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- Alterità radicale, tipica dei processi di “costruzione dell’altro” nel medioevo russo, in cui il
rapporto tra cultura e extracultura si concretizza in un rovesciamento completo (ovvero due
culture si relazionano come opposte, l’una si presenta come un’inversione speculare
dell’altra);
- Alterità ‘più radicale’, che vede le strutture poste all’esterno della semiosfera come “non – strutture”, pura negazione
dell’ordine e della regolarità.
Secondo Lotman, ogni cultura crea il proprio sistema dei reietti. L’apparizione della cultura come sostanza formata non
può avvenire che destrutturando contemporaneamente un’altra cultura che viene ad occupare la posizione di
extrasemiotico. Per Lotman, la strutturazione della cultura e la destrutturazione di un’altra, sono elementi
complementari di uno stesso processo. La trasformazione urbanistica di Pietroburgo è considerata da Lotman e
Uspenskij come una manifestazione della fase di ristrutturazione semiotica della cultura russa che si definisce nel 1703
fondando Pietroburgo e facendole sostituire Mosca come capitale. Comparando lo spazio di questa città a quello di
Mosca, Lotman sottolinea come lo spazio urbano, denso di “simbolicità culturali”, sia sempre ‘orientato’, costruito
secondo il punto di vista di un osservatore ideale e riferito a qualche altro insieme – concreto o astratto – che ne
costituisce il modello.
Lotman riconosce che Mosca e Pietroburgo esprimono due concezioni opposte dello spazio:
- Mosca è centripeta: organizzata per centri che circondano e tendono al Cremlino, il ‘centro dei centri’, cioè tende verso
l’interno.
- Pietroburgo: è orientata verso il suo esterno, fuori di essa e fuori dalla stessa Russia, verso
l’Europa.
ZOLA: Roma gli appare confusa e irregolare, e gli unici elementi di grandezza sono rilevati, dallo scrittore, all’interno degli
edifici.
La grandiosità dei saloni e degli ambienti si oppone – in modo stridente – allo spazio pubblico della città, infatti Zola parla
di Piazza di San Pietro alle 22, triste e deserta, parla del foro come un
monumento in rovina, grigio e desolato, o ancora, il Campidoglio, il Corso, gli provocano un effetto
di “strettezza”, anche per via dei quartieri e delle abitazioni occupate malamente, visti i “panni appesi alle finestre.
Edmond About parla di Piazza Farnese così come Taine parla del Pantheon di Agrippa, ed è proprio il carattere “quasi
agreste” della città dei Papi a colpire i francesi, ovvero le vigne e le coltivazioni che circondano e rendono irriconoscibili il
Colosseo e altri resti romani eccezionali.
Ancora, Louise Colet osserva la Fontana di Trevi e vede contadini che, in quella piazza stretta,
vendono verdure.
Jean Jacques Ampère nota la differenza tra luoghi monumentali del passato e loro uso nel presente, come Piazza
Navona, uno degli angoli di Roma che hanno una fisionomia a sé, dato che si tratta di un mercato di ferraglie e di pascolo,
vecchi vasi e vecchi libri. La Roma del fascismo si definirà attraverso una rottura con questa città.
L’immagine della Roma papalina sottesa alle parole di Bernini è quella di una somma di microcentri
senza centro unico. ciò che per Bernini era potenza scenografica, per Zola era vuoto, deserto, contraddizione. Birindelli e
Ingersoll sottolineano che la città dei Papi possedeva una struttura urbanistica e viaria, altamente articolata che
connetteva in un unico percorso particolare le basiliche maggiori. Lo storico Labrot sostiene che Roma è stata strutturata
in questo modo per agire come un’arma semiotica contro la riforma protestante. Predisposizione di un impianto urbano
scenografico pensato sulla base del percorso dei pellegrini. Il caso più visibile è quello delle decine di sarcofagi trasformati
in fontane pubbliche nelle strade, in quel processo di esaltazione dell’acqua che per Labrot era teso a colpire i pellegrini
che arrivavano da tutta Europa, dopo aver viaggiato per tanto tempo in condizioni di scarsità d’acqua. Così come le
colonne e gli antichi imponenti monumenti posti di fronte alle basiliche o al centro delle piazze e “cristianizzati” e ancora
ampiamenti visibili nei quartieri medievali e rinascimentali. La città doveva diventare la rappresentazione della grandezza
del cattolicesimo.
La trasformazione del territorio è l’elemento più visibile attraverso cui il fascismo si è iscritto nella storia italiana.
L’accento è posto sulla risemantizzazione generale dello spazio urbano, finalizzata a esprimere una nuova identità
italiana che abbia inizio con l’Impero Romano e culmine ordinativo nel fascismo.
La trasformazione di interesse semiotico è quella in cui i monumenti antichi sono iscritti in una rete
di nuovi percorsi e punti di vista.
Kallis ad orientare la sua indagine è il concetto di “ricodifica” dello spazio urbano, per far emergere un nuovo livello
visibile nella città in cui le gigantesche rovine del passato monumentale siano connesse in un tessuto unitario
propriamente romano, che non ha spazio per i nuovi edifici fascisti.
Nello spazio urbano si cercherà di rendere gli effetti di senso del discorso politico-archeologico,
attraverso gli effetti di materialità della pietra. La manipolazione della storicità iscritta materialmente nel corpo vivo della
città, avrà esiti estetici più affascinanti del ripetitivo discorso degli pseudointellettuali del regime.
Il primo numero della rivista ufficiale del governatorato, Capitolium, esce volutamente il 21 aprile
1925, in coincidenza con l’anniversario della fondazione di Roma ed è in larga parte dedicato alla descrizione dei
progetti e dei primi di lavori di scavo dei resti romani che il tessuto urbano cela sullo svelamento dei resti della
“Roma imperiale”.
La rivista presenta una sequenza ininterrotta di azioni unitarie, raccontata come un unico processo
definito “ricostruzione”, “riscoperta”, “isolamento”, “disvelamento”, in cui la sequenza degli articoli
è un lungo elenco del serbatoio di memorie che la città contiene. Il fascismo manipola la “memoria culturale” espressa
dallo spazio urbano. Infatti, la descrizione dei monumenti diventa una valutazione normativa delle diverse “età” della
storia italiana: quella imperiale, quella dell’età di mezzo, del Rinascimento.
Non si manca di sottolineare come il periodo del Rinascimento abbia arrecato enormi danni al passato imperiale,
producendo un vero spettacolo di rovine quale si incontra dopo il più grave cataclisma e a cui ci si propone di porre fine
attraverso “l’isolamento della costruzione, oggi. All’interno della rivista si susseguono ricostruzioni di monumenti su
disegni e incisioni d’epoca, vedute fotografiche profonde. Ad essere in scena, invece, è la trasformazione culturale. Le foto
non raccontano che la storia muta delle cose, ed è proprio il racconto di questa storia muta ad implicare che le stesse
pietre siano costruite nel discorso come pezzi di memoria da ricomporre e presentati dalle immagini come luoghi vuoti in
attesa di una nuova attenzione futura. I luoghi sono pezzi di una storia da muovere a piacimento, come se nessuno li abiti
o li viva affinché il passato possa essere reso visibile e dicibile. L’autore Paluzzi propone di diffondere attraverso la
scuola, una sorta di “pedagogia del passato”, inserendo nei programmi scolastici alcuni temi che riguardano quali sono i
monumenti più importanti del quartiere oppure perché le strade che si percorrono hanno tutte dei titoli e nomi di
persona. Questo tipo di pratiche sono finalizzate a “far guardare” i monumenti messi in visibilità.
Si pensi ai quartieri di Roma le cui vie riportano i nomi dei “condottiere italiani” del medioevo e del rinascimento, degli
“eroi dell’aria”, al progetto di quartiere degli artigiani, al comunemente chiamato “quartiere africano”. Quella che è
definita una forma di “educazione” al passato, è in realtà una forma di “attualizzazione”, iscrizione di una memoria
culturale altamente selezionata nel presente della vita quotidiana.
52) I VILLAGGI ABISSINI sporcizia, distruzione baracche/famiglie, individui marginali (60 rom)
Alla fine del 1927, Mussolini e il Presidente dell’istituto Case Popolari – Calza Bini – intrattengono
una corrispondenza sulla celebrazione del V anniversario della “rivoluzione fascista” e lo stesso
Mussolini volle assicurarsi che fosse possibile spostare alcune centinaia di baraccati in nuove case.
Stilò un documento, nel 1927 – sempre – il cui titolo era “Lavori di sbaraccamenti di urgenza
compiuti in occasione del V anniversario della Marcia su Roma” a cui Carla Bini risponde con una lettera, in cui si
prospetta un’operazione di sparizione di un numeroso nucleo di baracche nel
quartiere San Lorenzo, approvando e supportando la proposta del Duce.
Si trattava di un vero e proprio spettacolo della distruzione.
Zucca nel 1931, sempre su Capitolium, parlerà della trasformazione “morale” che inizia dopo la
necessaria distruzione delle baracche. In questo caso, la mancanza morale degli abitanti delle
baracche è il punto di partenza delle narrazioni. L’articolo non manca di sottolineare l’“asepsi non
garantita” dei bambini abitanti nelle nuove case, una mancanza di pulizia fisica considerata segno di mancanza morale e
famigliare che solo il fascismo possiede la competenza per colmare.
Il direttore dell’ufficio di Assistenza sociale, Raffaello Ricci, parlò della demolizione delle baracche
in relazione alla “lotta antitubercolare”. In questo passaggio, le unità minime di costituzione della
popolazione – le famiglie – diventano l’oggetto dello sguardo del governatorato come “focolai di
infezione morale”, iscritti all’interno di un “immaginario epidemico”.
Nel discorso politico fascista, la famiglia sarà identificata come il “focolaio” di propagazione della
“malattia morale”. La SPORCIZIA è l’indice visibile della trasmissione di una “infezione morale” che è direttamente
collegata alle infezioni fisiche.
Alla grandezza ereditaria dei monumenti che esprimono la nuova / antica identità romana, si
contrappone una malattia morale ereditaria, familiare, complementare alle malattie epidemiche dell’epoca. La
popolazione baraccata sarà costante oggetto di preoccupazione e repressione. Si provvederà alla distruzione delle loro
baracche attraverso un regolamento preciso dal centro monumentale verso la periferia.
Invece, le borgate governatorali, gli alberghi per sfrattati e i ricoveri provvisori, condividono – dal
punto di vista dell’articolazione spaziale – alcune caratteristiche comuni. Si collocano in uno spazio
vuoto, in aperta campagna, non visibile dalla città. La borgata non ha storia, non c’è un tempo precedente alla sua
creazione iscritto o ricostruito in essa, a differenza della città storica la cui memoria è riorganizzata con cura maniacale,
mentre la borgata si caratterizza proprio per questa assenza di ogni segno commemorativo. Furono graduate su una
scala differenziata, partendo dai poverissimi alle borgate rurali, semirurali e per famiglie numerose. Poi, vennero
differenziate secondo le tipologie di case che le compongono come rapidissime, rapide, ultrapopolari, popolari, per
famiglie numerose, rurali, fino alle “baracche in muratura” delle borgate governatorali, le peggiori.
La differenza tra borgate migliori e borgate peggiori dà origine a un sistema spaziale di premi e punizioni legati al
luogo di abitazione. Nelle borgate migliori, dieci famiglie di inquilini in regola coi pagamenti degli affitti potevano
partecipare ad una lotteria annuale e potevano vincere lo “spostamento” nelle borgate migliori, mentre in quelle
peggiori venivano minacciati di essere inviati gli abitanti morosi e restii alla disciplina fascista. Vi era dunque un sistema
di punizioni “morale”, legato sempre al mancato pagamento degli affitti e alla violazione delle regole.
Villani cita due dei provvedimenti punitivi adottati all’interno degli alberghi per sfrattati:
- lo sfratto disciplinare
- il lucchetto disciplinare: consisteva nella possibilità di trovarsi la casa chiusa senza preavviso
con cui si punivano i morosi impedendo senza preavviso l’accesso alle abitazioni, fino ad
arrivare allo spostamento – attraverso lo sfratto – nei borghetti più poveri e marginali
Attraverso questi premi e punizioni, si attua un’opera di rieducazione e civilizzazione.
Ricci propone un modello medico di gerarchia morale in cui le operazioni politiche e urbanistiche sono tematizzate
come operazioni volte a condurre un “risanamento morale” della popolazione. Risanamento morale da ottenere
attraverso un provvedimento medico-poliziesco come individualizzazione, cellularizzazione e separazione preventiva
temporanea e rieducativa degli irregolari. Si tratta di un modello di una spazializzazione politica della popolazione che
emerge nel Piano regolatore del 1931 dedicato e ispirato direttamente da Mussolini.
Nel XVI secolo si scopre per la prima volta che anche le città hanno le loro malattie: epidemie, carestie, rivolte, e si cerca
di curarle politicizzando lo spazio, quindi normando le costruzioni, gli usi, ecc, Capitolium vuole operare nel corpo
collettivo della popolazione. Anche le popolazioni hanno malattie – che si spostano: dal corpo architettonico che le
ospita, ai corpi che li vivono. Il governatorato della città di Roma, nel 1925, inizia un’opera dettagliata di indagine sulla
Popolazione. Una grande quantità di dati statistici eterogenea, aggiornata, aggregata e pubblicata ogni mese, riguarda il
movimento di popolazione, il costo della vita e del cibo, i trasporti pubblici, la “lotta antimalarica” e il numero dei biglietti
dei mezzi pubblici emessi, ecc…
61) parallelismo tra la rappresentazione dei prussiani come un collettivo e la rappresentazione dei bambini
“sani” ai tempi del Fascismo
I soldati prussiani rappresentano una collettività gerarchizzata perché c’è l’ufficiale e ci sono gli altri che eseguono gli
ordini che sono de-individualizzati ed essendo tali si presentono sempre a coppie (8-12-6-4-2): nessuno di loro è un
attore individuale. I bambini nelle foto di gruppo visti come insieme compatto, coerente e sano sono tutti de-
individualizzati perché fanno le stesse cose nello stesso momento nello stesso ambito e mai nessuno è ripreso come
singolo e individualità. È riprese solo la massa di elementi dove il singolo può essere soltanto un ingranaggio di un grand
insieme che deve conformarsi agli altri. Così come i prussiani anche la foto dei bambini sacri è spersonalizzante.
67) PIERCE
Il punto di partenza della semiosi (cioè del processo di creazione, di formazione del significato) c’è la realtà esterna:
l’oggetto dinamico. L’oggetto dinamico è il dato bruto dell’esperienza, di per sé inconoscibile. Il segno rinvia a, a sta per
un oggetto dinamico. Il segno, per Pierce, non è composto da espressione e contenuto, come nella linguistica di Saussure.
Anche se nel tempo il significato del termine non è costante, sembra coincidere di più con quello di espressione. In
generale, però, Pierce usa un altro termine per indicare quello che abbiamo chiamato il Significante: Representamen.
Se il Representamen è l’espressione, il contenuto è il cosiddetto oggetto immediato. L’oggetto immediato non
corrisponde con l’oggetto dinamico (che è invece l’oggetto di per sé, quello presente nella realtà). Questo accade perché
un segno rappresenta qualcosa sempre da un determinato punto di vista. Peirce chiama ground l’aspetto dell’oggetto
dinamico che viene colto e veicolato da un determinato Representamen.
L’oggetto immediato è il modo in cui l’oggetto dinamico è focalizzato, e consiste nella somma degli attributi dell’oggetto
dinamico resi pertinenti dal segno.
68) LE INFERENZE
In Pierce e in molti filosofi e logici contemporanei il termine inferenza indica, in modo molto generale, un ragionamento
che porta da certe premesse a una conclusione.
- la deduzione non comporta alcun rischio interpretativo, perché si limita a calcolare una conseguenza logica.
- l’induzione ci permette di generalizzare e di scoprire nuove regole. Non è però mai certa e quindi comporta un rischio.
- l’abduzione parte da un risultato e da una regola e ricostruisce il caso che ha determinato il risultato. Si tratta del
procedimento alla base di ogni tipo di indagine, ma è molto rischioso. L’elemento cardine dell’abduzione è la regola che
viene scelta, ma anche se la regola spiega il risultato, non è detto che sia l‘unica spiegazione possibile.
I ROM
Ci fu un processo di spostamento dei Rom al di fuori della città. I nuovi campi saranno divisi in unità elementari tutte
uguali, disposte generalmente a scacchiera, e ad ogni famiglia verrà assegnata una piazzola individuale. I regolamenti
pongono particolare attenzione all’identificazione, al controllo dei movimenti dentro e fuori dal campo e all’articolazione
del tempo di sosta.
I regolamenti prevedono che le uscite e gli ingressi dei Rom presenti nei campi siano registrati e verificati come tutti gli
ingressi degli ospiti. Era prevista anche la probabile installazione di telecamere e videosorveglianze per rafforzare i
controlli e la sicurezza del villaggio. Si tratta di un vero e proprio controllo dei confini, non una semplice registrazione
delle entrate e delle uscite.
La recinzione di uno dei campi presi in considerazione presentava, al momento delle osservazioni, dei buchi e infatti una
piantina mostrava dove fossero posizionati i buchi nella recinzione, e spesso le telecamere di sicurezza venivano distrutte
e non permettevano di riconoscere gli abitanti.
Il regolamento dei campi mima un sistema di controllo ma è in realtà una strategia di fuoriuscita da condizione di
individualità degli abitanti, che riconduce alla massa indistinta e senza regole, affiancando in questo modo alla doppia
marginalità spaziale e alla provvisorietà temporale, una sorta di condizione di non-personalità. I “nomadi” non saranno
mai sedentari perché all’interno dei campi di sosta, l’assegnazione di posti è sottoposta a vincoli temporali rigidi. La
temporalità specifica del nuovo campo-sosta introduce una provvisorietà permanente dei soggetti autorizzati che avrà
come esito: l’impossibilità di una qualunque sistemazione permanente.
Infatti, se si entra nel villaggio, si è tendenzialmente tenuti a restarvi continuativamente, sulla base
degli articoli del regolamento relativi ai viaggi, ma sarà comunque necessario uscirne, prima o poi.
Questa temporalità, la definizione di nomade- clandestino come “non attore” impegnato solo a rendersi invisibile e la
condizione di aterritorialità, sono modi di esclusione dei “nomadi” dalla relazione con la società cui vivono ma anche di
costruzione discorsiva della pericolosità e della minaccia.
La tematizzazione dei Rom come nomadi insediati stabilmente, diventa la giustificazione per
l’espulsione. La collocazione dei nuovi campi rom in aree doppiamente marginali, rispetto alla città di Roma e alle
aree urbanizzate dei comuni limitrofi, è coerente con la tematizzazione discorsiva del soggetto pericoloso. In questo
quadro normativo è avvenuto lo sgombero di tutti i “campi nomadi” esistenti nell’area centrale e semicentrale della città
di Roma e si è proceduto alla distruzione delle abitazioni di fortuna e alla segnalazione con foto e impronte digitali di tutti
gli abitanti. Distruzione che, secondo Amnesty International, ha violato i diritti umani poiché non sono stati avvertiti prima
della distruzione delle proprie abitazioni.
I Sinti sono stati spostati “provvisoriamente” con i loro camper nei pressi del Gran Raccordo anulare, in attesa di una
nuova sistemazione ma orami ci vivono da 10 anni, altri hanno accettato di spostarsi in alcuni dei nuovi campi, i villaggi
della solidarietà. La posizione dei campi si situa al di fuori del nuovo confine della città in un luogo di “doppia
marginalità”, ovvero rispetto allo spazio e alla popolazione. Dopo l’inizio degli sgomberi, nel 2007, il numero dei campi
abusivi inizia ad aumentare.
Nel 2008, 133 campi erano irregolari e spontanei, abitati da 4179 persone, privi di luce, acqua, servizi igienici e il contatto
con le strutture assistenziali era nullo. Dopo due anni, i campi erano arrivati ad essere 153 e negli anni successivi
continuava a salire il numero.
I Rom hanno dovuto e voluto mettere in atto una serie di tattiche di risemantizzazione e ridefinizione identitaria.
Per esempio, alcuni di loro hanno scelto di andare a vivere nelle occupazioni abitative o di fare domanda per ottenere
un'abitazione di edilizia residenziale pubblica. Il che significa, in entrambi i casi, andare a vivere in una “casa fissa”, una
grande trasformazione che configura una rottura con l'abitare messo in atto da alcune persone e alcuni campi Rom.
Altre scelte hanno riguardato una affermazione dell'identità nella scelta dell’anonimato. Scelta che ha riguardato due
azioni di grande valore politico: la prima è stata il ricorso al Consiglio di
Stato contro i regolamenti emergenziali dei “Villaggi della solidarietà”, in cui si cercava proprio
quella relazione di riconoscimento con le istituzioni che le pratiche del controllo e
dell'autosegregazione negavano. L'altra è stata una occupazione simbolica della Basilica di San Paolo.
a Roma, realizzata dopo il venerdì di Pasqua, quando alcune famiglie rom furono sgomberate da un
campo vicino alla via Tiburtina e rifiutarono di disperdersi e formare altri microcampi, così il giorno
stesso si recarono tutte insieme nella Basilica, restandoci fino al giorno successivo. Sia i Sinti
che i Rom in modi diversi, si sono presentati come “identici”, riducendo le differenze con
l'autorappresentazione identitaria del paese ospitante. La loro somiglianza si è costruita dunque
sull'immagine non di sé stessi ma dell'altro, in funzione della quale hanno modificato la propria
modalità di “presentazione” di sé stessi.
70)concetto di isotopia ritrovato all’interno del libro la frontiera interna, ovvero, dove secondo te è
possibile trovare la ridondanza all’interno del testo
Possiamo trovare varie isotopie come l’Isotopia morale (=Titolo 54) isotopia dell’igiene (=Titolo 52 sporcizia) e isotopia
dell’ereditarietà (=guarda sotto!) che si intrecciano continuamente
ISOTOPIA DELL’EREDITARIETA’chi sono gli italiani? Sono i romani perché in qualche modo l’essenza romana è
qualcosa di sopito nel tempo ma che si può risvegliare con i segni immortali del foro. L’uso del latino vuole porre
l’accento sulla materialità della lingua. C’è un’enorme proliferazione di segni che riguardano il rapporto tra l’Italia e il
passato romano e che tendono sostanzialmente a dire l’Italia di oggi è l’impero romano di ieri, i romani sono gli italiani di
oggi. quali segni? Ad es. I nomi, Mussolini si fa chiamare duce che deriva dal latino. Poi abbiamo anche una ripresa
dell’archeologia perché l’archeologia manifesta l’identità attuale, cioè lo spazio è un segno dell'identità attuale. poi gli
inni, i canti, le uniformi sono armi, il fascismo ci tiene molto, ritorna l’isotopia della guerra ma tutto è mischiato attorno
all’isotopia tematica, ma anche all’isotopia dell’origine, isotopia biologica, isotopia appunto dell’ereditarietà, tutti questi
segni risvegliano la componente ereditaria imperiale romana degli italiani che si è sopita in tanti secoli di dominazione e
che ora il fascismo può risvegliare. I segni vengono diffusi dappertutto. Lotman chiama questi segni commemorativi. Vuol
dire spargere per tutta la società un’unica significazione ossia come dicevo che gli italiani sono romani, l’identità italiana è
l’impero romano a prescindere da tutto quello che c’è stato tra il fascismo e l’impero, che vuol dire fare una grande
ristrutturazione dell’identità della semiosfera, cioè trasformare il modo in cui la cultura pensa a se stessa, tutta questa
proliferazione di segni che dicono la stessa cosa è la celebrazione di un significato unico, a forza di essere ripetuto in
continuazione viene celebrato.