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Riappropriarsi di Spinoza
Sull’uso corretto di un filosofo alla moda
28 AGOSTO 2020
Questo testo di Guillaume Sibertin-Blanc e Matthieu Renault – apparso in francese sulla Revue
du Crieur (n. 10, 2018) – ripercorre la genealogia del cosiddetto «spinozismo di sinistra»
francese, e in parte italiano (non di secondo piano sono i riferimenti alla fine e acuta spinozista
Emilia Giancotti): da Althusser a Lordon, passando per Deleuze, Matheron (e Gueroult),
Macherey, Balibar, Negri, Sévérac e tant* altr* filosofe e filosofi. Materia calda, con i suoi
impensati (l’immanenza, il pensiero sulla e della vita, la teoria genetica dello Stato, il
materialismo radicale, ecc.), la filosofia di Spinoza è un campo di battaglia attraversato da
numerose generazioni, ora più apertamente ora più velatamente. I due filosofi, in guisa di
conclusione, lanciano una sfida per i/le novell* spinozist*: «Nell’epoca della decomposizione e
delle ricomposizioni della sinistra, più che determinare se lo spinozismo sia «di sinistra», la
questione è senza dubbio valutare in quale misura la sinistra è «spinozista» e ciò che
guadagnerebbe o perderebbe nell’essere tale; e ciò non solo dal punto di vista delle sue idee o
della sua ideologia ma, come impone il parallelismo spinoziano, anche dei suoi modi di esistenza
e organizzazione come corpo e insieme di corpi, «convenienti» o convergenti sotto alcuni aspetti,
«sconvenienti» o divergenti sotto altri: lo spinozismo come scansione delle pratiche militanti,
tutto un programma». Riappropriarsi di Spinoza è «pensare con» e non «a partire da» Spinoza.
Perché lo spinozismo è, innanzitutto, un metodo di studio e di pensiero e una postura etico-
politica. [Marco Spagnuolo]
***
Al fianco delle letture conservatrici e delle interpretazioni liberali delle opere di Spinoza, è
possibile delineare i contorni di uno «spinozismo di sinistra». E non recente: se Marx si è
subito allontanato dal filosofo di Amsterdam, i pensatori della II e della III Internazionale
ne hanno riconosciuto i tratti tipici di un autentico materialista. D’altra parte, gli
intellettuali marxisti non hanno smesso di riattivare questa svolta di Marx attraverso
Spinoza, costruendo non un pensiero omogeneo, ma delle letture proteiformi. Così Louis
Althusser ha contribuito a rinnovare il pensiero marxista con l’ausilio della teoria spinozista
della conoscenza; Antonio Negri pensa un «soggetto rivoluzionario» a partire dal concetto
di moltitudine; Frédéric Lordon legge le attuali lotte sociali a partire dalla struttura degli
affetti. Oggi, l’ombra di Spinoza si estende su una fetta delle scienze sociali in continuo
sviluppo.
:
Un dossier dedicato a Spinoza da una rivista culturale si è promesso di recente di chiarire «le
ragioni di un grande ritorno» e ha enumerato la molteplicità dei programmi teorici e critici
tra i quali, da un parte e dall’altra dell’Oceano, il filosofo olandese del secolo XVII si
vedrebbe coinvolto: spino-rhizomes, écolo-spinozistes, socio-spinozistes , spino-féministes1. La
lista non è chiusa e si sarebbero potuti aggiungere, passeggiando in una libreria, Spinoza
eroe dell’appassionante affresco storico-filosofico di Maxime Rovère (allo scaffale docu-
fiction), Spinoza pronto all’uso del «vostro sviluppo personale» dell’autore di best-seller
Frédéric Lenoir (allo scaffale spiritualità/buddismo), senza dimenticare (immediatamente
prima delle casse) Spinoza «en marche» contro le passioni tristi dei manifestanti e altri
scontenti arruolato da Emmanuel Macron nel suo libro-programma Révolution.
I nostri energumeni non avranno provato a formare un’Internazionale spinozista dai fini
oscuri? Tutto ciò è decisamente intrigante ed è urgente fare un’inchiesta sulla storia di
questa cellula se vogliamo sventare i suoi piani sovversivi; tanto più che tra i suoi seguaci, i
«vecchi» sono stati a lungo dei noti comunisti e su di essi, ma anche sui più giovani,
continua a vagare lo spettro di Marx.
Ricostruzione fantasiosa, il lettore l’avrà capito. Non c’è mai stata un’organizzazione
rivoluzionaria spinozista; i membri di questo gruppo immaginario non hanno organizzato
riunioni segrete né preparato delle bandiere con l’effigie di Spinoza né redatto dei volantini
che convertono le sue parole filosofiche in parole d’ordine politiche. A dire il vero, non
sarebbe stato facile fare un simbolo rivoluzionario del sigillo che usava il filosofo e su cui
era scritta la parola latina caute: «prudenza». Aggiungete a ciò che i sospettati, di cui noi
daremo presto i nomi, hanno elaborato le loro rispettive versioni dello spinozismo politico
nella solitudine dei loro uffici e, nel caso di uno di loro, in una cella del carcere, e hanno
prima di tutto dialogato per iscritto o in occasione di incontri universitari. Pur avendo
intessuto dei rapporti gli uni con gli altri, rifiuterebbero l’idea di essere assimilati ad una
tendenza unificata. Se malgrado tutto, e forse malgrado loro, desideriamo mostrare che
qualcosa come uno «spinozismo di sinistra» esiste, bisogna tracciare la genealogia,
ritrovando il nostro contegno di seri universitari, ripartendo dal più piccolo denominatore
comune ai suoi rappresentanti, ovvero una problematizzazione dei rapporti tra Marx e
Spinoza, che risale a molto tempo prima rispetto allo spinozismo contemporaneo.
Non c’è stato bisogno di aspettare le disillusioni del «socialismo reale» perché gli
intellettuali marxisti si rivolgessero verso Spinoza, il più delle volte per regolare i loro
conflitti interni. Senza dubbio Marx sarebbe stato il primo a sorprendersi, lui che,
certamente, nei suoi scritti giovanili aveva mobilitato il Trattato teologico-politico per
denunciare la trascendenza ancora tutta divina dello Stato hegeliano, ma che dal 1846 ne
L’ideologia tedesca aveva relegato il pensiero spinozista in qualche annotazione lapidaria
:
alla stregua delle astrazioni metafisiche incompatibili con l’analisi scientifica dei rapporti
sociali. Questa elusione rompeva con la riabilitazione di cui il filosofo di Amsterdam era
stato fatto oggetto tra i giovani hegeliani («di sinistra») come Moses Hess e soprattutto
Ludwig Feuerbach che vi aveva scoperto un materialismo naturalista che permetteva di
abbandonare l’idealismo di Hegel e il suo «Spirito del mondo» a favore di un’antropologia
centrata sulle potenze dell’«uomo concreto».
Se dei concetti spinozisti de l’Etica hanno continuato ad informare in maniera più spettrale
il pensiero di Marx, una volta abbandonato il terreno della battaglia filosofica e investito
quello della critica dell’economia politica6, l’affiliazione di Spinoza a Marx è un’invenzione
in parte postuma, legata intimamente alla codificazione dell’opera del secondo in dottrina.
Engels ne fu il grande fautore. Nell’Anti-Dühring, breviario del marxismo di un’intera
generazione di intellettuali e militanti, Engels aveva estratto dall’Etica il quadro
materialista che permetteva di «rimettere in piedi» (materialismo) la dialettica che, in
Hegel, «marciava in testa» (idealismo). Definire, come aveva fatto Spinoza, l’estensione e il
pensiero come attributi, tra un’infinità d’altri, di una sola e unica sostanza, che la si chiami
Dio o Natura, e dedurne l’identità «di ordine e connessione» tra le cose e le idee, il
parallelismo tra anima e corpo, significava escludere qualunque dualismo tra la sfera della
volontà umana e il regno delle leggi naturali a favore della possibilità, contenuta nel
concetto spinoziano di «causa adeguata», di una libera appropriazione dei determinismi che
ci fanno agire.
La grammatica così fissata fu riattivata, in contesti sempre polemici, nel corso di tutta la
storia della II e della III Internazionale. Georgij Plechanov la mobiliterà alcuni anni dopo
nella sua lotta contro il «revisionista Bernstein». All’indomani della rivoluzione russa,
Abraham Deborine e i «dialettici», agli occhi dei quali Spinoza era un autentico materialista
costretto a mostrarsi in abiti teologici – un «Marx senza barba» arriverà a dire uno di loro -,
diedero battaglia contro i «meccanicisti» che negavano l’identità della sostanza e della
materia in Spinoza7. Che quell’eminente filosofo quale credeva essere Stalin avesse chiuso il
dibattito equiparando i suoi protagonisti e imponendo la propria versione del materialismo
dialettico (diamat) non impedirà ai filosofi sovietici più tardi di trovare una linea di fuga in
Spinoza, che trovò in Evald Ilyenkov un acceso difensore.
Nel frattempo in Francia l’egemonia conquistata dal marxismo hegeliano, sulla base di
un’antropologia filosofica che aveva trovato nel concetto di alienazione la sua grande causa
teorico-politica, lasciava poco spazio a un reinvestimento del pensiero di Spinoza. Nei suoi
celebri corsi su Hegel degli anni Trenta, Alexandre Kojève aveva messo i puntini sulle i: con
la pretesa di situarsi dal punto di vista dell’eternità, il «sistema di Spinoza è l’incarnazione
dell’assurdo. […] Prendere sul serio Spinoza è effettivamente essere – o divenire – folli»8. In
termini politici, solo nel quadro di una storiografia marxista, tinta di evoluzionismo,
Spinoza poteva ancora trovare posto, se non favore. Nel 1956, mentre veniva divulgato il
dossier Chruščëv e repressa l’insurrezione di Budapest, Jean-Toussaint Desanti pubblicò
:
presso le edizioni de La Nouvelle Critique, rivista del Partito Comunista [Francese, n. d. t.],
una Introduction à l’histoire de la philosophie9 interamente centrata sulla filosofia di Spinoza
e l’emergere del capitalismo mercantilista e coloniale nell’Olanda del secolo XVII con, come
risultato drammatico, l’eterna lotta dell’idealismo e del materialismo. A dispetto della sua
ortodossia, il libro aveva il merito di non sacrificare mai le contraddizioni interne ai saperi
dell’età classica sull’altare del determinismo sociologico; il prezzo da pagare fu la sua
incompiutezza.
È su questa via che uno studente all’epoca «ancora molto stalinista», Alexandre Matheron,
pensava inizialmente di impegnarsi10. Se ne allontanò per contribuire ad un inatteso
rinnovamento degli studi spinozisti nel campo universitario francese. Preparato dai lavori di
Sylvain Zac, cresce nel corso degli anni Sessanta prima di uscire allo scoperto con la
pubblicazione a tamburo battente di Spinoza (1968) di Martial Geroult, Spinoza et le
problema de l’espression (1968) e il suo complemento Spinoza. Filosofia pratica (1970) di
Gilles Deleuze, e Individu et communauté chez Spinoza (1969) di Matheron, «bibbia» di
numerosi spinozisti di sinistra delle successive generazioni. Da questo momento, tra questo
«spinozismo accademico» e lo «spinozismo politico» in gestazione, nessuna frontiera
impermeabile, ma un terreno comune in cui il lavoro degli uni coinvolgeva necessariamente
gli altri. Come rivela Pierre-François Moreau, «ricostruendo l’Etica di Spinoza nella
sistematicità della sua struttura concettuale, Geroult e Matheron ci sembrava integrassero
gli studi spinozisti nell’epistemologia storica di Bachelard, Koyré, Canguilhem, a cui si
richiamava Althusser nello stesso momento per rifondare il materialismo storico come
scienza rigorosa»11. Eppure lo stesso Althusser, navigando tra il PCF e i banchi dell’École
normale supérieure, anche prima di questo rinnovamento, aveva richiamato a (ri)prendere
sul serio Spinoza.
«Noi non siamo stati strutturalisti […] siamo stati spinozisti»12. Non è difficile, a posteriori,
comprendere ciò che in Spinoza poteva sedurre Althusser. Rifiutando all’individuo
l’autonomia di soggetto sovrano e trasferendo la coscienza in una rete infinita di
determinazioni causali, la filosofia di Spinoza era un’arma indicata nella battaglia condotta
da Althusser contro l’umanesimo socialista incarnato nel PCF dalla linea dominante di
Roger Garaudy, ritenuta in grado di soddisfare al compito della critica del marxismo di Stato
e della liquidazione del passato stalinista. Innalzando lo spinozismo nel 1965 come la «più
grande rivoluzione filosofica di tutti i tempi»13, formando due anni dopo all’ENS un
misterioso «gruppo Spinoza» semi-clandestino, Althusser si curerà tuttavia meno di
ricostruire il sistema spinoziano quanto di riesaminare alla luce di alcune delle sue tesi un
insieme di problemi strategici, indissociabilmente teorici e politici come sempre nell’autore
di Per Marx. Bisognava attende gli Elementi di autocritica (1974) affinché desse a questi
slanci spinozisti un significato d’insieme, riprendendo e trasformando la vecchia sintassi
engelsiana: non si trattava più di produrre una grande sintesi «Spinoza + Hegel = Marx» in
:
vista di dare all’edificio teorico del marxismo un’unità da cui dipendeva, si era creduto,
quella dello stesso movimento operaio organizzato ma, al contrario, di disfare l’unità
dottrinale che aveva permesso ad una filosofia intangibile di essere fungere da garanzia
ideologica per una linea politica pretesa incontestabile.
Althusser aveva operato una «svolta con Spinoza per vedere un po’ più chiaramente nella
svolta di Marx con Hegel»14. Questa svolta doveva rivelare e attuare l’efficacia divisoria,
«scismatica», dello spinozismo, la sua potenza di «frattura permanente» che scinde lo stesso
pensiero marxiano-marxista in posizioni antagoniste irreconciliabili. È più l’irriducibile
eterogeneità degli «attributi», che l’unità della «sostanza» spinoziana invocata da Engels e i
suoi epigoni, che Althusser rivendicò in modo da porre in evidenza un tipo di processo la cui
complessità (le «strutture») invalidava a priori qualunque aspirazione a coglierne il
principio semplice: un’origine o un fine determinati, una contraddizione unica, un soggetto
predestinato a portarla a termine. L’idea che un discorso filosofico o scientifico possa
garantire una padronanza integrale del corso degli eventi, in particolare quelli rivoluzionari,
non era altro che una finzione, soprattutto più pericolosa se questa garanzia era trasferita
ad un’istanza di potere, partito e/o Stato. La rottura spinozista era inoltre inseparabile da
una nuova «pratica teorica» che Althusser ipotizzava non più a partire dal parallelismo tra
cose e idee, ma dalla distinzione spinoziana tra «generi di conoscenza», o modi di
produzione delle idee. Nel primo genere di conoscenza (attraverso gli effetti:
l’immaginazione), ritrovava la prefigurazione di una teoria materialista dell’ideologia;
poteva allora identificare la dinamica emancipatrice del secondo genere di conoscenza
(attraverso le cause: la ragione) dissipando l’illusione del «soggetto-supposto-sapere». A
mille miglia da un preteso scientismo althusseriano, lo spinozismo di Althusser faceva
valere la forza de-soggettivante di una pratica di sapere opposta insieme al positivismo
(conformità del sapere ai fatti) e alla tecnocrazia (autorità dei competenti, cioè degli
esperti).
La svolta di Althusser non fu un’odissea solitaria. Vi contribuì in maniera decisiva uno dei
suoi giovani collaboratori, Pierre Macherey che, alle porte degli anni Sessanta, aveva
realizzato con la direzione di Canghuilhem una tesi su «Filosofia e politica in Spinoza», in
un’epoca in cui, in Francia, ci racconta, «la letteratura sul soggetto era inesistente: si
scoprirono terre ignote; Spinoza politico non esisteva, se non in Unione Sovietica»15. Nel
1979, Macherey pubblicò un’opera chiave: Hegel o Spinoza. Mettendo in discussione le
sintesi hegelo-marxiste, Althusser aveva rifiutato il posto di genitore povero che
riservavano ad uno Spinoza ancora ignorante della contraddizione dialettica, della forza
della negazione, della conflittualità nella storia. Il gesto di Macherey, che dice di assumere
ancora oggi da Althusser una «formidabile incitazione a lavorare»16, fu scoprire in questa
pretesa «mancanza» un’autentica resistenza anticipata che il pensiero di Spinoza, nel suo
rifiuto di qualunque finalismo, avrebbe opposto, in anticipo, alla dialettica hegeliana. La
causa, già avanzata in termini differenti da Deleuze, con la sua «grande identità Nietzsche-
:
Spinoza» versus Hegel, era da tempo nell’aria: quattro anni dopo, lo scrittore Jean-Bernard
Pouy la riassunse in termini meno eleganti ma del tutto efficaci, intitolando un romanzo
Spinoza incula Hegel.
Benché avesse indicato più tardi che la «o» di Hegel o Spinoza dovesse essere intesa non
solo come esclusione reciproca, ma anche, e simultaneamente, nel senso del sive latino,
come equivalenza (alla stregua del Deus sive Natura di Spinoza), Macherey indicava allo
stesso modo che la svolta verso Spinoza aveva smesso di avere come finalità il ritorno al
buon porto marxista-leninista; esso costituiva un vero tornante irriducibile alla
problematica della costituzione di una «filosofia marxista» introvabile in Marx. Macherey
proseguirà su altre vie la sua esplorazione della potenza della provocazione permanente del
pensiero di Spinoza nei confronti di qualunque codificazione della storia delle idee (Avec
Spinoza, 1992) prima di produrre una monumentale Introduction à l’Ethique de Spinoza in
cinque volumi. Rendendosi autonomo, il riferimento a Spinoza si è emancipato dalle
questioni immediate in cui più generazioni di intellettuali marxisti infilavano il filosofo
olandese. Alle porte degli anni d’inverno, lo spinozismo di sinistra aveva abbandonato
l’anticamera del PCF ma, prima di rifugiarsi nel recinto delle università, doveva scriversi su
un’altra scena, tra le mura di una prigione italiana.
Alla fine degli anni Settanta, passeggiando nei corridoi dell’ENS, si sarebbe potuto
incrociare un filosofo italiano di una quarantina d’anni che non era al suo primo soggiorno
in Francia e vi avrebbe trovato rifugio all’inizio del decennio a venire. Antonio Negri, figura
di spicco dell’operaismo e dell’Autonomia italiana, avanzava carico di esperienza nelle
organizzazioni rivoluzionarie di cui molti dei suoi anziani compagni avrebbero voluto
potersi vantare. Teneva allora, su invito di Althusser, un corso sui Grundrisse di Marx che
diede luogo alla pubblicazione nel 1979 di Marx oltre Marx, spesso considerato come il
manifesto filosofico dell’Autonomia. Ma il 1979 è anche l’anno in cui Negri fu incarcerato
per via di una presunta partecipazione all’assassino del deputato Aldo Moro. Migliaia di
militanti sospettati di appartenere alle Brigate Rosse popolarono le prigioni italiane.
«L’Autonomia era stata sconfitta» si ricorda: bisognava «scoprire la necessità di ciò che si
stava vivendo», «ritrovare qualcosa di solido mentre tutto stava crollando». Secondo Negri,
per cui i problemi politici sembrano essere immediatamente convertibili in problemi
metafisici e inversamente, questa ricerca di terraferma non impegnava niente di meno che
una «ricostruzione del marxismo su basi ontologiche», «al di là della critica dell’economia
politica», anche al di là di Marx; non più perciò a partire da Marx stesso, ma da un filosofo il
cui pensiero era pronto a rivelare le «forme di essere che sottendono la nostra azione»:
Spinoza17.
:
Scritta in prigione, L’anomalia selvaggia. Potenza e potere in Spinoza apparve in italiano nel
1981. Nutrendosi dei lavori dei neo-spinozisti francesi — Matheron, questo «maestro
universitario», e più ancora Deleuze — senza ignorare la tradizione dello spinozismo
italiano, la prospettiva di Negri resta fermamente ancorata in un materialismo storico di cui
aveva intrapreso la rifondazione dagli anni Settanta in un opera seminale (non ancora
tradotta in francese): Descartes politico18. Al centro del complesso narrativo-teorico esposto
da Negri, la tesi per cui la filosofia di Spinoza avrebbe conosciuto due «fondazioni»
successive, la cui cesura si sarebbe manifestata con la brutale interruzione della scrittura
dell’Etica a favore di quella del Trattato teologico-politico. Scoprendo l’immaginazione come
potere di produzione del reale piuttosto che come suo riflesso degradato, questa saggio
apriva la strada a un capovolgimento del rapporto tra la sostanza (una) e i «modi»
(molteplici), cioè gli esseri-individui singolari, ormai «egemonici» nel sistema spinoziano.
Orientandosi verso un immanentismo sempre più radicale, verso una pura filosofia
dell’affermazione, Spinoza rompeva con qualunque pensiero della mediazione e del potere
(potestas) a favore di un pensiero, selvaggio, della costituzione e della potenza (potentia), o
di ciò che potremmo chiamare una «metafisica dal basso». Là dove il «primo Spinoza» era un
«promotore dell’ordine del capitalismo», il secondo partecipava già alla «fondazione del
materialismo rivoluzionario», non alla stregua di un precursore, poi superato, ma come
l’autore di una «filosofia dell’avvenire», mai così attuale come in questa fine del secolo XX19.
È ne L’anomalia selvaggia, nella sua fine, che apparve il concetto di moltitudine; poiché tale
sarebbe stata l’ultima parola dello stesso Spinoza nel Trattato politico. La moltitudine
(multitudo), che era stata sempre considerata negativamente, come informe e incapace di
riformarsi, era in realtà la condizione positiva dell’autocostituzione (immanente) della
comunità politica, che invalida qualunque teoria (trascendente) del contratto sociale e dello
Stato borghese. Per mezzo di questa riabilitazione, Spinoza si vedeva indissociabilmente
messo al servizio di una critica della categoria di classe operaia, sostituendo all’operaio-
massa (indifferenziato) l’operaio-sociale (singolarizzato) e richiedendo la formazione di una
nuova «ontologia del comune»; progetto che occupò Negri e i «negriani» durante i decenni
successivi, in un dialogo ininterrotto con Spinoza – di cui l’interessato ammette aver
sempre avuto una «concezione strumentale»20: basti qui citare Il potere costituente e il
saggio Spinoza sovversivo apparso negli anni Novanta, l’immenso cantiere aperto con
Michael Hardt nel 2000 con la pubblicazione di Impero, o ancora la fondazione nello stesso
anno della rivista Multitudes che, nel suo secondo numero, celebrava «L’evento Spinoza»
promettendo di «ritornarci spesso e con determinazione»21.
23
:
agli amici francesi di Negri, Macherey in particolare23, di sottoporre ad un esame critico la
sua interpretazione. Ma col senno di poi, possiamo affermare che la più importante critica
allo Spinoza di Negri fu lanciata da un altro vecchio compagno in althusserismo, Étienne
Balibar, in maniera d’altronde più sorprendente in quanto egli sostiene che all’epoca dei
fatti non aveva ancora letto L’anomalia selvaggia. Questo accadde nel 1982, durante un
colloquio internazionale a Urbino in occasione del 350 anniversario della nascita di Spinoza,
organizzato da Emilia Giancotti, autrice di un erudito Lexicon Spinozanum, le cui affinità
comuniste non avranno contribuito poco alla circolazione internazionale dello spinozismo
di sinistra24.
Perciò, il minimo comun denominatore tra Negri e Balibar era un’acuta consapevolezza
della necessità di un riesame delle aporie della tradizione comunista nella quale,
althusserismo compreso, l’istanza delle masse suonava come la parola mana. Insistere sulla
loro ambivalenza permetteva a Balibar di sfuggire d’un colpo alla ricusazione e al
disconoscimento, all’alternativa tra invocazione melanconica di un’illusoria età dell’oro e
rilancio maniacale di una grande sera trionfale. È in questa prospettiva che rileggerà il
freudo-marxista Wilhelm Reich (La psicologia di massa del fascismo), ritrovando così le
preoccupazioni di Deleuze e Guattari che, ne L’Anti-Edipo, erano ritornati sulla sequenza
fascista degli anni Trenta e vi avevano rintracciato il problema centrale della filosofia
politica di Spinoza: perché gli uomini combattono per la loro servitù come se si trattasse
della loro salvezza?
Se la fine degli anni Sessanta aveva segnato un ritorno a Spinoza, la fine dei Novanta ne
iniziò indubbiamente un secondo che a sua volta beneficiò di un potente radicamento
universitario. Trovò il suo epicentro nel seminario organizzato da Pierre-François Moreau,
poco dopo la pubblicazione della sua tesi Spinoza. L’expérience et l’éternité (1994), all’ENS
Fontenay-Saint-Cloud, a cui hanno preso parte — fino ad oggi — anche Chantal Jaquet,
:
Pascal Sévérac e Ariel Suhamy. Per quanto riguarda il libro di Laurent Bove, La Stratégie du
conatus (1996), anticipò la migrazione, all’inizio dei 2000, dello spinozismo di sinistra verso
la logica spinoziana degli affetti. Il raggio di questo nuovo spinozismo è di contro più
difficile da definire di quello del suo predecessore e forse gli converrebbe più l’immagine
della rete informatica, essa stessa ripensata a partire da quanto Balibar,in Spinoza et la
politique (1985), intravvedeva come una teoria della comunicazione generalizzata. Ad alcuni
oggi piace riconoscere, nel tessuto reticolare e a-centrato che struttura l’«ordine
geometrico» dell’Etica, con il suo sistema di riferimenti tra proposizioni, dimostrazioni e
scolii, una prefigurazione delle strutture iper-testuali che il World Wide Web ci ha reso
familiari.
Non fu meno precario l’equilibrio tra la retorica federativa delle convergenze e la difforme
posta in gioco di uno spinozismo che non prescriva in anticipo alcuna «visione del mondo
sociale» comune. Le linee di forza del «socio-spinozismo» si mostrarono molto tese. Il
convettore fu nuovamente il concetto di moltitudine: Negri vi aveva condensato
l’immaginario democratico radicale di cui l’ontologia spinozista era portatrice; Matheron,
poi, ne aveva fatto la pietra angolare di una modellizzazione della genesi delle istituzioni e
della sovranità. Entrambi volevano risolvere, con due percorsi diametralmente opposti, il
problema dell’incompiutezza del capitolo sulla democrazia al termine del Trattato politico.
Se si vuole passare da una prospettiva all’altra, è necessaria un’integrazione. Se ne
rintraccia una in una metafora biologico-politica che traduce l’idea spinozista della
sostanza come «causa di sé» nel linguaggio dei sistemi autoproduttivi o autopoietici30. Ne si
troverà un’altra nell’idea dei «territori auto-trascendenti» (Jean-Pierre Dupuy) che iscrive
nella dinamica dei rapporti sociali «la maniera in cui dei meccanismi strettamente
immanenti sono capaci di generare effetti che dominano i loro stessi produttori»31.
Eretto, malgrado lui, a intellettuale organico dell’inorganico movimento Nuit debout nel
2015, Lordon per l’occasione lodò il documentario Merci Patron! di François Ruffin per la
sua capacità di suscitare passioni gioiose opposte a qualunque forma di vittimismo.
Invocava a questo fine l’assioma spinozista secondo cui i desideri possono essere impediti o
distrutti solo da altri desideri potenti almeno quanto quelli. Il fatto che Lordon sia il solo ad
aver cercato una reale connessione del pensiero spinoziano con le attuali lotte sociali — se
:
si mette da parte il topos pseudo- spinozista della lotta come affermazione gioiosa — tende
almeno a mostrare che tra i due Spinoza, quello che ci dà un arsenale analitico- critico
adatto ad esaminare gli ingranaggi affettivo- istituzionali del neoliberalismo e quello che ci
invita (o inviterebbe) alla resistenza e alla rivolta, vi è ancora un abisso.
Concludendo, resta da vere come questo scarto, anziché essere riassorbito, continui a
suscitare nuove linee di indagine tra le quali potrebbero essere comprese le teorie
dell’emancipazione. Mentre l’assioma della «potenza della moltitudine» sembra ritornare ad
essere il nome di un problema piuttosto che di una soluzione, vediamo che viene rilanciata
la questione, che la maggior parte delle varianti dell’antiumanismo teorico avevano creduto
chiusa, dello statuto dell’antropologia filosofica nella teoria critica. Gli spinozisti di sinistra
della prima ora si erano impegnati a cercare in Spinoza una filosofia per il marxismo; ormai,
agli occhi di qualcuno come Lordon, la sfida è ricostituire, con Spinoza, l’«antropologia
mancante di Marx»37.
«Il marxismo, e Marx stesso» ci dice Balibar «si erano tenuti alla convinzione che la critica
della religione fosse acquisita. Non c’è niente di meno sicuro»38. André Tosel, che aveva
firmato nel 1984 un saggio sul Trattato teologico-politico (Spinoza ou le Crépuscule de la
servitude), ha dedicato i suoi ultimi anni a riaprire tale questione in vista di un’analisi del
«ritorno del religioso» sulle scene nazionale e internazionale. Contro i riduzionismi
simmetrici dell’economia e del culturalismo, la filosofia spinoziana doveva nuovamente
essere mobilitati per interrogare le ambivalenti potenze del religioso nella vita intellettuale,
immaginativa ed affettiva. Altri si dirigono oggi verso il ruolo dei dibattiti con le scolastiche
medievali cristiana, ebrea e araba39 nella genesi del pensiero di Spinoza. È in ultimo il
problema dell’ebraismo di Spinoza ad essere reinvestito: contro il peso del tradimento che
gli intellettuali ebraici, che trovano in Jean-Claude Milner il loro ultimo «profeta», hanno
fatto pesare per almeno un secolo su Spinoza, Ivan Segré ha cominciato a reinscrivere il suo
razionalismo integrale, «fuori dalla Legge» in una tradizione rivoluzionaria secondo la quale
il «nome Ebreo» e il «nome operaio», lontano dall’escludersi reciprocamente, siano «come
uno solo»40. Per Segré, che sostiene la possibilità di tre tipi di lettura dello Spinoza politico,
«rivoluzionaria, conservatrice e liberale», il problema fondamentale, o quantomeno attuale,
che ci ha lasciato il filosofo è quello dell’invenzione di un «collettivo che non sia più sotto
l’imperio della paura, passione triste per definizione41.
Più in generale, osserva Moreau42, l’attuale vitalità delle ricerche su Spinoza viene meno da
studi sistematici quanto invece da un dibattito critico su ciò che un’«antropologia non
umanista» può apportare all’analisi della storicità delle forme di vita individuali e collettive.
Ne sono testimonianza una serie di recenti lavori: sui concetti, che si tende a non tradurre
più, di ingenium e imperium e su quanto essi condividano delle contraddizioni delle
formazioni nazionali o nazionaliste (Lordon); sulle nozioni di divenire, attività o
:
disposizione, che conduce a una rivalutazione del ruolo della contingenze e dell’evento
nell’etica spinoziana (Sévérac, Jacques-Louis Lantoine, Julie Henry); o ancora sulle risorse
che dà la filosofia di Spinoza per ripensareuna pedagogia emancipatrice sulla scia di
Vygotski (Sévérac) e reinterrogare il posto dell’infanzia nel pensiero politico di Spinoza,
come aveva già fatto François Zourabichvili in Le Conservatisme paradoxal de Spinoza (2002).
Per un verso differente, alcuni riprendono l’assioma che Deleuze aveva posto al cuore
dell’antropologia spinozista: la potenza si esprime in un «potere di affettare», ma anche in
un «potere di essere affetti», in quanto i problemi etici possono insieme sorgere e risolversi
esclusivamente in una zona di indiscernibilità tra attività e passività, autonomia ed
eteronomia.
È chiaro che lo Spinoza contemporaneo non possa restare estraneo ai dibattiti in corso che,
tra lotte ecologiste, indigene e contadine, cercano di trasgredire le frontiere dell’impero
antropo-sociocentrico per pensare i rapporti tra i mondi umani e non-umani. Il ricorso a
Spinoza nel pensiero ecologista non è perciò nuovo: dal 1977, il padre della deep ecology,
Arne Næss, vi si richiamava per considerare la vita umana come spoglia di qualunque
privilegio ontologico rispetto ad altri esseri che compongono l’ecosistema globale43. A un
tale greenwashing hanno comunque resistito molti punti della dottrina spinozista.
Rifiutando di pensare la natura in termini di ordine o disordine e ponendo al cuore delle
logiche socio-passionali un meccanismo di «imitazione degli affetti», Spinoza respingeva
qualunque possibilità di una comunità affettiva, anche immaginaria, tra uomini ed animali.
Facendo della potenza del conatus, che nell’uomo equivale a dire del desiderio, la misura del
diritto naturale, promuoveva un utilitarismo senza dubbio originale, ma che allo stesso
tempo rinnovava un diritto sovrano degli uomini ad appropriarsi di tutti gli altri esseri
naturali in funzione del loro proprio interesse… per quanto questo spinga infine a incitarli a
conservare la natura per conservare sé stessi. La deep ecology segnalava così un ritorno allo
Spinoza panteista- tutti i corpi sono espressione di un’unica e sola potenza infinita —
eliminando le conseguenze antropocentriche che Spinoza stesso aveva potuto trarne. Delle
recenti ricerche mostrano come il dibattito non sia chiuso e che, rimuovendo i limiti
immaginari che riducono l’«imitazione degli affetti» all’identificazione dei «simili», la logica
spinozista potrebbe impegnarsi nel campo delle connessioni trans-specifiche tra umani e
non-umani di cui l’antropologia contemporanea testimonia44.
NOTE
1. Le Magazine littéraire, «Spécial Spinoza», novembre-dicembre 2017, n° 585-586, p. 84 e 88-89.
2. A. Schopenhauer, Le Monde comme volonté et comme représentation, PUF, 2004, p. 539
3. Intervista a Yves Citton, 30 novembre 2017.
4. S. Žižek, Organes sans corps, Éditions Amsterdam, 2008.
5. Intervista a Pierre Macherey, 26 ottobre 2017.
6. A. Tosel, «Pour une étude systématique du rapport de Marx à Spinoza», in A. Tosel, P.-F. Moreau et J.
Salem (a cura di), Spinoza au XIX siècle, Publications de la Sorbonne, 2007, pp. 127-147.
7. G. Kline (a cura di), Spinoza in Soviet Philosophy, Routledge/Kegan Paul, 1952.
8. A. Kojève, Introduction à la lecture de Hegel, Gallimard, 1989, p. 351 e 354.
9. J.-T. Desanti, Introduction à l’histoire de la philosophie, PUF, 2006.
10. «À propos de Spinoza. Entretien entre Alexandre Matheron, Laurent Bove et Pierre-François
Moreau», Multitudes, n°3, novembre 2000.
11. Intervista a Pierre-François Moreau, 8 febbraio 2018.
12. L. Althusser, «Éléments d’autocritique», in Solitude de Machiavel, PUF, 1995, p. 181.
13. L. Althusser, É. Balibar, R. Establet, P. Macherey et J. Rancière, Lire le Capital, PUF, 1996, p. 288.
14. L. Althusser, «Éléments d’autocritique», in Solitude de Machiavel, cit., p. 183.
15. Intervista a Pierre Macherey, 26 ottobre 2017.
16. Ibidem.
17. Intervista ad Antonio Negri, 16 gennaio 2018.
18. Ibidem.
19. A. Negri, L’anomalia selvaggia. Potere e potenza in Spinoza, in Spinoza, DeriveApprodi, 2018 (1998), p.
37.
20. Intervista ad Antonio Negri, 16 febbraio 2018.
21. J. Ceccaldi, «L’événement Spinoza», Multitudes, n° 2, maggio 2000.
22. G. Deleuze, «Ce livre est littéralement une preuve d’innocence», in Deux régimes de fous, Éditions de
Minuit, 2003, pp. 160-161.
23. P. Macherey, «Negri: de la médiation à la constitution», in Avec Spinoza, PUF, 1992, pp. 245-270.
24. Intervista a Étienne Balibar, 12 febbraio 2018.
:
25. Ibidem.
26. É. Balibar, «Spinoza, l’anti-Orwell. La crainte des masses», in La Crainte des masses, Galilée, 1997, p.
58.
27. Intervista a Yves Citton, 30 novembre 2017; intervista a Frédéric Lordon, 14 dicembre 2017.
28. Intervista a Frédéric Lordon, 14 dicembre 2017.
29. Intervista a Yves Citton, 30 novembre 2017.
30. Y. Citton, L’Envers de la liberté. L’invention d’un imaginaire spinoziste dans la France des Lumières,
Éditions Amsterdam, 2006.
31. Y. Citton et F. Lordon (a cura di), Spinoza et les sciences sociales, Éditions Amsterdam, 2008, p. 51.
32. F. Fischbach, La Production des hommes. Marx avec Spinoza, PUF, 2014.
33. Intervista a Frédéric Lordon,14 dicembre 2017.
34. F. Lordon, Capitalismo, desiderio e servitù. Antropologia delle passioni nel lavoro contemporaneo,
DeriveApprodi, 2015.
35. F. Lordon, La Société des affects, Seuil, 2013
36. G. Deleuze, F. Guattari, L’anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia, Einaudi, 1975.
37. Intervista a Frédéric Lordon, 14 dicembre 2017.
38. Intervista a Étienne Balibar, 12 gennaio 2018.
39. Y. Djedi, «Spinoza et l’islam», Philosophiques, vol. 37, n° 2, 2010, pp. 275- 298.
40. I. Segré, Le Manteau de Spinoza, La Fabrique, 2014.
41. Intervista a Ivan Segré, 7 dicembre 2017.
42. Intervista a Pierre-François Moreau, 8 febbraio 2018.