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EUROPA E DIRITTO PRIVATO ISSN51720-4542

Fasc.515-52016

Antonello5Iuliani

LA FISIONOMIA DEL DANNO E


L’AMPIEZZA DEL RISARCIMENTO
NELLE DUE SPECIE DI
RESPONSABILITÀ

Estratto

Milano5•5Giuffrè5Editore
Antonello Iuliani
LA FISIONOMIA DEL DANNO E L’AMPIEZZA
DEL RISARCIMENTO NELLE DUE SPECIE
DI RESPONSABILITÀ

SOMMARIO: 1. Introduzione: causalità e risarcimento. I danni consequenziali


come danni immateriali rispetto ai quali l’argomento causale risulta in-
fondato. - 2. La “materialità” della lesione come presupposto indefettibile
della responsabilità extracontrattuale nel campo delle attribuzioni patri-
moniali e il danno aquiliano come ricostituzione dei valori d’uso del bene
leso oggetto di titolarità. - 3. A proposito di una recente ipotesi ricostrut-
tiva: l’equivalente monetario della prestazione come forma di restituzione
e non di risarcimento. - 4. L’ampiezza del risarcimento dei danni conse-
quenziali nelle due specie di responsabilità: la prevedibilità quale tecnica
di adeguamento del danno risarcibile all’interesse creditorio. - 5. Segue. La
funzione compensativa del risarcimento e l’eteronomia mercantile nella
determinazione del danno. - 6. Una lettura non unitaria dell’art. 1227 c.c.:
in particolare, il criterio dell’evitabilità come giudizio normativo in con-
creto. - 7. Conclusione: la demistificazione dell’argomento causalistico-
tipologico nell’interpretazione dell’art. 1223 c.c.: il criterio dell’immedia-
tezza e direttezza e la sua strumentalità con la razionalità del mercato.

1. La dottrina e la giurisprudenza maggioritarie sono solite


affrontare il tema del risarcimento del danno in una prospettiva
unitaria in entrambe le specie di responsabilità; del resto l’uni-
ficazione di massima della disciplina del risarcimento del danno
operata dalle codificazioni moderne e condivisa anche dal codice
civile italiano con il rinvio operato dall’art. 2056 c.c. agli artt.
1223, 1226 e 1227 c.c. sembrerebbe confermare la bontà di tale
approccio. Non sorprende allora come una parte della dot-
trina (1) abbia tratto dalla scelta compiuta dal codice la conferma

Saggio sottoposto a referato.


(1) Cfr. in questo senso, F. Giardina, Responsabilità contrattuale ed
extracontrattuale: una distinzione attuale?, Riv. crit. dir. priv., 1987, 79 s.; F.D.

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di un sostanziale ravvicinamento tra le due specie di responsa-


bilità, e abbia auspicato il superamento della distinzione. Anche
gli autori (2) che invece respingono un tale esito, sottolineando
l’irriducibilità dell’una all’altra forma di responsabilità sul piano
della struttura, convergono però sulla natura unitaria delle re-
gole di risarcimento. Nel presente lavoro si cercherà, in primo
luogo, di dimostrare come la diversa struttura delle due forme di
responsabilità condiziona tanto la fisionomia del danno quanto
l’ampiezza dell’eventuale risarcimento e, in secondo luogo, come
la funzione compensativa che il risarcimento assolve sia condi-
zionata da parametri strettamente mercantili, con la conse-
guenza che l’eventuale esito di responsabilità può trovare con-
ferma o smentita sul piano risarcitorio a seconda che il trasfe-
rimento di ricchezza si mostri più o meno giustificato secondo le
“leggi del mercato”. Prima di procedere a tale dimostrazione oc-
corre, però, sgombrare il campo da un pregiudizio tanto an-
tico (3) quanto radicato da trovare accoglimento nella stessa for-

Busnelli, Verso un possibile ravvicinamento tra responsabilità contrattuale ed


extracontrattuale, Resp. civ. prev., 1977, 784 s.
(2) Cfr. M. Franzoni, Il danno risarcibile2, II, Trattato della responsabi-
lità civile, diretto da M. Franzoni (Milano 2010), 9, il quale, a proposito della
disciplina unitaria del risarcimento adottata dal codice civile parla, di « scelta
tuttora condivisibile, quando la lesione riguardi un diritto patrimoniale fo-
riero di un danno patrimoniale »; non dissimile la posizione di F. D. Busnelli
- S. Patti, Danno e responsabilità civile (Torino 2013), 10 i quali vedono nella
scelta compiuta dal codice « un’apprezzabile opera di astrazione, unificando
nella misura possibile, e soltanto per quanto riguarda le conseguenze del fatto
dannoso, fattispecie che in comune presentano soltanto il dato costituito
dalla lesione di un interesse tutelato dall’ordinamento ».
(3) La regola contenuta nell’art.1223 c.c., che, evocando il linguaggio
causale, limita il risarcimento alle “conseguenze immediate e dirette” rispec-
chia la formulazione dell’art. 1151 del Code civil, la cui paternità è da
attribuire, com’è noto, a G. R. Pothier di cui cfr. Opere di G.R. Pothier
contenenti i trattati del diritto francese, Obbligazioni (Livorno 1835). Identifi-
cano nell’art. 1223 c.c. una regola di natura causale: A. De Cupis, Il danno, I
(Milano 1966), 19 s.; C. M. Bianca, Dell’inadempimento delle obbligazioni,
Comm. del cod. civ., Scialoja-Branca, Libro IV (1218-1229) (Bologna-Roma
1979), 249 s.; P. Forchielli, Il rapporto di causalità nell’illecito civile (Padova
1968), 24 s. Per un’ampia e articolata critica all’impostazione causalistica, cfr.
F. Realmonte, Il problema del rapporto di causalità nel risarcimento del danno
(Milano 1967), 9 s.; più di recente, C. Castronovo, Il risarcimento del danno,
Riv. dir. civ., 2006, I, Atti del Convegno per il cinquantenario della Rivista di

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mulazione dell’art. 1223 c.c.: e cioè che la definizione dell’area del


danno risarcibile sia rimessa a regole di natura causale.
Il tema della causalità, dalla prospettiva del civilista, rap-
presenta com’è noto un terreno d’indagine controverso, so-
spinto tra due tendenze contrastanti, l’una volta a ribadirne la
centralità all’interno del giudizio di responsabilità, l’altra di-
retta a decretarne l’inutilità, tanto ai fini dell’imputazione del-
l’evento dannoso, quanto al fine, che in questa sede più inte-
ressa, della determinazione delle conseguenze risarcibili. L’ar-
ticolazione delle funzioni or’accennate rispecchia quella dupli-
cità di segmenti cui da sempre la dottrina e la giurisprudenza
maggioritaria ricorrono per spiegare il nesso causale (4): un
primo nesso interno al fatto dannoso, la c.d. causalità mate-
riale, ricorrente tra la condotta e l’evento, accertata secondo il
criterio della condicio sine qua non, pur corretta oramai se-
condo il criterio probabilistico; e l’altra, la causalità esterna al
fatto dannoso, la quale « presuppone che di un dato fatto, che
comprende anche un evento (oltre la c.d. azione, se c’è) si debba
rispondere in base ad altre regole che non siano quelle dello
stesso art. 1223 » (5), limitandosi « a considerare le conse-
guenze o eventi successivi a quel fatto-evento » (6). Al di là
dell’uso improprio della qualificazione giuridica, considerato
che la causalità, anche quella materiale, è sempre un procedi-

diritto civile “Il diritto delle obbligazioni e dei contrati: verso una riforma? Le
prospettive di una novellazione del Libro IV del Codice Civile nel momento
storico attuale”, Treviso, 23-24-25 marzo 2006 (Padova 2006), 86 s..
(4) È opinione diffusa che l’introduzione della teoria del doppio nesso
nel dibattito coincida con la pubblicazione del saggio di G. Gorla, Sulla
cosiddetta causalità giuridica: « fatto dannoso e conseguenze », Riv. dir.
comm., 1951, 405 s., spec., 409. Sulla validità attuale della distinzione, cfr. tra
gli altri: M. Franzoni, L’illecito, Trattato della responsabilità civile cit., 57; C.
Salvi, La responsabilità civile, Tratt. dir. priv., a cura di G. Iudica e P. Zatti
(Milano 1998), 223 s, sebbene con notevoli perplessità.
In senso contrario alla distinzione: Realmonte, Il problema del rapporto di
causalità nel risarcimento del danno cit., 9 s.; A. Belvedere, Causalità giuri-
dica?, Riv. dir. civ., 2006, 7 s.; G. Visintini, Il risarcimento del danno, Trattato
diretto da P. Rescigno (Torino 1984), 257 s.; G. Visintini, Trattato breve della
responsabilità civile. Fatti illeciti. Inadempimento. Danno risarcibile (Padova
2005), 680 s.; R. Scognamiglio, Responsabilità civile, Responsabilità civile e
danno (Torino 2010), 76.
(5) Gorla, Sulla cosiddetta causalità giuridica cit., 409.
(6) Ibidem.

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mento logico di cui si serve il diritto (7), la somiglianza dei


criteri adottati, sottolineata dal riferimento alla “probabilità”,
mette in crisi la ragione della distinzione, al punto che in
dottrina è stata segnalata la possibilità che « le regole […] sulla
regolarità statistica, sul calcolo delle probabilità o sull’id quod
plerumque accidit possano valere tanto per la causalità di fatto
quanto per la causalità giuridica » (8). Non verrebbe tuttavia
meno la necessità di distinguere le diverse funzioni della cau-
salità dal momento che « una cosa è impiegare la causalità al
fine di imputare un evento ad un soggetto » e « altra cosa è
impiegare la causalità per stimare il danno risarcibile » (9).
Al di là della varietà di formulazioni, la tendenza a scomporre
il giudizio causale in due segmenti ha destato le perplessità della
dottrina, che già sul finire degli anni ’60 si interrogava se fosse
« logicamente corretto porre il problema del rapporto di causa-
lità con riferimento al danno, oppure se il danno, nonostante il
dettato legislativo, sia un elemento del fatto dannoso che non
possa essere collegato agli altri da un nesso di derivazione cau-
sale » (10). Se si considera il pregiudizio consistente nella perdita
o nella diminuzione di valore del bene, non si tarda a scorgere —
osservava la dottrina — « come esso non sia una realtà del mondo
esteriore che si aggiunga all’evento naturalistico o dal quale
possa dirsi causata » (11). In quest’ipotesi « il danno si risolve
tutto nella portata economica delle suddette modificazioni co-
stituendone una qualifica. Esso, al pari di una valutazione
espressa in termini di bellezza, di utilità, di bontà e così via, sta
a indicare una particolare qualità di determinate realtà del

(7) Afferma C. Castronovo, Danno biologico. Un itinerario di diritto


giurisprudenziale (Milano 1998), 206: « il discorso causale è di per sé pre-
giuridico, in quanto naturalistico-cognitivo, ma altresì che la questione “giu-
ridica” della causalità, quella cioè dei termini secondo cui il rapporto di
causalità diventa elemento costitutivo del giudizio di responsabilità, attiene
alla elaborazione di criteri propriamente giuridici volti a qualificare un dato
che, fino a quando non interviene tale qualificazione, rimane del tutto neu-
tro ». V., nello stesso senso, V. Geri, Il rapporto di causalità in diritto civile,
Resp. civ. e previdenza, 1983,195.
(8) Franzoni, L’illecito cit., 61.
(9) Ivi, 57.
(10) Realmonte, Il problema del rapporto di causalità cit., 79.
(11) Realmonte, ivi, 85.

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mondo esteriore » (12), vale a dire la loro riferibilità ad un valore


oggettivo espresso dal mercato. La necessità di selezionare tra le
diverse poste di danno, che l’art. 1223 implica, non riguarderebbe
allora i c.d. general damages (13), quelli relativi al valore di mer-
cato della prestazione (o del bene leso in caso di responsabilità
non contrattuale) ma quei danni consequenziali che « rappre-
sentano lo strumento tramite il quale introdurre una compo-
nente soggettiva nella valutazione del danno » (14), se non altro
perché soltanto quelle poste di danno che riflettono interessi sog-
gettivi necessitano di un qualche criterio, non necessariamente
limitato al valore di mercato, che discrimini tra essi. Altra è poi
la questione se tale criterio risponda o meno ad una logica di tipo
causale come sembrerebbe suggerire il tenore letterale della
norma. Anche nella dottrina più accorta, l’argomento causale
torna, infatti, ad assumere un qualche rilievo nel risarcimento del
lucro cessante, che costituisce il prototipo dei danni consequen-
ziali, il mancato conseguimento del quale « non costituisce una
valutazione sul piano economico dell’accadimento naturale,
quanto piuttosto […] si verifica attraverso la mediazione di un
fatto negativo » (15), che sia conseguenza immediata e diretta
dell’evento. Il rilievo è coerente e, peraltro, non smentisce la cri-
tica alla causalità giuridica, dal momento che anche rispetto a tali
eventi ulteriori, di cui è necessario l’accertamento causale, il
danno si configura sempre come una mera valutazione econo-
mica. Occorre prendere atto — riconoscerà una dottrina più re-
cente — « di una sorta di strabismo dell’art. 1223, che con un
occhio considera eventuali sequenze di eventi dannosi, e con l’al-
tro analizza la dannosità del singolo evento » (16). L’idea che il

(12) Ivi, 86.


(13) In questo senso G. Smorto, Il danno da inadempimento (Padova
2005), 87 s.: « Le tecniche di delimitazione del danno risarcibile contenute negli
artt. 1223 c.c. e s. costituiscono strumenti volti a delimitare l’ingresso di una
valutazione di tipo soggettivo nella determinazione del danno ». Avanza la me-
desima proposta ricostruttiva, A. di Majo, Tutela risarcitoria: alla ricerca di una
tipologia, Riv. dir. civ., 2005, 254: « si potrebbe osservare che la norma dell’art.
1223, là dove riferisce il danno risarcibile al danno emergente e al lucro cessante
[…] attiene a quello definito più propriamente consequenziale ».
(14) Smorto, Il danno da inadempimento cit., 89.
(15) Realmonte, Il problema del rapporto di causalità cit., 92.
(16) Belvedere, Causalità giuridica cit., 17.

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lucro cessante rappresenti sempre la qualificazione di un evento


ulteriore non è parsa del tutto convincente e si è a riguardo con-
statato come « il mancato guadagno risulta certamente dalla va-
lutazione economica di una situazione di indisponibilità di beni
o di impossibilità di azioni, ma non è detto che tale situazione sia
sempre una conseguenza dell’evento lesivo e non possa talora
identificarsi con l’evento stesso » (17). L’esempio a riguardo è
quello di un evento lesivo dal quale deriva l’impossibilità di no-
leggiare un automezzo (danneggiato), con conseguente perdita
del corrispettivo del noleggio — lucro cessante intrinseco — al
quale, succede, l’impossibilità (per il medesimo danneggia-
mento) di portare il vaso cinese ad una mostra sull’arte orientale,
con conseguente perdita del corrispettivo concordato per l’espo-
sizione — lucro cessante estrinseco (o intrinseco rispetto ad un
evento di danno ulteriore). « È evidente » — chiosa l’A. — « che
la mancata esposizione del vaso cinese costituisce un evento di-
stinto e successivo rispetto al danneggiamento dell’auto-
mezzo » (18), mentre il mancato impiego dell’automezzo rappre-
senta la mera valutazione del diritto leso, sotto il profilo non del
valore di scambio ma del valore d’uso. La natura « fattuale » del
lucro cessante c.d. estrinseco, secondo la classificazione appena
proposta, alla quale però si potrebbe obiettare che anche nel
primo esempio il mancato utilizzo dell’automobile si configura
come un evento al pari della mancata esposizione del vaso alla
mostra d’arte (19), ripropone l’interrogativo circa la natura va-
lutativa o causale dei danni consequenziali.

2. Una prima risposta potrebbe essere dettata dal rigetto


dell’argomentazione secondo cui il lucro cessante è un evento e
da cui discende l’ulteriore assunto secondo cui tra il primo e il
secondo evento andrebbe ricostruito un nesso causale, così che
la giustificazione all’eventuale irrisarcibilità dei danni conse-
quenziali sarebbe da ricercare su un piano prettamente natura-
listico.

(17) Belvedere, Causalità giuridica cit., 19.


(18) Ivi, 20.
(19) Così T. Pellegrini, Il lucro cessante nella responsabilità extracontrat-
tuale, dal dattiloscritto.

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Una seconda risposta potrebbe venire dalla qualifica del


lucro cessante come danno alla sfera immateriale, o come
evento negativo, dal momento che il danno non si identifica nel
deterioramento di un bene, bensì nella delusione di aspettative:
un’immaterialità che sembra caratterizzare anche la causalità,
compromettendone la stessa funzione che è quella di collegare
« un fatto e un evento ambedue reali » (20), con la conseguenza
che « rispetto ad un evento che non si è verificato, e che
giammai si verificherà, non si può porre un problema causale in
senso proprio, o come è stato detto, non si può formulare sub
specie causale la norma limitativa del risarcimento del
danno » (21). Il rilievo sembra accordarsi in qualche modo con
quanto osservato da un’altra dottrina a proposito del modello
originario della responsabilità extracontrattuale: quello dei c.d.
conflitti occasionali, che riguarderebbe soltanto danni alla sfera
materiale, sia essa corporale o patrimoniale; mentre il pro-
blema del danno alla sfera immateriale interesserebbe ora i c.d.
conflitti modali (22), ora i danni conseguenti a un primo fatto
dannoso collegato alla lesione di una sfera materiale, e, in
entrambi i casi, il richiamo all’argomento causale risulterebbe
infondato (23). Nel primo caso, in mancanza di un evento
materiale sul quale far reagire nesso causale e criteri di impu-
tazione, il criterio di selezione è svolto dal criterio della buona/
mala fede o del dolo, nel secondo caso si tratterebbe di valutare
l’utilità che il bene riveste per il soggetto e apprezzarne la
diminuzione nel contesto del patrimonio.

(20) C. Castronovo, Eclissi del diritto civile (Milano 2015), 218, 220.
(21) V. Carbone, Nesso di causalità e criteri di valutazione del danno
contrattuale, Il rapporto obbligatorio, Diritto civile, diretto da N. Lipari e P.
Rescigno, III, t. 1 (Milano 2009), 720.
(22) M. Barcellona, Trattato della responsabilità civile (Torino 2011),
299, osserva come nei conflitti modali « il danno non consiste nel deteriora-
mento di una res, bensì nella delusione di aspettative relative a “relazioni” »:
ciò caratterizza anche i danni consequenziali.
(23) Castronovo, Eclissi cit., 217 afferma che « la natura meramente
patrimoniale del danno esclude in limine che lo si possa qualificare come
conseguenza di un evento: esso è infatti intrinsecamente un danno senza
evento, appunto una pura perdita patrimoniale direttamente conseguente alla
condotta imputata al danneggiante. Perciò è fuori quadro un legame causale
nel senso della causalità del fatto, nella quale la conseguenza è appunto
costituita da un evento ».

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Tuttavia — e la considerazione potrà apparire anche banale


— mentre nessuno dubita che il lucro cessante vada risarcito
anche in sede extracontrattuale, molte perplessità continua a
sollevare in dottrina la risarcibilità extracontrattuale del danno
meramente patrimoniale (24): categoria che, con una certa
dose di approssimazione può farsi coincidere con quella dei
« conflitti modali » (25). L’intima connessione tra le due que-
stioni è stata intuita dalla dottrina (26) che per prima ha inqua-
drato il fenomeno, marcando la distinzione tra conseguenze
patrimoniali dei danni contrattuali e/o aquiliani e danni al
patrimonio, quasi a sottolineare la prossimità dei due concetti.
E infatti, se entrambe le figure rimandano al concetto di per-
dita economica, nel danno consequenziale tale perdita costitui-
sce il riflesso in forma monetaria della compromissione delle
possibilità di impiego di un bene, qualificato da una situazione
di appartenenza, circostanza che si traduce sul piano risarcitorio
anzitutto nella privazione del suo valore di scambio; nel danno
meramente patrimoniale, viceversa, la perdita non si ricollega né
« alla violazione di contratti o comunque di obblighi [...] né a
lesione subite da beni protetti in via aquiliana » (27).
Sotto il profilo tipologico il prototipo del danno meramente
patrimoniale, cioè di un danno intrinsecamente senza evento, è
costituito proprio dal lucro cessante (28). Ciò non solo perché

(24) Si segnala, in senso critico, la posizione di C. Castronovo, La nuova


responsabilità civile (Milano 2006), 109 s.; Id., Le frontiere nobili della respon-
sabilità civile, Riv. crit. dir. priv., 1989, 539 s.; Id., Sentieri di responsabilità
civile europea, in questa Rivista, 2008, 787 s.; Id., Del non risarcibile aquiliano:
danno meramente patrimoniale, c.d. perdita di chance, danni punitivi, danno
c.d. esistenziale, in questa Rivista, 1998, 315 s.
(25) L’elaborazione della categoria dei “conflitti modali” si deve a Bar-
cellona, Trattato della responsabilità civile cit., 165 s.
(26) A. di Majo, Il problema del danno al patrimonio, Riv. crit. dir. priv.,
1984, 297 s.,
(27) Ivi, 297 s., il quale afferma: « Il patrimonio del soggetto, com’è
noto, non è oggetto di per se stesso di tutela giuridica, se non sotto il profilo
dei danni patrimoniali, subiti da beni o diritti in esso ricompresi. È proprio
questa soglia che si vuole oltrepassare quando si parla di risarcibilità del
« danno meramente patrimoniale ».
(28) Si leggano, a riguardo, le parole di P. Forchielli, Lesione dell’inte-
resse, violazione del diritto, risarcimento, Riv. dir. civ., 1964, 341 s., spec. 346
s., il quale, analizzando le ipotesi di responsabilità extracontrattuale nelle

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tale figura si è imposta all’attenzione della giurisprudenza come


preclusione di un mancato guadagno, ma soprattutto perché in
quanto ammanco puramente patrimoniale non rappresenta l’im-
mediata traduzione, in termini monetari, del contesto naturali-
stico di un bene ma risponde piuttosto all’idea dello sviluppo
produttivo della destinazione economica del bene nel mercato,
circostanza che pone il danno a stretto ridosso della lesione del-
l’autonomia privata, per quanto nell’ipotesi del lucro cessante
tale lesione rappresenta pur sempre un profilo del potere di di-
sposizione di un bene, assicurata dalla forma proprietaria.
Ed infatti anche nelle ipotesi in cui non si configura come
mancato guadagno, ma come puro decremento patrimoniale —
a seguito ad esempio di un cattivo investimento sollecitato da
false informazione rese da chi non è contrattualmente tenuto a
renderle — il danno meramente patrimoniale non si atteggia
mai come traduzione, nel contesto dei valori monetari, della
distruzione o del danneggiamento di un bene di cui si è titolari,
ma rappresenta una pura perdita di utilità, che come tale si
candida al risarcimento (29). Proprio l’assenza della materialità
della lesione, e in senso più lato dell’aggressione del bene nelle
sue fattezza e nelle sue caratteristiche funzionali (30) circo-
stanza che riflette, sul piano naturalistico lo stesso ammanco

quali il danno è rappresentato solo dal lucro cessante, si chiede: « Qual è, in


questo caso, il diritto soggettivo assoluto leso? ». « Invero il lucro cessante,
quando non è accompagnato da un concomitante danno emergente o non
trova il suo fondamento in una precisa garanzia contrattualmente assunta
[…] non sembra rivelare alcun diritto soggettivo violato. In casi del genere, se
si vuol dare a tutti i costi un oggetto alla violazione, senza ombra di dubbio
insita nel lucro cessante, l’unico riferimento possibile sembra quello al patri-
monio, idealmente considerato anche nei sui incrementi futuri e sperati ».
(29) Cfr., in tal senso, M. Maggiolo, Il risarcimento della pura perdita pa-
trimoniale (Milano 2003), 20: « È vero che l’assenza di lesione è un dato nega-
tivo, il quale sta a indicare come nel caso di pure perdite patrimoniali il pre-
giudizio per il soggetto danneggiato non consegua alla diminuzione di valore
del bene dovuta al fatto materiale della distruzione dello stesso o di un suo
deterioramento, né consegue a una lesione personale ». In questo senso, anche
M.C. Nanna, Doveri professionali di status e protezione del cliente-consumatore.
Contributo alla teoria dell’obbligazione senza prestazione (Bari 2012), 15.
(30) È il caso ad es. della contraffazione, che pure qualifica in senso
materiale la lesione della proprietà intellettuale, per altro verso attratta invece
nell’area dell’arricchimento ingiustificato, quando, come nel caso del mero
sfruttamento abusivo, rileva la sola privazione della titolarità. Cfr. C. Castro-

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che il difetto di una situazione di titolarità mette in mostra sul


piano della fattispecie, darebbe ragione della collocazione del
danno meramente patrimoniale nell’alveo della responsabilità
contrattuale. In essa, infatti, il danno non è traduzione econo-
mica di un accadimento, ma è conseguenza dell’inadempi-
mento di un programma d’azione preordinato al soddisfaci-
mento di un interesse del creditore; esso è un puro giudizio di
difformità del fatto rispetto all’effetto e come tale non inqua-
drabile nella categoria della causalità (31). Il giudizio di respon-
sabilità extracontrattuale, tutt’al contrario, è contrassegnato
dall’occasionalità dell’attività dannosa, per cui necessita, sul
piano naturalistico, della fattualità della lesione (32), ed infatti
è soltanto rispetto all’evento che colpisca una qualche en-
tità (33) oggettivamente percepibile che ha senso porre un
problema di imputazione e di causalità, e, sul piano normativo,

novo, La violazione della proprietà intellettuale come lesione del potere di


disposizione. Dal danno all’arricchimento, Dir. ind., 2003, 7 s., spec. 11 s.
(31) Così, nitidamente, Castronovo, Il risarcimento del danno cit., 88.
(32) Se non se ne fraintende il pensiero, in tal senso A. Nicolussi, Lesione
del potere di disposizione e arricchimento. Un’indagine sul danno non aquiliano
(Milano 1998), 625: « il danno ingiusto cui l’art. 2043 c.c. fa riferimento de-
v’essere concepito, coerentemente con la tradizione del danno aquiliano, come
perdita economica conseguente alla lesione materiale empiricamente rilevabile
del bene oggetto della situazione giuridica violata ». Di questa tradizione parla
G. Rotondi, Dalla ‘Lex Aquilia’ all’art. 1151 cod.civ. Ricerche storico-dogmatiche,
Scritti giuridici, II. Studi di diritto romano delle obbligazioni, a cura di E.
Albertario (Pavia 1922) 470 s: « Il damnum iniuria datum era concepito, nel
regime genuino della lex aquilia, da un punto di vista materialistico: il capo 3°
di essa che, a complemento delle disposizioni specifiche dei due precedenti,
rappresentava la norma di carattere più generale, contempla la uccisione o la
distruzione o comunque la lesione materiale di un oggetto di proprietà altrui
compiuta direttamente dall’attività fisica dell’agente: il danno cioè, come di-
cono le fonti e ripetono gli interpreti, deve essere dato corpori e corproe ».
(33) Il campo dell’attribuzione patrimoniale ruota attorno alla nozione
di bene, cioè alla qualificazione in termini di appropriazione (non solo
esclusiva) di un’entità — la cosa — la quale, pur emancipata dal connotato
della materialità, è caratterizzata « dall’attitudine dell’entità allo sfruttamento
individuale o collettivo o civile » (così F. Piraino, Sulla nozione di bene
giuridico in diritto privato, Riv. crit. dir. priv., 2012, 484); se si smarrisce
questo dato oggettivo e lo si sostituisce con l’interesse, il bene diventa
sinonimo di oggetto del diritto perdendo qualsiasi funzione euristica. Avverte
Piraino, ivi, 477: « Resta il rischio che nella concettualizzazione del bene
giuridico venga accentuata oltremodo l’incidenza dell’interesse ».

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di una situazione già consolidata di appartenenza che rivesta di


giuridicità l’interesse. Le eccezioni a tale principio che si
danno, ad esempio, nelle ipotesi di lesione dell’altrui possesso
(spoglio o molestia) o di concorrenza sleale nelle quali il danno
non è conseguenza della lesione della sfera materiale altrui e il
giudizio di meritevolezza dell’interesse leso non è assorbito dal
modello della “prevalenza prefigurata” proprio del diritto sog-
gettivo ma dipende dalle modalità in concreto della condotta,
non sono tali da attribuire portata generale al risarcimento del
danno meramente patrimoniale. Fuori da queste ipotesi, l’in-
giustizia del danno rappresenta infatti la misura della rilevanza
del rapporto tra il bene leso e le utilità da esso fornite, nella
misura in cui subordina il riconoscimento di tali utilità all’esi-
stenza di una situazione di appartenenza sul bene danneggiato
o distrutto (34). Da questo punto di vista, l’ipotesi della lesione
aquiliana del credito — nella sua formulazione originaria an-
corata alla materialità della distruzione dell’oggetto del credito
o dello stesso debitore — a dispetto di quanto comunemente
ritenuto testimonia un ampliamento non tanto della fattispecie
ad altre situazioni giuridiche tutelate, quanto del risarcimento

(34) Il discorso, ovviamente, non vale se si concepisce l’ingiustizia come


una norma aperta (o di primo grado) che autorizza il giudice a compiere, per
il tramite di un bilanciamento di interessi, affidato alla buona fede nella veste
dell’abuso del diritto, il giudizio di meritevolezza sull’interesse leso, prescin-
dendo da una struttura (diritto soggettivo) che, viceversa, formalizzi tale in-
teresse (al godimento), mediante una situazione intermedia, costituita da un
bene o un’utilità sulla quale insiste una situazione di appartenenza. Questa è
l’ipotesi ricostruttiva che propone E. Navarretta, Dikaion come nomimon e
dikaion come ison: riflessioni in margine all’ingiustizia del danno, Liber ami-
corum per Francesco D. Busnelli. Il diritto civile tra principi e regole (Milano
2008), 617 s.; Id., Il danno ingiusto, Diritto civile, a cura di N. Lipari - P. Re-
scigno, IV, t. III, coordinato da A. Zoppini (Milano 2009), 137 s. Sui nessi tra
ingiustizia e bilanciamento di interessi, si legga l’interessante lavoro di N.
Rizzo, Giudizi di valore e « giudizio di ingiustizia », in questa Rivista 2015, 234
s. Ugualmente, il discorso proposto non vale, se pur attribuendo all’ingiustizia
e quindi all’art. 2043 il ruolo di dispositivo di secondo grado, che si attiva solo
in presenza del riconoscimento preventivo da parte del sistema normativo di
un’attribuzione, si è disposti a ritenere tale attribuzione implicita nel principio
di patrimonialità e quindi non necessaria la mediazione di una situazione giu-
ridica di appartenenza sul bene. Questa è l’impostazione a partire dalla quale
si sviluppa la complessa e articolata ricostruzione del sistema di responsabilità
civile proposta da Barcellona, Trattato della responsabilità civile cit.

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148 Diritti nazionali e comparazione

del danno (35), consentendo al terzo, titolare di un diritto di


credito anche sinallagmatico e non più solo alimentare (o
familiare in senso più lato), di ottenere il risarcimento dei
valori d’uso che da esso avrebbe ricavato. Sul piano della
fattispecie, invece, il credito è del tutto assimilabile al diritto di
proprietà, nel senso di tutelare valori già acquisiti al patrimonio
del creditore e anzi la circostanza che l’inadempimento del
credito sia tutelabile solo quando derivi da un’impossibilità
della prestazione imputabile al terzo, è sintomatico dell’assimi-
lazione ad una struttura normativa che già implica un dovere di
astensione rivolto alla generalità dei consociati (36). La lesione
del credito interpella, invece, in senso evolutivo la responsabi-
lità civile nell’ipotesi in cui si tratta di opporre proprio l’ina-
dempimento nei confronti di un terzo, estraneo alla vicenda
obbligatoria. Il problema del risarcimento risulta impostato nei
termini classici di un diritto ad un valore patrimoniale che, nel
momento in cui non può essere fatto valere nei confronti del
debitore ma di un terzo, poiché vi si oppone il principio di
relatività degli effetti contrattuali, diventa, a partire, com’è
noto, da Cass. 4-5-1982, n. 2675 (37), il più generico diritto
all’integrità del proprio patrimonio. Un tale diritto si rivela però
nient’altro che un’ipostatizzazione in un’autonoma quanto fit-
tizia situazione soggettiva di un valore patrimoniale rispetto al
quale si predica un diritto a conservarlo o ad acquisirlo, non
riconosciuto a priori dall’ordinamento ma la cui esistenza di-
pende dalle modalità in cui il danno si è verificato. Tali moda-
lità, fuori dai casi in cui è il legislatore a prenderle in conside-
razione ai fini della soluzione del conflitto aquiliano (slealtà
della concorrenza, violenza o clandestinità dello spoglio), evo-

(35) Afferma Nicolussi, Lesione del potere di disposizione cit., 624, nt. 45
che « La lesione del credito si rende rilevante automaticamente, infatti, solo
al verificarsi di una lesione della persona del debitore o dell’oggetto della
prestazione riguardo alla quale il requisito della causalità è già soddisfatto ».
(36) Cfr., sul punto, C. Castronovo, La relazione come categoria essen-
ziale dell’obbligazione e della responsabilità contrattuale, in questa Rivista,
2011, 55 s., in particolare, 76, il quale ritiene che « il diritto di credito riceve
tutela alla stregua dei diritti assoluti quando venga violato non dal debitore
ma da un terzo che ne rende impossibile l’adempimento ».
(37) Cass. 4-5-1982, n. 2765, Giust. civ., 1982, I, 1745, con nota di A. di
Majo, Ingiustizia del danno e diritti non nominati.

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Antonello Iuliani 149

cando qualificazioni situazionali tipiche di ciò che rileva come


rapporto, sono incompatibili con il modello generale del con-
flitto occasionale fatto proprio dall’art. 2043 c.c. E allora delle
due l’una: o un tale diritto, all’integrità del patrimonio, o all’au-
todeterminazione negoziale che dir si voglia, è contenuto del
diritto di proprietà su un bene, e allora la questione va inqua-
drata sul piano dei limiti al risarcimento del danno; oppure
esso discende proprio dall’inadempimento di un’obbligazione,
cioè di una regola di condotta che preesiste al danno e non è
invocata a posteriori per decidere della meritevolezza dell’inte-
resse, altrimenti sprovvisto di tutela (38).
È questo il tratto distintivo — la presenza di un’obbligazione
inadempiuta — che caratterizza le ipotesi di complicità e di in-
duzione all’inadempimento, nelle quali l’agire semplicemente
“distrattivo” del terzo, rispetto all’attività poietica del debitore,
rende il pregiudizio economico causato dal primo frutto dell’ina-
dempimento del secondo onde la responsabilità che ne consegue
è propriamente contrattuale. E così pure la perdita di chance, la
quale, ove non sia un altro modo di chiamare il lucro cessante
incerto, discende da situazioni procedimentali per le quali, an-
cora una volta, la figura più idonee ad inquadrarla è quella di una
responsabilità contrattuale che è tale anche quando la violazione
dell’obbligazione dalla quale discende risulta priva di una pre-
stazione in senso stretto. Lo stesso si può dire per il danno con-
seguente ad un agire disinformativo da parte di un terzo che
riveste una qualifica professionale, danno che si rivela risarcibile
solo ove la libera determinazione negoziale sia stata indebita-
mente condizionata o influenzata dalla condotta scorretta del
terzo; in assenza di tale condotta, infatti, la salvaguardia del pro-
prio patrimonio, o addirittura la possibilità di incrementarne la
consistenza, discende esclusivamente dal libero espletamento

(38) Molto interessanti sul punto i rilievi di Rizzo, Giudizi di valore cit.,
264, il quale sottolinea come l’attuale stadio dei ragionamenti e delle prassi in
materia di responsabilità civile segni « un nuovo spostamento dell’area di
incidenza dell’ingiustizia […] dal danno alla condotta ». L’attenzione per la
condotta dell’agente, rifletterebbe « un’incertezza nel modo della determina-
zione degli interessi oggetto della tutela aquiliana, mascherata dalla retorica
del bilanciamento ». Cfr., sul punto, Castronovo, Del non risarcibile aquiliano
cit., 320-321.

Europa e diritto privato - 1/16


150 Diritti nazionali e comparazione

della propria autonomia negoziale (39). L’interazione tra la con-


dotta disinformativa e l’agire negoziale non si presenta però mai
occasionale, posto che il danneggiato si determina ad esercitare
la propria libertà proprio in virtù di quella determinata infor-
mazione, la quale costituisce allora l’estremo di una relazione
giuridicamente rilevante che è tale proprio per l’affidamento che
un soggetto ripone sulla condotta altrui ed è tale da gravare que-
st’ultima di una serie di obblighi dalla cui violazione discende
una responsabilità che per la sua fonte è propriamente contrat-
tuale.
Da un altro punto di vista, la lesione aquiliana del credito
offre l’occasione per rimeditare l’opinione abituale che relega
l’ingiustizia sul piano esclusivo della fattispecie e, su queste
basi, ogniqualvolta ricorra un’ipotesi di illecito plurioffensivo
ritiene necessario accertare, con riguardo ad ogni sfera giuri-
dica interferita, la colpa e la causalità. In tutte quelle ipotesi in
cui il danno, patrimoniale o non patrimoniale, in capo ai terzi
si produce in via indiretta o mediata, per il tramite della lesione
di un bene che colpisce la vittima primaria, l’accertamento di
una situazione meritevole di tutela in capo ad essi è condizione
sufficiente ai fini del risarcimento del danno (40), mentre ri-
sulta ingiustificata l’ulteriore domanda cui soggiace la prevedi-
bilità, « se l’agente avrebbe dovuto astenersi dal comporta-
mento » dannoso, per la semplice ragione che « il danneggiante
avrebbe dovuto astenersi dal comportamento tenuto già in vista
della lesione che esso avrebbe potuto arrecare alla “prima”
vittima o alla cosa innanzitutto danneggiata » (41). La que-
stione va dunque riqualificata da una di fattispecie ad una di
effetti, nella quale si tratta di trarre o meno la conseguenza,
ossia il risarcimento, da un fatto già qualificato in funzione di

(39) Il danno da false informazioni secondo Maggiolo, Il risarcimento


della pura perdita cit., 37 s., presuppone necessariamente un atto di autono-
mia del danneggiato poiché « l’informazione è di per se inidonea a danneg-
giare ».
(40) In questo senso, cfr. R. De Matteis, « Il c.d. “danno biologico da
morte” come lesione di un diritto riflesso, nota a Trib. Mlano, 2-9-1993, Nuova
giur. civ. comm., 1994, 680 s.
(41) Barcellona, Trattato della responsabilità civile cit., 134, nt. 72. Cfr.,
anche, Id., Danno risarcibile e funzione della responsabilità (Milano 1971), 161
s.

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Antonello Iuliani 151

tale effetto. Secondo la giurisprudenza, infatti, il danno subito


dal terzo verrebbe risarcito sulla base del solo accertamento del
nesso di causalità, pur corretto secondo il criterio della norma-
lità o adeguatezza causale, al fine di consentire anche il risar-
cimento delle conseguenze mediate e indirette. In realtà, a
dispetto di tale opinione, neppure il nesso causale può costi-
tuire un valido fondamento alla risarcibilità del terzo la quale,
al di là della giustificazione retorica fondata sulla causalità,
dipende unicamente dalla scelta di valore dell’interprete, che
certamente è adombrata nell’utilizzo della causalità, di ricono-
scere il risarcimento a quei soggetti che si trovino in una
determinata posizione rispetto al bene o al soggetto primaria-
mente leso. Ce ne si avvede leggendo un passaggio della moti-
vazione di Cass. 26-1-1971, n. 174 (42) nel quale il ricorso
all’argomento causale, ai fini di giustificare il risarcimento della
lesione del credito in capo al terzo, risulta meramente tautolo-
gico e del tutto strumentale al raggiungimento del fine perse-
guito: « […]il nesso immediato e diretto, di cui all’art. 1223, non
può aprioristicamente escludersi per il solo fatto che l’unico
evento lesivo attinga il diritto del creditore per il tramite della
lesione dei diritto del debitore alla propria vita. Se così fosse, ne
risulterebbe svuotato del suo contenuto e praticamente fru-
strato il principio accolto della risarcibilità, sul piano generale,
della lesione del credito […] ». Alla luce di tali rilievi suscita
qualche perplessità il tradizionale modo di impostare il pro-
blema della tutela del diritto di credito. Una dottrina (43) au-
torevole ammette, ad esempio, la risarcibilità della lesione del
credito (familiare, se non si fraintende) argomentando dall’« in-
dissolubile inerenza della sorte del credito alla persona o al
bene oggetto della lesione » (44), e nega invece il danno patito
dai parenti per la perdita di un congiunto sul presupposto
dell’« alterità di certe persone rispetto ad un’altra, per quanto

(42) Cass. 26-1-1971, n. 174, Giur.it., 1971, I, I, 680 con nota di G.


Visintini, In margine al « caso Meroni »; Foro it., 1971, 1184, con nota di F. D.
Busnelli, Un clamoroso « revirement » della Cassazione: dalla « questione di
Superga » al « caso Meroni », 1284 s.
(43) Castronovo, Danno biologico cit., 176 s.
(44) Ivi, 177.

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152 Diritti nazionali e comparazione

cara e sentimentalmente vicina » (45): un’alterità che, nella


prospettiva in esame, sottintende l’impossibilità di prevedere
l’evento dannoso (46). La risarcibilità ai congiunti sarebbe li-
mitata, in accordo con la soluzione proposta da Corte. Cost.
27-10-1994, n. 372 alle ipotesi in cui il fatto illecito integri una
fattispecie di reato poiché l’applicazione dell’art. 185 c.p., per-
metterebbe di bypassare gli elementi di struttura che l’art. 2043
ineludibilmente pone. Pur non volendo, in questa sede, affron-
tare la questione, tutt’altro che pacifica, dei rapporti tra l’art.
185 c.p. e il sistema della responsabilità civile (47) vale osser-
vare che se il difetto di prevedibilità consistesse nell’impossibi-
lità di stabilire apriori “quanti e quali” soggetti siano legittimati
a chiedere il risarcimento, al punto che il riconoscimento della
tutela significherebbe trasformare inopinatamente la fattispe-
cie in una di responsabilità oggettiva, tale problema dovrebbe
dirsi risolto dall’applicazione dell’art. 2059 c.c. in connessione
con l’art. 185 c.p., proprio perché la fattispecie di reato rende-
rebbe superfluo l’accertamento della prevedibilità. Tuttavia,
basta soffermarsi sulla parte conclusiva della motivazione della
sentenza della Corte costituzionale, per constatare come il
problema si ripresenti esattamente negli stessi termini, che
però — va a questo punto detto — non sono di prevedibilità, ma
di limitazione del risarcimento, non più solo in funzione della
tipologia dei pregiudizi risarcibili ma anche dei soggetti legit-
timati a pretendere la tutela: questa, afferma la Corte « deve
fondarsi su una relazione di interesse del terzo col bene pro-
tetto dalla norma incriminatrice ». Si può allora avanzare il

(45) Ibidem.
(46) Tuttavia lo stesso A., ivi, 239 avverte come, sebbene « i congiunti si
collocano sicuramente oltre l’area di tutela e oltre la responsabilità, è altret-
tanto innegabile che essi, anche negli altri ordinamenti e pure nel nostro già
per profili diversi dal danno alla salute, per la semplice ragione costituita dal
loro statu ricevono un trattamento diverso da quelli di tutti gli altri soggetti
originariamente estranei all’ambito di tutela della regola di responsabilità ».
(47) Cfr. da ultimo, sul punto, F. Piraino, Intorno alla responsabilità
precontrattuale, al dolo incidente e a una recente sentenza giusta ma erronea-
mente motivata, nota a Cass. 17-9-2012, n. 19702, in questa Rivista, 2013, 1118
s., spec. 1140 s.

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Antonello Iuliani 153

dubbio (48) che tra le due ipotesi — lesione del credito e danno
ai congiunti — sussista quella divergenza dichiarata e che la
stretta inerenza del credito alla persona o al bene oggetto della
lesione non giova a dimostrarne la prevedibilità, ma risolve
piuttosto la diversa questione della determinazione dell’am-
piezza (soggettiva) del risarcimento del danno. La ragione della
distinzione tra le due fattispecie, operata dalla Corte Costitu-
zionale e avallata dalla dottrina, va ricercata allora nella scelta
di politica del diritto di « limitare la proliferazione dei danni
risarcibili » (49) in occasione della morte di un individuo, tra-
sformando quello che è un problema di determinazione del
danno in un problema di struttura della fattispecie così da
privare il giudice di ogni margine di discrezionalità nell’accer-
tamento del caso in concreto. Infatti mentre l’esistenza di un
diritto di credito familiare, il cui oggetto è di per sé infungibile,
circoscrive i soggetti legittimati a chiederne il risarcimento,
l’allargamento della tutela al diritto di credito tout court e al
danno non patrimoniale rende la cerchia dei soggetti che la-
mentano la perdita potenzialmente infinita o comunque molto
estesa, circostanza che rimette la selezione dei danni risarcibili
ad un criterio ulteriore, quello della particolare relazione di
interesse col bene leso, o infungibilità, che, nel caso di danni
immateriali non patrimoniali (danni esistenziali) costituisce
addirittura una presunzione di danno, in assenza di un para-
metro oggettivo, qual è il mercato, per il diritto di credito, e
l’accertamento medico, per il danno biologico.
La questione appena affrontata offre altresì l’occasione per
indagare il significato dell’ingiustizia rispetto alle due tipologie
di danno e per rimeditare i rapporti tra l’art. 1223 c.c. e l’art.
2059 c.c. (50), in particolare se tali norme siano alternative,
come potrebbe fare ritenere la collocazione della norma dopo
l’art. 2056 c.c., oppure complementari. Un tale interrogativo

(48) Perplessità in tal senso sono state avanzate a suo tempo da A.


Jannarelli, Il « sistema » della responsabilità civile proposto dalla Corte costi-
tuzionale ed i « problemi » che ne derivano, Giur. it., 1995, 407 s., in particolare
411 s.
(49) Così Jannarelli, Il « sistema » della responsabilità civile cit., 412.
(50) Sul punto, cfr. E. Navarretta, I danni non patrimoniali nella respon-
sabilità extracontrattuale, I danni non patrimoniali. Lineamenti sistematici e
guida alla liquidazione, a cura di E. Navarretta (Milano 2004), 14 s.

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154 Diritti nazionali e comparazione

presuppone che l’art. 2059 c.c. sia riferito alle conseguenze, le


quali devono risultare tipiche, a differenza (ma più corretta-
mente a prescindere) dal fatto lesivo, il quale può essere inter-
grato anche da un diritto patrimoniale, poiché altrimenti, a
considerare l’art. 2059 c.c. non una norma sul danno ma sulla
fattispecie, a sostituzione o specificazione dell’art. 2043 c.c.,
interpretato nel senso della necessità di una struttura soggettiva
che formalizzi l’interesse non patrimoniale, l’art. 1223 c.c. do-
vrebbe necessariamente tornare in campo. Così lo intende
quella dottrina secondo la quale il danno non patrimoniale è
risarcibile solo ove esso consegua alla lesione di diritti della
persona costituzionalmente tutelati, e parla in proposito di
« ingiustizia costituzionalmente qualificata » (51), al fine di ri-
ferire la tipicità alla lesione del diritto, assegnando poi agli art.
1223 c.c. e s., il compito di determinare in concreto il pregiu-
dizio risarcibile (52). Entrambe le impostazioni risentono di
quella duplicità di piani, tra lesione e conseguenza, cui si è
soliti ricorrere al fine di inquadrare la fattispecie aquiliana ma
che risulta inadeguata a spiegare la fenomenologia dei i c.d.
diritti della persona, i quali altro non sono che ipostatizzazioni
di utilità personali (53), il cui godimento opera senza però la
struttura formale del diritto, vale a dire senza la mediazione di
un’utilità sulla quale insiste una situazione di appartenenza e
che, sul piano del danno, si riflette nella privazione del suo
valore di scambio. È possibile esprimere il medesimo concetto
ricorrendo alle parole di chi ha sottolineato come « nella tutela
della personalità, la norma non si esprime attraverso specifiche

(51) Cfr. in tal senso S. Mazzamuto, Il danno non patrimoniale; Id.,


Rimedi specifici e responsabilità (Perugia 2011), 339.
(52) In tal senso Castronovo, Danno biologico cit., 164-165.
(53) Cfr. D. Messinetti, Danno giuridico (voce), Enc. dir., App. agg.,
XXX (Milano 1997),469 s.; Id., Recenti orientamenti sulla tutela della persona.
La moltiplicazione dei diritti e dei danni, Riv. crit. dir. priv., 1992, 173 s. Sulla
tendenza alla formalizzazione degli interessi della persona in autonome
situazioni giuridiche soggettive e sulla stessa idoneità del diritto soggettivo a
fungere da qualifica degli interessi personalistici v. inoltre i contributi di G.
Ferri, Oggetto del diritto della personalità e danno non patrimoniale, Riv. dir.
comm., 1984, 136 s. e quello più risalente di G. Giampiccolo, La tutela
giuridica della persona umana e il c.d. diritto alla riservatezza, Riv. trim. dir.
proc. civ., 1958, 458 s.

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Antonello Iuliani 155

situazioni soggettive, ma attraverso quegli effetti giuridici che,


nella loro sintesi unitaria configurano la soggettività della per-
sona » (54), nel senso che non vi sarebbe spazio « per la rile-
vanza di una qualificazione oggettiva, dal momento che la
soggettività rappresenta il valore finale e autonomo della tu-
tela » (55). La ragione della diversità di struttura risiede in una
differenza abbastanza intuitiva che esiste tra i diritti patrimo-
niali e i cosiddetti diritti della persona: i primi sono chiamati a
dirimere potenziali conflitti sull’appropriazione delle risorse
divisibili, con l’effetto che il conferimento del diritto di pro-
prietà esclude gli altri dall’appropriazione e legittima il titolare
a godere e disporre del bene in modo pressoché esclusivo;
viceversa i diritti della persona si esauriscono in un autoaffer-
mazione dell’essere del soggetto, senza che il loro esercizio
risulti preclusivo di un contemporaneo esercizio da parte di
altri soggetti. La difficoltà di tradurre nel linguaggio dei diritti
aspetti che attengono alla persona in quanto tale si riflette nel
modo di concepire l’ingiustizia la quale, nel campo dei diritti
patrimoniali, sta ad indicare la struttura formale (diritto di
proprietà, diritto di credito) che consente l’acquisizione delle
utilità patrimoniali, mentre nel campo degli interessi non pa-
trimoniali diventa selezione tipologica di tali interessi (inte-
resse alla salute, interesse alla vita di relazione) e solo indiret-
tamente (e indebitamente), si riflette nella enucleazioni dei
diritti (ad es., diritto all’integrità familiare).
L’ipostatizzazione delle innumerevoli manifestazione della
persona in singoli diritti al fine di accertarne di volta in volta
l’ingiustizia ha avuto tre obiettivi: il primo è stato quello di far
transitare (56), in virtù dell’assimilazione col diritto di proprietà,
interessi non patrimoniali nel circuito risarcitorio (57), non av-

(54) D. Messinetti, Oggetto dei diritti, Enc. dir., XXIX (Milano 1979),
825 e nello stesso senso Id., Oggettività giuridica delle cose incorporali (Milano
1970), 294 s.
(55) Ibidem.
(56) Messinetti, Recenti orientamenti cit., 177.
(57) Afferma Messinetti, Danno giuridico cit., 472: « Si è ragionato,
infatti, in questo modo: se è vero che il danno in senso giuridico consiste nella
lesione di un interesse normativamente protetto (prima premessa), e se è vero
anche che un interesse non patrimoniale può assumere rilievo nelle forme di
protezione giuridica come gli interessi patrimoniali (seconda premessa), ne

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156 Diritti nazionali e comparazione

vedendosi che la funzionalità risarcitoria non è un dispositivo


neutrale ma è strettamente condizionata dal senso comunicativo
che il danno elabora all’interno del contesto circolatorio (58) (o
della scambiabilità) o, perlomeno, in quello, più minimale, della
convertibilità in denaro (59) di un’utilità (senza che si trasformi
in merce). Il secondo, quello di cercare un limite (60) all’indi-
scriminato proliferare delle ipotesi risarcitorie attinenti alla le-
sione della persona nella tipicità (presunta) degli interessi della
persona a livello costituzionale, (quando la meritevolezza del-
l’interesse non discende più dalla norma penale, torna in campo
l’ingiustizia del danno) senza avvedersi della difficoltà di imma-
ginare un ambito dell’agire non economico che si sottragga alla
tutela che l’art. 2 Cost. appresta alla persona (61): non a caso si
parla di tale norma come di una « clausola aperta », con « natura
generativa di nuovi diritti » (62). Dire perciò che gli interessi non
patrimoniali sono risarcibili solo quando discendono da un di-
ritto della persona costituzionalmente tutelato significa subor-
dinare l’effetto ad una tautologica formalizzazione in un’auto-
noma situazione soggettiva che nulla aggiunge, in termini di cer-
tezza, ai fini del loro riconoscimento. Se con essa invece si vuole
alludere ad una tipizzazione della fattispecie, sul modello del-
l’art. 2059 c.c., che infatti prevedeva il risarcimento del danno
morale solo in quanto conseguenza di un reato, limitando la di-
screzionalità giudiziale, e su questo modello limitare il danno

consegue che oltre a quello di danno patrimoniale è formalizzabile un


concetto (o una categoria) di danno non patrimoniale ».
(58) In questo senso, nettamente, Messinetti, Danno giuridico cit., 472.
(59) In questo significato minimo, invece, Barcellona, Trattato della
responsabilità civile cit., 859, secondo cui « Rispetto alla funzione conserva-
tiva propria della responsabilità, però, il principio di patrimonialità deve
essere compreso e rappresentato ad un ulteriore livello di astrazione ».
(60) In tal senso Messinetti, Recenti orientamenti cit., 190 s.
(61) Sul punto, cfr. però l’articolata proposta ricostruttiva avanzata da
Navarretta, I danni non patrimoniali cit., 17 s., la quale distingue i diritti
inviolabili dagli altri diritti costituzionali della persona, e ricollega solo alla
lesione dei primi la tutela risarcitoria. Sul punto, della stessa Autrice, cfr.
anche Danni non patrimoniali: il compimento della Drittwirkung e il declino
delle antinomie, Nuova giur. civ. comm., 2009, 81 s.; Id., Diritti inviolabili e
responsabilità civile, voce, Enc. giur., Annali VII (Milano 2014), 343 s.
(62) Così, M. Bin, Diritti e fraintendimenti: il nodo della rappresentanza,
Studi in onore di G. Berti (Napoli 2005), 365.

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Antonello Iuliani 157

esistenziale al danno che consegua alla morte di un parente, è


necessaria un’espressa ipotesi di legge. Non a caso di tipicità si
è cominciato a parlare con riguardo al danno esistenziale, il
quale, proprio perché danno immateriale, al pari del danno mo-
rale, sconta l’assenza di un’evidenza oggettiva, rendendo in con-
creto difficoltoso l’accertamento dell’entità del risarci-
mento (63): di qui l’argine nella tipizzazione. Finché il problema
di un allargamento del danno non patrimoniale si è mantenuto
nei limiti del danno biologico, l’apparente inconciliabilità tra due
impostazioni così diverse, quella di Corte cost. 4-7-1986, n. 184
da un lato, secondo cui la lesione della salute è di per sé fonte di
un danno risarcibile, e quella fatta propria da Corte cost.
27-10-1994, n. 372 dall’altra, secondo la quale, viceversa è sempre
necessario l’accertamento del danno, è apparsa non insuperabile
proprio perché in questo caso la prova del danno può ben dirsi
in re ipsa « non soltanto per ciò che riguarda l’esistenza di esso,
ma anche per quanto riguarda la sua entità » (64). Vi è, infine, un
terzo obiettivo che la tesi della tipicità persegue, e cioè l’esclu-
sione del risarcimento del danno non patrimoniale conseguente
alla lesione di un diritto patrimoniale; si tratta di un assunto del
tutto indimostrato che trova smentita proprio sul terreno con-
trattuale, ove la possibilità di dare risarcimento al danno non
patrimoniale, in particolare proprio del danno esistenziale, in
conseguenza dell’inadempimento, trova consacrazione proprio
nell’art. 1174 c.c. Ciò non significa che il danno non patrimoniale
conseguente alla lesione di diritti patrimoniali nell’ambito aqui-
liano vada risarcito, ma la ragione alla sua irrisarcibilità risiede
nella « funzione sistemica, che il diritto moderno ha
riconosciuto/attribuito al mercato », impedendo, in assenza di
un preventivo accordo, che il risarcimento dei valori soggettivi
attribuiti al bene, possa scalzare l’oggettività della misurazione
mercantile (65).
Tutto ciò implica che: a) con l’ingresso del danno non

(63) Sul punto si vedano già le riflessioni di R. Scognamiglio, Il danno


morale (Contributo alla teoria del danno extracontrattuale), Riv. dir. civ.,
1955, 277 s., spec. 326 s., ora Id., Responsabilità civile e danno cit.
(64) C. Castronovo, La responsabilità civile in Italia al passaggio del
millennio, in questa Rivista, 2003, 133.
(65) Così Barcellona, Trattato della responsabilità civile cit., 819.

Europa e diritto privato - 1/16


158 Diritti nazionali e comparazione

patrimoniale nella responsabilità civile può dirsi progressiva-


mente dissolto il confine tra patrimonialità, nel senso di con-
vertibilità in denaro, e non patrimonialità. Ciò è dipeso dalla
disponibilità del senso sociale a convertire un problema di
ordine etico in uno di ordine giuridico, e segnatamente di
ordine patrimoniale, in accordo con una strategia, propria di
una certa dottrina, di realizzare istanze egalitarie (66) serven-
dosi degli strumenti del diritto borghese, e quindi del suo
dispositivo istitutivo, vale a dire il denaro, affidando al giudice,
armato della Costituzione, il compito di veicolare all’interno del
diritto contenuti egualitari, sul presupposto di una sua pre-
sunta neutralità e quindi della sua adattabilità, per il tramite
dell’interpretazione, a qualsiasi obiettivo gli si voglia asse-
gnare (67); b) che una volta risolto positivamente il problema
della convertibilità in denaro, non è più necessario ai fini
risarcitori disarticolare la persona negli interessi che la com-
pongono, né di conseguenza andare alla ricerca di una qualche
tipicità (68).

(66) L’istanza egualitaria, con riferimento al danno non patrimoniale, è


stata attuata riconoscendo al danno alla salute autonoma rilevanza risarcitoria,
in quanto lesione di un diritto costituzionalmente tutelato (art. 32 Cost.), a
prescindere cioè dalle conseguenze reddituali che ne derivavano. Questa se-
conda impostazione contrastava infatti con il principio di uguaglianza, com-
portando una disparità di trattamento per i soggetti appartenenti a classi sociali
non elevate o addirittura prive di reddito. È famoso il « caso Gennarino » (Trib.
Milano, 18-1-1971, Giur. merito, 1971, I, 209 s.) nel quale al figlio di un ma-
novale rimasto vittima di un incidente fu risarcito il danno alla persona assu-
mendo come parametro il reddito di un manovale, posto che si riteneva che il
figlio avrebbe seguito la via intrapresa dal padre. Cfr., a riguardo, la critica di
S. Rodotà, Una sentenza classista, Pol. dir., 1971, 435 s. L’orientamento “ega-
litario” viene inaugurato da una pronuncia del Tribunale di Genova 25-5-1974,
Giur. it., 1975, I, 2, 54 s., con nota di M. Bessone-G. Alpa, Lesione dell’integrità
fisica e « diritto alla salute ». Una giurisprudenza innovativa in tema di valuta-
zione del danno alla persona, alla quale, a stretto giro, ha fatto seguito la pro-
nuncia del Tribunale di Pisa, 10-3-1979, Resp. civ. prev., 356 s., con nota di G.
Ponzanelli. L’accento sulle finalità egalitarie è posto con evidenza da G. Alpa,
Diritto della responsabilità civile (Bari 2003), 219 s.
(67) Sul punto, le riflessioni di L. Nivarra, La grande illusione. Come
nacque e come morì il marxismo giuridico in Italia (Torino 2015), 57 s. Sull’uso
« surrettiziamente redistributivo » della Costituzione, in particolare 84 s.
(68) Ciò non toglie che gli interessi della persona sottesi ad una certa
disposizione di legge colgano solo una parte di rilevanza della persona e che,
per decidere ad esempio se un eventuale atto negoziale o un’altra disposizione

Europa e diritto privato - 1/16


Antonello Iuliani 159

Come già segnalato, anche il campo del danno non patri-


moniale risulta articolato nelle due sfere del pregiudizio mate-
riale e di quello immateriale: del primo può dirsi espressione il
danno biologico, del secondo il danno esistenziale che, al di là
delle dispute nominalistiche, è emerso come categoria auto-
noma, rispetto al diritto alla salute, con l’obiettivo di estendere
il risarcimento oltre la persona la cui integrità pisco-fisica
risultasse lesa, al fine di evitare un’incomprensibile incon-
gruenza rispetto alla tradizionale risarcibilità del danno patri-
moniale consequenziale. La distinzione, che si sarebbe tentati
di rimarcare, istituendo un’analogia tra il danno meramente
patrimoniale e il danno esistenziale, al di là dell’indubbio signi-
ficato in ordine alla prova del danno di cui si dirà a breve, non
presenta però quel valore dirimente, ai fini della tenuta del
sistema, che ha nel campo delle attribuzioni patrimoniali, dove
condiziona il modo di attribuzione delle utilità, e quindi la
scelta del soggetto (giudice o legislatore) deputato a risolvere i
conflitti attributivi (e conservativi), al punto che, anche nel c.d.
danno biologico, la materialità (o l’oggettività) che pure de-
scrive l’utilità di cui si lamenta la perdita, non per questo la
trasforma nell’oggetto di un diritto d’appropriazione. L’assenza
di un ancoraggio materiale si risolve piuttosto nella difficoltà di

di legge in contrasto con la prima sia o meno lesiva della persona umana,
occorre verificare se essa non sia espressione di un interesse della persona
altrettanto rilevante o addirittura superiore. Ciò significa che per quanto la
tutela della persona globalmente intesa possa essere l’obiettivo di una plura-
lità di diposizioni di legge, tale unicità può essere ricostruita solo dall’inter-
prete a livello di sistema attraverso un bilanciamento degli interessi contrap-
posti che ad essa fanno capo. In quest’ottica si spiega, ad esempio, la
possibilità che l’adozione di un regolamento contrattuale che imponga al
lavoratore, in contrasto con una norma inderogabile, un demansionamento
possa non essere considerato in contrasto con la tutela della persona, e
dunque non affetto da nullità se, tenuto conto delle circostanze concrete, sia
diretto a salvaguardare un altro interesse del lavoratore prevalente rispetto a
quello tutelato dalla norma. Così la tutela della professionalità della persona
di cui il divieto del demansionamento è espressione cede il passo di fronte alla
tutela del lavoro, anch’essa espressione della dignità umana, là dove situa-
zioni di crisi dell’impresa impongano la scelta tra demansionamento e licen-
ziamento. Cfr., sul punto, A. Albanese, La norma inderogabile nel diritto civile
e nel diritto del lavoro tra efficienza del mercato e tutela della persona, Riv. giur.
lav., 2008, 165 s., spec. 176 s.

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160 Diritti nazionali e comparazione

prova cui si espone il danno esistenziale ed è la reale ragione


che ha spinto la dottrina a contrastarne il riconoscimento. Da
questo punto di vista, e limitandoci al danno esistenziale deri-
vante dalla morte di un congiunto, si può sottolineare la somi-
glianza proprio con l’ipotesi della lesione aquiliana del credito,
nella quale, come si è visto, il risarcimento del valore d’uso del
credito è subordinato alla dimostrazione della sua infungibilità
(e in tal senso si spiega la secolare risarcibilità dei crediti
alimentari e, invece, l’irrisarcibilità dei crediti sinallagmatici) e
la stessa infungibilità in misura non dissimile, si presta a
selezionare anche gli interessi non patrimoniali risarcibili da
quelli che non lo sono. Con la differenza non da poco che,
mentre nel caso dei diritti patrimoniali, il parametro dell’infun-
gibilità, vale a dire la sostituibilità di un bene con un altro, è
rappresentato dal mercato, nel caso dei diritti non patrimoniali,
è offerto dalla coscienza sociale radicata in una determinata
fase storica, alla quale è affidato il compito di determinare,
sebbene in via del tutto presuntiva (69), quale relazione affet-
tiva o sentimentale sia ritenuta infungibile, e la sua privazione
fomite di un danno non patrimoniale e quale, invece, non lo sia,
lasciando il pregiudizio alla mera fatalità.
Nel campo dei diritti patrimoniali, ove invece è in gioco la
soluzione di conflitti conservativi di risorse non contendibili
poiché soggette ad un’attribuzione stabile (lo è invece, ad esem-
pio, la clientela rispetto alla quale non si può predicare un
diritto soggettivo e che risulta lesa da atti “distrattivi” e non
“distruttivi”), l’ancoraggio alla materialità, o comunque alla
mediazione di una situazione giuridica di appropriazione su un
bene, segna il limite tendenziale della risarcibilità, precludendo
l’accesso al rimedio risarcitorio di tutte quelle poste di danno

(69) Riconosce ad es. Cass. 11-11-2008, n. 26972, pluris.cedam-


utetgiuridica.it, che « per gli altri pregiudizi non patrimoniali potrà farsi
ricorso alla prova testimoniale, documentale e presuntiva. Attenendo il pre-
giudizio (non biologico) ad un bene immateriale, il ricorso alla prova presun-
tiva è destinato ad assumere particolare rilievo, e potrà costituire anche
l’unica fonte per la formazione del convincimento del giudice, non trattandosi
di prova di rango inferiore agli altri ». Su queste premesse, ad es. Cass.
10-4-2015, n. 7191 ha stabilito in favore dei congiunti della vittima una
somma a titolo di risarcimento, sul presupposto esclusivo che « si trattava di
famiglia legittima ».

Europa e diritto privato - 1/16


Antonello Iuliani 161

che si atteggiano come pura privazione di utilità e il cui tenta-


tivo di formalizzazione in autonome situazioni giuridiche sog-
gettive sconta il difetto di un’attribuzione esplicita, nel mo-
mento in cui si dà un potere di godimento svincolato da un
precedente potere di disposizione. La lesione del potere di
godimento, infatti, o si dà come conseguenza dell’inadempi-
mento di una prestazione, e dunque attiva un conflitto di tipo
relazionale, tipico della responsabilità contrattuale, o si pone
come effetto di un interferenza occasionale distruttiva su un
bene (salvo le ipotesi in cui si dà come effetto di un’interferenza
alla sfera patrimoniale immateriale, di regola ammessa — ad
es. la concorrenza — ma bandita se esercitata con modalità
scorrette), e interroga dunque la responsabilità aquiliana o,
infine, come frutto di un’interferenza usurpativa della titolarità,
nel qual caso il problema non sarà più soltanto di risarcimento
bensì soprattutto di restituzione.
Un indice normativo della distinzione tra le due specie di
responsabilità, spesso trascurato sotto tale profilo, proprio per
la tendenza, cui prima si accennava, ad affidargli una valenza
unitaria, va individuato nell’art. 1223 c.c. Il significato minimo
ricavabile dalla norma, accantonato l’improprio riferimento
alla causalità, è quello che identifica nel danno emergente e nel
lucro cessante nient’altro che la riformulazione in termini mo-
netari della mancata attuazione della prestazione o della distru-
zione del bene, nel contesto del patrimonio del danneggiato,
secondo il duplice profilo del valore del scambio e del valore
d’uso (70): due categorie che incontrano quelle, già note al
diritto, di danno circa rem e danno extra rem. Premesso che
ogni merce è tale in virtù del suo valore d’uso, vale a dire la sua
idoneità a soddisfare bisogni individuali, la distinzione ricalca
la differenza tra la generalizzazione (71) di tale valore che

(70) In questi termini si esprime Messinetti, Danno giuridico cit., 490.


(71) Parla di « interazione di immaginario sociale e prassi di mercato »
M. Barcellona, Della causa. Il contratto e la circolazione della ricchezza (Padova
2015), 212, il quale, precisa, 254, nt. 141 che « Il prezzo di una merce, infatti,
si determina sulla base dell’equivalenza monetaria che il mercato stabilisce con
il suo valore d’uso sociale, e cioè con l’uso che generalmente ne determina la
domanda e l’offerta e che, perciò, ha il medesimo carattere oggettivo e astratto
del valore di scambio nel quale il mercato lo converte e, non si determina,
invece, sulla base di quel che l’acquirente intende farne, il quale costituisce,

Europa e diritto privato - 1/16


162 Diritti nazionali e comparazione

costituisce la base materiale del valore di scambio, vale a dire


del prezzo di mercato, e il valore individuale che il bene riveste
per il soggetto in reazione al vantaggio specifico che questo può
fornirgli (72). L’articolazione del risarcimento nelle due forme
del danno emergente e del lucro cessante non riproduce, tutta-
via, esattamente quella economica tra valore di scambio e
valore d’uso, poiché se certamente il valore di scambio può dirsi
un valore giù acquisito al patrimonio, al punto che la misura
volta a reintegrarlo, nella responsabilità contrattuale, subisce
una spiccata torsione in senso restitutorio, l’identificazione
della perdita del valore d’uso con il lucro cessante può apparire
riduttiva, dal momento che il primo può assumere tanto la
veste del danno emergente, nelle ipotesi in cui la perdita del
valore d’uso si sia tradotta in una diminuzione attuale del
patrimonio, tanto quella del lucro cessante, nelle ipotesi in cui,
viceversa, « gli effetti della perduta disponibilità del bene ven-
gano ricostruiti in una prospettiva futura e ipotetica come
mancata acquisizione di vantaggi diretti a incrementare la
massa patrimoniale originaria » (73).
L’estensione dell’art. 1223 c.c. anche ai fatti illeciti, in virtù
del rinvio operato dall’art. 2056 c.c., comporta un mutamento
di significato che si tende a trascurare nell’apparente neutralità
del fatto dannoso, e che invece fornisce indicazioni utili proprio
sul danno meramente patrimoniale: se riferito all’inadempi-
mento, si atteggia, come pure è stato detto, ad illecito di pura

invece, il valore d’uso individuale, che, al contrario, ha carattere singolare e


concreto ». Cfr., sul problema della valenza oggettiva e soggettiva che il lucro
cessante può assumere, E. Camardi, Economie individuali e connessione con-
trattuale. Saggio sulla presupposizione (Milano 1997), 74 s.; A. Iannarelli, Il
danno non patrimoniale: le fortune della “doppiezza”, Danno resp., 1999, 601 s.,
in particolare, 606, nt. 13; M. Cavallaro, Il danno da « fermo tecnico »: fonda-
mento e limiti della sua risarcibilità, Riv. dir. civ., 2002, 91, nt. 46.
(72) Dalla pietra angolare della distinzione tra valori d’uso e valori di
scambio si struttura l’analisi di Pellegrini, Il lucro cessante cit., di cui si
apprezza lo sforzo, condotto attraverso un’interessante indagine storica, di
aver ricollegato le due categorie attualmente in uso alla scienza economica, a
quelle, proprie dei giuristi dell’età intermedia, di danni singulari e danni
communi.
(73) Cfr. Cavallaro, Il danno da « fermo tecnico » cit., 92 s. In questo
senso anche Messinetti, Danno giuridico cit., 491-492.

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Antonello Iuliani 163

condotta (74), nel quale, cioè, è la semplice violazione di una


regola d’azione ad essere sanzionata, senza la necessità che la
fattispecie si completi con il ricorrere di un evento materiale;
mentre se riferito al fatto illecito aquiliano, presuppone che alla
condotta libera faccia seguito un evento materiale, lesivo di una
situazione giuridica soggettiva. Ciò rende ragione non solo
dell’inutilità rispetto all’inadempimento, che è un puro giudizio
di difformità sulla condotta, dell’accertamento della causalità
materiale (75), dal momento che questa ha senso solo rispetto
ad accadimenti naturali (76), ma pure del diverso interrogativo
che il risarcimento dei danni ulteriori pone alle due specie di
responsabilità: da un lato, verificare la connessione della per-
dita o del mancato guadagno con il “comportamento dovuto”,
come conferma l’art. 1225 c.c., non a caso limitato alla sola
responsabilità contrattuale; dall’altro valutare i riflessi, sul
piano economico, della mancanza totale o parziale del bene
leso nel patrimonio del danneggiato. La questione non ha
lasciato indifferente la dottrina più attenta che ha sottolineato
come il lucro cessante sia un valore non corrispondente a beni
giuridici in senso stretto, « cioè ad utilità il cui sfruttamento è
riservato a (cioè fornito di protezione giuridica a favore di) un
soggetto [e perciò] essi non risultano individuabili a prescin-
dere dal loro pregiudizio. In altri termini, tale valore « emerge »
esclusivamente in quanto « mancato »: inoltre, esso rileva solo
in quanto sia mancato insieme, cioè in connessione con valori
costituenti beni giuridici in senso stretto » (77). La conclusione
sembra persuadere anche chi (78), nel fornire una risposta

(74) Così Castronovo, Il risarcimento del danno cit., 88, nt. 28.
(75) Il discorso non vale per le obbligazioni aventi ad oggetto un’attività
professionale nelle quali, essendo il risultato non determinabile a priori, l’even-
tuale inadempimento si presta alla dimostrazione controfattuale che il risultato
sarebbe stato vantaggioso per il creditore se il debitore avesse agito diversa-
mente (sul punto cfr. F. Piraino, Adempimento e responsabilità (Napoli 2011),
576 s.) Ritiene Castronovo, Il risarcimento del danno cit., 90, nt. 40, che anche
il danno da violazione degli obblighi di protezione pone una questione causale.
(76) Castronovo, Il risarcimento del danno cit., 88.
(77) Così G. Ferri jr, Danno extracontrattuale e valori di mercato, Riv.
dir. comm., 1992, 778-779.
(78) Il riferimento è a Castronovo, Del non risarcibile aquiliano cit.,
322-323.

Europa e diritto privato - 1/16


164 Diritti nazionali e comparazione

negativa alla rilevanza della chance in ambito aquiliano,


esclude il risarcimento della perdita di un guadagno probabile
in seguito ad un incidente stradale, mentre ammette senza
ostacoli il risarcimento del « lucro cessante conseguente alla
lesione di una situazione soggettiva del medesimo titolare,
come nel danno alla salute che comprometta la capacità di
guadagno del danneggiato » (79). La ragione del diverso tratta-
mento, al di là dell’incertezza causale, risiederebbe nella circo-
stanza, assai significativa, ai fini del nostro discorso, che nella
seconda ipotesi « il lucro cessante non pencola nel vuoto, ma,
come richiede l’art. 1223 c.c., si colloca in esito a un danno
emergente » (80) considerazione che si congiunge a quella, al-
trove espressa, secondo cui « la mancata o perduta acquisizione
delle utilità insite nel bene, oggetto della tutela, non integra la
lesione di un interesse diverso da quello che lega il soggetto al
bene, ma rappresenta più puntualmente uno specifico profilo
del rapporto di appartenenza o di spettanza che collega il
soggetto alla cosa in grado di fornirgli utilità » (81).

3. Quando si tratta di segnare il confine tra le due figure di


responsabilità, l’accento abitualmente cade sulla diversità di
presupposti da quali discende l’obbligazione risarcitoria, sotto-
lineata dall’esserci o meno di un preesistente rapporto obbliga-
torio. Le differenze tendono invece ad assottigliarsi, fino a
scomparire, quando dal piano della fattispecie si passa ad
analizzare il contenuto dell’obbligazione risarcitoria, in linea
con l’unificazione della disciplina del risarcimento per le due
specie di responsabilità adottata dal codice (82). Contraria-
mente a tale impostazione una recente riflessione ha sottoli-
neato come le differenze strutturali che separano le due forme
di responsabilità si riflettano sul risarcimento del danno, qua-
lificando quello contrattuale in senso spiccatamente satisfattivo
e ciò perché « l’obiettivo fondamentale del risarcimento del

(79) Ibidem.
(80) Ibidem.
(81) Cavallaro, Il danno da « fermo tecnico » cit., 93.
(82) V. però, in senso opposto all’opinione maggioritaria, le riflessioni
critiche di Castronovo, Il risarcimento del danno cit., passim; C. Salvi, Il danno
extracontrattuale, Modelli e funzioni (Napoli 1985), 15 s.

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Antonello Iuliani 165

danno è quello di procurare al creditore, sia pure per equiva-


lente, la stessa utilità che gli sarebbe pervenuta per il tramite
della prestazione originaria » (83). Sulla base di tale premessa
l’art. 1223 c.c. troverebbe applicazione esclusivamente in rife-
rimento ai c.d. danni consequenziali, vale a dire quei danni che
trovano la propria fonte nell’inadempimento considerato non
come lesione del diritto del credito ma come fomite di un

(83) Il riferimento è a L. Nivarra, I rimedi specifici, in questa Rivista,


157 s., spec. 173 s.; Id., Alcune precisazioni in tema di responsabilità contrat-
tuale, in questa Rivista, 45 s. L’idea di una progressiva parificazione della
tutela reale alla tutela del credito, limitatamente alla tutela in forma specifica,
era già avvertita da M. Giorgianni, Tutela del creditore e « tutela reale », Riv.
trim. dir. proc. civ., 1975. Tale tesi è stata avanzata, nella dottrina francese, da
Ph. Remy, La « responsabilitè contractuelle »: histoire d’un faux concept,
RTDciv., 1997, il quale peraltro, a differenza di Nivarra (v. sul punto, p. 104),
considera anche il lucro cessante già acquisito al patrimonio del creditore,
oggetto, dunque, anch’esso di tutela restitutoria. Ipotizza, senza però aderirvi,
che l’art. 1223, nel riferirsi al danno emergente e al lucro cessante, non abbia
ad oggetto il danno propriamente contrattuale, A. di Majo, Tutela risarcitoria:
alla ricerca di una tipologica cit., 254. In senso opposto si segnala la ricostru-
zione di M. Pacifico, Il danno nelle obbligazioni (Napoli 2008), secondo cui la
funzione del risarcimento, conseguente all’inadempimento, « al pari di
quanto avviene nell’ambito della responsabilità extracontrattuale, debba co-
munque rinvenirsi nella reazione avverso il pregiudizio effettivamente pro-
dotto, e ciò a prescindere dal fatto che la tutela risarcitoria reagisca all’ina-
dempimento di obblighi di fonte negoziale o di natura diversa da quella
aquiliana » (ivi, 126). Detto altrimenti, secondo l’A. il risarcimento non svolge
una funzione sostitutiva della prestazione inadempiuta e non si può conce-
pire come strumento di attuazione del rapporto obbligatorio, la quale è
affidata sotto il profilo quantitativo, all’esecuzione per espropriazione e sotto
il profilo qualitativo, qualora possibile, al sistema dell’esecuzione in forma
specifica. L’idea che l’obbligazione risarcitoria costituisca lo sviluppo del
vincolo primario di prestazione, conseguente al giudizio di responsabilità, è
propria della dottrina più significativa: cfr. L. Mengoni, Responsabilità con-
trattuale, (dir. vig), Enc. dir. (Milano 1988), 1072-1073; Castronovo, La nuova
responsabilità civile cit., 456 che descrive il rapporto tra l’obbligazione e la
responsabilità per inadempimento nei termini di uno « stato allotropico » del
preesistente vinculum iuris, « un altro modo di perseguire lo stesso interesse
in funzione del quale il rapporto è stato costituito »; A. di Majo, Le tutele
contrattuali (Torino 2009), 156 che parla di carattere « sostitutivo » del risar-
cimento del danno contrattuale, tale da ricomprendere sia il danno emergente
che il lucro cessante, affidando, per contro all’art. 1223, la tutela dei danni
consequenziali, quali ad es. quelli derivanti dalla violazione di obblighi di
protezione.

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166 Diritti nazionali e comparazione

danno in senso stretto, rispetto ai quali il valore non può dirsi


già acquisito al patrimonio, se non altro perché la sua realiz-
zazione dipende sempre dall’attività, successiva all’adempi-
mento, del creditore. Al contrario, l’equivalente pecuniario
della prestazione andrebbe piuttosto assimilato ad una forma
di restituzione per equivalente (84), tutta racchiusa, al di là
dell’impropria formulazione, nell’art. 1218 c.c.. Di improprietà
linguistica si tratta perché, più dell’art. 1218 c.c., che confonde
tutto nella misura risarcitoria, risulta esplicativa la formula-
zione degli artt. 1307, 1515, 1516, 1518, 1553, 1591, 1696 c.c.
nel distinguere il valore della prestazione dal risarcimento del
danno ulteriore (85). Tali disposizioni, nell’attribuire alla pre-
stazione il valore oggettivo di mercato, indipendentemente

(84) Nivarra, Alcune precisazioni cit., 103 s., ritiene che « la misura pre-
vista dall’at. 1218, al di là del nomen iurs (risarcimento n.d.a.), partecipa della
medesima specie della pretesa primaria e deve, pertanto, essere iscritta entro
il novero delle tutele reali, ossia di quelle forme di tutela caratterizzate dal fatto
che, mediante il processo, il titolare del diritto […] ottiene, in natura o per
equivalente, l’utilità attribuitagli ex ante dall’ordinamento ». Qualcosa di simile
si può leggere anche in Messinetti, Danno giuridico cit., 493 dove si legge che
« l’uso del termine « danno » possa introdurre anche tecniche coattive assunte
per soddisfare finalità ed esigenze che non sono spiegabili secondo la pecu-
liarità della finalità risarcitoria nella sua funzione essenziale, ma piuttosto sono
coordinate dalla coercizione derivata dal mantenimento dell’interesse specifico
del creditore verso la prestazione »; e ancora, p. 494, « Di conseguenza, esso
deve essere considerato come una rinnovazione delle stesse condizioni di va-
lidità a cui è legata la forza di costrizione dell’esecutività della pretesa, in un
progetto che si traduce in forma monetaria in seguito alla mancata attuazione
coattiva, ma che è sin dall’origine concepito in termini monetari ».
(85) In giurisprudenza, oltre a Trib. Roma, 16-1-2006, Giur. it., 2007,
877 già riportata da Nivarra, I rimedi specifici cit., 179, nt. 22, si segnala la
recente Cass. 12-1-2015, n. 262, Giur. it., 2015, 82 s., con nota di A. Plaia, Ciò
che danno non è, sull’interpretazione dell’art. 32, l. 183 del 2010 avente ad
oggetto la tutela del lavoratore assunto con un contratto a termine illegittimo.
L’art. 32, quinto comma, come interpretato dalla l. 92 del 2012, prevede
un’indennità onnicomprensiva, volta a ristorare il pregiudizio subito dal
lavoratore, per il periodo non lavorato. Afferma la Cassazione: « Dalla norma
si desume che l’indennità è volta al “risarcimento” del lavoratore”. Quindi
concerne un danno subito dal lavoratore e cioè il danno derivante dalla
perdita del lavoro dovuta ad un contratto a termine legittimo, un danno da
mancato lavoro ». Per quanto riguarda, invece, i periodi lavorati, riconosce la
Corte che « I diritti relativi a questi periodi non possono essere intaccati e
inglobati nell’indennizzo forfetizzato del danno causato dal non lavoro », e
questo perché « Per questi periodi non vi è niente da risarcire ed il risarci-

Europa e diritto privato - 1/16


Antonello Iuliani 167

dalla prova di un danno minore, confermerebbero la natura


reale della misura in questione e il principio per cui il creditore
deve ottenere, in alternativa all’adempimento in natura, quella
porzione di ricchezza universale in grado di consentirgli la
riappropriazione di quel valore d’uso che il bene gli avrebbe
assicurato (86). In particolare l’art. 1518 c.c., lungi dall’essere
una norma eccezionale, rappresenta il paradigma del modello
di scambio capitalistico, nel quale, complice l’affermarsi del
principio consensualistico, diventa fisiologica una sfasatura
temporale tra la stipulazione dell’accordo e lo scambio reale,
dalla quale dipende un’eventuale incidenza delle fluttuazioni
del mercato sull’equivalenza contrattuale.
La conversione della prestazione dovuta nel suo equivalente
monetario, il cui criterio è dato dall’impossibilità non imputa-
bile della prestazione, al di là del riduzionismo terminologico
della norma, assume una spiccata funzione satisfattiva, dal
momento che è funzionale non tanto a compensare una perdita
patrimoniale quanto ad attribuire al creditore, sia pure per
equivalente per le trasformazioni subite dalla realtà materiale,
la stessa utilità già acquisita anche solo virtualmente nel suo
patrimonio e che gli sarebbe pervenuta per il tramite della
prestazione ordinaria. La distanza dalla logica risarcitoria è
confermata dall’atrofia che caratterizza il giudizio di responsa-
bilità (87), privato della dimostrazione dell’ingiustizia del
danno, assorbita com’è nell’inadempimento, e sostanzialmente
esaurito dalla prova dell’impossibilità sopravvenuta della pre-
stazione non imputabile, eventuale, tutto interno al processo di
restaurazione dei valori proprietari. Dal punto di vista della
tutela, il diritto di credito non si distinguerebbe dal diritto
assoluto, nel senso che al pari del secondo gode di una forma di
tutela specifica, volta ad assicurare il soddisfacimento di quel
medesimo interesse attribuito dall’ordinamento, fino al limite

mento mediante indennizzo non può, in una sorta di eterogenesi dei fini,
risolversi nella contrazione di diritti legati da un rapporto di corrispettività
con la prestazione lavorativa effettuata ».
(86) In questo senso, per l’ancoraggio del valore della prestazione al
valore di mercato, P. Trimarchi, Il contratto: inadempimento e rimedi (Milano
2010), 113 s., contra M. Ambrosoli, Inadempimento del contratto e risarci-
mento del danno (Milano 2012), 169 s.
(87) Nivarra, I rimedi specifici cit., 180, 182.

Europa e diritto privato - 1/16


168 Diritti nazionali e comparazione

dell’impedimento materiale, allorquando l’utilità specifica si


converte nell’equivalente monetario « senza che per ciò solo si
abbia un fenomeno di decadimento (in senso fisico) della qua-
lità del diritto, il quale conserva immutata, e immutabile, la sua
identità di titolo idoneo a giustificare l’acquisizione di un pezzo
più o meno grande della ricchezza universale » (88).
Un omologo dell’art. 1218 c.c. è perciò l’art. 948 c.c. (89) il
quale, non a caso, introduce quale criterio per determinare la
trasformazione dell’obbligo di restituzione in natura in quello
per equivalente — che è altra cosa rispetto al risarcimento (90)
— nel « fatto proprio », ravvisabile in quelle circostanze estra-
nee alla sfera di incidenza del “debitore”, vale a dire nel caso
fortuito e nella forza maggiore. A tale interpretazione è stata
mossa un’obiezione (91) non trascurabile secondo cui il riferi-
mento al fatto proprio nel contesto dell’azione di rivendica-
zione avrebbe unicamente la funzione di segnalare che il con-
venuto non cessa di essere obbligato alla restituzione della cosa
per il solo fatto di essersi volontariamente spogliato della de-

(88) Nivarra, I rimedi specifici cit., 178.


(89) Id., I rimedi specifici cit., 176; Id., Alcune precisazioni cit., 76. Anche
C. Argiroffi, Delle azioni a difesa della proprietà. Art. 948-951, Il codice civile
commentato a cura di P. Schlesinger (Milano 2011), istituisce a p. 164,
proprio con riferimento all’interpretazione del « fatto proprio », un confronto
tra l’art. 948 c.c. e l’art. 1218 c.c., anche se, poi, ascrive il valore corrispon-
dente della cosa, ad una forma propriamente risarcitoria e non di restituzione
per equivalente. In tal senso dello stesso A., Ripetizione di cosa determinata e
acquisto “a domino” della proprietà (Milano 1980), 153 s.
(90) Sulla natura di restituzione per equivalente del « valore » della
cosa, cfr. M. Comporti, L’occupazione illegittima da parte della pubblica am-
ministrazione fra la disciplina della proprietà e quella dell’illecito, Giur. It.,
1980, IV, 353 s.; Id., Dalla occupazione illegittima di immobili da parte della
pubblica amministrazione alla « occupazione appropriativa », Riv. giur. ed.,
1985 3 s.; A di Majo, La tutela civile dei diritti (Milano 2003), 98, secondo cui
« Il recupero del valore è cosa diversa dal risarcimento. È del tutto indipen-
dente dai presupposti di questo, perché esige il solo riconoscimento della
spettanza della cosa ».
(91) Il riferimento è a F. Piraino Sulla natura non colposa della respon-
sabilità contrattuale, in questa Rivista, 2011, 1019 s., in particolare 1096 s. Ai
rilievi critici avanzati da Piraino ha recentemente aderito anche S. Mazza-
muto, Le nuove frontiere della responsabilità contrattuale, in questa Rivista
2014. In senso critico si è espresso anche A. di Majo, L’obbligazione “protet-
tiva”, in questa Rivista, 2015, 1 s.

Europa e diritto privato - 1/16


Antonello Iuliani 169

tenzione o del possesso della cosa, e ciò al fine di rimarcare la


peculiarità delle obbligazioni di restituzione. Che il riferimento
al fatto proprio sia da intendere come causa imputabile lo si
evince confrontando la disciplina dell’azione di rivendicazione
con quella della ripetizione dell’indebito di cui all’art. 2037
c.c. (92). Il meccanismo rimarchevole della prima, che la diffe-
renzia dalla seconda, è dato proprio dalla rilevanza dello stato
di imputabilità o meno del perimento o della perdita del bene,
laddove nel caso del accipiens indebiti a rilevare, ai fini della
restituzione, è unicamente lo stato di buona o mala fede. Nel
primo caso egli, infatti, non risponderà del perimento della
cosa anche dovuto a causa a lui imputabile, mentre in caso di
mala fede, sarà tenuto a restituire il valore della cosa anche se
l’impedimento materiale sia dovuto a caso fortuito, ipotesi nella
quale, tutt’al contrario, il convenuto nella rivendica va esente da
ogni responsabilità. Il diverso trattamento si giustifica in virtù
della posizione che, al di là dell’apparenza, l’accipiens riveste,
tutt’altro che assimilabile a quella del convenuto nella riven-
dica, e invece più propriamente assimilabile a quella del pro-
prietario, come dimostra il fatto che su di lui, a differenza di
quanto previsto per il convenuto in rivendica, grava il rischio
economico, pur differenziato, a seconda dello stato soggettivo,
del perimento della cosa determinata. Ne deriva che la tutela
offerta dall’art. 948 c.c. è funzionale al ripristino delle condi-
zioni di esercizio del diritto di proprietà, anche solo nella forma
del ripristino del valore, mentre l’art. 2037 c.c. (e l’art. 2038 c.c.)
interviene in funzione del ripristino dell’equilibrio patrimoniale
compromesso, una volta determinatosi il trasferimento di tito-
larità, come dimostra il fatto che, qualora l’accipiens sia in
buona fede, egli risponde solo nei limiti del suo arricchimento.
La ratio dell’art. 2037 c.c. è analoga a quella che si rinviene negli
artt. 935, 936, 937 c.c., ove il trasferimento di titolarità che
l’ordinamento prevede a vantaggio di un soggetto diverso, che
si consolida con l’impossibilità materiale della restituzione, è
compensato dalla corresponsione di una somma di denaro che,

(92) Cfr. Argiroffi, Delle azioni a difesa della proprietà cit., 155 s.; Id.,
Ripetizione di cosa determinata cit., 150 s.

Europa e diritto privato - 1/16


170 Diritti nazionali e comparazione

a seconda della rilevanza dello stato soggettivo, è commisurato


al valore del bene o limitato all’arricchimento conseguito.
Un indice ulteriore a favore della peculiarità delle obbliga-
zioni restitutorie tese a reintegrare la situazione dominicale
lesa o compressa, viene tratto dall’art. 1818 c.c., il quale, nel-
l’ipotesi in cui siano mutuate cose diverse dal denaro, obbliga il
mutuatario, per il caso in cui la loro restituzione in natura sia
divenuta impossibile o notevolmente difficile per causa a lui
non imputabile, a corrispondere comunque l’equivalente mo-
netario (93). È, tuttavia, possibile un’interpretazione della
norma che distingua il caso dell’impossibilità della prestazione
da quello della notevole difficoltà: nel primo caso la conver-
sione della prestazione in valore è la conseguenza naturale della
stabilizzazione, per via della sopravvenuta impossibilità di re-
stituzione, degli effetti traslativi del mutuo e dunque di una
trasformazione del mutuo in una compravendita, e significativo
è che il codice tenga fermo proprio il pagamento del prezzo,
analogamente a quanto previsto dall’art. 1465 c.c. Per l’ipotesi
della notevole difficoltà di restituzione la norma si presta ad
essere letta come un’applicazione del generale principio previ-
sto dall’art. 1468 c.c. che, per le obbligazioni non contrasse-
gnate dalla corrispettività, qual è quella di restituzione della
cosa da parte del mutuatario, nel caso di difficoltà di esecu-
zione della prestazione, tale da renderla di fatto impossibile,
autorizza una modificazione delle modalità di esecuzione della
prestazione convertendo l’obbligazione in natura in un’obbli-
gazione pecuniaria: una sorta di adempimento sanante.
A dispetto del piano generale sul quale viene condotto il
discorso, si potrebbe avanzare il sospetto che tale impostazione
valga, o possa valere, solo per le obbligazioni di dare che hanno
ad oggetto la restituzione o la consegna di una cosa, i cosiddetti
iura ad rem; qui propriamente si tratta di ripristinare una
situazione di titolarità già compiuta, tant’è vero che l’aspetto
sostanziale dell’aspettativa del creditore verso l’utilità già at-
tuale prende il sopravvento rispetto ai mezzi (94). Così è per le

(93) Il rilievo è sempre di Piraino, Sulla natura non colposa cit., 1102.
(94) In tal senso, M. Giorgianni, L’inadempimento, Corso di diritto civile
(Milano 1959), 219 s.; Id., L’obbligazione, Corso di diritto civile (Roma 1974),
84 s.

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Antonello Iuliani 171

obbligazioni pecuniarie, ove, la trasformazione nella forma


monetaria del contesto originario si presenta semplificata, così
nelle altre ipotesi di obbligazioni di dare in cui l’inadempi-
mento coincide, viceversa, per lo più proprio con l’impossibilità
della prestazione derivante dallo smarrimento o dal perimento
del bene. Che la disciplina delle obbligazioni di restituzione
derivanti da un rapporto obbligatorio avente ad oggetto una
prestazione di dare, al netto di alcune differenze, sia sottoposta
al medesimo trattamento di quelle derivanti da uno spoglio
ingiusto lo conferma la disciplina dettata, nel caso di smarri-
mento, per i contratti aventi ad oggetto la restituzione di una
cosa determinata, nei quali del tutto specularmente a quanto
avviene nell’art. 948 c.c., la perdita della cosa, imputabile al
debitore, determina l’impossibilità temporanea della presta-
zione la quale permane tale finché la cosa non venga ritrovata,
tenuto conto dell’interesse del creditore a riceverla successiva-
mente. Se tale interesse è ancora attuale, il debitore è obbligato
a recuperare la cosa, pena la riconversione della possibilità
nell’impossibilità imputabile, facendo dunque sorgere l’obbligo
di restituire il valore della cosa. E non a caso, nell’ipotesi in cui
lo smarrimento sia sopravvenuto per causa non imputabile, che
è l’ipotesi regolata dall’art. 1780 c.c., il debitore non è sempli-
cemente liberato, ma su di esso grava pur sempre il dovere di
comunicare immediatamente al creditore tale circostanza.
L’assimilazione delle obbligazioni che hanno ad oggetto un fare
risulta meno immediata ma non per questo meno vera, poiché
se sconta la mancanza dell’evidenza di un’utilità già acquisita al
patrimonio del debitore, dato qui l’emergere in senso forte della
cooperazione del creditore, non altrettanto può dirsi del suo
valore, che risulta già entrato a far parte del patrimonio al
punto di essere tutelato alla stregua di un diritto assoluto, come
conferma, per un verso la possibilità di costituirlo in garanzia e
per altro verso la sua tutelabilità in via aquiliana. La circo-
stanza che il credito sia già entrato a far parte del patrimonio
del creditore, alla stregua di un diritto assoluto, non comporta
un’assimilazione sotto il profilo dei rimedi: nell’ipotesi dell’in-
terferenza illecita di un terzo, si tratterà, infatti, di reagire
mediante il risarcimento alla perdita delle utilità in conse-
guenza della distruzione o del deterioramento del bene; nel-
l’ipotesi di inattuazione del credito da parte del debitore, si

Europa e diritto privato - 1/16


172 Diritti nazionali e comparazione

tratterà, viceversa, di ripristinare la titolarità, anche solo in


forma monetaria, sull’utilità oggetto del credito, una volta che
è stata infruttuosamente esperita la variante satisfattiva della
tutela specifica, cioè l’azione di adempimento. L’eventualità,
infine, che, nella cessione del credito, si assista di frequente ad
una divergenza tra il valore del credito ceduto e il valore
dell’utilità finale, conseguita per il tramite dell’adempimento,
non ne compromette il valore paradigmatico (95): tale diffe-
renza, infatti, oltre ad essere del tutto eventuale, è per l’appunto
la conseguenza della scelta volontaria del creditore di garantirsi
subito il valore del credito, decurtato di una percentuale che è
pari al corrispettivo pattuito per il godimento immediato della
somma di denaro.

4. La torsione in senso satisfattivo assegnata al risarci-


mento del danno contrattuale che lo assimilerebbe quasi ad
una tutela tipicamente reale, qual è quella restitutoria, non si
arresta al solo valore della prestazione, ma coinvolge anche i
danni consequenziali i quali, ed è sempre la stessa dottrina a
sottolinearlo, scontano « il fatto di essere inseriti all’interno di
una vicenda che, come si è visto, trascende di gran lunga il
piano della tutela puramente risarcitoria » (96). Le conclusioni
della dottrina appena richiamata, suonano in sintonia con
quanto una dottrina d’oltreoceano (97), all’inizio degli anni 70,
faceva osservare, e cioè che il modo in cui il diritto decide
dell’allocazione delle risorse dipende non tanto dal riconosci-
mento sul piano formale di una situazione giuridica soggettiva,
quanto dal modo in cui tale allocazione è protetta. Da questo
punto di vista la distinzione è quella assai nota che contrappone
regole di proprietà a regole di responsabilità, a seconda che il
trasferimento di una risorsa avvenga mediante uno scambio
consensuale, idoneo a ricomprendere nel costo del trasferi-

(95) Così, invece, Piraino, Sulla natura non colposa cit., 1098.
(96) Ivi, 183.
(97) Il riferimento è a G. Calabresi - AD Melamed, Property Rules,
Liability Rules and Inalienability: Ove View of the Cathedral, Harv. L. Rev.,
1972, 1089; il saggio si trova tradotto, in versione ridotta, in Interpretazione
giuridica e analisi economica a cura di G. Alpa - F. Pulitini - S. Rodotà - F.
Romani (Milano 1982), 1456.

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Antonello Iuliani 173

mento tutta l’area dei valori d’uso, o per il tramite di una


decisione collettiva che subordini la distruzione di una risorsa
al versamento del corrispettivo per il valore distrutto, al prezzo,
però, del sacrificio delle utilità individuali. Lo conferma, da un
lato, la risarcibilità equitativa del lucro cessante di cui all’art.
2056 c.c., sintomatica della refrattarietà della responsabilità
aquiliana al risarcimento integrale dei valori d’uso (98), e dal-
l’altro la priorità dell’adempimento in natura (99), estraneo a
qualsiasi bilanciamento, e più in generale l’adeguamento del
risarcimento del danno al valore espresso dallo scambio con-
sensuale per il tramite del criterio della prevedibilità. Un ter-
reno particolarmente fertile per apprezzare la differenza è
quello del danno non patrimoniale da lesione di diritti patri-
moniali, sul quale si tratta di stabilire l’esistenza o meno di una
corrispondenza univoca tra risarcimento del danno non patri-
moniale e lesione di interessi non patrimoniali (100). La rispo-
sta affermativa che la giurisprudenza fornisce, in ossequio allo

(98) Chiaro sul punto, Pellegrini, Il lucro cessante cit.


(99) Cfr. per l’assoluta priorità dell’adempimento in natura Piraino,
Adempimento e responsabilità cit.; incline a ritenere il rimedio dell’adempi-
mento in natura alternativo al risarcimento del danno, individuando nell’ef-
ficienza il criterio di selezione dell’uno o dell’altro rimedio, M. Dellacasa,
Adempimento e risarcimento nei contratti di scambio (Torino 2013). Sul nesso
tra adempimento in natura e risarcimento dei valori idiosincratici e sui
riflessi in termini di compatibilità con la ratio mercantile, cfr. S. Mazzamuto,
L’attuazione degli obblighi di fare (Napoli 1974), diffusamente nel libro ma
spec. 36 s., il quale sottolinea come la contrarietà manifestata dalle codifica-
zioni moderne alla coercibilità degli obblighi di fare sia da attribuire più che
alla tutela della libertà della persona, alla genesi del capitalismo e alla
tendenza, propria di questo, di non dare rilevanza ai bisogni diversificati e
agli status soggettivi, limitando la tutela a quella risarcitoria ritagliata sui
valori di mercato. Chiara è ad es. la riluttanza manifestata alla coercibilità
degli obblighi del datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore, ancora di
recente manifestata in sede di redazione dell’art. 614 bis.
(100) Riconosce M. R. Marella, La riparazione del danno in forma specifica
(Padova 2000), 258 che « anche il danno alla proprietà, in sostanza, comporta
il sacrificio di valori personalistici, ciò che può tradursi, nel linguaggio corrente,
nella stima idiosincratica del danno stesso e che, nella misura in cui trova un
riscontro nel sistema di responsabilità, vale ad incidere sulla dicotomia
patrimonialità/non patrimonialità, (del danno) spostando il confine fra i due
termini della contrapposizione ». La rilevanza della dimensione esistenziale
delle cose è sostenuta con forza da P. Cendon-P.Ziviz, Alla scoperta del danno
esistenziale. Le nuovi voci della responsabilità civile (Milano 1992).

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174 Diritti nazionali e comparazione

stereotipo cognitivo che svaluta il secondo termine della dico-


tomia soggetto/oggetto (101), interroga, come già visto, la
portata dell’art. 2059 c.c., e richiama alla mente la figura assai
nota alla giurisprudenza e dottrina di fine ottocento del c.d.
danno da affezione, categoria che incontra quella di più recente
invenzione del danno esistenziale.
La refrattarietà del sistema della responsabilità aquiliana al
risarcimento del valore personale attribuito dal danneggiato al
bene o alla prestazione, trova giustificazione proprio nella fun-
zione sistemica attribuita dal diritto al mercato, il quale confi-
gurandosi come il metro di allocazione delle risorse in un
sistema non volontario, impedisce che la valutazione personale
sostituisca la valutazione oggettiva che il mercato fa del valore
d’uso del bene, mediante l’attribuzione di un prezzo che altro
non è che l’istituzione di un valore d’uso generalizzato delle
cose. Non è un caso che il valore d’uso individuale emerga come
pregiudizio risarcibile solamente laddove esso riceva un gene-
rale riconoscimento che superi la relazione individuale, come
accade per il lucro cessante il quale, pur riflettendo il valore che
il bene riveste per il danneggiato, supera la soglia della rile-
vanza giuridica, come si ricava dall’art. 1223 c.c., proprio in
quanto si attesta su valori oggettivi (102), come tali sottratti alle
idiosincrasie individuali. Per contro, « quanto sarebbe indice
del valore affettivo del bene è ritenuto irrilevante, ciò che si
assume essere il suo valore obiettivo corrisponde ad un di-
presso, ad una finzione o, piuttosto, al riflesso esclusivo dei
valori dominanti accolti nel mercato » (103). Ciò significa che
« rispetto ad uno scambio consensuale il “corrispettivo” deter-
minato ex post dalla liability rule non riflette la duplice compo-

(101) Di « stereotipo normativo » parla Marella, La riparazione del


danno cit., 255.
(102) Afferma Salvi, Il danno extracontrattuale cit., 105 s., che « È
indubbio che tale valutazione si riferisce a un soggetto-tipo, che si trovi nella
medesima situazione concreta del danneggiato; e non ai criteri o bisogni
propri di questi come individuo. È quindi sempre un interesse socialmente ed
economicamente tipico (suscettibile pertanto di valutazione oggettiva) a
determinare la ‘economicità’ (e dunque il criterio per l’an come per il quan-
tum del risarcimento) del danno (patrimoniale) ».
(103) Marella, La riparazione del danno in forma specifica cit., 135

Europa e diritto privato - 1/16


Antonello Iuliani 175

nente del valore della risorsa: quella soggettiva e quella espressa


dal mercato. Per contro, il consumer surplus ovvero il valore
d’affezione del bene, viene sistematicamente ignorato in favore
del prezzo di mercato, individuato all’intersezione della curva
della domanda e dell’offerta ed assunto come (unico) valore
obiettivo » (104). Tutt’al contrario, in ambito contrattuale, ove,
la generale facoltà offerta alle parti di attribuire consensual-
mente rilievo patrimoniale ad interessi non patrimoniali, con-
sente di includere nella tutela propriamente risarcitoria poste
di danno che riflettono valori esistenziali, interessi idiosincra-
tici. La peculiarità della responsabilità aquiliana si riflette sul
versante dei criteri di selezione dei danni risarcibili, la quale, a
differenza di quella contrattuale, non presenta altro criterio che
non sia quello della consequenzialità immediata e diretta, co-
m’è, invece, per la prevedibilità la quale rappresenta il punto di
riferimento oggettivo offerto dal complesso di interessi al cui
soddisfacimento è preordinato il rapporto obbligatorio e che è
in grado di determinare ex ante il valore che le parti attribui-
scono agli interessi in gioco. L’art. 1225 c.c. incarna l’essenza di
quell’accordo transattivo anteriore al verificarsi del danno sul
valore da attribuire al proprio interesse, valutazione che sa-
rebbe irrealistica nell’ambito dei conflitti occasionali (105), o,
come altrove è stata descritta, una tecnica di adeguamento del
danno giuridicamente rilevante alla specifica funzione che lo
scambio riveste rispetto alla soddisfazione degli interessi del
creditore (106), secondo un criterio di delimitazione delle con-

(104) Id., ibidem.


(105) G. Calabresi, Costo degli incidenti e responsabilità civile. Analisi
economico-giuridica (Milano 1975), 129 riconosce come « In teoria, gli auto-
mobilisti potrebbero mettersi in cerca di tutti i pedoni che potrebbero inve-
stire, offrir loro una somma di denaro in cambio del rischio che si assume-
rebbero, ascoltare le loro controproposte, e, finalmente, arrivare alla conclu-
sione della trattativa, fissando valori di mercato per il costo degli incidenti tra
automobili e pedoni. Ma trattative del genere sono, in realtà, inimmagina-
bili ». Considerazioni analoghe in Salvi, Il danno extracontrattuale cit., 17: « il
limite della prevedibilità […] si rivela improprio, quando il problema che
l’ordinamento affronta è piuttosto, ed esclusivamente, quello della reazione al
danno ingiusto ».
(106) In questo senso v. V. Di Gravio, Prevedibilità del danno e inadem-
pimento doloso (Milano 1999), 127 ove riconosce che, grazie al criterio della
prevedibilità, « sono venuti in rilievo gli interessi ulteriori del creditore,

Europa e diritto privato - 1/16


176 Diritti nazionali e comparazione

seguenze risarcibili che ricalca quello che nella responsabilità


extracontrattuale è detto scopo della norma violata (107). Me-
diante la prevedibilità assumono, infatti, giuridica rilevanza
sotto il profilo risarcitorio i nessi funzionali tra il bene e gli
interessi individuali del creditore di volta in volta resi rilevanti
nel contratto (108), estendendo così l’ammontare del danno
risarcibile ben oltre il valore della prestazione inattuata, non

derivanti dalla modalità di utilizzo, da parte dello stesso, della prestazione


dovuta ». Afferma M. Barcellona, Inattuazione dello scambio e sviluppo capi-
talistico, Formazione storica e funzione della disciplina del danno contrattuale
(Milano 1980) 151 che « Complessivamente, perciò quella della prevedibilità
è una tecnica di definizione del danno giuridicamente rilevante orientata
verso l’adeguamento della funzione risarcitoria alla specifica funzione econo-
mica dello scambio, quale appare identificabile a priori sulla base di un
apprezzamento della fattispecie concreta secondo indici rigorosamente og-
gettivi ». Anche di Majo, Le tutele contrattuali cit., 188 riconosce che « la
regola della prevedibilità intende saldare l’area del danno risarcibile con
quella degli interessi contemplati nel contratto ». Nello tesso senso anche A.
Gnani, La prevedibilità del danno nella sistematica della responsabilità, Danno
e resp., 2009, 360. Tendono a collocare la prevedibilità sul piano quantitativo,
più che qualitativo, U. Breccia, Le obbligazioni, Tratt. dir.civ. a cura di G.
Iudica-P. Zatti (Milano 1991), 641 s.; Ch. Romeo, Inadempimento doloso e
risarcimento del danno imprevedibile, Resp. civ. previdenza, 2004, 972 s. Va
respinta l’idea che la prevedibilità vada valutata al momento dell’inadempi-
mento, secondo un criterio di normalità o regolarità di certe conseguenze;
così Bianca, Dell’inadempimento delle obbligazioni cit., 374 e 379-380; in tal
modo non solo si oblitera la specifica rilevanza che l’interesse del creditore
riveste in quel concreto rapporto obbligatorio, ma si finisce pure per sovrap-
porre il criterio della prevedibilità a quello delle conseguenze immediate e
dirette. Sottolineano la distinzione tra il criterio della prevedibilità e quello
della consequenzialità immediata e diretta, Gnani, La prevedibilità del danno
cit., 361, Di Gravio, Prevedibilità del danno e inadempimento doloso cit., 163 s.
Sul punto v. già i rilievi critici di Gorla, Sulla cosiddetta causalità giuridica cit.,
420 s.; Di Gravio, Prevedibilità del danno e inadempimento doloso cit., 143-144,
ribadisce la natura soggettiva del criterio espresso dall’art. 1225, sottolinean-
done, però, al contempo, la formulazione in forma impersonale tale da far
assumere al criterio soggettivo un connotato di oggettività.
(107) Lo riconosce di Majo, La tutela civile dei diritti cit., 274, affer-
mando che « scopo della norma violata e prevedibilità del danno sono aspetti
tra loro intimamente connessi, ove si consideri che, in materia contrattuale,
la norma violata è la pattuizione contrattuale e il danno risarcibile è quello
rientrante « within the contemplation of the parties ».
(108) Nitidamente Di Gravio, Prevedibilità del danno e inadempimento
doloso cit., 159 nell’affermare che « Il requisito della prevedibilità si identifica
con la riconoscibilità dell’interesse del creditore da parte del debitore. Il

Europa e diritto privato - 1/16


Antonello Iuliani 177

solo verso il risarcimento del lucro cessante, a seguito della


trasformazione della funzione economica dello scambio da
strumento di circolazione di valori d’uso a strumento di valo-
rizzazione del valore di scambio (109), ma complice il crescente
ampliamento delle aree di rilevanza del mercato, di tutti quegli
specifici interessi di natura esistenziale che possono trovare
soddisfacimento per il tramite del contratto (110). Non sembra,
allora, affatto insensato riconoscere al lucro cessante un signi-
ficante più ampio di quello sinora ad esso riferito che sia
indicativo di tutti quegli interessi soggettivi ricavabili dalla
prestazione, compresi quelli che non sono di immediata perce-
zione alla stregua dei comuni parametri di mercato (111). L’i-
dea sembra trovare un qualche riscontro nella proposta, avan-

danno prevedibile è la lesione di quell’interesse, così come esso è conosciuto


o potrebbe esserlo con l’ordinaria diligenza, da parte del debitore ».
(109) Il nesso che lega risarcimento e funzione economica dello scam-
bio è messo in evidenza oltre che da Barcellona, Inattuazione dello scambio
cit., problema al quale è dedicato l’intero libro, anche da Mazzamuto, L’inat-
tuazione degli obblighi di fare cit., 38 s. e da Salvi, Il danno extracontrattuale
cit., 98 s.
(110) Il principio di patrimonialità che si ricava dagli artt. 1174 e 1321,
rappresenta un dispositivo socialmente evolutivo (così M. Barcellona, Attri-
buzione normativa e mercato nella teoria dei beni giuridici, Quadrimestre,
1987, 676 s.) che permette al contratto di essere lo strumento mediante il
quale soddisfare qualsiasi valore d’uso che il mercato prende a concepire
come merce.
(111) L’oggettività del valore d’uso del bene danneggiato potrebbe darsi
anche in forza della particolare fisionomia del bene oggetto della prestazione
e in tal senso assume particolare rilievo la distinzione tra beni fungibili e
infungibili, distinzione che con una certa approssimazione può farsi coinci-
dere con quella tra beni mobili e beni immobili. Mettendo a frutto gli indici
provenienti dal sistema si ricava che soltanto per i beni infungibili la forma di
tutela prioritaria accordata dall’ordinamento si dirige verso il ripristino del
valore d’uso dato da quello specifico bene mediante una tutela propriamente
reale mentre, per i beni fungibili, l’ordinamento reputa sacrificabile l’indivi-
dualità materiale della cosa a vantaggio del suo valore di mercato. Se ne trae
conferma anzitutto dall’art. 1516 c.c. che, nel caso di inadempimento da parte
del venditore dell’obbligo di consegnare una cosa mobile fungibile prevede
una forma di adempimento indiretta, finalizzata a procurare al compratore
l’acquisto del medesimo bene sul mercato, accollando al debitore il rischio
dell’eventuale differenza di prezzo. Ad ulteriore conferma di quanto si va
dicendo, solo quando la domanda volta ad ottenere la condanna ha ad oggetto
beni immobili, la giurisprudenza è incline a concedere la tutela in natura,
anche nel caso in cui il costo di ripristino sia superiore al valore di mercato

Europa e diritto privato - 1/16


178 Diritti nazionali e comparazione

zata in dottrina, di rielaborare in senso evolutivo il concetto di


valore d’uso, non più espressivo dell’accesso alla funzione ri-
produttiva del denaro legata allo scambio ma, più generale, di
qualsiasi « relazione che include ogni fenomeno di riprodu-
zione di rapporti intersoggettivi rilevanti quali posizioni di
mercato, nel qual senso esso costituisce una “legittimazione
partecipativa” (112). Il caso più emblematico — ma vi si ag-
giunge una casistica variegata, riguardante contratti aventi ad
oggetto lo svago, l’intrattenimento, la crescita culturale e per-
fino il didascalico esempio della mancata riuscita del film di
nozze — è rappresentato dal c.d. « danno da vacanza rovinata »,
che dà espresso rilievo alla frustrazione di quegli interessi
personalistici che il contratto di viaggio è destinato a soddi-
sfare, e che trova espressa collocazione nell’art. 47 cod. tur., il
quale concede, per l’appunto, al turista la possibilità di chiedere
« oltre ed indipendentemente dalla risoluzione del contratto, un
risarcimento del danno correlato al tempo di vacanza inutil-
mente trascorso ed all’irripetibilità dell’occasione perduta ». La
risarcibilità del danno non patrimoniale in questa sede emerge
come indice della rilevanza ulteriore che il creditore attribuisce
alla prestazione e segue, dunque, una logica distinta da quella
che presiede alla violazione degli obblighi di protezione i quali
presuppongono un interesse autonomo, sebbene connesso, ri-
spetto a quello al soddisfacimento del quale è preordinata la
prestazione (113). La differenza emerge nitidamente anche

del bene, limitando, per contro, la tutela al rimedio risarcitorio quando si


tratta di beni mobili; significativo è che, nel caso di beni mobili di consumo,
la priorità accordata alla riparazione cede il passo alla sostituzione laddove il
costo della prima sia sproporzionato rispetto al valore di mercato del bene.
Una conferma sembra provenire dall’art. 42 bis, d.p.r., 327/2011 “Testo unico
delle espropriazione”, che, al comma 1, prevede: « Valutati gli interessi in
conflitto, l’autorità che utilizza un bene immobile per scopi di interesse
pubblico, modificato in assenza di un valido ed efficace provvedimento di
esproprio o dichiarativo della pubblica utilità, può disporre che esso sia
acquisito, non retroattivamente, al suo patrimonio indisponibile e che al
proprietario sia corrisposto un indennizzo per il pregiudizio patrimoniale e
non patrimoniale, quest’ultimo forfetariamente liquidato nella misura del
dieci per cento del valore venale del bene ».
(112) Cfr. Messinetti, Danno giuridico cit., 506-507.
(113) V. sul punto i rilievi critici di L. Nivarra, La contrattualizzazione
del danno non patrimoniale: un’incompiuta, in questa Rivista, 2012, 497 s.

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Antonello Iuliani 179

sotto il profilo del danno, poiché mentre gli obblighi di prote-


zione danno ingresso alla tutela di quegli stessi interessi non
patrimoniali tutelati aquilianamente, per il tramite della pre-
stazione è possibile dare rilievo a tutti quei pregiudizi di natura
non patrimoniale che coinvolgono interessi privi di rilievo
costituzionale e che trovano il proprio soddisfacimento per il
tramite del mercato (114).

5. Il mancato richiamo dell’art. 1225 c.c. nella disciplina


della responsabilità aquiliana, secondo un’autorevole dottrina,
renderebbe pienamente ragione del carattere peculiare del ri-
sarcimento del danno contrattuale, da rintracciare nella fun-
zione attuativa dell’interesse del creditore, e che lo distingue da
quello extracontrattuale, il quale, viene detto essere « soltanto
un traslato, appunto un equivalente, che traduce il danno in
senso naturalistico nel danno in senso patrimoniale, non
esprime perciò la differenza tra patrimoni secondo la teorica, a
tutti nota, non il valore del bene nel contesto del patrimonio del
danneggiato, bensì la perdita in se stessa considerata, alla luce
cioè del puro valore di mercato del bene distrutto o deterio-
rato » (115). L’affermazione sembrerebbe limitare il risarci-
mento del danno aquiliano alla sola aestimatio rei, corrispon-
dente al valore di mercato del bene leso, tagliando fuori il
risarcimento del lucro cessante: « La considerazione circa ciò
che con la cosa danneggiata il proprietario possa fare atter-

(114) Lo evidenzia M. R. Marella, Struttura dell’obbligazione e analisi


rimediale nei danni non patrimoniali da inadempimento, Riv. crit. dir. priv,
2013, 35 s., spec. 52 s. la quale parla, in modo assai evocativo, di danni
« diversamente patrimoniali”, vale a dire quei danni che conseguono alla
lesione di interessi personalistici, insuscettibili di una valutazione oggettiva
— al pari dei danni non patrimoniali, la cui soddisfazione è però rimessa al
mercato, al punto da essere dedotta in obbligazione. Tale impostazione
conduce al superamento della concezione tradizionale che postula una cor-
rispondenza biunivoca tra non patirmonialità-soggetto da un lato, e
patrimonialità-oggetto dall’altra, dimostrando « come in sostanza si diano
poste di danno non patrimoniale all’interno dei danni patrimoniali e come,
viceversa, lesioni in origine dotate di carattere non patrimoniale tendano, ai
fini di una migliore tutela, a patrimonializzarsi » (cfr. Marella, La riparazione
del danno in forma specifica cit., 249 s., nonché Id., Valori idiosincratici e
risarcimento del danno, Danno e resp., 1999, 633 s.).
(115) Così Castronovo, Il risarcimento del danno cit., 93.

Europa e diritto privato - 1/16


180 Diritti nazionali e comparazione

rebbe al momento dinamico » (116) il quale sta fuori dall’am-


bito della responsabilità aquiliana, tant’è vero che, rileva l’A.,
« l’unificazione di massima della disciplina del risarcimento del
danno ha posto il problema dell’identità di disciplina quanto al
lucro cessante ». Poiché però « anche la tutela statica del patri-
monio non può prescindere oramai dalla sempre maggiore
attitudine dei beni a essere resi funzionali oltre il puro godi-
mento da parte del proprietario, e perciò capaci di incremen-
tare il patrimonio stesso », il lucro cessante « non poteva non
entrare nel fuoco della risarcibilità anche della responsabilità
extracontrattuale » (117), pur conservando tratti di ecceziona-
lità come conferma del resto in quest’ultima la natura equita-
tiva del risarcimento. Della regola espressa dall’art. 2056 c.c.,
secondo comma non ha ricevuto grande attenzione in dottrina
e, salvo una lettura riduttiva volta a parificarne il significato a
quello dell’art. 1226 c.c., per via di una ontologica incertezza sul
piano probatorio del lucro cessante (118), la spiegazione più
interessante offerta dalla dottrina in commento poggia proprio
sulla naturale propensione della responsabilità aquiliana a tu-
telare la conservazione della ricchezza, limitando il risarci-
mento al solo valore del bene leso, secondo il metro dell’aesti-
matio rei, prescindendo dall’uso che il danneggiato avrebbe

(116) Id., ivi, 94; Id., La nuova responsabilità civile cit., 595 s.
(117) Id., ibidem.
(118) V. ad es. già A. Graziani, Appunti sul lucro cessante, Studi di diritto
civile e commerciale (Napoli 1953), 276 s. La lettura è pacifica nella dottrina
contemporanea: cfr. G. Visintini, Trattato breve della responsabilità civile
(Padova 2005), 635; di Majo, Le tutele contrattuali cit., 182; P. Rescigno,
Valutazione equitativa: profili comuni, Risarcimento del danno contrattuale
ed extracontrattuale, a cura di G. Visintini (Milano 1984), 84; Salvi, Il danno
extracontrattuale cit., 59; S. Mazzamuto, Il danno da perdita di una ragionevole
aspettativa patrimoniale, in questa Rivista, 2010, 72; G. Grisi, sub art. 1223,
Commentario del codice civile, Delle obbligazioni, diretto da E. Gabrielli
(Milano 2013), 178 e M. R. Marella, Il risarcimento per equivalente e il
principio della riparazione integrale, Trattato della responsabilità contrattuale,
III, dir. G. Visintini (Padova 2009), 53, nota 86. Diversa l’interpretazione di P.
Trimarchi, Causalità e danno (Milano 1967), 107 il quale afferma che poiché
il secondo comma dell’art. 2056 cod. civ. non può essere inteso come un’inu-
tile ripetizione […] non vedo altra interpretazione possibile se non quella che
autorizza il giudice a limitare la responsabilità per il lucro cessante, quando
il peso di essa sia in enorme sproporzione con la condotta illecita ».

Europa e diritto privato - 1/16


Antonello Iuliani 181

fatto della cosa (119). Il riconoscimento del valore d’uso indi-


viduale sarebbe, quindi, penetrato nelle due specie di respon-
sabilità con intensità differente, in maniera piena in quella
contrattuale grazie all’introduzione della regola della prevedi-
bilità, in modo limitato e subordinato all’equo apprezzamento
del giudice, in quella extracontrattuale, proprio per l’impossi-
bilità del danneggiante di conoscere l’economica destinazione
soggettiva del bene. Una simile propensione giunge tuttavia a
noi stemperata, per via dell’ormai acquisita attitudine della
responsabilità aquiliana a risarcire anche i danni da violazione
dei diritti di credito, e tuttavia l’indicazione espressa dall’art.
2056 c.c., secondo comma conserva un certo significato se letta
alla luce del principio di riparazione integrale del danno, il
quale, ancorché continui ad essere considerato l’obiettivo pri-
mario del risarcimento del danno, risulta in realtà incompati-
bile con una regola autenticamente di responsabilità, in ac-
cordo con quanto riconosciuto da autorevole dottrina: « Mo-
reover, use of liability rules is another example of this very
phenomenon because liability rules produce splits » (120). È
vero infatti che la funzione abitualmente ricondotta al risarci-
mento del danno, quella cioè di compensare in capo al danneg-
giante la ricchezza perduta, avviene non solo con intensità
differenti nelle due specie di responsabilità, ma soprattutto
viene attuata attraverso il filtro di parametri strettamente mer-
cantili che, di fatto, ne compromettono la reale funzione o

(119) Di questa differenza di funzioni, afferma Castronovo, Il risarci-


mento del danno cit., 93, « è un indice non sufficientemente sottolineato dagli
interpreti l’art. 2056, comma 2, che rimette la liquidazione del lucro cessante
all’equo apprezzamento del giudice ».
(120) G. Calabresi, The simply virtues of the cathedral, The Yale Law
Journal, 1997, 2206 s. Nello stesso senso Marella, Il risarcimento per equivalente
e il principio della riparazione integrale cit., 32, a proposito del principio di in-
tegrale riparazione del danno, afferma: « Esso indica una prospettiva tenden-
ziale, ma ad una disamina più accurata emerge che i vari sistemi di responsa-
bilità civile adottano meccanismi che portano a distribuire le perdite tra dan-
neggiante e danneggiato piuttosto che ad allocare realmente il peso (integrale)
del danno sull’uno o sull’altro. In definitiva, ciò significa che la funzione della
tutela risarcitoria è quella di distribuire tra i due contraenti le conseguenze
patrimoniali negative legate all’inadempimento e non tanto quella di soddisfare
integralmente le aspettative di profitto del promissario deluso ».

Europa e diritto privato - 1/16


182 Diritti nazionali e comparazione

comunque l’ammettono nella misura in cui « il trasferimento si


mostra giustificato secondo le leggi del mercato » (121).
La tutela aquiliana del credito offre, da questo punto di
vista, una significativa riprova dal momento che la dichiarata
meritevolezza dell’interesse, sul piano per così dire della fatti-
specie, assume un valore più che altro declamatorio, visto
l’utilizzo che la giurisprudenza fa, a partire dal noto trittico di
sentenze sul caso Meroni — Cass. 174/1971, Corte d’Appello di
Genova, 11 giugno 1973, chiamata a pronunciarsi nel giudizio
di rinvio sulla domanda di risarcimento del danno e, infine,
Cass. 29-3-1978, n. 1459 (122) che conferma la sentenza d’ap-
pello impugnata nella parte in cui escludeva l’esistenza di ogni
profilo di danno in capo al terzo — del canone dell’infungibilità
quale parametro per valutare l’eventuale danno subito dal cre-
ditore. Questo danno, perlomeno nei contratti a base corrispet-
tiva, è costituito dal maggior costo della prestazione-minor
guadagno, dunque un danno tipicamente consequenziale, e può
a proposito osservarsi come il clamore suscitato in dottrina dal
riconoscimento del diritto di credito quale situazione giuridica
meritevole di tutela aquiliana debba attribuirsi non tanto al
guadagnato ampliamento del novero degli interessi tutelati,
circostanza smentita dalla secolare tradizione favorevole al
risarcimento del diritto di credito alimentare (familiare, in
senso ampio), quanto dall’importanza che i crediti a base cor-
rispettiva assumono sul fronte dei danni consequenziali e in
particolare del lucro cessante. Il criterio dell’infungibilità, nel
momento in cui assume come parametro di riferimento il
mercato, vale a dire le possibilità di sostituzione da questo
offerte, e al contempo riferisce il danno all’eventuale maggior
costo o minor guadagno, testimonia l’indifferenza del risarci-
mento del danno verso i valori idiosincratici, resi rilevanti
dall’unicità che l’oggetto del rapporto di credito rappresenta per
il creditore. Nella medesima prospettiva, quella cioè che as-
sume un’eteronomia mercantile sulle regole di determinazione
del danno, appare significativa la sovrapposizione tra l’infungi-

(121) Barcellona, Trattato della responsabilità civile cit., 883.


(122) Cass. 26-1-1971, n. 174 cit.; App. Genova, 11-6-1973, Giur.it.,
1973, 1184 con nota di G. Visintini, Ancora sul “caso Meroni”; Cass. 29-3-1978,
n. 1459, Foro it., 1978, I, 827, con nota di R. Pardolesi.

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Antonello Iuliani 183

bilità e il criterio dell’evitabilità, e, in particolare, la torsione in


senso tipologico e astratto che tale giudizio subisce. Lo si evince
da un passaggio di Cass. n.174/1971, a detta della quale « il
criterio della sostituibilità va inquadrato nel contesto dell’atti-
vità nella quale le prestazioni del debitore venuto a mancare
erano destinate ad inserirsi. Ciò lascerebbe suggerire che, lad-
dove si tratti di un’attività organizzata in forma imprendito-
riale, a rilevare, a fini della determinazione del danno è la
considerazione che un’impresa e normalmente ordinata in
modo da assicurarne la continuità, nonostante il venir meno di
un collaboratore dell’imprenditore ». Pochi anni più tardi, in un
altro caso altrettanto noto, quello del pastificio Puddu (123), la
Corte riconosce il danno da lucro cessante per la perdita del
guadagno derivante dall’interruzione dell’energia elettrica pro-
vocata dal fatto colposo del terzo e tuttavia, pur non potendosi
pronunciare sul tema, poiché non proposto in primo grado,
solleva il problema dell’evitabilità del danno, affermando che
« avrebbe potuto assumere rilievo la congiunta considerazione
della possibilità della interruzione della fornitura di energia
elettrica da parte dell’Ages e del dovere (o dell’onere) della
società Pasta Puddu, anche in relazione alle caratteristiche di
immediata deperibilità della merce di sua produzione, di ap-
prestare apparecchiature sostitutive, in tutto o in parte, di
quella fornitura ». Il significato che ne emerge è chiaro: un’eco-
nomia di mercato è in grado di offrire un elevato tasso di
sostituibilità tra i beni, per cui l’impossibilità di procurasi tale
bene è da imputare sicuramente alla cattiva gestione impren-
ditoriale del creditore.

6. Il criterio dell’evitabilità trova autonoma collocazione,


tra le regole di risarcimento, nell’art. 1227 c.c., e la lettura con-
solidata ne privilegia una spiegazione unitaria all’insegna della
causalità, tanto da intravedere nella irrisarcibilità dei danni evi-
tabili la conferma normativa del criterio dell’interruzione del
nesso eziologico (124) e nella gradazione del risarcimento il ri-
flesso della presenza, concomitante o successiva poco importa,

(123) Cass. 24-6-1972, n. 2135, Giur. it., 1973, I, 1, 1124, con nota di G.
Visintini.
(124) Cfr. Forchielli, Il rapporto di causalità nell’illecito civile cit., 57 s.

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184 Diritti nazionali e comparazione

di più fattori causali concorrenti. Stando a tale lettura (125)men-


tre il primo comma metterebbe capo ad una regola di fattispecie,
sul modello dell’art. 2055 c.c., volta a risolvere il problema del-
l’imputazione dell’evento dannoso, il secondo comma regole-
rebbe, viceversa, l’ampiezza del risarcimento del danno, una
volta accertata l’imputazione dell’evento al solo danneg-
giante (126), al punto di intravvedere nella norma una conferma
della vitalità del doppio nesso di causalità: « Un paradigma nor-
mativo della distinzione, secondo la dottrina e la giurisprudenza
prevalente, è ravvisabile, rispettivamente, nel primo e nell’art.
1227 c.c., comma 2 », chiosa Cass. 16-10-2007, n. 21619 (127).
A dispetto di tale orientamento, è stato sostenuto che anche
il primo comma attiene della determinazione del danno, anzi,
più correttamente, a quello immediatamente successivo della
liquidazione posto che l’estensione del danno risulta già deter-
minata, sicché introdurrebbe un meccanismo di riduzione del-
l’entità del risarcimento (128) che costituisce, se non un’appli-
cazione dell’art. 1226 c.c., certamente un’eccezione al principio

(125) La letteratura è invece pressoché concorde nel distinguere il


secondo comma, nel quale rintracciare una regola di risarcimento, dal primo
comma, nel quale, viceversa, ravvisare una regola di responsabilità, fondata
sul concorso di colpa analogamente a quanto previsto dall’art. 2055. In questo
senso si v. ad es. A. di Majo, Le tutele contrattuali (Torino 2012), 190 s.; C.
Salvi, Risarcimento del danno (voce), Enc. dir. (Roma 1989); M.R. Marella - L.
Cruciani, Il danno contrattuale, Il nuovo contratto, a cura di P.G. Monateri,
M.R. Marella, A. Somma, C. Costantini (Bologna 2007), 1089 s.; G. Visintini,
Trattato breve della responsabilità civile (Padova 2005), 263 s.; Scognamiglio,
Responsabilità civile e danno cit., 82 s., N. Di Prisco, Concorso di colpa e
responsabilità civile (Napoli 1973), 49.
(126) È stata proposta in dottrina anche una lettura unitaria dell’art.
1227 c.c., che interpreta i due commi come entrambi fondativi della respon-
sabilità: qualora l’evento sia imputabile al creditore, in quanto causa pros-
sima dell’evento, nessun risarcimento sarebbe dovuto; qualora invece il fatto
dannoso sia imputabile non solo al debitore ma anche al creditore, nelle
ipotesi di complicità o di concomitanza istantanea di cause, sarebbe dovuto
un risarcimento proporzionato. Il discrimine sarebbe, dunque, dato dalla
temporalità dell’azione. In questo senso P. Forchielli, Il rapporto di causalità
nell’illecito civile cit., 57 s., 73-74.
(127) Da pluris.cedam-utetgiuridica.it.
(128) In questo senso, G. Grisi, Causalità materiale, causalità giuridica e
concorso del creditore nella produzione del danno, Contratti, 2010, 617.

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Antonello Iuliani 185

dell’integrale riparazione del danno (129). Andrebbero perciò


abbandonate le letture che collocano la norma sul piano della
fattispecie: tanto quella che vi ravvisa un’ipotesi di concorso di
colpa del creditore (130) e invoca la figura dell’« autoresponsa-
bilità », recentemente riletta in una prospettiva relazio-
nale (131), ponendo l’accento sull’esigenza di incrementare i
profili di prevenzione degli incidenti, tanto quella che (132)
legge l’art. 1227 c.c. primo comma come una regola di impu-
tazione causale, non rilevante ai fini del giudizio di responsa-
bilità, e individua nella colpa l’indice esclusivo della rilevanza
del nesso causale. Un giudizio di riprovevolezza della condotta
tale da escludere la rilevanza della concausa naturale ma ido-
neo a ricomprendere anche il fatto dell’incapace.
Altra dottrina (133) ha infine riconosciuto come la norma
avrebbe a che fare non solo con la causalità materiale ma anche
con la causalità giuridica e infatti nessuno dubita che l’impu-
tazione dell’evento al comportamento del danneggiato sia irri-
levante ai fini del risarcimento del danno. La rilevanza sul
piano causale avrebbe come conseguenza la ripartizione tra
danneggiante e danneggiato della parte di evento che ciascuno
ha provocato e della parte di danno conseguente; sennonché si
è correttamente osservato come sia una finzione scindere ciò
che si presenta unitario. Non minori perplessità suscitano,

(129) Sottolinea la valenza equitativa, funzionale ad evitare indebiti


arricchimenti in favore del danneggiato, R. Scognamiglio, Note sui limiti della
c.d. compensazione di colpa, Riv. dir. comm., 1954.
(130) In tal senso, G. Cattaneo, Il concorso di colpa del danneggiato, Riv.
dir. civ., 1967, 460 s.
(131) Cfr. F. Cafaggi, Profili di relazionalità della colpa. Contributo ad
una teoria della responsabilità extracontrattuale (Padova 1996).
(132) Cfr. C. M. Bianca, La responsabilità, V (Milano 1994), 153 se-
condo il quale « La colpa del danneggiato non è tuttavia da intendersi come
criterio d’imputabilità del fatto illecito. Il danneggiato che danneggia o
concorre a danneggiare se stesso, non compie alcun illecito e non può essere
sanzionato alla stregua dell’autore del danno ingiusto. Piuttosto, la colpa
costituisce un requisito legale della rilevanza causale del fatto del danneg-
giato ». Nello stesso senso, Id., Dell’inadempimento delle obbligazioni cit., 406
ove si legge che « la colpa non investe un giudizio di responsabilità ma attiene
alla giuridica rilevanza del concorso del fatto del danneggiato ».
(133) Franzoni, Il danno risarcibile, Trattato della responsabilità civile
cit., 23.

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186 Diritti nazionali e comparazione

però, quelle ricostruzioni che nel tentativo di leggere la norma


dalla prospettiva del danneggiante, finiscono per assecondare
finzioni non meno gravi, escludendo completamente il fatto del
danneggiato: si afferma ad esempio che « la nuova prospettiva,
invero, sconta la preliminare considerazione di un’unica se-
quenza causale (quella cui fa capo il comportamento del debi-
tore, come se esso solo fosse alla base del danno verificatosi) e
di un’unica partita risarcitoria (quella legata all’inadempimento
del debitore) » (134), oppure che « la definizione del fatto dan-
noso imputabile al danneggiato si risolve, non già in una ne-
cessaria distribuzione delle responsabilità a ciascuno dei coau-
tori, bensì nella ricostruzione dell’unico fatto risarcibile: che è
per definizione il fatto residuo ascrivibile al terzo » (135).
Le difficoltà che la dottrina incontra discendono molto
probabilmente da quel diffuso preconcetto che concepisce il
nesso causale come una relazione monocausale (136) e che
induce la lettura dominante a spiegare il primo comma come
due serie causali autonomamente rapportate alla porzione di
evento ad esse riconducibili. Nella realtà le due serie causali si
fondono tra loro dando luogo ad un’unica eziologia rilevante,
con l’effetto di una gradazione delle responsabilità che tradisce
in realtà una crisi sistemica dell’ordinamento, il quale di fronte
all’incertezza di due serie causali che hanno concorso a provo-
care il danno e in misura imponderabile, incertezza compen-
sata dalla certezza della negligenza del comportamento di en-
trambi, si trova nell’alternativa tra l’addossare l’intero danno al
danneggiante o al danneggiato, secondo l’idea della compensa-

(134) Così Grisi, Causalità materiale cit., 620.


(135) Lo afferma M. Orlandi, Volenti non fit iniuria (Auto-responsabilità
e danno), Riv. dir. civ., 2010, 340 il quale prosegue: « Se la responsabilità è
giuridicamente concepibile soltanto verso i terzi e non anche verso se mede-
simi, la imputazione del terzo concorrente postula la necessaria esclusione del
fatto del danneggiato. Sotto questa luce, l’imputazione eziologica al danneg-
giato assume priorità logica, poiché definisce l’ambito del fatto aquilianamente
rilevante ». Interessante la proposta ricostruttiva avanzata da D. Farace, Sul
concorso colposo dei soggetti lesi, Riv. dir. civ., 2015, 158 s., il quale fornisce una
lettura della norma sul piano degli effetti: il concorso si iscriverebbe ora come
fatto parzialmente impeditivo del risarcimento del danno in capo dal danneg-
giante, ora, invece, come fatto totalmente impeditivo.
(136) In questo senso si esprime R. Pucella, La causalità « incerta »
(Torino 2007), 7 s.

Europa e diritto privato - 1/16


Antonello Iuliani 187

zione delle colpe (137), oppure ripartirlo tra danneggiante e


danneggiato, secondo il criterio, accolto dal codice, della re-
sponsabilità parziaria. Mentre il diritto penale è in grado di
assorbire l’incertezza, ammettendo la punibilità nei limiti del
ragionevole dubbio oppure escludendola del tutto, nel diritto
civile tale incertezza trova una soluzione meno secca, trasfe-
rendosi interamente sul piano del danno. Lo stesso, sembra
potersi dire, accade nella perdita di chance (138), la quale
svolge la funzione di permettere al giudice di colmare l’incer-
tezza circa l’esistenza di un legame sufficiente tra fatto lamen-
tato e pregiudizio, e di comprendere, nelle poste di danno, voci
risarcitorie difficilmente dimostrabili, decurtando dal quantum
del risarcimento la percentuale legata alla concausa naturale.
Sul piano della quantificazione del danno l’incertezza cau-
sale, che si vorrebbe invece trasformare nella certezza della
misura della sua efficienza, si trasferisce sul piano della con-
dotta, istituendo un nesso di proporzionalità tra risarcimento
del danno e gravità della condotta, deviando con ciò dalla logica
puramente compensativa e rimettendo sostanzialmente la de-
cisione al giudizio insindacabile del giudice: i criteri di deter-
minazione della gravità della colpa e dell’entità delle conse-
guenze sono infatti considerati questioni di fatto la cui solu-
zione è insindacabilmente attribuita ai giudici di merito. Men-
tre la dottrina sul punto è divisa tra quanti, confortati dall’in-
terpretazione letterale della noma riferiscono entrambi i para-
metri al momento della determinazione del danno (139) e chi,

(137) Cfr. ad es. G. Pacchioni, Sulla c.d. compensazione delle colpe, Riv.
dir. comm., 1910, II, 1032; P. Coppa-Zuccari, La compensazione delle colpe
(Modena 1909). Per una ricostruzione in chiave storica v. A. Benedetti, La
colpa del danneggiato nell’illecito civile: un’analisi storico-comparata, Nuova
giur. civ. comm, 2012, 358 s.
(138) Cfr. sul punto, M. Feola, La responsabilità del medico per il danno
da perdita delle chances di miglioramento della qualità e delle aspettative di vita
del paziente, Dir. giur., 2008, 595 che afferma: « La teoria della perdita di
chance, inducendo a quantificare il danno nella misura che rifletta il grado di
probabilità che esso sia stato causato dal responsabile, rappresenta uno
strumento giusto ed efficiente, rispondente alle funzioni compensative dei
sistemi di responsabilità civile, che tende a ripartire proporzionalmente il
peso del danno tra la vittima e il danneggiante ».
(139) Prima dell’introduzione dell’art. 1227 c.c. in favore del criterio
della gravità della colpa: V. Polacco, Le obbligazioni nel diritto civile italiano,

Europa e diritto privato - 1/16


188 Diritti nazionali e comparazione

in posizione minoritaria, riferisce la gravità della colpa al pro-


blema dell’an della responsabilità, rimettendo invece al solo
criterio dell’entità delle conseguenze la diminuzione del risar-
cimento (140), una lettura sommaria della giurisprudenza con-
ferma i sospetti di una determinazione del risarcimento che,
dietro il riparo sicuro nella causalità, nasconde una valutazione
discrezionale della gravità della condotta, a riprova che l’invo-
cazione del requisito soggettivo sia funzionale non solo a de-
terminare il se della responsabilità ma sia decisivo anche ri-
spetto alla quantificazione del danno. Lo dimostra il ricorso alla
formula della « percentuale di colpa », assai esemplare del
modo di procedere della giurisprudenza, la quale, al di là di
alcune prese di posizione, secondo cui « ai fini dell’applicazione
dell’art. 1227 c.c. non si tiene conto del grado della colpa (inteso
nel senso di livello di colpa) ma dell’incidenza causale che le
condotte delle parti hanno avuto nella determinazione del-
l’evento » (Cass. 25-10-2002, n. 15103 (141)), fa discendere dalla
valutazione dell’« accertamento della gravità della colpa » la
percentuale dell’« efficienza causale », (ad es. Cass. 26-6-1994,
n. 3957 (142)), riducendo di conseguenza il risarcimento « in
proporzione della gravità della colpa di quest’ultimo (cioè del
suo apporto causale) », stabilendo così un rapporto di propor-
zionalità tra gravità della colpa e contributo causale. La collo-
cazione del primo comma sul piano della causalità incerta, se
riceve adeguata rappresentazione in materia di fatti illeciti, ove
l’evento materiale costituisce l’elemento centrale attorno al
quale ruota il giudizio di responsabilità, diventa problematico
sul piano della responsabilità contrattuale che è quello del
danno avulso della lesione, rispetto al quale un problema di
causalità non si pone. Non è un caso che gli esempi riportati per

I (Roma 1915), 484 s. e G. P. Chironi, La colpa nel diritto civile odierno, Colpa
contrattuale (Torino 1897), 706-707; per quello dell’entità delle conseguenze
G. Venezian, Danno e risarcimento fuori dai contratti, Opere giuridiche, I
(Roma 1907), 307 s. Riferisce entrambi i parametri alla quantificazione del
danno, Bianca, Dell’inadempimento delle obbligazioni cit., 410 s.
(140) In tal senso L. Mengoni, Inadempimento delle obbligazioni. Ras-
segna critica di giurisprudenza (1943-1946), Temi, 1946, 566 s., ora Scritti II,
a cura di A. Albanese - C. Castronovo - A. Nicolussi (Milano 2011), 3 s.
(141) Da pluris.cedam-utetgiuridica.it.
(142) Da pluris.cedam-utetgiuridica.it

Europa e diritto privato - 1/16


Antonello Iuliani 189

spiegare l’applicazione del primo comma in ambito contrat-


tuale coinvolgano sempre danni ulteriori qualificati da un
evento materiale, sul modello, quindi, aquiliano, ed emblema-
tica può dirsi la vicenda del paziente che fornendo inesatte
informazione al medico (143) concorre nell’inadempimento del
medico. Lo stesso discorso vale per l’ipotesi, assai ricorrente,
del debitore che consegna una cosa difettosa, di cui il creditore
trascura di rilevare il difetto, ancorché rilevabile con l’ordinaria
diligenza, e mette in funzione la cosa che subisce un danno, che
è sempre materiale. Entrambe le ipotesi rientrano nell’applica-
zione del primo comma, come conferma l’art. 9: 504 PDEC, che
esclude dal risarcimento dovuto dal debitore « il danno subito
dal creditore nella misura in cui quest’ultimo ha concorso
all’inadempimento o alle conseguenze di esso ».
Mentre il primo comma trova agevole collocazione sul piano
della causalità materiale, riferendosi a eventi reali, il secondo
comma riguarda viceversa il danno nella sua immaterialità,
come differenza patrimoniale, rispetto al quale si tratta di valu-
tare la violazione di una regola di condotta (144), idonea in con-

(143) È la fattispecie presa in considerazione dalla recente Cass.


26-5-2014, n. 11637, pluris.cedam-utetgiuridica.it, la quale rileva che: « il
riconoscimento della sussistenza della responsabilità professionale del me-
dico non implica, per ciò solo, l’automatica esclusione di un’eventuale respon-
sabilità del paziente, rilevante ai sensi del citato art. 1227 ».
(144) In dottrina rintracciata, alternativamente nella figura dell’onere
[così ad es. C. Rossello, Il danno evitabile. La misura della responsabilità tra
diligenza ed efficienza (Padova 1990), il quale afferma che « la situazione
soggettiva del danneggiato ricavabile dalla previsione dell’art. 1227, cpv,
rientra nello schema dell’onere », per poi rintracciare il fondamento del-
l’onere nella buona fede, p. 67, la quale viene fatta consistere « nell’onere di
ciascuna parte del rapporto obbligatorio di salvaguardia dell’utilità dell’altra
parte nei limiti in cui ciò non comporti un apprezzabile sacrificio a suo
carico »] o in quella dell’obbligo di buona fede, ravvisandovi un tipico dovere
integrativo di protezione, imposto al creditore nella fase successiva all’ina-
dempimento, da osservar però secondo le regole generali che impongono il
rispetto dell’ordinaria diligenza (così Visintini, Trattato breve cit., 265-26), in
base alla quale valutare la legittimità delle pretese del creditore di fronte
all’inadempimento del debitore, ovvero, non diversamente (Breccia, Le obbli-
gazioni cit., 652) un metro idoneo a realizzare un controllo sulla legittimità
delle pretese di fronte all’inadempimento del debitore e a paralizzare quelle
pretese che pur formalmente corrette non trovano giustificazione nel quadro
della tutela al creditore stesso garantita dall’ordinamento.

Europa e diritto privato - 1/16


190 Diritti nazionali e comparazione

creto ad eliminarne gli effetti. Il giudizio è puramente normativo,


si basa cioè sulla semplice valutazione della possibilità di porre
in essere un comportamento alternativo dovuto, tant’è che viene
sanzionata una condotta omissiva, il cui fondamento prescinde
quindi dall’accertamento del nesso causale, circostanza raffor-
zata dall’essere l’evento eventualmente imputabile un evento ne-
gativo, che è poi la medesima situazione che si verifica per l’ina-
dempimento, omissione di un fare o dare, e per il danno, rispetto
al quale pure l’imputazione al debitore viene messa in conto in
base ad un criterio che è puramente normativo. Lo dimostra pe-
raltro la distinzione che la giurisprudenza fa tra il primo e il
secondo comma, escludendo che il dovere di evitare il danno
possa essere rilevabile d’ufficio in quanto eccezione in senso pro-
prio implicante, quindi, non una diversa valutazione dei fatti, ma
un ampliamento dei fatti in quanto « il dedotto comportamento
del creditore costituisce un autonomo dovere giuridico, posto a
suo carico dalla legge quale espressione dell’obbligo di compor-
tarsi secondo buona fede » (Cass. 14-11-2013, n. 25607 (145)).
Non si spiega altrimenti perché il danno, pur essendo conse-
guenza dell’evento imputato al danneggiante, debba essere so-
stenuto dal danneggiato, se non attraverso una valutazione che
è puramente normativa, e rispetto alla quale il rifermento alla
causalità si rivela del tutto improprio, poiché sarebbe come met-
tere il dopo prima, l’interruzione del nesso causale come fattore
interruttivo, una volta accertata la violazione di un dovere o di un
obbligo.

7. Nel leggere la letteratura sul danno, spesso ci si imbatte


nell’esempio del fallimento o del dissesto finanziario del credi-
tore conseguente ad un eventuale inadempimento o fatto ille-
cito; l’ipotesi si tramanda dai tempi di Paolo il quale si chiedeva
se l’inadempimento del venditore di una partita di grano do-
vesse rispondere anche della morte degli schiavi ed è ripreso da
Pothier, con il noto esempio delle vacche infette, il quale a sua
volta si interrogava se il venditore in dolo dovesse rispondere,
oltre che del mancato guadagno derivante dalla perdita del
raccolto, anche dell’eventuale dissesto economico dell’acqui-

(145) Da pluris.cedam-utetgiuridica.it

Europa e diritto privato - 1/16


Antonello Iuliani 191

rente. Il criterio introdotto da Pothier (146) per discriminare


tra la risarcibilità del primo e l’irrisarcibilità del secondo è
quello della prossimità, in virtù del quale il dissesto è giudicato
« une suite très-éloignée et très-indirecte … il n’y a pas une
relation nécessaire … peut avoir d’autres causes ». Tale regola,
com’è ampiamente noto, è diventata dapprima la base dell’art.
1151 code civil, quindi dell’omologo art. 1229 del codice civile
italiano del 1865 e infine trasposta nell’art. 1223 c.c., come
regola generale di risarcimento del danno, accreditando così
l’idea che la selezione dei danni risarcibili sia di natura cau-
sale (147). La giurisprudenza e la dottrina da par loro non

(146) Il passaggio è significativo e merita di essere riportato per intero,


nella traduzione in italiano contenuta in Opere di G.R. Pothier contenenti i
trattati del diritto francese, Obbligazioni cit., 109: « Quid, se la perdita del mo
bestiame, e il danno sofferto per non aver potuto coltivare le mie terre,
avendomi impedito di pagare i miei debiti, i miei creditori hanno ottenuta
una giuridica esecuzione, e venduti i miei beni a vilissimo prezzo? Il venditore
della vacca sarà egli risponsabile anche di questo danno? La regola che mi
sembra doversi adottare in questo caso si è, che nella estimazione dei danni
ed interessi cui è tenuto un debitore del proprio dolo, non solamente non si
devono comprendere quelli che sono una conseguenza lontana, ma né anche
quelli che non ne sono una conseguenza necessari, e che possono avere al tre
cause. Per es: nel caso proposto, il venditor della vacca non sarà risponsabile
dei danni da me sofferti per l’esecuzione de’ miei beni; imperocché è questo
danno non è che una conseguenza molto lontana e indiretta del suo dolo, e
non vi è una conseguenza necessaria, giacché la perdita del mio bestiame
cagionatami dal suo dolo ha bensì avuto influenza nel rovescio dei miei affari,
ma questo può anche aver avuto altre cause ». Un esempio analogo può
leggersi in G. Domat, Le leggi civili disposte nel loro ordine naturale, t. 4
(Firenze 1834), 64, a proposito dell’inadempimento di un contratto di loca-
zione stipulato con un mercante il quale, non riuscendo a trovare un’altra
bottega si ipotizza abbia sofferto tre danni: « quello delle spese delle vetture
per portare, e riportare le sue mercanzie: quello della perdita del profitto che
avrebbe ricavato dalla vendita delle sue mercanzie, e quello del fallimento ».
Rispetto a quest’ultimo pregiudizio Domat afferma che, « questo inaspettato
evento avendo la sua causa particolare nello stato in cui erano gli affari del
mercante, è un caso fortuito, rispetto a quello che aveva promesso la bottega,
e per conseguenza non deve essergli imputato ».
(147) V. però già le considerazioni critiche di E. Giusiana, Il concetto di
danno giuridico (Milano 1944), 77: « Spiegare, come comunemente si fa, la
irrisarcibilità dei cosiddetti danni indiretti, di cui all’art 1223 cod. civ., con
l’affermazione che, ad un certo punto, nella serie degli eventi successivi al
fatto illecito, i conseguenti non sono più legati da un vincolo di dipendenza
necessaria con l’antecedente illecito, bensì ne dipendono soltanto occasional-

Europa e diritto privato - 1/16


192 Diritti nazionali e comparazione

hanno mai interpretato la norma in senso letterale, ammet-


tendo al risarcimento anche le conseguenze mediate e indirette,
com’è per il pregiudizio subito dal terzo creditore, rispetto al
quale, riconosce Cass. 174/1971, « il nesso immediato e diretto,
di cui all’art. 1223, non può aprioristicamente escludersi per il
solo fatto che l’unico evento lesivo attinga il diritto del creditore
per il tramite della lesione del diritto del debitore alla propria
vita ». La regola operativa che si è infatti affermata ritiene
risarcibile tutti i danni che « si presentino come effetto normale
secondo il principio della c.d. regolarità causale » (148) o della
regolarità statistica, che dir si voglia. La traduzione in termini
pratici di tale giudizio, però, si è presentata variamente decli-
nabile, e varie, di fatto, sono state le applicazioni che la giuri-
sprudenza ne ha fatto, al punto che non sembra avere torto chi
ravvisa, in ultima istanza, nella norma una « clausola generale,
con la quale il legislatore ha inteso devolvere al giudice il
compito di stabilire, caso per caso, il limite concreto delle
conseguenze risarcibili dell’adempimento » (149).
La ricerca di un terreno più solido ha condotto la dottrina
ad interpretare il criterio della consequenzialità immediata e
diretta come sinonimo di evitabilità (150), escludendo dal ri-
sarcimento quei pregiudizi che si sono verificati per il soprag-
giungere di una causa estranea, qual è il comportamento negli-
gente del creditore, senza il quale il danno si sarebbe potuto

mente, significa compiere una tautologia. Occorre, infatti, dimostrare per


quale ragione, a un certo punto, dal necessario si passa all’occasionale: quale
sia, cioè, il criterio in base al quale si opera questa scissione nella serie
continua dei fatti ». Con riferimento all’esempio di Pothier afferma « nessuno
può dire che l’accadimento dell’ultimo fatto della serie sia stato meno neces-
sario dell’accadimento del primo […] che si possa considerare effetto del
perimento del gregge soltanto la omessa coltivazione e non anche l’insolvenza
ed espropriazione del proprietario ».
(148) Cfr., sul punto, Marella - Cruciani, Il danno contrattuale cit., 1086
e per una rassegna giurisprudenziale, nt. 62; Marella, Il risarcimento per
equivalente e il principio della riparazione integrale cit., 41; Grisi, Sub art. 1223
cit., 160 s.
(149) Così Grisi, Sub art. 1223 cit., 160, condividendo il pensiero di
Pacifico, Il danno nelle obbligazioni cit., 140, il quale si richiama, a sua volta,
al pensiero di A. Belvedere, Le clausole generali tra interpretazione e produzione
di norme, Pol. dir., 1988, 631 s.
(150) In questo senso, Forchielli, Il rapporto di causalità cit., 33 s.

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Antonello Iuliani 193

evitare. Qui la giustificazione della irrisarcibilità del danno


ripiega proprio sul discorso causale, dal momento che la ne-
cessarietà sembra evocare il sopravvenire di un evento ulteriore
in grado di privare il fatto illecito della sua efficienza causale,
un correttivo al principio dell’equivalenza degli antecedenti
causali secondo il criterio della prevalenza della causa pros-
sima. Il tentativo di spiegazione unitario, all’insegna dell’evita-
bilità, ha trovato critica la dottrina, la quale ne ha offerto
smentita, oltre che sul piano meramente testuale — dal mo-
mento che il criterio dell’evitabilità trova autonoma colloca-
zione all’interno dell’art. 1227 c.c. e del quale, l’art. 1223 c.c.,
non può essere un « pleonastico rinvio » (151) — anche su
quello esegetico, potendosi agevolmente ricavare dalla lettura
degli esempi di Pothier, come alcuni danni siano dichiarati
irrisarcibili — ed è il caso del dissesto o del fallimento del
creditore — in ogni caso, indipendentemente dalla circostanza
che il creditore si fosse trovato o meno nella possibilità di
evitarli. La critica coglie nel vero e tuttavia la ragione del
diverso trattamento riservato da Pothier alle due tipologie di
pregiudizi rischia di restare nell’ombra ove ci si limitasse ad
accogliere il criterio della normalità interpretato nel senso di
escludere quelle conseguenze dannose che, pur combinandosi
con eventi eccezionali, non costituiscono realizzazione di un
rischio normalmente connesso con l’inadempimento o con
l’evento dannoso (152). L’abbandono della lettura causalistica,
a vantaggio del criterio tipologico fondato sulla normalità, non
sembra infatti consegnare all’interprete criteri di selezione dei
danni più sicuri, ma, anzi, rafforza la convinzione che la tra-
duzione nel linguaggio causale prima e statistico/descrittivo
poi, dei concetti di regolarità, normalità, adeguatezza, proba-
bilità abbia in realtà la funzione di occultare, facendole appa-
rire come rispondenti all’ordine naturale, (sia esso naturalistico

(151) Così, ritiene invece, Forchielli, ivi, 59. Sul punto v. le osservazioni
critiche di Rossello, Il danno evitabile cit., 55 s.
(152) Realmonte, Il problema cit., 203 s.; P. Trimarchi, Causalità giuri-
dica e danno, Risarcimento del danno contrattuale ed extracontrattuale, a
cura di G. Visintini cit., 1 s., riproponendo, nel contrattuale, le conclusioni
raggiunte in Causalità e danno cit., 56 s.; R. Villa, Il danno contrattuale
risarcibile, Trattato del contratto diretto da V. Roppo, v. 2 (Milano 2006), 901
s.

Europa e diritto privato - 1/16


194 Diritti nazionali e comparazione

o normativo) precise scelte di valore (153). La normalità è, del


resto, uno di quei concetti fortemente ambigui (154) sul piano
semantico in cui il significato descrittivo risulta sempre deter-
minato in funzione di quello prescrittivo nel senso che esso
risulta osservato attraverso una prospettiva che ne ridisegna, in
funzione dell’osservatore, il significato: è il frutto cioè della
formazione di una pratica discorsiva (155) che imprime nel
reale ciò che non esiste e lo sottomette alla distinzione tra vero
e falso, normale e anormale. La pretesa di ricavare dall’obbli-
gazione o dal contratto il criterio di selezione delle conseguenze
risarcibili, ammettendo al risarcimento solo quelle che si pre-
sentano come effetto normale dell’inadempimento (o fatto ille-
cito), è frutto di quell’autentico pregiudizio ideologico che
accompagna costantemente il giurista, vale a dire l’autoreferen-
zialità, a sua volta frutto di una pretesa neutralità del discorso
giuridico in virtù della quale qualunque problema troverebbe
soluzione nel cerchio esclusivo del sistema normativo. L’auten-
ticità del diritto, una volta superata la sua funzione di limite
esterno all’arbitrio/violenza dello Stato viene correttamente

(153) Barcellona, Inattuazione dello scambio cit., 15, riportando, a nt.


35 il pensiero di P. Barcellona, L’educazione del giurista (Bari 1973), 27; nello
steso senso Busnelli - Patti, Danno e responsabilità civile cit., 31 s. In modo
assai significativo Cass. 21255/2013, pluris.cedam-utetgiuridica.it, parla, al
punto 6.6.2., di un “criterio di opportunità giuridica”. Afferma G. Calabresi,
Concerning Cause and The Law of Torts, An Essay for Harry Kalven, Jr., Yale
Law Review, 1975, 107:« If causal concepts can be used flexibly to identify the
pressure points most amenable to our social goals, then use of such concepts
has great advantages over explicit identification and separation of the goals.
Terms with an historical, common law gloss permit us to consider goals (like
spreading) that we do not want to spell out or too obviously assign to judicial
institutions ».
(154) A. Lalande, Vocabulaire technique et critique de la philosophie
(Paris1962), 689, ritiene che la normalità « car tantôt il désigne un fait, possible
à constater scientifiquement, et tantôt une valeur attribuée à ce fait par celui qui
parle, en vertu d’un jugement d’appréciation qu’il prend à son compte »; il
passaggio è riportato da G. Siniscalchi, Figure di norma e normalità, Teoria e
critica della regolazione sociale, 2007, 3 s.
(155) Sulla funzione normativizzante del linguaggio v. M. Foucault, La
volontà di sapere, Storia della sessualità, I (Milano 1978); Id., Sorvegliare e
punire, Nascita della prigione (Milano 1973). Sull’economia politica come
pratica discorsiva che si impone al diritto v. in particolare Id., Nascita della
biopolitica, Corso al Collège de France (1978-1979) (Milano 2009), 35 s.

Europa e diritto privato - 1/16


Antonello Iuliani 195

identificata nell’elaborazione di quell’impianto concettuale,


consacrato nelle codificazioni, che trova il precipitato, sul
piano della nomenclatura nella coppia fattispecie-effetti, e sul
piano fenomenologico in quella proprietà-contratto. La rice-
zione della fattualità nel linguaggio prescrittivo, dunque del-
l’elaborazione delle categorie giuridiche, non avviene, tuttavia,
per partenogenesi, ma per il tramite del discorso dell’economia,
che, a partire dalle codificazione moderne, impone il mercato
da un lato, come luogo naturale di soddisfazione dei bisogni
umani e dall’altro, e di conseguenza, come luogo di veridazione
cioè di verifica/falsificazione della pratica di governo (156). Non
si intende con ciò privare il giuridico di qualsiasi autonomia, il
quale invece a livello della fenomenologia delle istituzioni so-
ciali « vanta una tradizione secolare di piena e orgogliosa rico-
noscibilità delle sue forme, linguistiche, concettuali, ideologi-
che » (157), ma soltanto riconoscere che la forma giuridica « ha
un’origine esterna, in un ordine di processi e di significati che
non è immediatamente giuridico » (158). L’assoluta immedesi-
mazione del diritto moderno con i rapporti sociali borghesi-
capitalistici, fondati sullo scambio orientato alla creazione di
plusvalore, si coglie nell’evoluzione cui è andato incontro il
lucro cessante, il quale è passato dal giudizio di sostanziale
irrisarcibilità, in cui era ricaduto nel diritto intermedio, ad un
giudizio di piena normalità, ancorché sottoposto al vaglio del-
l’evitabilità, coerentemente con l’imporsi di un sistema norma-
tivo funzionale all’acquisizione del plusvalore, che considera
normale l’impiego a fini produttivi del bene ma che non tollera
gestioni diseconomiche dell’impresa. Mentre il giudizio sull’evi-
tabilità conserva i caratteri propri della valutazione in concreto,
ancorché — e la lesione aquiliana del credito lo dimostra —

(156) Ciò del resto è quanto intuito da Marx circa i rapporti tra econo-
mia e diritto, impropriamente relegati nella dicotomia struttura/
sovrastruttura (da cui l’idea che mutata la prima, la seconda possa prestarsi
ad altri obiettivi), e che invece vanno interpretati in chiave di perfetta
immedesimazione tale per cui il diritto borghese, pur conservando tratti di
autonomia (formale, contenutistica, ideologica), è caratterizzato da una per-
fetta aderenza alla forma della merce. Sul punto si rinvia al recente lavoro di
Nivarra, La grande illusione cit., 11 s.
(157) In questo senso Nivarra, La grande illusione cit., 16.
(158) Ibidem.

Europa e diritto privato - 1/16


196 Diritti nazionali e comparazione

tenda a refluire in un giudizio tipologico, nel giudizio di anor-


malità la valutazione si sposta, in modo istitutivo, dal piano
concreto a quello astratto, e si afferma come soluzione in via
tipica e per di più incontrovertibile, nel senso che ogni motiva-
zione sarà adeguata, in quanto non verificabile, se non sul
piano della mera tenuta logica. L’utilizzo di concetti naturali-
stici, statistici o di normalità rappresenta un vero e proprio
mascheramento di senso, ossia il ricorso a concetti che hanno
una significazione indiretta, nel senso che servono a coprire un
altro e diverso contesto di senso rispetto a quello direttamente
evocato, che, nel caso della funzione risarcitoria, non può che
essere quello della razionalità mercantile, a sua volta coessen-
ziale ai concetti di proprietà e credito. Il criterio dell’« imme-
diatezza e direttezza » rappresenta allora un filtro tra la funzio-
nalità risarcitoria e le strutture del mercato nel senso di am-
mettere alla prima soltanto quelle poste di danno che risultino
compatibili con le esigenze evolutive e gli obiettivi espressi dal
mercato. La scelta di escludere dall’area del danno risarcibile
« tutto quel pregiudizio che può scaturire dalla (…) mancata
trasformazione in forma monetaria del capitale complessiva-
mente anticipato e della misura in cui si sarebbe valoriz-
zato » (159), nel saldo di partite passive (da cui il dissesto
finanziario del creditore), testimonia, ad esempio, la contra-
rietà del sistema alla ricostituzione in forma monetaria di un
capitale manifestamente improduttivo, quale si rivela essere
quello incapace di far fronte ad un’eventuale carenza di liqui-
dità (160). È la stessa logica che, dal versante del rapporto
obbligatorio, e più in particolare di quello dell’impossibilità
liberatrice dalla responsabilità, impedisce al debitore inadem-
piente di invocare le difficoltà economiche sopravvenute nel far
fronte all’adempimento per andare esente da responsabilità:
« Il debitore sopporta il rischio che l’adempimento dell’obbli-
gazione […] richieda un impiego di lavoro e/o di capitale
maggiore di quello previsto al tempo della conclusione del
contratto » (161). La medesima impressione, quella cioè di una

(159) Barcellona, Inattuazione dello scambio cit., 137.


(160) Ivi, 186 e Id., Trattato della responsabilità civile cit., 886-887.
(161) L. Mengoni, Responsabilità contrattuale, Enc.dir., vol. XXXIX
(Milano1988), ora Scritti II cit., 313.

Europa e diritto privato - 1/16


Antonello Iuliani 197

trasposizione indebita sul piano naturalistico-causale di solu-


zioni dettate da precise esigenze di ordine politico-economico,
si ricava dalla lettura della giurisprudenza più recente, in me-
rito al pregiudizio all’integrità patrimoniale della partecipa-
zione sociale subito dal socio in conseguenza del fatto illecito di
un terzo, lesivo del patrimonio sociale; tale pregiudizio è di-
chiarato irrisarcibile con motivazioni che in parte si fondano
sulla non assimilabilità della posizione del socio al diritto di
credito, e sull’autonomia dei due patrimoni e, in parte (e di
conseguenza) sull’esclusione del nesso di causalità. Cass.
24-12-2009, n. 27346, afferma al riguardo che « il diritto al
risarcimento compete solo alla società e non già anche a cia-
scuno dei soci, in quanto l’illecito colpisce direttamente la
società e il suo patrimonio e obbliga il responsabile a risarcirle
il danno, costituendo l’incidenza negativa sui diritti del socio
nascenti dalla partecipazione sociale un effetto indiretto di
detto pregiudizio e non conseguenza immediata e diretta del-
l’illecito ». E oltre, nella motivazione, si legge ancora: « Una
siffatta lesione tenderà a ripercuotersi, in qualche misura, sugli
interessi economici del socio […] Ma tale effetto costituisce un
mero riflesso del danno subito dalla società, non configuran-
dosi come conseguenza diretta ed immediata dell’illecito, bensì
come conseguenza di fatto, non rilevante sul piano giuridico ».
Il ricorso all’argomento causale, di per sé poco persuasivo nella
dimostrazione dell’irrisarcibilità del pregiudizio subito dal so-
cio, si spiega meglio alla luce di un passaggio della motivazione
in cui la Corte afferma: « il valore di mercato dell’azione,
soprattutto nelle società quotate, non è dato solo dalla frazione
di valore del patrimonio sociale che rappresenta, ma è influen-
zato da molteplici fattori ulteriori, che rendono limitatamente
correlabili i due valori, cosi che non ad ogni diminuzione
patrimoniale della società corrisponde una corrispondente di-
minuzione di valore delle azioni e, viceversa, non ad ogni
incremento di detto patrimonio corrisponde un corrispondente
aumento del valore di mercato delle azioni ». Il ragionamento
che guida la Corte è il seguente: dato che il valore dell’azione
può essere influenzato negativamente da fattori esterni che non
incidono necessariamente sul valore del patrimonio sociale, va
escluso che la diminuzione del valore della quota sia conse-
guenza della diminuzione del valore del patrimonio sociale

Europa e diritto privato - 1/16


198 Diritti nazionali e comparazione

causato dal fatto illecito del terzo. È tuttavia sin troppo evi-
dente che la mancanza in astratto di una necessaria correla-
zione tra la diminuzione del valore del patrimonio sociale e il
valore della quota del singolo socio non escluda affatto la
possibilità che in concreto tale correlazione vi sia. Il modo di
argomentare della Corte suona assai simile a quello di Pothier
che, nell’escludere il risarcimento del dissesto finanziario del
creditore, in conseguenza dell’inadempimento del debitore, af-
fermava: « questo danno non è che una conseguenza molto
lontana e indiretta del suo dolo, e non vi ha una relazione
necessaria, giacché la perdita del mio bestiame cagionatomi dal
suo dolo ha bensì avuto influenza nel rovescio dei miei affari,
ma questo può anche aver avuto altre cause » (162). In en-
trambi i casi, l’utilizzo dell’argomento causale, in forza del
quale i danni sono irrisarcibili in quanto “conseguenze indi-
rette” ha la funzione di giustificare in termini oggettivi una
scelta che è dettata da ragioni eminentemente di politica del
diritto, ossia escludere in ogni caso la risarcibilità di un certo
tipo di danni, come dimostra l’assoluta irrilevanza data alle
circostanze concrete nella valutazione del nesso causale.

ABSTRACT
The physiognomy of damage and the entity of its compensation
in the two of civil liability

The intent of this essay is to draw a distinction between contrac-


tual liability and tortious liability from the point of view of damages.
The majority opinion, in fact, usually tends to linger on the structural
elements that make the two forms of liability irreducible, attributing,
however, little importance to the consequences of this diversity in
terms of remedies. This paper will, therefore, first try to show how the
different structure of the two kinds of civil liability affects both the
physiognomy of the damage as well as the entity of its possible
compensation and, secondly, how the monetary compensation is
conditioned by strictly commercial parameters which prejudice the
same function. Instrumental to this goal is, therefore, a critical ap-
proach to the traditional definitions that, in the selection of recove-
rable damages, recognize, alternatively, a problem of causation or of
a regular statistical / probabilistic criterion.

(162) Pothier, Opere cit., 109.

Europa e diritto privato - 1/16

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