corso del lavoro si è mantenuta questa posizione ermeneutica, esemplificata da Wunenburger
nella sua opera.

Lo psichismo umano si definisce sulla base della priorità delle rappresentazioni per immagini,
che, caricate di una forte affettività, si propongono immediatamente come artefici del suo
rapporto con il mondo.10

L’opera d’arte non ha per Jung solo valore individuale, patologico o biografico, ma è in
grado, soprattutto in casi particolarmente sensibili, di rappresentare lo spirito del proprio tempo e di

8
Cfr. J. J. Wunenburger, Filosofia delle immagini, tr. it. di S. Arecco, Einaudi, Torino, 1999; Id., La vita delle
immagini, tr. it. di R. Castoldi, Mimesis, Milano, 2007; Id., L’immaginario, tr. it. di V. Chiore, Il nuovo melangolo,
Genova, 2008.
9
Id., L’immaginario, cit., p. 32.
10
Id., Filosofia delle immagini, cit., p. 94.

V
svelare i mutamenti culturali di un’intera epoca. 11 L’immaginario in Sloterdijk e Jung viene ad
essere una comune chiave di lettura per leggere attraverso le immagini artistiche l’evoluzione della
psiche collettiva nella Storia, ciò che Sloterdijk chiama in diverse istanze psicostoria.
Nel primo capitolo dal titolo Immagini dell’Ungeheure: il mondo spaesante e mostruoso, si
intraprenderà un’analisi immaginale della filosofia del XX secolo a partire dall’evento della morte
di Dio in Nietzsche, letto attraverso Sloterdijk come crollo dell’immagine del mondo medievale e
rinascimentale protetta dalla sfera divina, e di conseguenza della simbologia metafisica
immunizzante cristiana nei confronti del gigantesco spazio esterno heideggeriano. Da questo
evento, che inizia con Nietzsche, si svolgerà un percorso estetico mediante le immagini poetiche e
alchemiche, che attraversa Rilke, Jung, Heidegger, l’arte e la poesia delle guerre mondiali, con
precise fenomenologie della navigazione, del diluvio universale, della discesa nel vuoto dell’abisso
e dell’inconscio collettivo. Attraverso una rinnovata visione del mondo, con la scoperta della nuova
dimensione aerea come spazio circoscrivente il globo terracqueo, la metafisica teologica si
trasforma infine nelle onde radio, nei viaggi spaziali e nella scoperta dello spazio extraterrestre
come nuova immagine del mondo.
L’immaginario dell’epoca è contraddistinto dal fenomeno dell’Ungeheure, termine con cui
Heidegger designa il mondo mostruoso e spaesante dove non è possibile abitare. Il comune
denominatore della ricerca di senso e del futuro dell’uomo in un mondo privo di Dio e immerso
nella sua ombra nichilista, è segnato dal tentativo, comune a Jung, Nietzsche, Heidegger, Rilke e
Sloterdijk, di trovare un modo per recuperare il senso della propria esistenza nel mondo. Leggendo
una corrispondenza tra dinamiche interiori ed esteriori, si seguirà infine l’evoluzione del vecchio
ordine mondiale tradotta attraverso l’immaginale alchemico adoperato da Schmitt e Jünger nel loro
linguaggio esoterico, e nella trasfigurazione finale della metafisica vista da Sloterdijk come un
nuovo spazio extraterrestre, a cui si accosta l’esame junghiano dei sogni e della psiche come spazio
esterno coincidente con l’inconscio collettivo, l’altrove poetico o anche l’oltreorbita del globo
terrestre. Lo scopo di questo percorso è di inquadrare il fondamento culturale che ha ispirato l’opera
sloterdijkiana, e il significato che essa copre con la sua sferologia nel quadro psicostorico
dell’occidente.
Nel secondo capitolo intitolato La sfera che protegge nell’Aperto, ci si concentrerà sulla
ripresa da parte di Sloterdijk della sfera come realtà e forma immunizzante, prelevata dal linguaggio
simbolico, poetico, artistico, religioso, per poter offrire tra la fine secolo scorso e l’inizio del XXI
secolo una risposta al problema dello spaesante heideggeriano. Similmente alla rotondità con cui il

11
Cfr. A. Jaffé, Il simbolismo nelle arti figurative in C. G. Jung e al., L’uomo e i suoi simboli, tr. it. di R. Tettucci, TEA,
Milano, 2013.

VI
soggetto circoscrive il proprio ambiente, la sfera viene estratta dalle immagini bachelardiane e
junghiane come archetipo in grado di racchiudere e definire lo spazio interiore ed esteriore. Per
stessa ammissione di Sloterdijk, le qualità protettive simboliche della sfera vengono ad essere una
diretta concettualizzazione della funzione protettiva del simbolo rotondo, così come esso sorge dalla
profondità inconscia.
Si vedrà che la sfera, essendo presa dagli studi archetipici, corrisponde alle diverse
immagini dell’archetipo del Sé proiettato nello spazio e nella costituzione psichica dell’individuo, al
fine di ordinare gli elementi in esso inclusi in forme quadrangolari o circolari. Tra le immagini
dell’archetipo del Sé legate alla terra, si vedrà che in particolare sono i motivi materni a sorgere.
Questo perché, come già sosteneva Jung, l’archetipo si sviluppa nello spazio attraverso il
comportamento animale, come pattern of behaviour, una delle definizioni che ha sviluppato in
particolare la collaboratrice e psicanalista Jolande Jacobi. In perfetto parallelismo con Sloterdijk,
che riprenderà lo stesso discorso, l’uomo riceve l’impressione archetipica del rotondo a partire da
reminiscenze inconsce prenatali. Dall’utero materno, esperito attraverso l’unione mistica e il
processo di individuazione, si ricava la forma originaria per organizzare l’abitare umano. Il tutto
viene esposto sulla base dell’unus mundus12, cioè la corrispondenza psichica tra soggetto e oggetto,
interiorità ed esteriorità, una medialità di completa co-interdipendenza e relazione estetica tra
singolo, paesaggio e mondo, microcosmo e macrocosmo.
Sloterdijk riprende questa corrispondenza fondandola sul transfert, l’animazione del mondo
dovuta a contenuti psicologici interiori, per cui l’uomo per costruire le proprie dimore, fino ad
arrivare alle grandi città e ai grandi sistemi metafisici, proietta ed espande di volta in volta la sfera
materna e le protorelazioni avute al suo interno, come in una matrioska. Questo processo è
evidenziato nell’analisi che Sloterdijk fa delle culture antiche e dell’uomo nel periodo che intercorre
tra il Neolitico e il sorgere della filosofia platonica. In quest’epoca premetafisica, l’uomo vive
seguendo il mito in un eterno ciclo di nascita e morte dal grembo materno, una dinamica che si
ritrova nella simbologia del processo di individuazione, per cui ogni ampliamento della coscienza si
traduce in un reimmergersi simbolico nelle acque del grembo materno, per uscirne poi rinnovati.
Infine, nella costruzione delle grandi megalopoli antiche, si ritroverà un’organizzazione urbana
modellata sull’unione prenatale originaria, su cui viene proiettata la simbologia della Grande
Madre. La città offre all’epoca un modello di eternità e protezione assoluta, dove al centro si ritrova
la presenza divina, e in tutta l’area ci si riunisce come racchiusi nel corpo matriarcale.

12
Nel corso della narrazione, la prospettiva dell’unus mundus viene data per assunto nelle pagine sloterdijkiane. Per una
breve panoramica, cfr. M. W. Stein, L’unus mundus, dentro, fuori e tutto intorno in Quaderni di cultura junghiana.
Tradizioni e contaminazioni, CIPA, Roma, 2016, p. 6.

VII
Alla fine del percorso si sarà offerta una breve panoramica sulla relazione archetipica tra
Jung e Sloterdijk, instaurata più o meno indirettamente attraverso le letture sloterdijkiane. Si vedrà
esattamente come la filosofia di Sloterdijk attinga ad ampie mani alla psicologia del profondo per
svolgere il proprio discorso filosofico.
.

VIII
CAPITOLO I
IMMAGINI DELL’UNGEHEURE:
IL MONDO SPAESANTE E MOSTRUOSO

Fig. 1 – V. Kandinskij, Alcuni cerchi, 1926. Immagine tratta dalla copertina all’edizione italiana
di P. Sloterdijk, Cosa è successo nel XX secolo?, cit.

“Cosa abbiamo fatto, rilasciando questa Terra dal suo Sole? Dov’è essa presa adesso? Dove siamo
noi stessi presi? Lontani da tutti i soli? Non stiamo incessantemente precipitando? All’indietro, di
lato, in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora un alto e un basso? Non vaghiamo come attraverso un
infinito nulla? Non alita su di noi lo spazio vuoto? Non fa freddo? Non si sta facendo notte, sempre
più notte?”13
F. Nietzsche, La Gaia Scienza, §125.

13
F. Nietzsche, La Gaia Scienza e Idilli di Messina, a cura di G. Colli, tr. it. di F. Masini, Adelphi, Milano, 1977, p.
163.

1
I. La morte di Dio: immagini dell’Anima Mundi, del Diluvio e dell’Abisso.
Nella sua introduzione al primo volume di Sfere, Bolle (Blasen, 1998), portatore della
proposta microsferologica degli spazi dell’intimità e dell’interiorità, Sloterdijk cita il passo in
apertura dall’opera nietzschiana14 per introdurre l’intera area d’azione che verrà a svolgersi nei tre
volumi sferologici. La riflessione sloterdijkiana sullo spazio deriva anzitutto dalla problematica
nietzschiana della morte di Dio e dal tentativo heideggeriano di risanare l’incontro con il tremendo
e spaesante mostruoso a cui l’umanità è stata esposta a partire dal secolo scorso. L’obiettivo è
offrire una visione guida per quella che Sloterdijk definisce l’epoca postmetafisica, cioè l’età del
mondo che inizia in Occidente con Nietzsche, in cui l’uomo si trova costretto a vivere in un mondo
secolarizzato privo di enti animati e della mediazione di immagini del mondo psicodinamiche. Ciò
risulta nel carattere del mostruoso, verso cui vengono svolti tra filosofia e poesia tentativi
immaginali per recuperare un rapporto psicodinamico mediatore con la realtà esterna.
Si fanno impellenti fin dall’inizio del Novecento diversi mutamenti nello spirito occidentale,
tutti confluiti nell’esperienza filosofico-poetica di Nietzsche e correlati tra loro: la trasformazione
della metafisica, la morte del Dio cristiano e la sua trasvalutazione, la flebilità della terra (Erde)
intesa come elemento naturale e dimora umana, le cui immagini sono portatrici della domanda
heideggeriana sul fondamento (Grund), a cui viene contrapposto un immaginario acquatico ed
aereo, che invade l’immaginale culturale della psiche collettiva di inizio secolo con la propria
qualità abissale e trascendente.
La necessità di introdurre l’esposizione sferologica con Nietzsche risiede nel fatto che per
Sloterdijk il filosofo tedesco è l’evento che porta nella filosofia una «serietà estetica» 15, fatta di casi
seri (Ernstfälle)16, soglia finale per il Moderno, oltre il quale non è più possibile pensare l’esistenza
se non includendola nell’immediatezza dell’estetico patico. Nietzsche «sembra ergersi all’ingresso
del XX secolo (in quanto secolo propriamente psicologico) come la statua di un guardiano
dall’aspetto monumentale»17, per cui ogni esperienza filosofica per Sloterdijk d’ora in poi andrà
considerata nella sua accezione estetica e psicagogica, attingendo dalla vita (Leben) che sorge
dall’elemento dionisiaco. In questo ricorda Susanna Mati, in una rinnovata lettura di Nietzsche, che
14
Cfr. P. Sloterdijk, Sfere I. Bolle, tr. it. di G. Bonaiuti, Raffaello Cortina, Milano, 2014, p. 20.
15
P. Sloterdijk, Caratteri Filosofici, tr. it. di L. Guzzardi, Raffaello Cortina, Milano, 2011, p. 100. Cfr. anche C. G.
Jung, Civiltà in transizione. Il periodo fra le due guerre, tr. it. di M. A. Massimello, Bollati Boringhieri, Torino, 1998,
p. 13.
16
Ernst è la serietà che racchiude in sé anche la solennità, mentre Fall è la decadenza della precipitazione. La casistica
di cui parla Sloterdijk è quindi riconducibile all’elemento tragico dell’opera di Nietzsche. Cfr. F. Nietzsche, Ecce
Homo, a cura di R. Calasso, tr. it. di A. Oberdorfer, Adelphi, Milano, 1991, p. 98. Inoltre cfr. Susanna Mati, Friedrich
Nietzsche, Feltrinelli, Milano, 2018, p. 126.
17
P. Sloterdijk, Caratteri Filosofici, cit., p. 100. Sullo psicologico in Nietzsche, cfr. G. Colli, Dopo Nietzsche, Adelphi,
Milano, 2008, p. 69. Per secolo propriamente psicologico, Sloterdijk intende il ‘900 come il secolo in cui da Nietzsche
in poi, e attraverso la psicologia e la psicanalisi, si è ripreso con diverse accezioni il discorso sull’anima (Seele) e sulla
psyché.

2
nel filosofo «la presenza del mythos – l’altra parola, che risale dall’inconscio della filosofia – si
innerva nei suoi scritti proprio sotto la specie del pathos».18
Riprendendo Giorgio Colli, Mati si riallaccia al profondo patico e folle da cui sgorgano la
filosofia e l’immaginale nietzschiani19, la natura del pensiero che trova compimento nella parola
mito-logica, spostando l’asse per la comprensione filosofico-estetica in una dimensione non
esauribile nel discorso dialogico e sistematico svolgentesi nel logos razionalizzante post-platonico.
In questo modo i simboli nietzschiani che affiorano dal dionisiaco, l’originaria esperienza
sapienzale greca e filosofica20, vanno intesi come immagini mitologiche che raccontano lo spirito
del tempo. Il filosofo in Nietzsche si fa canale della parola poetica 21 che attinge alla psiche collettiva
transpersonale e sovrastorica, che si fa come Orfeo cantore di miti e quindi parla per immagini e
forme estetiche. Dice Bachelard che «le immagini nietzschiane possiedono una doppia coerenza che
anima la poesia e il pensiero»22, un’immaginazione materiale e dinamica che ha vita propria. Se il
logos filosofico è l’esorcismo del tragico e del pathos, Nietzsche getta il secchio nel pozzo della
propria esperienza biografica per trarne l’essenza dei suoi scritti, arrivando a toccare istanze
sovraindividuali.23 In questo Jung legge Nietzsche come l’individuo intuitivo introverso che da un
lato «coglie il mondo esterno soprattutto attraverso il mondo interiore»24 da cui egli trae gli archetipi
universali come simboli mediatori per partecipare alla realtà esterna.
Dietro la scrittura di Nietzsche non si cela semplicemente un pensiero, ma un’esperienza
psicopoetica che «sa scoprire la radice individuale e interiore di quelli che si chiamano i grandi
fenomeni della storia».25 Per Mati, la necessità di Nietzsche di mascherare le sue verità con etichette
concettuali risiede nella forte carica psico-estetica che la stessa indagine interiore di Nietzsche è
obbligata ad assumere nella sua inattualità. Leggere Nietzsche vuol dire oltrepassare il suo
linguaggio e attraversare l’apertura immaginale che la sua stessa esistenza ha causato nella storia
dell’Occidente. Ed è proprio la sua atemporalità, il suo ritorno all’antico che Sloterdijk riprende,
perché è attraverso l’evento del filosofo tedesco che si materializza nella Storia un’allocronia
capace di creare una voragine nel tempo presente. Egli è colui che torna all’Antichità per riscoprirla
non in quanto epoca storica, ma modalità di un tempo non storico, non progressivo, ricercando la
18
S. Mati, op. cit., p. 32.
19
Cfr. J.-J. Wunenburger, La vita delle immagini, cit., p. 135, «L’immaginale, a differenza dell’immaginario, troppo
legato alle finzioni, designa un insieme di immagini cariche di valori affettivi (positivi o negativi) che vivono come
rappresentazioni indipendenti dal soggetto e si impongono ad esso come semi-oggetti, e che si lasciano interiorizzare
mediante processi di sensibilità onirica».
20
Cfr. G. Colli, La nascita della filosofia, Adelphi, Milano, 1975, p. 109 sg.
21
Cfr. E. Jünger, Al muro del tempo, tr. it. di A. Grieco – A. La Rocca, Adelphi, Milano, 2000, p. 149.
22
G. Bachelard, Psicanalisi dell’aria. L’ascesa e la caduta, tr. it. di M. C. Hemsi, Red, Milano, 2007, p. 147.
23
Cfr. G. Colli, op. cit., p. 69.
24
C. G. Jung, Tipi Psicologici, tr. it. di L. C. Musatti – L. Aurigemma, Bollati Boringhieri, Torino, 2011, p. 159. Cfr.
anche A. Carotenuto, Apollineo e dionisiaco. Seminari su Nietzsche, Ananke, Torino, 2010
25
G. Colli, Dopo Nietzsche, cit., p. 69.

3
sospensione del tempo «su cui poggia la cultura cristiana, sia che quest’ultimo [tempo] venga
presentato come accelerazione finale di natura apocalittica o come paziente pellegrinaggio nel
mondo».26

Fig. 2 – La Terra al centro delle sfere celesti in G.


de Metz, L’Image du monde, copia del XIII secolo,
Bibliotéque nationale de France.

Sloterdijk condivide la chiamata a lasciare sovrastoricamente il tempo presente per volgersi


al di fuori del campo religioso-metafisico, una dinamica che contraddistingue filosoficamente il
passaggio che per Karl Löwith avviene fra l’Idealismo tedesco e Nietzsche. 27 Come è noto, il
problema della trasvalutazione del vecchio ordinamento del mondo viene a coincidere in Nietzsche
nell’Anticristo. Maledizione del cristianesimo (Der Antichrist. Fluch auf das Christentum, 1895), in
cui uno dei perni attorno a cui ruota l’azione è il fatto che il cristianesimo si è così assolutizzato
nelle culture locali da filtrare ogni nuova nascita divina: «quasi duemila anni e non un solo nuovo
dio!».28 Ciò si traduce con Jung nel fatto che il cristianesimo ha agito con la propria immagine del
mondo da collettore dell’immaginario psichico, accentrando le rappresentazioni sacre e
racchiudendo nella sfera del proprio immaginario ogni sviluppo autoctono locale29 (Fig. 2).

26
P. Sloterdijk, Devi cambiare la tua vita, tr. it. di S. Franchini, Raffaello Cortina, Milano, 2010, p. 41.
27
Cfr. K. Löwith, Da Hegel a Nietzsche, tr. it. di G. Colli, Einaudi, Torino, 2000, p. 301. Il nostro scopo esula dalla
confutazione dell’argomento, che ci limitiamo qui a suggerire.
28
F. Nietzsche, L’Anticristo. Maledizione del Cristianesimo, tr. it. di F. Masini, §19, Adelphi, Milano, 1977, p. 23.
29
Cfr. C. G. Jung, Letters. Vol. I, tr. ing. di R. F. C. Hull, Princeton University Press, Princeton, 1973, pp. 39-40.

4
Con la crisi della Modernità in Nietzsche, avviene un rovesciamento repentino, una svolta
(Kehre) eonica in cui l’Intero-Tutto stesso si capovolge (kehrt sich das Ganze um)30, per prendere a
prestito la terminologia heideggeriana, letteralmente un ripiegarsi su di sé di tutta la consapevolezza
e mondità umane, che ne stravolgono l’immagine del mondo (Weltbild) e l’essere-nel-mondo (In-
der-Welt-Sein). Heidegger, introducendo la questione nel suo saggio L’epoca dell’immagine del
mondo (Die Zeit des Weltbildes, 1938), spiega che «con essa intendiamo il mondo stesso, l’ente
nella sua totalità così come ci si impone nelle sue condizioni e misure». 31 Si tratta dell’insieme di
storia e natura contenuti nel mondo, compreso il suo fondamento, che formano il gigante, ossia
l’insieme psichico di ciò che in una data epoca e spazio è conosciuto e sconosciuto. Rivolto verso il
gigantesco che preme dall’esterno in epoca moderna, Heidegger dice,

Il gigante è invece ciò attraverso cui il quantitativo si costituisce in una sua propria qualità,
divenendo in tal modo un modo eminente del grande. Ogni epoca storica è non solo di
grandezza diversa rispetto alle altre, ma porta sempre con sé un suo preciso concetto di
grandezza.32

La diversità della grandezza di ogni epoca storica indica per Heidegger il limite della
cosmologia e della consapevolezza del reale che ogni epoca ha stabilito come sua propria visione
del mondo. Quando il gigante però oltrepassa la sua misura, andando oltre la sua grandezza, cioè
viene portato quantitativamente a capovolgersi in qualità dalla sua propria quantificazione infinita,
ecco che il gigante si rovescia, trasformandosi nell’indefinito e nell’incalcolabile. Così il gigante
diventa un’ombra che si distende su tutte le cose, facendo da velo alla rappresentazione di ciò che
non è ancora noto, oscurandolo alla nostra coscienza.
Sloterdijk vede il procedimento medievale e rinascimentale dell’espansione di Dio ad
infinitum in questi termini, per cui, finché morfologicamente Dio veniva rappresentato all’interno di
una misura simbolica, seppur immensa, limitata all’icona della sfera, come è avvenuto fino al
Rinascimento, Egli adempiva perfettamente alla sua funzione sferopoietica di protezione e
definizione del mondo conosciuto. In questo il fattore immaginale di Dio per Sloterdijk è
principalmente da considerarsi nella sua accezione di estensione spaziale. Oltre la sfera divina «il
margine più esterno di Dio, o piuttosto, di quel che c’è al di là del suo margine, è un anello fatto
pressocché di nulla o di un nulla assoluto». 33 Dio come sfera che anima lo spazio garantiva l’ordine

30
M. Heidegger, Lettera sull’umanismo, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano, 1995, p. 52.
31
M. Heidegger, L’epoca dell’immagine del mondo, in Sentieri Interrotti, tr. it. di P. Chiodi, La Nuova Italia, Firenze,
1968, p. 87.
32
Ivi, p. 100.
33
P. Sloterdijk, Sfere II. Globi, tr. it. di S. Rodeschini, Raffaello Cortina, Milano, 2014, p. 453.

5
immaginale all’interno del quale l’umanità poteva sentirsi al sicuro. Ma «nel momento in cui alla
sfera viene conferito l’attributo dell’infinito, essa muore per la sovratensione nel non chiaro».34

Fig. 3 – G. de’ Menabuoi, La Creazione del


mondo, Battistero del Duomo di Padova, 1375
ca.

Si tratta di un rivolgimento tipico dei processi psichici che Jung ha denominato


enantiodromia, recuperando la dicitura dalla filosofia eraclitea. Quando la rappresentazione o il
contenuto psichico vengono estremizzati verso una particolare polarità, in questo caso l’infinito,
l’enantiodromia «si verifica quasi universalmente là dove una direttiva completamente unilaterale
domina la vita cosciente»35 per compensare tramite l’inibizione e poi l’interruzione dell’indirizzo
cosciente l’energia psichica. Per ripristinare la polarità, la contrapposizione inconscia si forma con
eguale intensità e ritrascina con sé la coscienza. In termini immaginali vuol dire che nel momento in
cui la sfera di Dio viene espansa oltre ogni limite, questa ricade sotto il suo stesso peso, come un
palloncino che viene gonfiato fino ad esplodere. Ecco che la costruzione metafisica medievale
crolla (Fig. 3), lo spazio diventa infinitamente vuoto, l’umanità viene esposta al gigantesco
heideggeriano sotto forma di pluralità di mondi infiniti. E dato che l’immagine archetipica di Dio
era la misura della cosmologia cristiana occidentale, la sua attività coinvolse tutta l’immagine del
mondo veteroeuropea (Fig. 4).

34
Ivi, p. 116.
35
C. G. Jung, Dizionario di psicologia analitica, tr. it. di C. L. Musatti – L. Aurigemma, Bollati Boringhieri, Torino,
1977, p. 437. Cfr. anche U. Galimberti, Dizionario di Psicologia, UTET, Roma, p. 634.

6
Fig. 4 – B. de Fontenelle, Pluralité des mondes, in Id. Les Entretiens sur la pluralité
des mondes, 1686, Bibliothèque nationale de France.

Nel §125 del terzo libro de La Gaia Scienza (Fröhliche Wissenschaft, 1889), L’uomo
invasato (Der tolle Mensch)36, la figura col lanternino annuncia che Dio, la massima sfera che
rivestiva con la sua presenza metafisica la cosmologia del cielo tardo medievale, è caduta. A causa
di questo evento sorge la sua domanda, “Non alita su di noi lo spazio vuoto?”, che per l’europeo
d’inizio secolo è un cataclisma invisibile, annunciato da un lieve sussurrare (hauchen). L’invasato
ammonisce profeticamente che non è ancora il suo tempo, e che lo spaesante e mostruoso evento
(diess ungeheure Ereigniss)37 deve ancora giungere alle orecchie della Belle Époque. Ubriacati
dallo spazio urbano della città moderna, dall’orizzontalità delle esplorazioni marittime e delle
conquiste coloniali, l’uomo moderno non poteva ancora sapere in cosa consisteva lo spaesamento e
la mostruosità della morte di Dio.

36
Traduzione nostra. Traduciamo tolle con invasato perché l’aggettivo tedesco racchiude in sé diverse sfumature di
significati che spaziano dal grande al frenetico, dal temerario al rabbioso, per cui la follia dell’uomo con la lanterna non
consiste solo di una dimensione psicopatologica, ma anche nell’essere posseduto e afferrato (Engriffenheit) dal dáimōn,
dal dio, o anche dallo spirito del tempo. Non ci è possibile qui concentrarci sulla storia clinica della follia, ma d’ora in
poi tratteremo la follia in questo senso, che riprende il suo significato originario, esente da qualsiasi patologizzazione
medica. Dato che la letteratura sulla follia è sterminata, per delle considerazioni storiche sulla psicopatologia della
follia, cfr. M. Foucault, Storia della Follia, tr. it. di M. Galzigna, BUR, Torino, 2015; AA. VV., Quaderno Rosso.
Dialogo tra filosofi e psichiatri per curarsi della follia, a cura di A. Ricci e G. Valent, Moretti&Vitali, Bergamo, 2014.
Sul tema della possessione nella psicologia nietzschiana, cfr. Wotan in C. G. Jung, La Dimensione Psichica, tr. it. di L.
Aurigemma, Bollati Boringhieri, Torino, 2015; S. Zweig, La lotta col demone, Pironti, Napoli, 2015. Per la follia intesa
con la sua dimensione creativa e mito-poetica, cfr. C. G. Jung, Il Libro Rosso, a cura di S. Shamdasani, tr. it. di M. A.
Massimello – G. Schiavoni – G. Sorge, Bollati Boringhieri, Torino, 2009, p. 25n, dove si evidenzia la differenza tra
follia insensata e follia come conoscenza altra.
37
F. Nietzsche, La gaia scienza, cit., p. 163.

7
Nel momento in cui il Dio cristiano è tramontato, la Terra, come immagine, elemento
fondante e corpo celeste, si perde nei meandri del Vuoto (Leere) e del Nulla (Nichts) caratteristici di
uno spazio esterno in cui non possono sorgere più immagini del mondo di riferimento che possano
mediare l’esistenza del soggetto moderno nella propria dimensione spaziale con ciò che è altro da
sé. Nietzsche, in un intruglio di pensiero, sensazione e intuizione, evidenzia la mancanza di un
centro spaziale che offra una coordinata per orientarsi nell’Esserci, si chiede cosa potrà fare ora
questo pianeta, questa massa globalizzata la cui superficie materiale costituisce l’unica realtà, su cui
l’uomo moderno si è adagiato come fondamento per la propria esistenza. Dove è stato rilasciato il
nostro mondo, e soprattutto, è possibile che altre immagini possano definirlo, e quindi proteggere
l’umano?

Fig. 5 – L. da Vinci, Salvator Mundi, olio su tela,


Museo Louvre Abu Dhabi, 1499 ca.

Attorno all’evento di Nietzsche, Jung e Sloterdijk si preoccupano di delineare il problema


della fine di Dio come fenomeno del disincanto dell’anima mundi (Fig. 5), a cui fa inevitabile eco il
sorgere del problema dell’anima da parte delle psicologie scientifiche di inizio XX secolo. 38 La
domanda sull’animazione della realtà ruota attorno al perno nietzschiano e alla psicologia del
profondo, punto di contatto tra Jung e Sloterdijk sulla crisi dell’anima del mondo come emergenza
del mostruoso. Il mostruoso si rivela per Sloterdijk nel momento in cui la realtà non è più animata,
ma anzi, a seguito della forsennata invasione tecnica già professata da Heidegger e da Sloterdijk
ripresa, il dis-velamento del mondo nella modernità «si vede dal fatto che mostrare, svelare,
esprimere sotto forma di linguaggio sono stati presi in carico da un’offensiva sistematica contro la
dea Lete».39

38
Cfr. Psicanalisi e pensiero moderno in L. Zoja, Psiche, Bollati Boringhieri, Torino, 2015, p. 34.
39
P. Sloterdijk, Sfere I, cit., p. 213.

8
Nel suo capitolo L’anima del mondo in agonia ovvero l’emergere del sistema immunitario
in Sfere, Schiume (Schäume, 2004), Sloterdijk spiega come a partire dal XX secolo si renda
evidente il problema dell’ambiente che viene a sostituire la possibilità olistica per ogni essere
umano di porsi in circostanze (Umständen) onnicomprensive nei confronti di un esterno ignoto. Le
scoperte scientifiche, la perdita di potere delle icone, il terrore, sono tutti processi esplicitanti,
rendono cioè le società e gli individui vulnerabili esponendo all’esterno l’esistenza umana. Inizia
così il processo chiave del secolo scorso, «rendere il sistema immunitario esplicito» 40, cioè
realizzare che non si può più includere se stessi in una metafisica formale che garantisca della mia
esistenza, ma di volta in volta bisogna ritrovare le immagini psichiche per riaffermare se stessi: «è
questo ciò che viene introdotto dall’epoca delle immagini scelte del mondo e delle immagini scelte
di sé».41
All’interno del secondo volume di Sfere, Globi (Globen, 1999), Sloterdijk si sofferma, già
dal titolo del suo breve Excursus 5. Sul senso della frase mai pronunciata: la sfera è morta, sul
significato a scoppio ritardato che ha avuto l’inabissamento della sfera di Dio nella storia
dell’occidente, e in particolare nell’episodio appena riportato nella Gaia Scienza. L’uomo invasato
nietzschiano ha ritrovato su di sé l’angoscia (Angst), fenomeno che Heidegger caratterizza nel suo
Essere e Tempo (Sein und Zeit, 1927) come preludio di un’apertura allo spaesamento:
«nell’angoscia ci si sente “spaesati”. Qui trova espressione innanzi tutto la indeterminatezza tipica
di ciò dinanzi a cui l’Esserci si sente nell’angoscia: il nulla (Nicht) e l’in-nessun-luogo».42
L’angoscia si scatena in un primo momento di fronte alla realizzazione che il luogo in cui sono è
indeterminato e non è determinabile, in termini moderni, che non ci se ne può fare un’immagine
(Bild), il che risente per Nietzsche, come ricorda Sloterdijk, dalla formazione (Bildung) dell’uomo
moderno. La modernità per Nietzsche non ha permesso il rafforzamento dell’interiorità psichica,
limitandosi a costruire sovrastrutture e sistemi metafisici di superficie, che se anche offrivano riparo
immediato, non potevano rafforzare la costituzione psichica del soggetto.43
Per Sloterdijk è proprio nell’interiorità di Nietzsche, ripescata attraverso il simbolo
diogenico dell’uomo con la lanterna, che si consuma esemplarmente la presa di coscienza di uno
spazio globale esposto all’indefinitezza del mostruoso ignoto. In un mondo senza Dio e il
trascendente, vengono a mancare le immagini mediatrici del rapporto tra il soggetto e il mondo
esterno, essendo il mondo ormai una dimensione secolarizzata, contraddistinta solo
dall’immanenza.

40
P. Sloterdijk, Sfere III, cit., p. 183.
41
Ivi, p. 184.
42
M. Heidegger, Essere e Tempo, a cura di F. Volpi, tr. it. di P. Chiodi, Longanesi, Milano, 2015, p. 230.
43
Cfr. F. Nietzche, Sull’utilità e il danno della storia per la vita, tr. it. di S. Giametta, Adelphi, Milano, 1973, p. 32.

9
Sopra e sotto diventano impossibili da distinguere, ciò che sembrava appartenere all’aldilà viene
riassorbito in un ulteriore aldiqua; [...] Si apre un’iper-immanenza sconcertante, nella quale i
discorsi tradizionali sulle trascendenze hanno perso il loro legame con l’andamento del mondo;
[...] Nello spazio iper-immanente domina un intreccio sovraeccitato di dispiegamento della
forza e giri a vuoto.44

Nietzsche sente il proprio corpo barcollante “indietro, di qua, avanti, in tutte le direzioni”.
L’invasato è colui che appartiene a un gruppo di uomini, da filosofi a teologi, che possono vivere
per Sloterdijk proprio in virtù del loro affidamento alla protezione metafisica. L’uomo con la
lanterna invece metabolizza la fine di un’immagine del mondo che da Copernico a Bruno aveva
smantellato ogni sfera angelica:

Nel suo stato di sovraeccitazione [l’invasato] fa esperienza del trauma della nascita del Pianeta
esposto, come se fosse il suo; avverte la caduta della Terra da quegli involucri immaginari che
l’avevano protetta all’interno della totalità divina per un periodo di durata millenaria; [...] vive
la mancanza di un rifugio nella forma di una nuda esistenza, come un esser-ci tratto fuori di sé e
fuori dagli involucri.45

Questo comporta una rottura e trasformazione della Weltbild teocentrica medievale, che
collassa sul soggetto senza più la garanzia di una provvidenza sovraordinata. La tensione del crollo
degli involucri cosmologici immaginari costringe la psiche dell’uomo a rimediare alla scomparsa
delle immagini esterne con le sue sole forze, perché ricorda Jung «l’immagine del mondo medievale
si è sgretolata, e l’autorità metafisica che la governava si sta dissipando velocemente, solo per
ricomparire nell’uomo».46 Psicodinamicamente, la disanimazione del mondo preme sulla debole
psiche dell’uomo civilizzato, costringendolo a farsi carico della creazione di nuove forme
simboliche per mediare la sua esistenza nel mondo.
In Heidegger ciò che contraddistingueva i Weltbilden del Medioevo e dell’Antichità, a parte il
non essere propriamente immagini in senso moderno, era che per il mondo medievale «l’ente è ens
creatum, il frutto dell’azione creatrice personale di Dio [...]. Esser-ente significa allora appartenere
a un certo grado dell’ordine del creato»47, per cui l’ente del mondo non è posto di fronte all’uomo
come qualcosa di oggettivo e rappresentabile, ma entrambi sono conchiusi nella stessa azione
divina. Nel mondo greco altresì, riprendendo Parmenide, l’uomo è «guardato dall’ente, compreso e
mantenuto dall’aperto dell’ente, sorretto da esso, coinvolto nei suoi contrasti e segnato dal suo

44
P. Sloterdijk, Dopo Dio, tr. it. di S. Rodeschini, Raffaello Cortina, Milano, 2018, p. 303.
45
P. Sloterdijk, Sfere II, cit., p. 536.
46
C. G. Jung, Civiltà in transizione.., cit., p. 475.
47
M. Heidegger, L’epoca..., cit., p. 89.

10
dissidio».48 C’era una corrispondenza tale che il soggetto poteva esistere solo in quanto percepiva il
mondo, il che evitava che quest’ultimo potesse essere congelato a immagine oggettiva, mentre il
mondo greco era pieno di dèi ed enti vivi.
Psicodinamicamente le epoche del mondo descritte da Heidegger si ritrovano nel recupero
dell’animismo da parte della psicologia del profondo. Lo psicanalista junghiano Luigi Zoja descrive
l’animismo come l’istanza in cui «la psiche o anima è condivisa con tutta la società, gli animali, le
piante, persino le rocce: quasi non esiste un Io, quasi tutto è un Noi».49 In questo stato la psiche
distingue a fatica gli accadimenti soggettuali da quelli del mondo esterno, perché è tutta proiettata al
di fuori; costituisce un mondo fluido che ci circonda. Nella modernità invece, continua Zoja e
ricorda Max Weber nella sua lezione La scienza come vocazione (Wissenschaft als Beruf, 1919),
l’uomo è il produttore dell’ente, ma non ha più uno spazio vivo e animato da vita psichica di fronte
a sé. Il mondo è diventato una rappresentazione morta svuotata dal magico e dal divino, gli oggetti
sono materia inerme.

È il destino della nostra epoca, con la sua speciale razionalizzazione e intellettualizzazione e


soprattutto con il disincanto del mondo (Entzauberung der Welt), per cui sono proprio i più
finali e sublimi valori che si sono ritirati dalla sfera pubblica nel sovrannaturale regno della vita
mistica o nella fraternità degli immediati rapporti umani. 50

La razionalizzazione e il disincanto del mondo indicano una condizione tipicamente legata


all’epoca illuminista che la psicologia del profondo definisce come ritiro delle proiezioni. Invece di
proiettare all’esterno i contenuti e le immagini psichiche, queste rientrano forzatamente
nell’interiorità dei singoli individui, appesantendo la psiche collettiva di un carico energetico e
immaginale potenzialmente troppo intenso per la coscienza stessa da sopportare. Secondo la
prospettiva di Zoja, nella sua esposizione della psiche in merito all’episodio weberiano e alla morte
di Dio,

Il disincanto annunciato da Weber raggiunge una fase finale. Il ritiro delle proiezioni, previsto
sia da Freud che da Jung, vi corrisponde sul piano psicologico. L’uomo non sente più come
esterno quello che si muove dentro di lui. La morte di Dio annunciata da Nietzsche un secolo
prima si manifesta pienamente anche nell’uomo della strada. La trascendenza si dilegua. 51

Ricordando gli studi junghiani sulle civiltà primitive 52, Zoja concorda nell’attribuire alla
casistica dell’uomo europeo dopo l’Illuminismo un problema di fondo: non percepisce più l’esterno
48
Ivi, pp. 89-90.
49
L. Zoja, Psiche, cit., p. 31. Il corsivo è presente nell’originale.
50
M. Weber, Wissenschaft als Beruf, in Id. Gesammelte Aufsätze zur Wissenschaftslehre, Tubingen, 1968, p. 612. Cfr.
Id. Scienza come vocazione. E altri testi di etica sociale, a cura di P. L. di Giorgi, Franco Angeli, Milano, 1996.
51
L. Zoja, Psiche, cit., p. 89.

11
come uno spazio in cui possono agire le immagini archetipiche e le tonalità affettive. La mediazione
psichica tra soggetto e oggetto è compromessa. Jung si rammarica a proposito del fatto che «l’uomo
stesso ha smesso di essere microcosmo e eidolon del cosmo, e la sua “anima” non è più la scintilla
consustanziale dell’anima mundi, dell’anima del mondo».53 Con Nietzsche si rivela la problematica
chiave della civiltà occidentale e dell’uomo veteroeuropeo civilizzato, che riduce la materia a
qualcosa di morto, senza vita spirituale e senz’anima. Secondo Sloterdijk esiste un filone diretto che
lega questa problematica a partire dall’Illuminismo, trovando nelle posizioni junghiane il punto
d’approdo,

I membri delle civiltà moderne, per molte ragioni, non capiscono bene per quale motivo
debbano continuare a compiere l’operazione metafisica di base dell’umanità passata, ovvero il
raddoppiamento (Verdoppellung) del mondo in “questo mondo” e nel suo aldilà, come se il
processo dell’Illuminismo non avesse mai avuto luogo. Che cos’è, infatti, l’Illuminismo se non
una progressiva eliminazione dell’aldilà, che comincia con la riforma platonica del cielo e
l’illuminazione buddhista del Nirvana e finisce con l’introversione della psicologia del profondo
delle “proiezioni” metafisiche?54

Nonostante Sloterdijk appoggi la critica della psicologia del profondo al disincanto


metafisico, l’assunto per cui l’introversione della stessa possa appartenere a un filone storico
illuminista e anti-animista di rimozione dell’altrove metafisico va confutato. A queste parole fa eco
l’analisi di Jung attraverso tutta la sua ricerca psicologica e religiosa, che si può a buon merito
considerare un’annosa risposta all’evento della morte di Dio. 55 Preoccupato dal fenomeno collettivo
del ritiro delle proiezioni e della perdita dell’anima mundi, Jung reagisce al problema causato dal
materialismo scientifico di aver ritratto l’animale (Beseelen) da tutto il mondo circostante,
costringendo il singolo, come abbiamo accennato prima, a farsi carico delle proprie immagini
inconsce,

Per la prima volta dall’alba della storia siamo riusciti a riportare tutto l’animismo primitivo in
noi stessi, e con esso l’animale (Beseeltheit) che animava la Natura. Non solo gli dèi furono
tirati giù dalle loro sfere planetarie e trasformati in demoni ctonici, ma, sotto l’influenza della
scienza dell’Illuminismo, persino questa banda di demoni, che all’epoca di Paracelso erravano
ancora felici per i monti e le foreste, nei fiumi e nelle dimore umane, fu ridotta a un misero
rimasuglio ed è alla fine svanita del tutto. Da tempo immemore, la Natura è sempre stata piena
di anima. Ora, per la prima volta, viviamo in una Natura inanimata, priva di dèi. 56

52
Rimandiamo qui a un classico degli studi etnografici sull’animazione della realtà. Cfr. E. De Martino, Il mondo
magico, Bollati Boringhieri, Torino, 2007.
53
C. G. Jung, Psicologia e religione, tr. it. di E. Schanzer – L. Aurigemma, Bollati Boringhieri, Torino, 1992, p. 491.
54
P. Sloterdijk, Dopo Dio, cit., p. 260.
55
Cfr. P. Bishop, The Dionysian Self, Walter de Gruyter, Berlin and New York, 2010, p. 323.
56
C. G. Jung, Civiltà in transizione..., cit., p. 431.

12
Finché l’uomo poteva vivere una Natura animata da vita psichica, la coscienza non aveva da
temere la nullità e la vuotezza di senso di una realtà ad essa esterna. Il soggetto cioè non era esterno
al mondo o separato da esso, quindi viveva in un tuttuno con la propria dimensione spaziale.
Nell’annuncio dell’uomo nietzschiano, Sloterdijk è concorde nell’affermare che «dopo l’attentato
scientifico al cerchio di protezione [di Dio], anche la magia personale della geometria è spacciata.
Gli uomini sono ormai immanenti soltanto all’esterno». 57 È nel momento in cui le proiezioni
vengono ritirate dall’indagine illuminista che per Sloterdijk, nel caso di Nietzsche, crolla
completamente la sfera di Dio; il mondo è demagificato. La collaboratrice di Jung, Marie-Louise
von Franz, concentrandosi sul problema dell’animazione dello spazio da parte delle proiezioni
psichiche, commenta in merito:

Dov’era però la psiche, l’Anima mundi (definita da Jung inconscio collettivo o psiche
oggettiva)? Per lo più la sua esistenza fu semplicemente negata, e ciò che rimaneva era l’Io
conscio, sul quale l’Io dei diversi pensatori elaborava le sue teorie: Cartesio lo identifica con la
funzione-pensiero (cogito, ergo sum), altri (Spinoza-Hegel) con l’intuizione. 58

La perdita dell’anima mundi equivale per Sloterdijk all’emergere del mostruoso. Che il
mondo sia diventato spaesante e mostruoso significa esattamente ciò che la psicologia del profondo
ritrova nelle civiltà evolute assuefatte dal materialismo. Sloterdijk lamenta la condizione per cui
dopo Dio inizia l’affannosa ricerca ontologica di un nuovo modo di sopravvivere al mondo.

Senza un polo trascendente dove ritirarci, risultiamo inseriti nel Mondo Mostruoso. [...] Se non
c’è un Dio costituente, trascendente, solidale con gli uomini, che abbia per noi un qualche piano
particolare, allora il mondo – nel quale siamo e del quale siamo – è un ipermostro che prende
tempo e spazio per portare avanti la propria creazione. 59

Tuttavia vivere nel mostruoso non significa essere automaticamente privi della carica
immaginale delle immagini psichiche. Sloterdijk riconosce che «in tutte le culture evolute
sopravvivono quote residue di immagini del mondo animistiche» 60, posizione vera anche per la
psicodinamica, dove si ritrovano tentativi di generazione delle immagini del mondo tanto negli
spiriti poetici quanto negli artisti e nei filosofi particolarmente sensibili alle istanze inconsce. A
questo proposito Zoja cita in particolare James Hillman e la sua opera dedicata al problema
dell’anima mundi e alla ricerca delle sue immagini. 61 Hillman nota che «i fenomeni prendono vita e

57
P. Sloterdijk, Sfere II, cit., p. 537.
58
M. L. von Franz, Psiche e Materia, tr. it. di G. A. Vitolo, Bollati Boringhieri, Torino, 1992, p. 122.
59
P. Sloterdijk, Dopo Dio, cit., p. 304.
60
Ivi, p. 300.
61
Cfr. L. Zoja, Psiche, cit., p. 33.

13
diventano portatori di anima attraverso le nostre fantasie immaginose su di essi. Quando non
abbiamo fantasie sul mondo, il mondo è oggettivo, morto».62
La capacità immaginativa dell’uomo permette allora di restaurare un legame psichico con il
mondo attraverso l’esposizione di un senso mitico. Wunenburger riprende nel suo capitolo Il gioco
cosmico, «l’immaginario, attraverso la condotta mitica o il risveglio della fantasticheria, ad
esempio, può rappresentare il medium ineguagliabile per collegare il soggetto al mondo».63 Grazie
alle immagini psichiche, come introdurremo qui ed esporremo nel prossimo capitolo, l’uomo può
ritrovare un senso al suo essere-nel-mondo. Le tracce delle immagini archetipiche creano nuovi
miti, portano con sé l’affezione psichica e il livello di progresso che l’uomo ha raggiunto nel
ristabilire un legame psicontologico con il reale e con il divino. Rianimare il mondo a partire dal
caso di Nietzsche significa esprimere la sua intuizione in termini poetico-filosofici riguardo alla
questione della rinascita divina. Zoja nota che «per Nietzsche, gridare che Dio era morto
significava, paradossalmente, proclamare che il problema di Dio era tragicamente vivo».64
Jung si chiede rispetto alla morte di Dio: «sarebbe però forse più giusto dire “Egli si è
svestito dell’effigie che gli avevamo conferita”, e dove potremo noi ritrovarlo?». 65 Inizia così
l’annoso secolo alla ricerca delle nuove forme dell’archetipo massimo. Di tutto questo sono
testimonianza le immagini e la mitologia di Nietzsche. Nella sua simbolica poetico-filosofica che
abbiamo citato in apertura, il Sole, per riprendere i versi del poeta e filosofo indiano Rabindranath
Tagore, è «generatore del mondo,/ nella cui gloriosa luce/ l'uomo primieramente vide la verace
forma di Dio».66 Dopo che il Sole di Dio è tramontato, anche Zarathustra deve fare lo stesso «come
tu fai la sera, quando vai dietro al mare e porti la luce al mondo infero, o ricchissimo fra gli astri!
Anch’io devo, al pari di te, tramontare, [...]».67 Inabissarsi per Dio vuol dire ricadere nell’inconscio
collettivo, farsi Ombra. Da un lato gli assassini dell’episodio nella Gaia Scienza ridono, non si
rendono neanche conto di cosa hanno perduto, letteralmente della gravità della situazione, prima
che il folle getti la lanterna al suolo, spegnendo l’ultimo fuoco di un’epoca antica; dall’altro,
bisognerà vivere in un mondo flebile come una nave nella tempesta.
Appena nel paragrafo precedente, intitolato Sull’orizzonte dell’Infinito (Im Horizont des
Unendlichen), Nietzsche riprende, con una tipica immagine della Modernità, lo spirito post-
cristiano rovesciatosi nelle esplorazioni marittime:

62
J. Hillman, Anima, tr. it. di Adriana Bottini, Adelphi, Milano, 1989, p. 109.
63
J. J. Wunenburger, La vita delle immagini, cit., p. 115.
64
L. Zoja, Psiche, cit., p. 79. Il corsivo è presente nell’originale.
65
C. G. Jung, Psicologia e religione, cit., p. 93.
66
R. Tagore, Le ali della morte, Guanda Editore, Parma, 1961, p. 73.
67
F. Nietzsche, Così parlò..., cit., p. 5.

14
Abbiamo abbandonato (verlassen) la Terra e ci siamo imbarcati (gegangen) sulla nave! […]
Abbiamo tagliato i ponti alle nostre spalle – e non è tutto: abbiamo tagliato la terra (Land) dietro
di noi. Ebbene, navicella! Guardati innanzi! Ai tuoi fianchi c’è l’oceano: è vero, non sempre
muggisce, talvolta la sua distesa è come seta e oro e fantastica visione di bontà. Ma verranno
momenti in cui saprai che è infinito e che non c’è niente di più spaventevole dell’infinito. Oh,
quel misero uccello che si è sentito libero e urta ora nelle pareti di questa gabbia! Guai se ti
coglie la nostalgia della terra, come se là ci fosse stata più libertà – e non esiste più “terra”
alcuna!68

Verlassen e gegangen sono due parole che indicano rispettivamente il movimento di ciò che
va fuori, di chi abbandona la sua casa fiducioso per non farvi più ritorno, lasciando dietro di sé un
luogo non più accessibile, e di chi nel proprio andare trova la possibilità del suo Esserci, imbarcati
verso chissà dove ma bisognosi di trovare una Land, una terra dove poter mettere piede, esplorare e
colonizzare di nuovo il mondo. La barca lascia la vecchia immagine del mondo e si muove verso
una nuova meta, mentre l’uccello, simbolo dello spirito divino e della trascendenza, è intrappolato
nella gabbia della materia, riferimento alla disanimazione.69 Per Sloterdijk questo movimento
nautico riprende il parallelo tra spedizione marittima dell’epoca moderna e ricerca della verità
inconscia, per cui riprendendo il discorso heideggeriano,

L’“epoca delle scoperte” comprende l’insieme di pratiche attraverso le quali l’ignoto si


trasforma in noto, l’irrapresentato in rappresentato. [...] comprende, di conseguenza, le
campagne di globalizzazione terrestre condotte da quei pionieri che volevano mettere delle
immagini al posto di quelle che fino ad allora erano non-immagini. 70

Con ciascuna di queste immagini, gli esploratori riportavano a casa la prova che non esisteva
niente di esterno al loro mondo, e che quindi il gigantesco e il mostruoso potevano essere domati. 71
Nietzsche parte verso un nuovo mondo nella speranza di rispondere alla domanda “Cosa c’è dopo
Dio?”. Jung stesso in riferimento a Nietzsche e alla sua propria ricerca individuale, scrive l’analista
filosofo Romano Màdera, «pensò il suo confronto con l’inconscio come una sorta di viaggio agli
inferi, di traversata per mare notturno».72
Nel passo Il viandante (Der Wanderer), Zarathustra, partendo dalle isole Beate per
avventurarsi verso un’altra epoca, postosi sulla cima del monte, riesce a scrutare dall’altra parte
un’altra distesa d’acqua, «E quando fu giunto sulla cima del dorso montuoso, ecco davanti a lui
allargarsi l’altro mare: egli ristette e tacque a lungo. Ma la notte era fredda a quell’altezza, e chiara e

68
F. Nietzsche, La Gaia Scienza, cit., p. 162.
69
Cfr. Uccello in ARAS, Il libro dei Simboli, tr. it. di C. Rebecchi – P. Satta – M. Valdettaro, Taschen, Köln, 2010, p.
238.
70
P. Sloterdijk, Sfere II, cit., p. 838.
71
Ivi, p. 839.
72
R. Màdera, Carl Gustav Jung, Feltrinelli, Milano, 2016, p. 86.

15
lucida di stelle».73 Zarathustra sa che non si può attardare, è necessario che egli parta per entrare in
acque diverse, ma a differenza del primo mare più sereno, l’altro mare è un mare che è suscettibile
di calamità e cela in sé l’abisso, la calma prima della tempesta:

Un’ora, facilmente pure due,


fu forse un anno? Sprofondaron sensi
e pensieri ad un tratto in un’eterna
monotonia, ed un abisso (Abgrund) senza
confin si spalancò: – tutt’era scorso!
Venne il mattino: sopra neri abissi
immota sta una barca che riposa...
Che accadde? Si sentì, così gridaron
in cento tosto. Che vi fu? V’è sangue?
Ma nulla accadde! Tutti dormivamo,
Ah, tanto bene dormivamo, tanto!74

Come barche sopra neri abissi, l’immagine poetica della coscienza umana che riposa sulle
acque primordiali, ignara del pericolo. Ma se l’abisso all’inizio si presenta come acque tranquille,
nella quarta parte dello Zarathustra, il maestro d’oriente viene visitato dall’indovino incontrato in
precedenza, che lo ammonisce sull’incombente diluvio,

Le onde attorno alla tua montagna, rispose l’indovino, salgono e salgono, onde di grande
afflizione e mestizia: presto solleveranno anche la tua barca e ti porteranno via”. – A queste
parole, Zarathustra tacque, pieno di meraviglia. – “Non odi ancora nulla? Continuò l’indovino:
non senti lo scroscio mugghiante che vien su dall’abisso? 75

Dio, nel far sparire le sue tracce, suscita dubbi archetipici. Gli uomini del mercato si
domandano: «Si è imbarcato? È emigrato? (Ist er zu Schiff gegangen? Ausgewandert?)»76, e se sì,
verso dove? In quale tempo, in quale luogo, in quali acque nuota il suo spirito e con quale forma
rinascerà? E ancora, chiede Nietzsche, con quale acqua ci laveremo del suo sangue? Le immagini
che rievoca Nietzsche sono parallele all’immaginario dei processi inconsci che la psicologia del
profondo ha recuperato dalla tradizione alchemica. Nei suoi studi sull’alchimia, Jung parla del
simbolo solare relativo al Sol, che Dorneus chiama Primo Dio padre, generatore del Tutto, uno dei
simboli alchemici più tipici dell’archetipo. Nell’opera immaginale il Dio Sol deve essere immerso
nell’“acqua di mare”, uno degli aspetti del principio Mercurio, cioè «l’acqua tifonica dal colore
rosso sanguigno, principio del male»77, per potersi trasformare in una coscienza rinnovata.

73
F. Nietzsche, Così parlò..., cit., p. 179.
74
F. Nietzsche, La gaia scienza, cit., p. 25.
75
F. Nietzsche, Così parlò..., cit., p. 280.
76
F. Nietzsche, La gaia scienza, cit., p. 162.
77
C. G. Jung, Mysterium Coniunctionis, tr. it. di M. A. Massimello, Bollati Boringhieri, Torino, 2013, pp. 91-95.

16
Il simbolo alchemico indica che il mare che irrompe nell’immaginario del momento attraverso
l’arte e la poesia antecedenti le guerre mondiali partecipa della simbologia archetipica propria
dell’inconscio collettivo. Le acque, in quanto immagini materiali, sono da sempre l’iconologia
simbolica della psiche inconscia. Wunenburger descrive qui, prendendo dalla poetica di Bachelard,
come le nostre immagini psichiche si carichino di ulteriori significati cosmologici quando
simboleggiano i quattro elementi: acqua, terra, aria, fuoco, «i quali ci instillano quegli “ormoni
dell’immaginazione” che ci fanno crescere psichicamente». 78 Nell’immaginario del diluvio, secondo
gli alchimisti ripresi dallo psicanalista Edward F. Edinger, «l’inondazione dissolve le strutture della
psiche ormai inutili per la conservazione dell’integrità del Sé, mentre quest’ultimo, simile a un’arca,
preservava quelle ancora utili».79 L’esame dell’immaginazione materiale ad opera di Bachelard
nella sua Psicanalisi delle acque riporta che «L’acqua violenta è uno dei primi schemi della collera
universale. Per cui niente epopee in mancanza di una scena di tempesta»80 (Fig. 5).

Fig. 5 – I. K. Aivazovsky, La nona onda, olio su tela, 1850.

Negli studi culturali di Jay Winter nel suo Il Lutto e la Memoria. La Grande Guerra nella
storia culturale europea (1998), possiamo vedere che il clima culturale e artistico prebellico, a
partire da Nietzsche, era difatti catturato da una imminente anticipazione del conflitto, quella che
l’autore chiama l’arte del presagio. La prevalenza delle immaginazioni artistiche dell’epoca era in
parte segnata da immaginazioni acquatiche segnate da oceani in tempesta e violente inondazioni. Il
poeta Jacob van Hoddis scrive in questo periodo il poema Fine del Mondo (Weltende, 1911) dove
annuncia un dirompere improvviso delle acque agitate:
78
J. J. Wunenburger, Filosofia delle immagini, cit., p. 96.
79
E. F. Edinger, Anatomia della psiche. Simbolismo alchemico nella psicoterapia, tr. it. di G. Casullo, Vivarium,
Milano, 2008, p. 158.
80
G. Bachelard, Psicanalisi delle Acque, tr. it. di M. C. Hemsi – A. C. Peduzzi, Red, Como, 2015, p. 198.

17
Il cappello del borghese dalla sua testa a punta è fuggito,
l’aria riecheggia di un suono stridulo.
I posategole precipitano dai tetti e si schiantano al suolo,
e i mari salgono lungo i litorali (han riferito).

Ecco la tempesta, le dighe crollate più non tengono,


I mari furiosi balzano sulla terra in un secondo.
I più un raffreddore si prendono.
Le strade ferrate precipitano dai ponti in tutto il mondo. 81

L’oceano irrompe nella dimensione spaziale frantumando gli argini e invadendo l’unica
dimora terrestre dell’uomo, mentre l’elemento aereo-metafisico si accompagna al precipitare dai
tetti. A tal proposito, riferendosi al problema delle forme religiose e cultuali, lo studioso delle
religioni Mircea Eliade recupera nella simbolica acquatica l’assunto per cui l’inondazione è
«un’abluzione cosmica e un nuovo inizio»82 che distrugge le vecchie forme e valori originatesi
precedentemente, immagini del mondo ormai invecchiate e deteriorate, intaccando precedenti
sistemi ad essa legati. L’evento del diluvio, nella simbologia dell’acqua e nell’immaginario mitico,
funge da spartiacque tra due diversi periodi storici, nascono nuove forme simboliche che rinnovano
la psiche collettiva, cioè nuovi valori culturali. Si tratta di

Incursioni dall’inconscio che penetrano le nostre difese e sommergono l’Io sottoposto a forti
tensioni, divellendo i suoi appigli alla realtà. Eventi per i quali i membri di un gruppo, travolti
da onde di emozioni e idee numinose, perdono il contatto con i valori comuni. 83

Nel gennaio del 1912 il poeta Rainer Maria Rilke si trova al Castello di Duino per comporre
la prima delle Elegie Duinesi (Duineser Elegien), seguita verso la fine di febbraio dalla seconda.
Ispirato da Nietzsche e Hölderlin, Rilke è pervaso da una poesia che si affanna fin dall’inizio
dell’elegiaco nella ricerca dell’Esserci, il Dasein, usando una terminologia che diverrà poi nota
nell’ontologia heideggeriana. Riprendendo la filosofia dell’Essere di Heidegger ritroviamo che il
Dasein indica essenzialmente l’esistenza propria dell’essere umano, il modo d’essere dell’ente che
possiede un Io costituente che sempre siamo, e che proprio per questo può rapportarsi con e
incontrare il mondo, ponendo come domanda la questione sull’Essere stesso. L’esistenza dell’uomo
per Heidegger è però legata alla dimensione spaziale, soggetto e mondo formano un tuttuno
indivisibile, perché «al Dasein appartiene essenzialmente l’essere-nel-mondo».84 La località
81
M. Hamburger – C. Middleton (a cura di), Modern German Poetry: 1910-1960. An anthology with verse translations,
Macgibbon&Kee, Londra, p. 49.
82
M. Eliade, Trattato di storia delle religioni, a cura di P. Angelini, tr. it. di V. Vacca, Bollati Boringhieri, Torino,
2008, pp. 219-220.
83
ARAS, op. cit., p. 50.
84
M. Heidegger, Essere e Tempo, cit., p. 29.

18
dell’uomo legata alla sua propria spazialità e ricerca di senso può dirsi solo in riferimento a un
luogo, il topos in cui siamo. Il senso (Sinn) del Dasein dischiude ciò che può essere compreso,
perché «solo l’Esserci ha “senso”, e ciò perché l’apertura dell’essere-nel-mondo è “riempibile”
attraverso l’ente in essa scoperto».85
Dopo la morte di Dio, l’immaginario delle acque violente indica che non si riesce più a
mediare con il mondo, l’uomo non è più in grado di sostenere la dimensione terrestre, si perde ogni
direzionalità e si vaga senza centro. Tutto per Rilke si è fatto inabitabile, «Certo, è strano non
abitare (bewohnen) più la terra (Erde)».86 Come è possibile abitare, se è il tempo del diluvio? Come
si può poggiare i piedi per terra, se si è sommersi dalle acque violente? Per citare Joseph Conrad,
che scrive nel 1909 Il compagno segreto, «non era un mare grosso – era un mare impazzito!
Immagino che la fine del mondo possa essere qualcosa di simile». 87 Rilke ne è consapevole, è
rimasto poco del mondo, forse un albero, che cerca di legare a sé cielo e terra mentre offre un
timido approdo. Ma non ci si può opporre alla corrente dei tempi, «L’eterna corrente/ trascina
attraverso entrambi i regni ogni età,/ sempre con sé, ed entrambi sovrasta con il suo suono».88
Analogamente il pittore Kandinskij, attraverso le sue visioni influenzate dalla teosofia,
prevedeva nel 1912 un’imminente catastrofe universale sotto forma di risonanza cosmica (Klang)
che avrebbe distrutto ogni cosa, ma che sarebbe stata altresì «un encomio spassionato della vita,
come un inno di rinascita». 89 Ma è con l’artista Ludwig Meidner che la simbolica acquatica e
rovinosa del mostruoso evento si manifesta in particolare nello spazio urbano del periodo
prebellico. Nella sua vita di artista precario a Berlino, metropoli industriale dall’enorme sviluppo,
Meidner fu ossessionato dall’imminente sensazione di un evento apocalittico, come di un male
necessario.90
Fu questo paesaggio a colpirlo e a entrare nei suoi sogni e incubi, destinato a farsi a pezzi,
«tutto ciò che è fradicio, scellerato, lubrico, buio, infrollito, ulceroso, sotterraneo conviene insieme
in un’unica piaga».91 Lettore fervente dello Zarathustra che alimentò la sua visione, dal 1912 al
1914 dipinge una serie di Paesaggi Apocalittici (Apokalyptische Landschaften) (Fig. 6), tra i
precursori visivi della svolta epocale, visioni che assillano le sue passeggiate notturne:

85
Ivi, p. 187.
86
R. M. Rilke, Elegie Duinesi, a cura di F. Rella, BUR, Milano, 2015, p. 43.
87
J. Conrad, Il compagno segreto, tr. it. di P. De Logu, BUR, Milano, 2009, p. 28.
88
R. M. Rilke, op. cit., p. 47.
89
S. Ringbom, The sounding cosmos. A study of the spiritualism of Kandinsky and the genesis of abstract painting, in
Acta academiae Aboensis, serie A, Humaniora, vol. XXXVIII, n. 2, Abo Abo Akademi, 1970, pp. 58-59.
90
Cfr. J. Winter, Il lutto e la memoria. La grande Guerra nella storia culturale europea, tr. it. di N. Rainò, Il Mulino,
Bologna, 1998, p. 221.
91
T. Grochowiak, Ludwig Meidner, Recklinghausen, Aurel Bonfers, 1966, p. 25.

19
Giorno e notte scaricavo le mie ossessioni sulla tela – giorni del Giudizio, fine del mondo, e
teschi impiccati, poiché in quei giorni la grande tempesta universale stava già scoprendo i denti
e gettando la sua accecante ombra gialla attraverso la mia piagnucolosa mano-pennello. 92

Fig. 6 – L. Meidner, Apokalyptische Landschaft, acrilico


su tela, 1912/1913.

Nella sua ricca introduzione al Libro Rosso, lo storico della psicologia Sonu Shamdasani
evidenzia che era caratteristica comune dell’ambiente culturale dell’epoca essere invaso da
previsioni di una catastrofe universale, citando tra gli altri proprio Kandinskij e Meidner in
riferimento all’opera junghiana.93 Jung vive gli stessi presagi sotto forma di visioni spontanee,
assalti delle immagini inconsce alla sua psiche, che lo colsero d’improvviso a partire dall’ottobre
del 1913. Mentre lo psicanalista stava viaggiando in treno verso Sciaffusa,

vidi una spaventosa alluvione che inondava tutti i bassopiani settentrionali situati tra il Mare del
Nord e le Alpi. Andava dall’Inghilterra alla Russia e dalle coste del Mare del Nord fin quasi alle
Alpi. Vedevo i flutti giallastri, le macerie galleggianti e la morte di innumerevoli persone. 94

Questa visione si ripeté due settimane dopo nelle medesime circostanze, al punto che Jung
confessò successivamente che ipotizzò di star diventando schizofrenico:

Una notte dell’inverno seguente mi trovavo a guardare alla finestra in direzione nord. D’un
tratto scorsi un bagliore di colore rosso sangue – una specie di luccichio marino visto da lontano
– che si estendeva da est a ovest sull’orizzonte settentrionale. In quel momento qualcuno mi
chiese che cosa pensavo sarebbe accaduto nel mondo nell’immediato futuro. Risposi che non ne
avevo idea, ma che vedevo sangue, sangue a fiumi. 95
92
L. Meidner, Mein Leben, in L. Brieger, Ludwig Meidner, Junge Kunst, Klinkhardt und Biermann, Leipzig, 1919, p.
12.
93
Cfr. C. G. Jung, Il Libro Rosso, cit., p. XL.
94
Ivi, p. 11.
95
C. G. Jung, Jung Parla, a cura di W. Mcguire – R. F. Hull, tr. it. di A. Bottini, Adelphi, Milano, 1995, pp. 299-300.

20
In questo periodo del dicembre 1913 inizia l’indagine di Jung nell’inconscio collettivo, il suo
esperimento più importante con le immagini inconsce che sfocerà poi nel Libro Rosso. Seguendo lo
studio di Màdera, il Libro Rosso o Liber Novus è stato scritto per confrontarsi con la mancanza di
Dio e attingere alla capacità creativa dell’individuo per far fronte alla crisi del mondo mostruoso e
di involucri metafisici nel mondo. Nell’opera vi è un’unione di biografia e teoria che riguarda un
«rinnovamento che nasce da una distruzione profonda che stava scuotendo e frantumando le stesse
radici della cultura e del sentire europeo».96 Novus, perché riprende hölderlinianamente la via di ciò
che ha da venire, attingendo agli studi biblici su Isaia e Giovanni. Il viaggio di Jung nell’interiorità
mira a recuperare un legame con l’archetipo divino inabissato, attraverso il mito cristiano della
morte e resurrezione di Cristo.
Addentrandosi nella questione parallela, Heidegger scrive i Contributi alla filosofia
(Dall’evento) tra il 1936 e il 1938, pubblicata postuma nel 1989, di cui tratteremo qui in particolare
l’ultima sezione riguardante l’ultimo Dio (der letzte Gott). Ci aiuterà seguire il discorso
sull’archetipo divino che impegna entrambi gli autori, per capire in che modo i due si intreccino in
un dialogo che va ad alimentare l’opera di Sloterdijk. Una volta perduta la metafisica cristiana, pure
Heidegger comprende come Jung che l’essenza di Dio non è legata più ad una questione di fede, né
tantomeno all’Essere. Se il Sole di Dio è tramontato, può solo scendere sul mondo la Notte cosmica.
In Perché i poeti?, successivo alla Kehre, attraverso il dialogo filosofico-poetico con la domanda di
Hölderlin nell’elegia Pane e Vino (Brot und Wein)97, il filosofo pone l’accento proprio sull’epoca
odierna come il tempo della povertà e della mancanza. Nella poesia di Hölderlin, in particolare la
lirica Patmos, Heidegger distingue l’epoca della transizione attuale in parallelo all’originaria venuta
del cristianesimo rispetto all’epoca precristiana, mentre segue le metamorfosi dell’archetipo di
Cristo dall’eroe greco erculeo al dio cristiano:

Con la venuta e il sacrificio di Cristo ha avuto inizio, secondo la concezione storica di


Hölderlin, la fine del giorno degli dèi. È caduta la sera. Da quando i “tre che sono uno”: Ercole,
Dioniso e Cristo, hanno lasciato il mondo, la sera del tempo mondano va verso la notte. La notte
del mondo distende le sue tenebre. Ormai l’epoca è caratterizzata dall’assenza di Dio, dalla
mancanza di Dio.98

La Notte si contraddistingue come quella dimensione dove l’elemento terrestre non può più
fungere come fondamento. La tematica acquatica del mondo culturale dell’epoca si ritrova nella
corrispondenza tra Notte e Mare delle Tenebre esaminata da Bachelard nel suo studio sulle acque
96
R. Màdera, op. cit., p. 82.
97
F. Hölderlin, Tutte le Liriche, tr. it. di L. Reitani, Mondadori, Milano, 2015, p. 916.
98
M. Heidegger, Perché i poeti?, in Id., Sentieri interrotti, cit., p. 246.

21
sotterranee, dove «la notte è un velo che ricopre con la sua presenza tutta la terra. In questo
l’immaginazione materiale racchiude le acque del male, acque oscure che fanno gemere le
creature».99 Nella Notte siamo persi, perché essa «come la dea egizia Nut, divora il Sole, nel sonno
l’inconscio inghiotte la luce della coscienza e delle presenze divine, vi è assenza di significato».100

Fig. 7 – H. Clarke, A Descent into the Maelström, illustrazione


per l’omonimo racconto di E. A. Poe, 1919.

Il notturno spalanca l’Abgrund (Fig. 7), l’abisso senza fondo dell’Essere come appare per la
prima volta in Essere e Tempo in riferimento alla costituzione di senso dell’Esserci nell’epoca della
morte di Dio. Questo evento, avendo segnato il compimento della metafisica e la sua fine, per
Heidegger ha privato l’uomo di ogni fondamento su cui la sua esistenza, intesa sia come Esserci in
quanto esistenza nel mondo, sia come significato individuale relativo ad ogni singolo uomo, si era
fondata fino ad allora. Se l’Essere è solo in quanto trova la sua ragione e causa nel fondamento,
questo è accessibile «solo come senso, quand’anche esso fosse l’abisso del senza senso».101
Heidegger confuta che dietro ogni fondamento metafisico c’è sempre un abisso vuoto pronto a
venire alla luce nel momento in cui il fondamento si incrina. Ciò contraddistingue un unico
interminabile inverno «in cui le tenebre sembrano avvolgere tutto e sottrarre all’uomo ogni

99
G. Bachelard, Psicanalisi delle acque..., cit., p. 135.
100
ARAS, op. cit., p. 98.
101
M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 188.

22
protezione».102 A causa dell’Abisso, il mondo e il suo significato scompaiono, l’elemento abissale si
mostra capace di risucchiare il Dasein e minacciare costantemente la sua mondità. Nonostante
questo, è proprio lì che per Heidegger è possibile trovare il fondamento dell’Esserci, infatti
«l’Esserci nella sua trascendenza è fondamento, Grund, solo come Ab-grund, come assenza di
fondamento, come abisso senza fondo».103 Cosa più necessaria «[...] l’abisso va riconosciuto e
subito fino in fondo. Ma perché ciò abbia luogo occorre che vi siano coloro che arrivano
all’abisso».104
Risuona qui il monito di Nietzsche, la necessità di vincere l’ombra di Dio 105, ma per farlo, in
Heidegger come in Jung bisogna addentrarsi nelle viscere dell’inconscio collettivo attraverso la
parola poetica, in pieno accordo con il fondamento hölderliniano che «lì dove sorge il pericolo,
cresce anche ciò che salva».106 Chi ha il compito di preparare questo nuovo avvento sono i Venturi
(die Zukünftingen), poeti e pensatori, ma in ambito più ampio, tutti coloro che accettando la realtà
dell’Ab-grund, potranno discendervi in un cammino ad inferos per poter cogliere nuovamente il
Dio.
Il loro compito però deve prendere esempio da Nietzsche, un caso che fa epoca perché mostra
che «non si può cacciare un dio senza crearne un altro, il pericolo che corriamo è quello di
sostituirci a Dio, di fare a meno di Dio perché i nostri piccoli e risibili ego si erigono a nuovi dèi». 107
Per questo Jung e Heidegger partono proprio dal mito di Cristo,

Dopo la morte in croce, Cristo discese nel mondo infero e divenne inferno. Così assunse le
sembianze dell’Anticristo, del drago. L’immagine dell’Anticristo, che gli antichi ci hanno
tramandato, annuncia il nuovo Dio.108

Il Cristo va quindi riunito in una congiunzione degli opposti al suo elemento rimosso, in un
passaggio dalla forma trinitaria a quella quaternaria che includa anche il male, la terra, il materico.
Nei seminari sullo Zarathustra Jung critica a Nietzsche che il dilemma spirituale nietzschiano
consiste nel non aver voluto accettare la natura del sacrificio e della compassione, che quindi non ha
portato alla nascita di un nuovo Dio nella sua psiche: «il grande profeta che ha precorso quest’epoca

102
A. Di Chiro, Il tentativo di liberare Dio dalla questione dell’Essere. Appunti sul rapporto Essere-Dio in Heidegger,
in Id. (a cura di), La notte del mondo. Luoghi del senso, luoghi del divino, Mimesis, Milano, 2010, p. 10.
103
G. Vattimo, Introduzione a Heidegger, Laterza, Bari, 1996, p. 66. Si ricordi che questo aspetto del pensiero
heideggeriano è maggiormente comprensibile se si tiene conto dell’ispirazione orientale che ha interessato il filosofo.
104
M. Heidegger, Perché i poeti, cit., p. 248.
105
Cfr. F. Nietzsche, La Gaia Scienza, cit., §108, p. 148.
106
F. Hölderlin, Tutte le Liriche, cit., p. 314.
107
R. Màdera, op. cit., p. 81.
108
F. De Luca Comandini – R. Mercurio (a cura di), L’immaginazione attiva, Vivarium, Milano, 2002.

23
ha rifiutato la sua personale miseria ed è stato costretto nell’abisso della follia a celebrare una Santa
Cena con essa».109
Certo, non si può più risanare o restituire all’ultimo Dio un’immagine collettiva metafisica
che sia immagine del mondo, perché se ciò fosse possibile «il Dio estremo cesserebbe di essere
tale».110 La questione principale, riprende Sloterdijk, non è soltanto che Dio è morto, ma che in
Nietzsche Dio resta morto.111 Il cammino dei Venturi è un cammino solitario, in cui vige «la
necessità che si imporrà a tutte le vite future di affermarsi grazie al proprio autoaiuto creativo
[...]».112 Indubbiamente è possibile per Heidegger che questo sforzo possa dare inizio ad una nuova
Storia, ma per il filosofo d’ora in poi quest’attimo «appartiene ormai soltanto alle più solitarie
solitudini, cui resta però precluso l’accordo fondante dell’istituzione di una storia».113

Fig. 8 – La discesa sulle acque inconsce in C. G. Jung, Il Libro


Rosso, cit., p. 55.

Scendendo nell’inconscio collettivo dilaniato dall’epoca (Fig. 8), l’ultimo Dio è un Deus
Absconditus, un dio cioè che si è spogliato di tutta la sua essenzialità, finendo col diventare
109
C. G. Jung, Il Libro Rosso, cit., p. 320.
110
A. Di Chiro, op. cit., p. 50.
111
Cfr. P. Sloterdijk, Sfere II, cit., p. 533.
112
Ivi, p. 537.
113
M. Heidegger, Contributi alla filosofia, cit., p. 400.

24
l’abitante di una zona di confine indefinibile, puro archetipo: egli «resta sospeso e imbrigliato ad un
inizio che non è origine».114 Essendo intrappolato nell’interregno, non è abbastanza per essere un
dio, non può neanche realizzarsi e rivelarsi pienamente; quindi non può donare una dimensione
accogliente e permettere la propria comprensione dove si possa circoscriverne uno spazio
dimorante. Di conseguenza per Heidegger non è neanche possibile erigerne i templi:

il Dio non appare in un’“esperienza vissuta”, sia essa “personale”, o “di massa”, bensì
unicamente nello “spazio” abissale dell’Essere stesso. Tutti i “culti” e le “chiese” invalsi finora,
e cose del genere, non potranno essere l’essenziale preparazione dell’incontro dell’uomo e del
Dio nel centro dell’Essere.115

Questo Dio senza immagine alloggia nel vuoto, ci apre allo spaesante (Un-heimlich) che non
conosce insediamento, è mostruoso perché è presente pure nella sua assenza, risiede nell’abisso
dove non esiste fondamento, nell’Un-grund, condannato ad essere un elemento fluttuante, sospeso,
sempre oscillante tra due orizzonti, incapace di potersi radicare e di offrire o trovare protezione. È
un dio che transita rapidamente, a un tempo vittima ed essenza stessa di quella corrente rilkiana che
trascina tra due immagini del mondo diverse, una in cui è presente il Dio metafisico del
cristianesimo, l’altra attuale in cui ogni immagine divina è venuta meno. Non essendo più
rappresentato o indicato in una sua forma archetipica tradizionale, l’unico modo in cui il dio si fa
presente all’uomo è attraverso l’immagine e l’atmosfera indefinita della Notte del mondo rievocata
da Heidegger, scesa sull’elemento della terra che racchiude lo spazio nella fuga e nella mancanza
del tramonto.116
Come per Nietzsche e Jung, l’ultimo Dio si libera di ogni immagine tradizionale. Nel Libro
Rosso Jung scrive

Il Dio appare in molteplici forme. Quando compare, ha in sé qualche aspetto della notte e delle
acque notturne in cui è rimasto assopito e in cui ha lottato per rinnovarsi nell’ultima ora della
notte. La sua apparizione è perciò contraddittoria e ambigua; anzi, è persino straziante per il
cuore e la ragione.117

Nell’esplorazione junghiana, l’immagine archetipica del vecchio Dio cristiano viene


trasfigurata. Non è più possibile rappresentare l’archetipo con le stesse immagini di prima. Tuttavia
l’elemento risolutivo che permette di recuperare il rapporto immaginale è sempre «qualcosa di

114
A. Di Chiro, op. cit., p. 48.
115
M. Heidegger, Contributi alla filosofia, cit., § 256, p. 407.
116
Cfr. E. Forcellino, Donazione e ricusa. Nota sulla negatività dell’essere e il cenno dell’ultimo Dio nei Beiträge zur
Philosophie (vom Ereignis) di Heidegger, in R. Bruno – F. Pellecchia (a cura di), Nichilismo e redenzione, Franco
Angeli, Milano, 2003, p. 94.
117
C. G. Jung, Il Libro Rosso, cit., p. 271.

25
antichissimo, e proprio per questo qualcosa di nuovo, perché quando una cosa passata da molto
tempo ritorna, oggi, in un mondo mutato, è nuova».118
Per Heidegger, nonostante questo Dio venga pensato in opposizione agli dèi già avvenuti,
Dio cristiano compreso, la sua differenza sorge ed è inficiata dalle sue tracce storiche, le
denominazioni greche e cristiane che ne hanno segnato l’identità nel corso delle varie epoche.
L’uomo allora si trova nella posizione di non poter fare a meno di pensare questo Dio, ma altresì di
non avere un linguaggio adatto per nominarlo, perché il filosofo sente che la terminologia della
tradizione occidentale è ancora troppo legata alle incarnazioni precedenti della divinità. 119 Jung, in
questo riprendendo il discorso nietzschiano e in parallelo con Hölderlin, è qui estremamente vicino
a Heidegger, come ricorda Paul Bishop. Già ripresa all’inizio degli anni ’30 nel suo ciclo di
seminari Visioni, e poi recuperata nel Mysterium Coniuctionis e nel suo Psicologia e Religione, la
lettura di Nietzsche da parte dello psicanalista mira a trovare una congiunzione storica tra la morte
di Dio riportata da Nietzsche e la morte del dio Pan avvenuta alla fine dell’antichità, in
concomitanza con l’inizio dell’era cristiana. Scopo della lettura è legare la storia di Dio come la
storia delle diverse forme archetipiche di Dio, intese come diverse fenomenologie dell’archetipo del
Sé, pronosticandone la rinascita:

Mettendo sullo stesso piano la morte del Dio (cristiano) e la morte di Pan, il dio della natura che
condivideva molti degli attributi classici di Dioniso, Jung implica che ci sarà sicuramente una
resurrezione o un ritorno di un dio (non necessariamente cristiano): Pan si unisce a Cristo e alla
compagnia di dèi morenti e resuscitanti il cui rappresentante supremo è l’archetipico Dioniso. 120

L’epoca moderna è caratterizzata non soltanto dalla scomparsa degli dèi, ma anche dalla
loro assenza. Così in Heidegger, come in Jung, si presenta nei Contributi l’attesa di un evento che
porti a far sorgere nuove immagini del divino. Accantonando la concezione metafisica dell’onto-
teo-logia cristiana, l’ultimo Dio abbandona la fede edulcorata di una particolare corrente religiosa e
immagine del mondo per immergersi nel puro Sacro dell’inconscio collettivo. Il filosofo tedesco
però non ritiene che le nuove immagini di Dio possano essere totalmente altro rispetto a ciò che in
parte si è già manifestato nell’Occidente, perché come ricorda Di Chiro,

La sfera del divino alla quale appartengono gli dèi greci e il Dio cristiano, nella quale rientrano
Dioniso e Cristo, non è solamente ciò da cui proviene l’Occidente, non solo ciò in cui esso si
mantiene e resta, ma soprattutto ciò che lo attende nelle sempre nuove figure che assume
l’evento.121

118
Ibidem.
119
Cfr. M. Heidegger, Contributi alla filosofia, cit., p. 409.
120
P. Bishop, op. cit., p. 334.
121
A. Di Chiro, op. cit., p. 50.

26
La possibilità di far riemergere il dio sarà quindi debitrice dell’insieme archetipico, dato che,
se anche nuove forme potranno emergere, queste attingeranno alla precedente incarnazione della
tradizione metafisica e ontologica occidentale, saranno diverse immagini reiterate della stessa
esperienza primigenia. Ovvero, non è possibile distaccarsi da quel fondo comune che è l’Essere così
come è stato pensato nel nostro emisfero. Questo porta Heidegger a realizzare che per approntare
l’evento che ha da venire, l’uomo deve ritornare alle sue origini, «[...] deve divenire ciò che già da
sempre è. Emerge insomma un circolo che non è solamente il circolo dell’ermeneutica, ma quello
più di fondo del sacro».122
L’ultimo Dio per Heidegger è allora un Dio che manca, che è mancanza stessa e abita tale
mancanza, da riscoprire, come pure comprende Jung, attraverso ogni singolo uomo. Si tratta di un
Dio fantasma, l’archetipo di Dio, che può essere solo atteso, e che non porta con sé nessuna
redenzione, nessuna escatologia e nessuna questione di fede. Non esiste altro compito per l’uomo
heideggeriano che attendere la venuta di un altro Dio, rifacendosi alla transitorietà (Wanderschaft)
che racchiude nella sua radice il migrare (Wanderung), come ricordavano gli assassini in Nietzsche.
In questo essere transitorio si trova la realtà del fiume di Hölderlin. Canta Adamas in Iperione, «è
un dio in noi, [...] che guida il destino come se fosse un torrente e tutte le cose sono suo
elemento».123
Nelle sue lezioni sull’inno L’Istro (Der Ister, 1942) Heidegger riscopre l’immaginario
archetipico del fiume, si avvicina alla sorgente del divenire eracliteo attraverso la parola
hölderliniana. Il filosofo tedesco dialoga con la realtà poetica più adatta a descrivere la transizione
che sente prendere atto nel secolo, e a comprendere l’evo. È qui che Heidegger recupera
dall’Antigone di Sofocle l’Ungeheure, lo spaesante e mostruoso così come tradusse Hölderlin,
perché è allo stesso tempo vasto e indefinito, che è anche unheimlich, inquietante e dalle molte
pieghe, molteplice, come il caos. Volendo brevemente constatare il mostruoso in Heidegger e in
Sloterdijk, si è visto precedentemente che il secondo considera il mondo mostruoso perché
disanimato.
La disanimazione che crea un mondo oggettivato si lega all’assunto heideggeriano, per cui
l’inquietante poggia sull’inaccessibilità della propria essenza, indica ciò che non è ordinario, e di
conseguenza chi vi transita è spaesato. Cioè il mondo è inquietante e mostruoso non soltanto perché
le sue proiezioni sono ritirate, ma anche perché non è possibile ritrovarvi un luogo delimitato e

122
A. Fabris, L’ateismo di principio della filosofia, la provenienza della fede in Cristo, il dio crocifisso, e il permanere
di istanze teologiche nell’attesa dell’ultimo Dio, in S. Zucal (a cura di), Cristo nella filosofia contemporanea. Vol. 1:
Da Kant a Nietzsche, San Paolo, Roma, 2000, p. 671.
123
F. Hölderlin, Iperione, tr. it. di G. V. Amoretti, Feltrinelli, Milano, 2009, p. 38.

27
accogliente dove dimorare. «L’esser-spaesato non è il semplice distacco da ciò-che-è-di-casa, ma è
piuttosto al contrario, una ricerca ed una cernita di ciò-che-è-di-casa incapace a volte di
conoscersi».124
Il fiume però è «la località della transitorietà, perché determina il là e il qui ai quali il farsi-di-
casa perviene, dai quali però, in quanto farsi-di-casa, anche proviene». 125 Il fiume garantisce il luogo
non solo nel senso del semplice spazio occupato dall’abitare dell’uomo, lo stesso contiene il luogo
ed esso stesso abita nella fecondazione nel proprio transitare. Essi sono «corsi d’acqua che scorrono
come il Tempo, come vene della Grande Madre Terra».126 Nei fiumi si transita da una sponda
all’altra, venendo incontro al corpo materico della Madre, per cui vengono identificati con il
principio femminino stesso. Heidegger ne è consapevole, perché riprendendo il nome del fiume
Hertha dalle liriche del poeta svevo, indica il dileguare del fiume come «proveniente da nerthus, il
nome con cui i Germani indicavano la terra mater, la Mutter Erde».127 Il filosofo cerca di arginare
le mostruose acque dell’immaginario del diluvio e l’indefinitezza dell’ultimo Dio per recuperare il
fondamento dell’Essere e dell’uomo nell’immaginale femminino. Dice von Franz,

Poiché l’elemento femminile non era contenuto nella Trinità divina, il principio femminile
rende percepibile la sua presenza. Proprio per il fatto che la materia non era più inserita nella
totalità divina, nacque un concretismo compensatorio, materialistico, portatore della catastrofe
degli elementi del secolo, quasi fosse una vendetta dell’archetipo materno rimosso. [...] La
precedente alleanza tra spirito-padre e madre-materia era fallita. 128

A causa di questa scissione, per la psicologia del profondo l’elemento materico della psiche
andava reincontrato, l’archetipo paterno ristabilito. Sloterdijk, in un commento informale riportato
da Antonio Lucci, dice: «In fondo tutta la filosofia del ’900 cos’è, se non questa oscillazione tra la
perdita del padre e la sua ricerca?». 129 Dove la perdita del padre non è soltanto ripresa
simbolicamente e teologicamente nel tramonto di Dio; l’archetipo del Padre consiste nella perdita di
un elemento regolatore con l’altrove, una tradizione, una legge, che faccia da ponte tra l’interno
della propria dimensione familiare e il mondo esterno. Il Padre divino porta nella sua Ombra tutto il
sistema di valori propri del suo tempo e della sua costituzione morale, per cui la crisi del secolo
breve si compie pienamente nel segno della transitorietà di un centro macrostorico che non è più
presente.130

124
M. Heidegger, L’Inno Der Ister di Hölderlin, tr. it. di C. Sandrin – U. Ugazio, Mursia, Milano, 2003, p. 69.
125
Ivi, p. 35.
126
ARAS, op. cit., p. 40.
127
M. Heidegger, L’Inno Der Ister..., cit., p. 31.
128
M. L. von Franz, Psiche e Materia, cit., p. 121.
129
Cit. in A. Lucci, Per un’acrobatica del pensiero, Aracne, Torino, 2015, p. 23.
130
Per una panoramica sulla funzione del Padre, cfr. L. Zoja, Il gesto di Ettore, Raffaello Cortina, Milano, 2016, p. 61.

28
II. Dal Dio mostruoso allo spazio extraterrestre. Per una metafisica trasfigurata.
Un’ulteriore indagine della relazione immaginale tra Sloterdijk e Jung passa attraverso la
trasformazione dell’immagine archetipica di Dio, che abbiamo fin qui presentato. Con l’avvento di
Nietzsche, Sloterdijk e Jung vedono la nascita di una nuova visione del mondo con il riferimento a
motivi immaginali che raccontano della perdita di Dio. Abbiamo visto che la morte di Dio per
Sloterdijk «designa in primo luogo una tragedia morfologica – l’annientamento della sfera
dell’immunità che dà soddisfazione a livello immaginario». 131 Senza il contenitore divino,
l’immaginale occidentale non offre più protezione, dando origine alle fenomenologie del diluvio e
dell’Abisso. Ma in questo frangente, continua Sloterdijk, l’archetipo divino non è semplicemente
scomparso dalla psiche collettiva. L’immagine della sfera divina si è trasformata, rendendosi più
mostruosa e ostile, «adesso Dio diviene ciò che non è chiaro, ciò che non è simile, senza forma –
per la facoltà immaginativa umana un mostro, un non-contenitore, un buco assoluto e un non
motivo»132 (Fig. 9).
Per comprendere meglio queste affermazioni, ci si riferirà ad un particolare processo che
esamineremo qui con il commentario junghiano. Capire il retroterra su cui poggia la sferologia, e le
parole di Sloterdijk sulla natura di Dio, che possono sembrare a prima vista ostiche, richiede rifarsi
alle letture junghiane unite al pensiero simbolico di Schmitt e Jünger, autori presenti assieme a Jung
nell’entourage sloterdijkiano, e con lo psicanalista legati dalla stessa ricerca sulla simbologia
teriomorfica del Dio ebraico e del mostruoso. Riporta Zoja

Se la divinità viene repressa e sparisce dalle forme visibili, non spariranno i bisogni umani che
l’avevano formulata nella notte dei tempi. Riapparirà però in forme inconsce, quindi inattese,
spesso degenerate o malate.133

131
P. Sloterdijk, Sfere II, cit., p. 115.
132
Ivi, p. 116.
133
L. Zoja, Psiche, cit., p. 79.

29
Fig. 9 – M. Ernst, L'Angel du foyer, collezione privata, 1937.

Riallacciandosi alla fenomenologia del diluvio e dell’abisso, fa qui da ponte la poesia del
poeta ermetico William B. Yeats, La Seconda Venuta (The Second Coming, 1919), intrisa di
immagini giovannee che richiamano l’atmosfera apocalittica tra le due guerre mondiali,
ricollegando l’esperienza psico-ontologica appena esaminata alla regressione animale dell’archetipo
di Dio:

Turning and turning in the widening gyre


The falcon cannot hear the falconer;
Things fall apart; the centre cannot hold;
Mere anarchy is loosed upon the world,
The blood-dimmed tide is loosed, and everywhere
The ceremony of innocence is drowned;
The best lack all conviction, while the worst
Are full of passionate intensity.

Surely some revelation is at hand;


Surely the Second Coming is at hand.
The Second Coming! Hardly are those words out
When a vast image out of Spiritus Mundi
Troubles my sight: somewhere in sands of the desert
A shape with lion body and the head of a man,
A gaze blank and pitiless as the sun,
Is moving its slow thighs, while all about it
Reel shadows of the indignant desert birds.
The darkness drops again; but now I know
That twenty centuries of stony sleep
Were vexed to nightmare by a rocking cradle,
And what rough beast, its hour come round at last,
Slouches towards Bethlehem to be born?134

134
W. B. Yeats, L’opera poetica, tr. it. di A. Marianni, Mondadori, Milano, 2005, p. 681.

30
Come nel caso di Jung e di Rilke, continua imperterrita la realtà simbolica della marea di
sangue che si riversa sul mondo. Anzitutto ritroviamo l’immagine del falco che non può più sentire
il falconiere, in altri termini viene riconfermata la scissione tra l’elemento trascendente-metafisico e
l’elemento immanente della realtà, in guisa degli Angeli di Rilke. Yeats non solo sente che il
centro, cioè l’archetipo accentratore che tiene insieme la realtà, non può più reggere tutto lo spazio
dell’esistenza, ma a causa della sua perdita, l’oscurità scende di nuovo, e in questa tenebra inconscia
torna una bestia tremenda, che striscia verso Betlemme, roccaforte natale della cristianità. Yeats si
riferisce alla forma bestiale dell’Anticristo, così come viene presentata nell’Apocalisse. Con parole
analoghe a quelle di Sloterdijk, Jung scrive: «quando il Dio invecchia, diventa ombra, nonsenso, e
decade».135

Fig. 10 – P. Lastman, Giona e la Balena, Museum Kunstpalast, 1621.

L’immagine di Dio ora si perde nelle raffigurazioni delle forze elementari che scuotono il
mondo, il suo inabissamento riporta alla coscienza grandi mostri animali (Fig. 10), il suo archetipo
si è scisso in elementi teriomorfici che strisciano per rinascere nella culla del Cristo come le bestie
dell’Apocalisse. Nel lavoro Aion: ricerche sulla fenomenologia del Sé (Aion: Untersuchungen zur
Symbolgeschichte, 1951), Jung specifica a proposito che

La profezia cristiana riguardo l’Anticristo, e certe idee nella tarda teologia ebraica, potrebbero
averci suggerito che la risposta cristiana al problema di Giobbe omette il corollario, la sinistra
realtà che viene adesso mostrata di fronte ai nostri occhi dalla scissione del nostro mondo: la
distruzione dell’immagine di Dio è seguita dall’annullamento della personalità umana.136

135
C. G. Jung, Il Libro Rosso, cit., p. 50.
136
Cfr. C. G. Jung, Aion: ricerche sulla fenomenologia del Sé, tr. it. di L. Baruffi, Bollati Boringhieri, Torino, 1997, p.
109. Il corsivo è presente nell’originale.

31
L’imago Dei, essendo legata indissolubilmente al senso del Sé nell’uomo, nel caso in cui sia
avvolta da una qualche indefinitezza, causa una dolorosa influenza sull’inconscio umano. Questa
azione è ancora più incisiva nel caso di archetipi collettivi come Dio. Ciò che si trova più distante
dalla chiarezza della coscienza assume «una forma minacciosa, e l’effetto cresce man mano che si
sale nella scala archetipica: l’Io, l’Ombra, l’Anima, il Sé». 137 Per Jung, essendo Dio un valore
oggettivo collettivo, la mancanza di un rapporto equilibrato e mediato nei confronti della coscienza
soggettiva, è esemplificato dal fatto che il dio si relaziona con la coscienza tramite un attributo
sussidiario, per esempio «come quando un dio è rappresentato dai suoi attrbitui teriomorfici» 138
oppure elementali. Nel Libro Rosso, nella ricerca di una nuova immagine di Dio, la coscienza
discende nell’inconscio collettivo e ritrova Dio come una massa indistinta e caotica,

Giacché sono caduto nella sorgente del caos, nell’elemento primordiale, vengo io stesso rifuso
in lega con l’elemento primordiale, che è al tempo stesso ciò che è stato e ciò che sta
diventando. Anzitutto pervengo all’elemento primordiale che è in me. Tuttavia poiché sono
parte della materia del mondo, pervengo anche all’elemento primordiale del mondo stesso. 139

Ritrovare il caos primordiale in sé vuol dire allo stesso tempo ritrovare l’elemento aorgico
che dà origine al mondo. Jung torna alla materia grezza della natura e della vita così come
Heidegger vede sorgere dall’originario naturale tratto dalla poetica di Hölderlin tutti gli enti e la
loro apparenza. «Caos significa innanzi tutto lo sbadiglio, uno spacco che si spalanca, l’aperto, già
prima aprentesi, in cui tutto è inghiottito». 140 Il caos è il meramente confuso, il più antico rispetto a
ciò che lo precede, e allo stesso tempo il più nuovo rispetto a ciò che ne segue. Di fronte a questo
apparente paradosso, si erge la necessità di una legge: «come possono stare insieme chaos e nomos
(legge)?», chiede il mago di Meßkirch.141
In questo miasma l’opera di Carl Schmitt, da Terra e Mare (Land und Meer, 1942) a Il
nomos della terra (Der Nomos der Erde, 1950), si pone nel tentativo di ritrovare le dimensionalità
elementari che definiscono lo spazio umano, non solo nell’ambito del diritto internazionale, ma
soprattutto nell’ontologia esistenziale. Schmitt vuole ridefinire i rapporti di queste due realtà,
l’oceanico e il terrestre, che si scuotono l’un l’altro, si ricordi il precedente quadro di Meidner, nel
paesaggio apocalittico del secolo, in un’immagine che attinga a simbologie vicine alla psicologia
del profondo, essendo Schmitt un pensatore sensibile a quelle visioni e pensieri che nascono dalla

137
Ivi, p. 28.
138
Ivi, p. 29.
139
C. G. Jung, Il Libro Rosso, cit., p. 66.
140
M. Heidegger, La poesia di Hölderlin, tr. it. di. L. Amoroso, Adelphi, Milano, 1988, p. 77.
141
Ivi, p. 76.

32
dimensione simbolica, dove «l’elementare e l’arcano coincidono nel loro insondabile potere». 142 Si
tratta di riferimenti immaginali all’inconscio collettivo.
Per Schmitt, seguendo il commento a Terra e mare di Franco Volpi Il potere degli elementi,
bisogna indagare seguendo le forze mitologiche primordiali che sono all’opera oltre la storia
universale ma nondimeno si realizzano in essa, ponendo attenzione agli inesauribili miti e
cosmogonie presocratici, come risorsa mitopoietica fondamentale per l’uomo143, attingendo come si
è descritto precedentemente allo stesso serbatoio di Bachelard, Nieztsche e Jung. Volpi ricorda che
Schmitt è accomunato nella ricerca di una ripresa dell’elemento terrestre con Heidegger, Bachelard,
e con l’amico Jünger, che nel suo studio sul tempo storico, come Jung, nota che «l’elemento mitico
permane vivo, specialmente là dove ci si imbatte in confini temporali: nel caso di nascita e morte,
nelle guerre e nelle catastrofi di ogni sorta».144
Per questo è possibile esaminare la sua opera attraverso il simbolo psicoalchemico che
conduce alla dimensione inconscia. Seguendo la lettura schmittiana di Matteo Vegetti nel suo
L’invenzione del globo (2018), assieme a Schmitt viene ripresa l’opera Globus. Per una teoria
storico-universale dello spazio (Globus. Studien zur weltgeschichtlichen Raumlehre, 1917) di Karl
Rosenzweig145, in cui il filosofo legge la perdita del centro come perdita del fulcro spaziale
dell’Europa alla fine dell’epoca moderna, la transizione dal mondo originario come Es, cioè come
tutto indistinto, spazio inconscio in cui non sono presenti divisioni territoriali, e gli elementi
regnano caotici.146 Questo causa uno squilibrio nei cardini dell’idea di mondo, che non è più un
planisfero piatto, ma va ritracciato a partire dalla contrapposizione di due immagini del mondo
dialettiche, l’Ecumene della terra e la Thalatta dell’oceano, originariamente localizzate da un atto
fondativo che traccia il primo confine della proprietà, il luogo dove può dimorare l’Esserci:

L’intera storia universale altro non è che il continuo spostamento in avanti di quel primo
confine, altro non è che un sempre rinnovato incastro l’uno nell’altro del mio, del tuo e del suo,
la creazione sempre più articolata di relazioni Io-Tu a partire dal caos indiviso dell’Es. 147

142
C. Schmitt, Terra e Mare, tr. it. di G. Gurisatti, Adelphi, Milano, 2002, p. 121.
143
Cfr. Ivi, p. 118.
144
E. Jünger, Al muro del tempo, cit., p. 95.
145
Un testo che manca inspiegabilmente nell’opera di Sloterdijk, ma come fa notare Lucci, andrebbe inserito nel corpus.
Cfr. A. Lucci, Il limite delle sfere, cit., p. 88.
146
Cfr. K. Rosenzweig, Globus. Per una teoria storico-universale dello spazio, a cura di F. P. Ciglia, tr. it. di S. Carretti,
Marietti, Genova, 2007, p. 36; tit. or. Globus. Studien zur weltgeschichtlichen Raumlehre. Si noti che Es è anche la
denominazione che Freud dà all’inconscio. Cfr. S. Freud, L’Io e l’Es, tr. it di C. L. Musatti, Bollati Boringhieri, Torino,
1985, p. 83. Inoltre Sloterdijk evidenzia come Freud parlasse della conquista dell’Es da parte dell’Io nei termini della
colonizzazione di quella che chiamava la “vera Africa interiore”. Cfr. P. Sloterdijk, Sfere II, cit., pp. 863-865.
147
K. Rosenzweig, op. cit., p. 35.

33
Fig. 11 – I Quattro elementi, in M. Maier,
Scrutinium chymicum, 1687.

Tra i due, è la terra che è per principio l’elemento della separatezza, dell’enclosure,
dell’appropriazione, della finitezza, e perciò da sola, per Rosenzweig, non potrebbe farsi sfera,
mentre l’oceano spinge la terra ad espandersi nell’illimitato, a curvarsi su se stessa:

Grazie all’infinita distesa dello spazio liquido la terra ha da sempre in immagine il proprio fine,
ovvero ciò che insieme la precede (l’Es: il caos primigenio dell’indistinto) e la trascende
(l’eschaton: lo sconfinato noi di un futuro impero globale).148

L’immagine è tipicamente alchemica, perché tramite l’Es si rifà ad una concezione


inconscia del mondo come prima materia, cioè l’increatum che riempie tutto lo spazio ed è “madre”
degli elementi e di ogni creatura (Fig. 11). Di per sé indefinibile, nell’alchimia di Paracelso
esaminata da Jung, la prima materia è preparata da Dio «in modo che nulla sia simile ad esso in
avvenire né possa mai tornare a ciò che era»149, e corrisponde alla dea mater, principio femminino
che risorge dopo il tramonto del Padre. Questa ha carattere di ubiquità, cioè è sempre e dappertutto,
senza limiti e confini, una massa confusa raffigurata come una sfera nera, detta anche sfera
inferiore150, da cui l’alchimista estrae l’acqua eterna, o acqua mercuriale (la dimensione oceanica),
da cui nasce la pietra, una nuova terra. Parallelamente Heidegger parla del creare come un attingere,
trarre l’acqua dalla sorgente, per cui «solo in tal modo il suolo viene fondato in quanto fondamento
(Grund)».151

148
M. Vegetti, L’invenzione del globo. Spazio, potere, comunicazione nell’epoca dell’aria, Einaudi, Torino, 2018, p. 5.
Il corsivo è presente nell’originale.
149
C. G. Jung, Psicologia e alchimia, cit., p. 310.
150
Si ricordi questa lettura come sfera materna nei confronti dell’analisi sloterdijkiana della Grande Madre. Vedi infra.
151
M. Heidegger, L’origine dell’opera d’arte, cit., p. 127.

34
Fig. 12 – La Terra come sfera e i quattro elementi,
miniatura in J. Gower, Vox Clamantis, Bibliotèque
nationale de France, fine XIV secolo.

La pietra a cui si rifà l’alchimia è anche detta Lapis, l’elemento che contiene in sé tutti gli
elementi naturali riordinati, quelli inferiori della sfera acquatico-terrestre, e quelli superiori della
sfera areo-ignea (Fig. 12). Sempre nei suoi studi alchemici, Jung si rifà qui alla cosmologia di
Empedocle: è dall’unione dei dissimili, in un processo dialettico uguale a quello di Rosenzweig, che
nasce lo sfero, un nuovo essere sferico denominato anche Dio beatissimo. Questa fenomenologia
divina fa da eco all’ultimo Dio heideggeriano e junghiano. 152 Parallelamente la sfera mercuriale è
immagine del

Dio terrestre che tutto abbraccia in sé per condurlo a unità. Il suo aspetto unitario fu
simboleggiato il più delle volte dal drago o dal serpente che, a forma di anello, si mordono la
coda (ouroboros) o da esseri favolosi che compendiano in sé gli attributi della terra, dell’acqua e
dell’aria.153

Questa fase è la nigredo, la prima fase dell’opera alchemica da cui bisogna ritagliare le forme
e i luoghi. Rosenzweig capisce che dall’indistinto Es primordiale deve nascere una nuova curvatura
del mondo, in termini alchemici deve nascere una nuova sfera terrestre, come comprende Schmitt,
che si preoccupa di definire l’ordinamento elementale della terra. È l’approdo della nave
nietzschiana che cercava una nuova landa.
A questo proposito, sono i tre grandi mostri biblici del Leviatano, del Behemoth e del Ziz,
raffigurato dal Grifo, che turbano i suoi sonni, indicando a Schmitt la costituzione simbolica dei tre
grandi elementi. Dopo la pubblicazione del suo libro Il Leviatano nella dottrina dello Stato di
152
Cfr. C. G. Jung, Psicologia e alchimia, cit., p. 314.
153
M. L. von Franz, Il mito di Jung, cit., p. 197.

35
Thomas Hobbes (Der Leviathan in der Staatslehre des Thomas Hobbes, 1938), in cui già avvisa
Jünger di fare attenzione nella sua lettura, dato che si tratta di un libro dal potere abissale 154, Schmitt
si immerge nel Libro di Giobbe, in cui sono proprio il Leviatano e il Behemoth a comparire feroci
come potenze telluriche del Dio ebraico Yahwèh. Nel suo Terra e mare menziona le bestie titaniche
in diverse istanze a seguito delle sue letture bibliche; vivere il mare e la terra, per l’uomo concepito
da Schmitt, vuol dire fronteggiare l’elementare potenza dei due grandi animali. 155 Per la psicologia
del profondo, si tratta di un confronto psicologico con determinati attributi istintuali proiettati nello
spazio.
Jung commenta la simbolica dei due mostri in Simboli della Trasformazione (Symbole der
Wandlung, 1912). In una sua analisi, lo psicanalista arriva a leggere le immagini della poesia di
Miss Miller proprio attraverso la figura di Giobbe, che fa esperienza nelle sue fantasie del lato più
inconscio e terribile di Dio. In Giobbe, Dio rivela la sua natura mostruosa e bassa, non soltanto
come archetipo ordinatore, ma come forza primordiale che genera distruzione.

Questo dice Dio, per porre ostentatamente sotto gli occhi di Giobbe la sua forza e la sua potenza
primigenia: Dio è come Behemoth e Leviathan: la natura benefica e feconda – il selvaggio
furore e la sfrenatezza indomabile della natura – il travolgente pericolo della violenza
scatenata.156

Ecco perché Sloterdijk parla di un Dio mostruoso. Riordinare la topologia mondiale significa
ridefinire la visione del mondo in cui Dio è degradato nelle sue parti teriomorfiche, ossia integrare
un nuovo grande spazio globale al livello della coscienza. Psicologicamente Jung legge l’immagine
delle due bestie come l’irrompere di pericolose tendenze inconsce ad assimilare e intaccare
l’integrità della coscienza, «così i figli di Dio l’uno dopo l’altro sono dati in preda a Behemoth: i
valori coscienti, cioè, vengono barattati contro l’istintualità e l’abbruttimento». 157 Inoltre sul piano
acquatico, attraverso il romanzo di Melville, Moby Dick, Schmitt riprende il rapporto con il
Leviatano come la lotta in cui l’uomo «è così trascinato sempre più nella profondità elementare
dell’esistenza marittima»158, cioè «la balena, in quanto abitatrice del mare, è in genere il simbolo
dell’inconscio divoratore».159

154
Cfr. E. Jünger – C. Schmitt, Briefe 1930-1983, a cura di H. Kiesel, Klett-Cotta, Stuttgart, 1999, pp. 192-193.
155
C. Schmitt, Terra e mare, cit., p. 18.
156
C. G. Jung, Simboli della trasformazione, cit., p. 67.
157
C. G. Jung, Tipi psicologici, cit., p. 292.
158
C. Schmitt, Terra e mare, cit., pp. 35-36. Cfr. anche E. F. Edinger, Melville’s Moby-Dick: a Jungian commentary,
W. W. Norton&Co, New York, 1976, p. 52.
159
C. G. Jung, Tipi psicologici, cit., p. 292.

36
Per Bachelard si può parlare, nella Terra e il Riposo (1947), uno dei testi fondamentali nella
trilogia sloterdijkiana160, di Complesso di Giona, particolarmente adatto al momento, in quanto
riprende la fenomenologia dell’inghiottimento del mondo e dell’uomo da parte di forze (animali)
inconsce che degradano man mano dalle immagini antropomorfe del ventre e utero materni,
passando per quelle teriomorfiche della grande balena fino ad arrivare alle grandi immagini
materiali dell’elemento acquatico e dell’acqua mercuriale. Così

il mercurio che sostanzializza ogni fluidità, ogni sorta di dissoluzione assimilatrice, viene
designato da Jung come immagine ctonia dell’inconscio, che è acqua e terra allo stesso tempo,
impasto profondo. È tuttavia l’acqua a possedere la massima profondità dell’inconscio e ad
essere in grado di assimilare, come il succo gastrico. 161

Come abbiamo detto all’inizio, l’ambivalente contesa tra Leviatano e Behemoth nelle forme
elementari si ritrova nella materia alchemica, da cui bisogna estrarre la nuova terra in cui gli
elementi sono riordinati in un nuovo modo, su cui potrà essere imposto il nomos schmittiano.
Esaminando il Talmud babilonese Baba Bathra, Jung ritorna al Leviatano e al Behemoth come
coppia primordiale a cui corrispondono elementi maschili e femminili, per cui essi formano nel
vecchio mondo originariamente una quaternità governata dal Dio ebraico,

I due animali primigeni, Leviatano (acqua) e Behemoth (terra) formano, insieme con le loro
femmine, una quaternio di opposti. La coniuctio oppositorum sul piano animale, vale a dire in
condizioni inconsce, viene impedita da Dio perché pericolosa. La coincidenza degli opposti
farebbe rimanere la coscienza su un piano animale e ne impedirebbe un ulteriore sviluppo. 162

Fig. 13 – Ziz, Behemoth e Leviathan, miniatura del XIII secolo,


Wikimedia open-source.

160
Cfr. P. Sloterdijk, Sfere I, cit., p. 75.
161
G. Bachelard, La terra e il riposo, cit., p. 122.
162
C. G. Jung, Mysterium Coniunctionis, cit., p. 240. Cfr. anche Id., Aion..., cit., p. 116.

37
Quando Schmitt legge il Talmud, la sua attenzione non si ferma però sulle acque e sulla terra,
ma cade sulla nascita di un nuovo animale, che viene trasfigurato dalla metamorfosi del Leviatano,
permettendo la riconfigurazione dell’ordine mondiale. A livello storico, Schmitt ritrova il terzo
animale nell’intervento dell’America, che apre e chiude la Modernità tra la prima e la seconda
guerra, citando l’Apocalisse 21.1: «Poi vidi un nuovo cielo e una nuova terra, perché il primo cielo
e la prima terra erano passati, e il mare non c’era più». 163 Dal vecchio ordinamento marittimo e
terrestre, nasce il nuovo ordinamento dell’aria, «nuova sfera elementare dell’esistenza umana» 164
(Fig. 13). Sloterdijk descrive questo nuovo ordinamento schmittiano nel suo volume Schiume come

esplicitazione dello spazio aereo mediante il terrore del gas, dell’aviazione, dell’air design e
dell’air conditioning – questo complesso costituisce la quintessenza delle procedure [...] che,
nella loro somma politica, producono quel che si definisce “la supremazia aerea” o “il controllo
dello spazio nella terza dimensione”.165

La trasformazione dell’immagine del mondo globale si arricchisce del nuovo elemento aereo,
simboleggiato dalle sue prosecuzioni tecniche nell’aeronautica. Il mondo che prima era composto
solo da spazialità orizzontali, e che aveva relegato la dimensione verticale alla metafisica, adesso
integra nella sua sfera anche il cielo e il pensiero atmosferico. Per Schmitt questa rivoluzione dello
spazio non riguarda solo un’evoluzione della sfera tecnica, ma si ripercuote parimenti nella psiche
collettiva in guisa di un fenomeno immaginale. Poco dopo le sue letture ebraiche, Schmitt compone
i seguenti versi per celebrare la graduale nascita della spazialità aeriforme mentre si trova rifugiato
in un bunker antiaereo a Berlino:

Il drago che l’uovo protegge


Da tempo quest’uovo ha bevuto;
La chioccia che lo cova fedele
In nulla si sente colpita
Continua a covare
Che ne esce? L’uccello Ziz!166

Il breve componimento viene composto seguendo il modus operandi di un’operazione


alchemica. Vegetti concorda nell’evitare una interpretazione letterale, tra l’altro impossibile, di
questo testo dal taglio ermetico, suggerendo che l’immagine del drago indichi la trasformazione del
nichilismo e della guerra, il simbolo igneo dell’età globale. 167 Nel vedere il drago come drago di
163
C. Schmitt, Il nomos della terra, cit., p. 21.
164
C. Schmitt, Terra e mare, cit., p. 108.
165
P. Sloterdijk, Sfere III, cit., p. 476.
166
E. Jünger – C. Schmitt, Briefe 1930-1983, cit., p. 110.
167
Si noti che il drago compare anche nella sfera mercuriale oscura menzionata in precedenza, che viene talvolta
raffigurata con ali di drago. Cfr. C. G. Jung, Studi sull’alchimia, cit., p. 166.

38
mare, immagine archetipica del Leviatano nel Vecchio Testamento, l’età dell’aria allora «è figlia
dell’opera di svuotamento/distruzione del nomos della terra (l’uovo) a opera della guerra civile
mondiale sorta dal mare»168 dalla quale nasce il grande volatile Ziz, simbolo dell’espansione umana
via atmosfera e del «controllo sulle comunicazioni, detto “dominio dell’etere”». 169 Il vecchio
elemento acquatico, che aveva caratterizzato gli spostamenti umani attraverso i viaggi marittimi,
viene superato rompendo i propri confini e ricoprendo tutto il mondo, diventando un oceano
iperboreo. Come cantava Nietzsche, ripreso da Bachelard nella sua analisi delle immagini del
movimento aereo nella Psicanalisi dell’aria, «Né per terra,/ né per acqua/ puoi trovare la strada/
verso noi Iperborei».170
Il nome Ziz richiama etimologicamente il movimento, la capacità di muoversi da un posto
all’altro della terra, secondo il commentatore medievale del Talmud, Rashi.171 L’animale mitologico
ridimensiona l’elemento sotterraneo-orizzontale del Leviatano e del Behemoth, restaurando una
corrispondenza tra il sopra e il sotto, le sue ali possono proteggere dal vento dello spazio esterno. In
termini archetipici nota Jung in quest’ambito, «l’uccello, in quanto abitatore del luminoso regno
dell’aria, è simbolo del pensiero cosciente o addirittura dell’ideale e dello Spirito Santo». 172
Commenta Vegetti,

Nella tradizione Aggadica del Talmud, le dimensioni teratologiche di questa mitica bestia alata
sono enfatizzate da un racconto autoptico: l’acqua del mare profondo gli arriverebbe appena alle
caviglie mentre la sua testa raggiungerebbe il cielo. 173

Ziz è superiore alle altre due bestie, perché riunisce nella sua figura tutti gli altri elementi; è in
grado di assimilare verticalmente cielo e terra. La sua forza elementale deriva dall’aria mentre si
trova nell’età del fuoco, «si pensi ai motori a scoppio che azionano le macchine volanti» 174, dice
Schmitt, o anche riprendendo Jünger, «al pari di tutte le epoche che da allora si sono succedute,
nella Bibbia si vuole trovare anche la nostra: gli aerei sarebbero le cavallette dell’apocalisse». 175 È
possibile a questo punto la costituzione di un nuovo ordine globale, perché riprendendo le immagini
alchemiche precedenti, è stata recuperata la sfera superiore, gli elementi aria e fuoco sono riuniti, il
Lapis estratto.176

168
M. Vegetti, op. cit., p. 22.
169
P. Sloterdijk, Sfere III, cit., pp. 476-477.
170
F. Nietzsche, Ditirambi di Dioniso e Poesie postume (1882-1888), tr. it. di G. Colli, Adelphi, Milano, 1982, p. 181.
171
Cfr. M. Vegetti, op. cit., p. 175.
172
C. G. Jung., Tipi psicologici, cit., p. 292.
173
Ivi, p. 20.
174
E. Jünger – C. Schmitt, Briefe 1930-1983, cit., p. 90.
175
Ivi, p. 107.
176
C. G. Jung, Psicologia e alchimia, cit., p. 368.

39
La sfera aerea si manifesta nelle telecomunicazioni delle onde radio e dei satelliti come un
nuovo spirito divino, al punto che Marshall McLuhan, ripreso da Sloterdijk 177, affermerà: «La
simultaneità elettrica dei movimenti delle informazioni produce la sfera complessiva e oscillante
dello spazio uditivo, il cui centro è ovunque e la cui estensione non è in nessun luogo» 178, citando il
parallelo assunto rinascimentale ripreso da Niccolò Cusano per cui «Dio è una sfera il cui centro è
ovunque e la circonferenza in nessun luogo»179 e sostituendo al Dio cristiano la rete telematica,
definita da Sloterdijk nuova anima mundi nell’età della tecnica. Sloterdijk vede in ciò una rinnovata
metafisica tecnica dal carattere teologico,

La modernità consegue la verticalità in modo completamente diverso rispetto all’epoca


metafisica del mondo. Lo sguardo dall’esterno non si ottiene con la trascendenza dell’anima
verso il sovraterreno, ma con la facoltà immaginativa tecnico-fisica, aero- e astronautica. [...] Le
moderne idee di volo sostituiscono quelle antiche e medievali di “elevazione”; l’aeroporto-Terra
(da cui si decolla e su cui si atterra) ha sostituito la divina assunzione in cielo della Terra. 180

Contemporaneamente Jung esamina nel suo Un mito moderno. Le cose che si vedono in
cielo (Ein moderner Mythus. Von Dingen, die am Himmel gesehen werden, 1958) il fatto che
nei sogni e nell’immaginario inconscio del fenomeno legato agli oggetti volanti non
identificati, si trova una trasposizione simbolica per immagini moderne della vecchia
simbologia sacra,

Non v’è dubbio che si tratti di un esempio di modificazione di una tradizione più antica grazie al
recente accrescimento del patrimonio di conoscenze, e quindi dell’influsso esercitato su
un’antichissima simbolizzazione attraverso acquisizioni recenti della coscienza, come le
sostituzioni, frequenti in tempi moderni, di bestie e mostri con automobili e aeroplani nei sogni,
persino degli attributi divini con macchine volanti provenienti da altri mondi. 181

Ossia, psico-ontologicamente l’uomo moderno si rapporta al divino attraverso fenomenologie


tecnologiche che hanno in parte sostituito la vecchia simbologia angelica e trascendente. Questa
trasmutazione aerea però non avviene senza resistenze. Il ritorno alla terra resta un tentativo di
ancorarsi all’elemento femminino, rifugio della psiche umana per poter creare un temenos
protettivo, quando Jünger, assieme a Eliade, si propone nel 1957 nella fondazione della rivista
culturale dal nome Antaios, che non a caso riprende l’omonima figura mitologica greca. Antaios è

177
P. Sloterdijk, Sfere III, tr. it. di S. Rodeschini, Raffaello Cortina, Milano, 2015, p. 14.
178
M. McLuhan, Wohin steuert die Welt?, Europa, Toronto-Wien, 1978, p.81.
179
P. Sloterdijk, Sfere II, cit., p. 427.
180
P. Sloterdijk, Sfere II, cit., p. 751.
181
C. G. Jung, Un mito moderno. Le cose che si vedono in cielo, tr. it. di S. Daniele, Bollati Boringhieri, Torino, 2004,
p. 51.

40
un gigante mortale la cui forza risiede nel suo attaccamento alla terra 182, e soltanto quando i suoi
piedi vengono staccati dal suolo egli perde tutte le sue forze.
L’immagine del gigante esprime per la rivista e i suoi autori un chiaro segno: la scoperta del
nuovo elemento simboleggiato dal grande uccello Ziz, non è soltanto dialogo con questo nuovo
spazio, ma altresì dialettica preservazione di ciò che di più terrestre fa parte della dimensione
dell’uomo. Se in Schmitt «l’uomo è un essere votato non solo alla nascita, ma anche alla
rinascita»183, avendo la facoltà di poter scegliere a quale elemento votarsi come nuova forma
complessiva della sua esistenza storica, quando Jünger parla del viaggio spaziale, specifica che «qui
l’uomo, quale che sia la sua provenienza, entra in gioco in quanto figlio della terra e in quanto suo
messaggero».184
Nel Bachelard della Psicanalisi dell’aria a proposito dell’ascetismo aereo e della psicologia
ascensionale, il volo e la conquista del nuovo elemento indicano un cambiamento totale della psiche
umana che avviene proprio come trasmutazione dei valori (si ricordi le trasmutazioni alchemiche
lette sopra con la lente della psicologia del profondo):

Per l’immaginazione materiale, il volo non è solo una tecnica da inventare, è una sostanza da
trasmutare, la base fondamentale di una trasmutazione di tutti i valori. Il nostro essere, da
terrestre, deve divenire aereo. Renderà allora tutta la terra leggera. La nostra stessa terra, la terra
dentro di noi, diventerà “la leggera”.185

Risuona il passo Sullo Spirito di Gravità dello Zarathustra di Nietzsche, «colui che un giorno
insegnerà il volo agli uomini, avrà spostato tutte le pietre di confine». 186 Da questo momento la terra
diventa leggera, chi vola diventa il pesatore del mondo. L’uomo non è più legato alla terra e può
ascendere ad una nuova visione universale del mondo, che inevitabilmente retroagisce sulla sua
psiche. Il volo è ascensione non solo fisica, quanto psichica. Come le altre creature, anche la
simbologia teriomorfica dell’uccello Ziz indica un rinnovato aspetto di Dio, che si esprime nella
dimensione delle telecomunicazioni e del viaggio aereo. 187 In questo senso Sloterdijk parla del XX
secolo come del secolo della passione antigravitazionale 188, e della sua opera sferologica, soprattutto

182
R. Graves, I Miti Greci, tr. it. di E. Morpurgo, Longanesi, Milano, 1992, p. 132.
183
C. Schmitt, Terra e mare, cit., p. 17.
184
E. Jünger, Lo Stato mondiale. Organismo e organizzazione, tr. it. di A. Iadicicco, Guanda, Parma, 1998, p. 38.
185
G. Bachelard, Psicanalisi dell’aria..., cit., p. 147. Il corsivo è presente nell’originale.
186
F. Nietzsche, Così parlò..., cit., p. 234.
187
Vale la pena citare che nel romanzo Kangaroo di Lawrence, il dirigibile Zeppelin veniva detto «alto, alto, alto,
minuscolo, pallido, come si potrebbe immaginare lo Spirito Santo». Cfr. D. H. Lawrence, Kangaroo, William
Heinemann, Londra, 1923, p. 33.
188
Cfr. P. Sloterdijk, Che cosa è successo nel XX secolo?, tr. it. di M. A. Massimello, Bollati Boringhieri, Torino, 2016,
p. 84.

41
nel terzo volume, come del tentativo di alleggerire e contrastare la pesantezza delle ontologie
precedenti, che hanno visto l’uomo come essere manchevole e costretto al suolo.189
Per Heidegger infatti è soltanto dalla terra che si può approntare il mondo in una continua
contesa che mira a riunire i due in un reciproco contro-stanziarsi. Nel suo saggio Sull’origine
dell’opera d’arte, il filosofo riferisce come

Mondo e terra sono costitutivamente di-vergenti, eppure mai separati. Il mondo si fonda sulla
terra, mentre si erge terra attraverso un mondo. [...] La terra non può fare a meno dell’insorta
distesa in cui consiste il mondo, se essa deve mostrarsi, in quanto terra, proprio nel liberato
impetuoso afflusso del suo contrarsi. A sua volta, il mondo non può volare via dalla terra, se, in
quanto vigorosa vastità delle rotte di ogni essenziale dispensa destinale, deve fondarsi su un che
di risoluto “su un terreno fermo”.190

Tutto ciò che travalica il sicuro perimetro della terra travalica il mondo, quindi sfocia nella
profondità angosciante dell’essere-senza-mondo e conduce al mostruoso spaesante, das Ungeheure.
Dato che è impossibile per il mondo volare via, per Heidegger il mondo resta comunque legato alla
dimensione del globo terrestre, il cielo è solo cielo terrestre, mentre lo spazio fondante di quel
piccolo appezzamento che possiamo delimitare per permetterci di esistere, l’Ort, è da ricercare nella
terra come fondamento che istituisce l’uomo. Nell’epoca dell’aria, l’Ungeheure si consolida nei
primi lanci di sonde spaziali ad opera dell’aeronautica americana, che permettono di ottenere un
punto archimedeo al di fuori del mondo globalizzato, dando compimento una volta per tutte al
processo di entificazione del mondo, già iniziato, come ricorda Vegetti, a partire dalla rivoluzione
copernicana.191 Il satellite Lunar Orbiter I, lanciato il 10 agosto del 1966 con lo scopo di riprendere
la superficie lunare per studiarne possibili punti di atterraggio per le missioni Apollo, riporta alla
base la prima fotografia mai scattata del nostro pianeta dallo spazio (Fig. 14).

189
Cfr. P. Sloterdijk, Sfere III, cit., p. 637. Similmente, l’antigravitazione riprende la verticalità che si svolge nella
dinamica dell’esercizio e dell’ascesi come pratica di vita.
190
M. Heidegger, L’origine dell’opera d’arte, cit., pp. 71-73.
191
Cfr. M. Vegetti, op. cit., pp. 92-95.

42
Fig. 14 – Lunar Orbiter I, Prima immagine della Terra vista dalla
Luna, Archivio digitale NASA, 23 agosto 1966.

L’uomo ora può vedere il globo terracqueo non più solo come mappamondo, ma come una
biglia blu che fluttua nel cosmo, questo indistinto vuoto in cui Nietzsche lamentava «[...] non esiste
più “terra” alcuna!».192 Lo spazio esterno si fa per la filosofia heideggeriana manifestazione fisica e
immagine tangibile del nichilismo perpetuato dalla possibilità tecnica che racchiude la nostra
esistenza, mentre questo piccolo pianeta diventa l’ultimo baluardo, la rappresentazione più
tremenda dell’unheimliche. In termini archetipici, lo spazio oltre l’orbita viene esaminato da Jung
nel suo saggio Un mito moderno, dove lo psicanalista legge l’apertura all’indefinito altrove
attraverso la disamina del sogno di una signora dalla cultura universitaria. Nell’episodio onirico

Due donne si trovavano insieme ai limiti del mondo, come alla ricerca di qualcosa. [...] Da
destra giunse volando un oggetto ellittico dallo scintillio argenteo, equipaggiato con figure
disposte tutt’intorno al suo bordo. Sembravano uomini in abiti bianco-argentei. Le due donne
erano sopraffatte da quella visione e tremavano in quello spazio extraterrestre, cosmico, una
posizione che fu possibile soltanto per l’attimo in cui durò la visione. 193

Il limitare del mondo diventa il cerchio da cui è possibile sporgersi per situarsi in quella
zona di confine dopo la quale si è condannati a perdersi nell’oblio dell’Essere, e da cui si può solo
ricevere ciò che viene dis-velato, cioè portato alla luce della coscienza. Jung interpreta la situazione
limite delle due donne attraverso l’ambiente al di là del quale «c’è lo spazio cosmico con i suoi
pianeti e soli oppure la terra dei morti o l’inconscio». 194 Lasciare la Terra scoperta dalla cupola
divina e avventurarsi nella vuotezza dell’universo vuol dire per la coscienza annullarsi
nell’inconscio collettivo, lasciare il circolo protettivo del pianeta con cui è possibile Esserci nel buio
spaesante. Pure nota Sloterdijk, sono lontani i giorni in cui le stelle erano il placido velo della

192
F. Nietzsche, La gaia scienza, cit., p. 125.
193
C. G. Jung, Un mito moderno., cit., p. 85.
194
Ivi, p. 86.

43
Vergine195, che ricopre con un manto rasserenante i limiti del cielo. Nell’intervista rilasciata allo
Spiegel nel settembre dello stesso anno del lancio della sonda americana, a proposito della
fotografia dal satellite, Heidegger commenta:

Non so se Lei sia spaventato, in ogni caso io lo sono stato quando ho visto le fotografie della
Terra scattate dalla Luna. Non c’è bisogno della bomba atomica. Lo sradicamento dell’uomo
dalla Terra è già in atto. Tutto ciò che resta è una questione puramente tecnica. Non è più la
Terra quella su cui l’uomo oggi vive.196

La prima immagine del pianeta terrestre riduce la mondità a semplice fenomeno variabile
della realtà universale. L’elemento della terra, che Heidegger era così riluttante a lasciare e risoluto
a proteggere, viene relativizzato a un semplice quanto di materia e di spazio in un cosmo più ampio.
La sfera terrestre non è altro che un globo minacciato e inghiottito dall’oscurità, su cui l’uomo non
può addirittura più permettersi di dimorare. Così si compie la demondizzazione (Entweltlichung)
nell’epoca dell’aria. Questa nuova verticalità per la filosofia heideggeriana fa paura, sembra tradursi
in un richiamo all’impotenza esistenziale. Nondimeno Sloterdijk trova qui i nuovi germi di una
metafisica trasfigurata, perché come spiega nel suo intervento Per una filosofia della stazione
spaziale:

Il viaggio spaziale ha trovato la soluzione più elegante all’annoso problema della metafisica:
scioglie l’enigma della discontinuità ontologica tra il Sopra e il Sotto, ponendo un continuum tra
l’essere-nel-mondo-1 e l’essere-nel-mondo-2. 197

Esaminiamo brevemente queste nuove diciture. Scopertasi la volta celeste, abbandonata dalla
vecchia immagine cosmologica di Dio, Sloterdijk conviene che il Dasein non può essere più inteso
come relegato a un solo mondo, non può cioè continuare a realizzarsi esclusivamente sulla
superficie del nostro pianeta. Contemporaneamente la metafisica tradizionale non è più un altrove
trascendentale, ma uno spazio aereo navigabile con i mezzi della tecnica. Ciò che prima era segnato
da un’esistenza ultraterrena nel dualismo corpo-anima identificato come metafisico, ora è una
dualità immanente posta nell’ambiente spaziale extraterrestre. Nondimeno, essa permane in una
continuità psichica tra i due mondi. A questo punto anche la possibilità esistenziale dell’uomo si

195
Cfr. P. Sloterdijk, Sfere II, cit., p. 886; «Sul versante di bordo, la religione cristiana fornì impulso e rifugio sotto
l’onnipresente egida della figura protettiva della Vergine Maria, quella regina maris, [...] la grande madre del
navigatore, colei che salva e intercede in caso di pericolo di vita e di naufragio».
196
M. Heidegger, Ormai solo un Dio ci può salvare, tr. it di A. Marini, Guanda, Parma, 2011, p. 134.
197
P. Sloterdijk, Cosa è successo nel XX secolo?, cit., p. 146. Ci permettiamo inoltre di rimandare al nostro saggio
breve, A. Mazzi, Benvenuti nell’Epoca dell’Oltre in L’Indiscreto, http://www.indiscreto.org/benvenuti-nellepoca-
delloltre/, 2018.

44
sdoppia: i due essere-nel-mondo restano sempre uniti e comunicanti oltre la volta celeste, dalla
superficie terrestre agli ambienti orbitanti della stazione spaziale, e potenzialmente di altri pianeti.
Nell’epoca dell’aria «ogni coordinata spaziale tradizionale perdeva di necessità: il mondo era
privo di cardini e proprio per questo disponibile a ottenere nuovi orientamenti». 198 Nel caso
dell’eredità filosofica heideggeriana, la soluzione atmosferica di Sloterdijk alla mancanza di nuovi
orientamenti adotta proprio l’archetipo del numero per definire il nuovo ponte psicontologico,
differenziando tra un Esserci-1 terrestre e un Esserci-2 oltre orbita. Il ricorso al numero consiste nel
fatto che numerare per Jung crea un ponte tra l’al di qua e l’al di là del mondo umano e del mondo
soprannaturale (in questo caso ex-metafisico). Ci limitiamo a segnalare per il nostro scopo l’opera
ancora inedita in Italia Number and Time (Zahl und Zeit, 1974), dove Von Franz estende le
riflessioni junghiane all’archetipologia del numero come fattore ordinatore nello spazio psichico, sia
nell’interiorità che nel mondo esterno. Per Von Franz

I numeri come strutture archetipiche costanti dell’inconscio collettivo, posseggono un aspetto


attivo e dinamico che è particolarmente importante da tenere a mente. L’essenziale non è ciò
che possiamo fare con i numeri, ma cosa essi fanno alla nostra coscienza.199

La psicologia del profondo definisce aprioristicamente l’insorgere del numero come la


formazione di una relazione tra i contenuti della coscienza e dell’inconscio. Il numero è un
archetipo mediatore appartenente alle due diverse polarità della psiche. L’organizzazione del
numero per Jung consente di esprimere nella mente sia il quantitativo che il qualitativo, «non solo
conta e misura, non è soltanto puramente quantitativo, ma compie anche asserzioni qualitative ed è
perciò un termine di mediazione».200 Secondo questa lettura, possiamo leggere il tentativo da parte
di Sloterdijk di risaldare archetipicamente il Dasein, esteso oltre l’elemento terrestre, nella
separazione tra lo spazio inferiore e superiore, una volta venuta a mancare la cosmologia protettiva
che ha contenuto il mondo umano fino al Rinascimento, a causa della transvalutazione novecentesca
della metafisica classica. Con un colpo di mano appena accennato, presentato solo ora nel suo
pensiero, Sloterdijk getta in questa breve riflessione un ponte psichico tra il sopra e il sotto, che così
risuonano all’unisono guardando al potenziale futuro dei viaggi spaziali.201
198
M. Vegetti, op. cit., p. 50. A questi nuovi orientamenti fa eco l’assunto di Von Franz in M. L. von Franz, Psiche e
Materia, cit., p. 25, «Forse su altri pianeti c’è un’altra struttura psichica, organizzata diversamente: ma non possiamo
motivarlo dal punto di vista causale».
199
M. L. von Franz, Number and Time. Reflections leading toward a unification of depth psychology and physics, tr.
ing. di A. Dykes, Northwestern University Press, Evanston, 1974, p. 33.
200
C. G. Jung, Un mito moderno, cit., p. 130.
201
Citiamo qui che Sloterdijk non sviluppa ulteriormente questa posizione, non specificando se la dualità dell’Esserci-1
e dell’Esserci-2 vada intesa come una dualità compiuta in sé tra Terra e spazio extraterrestre, o come una numerazione
potenzialmente espandibile di altri Esser-ci (per esempio Esserci-3, Esserci-4, etc.) in base ad ogni singolo habitat. Per
Von Franz esiste un simile problema nell’esaminare il rapporto dell’Uno con la dualità. Cfr. M. L. von Franz, Number

45
Parallelamente Jung nel 1961, poco prima della sua morte, nel suo ultimo incontro con
Miguel Serrano, risponde all’ultima domanda dell’espansione spaziale con la necessità di tornare
all’uomo:

Prima o poi l’uomo dovrà ritornare alla terra, e alla patria da cui viene: cioè a dire, l’uomo
dovrà tornare a se stesso. I voli spaziali sono solo un’evasione, una fuga da noi stessi, perché è
più facile andare su Marte o sulla Luna che non penetrare il proprio essere. 202

Per Jung bisogna rispettare l’equilibrio tra un’integrazione psichica rivolta verso lo spazio
esterno e un’espansione verso i propri spazi interiori. L’elemento terrestre, a differenza di
Heidegger, non deve necessariamente essere una condanna a priori di altre possibili terre e dimore.
Il movimento di uscita verso lo spaesante, il continuum dell’Esserci verso altri pianeti va però
compensato sia con la presenza terrestre, la dimora originaria, sia con il supporto della
comprensione psichica. Jung mira a cercare nell’interiorità umana le forme essenziali per supportare
l’esistenza del soggetto, a prescindere dalla dimensione verso cui si muove. Se l’essere-nel-mondo
si è ampliato su altri fronti, è necessario trovare una coordinata immaginale-simbolica che definisca
la nostra presenza. Per Sloterdijk, seguendo tra gli altri il suggerimento di Bachelard e di Jung,
risanare il nostro Dasein vuol dire ripercorrere l’origine dell’uomo partendo dalle immagini della
nostra interiorità, in cui si ritrova la prima sfera che tutti abitiamo, l’utero materno, la realtà
primigenia che ricerchiamo nei nostri insediamenti architettonici e nelle nostre visioni del mondo.

and Time, cit., p. 64, «In base a questa nuova ipotesi, per esempio, il numero due non è una monade dimezzata o
raddoppiata, [...] ma l’aspetto simmetrico di un unico continuum».
202
C. G. Jung, Jung parla, cit., p. 574.

46
47
CAPITOLO II
LA SFERA CHE PROTEGGE NELL’APERTO (DAS OFFENE)

Fig. 15 – Y. Kusama, Infinity Mirrored Room – Gleaming Lights of the Soul, specchi, pannelli di legno, metallo,
LED, pannelli acrilici, acqua, 2008.

“Ogni volta si ha un cambiamento completo della sfera, un passaggio a una sfera del tutto
differente e nuova”
F. Nietzsche, Su verità e menzogna in senso extramorale.203

203
F. Nietzsche, Su verità e menzogna in senso extramorale, tr. it. di G. Colli, Adelphi, Milano, 2015, p. 17.

48
I. La sfera e l’essere-nelle-sfere come archetipo universale del Sé
Nel secondo trattato delle Considerazioni inattuali (Unzeitgemässe Betrachtungen), intitolato
Sull’utilità e il danno della storia per la vita (Vom Nutzen und Nachteil der Historie für das Leben,
1874), Nietzsche afferma che nessuna creatura può essere in un ambiente senza delimitare il proprio
spazio vitale, altrimenti sarebbe incapacitata a prosperare,

e questa è una legge generale; ogni vivente può diventare sano, forte e fecondo solo entro un
orizzonte; se esso è impotente a tracciare un orizzonte intorno a sé, [...] si avvia in fiacchezza o
in concitazione a fine prematura.204

La necessità di tracciare dei confini deriva dall’angosciante consapevolezza che il mondo è


ben più vasto di quanto la percezione cosciente possa esaurire, e che l’animale uomo, a differenza
degli altri, è per Nietzsche una creatura imperfetta, di cui la coscienza è parte di uno sviluppo
fallace. Sloterdijk fa sua questa presa nietzschiana sull’uomo, per cui è con «l’allontanamento dallo
stato pre-umano e la propria costruzione attraverso mezzi autogeni condivisi coi suoi simili che
l’uomo origina ciò che chiama cultura».205 L’esistenza umana fiorisce quando si ha a disposizione
un proprio spazio dove la coscienza del singolo possa definirsi e sia protetta dall’esterno. Come
afferma Heidegger in Essere e Tempo, la condizione esistenziale dell’Esserci umano è segnata fin
dall’inizio dall’esperienza dello spaesamento:

L’essere-nel-mondo, tranquillizzato e familiare, è un modo dello spaesamento dell’Esserci e non


il suo contrario. Dal punto di vista ontologico-esistenziale, il non-sentirsi-a-casa-propria deve
esser concepito come il fenomeno più originario. 206

La vastità dell’Ungeheure che genera l’espropriazione nell’esperienza primigenia dell’uomo,


il suo essere sradicato ontologicamente dal mondo nel proprio Esserci, è la prima sensazione. Il
Dasein fluttua costantemente tra l’essere qui o là. Come ricorda la particella Da, non ha un’identità
sua propria e può darsi solo in un luogo che deve essere definito. «Che i mortali sono vuol dire che,
abitando, abbracciano spazi e si mantengono in essi sulla base del loro soggiornare presso cose e
luoghi».207
Di fronte all’Aperto, nella poesia di Rilke si palesa la stessa mancanza di una terra solida e
circoscritta, quando scrive alla fine della seconda elegia duinese, ancora in atmosfera anteguerra:

204
F. Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia per la vita, tr. it. di S. Giametta, Milano, Adelphi, 1974, p. 9.
205
P. Sloterdijk, Non siamo ancora stati salvati. Saggi dopo Heidegger, a cura di A. Calligaris, tr. it. di S. Crosara,
Bompiani, Milano, 2004, p. 114.
206
M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 231.
207
M. Heidegger, Saggi e discorsi, cit., p. 105.

49
Quelli nel dominio di sé sapevano: qui, fino a qui noi siamo;
questo è nostro, il toccarci così; più forte
premon su di noi i divini. Dunque questa è cosa divina.
Trovassimo anche noi puro, trattenuto, limitato, qualcosa
d’umano, una nostra striscia di terra feconda
tra roccia e corrente. Perché il nostro cuore ci eccede,
sempre, come il loro eccedeva. E non possiamo più
cercarlo in immagini che lo plachino, né
in corpi divini in cui esso trovi una più grande misura. 208

Questa localizzazione spaziale è psichica; non può esserci polarità fra conscio e inconscio,
fra il singolo e il mondo, e di conseguenza non può esserci vita cosciente se si ondeggia da un
estremo all’altro, perché, ricorda Jung, solo «dalla zona di mezzo che permette l’armonia psichica
della coscienza con i contenuti inconsci è possibile la vita dell’individuo». 209 Per Rilke al tempo
dell’elegia è ancora impossibile trovare un lembo di terra tra la roccia e la corrente, tra la fermezza
della pietra e l’impermanenza delle cose. Non esiste più una misura maggiore (größer mäßigt), che
va ricercata nell’incontro con l’elemento straniante.
Inoltre nell’ottava elegia, Rilke pone la questione dell’Aperto: «Con tutti i suoi occhi,
guarda la Creatura (die Kreatur)/ nell’Aperto (das Offene)».210 L’Aperto viene ad essere quella
spazialità incommensurabile e inapprensibile, di per sé priva di misura, a cui ogni essere deve
relazionarsi, in una vicinanza inevitabile con la morte. Nella stessa elegia Rilke rivela una
confluenza fondamentale tra l’esistenza nell’apertura e il nulla della morte. Ricorda Blanchot che la
morte per il poeta è sempre vicina, di più, necessaria: a differenza degli dèi e degli animali, infatti
l’uomo vive sempre nella vicinanza invisibile della morte, che lo saluta da lontano, tranne in quelle
rare occasioni scandite dalla sua confluenza in una lieve breccia, come nell’infanzia o nello sguardo
degli animali. Ma questa è la natura del reale, «Nessuno dei due campi dev’essere mai sacrificato
all’altro: il visibile è necessario all’invisibile, si salva nell’invisibile, ma è anche ciò che salva
l’invisibile».211 A parte in questi momenti, l’Aperto esiste in limiti imperscrutabili, «Sempre è
mondo/ e mai il Nessundove senza il bordo del no».212
L’Aperto, che qui trattiamo nella sua accezione esistenziale, si avvicina all’esperienza
dell’Ungeheure heideggeriano in quanto dimensione incommensurabile e incomprensibile, una
differenza sostanziale tra l’uomo e l’animale, che si trovano a vivere l’Aperto in maniera diversa.
Heidegger, nel suo commento al poeta, sostiene che alla morte di Dio, venendo a mancare la

208
R. M. Rilke, op. cit., p. 53.
209
C. G. Jung, La dimensione psichica, cit., p. 45.
210
R. M. Rilke, op. cit., p. 85.
211
Cfr. M. Blanchot, Rilke e l’esigenza della morte, tr. it. di G. Zanobetti, in Id., Lo spazio letterario, tr. it. di G.
Zanobetti – G. Fofi, Einaudi, Torino, 1967, p. 28.
212
R. M. Rilke, op. cit., p. 85.

50
metafisica che conteneva in sé anche la dimensione ultraterrena della morte, i mortali si trovano
faccia a faccia con la caducità, «i più arrischianti sono coloro che nella mancanza di salvezza si
rendono conto del nostro essere-senza-protezione»213 (Fig. 16).

Fig. 16 – J. M. W. Turner, Tempesta di neve - Battello a vapore al largo di Harbour's Mouth, Galleria
d’arte nazionale Tate Britain, 1842.

È stato Jacob von Uexküll, quando formulò il concetto di ambiente (Umwelt) come mondo
circolare dell’animale e dell’uomo, a introdurre il senso di circolarità del mondo in cui si è inclusi
semioticamente senza possibilità d’uscita.214 Monadologicamente la particella Um- indica in tedesco
“ciò che si trova attorno”, designa di per sé una realtà sferica che si svolge attorno a un soggetto
centrale. La creatura vivente viene situata in un centro da cui percepisce il mondo man mano che
questo e i suoi enti rientrano nella sua cerchia cosciente. Per von Uexküll la creatura non può uscire
dalla sua area circolare

È stato un errore credere che il mondo umano offrisse una scena comune a tutte le creature
viventi. Ogni creatura vivente dispone di una scena specifica, altrettanto reale di quella
dell’essere umano [...]. Nel fare questa scoperta, acquisiamo una visione del tutto nuova
dell’universo. Questo non è composto di un’unica bolla di sapone che abbiamo gonfiato oltre il

213
M. Heidegger, Perché i poeti?, cit., p. 252.
214
Cfr. J. von Uexküll, Ambienti animali e ambienti umani. Una passeggiata in mondi sconosciuti e invisibili, a cura di
M. Mazzeo, Quodlibet, Macerata, 2010.

51
nostro orizzonte, fino all’infinito, ma di milioni di bolle di sapone strettamente delimitate che si
sovrappongono e s’incrociano dappertutto.215

Sloterdijk riprende le asserzioni di von Uexküll in riferimento alla sua costituzione


dell’Umwelt come bolla che definisce la particolare immagine del mondo di ogni creatura
vivente.216 Heidegger pure riprende inizialmente la nozione dell’Umwelt attraverso la circospezione
(Umsicht), o anche “visione ambientale preveggente”, di carattere semi-conscio e inconscio, come
ciò «secondo cui l’Esserci si orienta nel suo “avere a che fare” (Umgang) con i mezzi o arnesi
all’interno della totalità dei rimandi che costituisce il mondo-ambiente (Umwelt)».217 Nella cerchia
della pratica quotidiana, l’uomo si prende cura delle cose che letteralmente gli stanno intorno
(Umgang), ma il linguaggio per Heidegger, a differenza di von Uexküll, permette comunque
all’uomo di trascendere la propria sfera, andare oltre la propria circostanza e aprirsi al mondo
(Welt).218
Similmente Hillman recupera l’etimologia dell’ambiente nel suo saggio Il codice
dell’anima, sottolineandone proprio il carattere circondante, che lo psicanalista deriva in questo
caso dall’etimologia inglese to environ, “circondare”, “avviluppare”, “includere”, ma anche dal
latino ambire, cioè letteralmente “andare intorno”, ossia «il contesto, il complesso di condizioni
fisiche e culturali che circondano la nostra persona e la nostra vita». 219 Hillman legge l’ambiente
come la traccia circolare della psiche che riunisce transpersonalmente al suo interno sia l’Io
dell’individuo, sia lo spazio esterno con i suoi oggetti potenzialmente simbolici, in altre parole sia il
nucleo cosciente della personalità, che tutto ciò che è potenzialmente ignoto e che sfuma
gradualmente nella dimensione inconscia.
Così si arriva non solo a percepire, come precedentemente accennato, «che l’ambiente stesso
è intriso di anima, animato, inestricabilmente fuso con noi e non già sostanzialmente separato da
noi»220, ma anche che il limite spaziale dell’ambiente, ossia il mondo esterno e la propria limitata
percezione di esso, riprende la dinamica interiore di esperienza conscia ed esperienza inconscia che
si ha nella propria intimità,

Diventa sempre più difficile dividere con un taglio netto psiche e mondo, soggetto e oggetto, qui
dentro e il fuori. Non so più con certezza se la psiche è dentro di me o se io sono nella psiche

215
Id. Kompositionslehre der Natur. Biologie als undogmatische Naturwissenschaft, Ullstein, Frankfurt am Main-
Berlin-Wien, 1980, p. 355.
216
Cfr. P. Sloterdijk, Sfere III, cit. p. 54.
217
M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 607.
218
Cfr. M. Heidegger, I concetti fondamentali della metafisica. Mondo, finitezza, solitudine, tr. it. di C. Angelino, Il
nuovo melangolo, Genova, 1999.
219
J. Hillman, Il codice dell’anima. Carattere, vocazione, destino, tr. it. di A. Bottini, Adelphi, Milano, 1997, p. 190.
220
Ivi, p. 197.

52
come sono nei miei sogni, nelle atmosfere del paesaggio e nelle strade della città, [...]. Dove
finisce l’ambiente e dove incomincio io, e anzi come posso cominciare, senza essere in un
qualche luogo, coinvolto intimamente e nutrito dalla natura del mondo? 221

Pure Jung guarda all’ambiente che ci circonda allo stesso modo, in primo luogo attraverso il
fenomeno della proiezione. In un’intervista con il geografo Hans Carol, in riferimento al rapporto
tra psiche e ambiente, lo psicanalista svizzero dice

Abbiamo bisogno di proiettarci nelle cose che ci circondano. Il mio essere non è confinato nel
corpo; si prolunga nelle cose che ho fatto e in tutto ciò che mi circonda. Senza queste cose, io
non sarei me stesso... ma solo una scimmia antropomorfa. 222

Ossia, è impensabile per Jung eludere completamente l’attività psichica come se fosse
semplicemente un polo organizzato solo all’interno della coscienza umana. La totalità della psiche
si protende circolarmente nello spazio tridimensionale e permette al soggetto di mediare al di fuori
di se stesso con gli oggetti e altri soggetti, che sono al contempo potenziali immagini archetipiche.
L’ambiente per Jung, come abbiamo visto nel caso dell’esteriorità dello spazio extraterrestre, è
sempre una circolarità psichica che va oltre l’Io, e rappresenta esteriormente un parallelo
dell’inconscio collettivo. Sviluppando le sue posizioni, Jung arriva alla conclusione che un soggetto
non sia mai veramente tale, ma sempre decentrato rispetto al polo dell’Io. Nell’esame
dell’immaginario del soggetto interpretante, Wunenburger riprende le parole di Heidegger per
indicare come il soggetto, per il filosofo tedesco, non sia mai centrato su di sé, non solo nell’attività
ermeneutica di elaborazione delle immagini esterne alla coscienza, ma anche nel suo rapporto con
lo spazio interiore:

L’uomo non è mai anzitutto uomo, al di qua del mondo, come “soggetto”, sia questo inteso
come un “io” o come un “noi”. Inoltre egli non è mai solo un soggetto che contemporaneamente
si riferisce sempre anche a oggetti, cosicché la sua essenza starebbe nella relazione soggetto-
oggetto. Piuttosto, nella sua essenza, l’uomo è innanzitutto e-sistente nell’apertura dell’essere, la
quale apre nella radura quel “tra” (Zwischen) entro il quale può “essere” una “relazione” tra
soggetto e oggetto.223

In questo contesto di decentramento del soggetto umano, nonché della sua proiezione psichica
nello spazio ad esso circostante, Sloterdijk si riallaccia, tra le altre, all’opera di questi autori. Per il
filosofo di Karlsruhe, dato che l’esterno è troppo rischioso per un animale manchevole come
l’uomo, ma essendo lo spazio esterno una realtà psichica che definisce il soggetto, per risolvere la
221
Ivi, p. 198. Una posizione analoga si ritrova in E. Neumann, Il Sé, l’individuo, la realtà, tr. it. di B. S. Vigorita,
Vivarium, Milano, 2000.
222
C. G. Jung, Jung parla, cit., p. 265.
223
M. Heidegger, Lettera sull’«umanismo», tr. it. di F. Volpi, Adelphi, Milano, 1995, p. 84.

53
questione dell’essere-nel-mondo all’origine bisogna trovare un medium che possa proteggere
l’umano, un elemento concettuale e psichico che permetta all’uomo un’interazione sicura sia nei
confronti della propria interiorità inconscia, sia nel suo volgersi al mondo esterno.224
Allo stesso tempo Sloterdijk scava nell’opera del mago di Meßkirch, manchevole di aver
continuato nel suo magnum opus i prolegomeni di una riflessione ontologica sull’Essere e sullo
Spazio, per aver a questa preferito l’elemento temporale, lasciando la questione del dove irrisolta.225
Urge quindi recuperare questo sentiero (Holzweg) interrotto e scoprire dove conduce, per poter
affrontare la questione dell’abitare e dell’essere-nel-mondo in epoca postmoderna, noi uomini
diventati ormai, ma in fondo sempre stati fin dalla nascita, se non per il beneplacito dell’epoca,
«creature estatiche su cui lavora l’esterno».226
Parlare di Essere e Spazio a ridosso del XXI secolo richiede per Sloterdijk un’esperienza che
attinga ad una sintesi eclettica di tutte le maggiori riflessioni filosofiche, psicanalitiche, letterarie e
culturali che hanno contraddistinto il secolo scorso. Sloterdijk vuole riprendere esplicitamente il
discorso heideggeriano, integrandolo con uno studio che nei suoi tratti è tipicamente archetipico,
identificato attraverso le immagini psicomateriali à la Bachelard, ma prendendo come riferimento
anche i lavori sull’immaginario antropologico dello psicanalista Erich Neumann, del mitologo
Joseph Campbell e di Jung. L’archetipo sferico, come si vedrà più avanti, viene delineato da
Sloterdijk attraverso i modelli sferici della psiche offerti dalla psicologia del profondo e dai suoi
studiosi.
La soluzione allo spaesamento è la rotondità227, esposta attraverso immagini e realtà
immanenti, come suggerisce il titolo Sull’immanenza estatica dell’ultimo capitolo del primo volume
sferologico.228 La risposta al problema dell’Ungeheure è per Sloterdijk accettare la presenza del
mostruoso ed elaborare un pensiero che possa conviverci,

La ricerca del nostro dove è più sensata che mai, poiché essa si interroga sul luogo che
producono gli uomini per avere ciò in cui possono apparire ciò che sono. Questo luogo porta in
questa sede, in memoria di una tradizione rispettabile, il nome di sfera. La sfera è la rotondità
dotata di un ulteriore, utilizzato e condiviso, che gli uomini abitano nella misura in cui

224
Cfr. P. Sloterdijk, Non siamo ancora stati salvati..., cit., p. 113.
225
Cfr. M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 141. Cfr. P. Sloterdijk, Sfere I, cit., p. 318, «Il progetto “Sfere” può anche
essere visto come un tentativo di disseppellire il progetto Essere e spazio dal suo ricoprimento, progetto rimasto non
tematizzato nella prima opera di Heidegger – almeno in un aspetto essenziale».
226
P. Sloterdijk, Sfere I, cit., p. 147.
227
Sloterdijk introduce il suo discorso sferologico, ancora in procinto di maturazione, nelle precedenti opere Id.
Eurotaoismus. Zur Kritik der politischen Kinetik, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 1989; Id. Zur Welt kommen – zur
Sprache kommen, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 1988. Noi qui ci concentreremo sulla trilogia sferica, che comunque
risolve e porta a compimento la ricerca di queste opere precedenti. Cfr. D. Consoli, Introduzione a Sloterdijk, II
melangolo, Genova, 2017, p. 116.
228
Cfr. P. Sloterdijk, Sfere I, cit., p. 589.

54
pervengono ad essere uomini. Poiché abitare significa sempre costruire delle sfere, in piccolo
come in grande, gli uomini sono le creature che pongono in essere mondi circolari e guardano
all’esterno, verso l’orizzonte. Vivere nelle sfere significa produrre la dimensione nella quale gli
uomini possono essere contenuti.229

Sloterdijk utilizza la sfera come delimitazione fluida di uno spazio che serve principalmente
per pervenire al proprio essere, e quindi a immunizzare la creatura umana da un mondo sentito
come troppo vasto e ostile. In luogo all’essere-nel-mondo, Sloterdijk legge sempre l’Esserci
heideggeriano come essere-nelle-sfere. Tutte le sfere, che Sloterdijk presenta in diverse entità dalle
micro alle macro, sono prima di tutto sistemi immunitari (Immunsysteme), un’espressione che
intreccia in sé il connubio biologico e simbolico tipico della funzione del linguaggio nel pensiero di
Nietzsche.
La nozione di sistema immunitario ricopre in Sloterdijk principalmente la funzione di
protezione svolta dai grandi sistemi metafisici e dalle immagini del mondo, secondo cui religioni e
insiemi simbolici sono «deputati a proteggere l’equilibrio psichico dei gruppi umani». 230
L’immunizzazione è la pratica tramite cui un individuo e una comunità pongono in essere e
definiscono simbolicamente lo spazio del mondo, per potervi abitare al riparo dal pericolo della
dispersione della propria identità. La sfera allora, nel suo aspetto generale prima di assumere
fenomenologicamente altre forme, ha come funzione sua propria quella di racchiudere e proteggere
al suo interno il singolo con tutte le sue funzioni psichiche, e le comunità umane.
Ogni sfera assume i caratteri di una zona di protezione che tende a creare un clima interno,
regolato da un insieme di convenzioni e atmosfere il cui compito è equilibrare i contenuti al suo
interno, come è proprio di ogni spazio sconosciuto in cui alberga il nucleo oscuro dell’alterità. Per
citare Jünger, in una frase che ben esprime l’atteggiamento di Sloterdijk, entrare nell’interiorità
umana vuol dire «esplorare l’uomo nelle sue profondità: questo non significa vedere qualità,
significa vedere forme. Esse sole hanno il potere di domare l’elemento titanico».231
Le sfere tracciano gli spazi psicoantropologici attraverso delle unità interdipendenti che
sorgono dall’attività inconscia e dalla stessa costituzione umana come spazi sferici, ma gli stessi
sono perfettamente dinamici, si espandono e si contraggono, si estendono e feriscono fino a
rompersi, e nel ricostituirsi crescono sempre di più, inglobando l’esperienza e l’oggetto che ha
causato la frattura iniziale.

229
Ivi, p. 82.
230
A. Lucci, Peter Sloterdijk, Doppiozero, ebook, 2015, p. 85.
231
E. Jünger, Al muro del tempo, cit., p. 105.

55
Antonio Lucci evidenzia come una definizione univoca di sfera sia resa ostica dallo stesso
autore per come egli svolge la forma attraverso le diverse categorie sferologiche. 232 Ciò non è solo
dovuto al fatto che l’interesse dell’autore spazia notevolmente tra tre grandi costituzioni sferiche,
ma anche dal fatto che la natura e l’immagine sferica vengono esperite dall’uomo di volta in volta
attraverso diversi medium e funzioni psicologiche a seconda della dimensione in cui è coinvolto. Se
la microsferologia di Sloterdijk si presenta psichicamente come «l’unità originaria costitutiva di
quello che poi sarà l’individuo»233, e ci riporta prevalentemente nella nostra interiorità uterina, nel
passaggio alla macrosferologia ci troviamo «nell’analisi degli agglomerati collettivi e delle loro
imprese filosofiche, storiche e spaziali che hanno portato al susseguirsi di diverse immagini del
mondo».234
Da un lato abbiamo la sfera come spazio dell’intimità, suscettibile di rievocazioni inconsce
prenatali, mentre dall’altro la sfera viene ad essere la forma attraverso cui stabiliamo il nostro
Esserci, come nelle grandi cosmologie più o meno metafisiche che hanno caratterizzato le varie
epoche umane. Infine, la situazione postmoderna contraddistinta dall’afrologia, dove «al posto della
superbolla di sapone filosofica, della monade-tutto del mondo unificato [...] si posiziona
un’agglomerazione policosmica»235, risultato di innumerevoli visioni del mondo particolari che si
riversano allo scoppio della macrosfera metafisica.
Tuttavia, fatta questa doverosa premessa, se pure la sfera viene presentata attraverso diverse
forme e immagini, questa si rifà sempre a un minimo comun denominatore che è l’archetipo della
sfera in quanto tale. Per questo la domanda chiave che si vuole indagare è: perché la sfera e le sue
proprietà? È possibile che la trasposizione della sfera in ambito filosofico operata da Sloterdijk
possa essere ricondotta alla funzione psichica della forma sferica in quanto archetipo salvifico e
accentrante, l’archetipo del Sé e il mandala, come fu esplorato da Jung? E ancora, le proprietà
sferiche che Sloterdijk attribuisce alle sfere in quanto spazi immunologici dell’abitare sono
riconducibili alla funzione che l’archetipo del Sé svolge all’interno dell’economia psichica
dell’individuo e delle grandi comunità umane? La nostra risposta è positiva, e trova riscontro
nell’indagine che intraprendiamo qui all’interno dell’opera sloterdijkiana, esaminando le sue
fondamenta, per comprendere la natura archetipica del rotundum.
Prima però dobbiamo precisare la valenza simbolica della figura sferica nella sua
universalità e primordialità. La predilezione del nostro per la forma sferica, e tutte le sue varianti
aeroacquatiche psicomateriali, non risiede in un giudizio arbitrario, o al più in una sistematica

232
Cfr. Sfere in A. Lucci, Peter Sloterdijk, cit., p. 32.
233
A. Lucci, Il limite delle sfere, cit., p. 35. Il corsivo è presente nell’originale.
234
Ivi, p. 101. Il corsivo è presente nell’originale.
235
P. Sloterdijk, Sfere III, cit., pp. 54-55.

56
ricerca estetica dal carattere topologico, sebbene pure questa vi sia inclusa. Il dubbio che potrebbe
sorgere al lettore è che la sfera, con le sue proprietà, non sia funzionalmente diversa da una
piramide, da un cubo o da qualsiasi altra forma (Form)236, e che queste immagini avrebbero egual
diritto di poter rappresentare e racchiudere i nostri spazi, nonché di presentarsi più o meno
spontaneamente nelle nostre esplorazioni concettuali.
Per cercare parzialmente di ovviare a questo pensiero il tòpos sferico viene presentato da
Sloterdijk attraverso una nutrita serie di immagini dai più svariati campi, dalla pittura alla scultura,
dalla fotografia astronomica alla cartografia, mostrando direttamente la rotondità come realtà di
volta in volta presentatasi nelle sue varie dimensionalità ed espressioni psicodinamiche e fisiche.
Nella traduzione dell’immagine sferica in chiave filosofica, il nostro conserva lungo tutti e tre i libri
l’affidamento alla percezione del lettore attraverso l’elemento visivo mentre indirettamente l’intento
parallelo è di poter toccare la psiche inconscia dello spettatore, non diversamente da un maestro
taoista o chán, consapevole dell’universalità e della profondità del suo materiale.
L’elemento immaginifico nella trilogia è quindi più che un semplice valore aggiunto o
espositivo; esso partecipa testualmente dello sviluppo letterario, fungendo da continuazione alla
narrazione, non volendo fermarsi alla semplice raffigurazione, ma cercando archetipicamente una
comunicazione diretta con l’esperienza inconscia di chi legge. Per la scelta compositiva del medium
letterario, l’opera di Sloterdijk può essere forse facilmente compresa dallo studioso delle scienze
della cultura, dal poeta, dallo studioso di estetica o dallo psicanalista archetipico e simbolico,
tuttavia potrebbe essere difficilmente interrogata dall’intellettuale specialistico.237
Alla fine della sua trilogia sferica, nel terzo volume Schiume, il filosofo presenta una scena
teatrale polemica e per tratti ironica intitolata Retrospettiva, che per stile riprende le forme letterarie
del teatro filosofico, in cui tre personaggi chiamati il macrostorico, il critico letterario e il teologo,
dibattono in attesa che l’autore decida come considerare i volumi appena scritti, e soprattutto come
interpretare le sfere. Il palcoscenico letterario vorrebbe da un lato ironizzare la difficoltà per il
panorama filosofico tradizionale accademico di comprendere lo spirito di un lavoro olistico a più
dimensioni, dall’altro si offre come complemento per dissezionare la sferologia in diverse
prospettive ed evidenziarne meglio le varie espressioni.

236
Letteralmente contorno, sagoma, profilo, considerare cioè la sfera solo in base alla sua segnatura rappresentabile.
Cfr. M. Heidegger, L’origine dell’opera d’arte, cit., p. 170.
237
Problema che può nascere nell’introduzione di Sloterdijk in altri contesti accademici, oltre alla formazione culturale
del singolo. Cfr. D. Consoli, op. cit., p. 186, «Un discorso a parte meriterebbe la – per ora limitata – ricezione italiana
del pensiero di questo filosofo che, se inizialmente può aver risentito della stigmatizzazione successiva allo scandalo sul
“parco umano”, sembra connessa più che altro alla difficoltà di acclimatamento nel contesto culturale e filosofico
italiano di una produzione tanto eclettica e difficilmente incasellabile nelle categorie tradizionali».

57
Ecco allora che il macrostorico si concentra maggiormente sulla valenza immunologica
delle sfere come contenitori storico-sociali all’interno dei quali si evolve la specie umana; egli però
confessa di non «aver capito che cosa siano, in ultima istanza, le cosiddette sfere» 238 e di non sentire
il bisogno di usarne l’espressione in futuro, anche se riconosce che «può anche darsi che la mia
mancanza di comprensione per l’essenza dello sferico costituisca un ostacolo». 239 Il critico letterario
invece nota «che si tratta di portare l’élan poetico a cooperare con la scepsi».240
L’intento dell’autore è di mostrare che tutte queste prospettive incarnate dai rispettivi
personaggi sono egualmente valide e vanno considerate contemporaneamente l’una all’altra, in puro
spirito eclettico e interdisciplinare, pur conservando le opportune sfumature, perché tutte si
ritrovano a loro modo nella sfericità generale. Anche se la “topofilia” sloterdijkiana si inserisce nel
panorama filosofico e abbraccia l’attività intellettuale, non è nelle sue intenzioni esaurirsi
esclusivamente in essa né soffermarsi sulla (auf) sfera in quanto figura di contorno, richiedendo al
lettore una conoscenza e un’esperienza pregresse fondate tra le altre cose nel poetico e nel
simbolico, per poter a tutti gli effetti abitare l’immagine.

La scienza ha da imparare molto dalla poesia, nel momento in cui sa quali domande porre al
linguaggio poetico. Per me, l’analisi sferologica è un processo per formulare le questioni
sollevate dalle forme del linguaggio poetico, mitologico, religioso, senza le quali difficilmente
qualunque filosofo sarebbe riuscito ad avere delle idee, è fondamentale usare queste fonti. In
esse c’è un tesoro di sapere espressivo sulle realtà sferiche, che bisogna solo imparare a
configurare nella dimensione concettuale. 241

Sloterdijk tratta sempre prima di tutto la sfera in quanto tale come realtà estratta da quel
“tesoro di sapere espressivo sulle realtà sferiche” che è l’insieme di realtà archetipiche del
patrimonio psicoantropologico umano, per cui nella sferologia sono sempre incluse le attività
sferopoietiche della psiche. In questo possiamo parafrasare l’assunto junghiano, originariamente
diretto all’opera d’arte, per cui, «per comprenderne il significato, bisogna lasciarsi plasmare da lei
come essa ha plasmato il poeta».242
Dobbiamo immergerci brevemente nel poetico per risalire alla sorgente della sferologia
sloterdijkiana, compito che verrà svolto attingendo, nei limiti del nostro studio,
contemporaneamente alla fonte junghiana, anche all’influenza principale di Bachelard e di
Heidegger, per mostrare come Sloterdijk abbia sintetizzato i tre e ne abbia ricavato il suo pensiero.

238
P. Sloterdijk, Sfere III, cit., p. 816.
239
Ivi, p. 822.
240
Ivi, p. 817.
241
P. Sloterdijk, Die Sonne und der Tod, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 2006, p. 156. Cfr. anche D. Consoli,
Introduzione a Sloterdijk, Il melangolo, Genova, p. 97.
242
C. G. Jung, Civiltà in transizione, cit., p. 377.

58
Si può dire che la trilogia sia per certi versi il tentativo più compiuto e caratteristico nelle
Kulturwissenschaften di raggiungere pienamente l’apertura del pensiero al poetico che l’autore ha
ereditato dal secondo Heidegger, commentatore di Hölderlin.243
In questo una delle fonti principali è indicata dallo stesso autore nella posizione assunta da
Bachelard nel suo La Poetica dello Spazio (La poétique de l’espace, 1957) e in particolare
nell’ultimo capitolo intitolato La fenomenologia del rotondo, uno dei testi fondamentali
direttamente citati da Sloterdijk nella sferologia.244 Nel rapporto con Bachelard, noto commentatore
nelle sue opere delle immagini junghiane, passa uno degli anelli principali che definisce il legame
immaginale tra Sloterdijk e Jung. Bachelard, in questo vicino a Heidegger e Jung, ricorda che per
poter sondare il poetico, è necessario prima di tutto lasciarsi alle spalle ogni forma di causalità
riconducibile ad una percezione esterna, il che comporta un lavoro catartico da parte del soggetto,
per allontanarsi da un’estetica fondata sulla percezione dell’oggetto in quanto ente distinto dal
soggetto. Non è possibile incontrare il poetico finché si resta nell’empirico e nel filosofico, ma solo
viverlo inizialmente come fenomeno spontaneo originario suo proprio dentro l’uomo. Nel poetico
«nulla ricorda la vita quotidiana, qui prendono vita sogni, paure notturne e lugubri intuizioni di
tenebre psichiche».245
Per Bachelard dobbiamo defilosofizzarci, in quanto la filosofia ci fa maturare troppo presto
e ci pone nella prospettiva dell’indagine, per uscire dal limite immaginifico della cultura che ci
racchiude e che ci presenta i simboli e le immagini archetipiche come già cristallizzati nel loro
essersi presentati al linguaggio e al mondo; allo stesso tempo bisogna depsicanalizzarci, ossia uscire
dall’orizzonte di senso analitico che vorrebbe trovare un significato o un motivo, inteso qui
psicologicamente, dietro l’apparizione di un elemento psichico come è l’immagine poetica.246
Solo così ci si può abbandonare alla rêverie, l’immaginazione a occhi aperti o anche flusso
di immagini che vengono alla coscienza in uno stato di veglia trasognato, e abbracciarne le
immaginazioni materiali che contraddistinguono l’attività poetica. 247 Il poeta infatti, attraverso
un’intensa attività di rêverie, è in grado di toccare le immagini organiche nonché psicomateriali
provenienti dall’inconscio proprio con la giusta dose di coscienza, abbassandone la soglia
abbastanza da poter restare presente a se stesso, senza inficiare la spontaneità e la vitalità delle

243
Cfr. la Prefazione alla seconda edizione in M. Heidegger, La Poesia di Hölderlin, cit., p. 5; «Queste delucidazioni
appartengono al colloquio di un pensare con un poetare la cui singolarità storica non può mai venire dimostrata al modo
della storiografia letteraria, ma può invece venir mostrata dal colloquio pensante che in essa produce».
244
Cfr. P. Sloterdijk, Sfere I, cit., p. 87.
245
C. G. Jung, Civiltà in transizione, cit., p. 364.
246
Cfr. G. Bachelard, La poetica dello spazio, cit., p. 271.
247
La rêverie, termine intraducibile, occupa tutta la fenomenologia poetica di Bachelard, e si sposa con la pratica
dell’immaginazione attiva di Jung. Cfr. Id., La poetica della rêverie, tr. it. di G. Silvestri Stefan, Dedalo, Bari, 2007.
Vedi anche infra.

59
immagini. L’Io del poeta, in questo vicino a Jung, può fare esperienza delle immagini inconsce
senza per questo doverle affrontare patologicamente, e senza doverle modificare necessariamente
con l’attività razionale.248
È qui, in questo spazio psichico collettivo, da questo ignoto che ci tocca direttamente, che è
possibile per l’immagine sferica sorgere. Essa viene esattamente identica a se stessa, e riempie con
la sua rotondità l’esperienza psichica dell’uomo nell’Essere. «Vi sono certo quanti vorranno
“comprendere”, mentre, in primo luogo, è necessario cogliere l’immagine nel suo sorgere». 249 Il
comprendere qui è inteso nel senso di abbracciare, di andare incontro all’immagine per afferrarla
(greifen) con l’intelletto e crearne una nozione o un concetto (Begriff), per indagarne il senso. Un
pensare di questo genere, che Bachelard definisce geometrico, quando non integrato dall’esperienza
inconscia, da un lato inficia la profondità della psiche, ragionando sul simbolo e sull’Essere invece
di viverne inizialmente le dinamiche sue proprie, dall’altro riduce la sfera qui trattata a segno
semiotico, che quindi rientrerebbe nelle espressioni dell’allegoria e della metafora, in cui il
significato riposto rimanda sempre a qualcosa d’altro.250
Se la sfera fosse esclusivamente un segno, avremmo tutto il diritto di poterla manipolare a
nostro piacimento nelle nostre fantasie, e di intercambiarne l’applicabilità della forma nello spazio
con un altro σχήμα, che si tratti della nostra intimità o dell’esterno che abitiamo. Se il segno
significa qualcosa come analogia, questo può essere solo un senso dato a posteriori dalla capacità
fantasticante e percettiva della coscienza, che scinde l’immagine apparsa dalla sua propria
primordiale psico-ontologia.
Bachelard si allontana da questa episteme, criticando il pensare geometrico che si concentra
esclusivamente sulle proprietà estrinseche della figura: «La sfera del geometra è la sfera vuota,
essenzialmente vuota. Essa non può essere un buon simbolo per i nostri studi fenomenologici della
rotondità piena».251 L’attività del pensiero allora non si sta più concentrando sul simbolo, ma
sull’idea che da quel simbolo è stata estratta-astratta attraverso la facoltà del pensiero, riducendo la
sfera a ciò che per Jung è «null’altro che il significato formulato di un’immagine primordiale
(Urbild) nella quale esso era già presentato simbolicamente».252
L’idea (Idee), junghianamente intesa, viene ad essere quella illustrazione nella coscienza e
nella nostra rappresentazione razionale, attraverso la quale l’immagine primordiale esprime le sue
248
Tuttavia la rêverie di Bachelard è estremamente limitante rispetto alla pratica dell’immaginazione attiva formulata da
Jung.
249
G. Bachelard, La poetica dello spazio, cit., p. 268.
250
Ci riferiamo qui, oltre alle note definizioni dei vocaboli, alla descrizione offerta da Jung. Cfr. C. G. Jung, Tipi
Psicologici, cit., p. 525, «Ogni concezione che definisce l’espressione simbolica come analogia o come denominazione
abbreviata di una cosa nota è semiotica».
251
G. Bachelard, La poetica dello spazio, cit., p. 271. Il corsivo è nostro.
252
C. G. Jung, Tipi psicologici, cit., p. 485. Il corsivo è presente nell’originale.

60
diverse qualità, concretizzandosi di volta in volta nella nostra psiche in una forma (Gestalt)
compiuta o piena, da cui poi, e solo successivamente al suo primo venire alla luce ed essere
rappresentato, per la facoltà razionale o fantastica è possibile estrarre la forma (Form) vuota.
Sloterdijk in questo avverte che di contro alla cultura scientifica europea orientata
all’oggettivazione, proprio il realissimum dell’interiorità animata come sfericità può rappresentare
una sottrazione

a qualsiasi rappresentazione linguistica e geometrica – e a tutte le rappresentazioni in generale –


e che tuttavia impone a ogni punto dell’esistenza la costituzione di cerchi e sfere originari grazie
a un potenziale di arrotondamento che è in vigore prima di qualsiasi costruzione di cerchi
formale e tecnica.253

Quando l’immagine è però colta come idea, questa non può trasportare con sé la propria
essenza simbolica, che resta nascosta dietro l’illustrazione. Ecco perché non possiamo accontentarci
di una sfera qualunque, ma dobbiamo ricercare la sfera come archetipo ed esperienza originaria.
Nel momento in cui l’immagine sferica sorge dal buio lo fa invece come rotondità piena,
intesa da Bachelard come l’essenza propria della sfera a «raccoglierci su noi stessi, a dare a noi
stessi una prima costituzione, ad affermare il nostro essere intimamente, a partire dal dentro». 254
L’immagine sorta nel poetico è un’immagine dell’essere, un’espressione pura, pristina, compiuta in
sé e per sé, a cui il fenomenologo si volge con gli occhi di un osservatore accorto, attento a
concentrarsi rispettosamente sulla visione. Henry Corbin definisce così queste immagini:

...vanno distinte le immaginazioni premeditate o provocate da un processo cosciente dello


spirito, e quelle che si presentano allo spirito seguendo esclusivamente la propria spontaneità,
come i sogni (sogni veri e propri, o sogni risvegliati) ... l’immaginazione separabile dal
soggetto, ha invece una realtà autonoma e sussistente sui generis sul piano dell’Essere che è
quello del mondo intermedio, il mondo delle Idee-Immagini, mundus imaginalis.255

La forza dell’immagine poetica è tale che questa riempie tutta la persona come vitalità della
psiche inconscia umana, cioè ha un effetto tale da ordinare e riorganizzare la costituzione
psicologica del soggetto. L’archetipo qui può darsi in tutta la sua forza, pregno di carica numinosa,
«un organismo che vive di vita propria, “dotato di potenza generatrice”» 256 in quanto genera nuove
visioni.
Guardare anche solo fenomenologicamente alla rotondità vuol dire implicitamente
riconoscerne il carattere vitale connaturato alla sua natura simbolica, nonché la sua propria essenza
253
P. Sloterdijk, Sfere I, cit., p. 70.
254
G. Bachelard, La poetica dello spazio, cit., p. 269.
255
H. Corbin, L’immaginazione creatrice: le radici del sufismo, tr. it. di L. Capezzone, Laterza, Bari, 2005, p. 192.
256
C. G. Jung, Tipi psicologici, cit., p. 405.

61
accerchiante che richiama il partecipante al suo interno con la sua propria vitalità. Se Bachelard
mantiene ancora una posizione troppo cauta nel suo essere fenomenologo, oppure viceversa tende a
far parlare il poeta e a rimandare al suo verso la totalità dell’attimo, Jung, nel suo sperimentare con
la mitologia archetipica nel Libro Rosso e nei suoi due scritti Psicologia analitica e arte poetica e
Psicologia e poesia, vede l’inconscio collettivo sì come fonte del poetico – esso è il poetico stesso
in quanto dimensione transpersonale e collettiva all’interno del quale il poeta si muove e che per
mezzo di lui parla –, ma oltre alla prospettiva fenomenologica, si offre di fare esperienza diretta
degli archetipi che vengono di volta in volta alla coscienza, diventando egli stesso cantore di miti.
Perciò «la visione rappresenta l’esperienza di un fatto reale. [...] è realtà psichica, che ha
perlomeno lo stesso valore di quella fisica»,257 da cui veniamo ricondotti al poetico come realtà del
mondo.258 La poesia nella sua essenza più vera, ci ricorda Heidegger, è essa stessa linguaggio
dell’Essere che si dà ogni volta nell’evento del poetare. 259 Dall’interiorità dell’uomo poetante nasce
di volta in volta il dire che consegna la nuova parola, il nuovo evento (Ereignis) nella storia
dell’Essere al linguaggio. Esso «ci coinvolge per destino, perché poeta noi stessi, [...]». 260 Le
immagini del poeta, in quanto linguaggio, e quindi mondo e terra natìa, sono delle

immaginazioni (Ein-Bildungen) in un senso eminente: non pure e semplici fantasie e illusioni,


ma immaginazioni come incorporazioni (Einschlüsse) visibili dell’estraneo nell’aspetto di ciò
che è familiare.261

Le incorporazioni, o anche inclusioni, in chiave junghiana, sono gli archetipi che si esprimono
nell’unus mundus. L’uomo porta attraverso il poetico una dimensione essenziale che facendosi
inclusione corporea permette di vivere la psiche come spazialità estesa. È in questo che ritroviamo il
significato del verso «poeticamente abita l’uomo», che Heidegger recupera da Hölderlin, e che pure
Sloterdijk recupera; ricordiamo che per il filosofo ogni essere-nel-mondo è sempre un essere-nelle-
sfere.262
Ma essere poeticamente vuol dire misurare (messen). La misura viene dal poetare del poeta
che così si appresta a preparare la terra (Erde) per il suo abitare. Il poetare tutto è per Heidegger il
misurare che prepara l’abitare, attraverso cui i poeti «prendono la misura per l’architettonica» 263
edificazione che servirà a costruire in allineamento con la totalità di cielo e terra. Per poter esistere
sulla terra quindi, l’uomo modifica il paesaggio utilizzando le immagini poetiche, cioè realizzando
257
C. G. Jung, Civiltà in transizione, cit., p. 367. Il corsivo è presente nell’originale.
258
Cfr. M. L. von Franz, Psiche e Materia, cit., p. 88.
259
Cfr. G. Moretti, Il Poeta ferito. Hölderlin, Heidegger e la storia dell’essere, La mandragora, Imola, 1999, p. 73.
260
M. Heidegger, La poesia di Hölderlin, cit., p. 220.
261
M. Heidegger, Saggi e discorsi, cit., p. 135.
262
Cfr. P. Sloterdijk, Sfere I, cit., p. 79.
263
Ivi, p. 136.

62
nell’opera architettonica la stessa incorporazione che avviene attraverso l’atto creativo della poesia.
Se la misura che racchiude l’abitare dell’uomo è trovata dal poeta, questa può venire solo da quel
linguaggio che fa mondo, che è il farsi corpo dell’immagine primordiale dell’archetipo. Infatti
l’architettonica prevede da parte di Hillman il dispiegamento della forma archetipica nello spazio,
un animare nella misurazione attraverso l’immaginazione che è un «plasmare l’ambiente al fine di
abitare l’archetipo».264 Le immagini risultano da un «intreccio di configurazioni semantiche e
sintattiche (mitemi e archetipi spaziali) dotate di una pregnanza e di determinazioni formali e
materiali del mondo oggettivo»265 che costituiscono delle organizzazioni percettive privilegiate.
In Heidegger la misura nel mondo si esprime nel suo aspetto più compiuto attraverso la
Quadratura (das Gevierte), concetto che appare improvvisamente nel pensiero del filosofo per la
prima volta nel saggio La Cosa (Das Ding, 1936). Lungi dall’essere una semplice invenzione
concettuale, la Quadratura nasce dall’incontro di Heidegger con una realtà che travalica il pensiero,
mutuata dalla sua riflessione sulla cosalità della brocca. Si tratta di un’incursione nell’esperienza
taoista, derivata dalle letture heideggeriane del Daodejing266 e dallo spostamento della riflessione
ontologica dall’Essere e il Nulla, a quella tipicamente orientale della reciproca complementarità tra
il pieno e il vuoto.
Riflettendo sull’essenza di un comune oggetto come una brocca, la Quadratura si forma a
partire da ciò che Heidegger definisce il broccheggiare della brocca. Non è la fattualità piena della
brocca, cioè il suo essere una cosa in sé fatta di una data forma, ma è il vuoto a consentire alla
brocca di svolgere la sua cosalità, «il duplice contenere del vuoto si fonda sul versare. [...] Ma
versare dalla brocca è offrire».267 L’offerta apre lo spazio delle relazioni, sono i rapporti mediati dal
permanere e dal soggiornare che rendono la brocca come brocca. Ma la cosa nel suo versare
instaura una relazione con tutto lo spazio, perché nella sua acqua si trova la sorgente in cui permane
la roccia, in cui ancora riposa la terra (Erde). Qui Heidegger non parla più per concetti, ma per
immagini poetiche attraverso il pensiero poetante:

Nell’acqua della sorgente permangono le nozze di cielo e terra. Questo sposalizio permane nel
vino, che ci è dato dal frutto della vite, nel quale la forza nutritiva della terra e il sole del cielo si
alleano e si congiungono. Nell’offerta dell’acqua, nell’offerta del vino permangono ogni volta
cielo e terra. L’offerta del versare, però, è l’esser-brocca della brocca. Nell’essenza della brocca
permangono cielo e terra.268

264
J. Hillman, L’anima dei luoghi: psicologia e architettura, tr. it. di S. Ronchey, Rizzoli, Milano, 2004, p. 58.
265
J. J. Wunenburger, La vita delle immagini, cit., p. 135.
266
Cfr. L. V. Arena, Heidegger, il Tao e lo zen, ebook, 2014.
267
M. Heidegger, Saggi e discorsi, cit., p. 114.
268
Ibidem.

63
Nella brocca Heidegger vede l’incorporazione di un archetipo unificatore che permette
l’ordinamento di tutto lo spazio del mondo. Nella Quadratura si ritrovano unite le nozze di cielo e
terra, attraverso la spiritualità portata dal vino. Si tratta di un’esperienza di hyeros gamos, ovvero la
comunione archetipico-alchemica delle nozze sacre, che sorge all’interno della psiche attraverso la
congiunzione di due o più polarità e contenuti psichici. Le nozze mistiche sono «il momento in cui
gli elementi opposti dell’opus [alchemico] si riuniscono»269, le dimensionalità di spirito e materia,
cielo e terra, permettendo così di riunificare la spazialità dispersa dell’Aperto come compimento
della quadratura dello spazio. Gli elementi del mondo vengono ricongiunti assieme ai divini e ai
mortali, che tradotto nella terminologia junghiana significa il raggiungimento di un equilibrio
psichico di conscio e inconscio. Nella discussione di Byung-Chul Han della filosofia heideggeriana,
ritroviamo la ripresa della Quadratura,

La brocca è in quanto fa permanere in sé terra e cielo, i mortali e i divini, cioè li riunisce in sé.
Heidegger chiama la riunione dei Quattro il mondo, ovvero la Quadratura (Geviert). La brocca è
il mondo.270

Nella Quadratura possiamo ritrovare una immagine dell’archetipo del Sé, come legge Jung sul
suo studio del motivo quaternario nella psiche e nell’alchimia. Difatti il numero quattro indica un
motivo psicologico che significa un ampliamento della coscienza. 271 L’archetipo del Sé viene
descritto da Jung come l’istanza supraordinata all’Io in grado di organizzare i contenuti psichici. Se
l’Io è il centro esclusivamente della mente conscia, il Sé è la funzione psichica che contiene l’Io e
ne mantiene l’equilibrio con gli altri archetipi, rendendo possibile la comunicazione con l’inconscio
collettivo e i suoi simboli. Nella psicologia del profondo si è quindi in una psiche intersoggettiva e
bilaterale: l’Io è il centro della personalità, mentre il Sé costituisce il centro dell’intera psiche.
La tensione dell’Io nei confronti del Sé viene a svolgersi, come afferma von Franz, attraverso
il processo di individuazione, cioè «la realizzazione consapevole del proprio centro interiore». 272
Grazie alla guida dell’archetipo del Sé, è possibile incontrare e integrare psicologicamente tutti gli
altri archetipi, che si presentano come successioni d’immagini. 273 Nel suo volume Misteryum
Coniunctionis, Jung definisce il Sé come ciò che

269
M. L. von Franz, Il mito di Jung, cit., p. 136.
270
B. C. Han, Filosofia del Buddhismo zen, tr. it. di V. Tamaro, Nottetempo, Milano, 2018, p. 62.
271
Cfr. C. G. Jung, Psicologia e alchimia, cit., p. 78.
272
M. L. von Franz, Il processo di individuazione, in C. G. Jung, L’uomo e i suoi simboli, cit., p. 169.
273
Cfr. J. Jacobi, La psicologia di C. G. Jung, tr. it. di A. Vita – A. Cinato, Bollati Boringhieri, Torino, 2014, p. 40.

64
abbraccia l’Io, l’Ombra, l’Anima e l’inconscio collettivo con incommensurabile estensione.
Come totalità, il Sè è una coincidentia oppositorum; è quindi chiaro e scuro, eppure nessuno dei
due.274

La sua funzione accentrante si manifesta simbolicamente attraverso immagini circolari,


sferiche, globulari, il cui compito è quello di proteggere, racchiudere, organizzare la realtà interiore
in un centro (Fig. 17).

Fig. 17 – Struttura circolare della psiche, in


Edward F. Edinger, Anatomia della psiche, cit.,
p. 103.

Anche Joseph Campbell, commentando l’archetipologia junghiana in riferimento agli studi


mitografici e antropologici, nota che «il Sé è la totalità e, pensandola come un cerchio, il centro del
cerchio sarebbe il centro del Sé».275 Come ordinatore del mondo nello spazio esterno, quando
l’archetipo viene proiettato al di fuori durante momenti di forti crisi psichiche, risulta in una risposta
inconscia per poter risanare e mantenere assieme gli elementi dell’ambiente.
Nel suo studio in Un mito moderno. Le cose che si vedono in cielo, Jung legge le diverse
apparizioni sferiche e circolari nei sogni e nei fenomeni di proiezioni psichiche del secolo scorso,
attraverso diverse figure oniriche e visionarie (Fig. 18) che vanno da cerchi a oggetti oblunghi a
navi spaziali, come il tentativo da parte dell’inconscio collettivo di poter arginare le scissioni
causate dalla grande catastrofe del periodo bellico attraverso l’archetipo circolare, che resta una
delle tante forme di Dio,

274
C. G. Jung, Mysterium Coniunctionis, cit., p. 108.
275
J. Campbell, Percorsi di felciità. Mitologia e trasformazione personale, a cura di D. Kudler, tr. it. di A. Sciacchitano,
Raffaello Cortina, Milano, 2012, p. 83.

65
Dal punto di vista psicologico la pluralità di un simbolo dell’unità significa una suddivisione in
molte unità autonome, cioè in una pluralità di “Sé”, col che l’unico principio “metafisico”,
l’immagine monoteistica, è risolto in una pluralità di dii inferiores. [...] la scelta del simbolo
(corpo rotondo) indica che ciò che è proiettato ha per contenuto non tanto la pluralità delle
persone ma piuttosto la loro ideale totalità psichica, vale a dire non solo l’uomo empirico –
nell’esperienza di sé medesimo che egli possa avere – ma tutta la sua psiche, i cui contenuti
consci devono ancora essere integrati dai contenuti dell’inconscio. 276

Fig. 18 – Fenomeno celeste sulla città di Norimberga, 14


aprile 1561, in C. G. Jung, Un mito moderno, cit., p. 89.

L’apparizione di questi fenomeni circolari non è niente di metafisico, ma si radica nei sogni e
nelle visioni spontanee dei pazienti come una compensazione da parte dell’inconscio collettivo di
sanare la forte spaccatura in atto. Gli orrori della guerra e le stragi hanno traumatizzato per Jung
l’uomo del XX secolo al punto da rendere la sua coscienza fragile e bisognosa di un simbolo
riparatore. A tal scopo la forma circolare del Sé si prodiga per accerchiare il mondo, un’operazione
indirettamente al fondamento di tutta la sferologia sloterdijkiana.
Si tratta di proiezioni sia di movimenti quaternari come la croce, sia di elementi sferoidali il
cui scopo è quello di proteggere il soggetto all’interno del cataclisma e difenderlo dall’Ungeheure.
Come nel caso delle sfere di Sloterdijk, la relazione psicodinamica che costituisce il rapporto delle
sfere sloterdijkiane con la propria interiorità e con il mondo esterno trova compimento nella
funzione immunizzante del Sé junghiano. Pure Heidegger aveva notato che la definizione dello
spazio costitutivo dell’Esserci viene definita attraverso una proiezione attorno all’individuo, per cui
«non possiamo dimenticare che fin dalle origini l’essere dell’ente fu pensato in riferimento
all’accerchiare»277, cioè come sfera e globo. Allo stesso tempo la corrispondenza tra quadratura e
cerchio viene ripresa da Bachelard nell’alchimia per cui

276
C. G. Jung, Un mito moderno..., cit., p. 49.
277
M. Heidegger, Perché i poeti?, in Id., Sentieri interrotti, cit., p. 277.

66
Chi disegna un cerchio attribuendogli valori simbolici, sogna più o meno tacitamente un ventre;
chi disegna un quadrato, attribuendogli valori simbolici, costruisce un rifugio. Gli interessi
inconsci non vengono abbandonati tanto semplicemente per degli interessi geometrici. 278

L’archetipo quadrato è un rifugio per la coscienza, ma tramite la pratica della quadratura del
cerchio, la sua qualità quadrangolare di riparo si trasforma in quella rotonda di totalità. Nella
quadratura del cerchio esaminata attraverso i sogni del fisico Wolfgang Pauli, la figura del Vecchio
Saggio indica allo scienziato un punto in cui circoscrivere il proprio Sé. A tal proposito Jung
commenta che «La realtà umana richiede una posizione ben definita nello spazio e nel tempo». 279 Il
quadrato è una forma meno perfetta del rotondo, più artificiosa e discriminante, portata alla difesa,
meno spontanea rispetto alla circolarità, che invece si definisce da sé e ha carattere primigenio
d’intimità e inclusione. Il quadrato «viene tracciato, mentre la rotondità si manifesta con più forza e
necessità a chiudere lo spazio».280 Il rotondo infatti è «il potere di centrare l’oggetto» 281 in una
dimensione inclusiva. Ecco allora che

Il grido rotondo dell’essere rotondo arrotonda a cupola il cielo. E, nel paesaggio arrotondato,
tutto sembra riposare. L’essere rotondo propaga la sua rotondità, propaga la calma di ogni
rotondità.282

La rotondità del cielo è il legame con la quaternità heideggeriana, che a sua volta è
l’espressione di una forma psichica che cerca di stabilizzarsi nella sua estensione dello spazio. La
rotondità però sogna un ventre. Nel suo scritto Anima e Terra, Jung ribadisce che gli archetipi
formano il legame e la parte ctonia dell’anima con la geografia locale, forme proiettate nella regione
circostante che riprendono a seconda dei casi l’accezione natale di Heimat, «che legano il soggetto
al paesaggio, per cui esso è a seconda dei casi la madre, la patria e progenitrice a cui il locale è
legato per legame inconscio».283 L’immagine materna si ritrova nella sfericità di Sloterdijk nella
prima forma sferica reminiscente del mondo prenatale, ripresa nell’uterotopo, cioè nella
trasposizione femminina del luogo che di volta in volta, su scale sempre più macrocosmiche,
l’uomo si trova a costruire ed abitare.

II. Archetipi matriarcali-insulari: il Sé come uterotopo

278
G. Bachelard, La terra e il riposo..., cit., p. 123.
279
C. G. Jung, Psicologia e alchimia, cit., p. 191.
280
C. G. Jung, Mysterium Coniunctionis, cit., p. 399.
281
G. Durand, Le strutture antropologiche dell’immaginario, cit., p. 307.
282
G. Bachelard, La poetica dello spazio, cit., p. 274.
283
C. G. Jung, Civiltà in transizione, cit., pp. 58-59.

67
Esamineremo qui di seguito due particolari fenomenologie sferiche che per Sloterdijk
costituiscono il modello principale sia degli spazi dell’interiorità microsferologica, sia delle grandi
edificazioni urbane e monumentali delle abitazioni macrosferiche. Da questi due modelli deriva
ogni altra sfericità. La prima fra tutte è la sfera uterina della madre, che conferisce l’imprinting
originario per la produzione di ogni altra sfera. In quanto animali placentari, per Sloterdijk ogni
uomo porta dentro di sé l’esperienza della rotondità, perché è biologicamente connaturata alla
costituzione umana. La forma uterina si innesta nella psiche inconscia dell’individuo da prima della
nascita. Si vedrà come questa impronta uterina resti presente all’interno della simbologia
archetipica esaminata da Jung e dai suoi colleghi e costituisca una tappa immaginale fondamentale.
Durante il processo di individuazione, la tendenza a sviluppare una coscienza supraordinata della
psiche si presenta fenomenologicamente nei miti e nelle sedute di analisi come un movimento di
ritorno al grembo materno e di rinascita simbolica.
Se interiormente la madre offre la forma originaria, esteriormente questa viene proiettata a
formare gli spazi di coesistenza sociale. La seconda sfera principale del discorso sferologico è la
città, intesa come spazio in cui viene rivissuta l’originaria unione materna. La costruzione delle
grandi città mediorientali è vista da Sloterdijk come il tentativo da parte dell’uomo di sedimentarsi
nel mondo sotto l’egida del corpo uterino. In questo senso la città compare non solo come figura
femminile e matriarcale, ma anche junghianamente come immagine dell’archetipo del Sé. È proprio
della città fungere da figura mandalica in grado di offrire un ordinamento per l’abitare.
Abbiamo visto che l’origine poetica dell’immagine archetipica si riallaccia agli studi
bachelardiani, heideggeriani e junghiani. In aggiunta, per Sloterdijk trarre la forma microsferologica
della sfera vuol dire allacciarsi alla soluzione archetipica dell’omologia filetica, risalire a quello
spazio atemporale situato prima della nascita e dell’essere-gettati nel mondo dell’Essere, da cui
l’animale umano ricava l’impressione iniziale per svolgere e rappresentare le proprie esistenze
immunologiche. Dall’inconscio collettivo viene spontaneamente alla luce la forma archetipica del
rotundum, e questa viene proiettata sia nell’interiorità che nel mondo esterno, permettendo
all’Esserci umano di circoscrivere uno spazio vitale per proteggersi nell’Aperto e nel mostruoso.
Nel dibattito psicanalitico, l’analista e filosofo junghiano Romano Màdera si pone nei
confronti dell’archetipo attraverso le ricerche dello studioso di scuola junghiana Mario Trevi. La
critica post-junghiana si è preoccupata della distinzione cruciale tra immagini psichiche omologiche
e analogiche. Le immagini omologiche filetiche riguardano la possibilità per l’immagine archetipica
di potersi formare grazie ad una trasmissione genetica, in cui le immagini siano «spiegabili solo
ipotizzando una disposizione a formare quel tipo di immagini come propria della specie» 284, a
284
R. Màdera, op. cit., p. 118.

68
differenza di quelle omologiche per tradizione, «dove la somiglianza è prodotta da un processo di
apprendimento e trasmissione».285
Differenziare tra eredità archetipiche genetiche e apprese, e tra omologie e analogie di tipo
diverso, diventa il punto di partenza attorno cui ruota l’attività dell’archetipologia: in caso contrario
si rischia di confondere l’origine delle predisposizioni a formulare una particolare immagine, con
una capacità acquisita. Nella sua introduzione al lavoro Complesso, archetipo, simbolo nella
psicologia di C. G. Jung della collaboratrice e analista junghiana Jolande Jacobi, Spotti scrive che
anche se è vero che Jung in genere non offre una differenziazione adeguata, ciò non toglie che tra le
due definizioni di “immagine ereditata” e “disposizione (filogeneticamente ereditata) a
rappresentare”, argomentate da Jacobi, Jung scelga di gran lunga la seconda,

L’accezione indicata alla fine da Jung prospetta una concezione degli archetipi quali fattori
formali innati di organizzazione della percezione e della rappresentazione che ineriscono alla
specie, e grazie ai quali ogni individuo costruisce e sviluppa, poi, anche la propria esperienza
personale.286

Seguendo la ricostruzione della Jacobi riguardo all’aspetto biologico dell’archetipo, dopo le


prime formulazioni junghiane, l’archetipo è stato ripreso nella psicologia animale e ambientale, e
accostato alla natura del sistema vivente. Negli studi di Portmann, lo studioso pone la questione se
le immagini primordiali siano inerenti a forme ereditarie preformate nel sistema nervoso animale,
arrivando a concludere che nel caso di effetti archetipici umani e animali, si hanno tre strutture
ordinate in tre stadi, di cui la seconda che qui riportiamo è di particolare interesse,

2) Strutture nelle quali disposizioni ereditarie svolgono solo una parte molto aperta e generale, e
che al contrario sono determinate nella loro forma soprattutto da una impronta (Prägung)
individuale nel modo rilevato recentemente attraverso la ricerca sul comportamento animale, e
la cui natura è determinata precisamente non da qualcosa di ereditato, ma da qualcosa di
impresso.287

Ciò vuol dire che l’archetipo, nei suoi svolgimenti, viene impresso alle funzioni
comportamentali della creatura, e che quindi rientra in quell’insieme di forme che permettono
l’«organizzazione della vita pulsionale, che assicura il vivere insieme sovraindividuale dei membri
di una specie»288, impedendone l’insorgere di conflitti interni troppo disastrosi per la stessa. Inoltre

285
Ibidem.
286
Cfr. M. E. Spotti, Appunti per riprendere tre concetti interpretativi del pensiero junghiano, in J. Jacobi, Complesso,
archetipo, simbolo nella psicologia di C. G. Jung, tr. it. di G. Zappone, Bollati Boringhieri, Torino, 2017.
287
A. Portmann, Das Problem der Urbilder in biologischer Sicht, in Eranos Jahrbuch, vol. 19, 1950, p. 413.
288
Ivi, p. 386.

69
«la costruzione di un nido è un processo archetipico come la danza rituale delle api, il meccanismo
di difesa della seppia o lo spiegamento a ruota del pavone».289
Procedendo, anche gli studi di Hediger si concentrano su una predisposizione archetipica a
livello biologico per gli animali di inserirsi in un sistema spaziotemporale all’interno dei quali la
loro vita si svolge secondo ritmi determinati, pena l’insorgere di sintomi di sradicamento.
«L’aderenza a modi di comportamento di vita “impressi” è una sicurezza; ogni deviazione da essi
dev’essere pagata con paura e insicurezza».290 L’archetipo in questo caso si esprime come pattern of
behaviour, una denominazione tra le fondanti di Jung per esporre la fenomenologia archetipale.
Hediger continua riunendo i pattern sotto il nome di “archeotopo”, correlato psicologicamente al
biotopo, unità topografica primaria.291 Infine, l’archetipo viene empiricamente equiparato da
Stevens al concetto di struttura etologica ereditaria del campo biologico.292
La prima sfera che Sloterdijk introduce nella microsferologia è la rotondità dell’utero
materno, lo spazio originario che costituisce «il soggetto tra i soggetti»293 per la discussione
filosofica, perché è lì che l’essere umano si trova sospeso al riparo dall’inconveniente di essere nati
prima della caduta nel tempo, per dirla con Cioran 294, in un vissuto psichico prenatale senza
estensione e senza divenire. Trattare della sfera uterina vuol dire compiere una doppia operazione,
individuale e storica, che introduca l’uterotopo come spazio in cui l’uomo si pone nella sua
interiorità ed esteriorità, giungendo all’unificazione antropologica delle direttive comportamentali e
simboliche:

Avremmo così, sulla base di una disposizione specifica a formare immagini, forme contenitrici
e contenuti attribuibili all’umano in genere (omologie filetiche), a condizioni di vita simili in
nicchie ecologiche simili (analogie), a tradizioni culturali (omologie per tradizione). 295

Nel capitolo intitolato La clausura della Madre. Per una ginecologia negativa del primo
volume di Bolle, Sloterdijk introduce la critica alla natura individuale-soggettuale dell’individuo, in
cui al centro del dibattito è proprio la madre, intesa come primo polo della relazione archetipica pre-
soggettuale comune ad ogni essere umano. Partendo dall’epoca neolitica, caratterizzata dal vissuto
premetafisico dell’uomo radicato nella sua cerchia tribale e terreno-matriarcale, viene instaurato il

289
J. Jacobi, op. cit., p. 65.
290
Ivi, p. 66.
291
Cfr. R. Hesse, Tiergeographie auf ökologischer Grundlage, Jena, 1924, p. 42.
292
Cfr. A. Stevens, Archetypes. A natural history of the Self, Morrow, New York, 1982.
293
A. Lucci, Il limite delle sfere, cit., p. 27.
294
Cfr. E. Cioran, La caduta nel tempo, tr. it. di T. Turolla, Adelphi, Milano, 1995. Cfr. anche Buddhismo parigino. Gli
esercizi di Cioran in P. Sloterdijk, Devi cambiare la tua vita, cit., p. 91.
295
R. Màdera, op. cit., p. 119.

70
parallelo tra vissuto prenatale e l’iniziale legame tra l’uomo e la sua terra attraverso l’attività
agricola e accerchiante del focolare,

La doppia frenesia intorno al suolo e l’obbligo di assicurare la propria discendenza hanno spinto
le stirpi divenute sedentarie nelle braccia di Grandi Madri possidenti. A partire dal momento in
cui il suolo lega in tale misura a sé i viventi e i morti, si inizia a credere che le madri abbiano
voluto conservare per sempre i propri vicini a esse, e in una certa misura, in esse. Ormai, il
focolare e il paesaggio, il grembo e il campo sono sinonimi. 296

In questo, Jung ricorda proprio un rituale della fecondazione, in cui uomini primitivi
dirigono la loro libido verso la terra attraverso l’atto della zappatura e dello scuotimento ctonico di
rami e bastoni, al fine di sostituire «con l’azione penetrante dell’aratro o delle lance, la
fecondazione incestuosa della Madre».297 Per il primitivo il problema dell’incesto viene risolto con
una sublimazione immaginale per poter ritrovare nella madre terra l’ambiente primordiale inconscio
da cui proviene e in cui abitare, ma che invece di essere un semplice sostituto, diventa vero
elemento del proprio mondo. Sedimentarsi vuol dire andare verso e ritrovarsi nell’abbraccio
intrauterino della Grande Madre. A questo scopo il paesaggio neolitico che Sloterdijk riprende si
ritrova nella analisi di Vittorio Lingiardi in riferimento ai suoi Mindscapes. Psiche nel Paesaggio,
dove, esaminando la poetica di Barthes, Lingiardi dice che proprio nel desiderio dell’arte del poeta,

dinanzi a questi paesaggi prediletti, è come se io fossi sicuro di esserci stato o di doverci ancora
andare. [...] L’essenza del paesaggio sarebbe allora questo: heimlich, che risveglia in me la
Madre (niente affatto inquietante).298

Tornando nella sua esperienza dimorante, commenta Lingiardi, il poeta può riappropriarsi di
un vissuto precedente e arcaico che nondimeno resta radicato nella costituzione del soggetto;
all’orizzonte lo spazio si incurva attorno al corpo, e «questo fa sì che il paesaggio e il mondo
circostante si avvolgono in una figura rassicurante come quella materna, in cui l’uomo può
dimorare e sentirsi a casa»299 (Fig. 19). Il corpo della madre riemerge allora dall’inconscio e viene
proiettato nel mondo come mediatore tra il singolo, la comunità umana e l’esterno, che diventa
totalmente paesaggio interno. L’esperienza fenomenologica di questo momento racchiude tutto in sé
in cerchi acquatici,

Non è un caso che le culture di quest’epoca protometafisica – in primo luogo babilonesi ed


egizie – abbiano fornito rappresentazioni di un mondo visibile attorniato da grandi anelli

296
P. Sloterdijk, Sfere I, cit., p. 255.
297
C. G. Jung, Cenni storici sul problema dell’inconscio, in Id., La dimensione psichica, cit., p. 233.
298
R. Barthes, Variazioni sulla scrittura. Il piacere del testo, tr. it. di L. Lonzi – C. Ossola, Einaudi, Torino, 1999, p. 41.
299
V. Lingiardi, Mindscapes. Psiche nel paesaggio, Raffaello Cortina, Milano, 2017, p. 111.

71
acquosi: dove è la madre a far pensare, tutto è interno. Fino a quando, in generale, sono la
maternità e la gravidanza a prefigurare la forma del pensiero, non c’è più bisogno
dell’esterno.300

Esaminando l’antropologia della Grande Madre nella sua famosa opera omonima, Neumann
riassume nel capitolo Il Grande Cerchio l’aspetto di totalità dell’archetipo femminino. La
proiezione del corpo materno arrotonda cielo e terra nello spazio che si incurva sull’uomo
primitivo, portando con sé il carattere trasformatore della realtà. Nel corpo della Madre, la
coscienza simboleggiata dal ciclo solare muore e rinasce periodicamente ogni giorno,

Nella sua ampia e profonda fenomenologia, l’Archetipo del Femminile, con il suo aspetto
positivo e negativo, abbraccia ciò che sta in alto e ciò che sta in basso, ciò che è prossimo, ciò
che è molto lontano: esso appare come Grande Cerchio, che costituisce e contiene l’intero
Universo.301

Fig. 19 – K. Hokusai, Onda Femminina, 1845.

Nell’immaginario materico osservato da Lingiardi, il rapporto poetico con il paesaggio nella


sua accezione materna viene letto anche attraverso la lente freudiana. Freud osserva allo stesso
modo che «questo già veduto ha però nel sogno un significato particolare. Qui la località è sempre
l’organo genitale della madre»302, perché di nessun altro posto, continua lo psicanalista, si può
affermare con certezza di essere già stati.
La qualità acquatica che Bachelard recupera nelle immagini psicomateriali de La Terra e il
riposo, formano un tutt’uno con i due elementi, per cui la terra e l’acqua diventano man mano che si
retrocede nel vissuto della coscienza, e man mano che si sprofonda nell’altrove psichico, immagine
circolare dell’utero, corpo materno che si rivolge nella forma del ventre e del seno. Sempre
300
P. Sloterdijk, Sfere I, cit., p. 256.
301
E. Neumann, La Grande Madre, tr. it. di A. Vitolo, Astrolabio, Roma, 1981, p. 213.
302
S. Freud, L’interpretazione dei sogni. Opere. Vol. 3, tr. it. di C. L. Musatti, Bollati Boringhieri, Torino, 1989, p. 336.

72
nell’immaginazione di Giona, accanto agli studi alchemici di Jung, il ventre, che sia teriomorfico o
elementale, accoglie l’individuo e l’eroe che ne viene inghiottito con la sua presenza acquitrina,
«per contenere con la propria liquidità il centro della figura nel grembo approntato per
l’immersione».303 Il cerchio viene ad essere il sogno di un ventre, di cui l’acqua è principio
femminile per eccellenza, ricorda Durand, che nelle sue ricerche antropologiche sull’immaginario,
nota che in particolare col passo sloterdijkiano «in babilonese il termine pu designa sia la sorgente
di un fiume sia la vagina, mentre nagbu, “sorgente”, è imparentato con l’ebraico negeba,
“femmina”»304, concludendo che «i vocaboli dell’acqua sono sempre in relazione con i nomi della
madre e con la Grande Dea».305
L’acqua è presente all’interno dell’esperienza originaria umana nella fenomenologia della
Grande Madre come liquido amniotico che circonda e prepara l’individuo eroico per entrare
all’interno del proprio vaso, o grembo, il corpo terrestre. Nella sua propria materia, «il vaso è ciò
che racchiude al suo interno l’invisibile e sconosciuto, come una grotta scavata nelle profondità
della Terra»306, simbolo centrale, ricorda Neumann, nei riti misterici di trasformazione. Difatti la
prerogativa del vissuto primitivo e del ciclo di morte e rinascita della vita arcaica è che non solo
dall’utero materno si nasce, ma ci si deve anche rientrare per rinascere. A compiere questo ciclo
sono «gli esseri viventi, piante, animali e uomini che emergono dalla loro gestazione nel profondo
del suo ventre, e vi fanno ritorno con la morte, per poi nascere nuovamente». 307 Sloterdijk riprende
questo tratto come il vero ciclo dell’Esserci antico:

Ciò che li attende non sarà mai meno della comprensione del loro vero Sé. Dal grembo materno
promana l’evidenza del fatto che la verità ha un luogo segreto che è possibile raggiungere con le
iniziazioni e gli approcci rituali. Così, fino alla fine dell’epoca dell’obbligo del grembo, in cui i
primi Lumi già si annunciano nelle filosofie eziologiche dei Greci, si discenderà nelle madri per
scoprire vicino ad esse e in esse qualcosa che, senza vergogna, sarà chiamata conoscenza. 308

La comprensione del vero Sé riguarda proprio il fatto che l’uomo dell’epoca premetafisica,
ma anche quello contemporaneo per certi versi, vive proiettando l’arco della sua vita in uno spazio
completamente circoscritto nella forma dell’inizio e della fine. La sua coscienza si muove tra due
poli che indicano due realtà parallele, la sua esperienza immediata è protratta al raggiungimento di
un’istanza superiore e transpersonale, una coscienza più consapevole che abbracci sia il polo
cosciente che quello inconscio, un fenomeno comunemente indicato sotto il nome di verità.
303
G. Bachelard, La terra e il riposo, cit., p. 119.
304
G. Durand, Le strutture antropologiche dell’immaginario..., cit., p. 278.
305
Ibidem.
306
E. Neumann, La Grande Madre..., cit., p. 48.
307
ARAS, op. cit., p. 400.
308
P. Sloterdijk, Sfere I, cit., p. 256.

73
Come luogo di nascita e tomba allo stesso tempo, il ventre è una sorgente di vita così come il
profondo abisso che ingoia senza posa gli esseri mortali. Sul piano psicologico, gli aspetti fissi e
statici della personalità devono essere ricondotti al loro stato originario attraverso la discesa
nell’inconscio creativo, l’utero materno dal quale l’Io è nato. 309

Il cammino percorso mira ad ampliare la consapevolezza del proprio Io, attraverso immagini,
riti, inumazioni che possano rievocare il viaggio del soggetto a partire dall’uscita dalla vulva sacra.
L’eroe come archetipo nasce inizialmente dalla caverna uterina o da simboli materni come l’acqua e
il ventre, viene ad essere personificazione mitologica dell’archetipo del Sé della coscienza,
un’istanza che al pari di ogni archetipo si veste di tante rappresentazioni diverse quante sono le
culture mondiali, «in tutte le sfumature possibili a seconda delle epoche, l’eroe-salvatore compare
come il frutto dell’ingresso della libido nelle profondità materne dell’inconscio».310
Campbell ne raccoglie le mitologie nel suo famoso L’eroe dai mille volti; l’archetipo dell’eroe
è il monomito che soggiace ad ogni altra mitologia, permette la Wanderung il cui fine è la maturità
della personalità e della psiche, il compimento dell’iniziazione avvenuta alla nascita e la
trasformazione del singolo e della società. Nel suo capitolo sull’Universo Madre, Campbell
riafferma la spazialità materna del mondo mitologico-primitivo, le emanazioni originarie,
atemporali e generatrici di ogni cosa, soffermandosi sul fatto che una volta che la coscienza si è
sufficientemente rafforzata, dall’oscurità mitologica, nasce il mondo umano della società, di contro
agli dèi e ai progenitori universali dell’inizio, che si fanno sempre più lontani nei recessi della
psiche e del tempo. Nascendo dal grembo della redenzione,

Il ciclo cosmico deve essere ora portato avanti non dagli dèi, che si sono fatti invisibili, ma dagli
eroi, più o meno umani nel carattere, attraverso cui il destino del mondo si realizza. [...] La
metafisica si arrende alla preistoria, che è crepuscolare e offuscata all’inizio, ma diventa man
mano più dettagliata.311

La figura dell’eroe nasce miracolosamente, è inizialmente circondata da un’aura


sovrannaturale che ne attesta le capacità sovrumane, la sua venuta indica uno scuotimento in tutto il
paesaggio, il suo Esserci riplasma completamente l’intera dimensione psichica. Nel cammino
dell’eroe, spiega Henderson, si accentrano tutte le istanze psichiche che egli incontrerà nel suo
percorso, i vari archetipi dell’Ombra, dell’Anima, del Sé, nelle loro diverse immagini, la cui
funzione è quella di aiutare l’eroe, accompagnandolo o interagendo con lui; il bisogno di ricorrere a
simboli eroici nasce quando l’ego sente la necessità di rafforzarsi, «quando la mente conscia ha
309
E. F. Edinger, Anatomia della psiche, cit., pp. 114-115.
310
C. G. Jung, Simboli della trasformazione, cit., p. 337.
311
J. Campbell, L’eroe dai mille volti, tr. it. di F. Piazza, Lindau, Torino, 2016, p. 291.

74
bisogno di assistenza per assolvere un compito che essa non è in condizioni di eseguire senza
attingere alle sorgenti di forza che si trovano nell’inconscio». 312 Il primitivo allora vive se stesso
come mito, dice Sloterdijk, per cui

Chi è l’eroe dai mille volti, se non l’uomo alla ricerca che parte nel vasto mondo per tornare
nella più stretta delle caverne? Le storie di questi eroici cercatori di verità celebrano
l’immanenza uterina dell’Essere nella sua totalità. La saggezza è la scoperta del fatto che anche
il mondo aperto è attorniato dalla caverna di tutte le caverne. 313

Attraverso il ciclo eroico, la coscienza compie un cerchio perfetto che la riporta infine di
fronte alla vulva finale, la madre che aspetta la sua morte come ritorno all’origine. Da Bachelard
estraiamo il caso di Stekel, che racconta di un paziente di tredici anni coinvolto nel processo del
ritorno alla madre, in cui voleva rientrare per “vederne” i fantasmi e conoscere l’interno del corpo
mostruosamente grande della gigantessa. Al suo interno il tredicenne cerca di vedere le pulsioni
originarie come rappresentazioni visive ingenue, enfatizzate dal fatto che «il bisogno di “vedere” è
significativo perché riporta il sognatore a un tempo prenatale durante il quale non vedeva». 314
Anche nel mito dell’eroe che ritorna all’utero in Jung

la regressione [della libido], quando non è disturbata, non si arresta alla “madre”, ma risale al di
là di essa per raggiungere un “eterno femminino” prenatale, il mondo primordiale delle
possibilità archetipiche, dove intorno al “bambino divino”, che assopito attende di divenire
cosciente, “aleggiano le immagini di tutte le creature”. 315

Qui Sloterdijk ricorda i riti funerari postneolitici, in particolare quelli egizi, in cui il morto
viene messo in posizione fetale e racchiuso nel sarcofago, altro simbolo materno, oppure seppellito
nella terra. Nei pressi della morte, sia fisica che psichica, ci si addentra altresì nella caverna delle
caverne, arrivando di fronte alla vulva, per cui si crea tra la vulva e il suo osservatore «una bizzarra
relazione derivante dalla teoria della conoscenza [misterica], che va a porre termine all’esteriorità e
all’oggettività in generale».316, in cui si incontra la grotta finale. La morte diventa un
riavvicinamento alla madre, rientrando per lo stesso antro,

l’uomo alla morte perviene alle acque dello Stige, per intraprendere la traversata notturna, Le
acque nere della morte sono acque di vita, la morte con il suo freddo amplesso è il grembo

312
C. G. Jung et al., L’uomo e i suoi simboli, cit., p. 105.
313
P. Sloterdijk, Sfere I, cit., p. 258.
314
G. Bachelard, La terra e il riposo, cit., p. 126.
315
C. G. Jung, Simboli della trasformazione, cit., pp. 323-324.
316
P. Sloterdijk, Sfere I, cit., p. 265.

75
materno, come il mare che pur inghiottendo il sole, lo ridà alla luce traendolo dal suo grembo
materno. La vita non conosce morte.317

Vivere la propria morte come un ritorno nella Grande Madre, vuol dire per l’uomo primitivo e
per i processi inconsci dell’uomo moderno avvicinarsi ad uno spazio pre-oggettuale e pre-
soggettuale che si situa al di là dell’Essere, cioè prima dell’esistenza umana al mondo, e di ogni
fondamento metafisico, in cui non è più possibile nessuna rappresentazione fenomenologica.
Bisogna altresì, come nel caso precedente di Bachelard, lasciare fuori ogni pensiero e ogni tentativo
di concettualizzare le forme qui presenti nella loro pseudo-ontologia sfumata. Sloterdijk parla a
questo proposito di ginecologia negativa proprio per sottolineare la valenza mistica, psichica e
originaria di questo ambiente, «in cui bisogna lasciarsi dietro ogni pensiero scientifico caratterizzato
da valenze mediche e ontologiche»318 e al più comportarsi come «un vecchio psicanalista o un
eremita, visitato da clienti con preoccupazioni che non si esprimono a parole»319 (Fig. 20).

Fig. 20 – Fase prenatale della nigredo in H. Jamsthaler,


Viatorium Sparygicum, 1625.

Si introduce qui la categoria di noggetto (Nobjekte)320, cui si è già accennato


nell’introduzione, come nuova categoria oggettuale, e che Sloterdijk mutua dal collega e amico
Thomas Macho. Il noggetto è una modalità precaria, indica oggetti non dati rispetto ai quali, come
nel caso della vulva, del ventre materno e degli elementi all’interno dell’utero, «alla loro “vista”
l’osservatore può esserne risucchiato o destituito, al punto di non avere più niente davanti a sé». 321
317
C. G. Jung, Simboli della trasformazione, cit., p. 219.
318
A. Lucci, Il limite delle sfere, cit., p. 79.
319
P. Sloterdijk, Sfere I, cit., p. 326.
320
T. Macho, Segni dall’oscurità. Note per una teoria della psicosi, a cura di A. Lucci, Galaad, Teramo, 2013, p. 21.
Cfr. Noggetto in A. Lucci, Peter Sloterdijk, cit., p. 68.
321
P. Sloterdijk, Sfere I, cit., p. 265.

76
Questi sono «Co-realtà che, con una modalità che non prevede confronto, aleggiano come creature
della vicinanza, nel senso letterale del termine, davanti a un sé che non sta loro di fronte: trattasi
precisamente del pre-soggetto fetale».322 Il riferimento junghiano è evidente, soprattutto in relazione
alla ripresa, da parte di Macho, dell’animazione del mondo affrontata precedentemente, in cui tutto
scorre senza distinzioni tra soggetto e oggetto: «Che cosa si può chiamare in questi istanti “mondo”
e “anima”? Le parole non appaiono d’aiuto perché non possono cogliere la reciproca
inondazione».323
La vulva, nell’accezione indiana di Yoni usata da Sloterdijk come esempio, è legata alla vista
in quanto equivalente simbolicamente all’occhio. Così ricorda Jung nel mito indiano, dove l’occhio
rappresenta i genitali femminili, risultante dal mito di Indra, il quale per via della sua lascivia
«dovette portare su tutto il corpo le immagini della yoni (vulva), ma che fu graziato dagli dèi, che
trasformarono in occhi le immagini disonoranti della yoni (similitudine di forma)». 324 La vulva
come apertura simbolica e organica fa sì che ciò che è protetto all’interno non sia visibile
dall’esterno, pure se è sul punto di nascere. Porsi di fronte alla vulva vuol dire quindi rinunciare alla
vista dell’episteme, cioè a un sapere delle cose che possa disporne, per abbracciare un’entrata
completamente spontanea e inconscia.

Come simbolo mistico, il cerchio dello yoni contiene il corpo dell’introspezione cui si accede
tramite la meditazione. Al centro si trova il garbhagriha, la camera-grembo, la grotta del cuore,
in cui risiede lo spirito interiore.325

Fig. 21 – I. Kufayev, Purusha, collezione privata,


Londra, 1995.

322
Ivi, p. 277.
323
T. Macho, op. cit., p. 22.
324
C. G. Jung, Simboli della trasformazione, cit., p. 266. Cfr. H. Zimmer, Miti e simboli dell’India, a cura di J.
Campbell, tr. it. di F. Baldissera, Adelphi, Milano, 2018.
325
ARAS, op. cit., p. 404.

77
Si tratta di quello che nella Katha Upanishad è definito Purusha (Fig. 21), cioè quell’Essere
supremo che non misura più di un pollice e che vive all’interno del nostro corpo (psichicamente e
simbolicamente parlando), «Ciò che è qui, è anche là e ciò che è là, è anche qui». 326 In questa
camera si realizza la trasmutazione dell’Io, e coloro che vi entrano devono essere pronti a divenire
un corpo diverso rispetto a quello a cui sono abituati, ovvero un corpo originario dalle
caratteristiche embrionali,

Finché vive all’interno della madre, egli fluttua effettivamente in una sorta di non-dualità; il
fatto di essere contenuto nella madre è confermato dall’abolizione della relazione con lei nella
percezione, quale prova acuta della fusione data. Colui che vive questa scena è, in maniera
primaria o secondaria, un infans, cioè un feto o un mistico; in entrambi i casi egli è
significativamente muto e senza rapporti con ciò che gli sta di fronte. 327

Il corpo dell’introspezione è tutt’uno con la sfera che lo racchiude, una unio mistica, o anche
una participation mystique, come scrive Jung mutuando l’espressione dall’antropologo Lévy-Bruhl.
Nel suo commento al trattato sull’alchimia buddhista-taoista del Segreto del Fiore d’Oro, Jung
scrive che proprio grazie a questa partecipazione si ottiene nell’esperienza orientale

Il grande residuo indeterminato dell’indiscriminazione tra soggetto e oggetto, [...] Se la


differenza tra soggetto e oggetto non diviene consapevole, prevale allora un’identità inconscia.
[...] Ed ecco che animali e piante si comportano come uomini, gli uomini sono nello stesso
tempo animali, e tutto è animato da spiriti e divinità. 328

Si instaura una comunione totale con tutti gli elementi presenti nello spazio originario, il
soggetto non è più, al suo posto esiste solo la flebile protopercezione inconscia di base, che si trova
costantemente identica alla relazione instaurata con ogni possibile oggetto che la circonda, e che
proprio per via di questa identità di soggetto e oggetto, non è più tale. Al pari della psiche
dell’uomo primitivo che recupera Jung nel suo commentario, il processo alchemico descritto mira a
preparare al di là della morte, sia simbolica che organica, recuperando le sensazioni fondamentali
del periodo prenatale. Von Franz per questo sottolinea che nella lavorazione alchemica dei
babilonesi «i minerali da fondere nel forno fusorio si chiamano ku-bu, un termine la cui traduzione
oscilla tra embrione e feto», 329 mentre la stessa denominazione indica anche il corpo della grande
dea Tiamat. L’embrione ku-bu designa allora una prima materia cosmica da elaborare, indistinta tra
326
Katha Upanishad, 4.10-12.
327
P. Sloterdijk, Sfere I, cit., p. 272.
328
C. G. Jung, Il segreto del fiore d’oro, cit., p. 65.
329
M. L. von Franz, Psiche e materia, cit., p. 128. Cfr. anche M. Eliade, Cosmologia e alchimia babilonesi, a cura di H.
C. Cicortas, Lindau, Torino, 2017.

78
madre e bambino, che instaura la corrispondenza di microcosmo e macrocosmo nell’opus. Infatti in
questi frangenti «l’uomo è il tutto e l’intero del cosmo, la materia primordiale è il microcosmo e il
macrocosmo. Il mondo esteriore, [...] trova compimento nella prima fase originaria».330
Come viene lavorato il feto-materico nel forno-madre, così vive l’uomo nel mondo della
Grande Madre e delle sue riproduzioni spaziali e archetipiche, «quale precursore di ciò che verrà
ulteriormente chiamato realtà».331 La prima sfera del Sé viene ricercata successivamente nelle
grandi cosmologie e nelle città, gli ambienti circoscritti costruiti attraverso la funzione
sloterdijkiana dell’uterotecnica, cioè «la teoria immunologica che abbraccia le svariate forme e
tipologie umane di protezione di uno spazio esistenziale nella smisuratezza del mondo aperto». 332
L’uterotecnica è un neologismo sloterdijkiano per indicare la costruzione e la delimitazione,
attraverso la tecnica, di spazi immunizzanti, tracciati attraverso l’architettura prendendo a modello
le impressioni inconsce archetipiche del vissuto prenatale. Si tratta del tentativo da parte dell’uomo
di recuperare le condizioni iniziali di medialità e protezione uterina nelle abitazioni e nelle
collocazioni sociali e comunitarie, tramite il processo psicodinamico del transfert, che muove «dal
sussurro fetale delle loro acque buie e private, fino alla sfera cosmica e imperiale che si presenta ai
nostri occhi con la pretesa sovrana di contenerci e sommergerci».333
Il transfert (Übertragung) è fondamentale per il passaggio dalle microsfere alle macrosfere,
che Sloterdijk riprende nell’esperienza dello spazio comune animato dalla psiche interiore, in un
contesto differente rispetto alla psicanalisi tradizionale, da cui viene liberato da qualsiasi accezione
puramente nevrotica, per abbracciare una visione estetica più conforme alla psicologia del
profondo. Se in Jung la traslazione viene ad essere una dinamica per la maggior parte circoscritta al
rapporto paziente-analista, principalmente considerata come trasferimento su terze persone di
qualità archetipiche e affettive proiettate dall’inconscio del paziente su altri individui, per Sloterdijk

Al contrario bisogna affermare che il transfert è la fonte formale di quei processi creativi che
animano l’esodo dell’essere umano verso lo spazio aperto. Noi non trasferiamo tanto degli
affetti incorreggibili su terzi, quanto esperienze precoci di spazio su nuovi luoghi, e movimenti
primari su teatri lontani. Le frontiere della mia capacità di transfert sono le frontiere del mio
universo.334

In questo modo non ci si limita solo alle persone, ma potenzialmente si è in grado di proiettare
in tutto il mondo esterno l’esperienza primigenia dello spazio prenatale, incluse le sue relazioni, al

330
C. G. Jung, Studi sull’alchimia, cit., p. 308.
331
P. Sloterdijk, Sfere I, cit., p. 276.
332
D. Consoli, op. cit., p. 112.
333
P. Sloterdijk, Sfere I, cit., p. 54.
334
Id., Sfere III, cit., p. 320.

79
fine di recuperare l’insulazione fetale su altri piani ambientali, realizzandosi nell’unus mundus
junghiano. Interessante è notare che Jung, nel suo scritto Psicologia del transfert, non solo si rifà
all’alchimia come pratica proiettiva esemplare dei processi inconsci, ma proprio attraverso
l’immagine spaziale di un paziente, evidenzi la necessità di quest’ultimo di porsi su di un’isola
immaginale, tramite insulazione,

queste zone così ben difese, esse ricordano gli atteggiamenti di isolamento “insulare”
(Insulierung) coi quali il nevrotico cerca di difendersi, [...] il malato ha bisogno di un’isola,
senza di essa sarebbe perduto. Essa funge da rifugio per la sua coscienza, è l’estrema àncora di
salvezza contro l’abbraccio minaccioso dell’esterno. 335

Così come nella psiche individuale l’insulazione permette alla coscienza del singolo di
sopravvivere contro la mostruosità inconscia, così l’esterno spaesante viene affrontato attraverso
l’omonimo processo di insulazione (Insulierung) sloterdijkiano. Questa permette la creazione di
ambienti, di qualsiasi spazio architettonico si parli, dalle navi con il mito dell’arca, alle città e ai
moduli spaziali, cioè spazi di co-esistenza microsferici che crescono fino ad essere macrosferici
«nella misura in cui riescono a incorporare nel proprio raggio forze esterne stressanti». 336 Un
procedimento che nella filosofia dell’immaginazione di Wunenburger viene esaminato attraverso le
immagini del gioco cosmico, per cui l’immaginale assicura come medium il passaggio fra il
soggetto e il cosmo:

L’immaginazione, in questo senso, grazie al gioco interno delle immagini, [...] ci collega al
mondo, ce ne fornisce una conoscenza originaria e, per questa via, ci aiuta ad installarvici, a
ritagliarne dei luoghi, a entrare in risonanza con esso. [...] la potenza mitica o onirica
dell’immaginario consente altresì di sovraccaricarlo di forme e di senso, di conferirgli una sorta
di surrealtà, chiave di una felicità d’“essere al mondo”. 337

Tra le macrosfere è la città quella su cui ci soffermeremo qui, perché evidenzia


originariamente il legame con l’esperienza uterina, e perché è una delle macrosfere principali da cui
poi si origineranno per evoluzione, secondo Sloterdijk, le grandi sferologie metafisiche greco-
cristiane. Nel momento in cui le popolazioni delle civiltà mesopotamiche, prese a modello da
Sloterdijk tra i loro riferimenti antropologici e mitologici, iniziano a costruire le prime città, che si
tratti di Uruk, Kisch, Gerico, o anche Babilonia e Ninive, il loro insediamento diventa
manifestazione tangibile del dio nel mondo. All’interno delle sue mura, Sloterdijk spiega come la
città si rivolga verso il centro come luogo dei prescelti del dio; verso l’esterno si impone con mura e

335
C. G. Jung, Pratica della psicoterapia, cit., p. 192.
336
P. Sloterdijk, Sfere II, cit., p. 146.
337
J. J. Wunenburger, La vita delle immagini, cit., p. 115.

80
torri per attestare la sua presenza, il suo Esserci e contrastare il non incluso, che di conseguenza
diventa uno spazio estraneo associabile all’inconscio collettivo, dove «appaiono solo chimere». 338
Qui, infatti, «dio è diventato muro e abita tra noi, nella misura in cui noi abitiamo in esso. Chi vive
in una città del genere dimora in un’ipotesi di eternità». 339 Il sistema immunitario innalzato a partire
dalle antiche megalopoli pone in essere gli abitanti che si votano completamente ad essa. «Le
mostruose città antiche esprimono il proposito di rendere tutto lo spazio esterno uno spazio interno
animato: così inizia tecnicamente l’esperimento dell’anima del mondo».340
La città si manifesta come simbolo del dio in terra, perché è una realtà archetipica
dell’archetipo del Sé, che perdura nella sua totalità. Se gli uomini passano, le città restano, ambienti
animati dalla presenza divina della loro realtà inconscia. Riprende Lingiardi nella psiche del
paesaggio che «ogni città è memoria stratificata, inconscio personale e collettivo» 341, per cui appare
nell’immagine e nell’architettonica come fortificazione che protegge e racchiude l’identità per
preservarla al mondo mostruoso e accompagnare il soggetto alla presenza del dio.

Ma anche di fronte all’insolitamente grande, per gli abitanti della città-mondo l’imperativo
morfologico può in un primo momento essere solo: ricordati! Come tutti i ricordi che aiutano a
comprendere il presente, quelli dei nuovi abitanti delle città del potere attingono da depositi in
cui sono conservate le antiche esperienze immunitarie e le idee di forma. In questo modo le
monumentali mura di cinta giungono alle pareti di un recipiente, il quale trova ancora nel
gigantesco l’archetipo di ogni integrità.342

Ossia, la costruzione della città metropoli attinge direttamente all’inconscio collettivo,


deposito comune delle forme archetipiche che dettano la struttura di base attorno a cui svolgersi. Il
rapporto fra l’Io e il Sé, fra il soggetto e Dio, viene ad essere come «una serie di fossi e di mura
intorno a un nunc stans quasi irraggiungibile, che è un noi stabile: l’anima interiorizzata e il suo dio
alleato».343 Trasferendo nel mondo sotto forma di immagine e di costrutto la rappresentazione
interiore della propria struttura psichica, l’uomo costruisce la città in base ai rapporti delle maggiori
istanze psichiche che fanno parte del suo essere. Come spiega Wunenburger, nell’immaginale
urbano, prendendo ad esempio l’urbanistica della città africana di Essaouira, relativa alla geografia
marittima e portuale da cui si entra in città, mediante «questa centratura acquatica, il porto, simbolo
fetale protettore, lo spazio urbano può essere concepito secondo valori intimisti».344

338
P. Sloterdijk, Sfere II, cit., p. 277.
339
Ivi, pp. 243-244.
340
A. Lucci, Peter Sloterdijk, cit., p. 90.
341
V. Lingiardi, op. cit., p. 130.
342
P. Sloterdijk, Sfere II, cit., p. 275.
343
Ivi, p. 254.
344
J. J. Wunenburger, La vita delle immagini, cit., p. 136.

81
Fig. 22 – C. G. Jung, Città fortificata, 1928, in Id., Il Libro Rosso,
cit., p. 163.

Il cittadino allora si vive solo come un abitante dell’atrio della parte più interna, e si rivolge
al Sé centrale solo in determinati momenti eccezionali. Scendendo nel profondo, Jung vive nel
Libro Rosso un’esperienza analoga, quando giunge attraverso l’immaginazione attiva all’entrata di
un’enorme città-roccaforte, «al cui centro stava un tempio d’oro. Lì, il dio custodito emanava la sua
presenza, il tesoro più prezioso è nell’interno degli interni». 345 Dipingendo la Città fortificata nel
1928 (Fig. 22), Jung dà immagine alla città divina, al cui centro campeggia una sfericità
primordiale, riflesso della totalità psichica. Come luogo innervato nell’uomo, la città riunisce i tratti
elementali che ne definiscono la geografia e la costituzione mentale.
Se il centro è sede di una presenza divina numinosa e misterica, il corso d’acqua che attornia
il cerchio recupera il carattere femminino dello spazio urbano: fondare città vuol dire rifondare il
corpo della madre come mondo. Ecco perché le città vengono tradizionalmente vissute non solo
come sede del dio, ma come corpi delle grandi dee. Per Sloterdijk chi presta la sua mano alla
costruzione trasforma la magia in tecnica e aiuta gli dèi a realizzarsi, mediante l’uterotecnica. Jung
riprende il carattere materno delle città attraverso il commento alla Lettera ai Galati, in cui è scritto

345
C. G. Jung, Il Libro Rosso, cit., p. 321.

82
che «la Gerusalemme di sopra è libera, ed essa è nostra madre». 346 Il simbolo materno con cui viene
identificata la città

pone in luogo della madre la città, la sorgente, la caverna, la chiesa, etc. Questa sostituzione trae
origine dal fatto che la regressione della libido riattiva abitudini e tendenze dell’infanzia, e
soprattutto il rapporto con la madre.347

Si consideri che al posto della lettura della psicanalisi dell’epoca legata all’infanzia, Sloterdijk
va ancora più a fondo, arrivando a sostituire all’infanzia lo stadio prenatale, aggiornando e
riformulando con il collega Macho la teoria psicanalitica freudiana 348, troppo legata per i due autori
alle fasi orale, anale e genitale; a parte lo spostamento dell’asse al mondo intrauterino, la
regressione libidica nel passo di Jung avviene esattamente allo stesso modo ripreso da Sloterdijk.
Durand rafforza il carattere matriarcale delle cinte murarie e delle fortezze, per cui la madre è il
bastione che protegge dalle avversità «le cui mura proteggono la comunità embrionale» 349
rafforzandone la comunione identitaria. All’interno della città è così possibile prosperare come
infanti accuditi dalla madre, o come embrioni protetti dal corpo materno, in guisa dell’unione
originaria. Nel suo commentario a proposito della città in L’uomo e i suoi simboli, Aniella Jaffé
riprende che la città, come fondazione architettonica, è un motivo tipicamente mandalico,

Con il suo tracciato mandala, la città, con tutti i suoi abitanti, è esaltata ben al di sopra del
livello puramente secolare. E ciò è ancor più accentuato dal fatto che la città ha un centro, il
mundus, che valeva a stabilire il rapporto della città con l’altro mondo, il regno e la dimora degli
spiriti ancestrali.350

Al centro della città, come scrive Jung nel Libro Rosso, veniva posto un altare, un santuario, o
anche una zona sacra, che doveva simboleggiare la presenza indefinibile del dio tra gli uomini, un
sancta sanctorum da cui si dipanava l’essere numinoso come istitutore dell’eternità della
megalopoli e della comunione dei suoi abitanti. Questo faceva sì che la città non fosse solo
un’istituzione terrena, ma che potesse assumere qualità sovrastoriche, partecipando a un
ordinamento cosmico più grande. Sloterdijk commenta che dal punto di vista della storia della
filosofia, nelle architetture delle megalopoli si può ritrovare «il primo impulso di quello che un
giorno molto lontano prenderà il nome di soggetto trascendentale» 351, e continua sostenendo come
la città formi così un mondo autosufficiente, che si mantiene e si nutre da sé. La forma urbana
346
Lettera ai Galati, 4.26.
347
C. G. Jung, Simboli della trasformazione, cit., p. 214.
348
Cfr. T. Macho, op. cit., p. 45.
349
G. Durand, op. cit., p. 193.
350
A. Jaffé, Il simbolismo nelle arti figurative, cit., p. 229.
351
P. Sloterdijk, Sfere II, cit., p. 278.

83
riporta il carattere di totalità tipico dell’archetipo del Sé e della sua fenomenologia mandalica,
diventando un cerchio che comprende tutta l’esistenza spaziotemporale.
La presenza del dio, il richiamo all’atemporalità uterina e la partecipazione della città ad una
dimensione trascendentale sono ulteriormente attestate dal carattere mandalico della stessa. Il
mandala, dal termine sanscrito che richiama una forma circolare e quadripartita, è una delle
immagini archetipiche del Sé maggiormente esaminate dalla psicologia del profondo. Il mandala
traccia uno spazio che stringe il mondo fenomenico nella forma rotonda, distinguendosi per il suo
carattere di totale chiusura e accentramento dell’illimitato. Dal punto di vista architettonico, il
mandala viene definito vastupurusamandala352: vastu indica la circoscrizione e l’isolamento che
ritagliano una sezione di mondo interno nell’infinito; Purusha si rifà all’unità originaria, l’Uomo
Cosmico sorgente dell’esistenza, esaminato precedentemente; infine mandala è il nome dato in
questo caso allo spazio sacro centrale dove vengono effettuati i rituali.

Fig. 23 – Mandala Kalachakra, XVIII secolo, Tibet in P.


Sloterdijk, Sfere II, cit., p. 279.

Durand riprende il carattere mandalico della città (Fig. 23), dove il cerchio mandalico è
innanzi tutto centro, «chiusura mistica come gli occhi chiusi del Buddha, isomorfo rispetto al riposo
sufficiente nella profondità».353 La quadripartizione interna tipica dei mandala viene ricollegata alla
quadratura del cerchio alchemica, e quindi recupera la dinamica bachelardiana del rifugio e del
352
A. Monroy, Mandala: in cerca del proprio centro, Meltemi, Roma, 1999, p. 51.
353
G. Durand, op. cit., p. 305.

84
ventre. Per Eliade il mandala è un ricettacolo e palazzo degli dèi, assimilato al Paradiso e al centro
del quale siede «il Dio supremo, dove il tempo viene abolito». 354 Si crea così uno spazio
immunizzante dove è possibile vivere in totale sicurezza nei confronti del mondo e del tempo.
L’uomo vive avvolto nel Sé.
Per concludere, con le prime città si viene a formare la macrosfera originaria che per
Sloterdijk fungerà da modello terreno per ogni altra sfera metafisica e costruzione fisica ed ideale di
ambienti abitabili. Il parallelo con Jung si instaura direttamente per via delle letture psico-
ontologiche junghiane, e indirettamente per il riferimento a immagini psichiche e antropologiche
che vengono equiparate dai vari autori di riferimento sloterdijkiani agli studi archetipici junghiani.
Dopo aver esperito l’unità originaria nell’utero materno, e aver trasposto questa unità nella città, per
Sloterdijk l’uomo non farà altro che traslare questo imprinting in ogni altra immagine del mondo,
creando ambienti che possano acclimatarlo in ricordo dello stato precedente alla nascita. Nella
trilogia di Sfere, il denominatore comune è che

i sistemi culturali, simbolici, architettonici, e a livello generale tutti i costrutti umani, sono dei
tentativi di climatizzazione dell’esteriorità spaesante, che si incarnano nella coazione a ripetere
lo stadio noggettuale dell’inclusione prenatale nelle pareti uterine. 355

354
M. Eliade, Trattato di storia delle religioni, cit., p. 320.
355
A. Lucci, Peter Sloterdijk, cit., p. 93.

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