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Copyrights by Franco Borgogno, September 2013.

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AND THE RIVISTA DI PSICOANALISI

Franco Borgogno

A margine del lavoro di Rob Wille sui primi colloqui e sull'importanza del
costruire la fiducia nel corso d'essi: alcune considerazioni personali

A introduzione di questo lavoro di Rob Wille sui primi colloqui esordirei innanzitutto
con un breve ritratto della sua persona e figura di analista sia per come sono venuto a
conoscerlo in questi ultimi dieci anni sia per come mi sembra emergere dalla scrittura del
lavoro qui pubblicato.
Wille è persona pacata e rilassata, well-temperate si direbbe in inglese. E' sensibile,
paziente e rispettoso nei confronti dell'altro, ma sa anche fremere quando un eccesso di
intellettualismo e di esibizionismo narcisistico ha preso la mano dell'interlocutore
distanziandolo da ciò di cui si sta parlando in quel momento. Devo confessare che entrambe
queste sue caratteristiche mi sono immediatamente piaciute sentendole a me congeniali.
Allorché l'ho incontrato molti anni fa come chair e discussant di due panel in cui ero
uno dei relatori, ho subito apprezzato la sua competenza analitica in quelle situazioni, che ai
miei occhi è spiccata evidente nella sua disponibilità a porre in secondo piano i suoi pensieri
a favore del far lievitare (remunerativamente per tutti) con piccoli, ma diretti, commenti il
clima libero-associativo dei partecipanti a quei panel. Ho specificato, accanto all'aggettivo
“piccoli” “diretti”, volendo con questa precisazione sottolineare altri due suoi tratti
distintivi: da un lato, la capacità di essere semplice e al tempo stesso “al punto”, senza mai
diventare riduttivo e banale; dall'altro, il sapere non esimersi dall'infliggere sofferenza se
necessario, facendo confrontare per esempio l'altro (paziente o interlocutore) senza
tentennamenti e sconti (ma senza sadismo!) con ciò che avrebbe potuto anche produrre un
temporaneo dolore (un tema, questo, che Wille ha studiato nel 2005).
Foresti in un suo recente lavoro su “more-about interpretation” (2013) ha definito con
Joanne Greenberg, la famosa paziente psicotica di Frieda Fromm-Reichmann che ha narrato

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coraggiosamente la sua esperienza analitica con lei, l'insieme di queste qualità nei termini di
“matter-of-factness”. Una “matter-of-factness” che potrebbe essere appropriata altresì per
Rob. Una miscela, ossia, di corpo e mente, di maschile e femminile, di emozione e pensiero,
di lievità e solidità.
Quando poi nel 2012 ho invitato Wille a Torino per tenere alcuni seminari alla Scuola
di Specializzazione in Psicologia Clinica, non mi sono peraltro affatto stupito nello scoprire
ch'egli aveva tratteggiato in un suo scritto il processo analitico come uno “slow-ongoing-
process”. Uno “slow-ongoing-process” di cui l'analista non è l'interprete principale, ma
piuttosto uno strumento di cambiamento volto a facilitare il viaggio autoriflessivo del
paziente tramite un suo discreto e partecipe accompagnamento rispetto a ciò che questi gli
porta in seduta e a ciò che inconsciamente accade nella vicendevole interazione durante i
loro incontri (Wille, 2011), e una sua successiva impegnata metabolizzazione d'essi. Per
Wille, infatti, è il paziente che sin dai primi colloqui deve trovare la sua via e le sue parole
per esprimere il proprio mondo interno e la propria esperienza di vita entro lo spazio
analitico, cosicché l'analista deve – winnicottianamente – astenersi dall'indirizzare il suo
trend associativo con interventi e stimoli prematuri che potrebbero generare un disturbo a
lui non utile e corrispondere invece al tentativo dell'analista di cercare un fittizio sollievo a
bisogni e angosce personali.
A quest'ultimo riguardo, nel lavoro a cui ho appena fatto riferimento intitolato
Interpretation as a process, Wille opportunamente cita alcuni passi di Rilke che voglio qui
riportare poiché a mio avviso del tutto rappresentativi del suo modo di pensare all'analisi e
del suo stile analitico.

Qui non si misura il tempo, qui non vale alcun termine e dieci anni son nulla. Essere artisti vuol dire non
calcolare e contare; maturare come l'albero che non incalza i suoi succhi e sta sereno nelle tempeste di
primavera senz'apprensione che l'estate non possa venire. Ché l'estate viene. Ma viene solo ai pazienti [leggi:
alle persone pazienti], che attendono e stanno come se l'eternità giacesse avanti a loro, tanto sono tranquilli e
vasti e sgombri d'ogni ansia. Io l'imparo ogni giorno, l'imparo tra dolori, cui sono riconoscente: pazienza è
tutto! (Rilke, 23 aprile 1903, pp. 25-26).

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Passerei adesso direttamente al lavoro di Wille sui primi colloqui porgendone una
rapida sintesi ed enucleando soprattutto il cuore d'esso, che alla mia lettura segnala uno dei
fattori coinvolti nella diminuzione crescente del numero di pazienti disponibili, e cioè come
la mancanza di fiducia nel metodo psicoanalitico e nell'analisi stessa come trattamento
terapeutico efficace possa diventare un'ulteriore aggravante rispetto all'attuale situazione di
penuria di pazienti. E' d'altronde proprio la riflessione di Wille sulla fiducia – fiducia nello
strumento analitico e fiducia nel paziente e nel processo dell'analisi – uno degli elementi che
in pratica più mi ha sospinto a proporre al Direttore della nostra Rivista, Giuseppe
Civitarese, di fargli spazio nelle sue pagine in quanto rilevante contributo alla discussione
della comunità psicoanalitica intorno a questa problematica. La riflessione di Wille è del
resto anche un valido stimolo per i nostri allievi: essi – come sappiamo – sono oggi spesso
incerti e titubanti, e talvolta vergognosi (la vergogna è un altro tema su cui Wille si è
concentrato fra il 2009 e il 2010), nel proporre ai loro pazienti di intraprendere un cammino
così faticoso, lungo e sicuramente incerto e impegnativo, come quello analitico.
Ma non è solo questo il pregio del lavoro di Wille. Ve ne sono infatti perlomeno altri
due. Il primo è che a ispirare la disamina ch'egli fa della letteratura sui primi colloqui v'è la
dichiarazione da parte sua di un proprio personale cambiamento nel modo di procedere nel
corso d'essi. Wille in proposito ci dice infatti che durante la sua formazione negli anni
Ottanta ha via via abbandonato il suo precedente stile improntato alla tecnica classica del
tempo (i primi colloqui erano allora intesi in Olanda come “una situazione strutturata e del
tutto differente, nei contenuti e nella forma, dall'analisi vera e propria”; l'atteggiamento
dell'analista era piuttosto valutativo sulla base delle sue conoscenze e del suo sapere e, per
giunta, particolarmente distaccato e silenzioso...) arrivando ad ingaggiarsi di più con il
paziente a partire dall'analisi delle reciproche non consapevoli proposte interattive
intervenenti nel loro incontro. Ha iniziato cioè a concentrarsi principalmente sulle qualità
del mutuo “dialogo-azione”, com'egli lo chiama, constatando per questa via che a un
accresciuto avvicinamento al paziente e a un maggiore coinvolgimento nei suoi confronti
corrispondeva non soltanto un proprio più vivace impegno analitico e una raccolta di dati
assai più ricca per comprendere il reciproco funzionamento di “coppia al lavoro” e le
tensioni-difficoltà che permeavano il loro scambio, ma anche un maggiore impegno del
paziente medesimo a imbarcarsi in una relazione più intima e più orientata a un'esplorazione
psicoanalitica. E dulcis in fundo il risultato – per lui tutto subito sorprendente – di questo

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personale cambiamento è stato che i suoi pazienti sembravano riconoscere meglio il senso
profondo dell'analisi e diventare, in questo nuovo clima analitico, più interessati e pronti a
farne esperienza, differentemente da quanto succedeva a molti suoi colleghi, che al contrario
vedevano decrescere il numero di pazienti, a causa forse – commenta Wille –
dell'utilizzazione di criteri di accettazione più rigidi e meno generosi.
Il secondo pregio a cui prima ho accennato deriva invece dal fatto ch'egli ci presenta
nel dettaglio e in modo vivido una sua esperienza di inizio analisi con un paziente,
facendoci vedere passo a passo i movimenti emozionali che l'hanno caratterizzata e com'egli
ne abbia fatto uso ricavando da essi preziose informazioni sia sulla sofferenza soggettiva e
unica del paziente (sulle sue specifiche angosce e conflitti), sia sulla loro compatibilità a
poter in futuro lavorare insieme all'interno di un progetto analitico vero e proprio (il criterio
della compatibilità è diventato così per lui più importante rispetto a quello della
analizzabilità). L'esempio che Wille ci porta mette in luce com'egli parta nel costruire una
fotografia del paziente e una mappa del suo mondo interno non unicamente dal dare un
significato ai contenuti del discorso del paziente, ma piuttosto dagli accadimenti relazionali
sul campo e dal loro reciproco impatto, inclusi quegli accadimenti che si manifestano già
entro la prima telefonata e che riguardano non solo il modo in cui il paziente si annuncia ma
la simultanea risposta affettiva dell'analista (magari non sufficientemente pensata, per come
emerge nel suo materiale) alle comunicazioni di quest'ultimo e alla tonalità emotiva con cui
esse vengono porte; e come si disponga in “attesa fiduciosa”, per usare le parole di Freud
(1890), a vedere – prima di formularli al paziente – se nel prosieguo del loro incontro i fatti
clinici da lui registrati e le ipotesi esplicative che ne ha tratto trovano una loro conferma ed
evidenza. E' questa, difatti, per Wille la premessa per arrivare a un'esplicita più completa
verbalizzazione di quanto egli ha osservato: una premessa che sancisce come per lui sia
indispensabile fare spazio al paziente e darsi un giusto “tempo di riverbero” emozionale
(Birksted-Breen, 2012) per decidere come e quanto può restituirgli a seconda della sua
vulnerabilità (e severità di patologia) e della presenza di suoi punti di forza idonei alla
recezione di ciò che vuole dirgli, al fine – tutto ciò – di promuovere un ampliamento di
intimità nella loro conversazione.
Per i motivi di cui ho detto, le sedute che Wille ci presenta sono così una
dimostrazione convincente – non lo si ritrova peraltro se non raramente nella letteratura sui
primi colloqui – di come i primi colloqui possano essere occasione per “creare un paziente

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analitico” e contemporaneamente “far diventare quell'analista, analista di quel paziente”
attraverso la lenta e progressiva conquista di una fiducia reciproca che entrambi vengono a
guadagnarsi nel loro vicendevole scambio.

* * *

Che cosa a questo punto potrei aggiungere a questa mia introduzione? Due cose
essenzialmente: dire a volo d'uccello quali sono dal mio punto di vista le condizioni di
ascolto basilari che accendono la fiducia e facilitano un “good beginning” (Jacobs, 2013) e
porgere, quindi, un rapido elenco di elementi che ritengo rilevanti a proposito dei primi
colloqui e su cui – in quanto insegno da più di 10 anni questa materia alla Sezione Milanese
dell'INT e anche all'Università nei miei corsi di “Clinica psicoanalitica dell'ascolto” agli
studenti della laurea magistrale e agli specializzandi in psicologia clinica – avrei sempre
desiderato scrivere, mai realizzando tale progetto.
Le condizioni affettivo-mentali in questione, per usare un lessico a me consueto, sono:
la prima, il fatto che anche l'analista “viene da lontano”, non differentemente dal suo
paziente; la seconda, il suo doversi lasciare “inter-penetrare a livello emozionale” – come
dice lo stesso Wille, “fin dalle prime battute” – “diventando a sua insaputa ciò che il
paziente gli richiede inconsciamente di essere” allo scopo di entrare in contatto “viscerale”
con il suo dolore psichico e con la sua storia, facendosi d'essi un “testimone vivente”
(Borgogno, 2007, 2013). Come infatti da anni vado scrivendo servendomi del Bion di
Cogitations (1992), ogni paziente rivolgendosi a qualcuno che lo aiuti e che presti soccorso
alla sua mente non vuole ricevere interpretazioni, ma bensì sapere che l'analista conosce di
persona ciò di cui lui soffre e constatare che è disponibile a sperimentarlo sulla propria pelle
e a fargli vedere le soluzioni e i compromessi a cui lentamente lui stesso giunge nel farsene
temporaneamente carico.
Ritorno ancora per un attimo sulla prima di queste condizioni, una condizione che
pone in risalto anche Bolognini (2006) quando parla dell'importanza che l'analista faccia
ferenczianamente riferimento alla “memoria di sé” (curiosamente Bolognini però non cita
Ferenczi, ma si deve a lui questa sottolineatura, vedi Ferenczi, 1927-1928). Alla memoria,
cioè, d'essere lui stesso stato un neonato, un bambino, un pubere, un adolescente, un
giovane adulto, e altresì un paziente che in molti frangenti di vita ha dovuto ricorrere a una

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persona più matura e competente di lui per trovare conforto e consiglio per un'infelicità e
una turbolenza emotiva che lo tormentava ma di cui da solo non riusciva a venire a capo
(non riuscendo sovente peraltro, osservava Ferenczi, a ricevere il conforto atteso e la
risposta appropriata). E' di fatto per l'appunto questo tipo di riconoscimento (il riconoscere
una comunanza di destino che si esprime nel ricordare il proprio passato e l'esperienza di se
stessi come pazienti) che, se mantenuto presente e costante nella sua mente e nel suo cuore,
può motivare e indirizzare l'analista a comprendere le molte facce del dolore psichico del
suo paziente stemperandolo e bonificandolo nella misura in cui egli – rammentandosi della
propria infanzia e della propria analisi – può percepire come dietro all'apparente mostruosità
e catastroficità con cui esso si manifesta ed entra in scena non vi sia altro che eventi e
problemi fisiologici e ordinari, che sono tuttavia divenuti tali – fisiologici e ordinari – solo
con il “senno del poi”, grazie all'essere stati un tempo raccolti da qualcuno che, capace di
memoria di sé, li ha potuti intendere in una “prospettiva di futuro”. Vale a dire, offrendo
quell'“atto di credito” che è indispensabile al processo di crescita e che fa “contrasto” con
quei tipi di risposta ansiosa e ambivalente che, anziché portar sollievo, aumentano e
aggravano il malessere patito poiché anche chi dovrebbe porvi rimedio non può o non vuole
accettarlo e viverlo (si tratta, in questi casi, del prevalere del “terrorismo della sofferenza” –
purtroppo comune anche fra gli analisti – di cui Ferenczi ha trattato in tutto il suo percorso
di vita e opere; Ferenczi, 1932).
Quanto alla seconda condizione, intrinsecamente collegata alla prima, vorrei limitarmi
a dire che il “diventare momentaneamente il paziente” che si fa promotore di fiducia non è
affatto qualcosa che l'analista decide programmaticamente di fare, ma è piuttosto quella
disponibilità profonda che lo rende pronto a “lasciarsi trasformare nel e dal processo
analitico” affinché con il tempo possa il paziente stesso imparare a farlo prendendo
dimestichezza con i sentimenti e i fatti psichici che non conosce, che lo turbano e che gli
fanno paura. Se l'analista d'altronde pone un “no-entry” all'esperienza emozionale,
volendola per esempio pensare anziché sperimentarla, come potrà il suo pavido e timoroso
resistere a un possibile enactment spronare il paziente a quel vivere la vita psichica e a
quell'autentico pensiero elaborativo che è la precipua finalità dell'analisi? Il succo è perciò,
in sostanza, che – per pervenire a formulare la sofferenza intima di una persona – come
analisti dobbiamo immergerci ed esserne disturbati prima di emergere e, come avrebbe detto
Ferenczi (nella mia visione l'“analista introiettivo” per eccellenza), “mangiare” e “mandar

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giù” perché si renda possibile quel working-through consustanziale al nostro metodo di
lavoro (Borgogno, 2009).

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Vengo infine, a conclusione, all'elenco degli elementi che ritengo centrali per ciò che
riguarda i primi colloqui, un elenco che spero possa essere di interesse soprattutto per i
nostri candidati.
 I primi colloqui – che, come dice Semi (1985), “non si scordano mai” – sono un
momento speciale e delicato, pieno di intense aspettative e di intensi timori, non solo per il
paziente ma anche per l'analista. Al pari di tutti gli inizi (primo giorno di scuola, prime
esperienze amorose e sessuali, incontri con nuovi amici, cambi di casa, ma anche
certamente nascita di un figlio) sono quindi forieri di illusioni e di delusioni, che vanno
attentamente monitorate dentro di sé e in parte discusse con il paziente.
 In quanto “incontri al buio”, incontri non predeterminabili a priori fra il proprio
mondo interno e il mondo interno di un estraneo (Ogden, 1989), espongono a ciò che non
conosciamo e talora a qualche aspetto (del paziente o nostro) non immediatamente
accessibile e configurabile. Il che è naturalmente un'altra fonte di ansietà (persecutorie e
depressive) che vanno intercettate e governate dal momento che esse, come succede con la
grave patologia, minano la curiosità, l'apertura mentale, la speranza tanto indispensabili in
questi momenti di iniziale reciproca conoscenza.
 I primi colloqui sono per il paziente quasi sempre traumatici a causa del suo venire a
dipendere da un altro che non conosce e del sentire di non avere alcun controllo sulla
situazione minacciosa che egli avverte incombere su di lui. Producono pertanto regressione
e reazioni abnormi di vario genere rispetto a cui si tratta di “fare la tara”. Ciò va tenuto in
mente soprattutto nel senso che non ci si deve affrettare a fare valutazioni sul paziente che
sovente nel prosieguo degli incontri non vengono confermate, ma possono ciononostante
influenzare il nostro giudizio e il nostro atteggiamento.
 Come un good beginning non significa in ogni caso a good progression, data la
complessità e la vulnerabilità che connotano gli incontri ad alto impatto, così un inizio
burrascoso e disorientante, pieno di sospetto e diffidenza, non deve disarmare poiché può

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trasformarsi in un rapporto analitico soddisfacente se vengono individuate le radici inconsce
della tempesta emotiva, spesso reciproca (i sentimenti sono contagiosi!), che si è scatenata.
 I pazienti (che possono apparire a noi estranei o familiari) ci toccano, ci ispirano, ci
divertono, ci frustrano, ci demoralizzano, ci fanno annoiare, ci eccitano, ci rendono
arrabbiati, ci sorprendono, ci atterriscono, e altrettanto facciamo noi nei loro confronti...,
sebbene il più delle volte non intenzionalmente. Qualsivoglia sia la risonanza che destano in
noi, essa è comunque il migliore punto di partenza per conoscerli al di là di quanto dicono di
se stessi, anche quando possiamo riconoscere nella nostra reazione un quid idiosincratico
appartenente alla nostra persona, e altresì un buon punto di partenza per vagliare, dopo
avere constatato se e come utilizzano il rapporto con noi e le nostre proposte esplicative, sia
il nostro interesse e la nostra volontà di prenderli in carico, sia il loro interesse e la loro
volontà di affidarsi e di essere presi in carico da noi.
 I pazienti creano inconsapevolmente all'interno dei primi colloqui l'ambiente da cui
provengono indipendentemente da ciò ch'essi sono in grado e vogliono raccontarci della
loro vita, delle figure genitoriali che li hanno cresciuti e delle identificazioni o non-
identificazioni che sono consapevoli di avere effettuato. Noi siamo soliti considerare essere
questa la fonte della storia utile all'analisi, quella ossia che si viene a delineare nell'incontro
con noi. E' tuttavia del tutto controproducente non mostrare attenzione e curiosità, facendo
domande (in particolare sui tasselli d'essa che a noi paiono mancanti e sugli affetti assenti),
su quello che loro ritengono essere il percorso di vita che hanno attraversato e che li ha
condotti a una richiesta di aiuto. Soprattutto fondamentale è sondare la storia delle loro
sofferenze e capire se essi le hanno riconosciute e vi hanno pensato su, e come hanno
cercato di affrontarle – operazioni difensive, pattern relazionali ricorrenti e risorse –
dimostrandosi, di fronte alle difficoltà vissute, capaci o no di recupero; e, indubbiamente,
esplorare che idea si siano fatti rispetto alla loro origine e al rapporto che si è istituito fra noi
durante i nostri incontri.
 Come giustamente ha osservato Klauber (1972), i primi colloqui non sono l'analisi e
neppure un'“analisi in miniatura”. In essi è l'ascolto che deve essere psicoanalitico, non la
tecnica; e ciò principalmente per un problema etico (è questo il motivo per cui per parecchi
anni ho chiesto di aggiungere al titolo del mio corso ai candidati sui primi colloqui “ed etica
psicoanalitica”). Perché per un problema etico? Perché al tempo in cui iniziai il training era
frequente l'abitudine di prendere in analisi i pazienti a scatola chiusa, quasi alla cieca, a
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prescindere dal fatto che l'analisi fosse per loro il trattamento più idoneo, nella convinzione
– alquanto onnipotente e maniacale – che l'analisi servisse in ogni caso e che fosse un
“optional” valutare più nel dettaglio l'adeguatezza del paziente ad essa (il fare ciò veniva
spesso addirittura considerato una resistenza dell'analista). A mio gusto, questo modo di
procedere stonava: lo sentivo poco rispettoso dei pazienti e poco etico in quanto ritenevo
che l'analista dovesse fare una diagnosi delle sofferenze dei pazienti e discutere con loro
onestamente e ampiamente come lui vedeva la loro situazione. A quei tempi, inoltre, un
analista che faceva domande non era un “vero” analista poiché l'analista “vero” interpretava
e non faceva domande. Ma io mi chiedevo: “Come si fa a interpretare se non si hanno dati
sufficienti e se non si capisce più di tanto?”, per cui procedevo a modo mio facendo tutte le
domande che ritenevo necessarie perché volevo capire chi fosse quel paziente e se era adatto
a me e per me analizzabile. Certo, allora, a causa della mia insicurezza e inesperienza,
estendevo un po' troppo il tempo dei colloqui, ma – sia come sia – il mio fare domande e
commenti chiedendo al paziente di completare la mia impressione arricchiva il confronto,
come arricchiva il confronto guardare a come egli rispondeva ai miei interventi e anche a
piccole interpretazioni di prova. Questo è così rimasto il mio stile, che mai ho cambiato
perché non fruttifero o controproducente, sebbene talora mi sia trovato anch'io a prendere in
analisi una persona non attraverso una decisione più consapevole, ma perché mi ero mosso
con lei nei nostri incontri iniziali come se si trattasse già di un'analisi. Causticamente,
Luciana Nissim Momigliano in una serata scientifica disse: “Non si sbarca assolutamente,
inviandolo ad altri, chi ormai abbiamo imbarcato e abbiamo attaccato a noi” (ecco qui un
altro motivo per cui non è etico condurre i primi colloqui alla stregua di un'analisi). Come
ultima ragione riguardo a questa mia posizione, vorrei dire che il paziente è venuto da noi, si
è aperto, ci ha confidato molte cose di lui stesso, anche quando ha manifestato circospezione
e chiusura. Perché dunque non essere anche noi aperti con lui sottoponendo al suo vaglio ciò
che abbiamo capito o non capito in modo che lui possa ancora dirci la sua e concorrere così
a rendere più precise e fondate le nostre opinioni? Anche in analisi vale la regola della
reciprocità, cosicché dal mio vertice non è analitico rimanere silenziosi e non rispondere ai
suoi dubbi e alle sue domande in quanto, all'opposto, sarebbe invece utile comunicargli a
nostra volta le nostre stesse incertezze e buchi di comprensione, al fine di potergli
eventualmente dire qualcosa di più su cosa sarebbe bene che facesse per migliorare la sua
vita e di avere il tempo che occorre per scegliere se inviarlo a un'analisi, con noi o con chi ci

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pare a lui confacente. Non sono così per me, in definitiva, le risposte a uccidere le domande,
quanto semmai le risposte analiticamente non appropriate e il lasciarle cadere nel vuoto e
nel silenzio. Il silenzio e il vuoto sono certamente motore dell'analisi, ma solo quando una
risposta non è possibile, anche se pure in questa circostanza v'è una risposta: il comunicare
al paziente che non è possibile per il momento avere una risposta rispetto a ciò che lui
chiede e che forse un lavoro sodo su di lui e fatto insieme a lui potrà soddisfare la sua
richiesta. Meglio, in breve, un'identificazione eccessiva che una troppo debole: è
quest'ultima che non è perdonabile.
 Venticinque anni fa Bott Spillius nei suoi seminari genovesi ci invitava a
immaginare come si sarebbe sviluppata un'analisi dopo che si era completato l'intake.
Suggeriva in tal modo come l'elemento prognostico fosse rilevante, come cioè fosse
rilevante pre-figurarsi in termini di transfert e controtransfert che cosa sarebbe potuto
succedere in un'analisi. E in effetti, per chi indirizza lo sguardo in questa direzione, i primi
colloqui sono realmente un “biglietto di visita” (Borgogno, 1999) che il paziente ci mostra
in quanto i prototipi relazionali che si evidenziano in essi possono essere un “avant-coup”
(Brosio, Vigna-Taglianti, 2012) dei processi di ripetizione che prenderanno corpo e spessore
in quella specifica coppia analitica. Ma a parte ciò vorrei terminare affermando che non c'è
predizione che tenga, poiché quanto avverrà in un'analisi non può in alcuna maniera essere
previsto per il semplice fatto che i fattori in gioco sono troppi, e congedarmi con alcuni
pensieri che sento ispiratori. Con Anna Freud che paragonava il setting dell’analisi al buio
del teatro e del cinematografo; con chi dopo di lei (molti; ma si veda per tutti – per quanto
riguarda l’Italia – il recente contributo di Civitarese su cinema e psicoanalisi; Civitarese,
2013) ci ha detto che non bastava lasciarsi andare con il pensiero ma che avremmo dovuto
metterci “cuore, pancia e stomaco” e divenire a tutto tondo attori e interpreti, non poche
volte nostro malgrado, dei drammi inediti (di conseguenza non solo quelli del passato) che
si rimetteranno in scena nell'analisi; e con Paula Heimann che al culmine della sua carriera
di psicoanalista ha sostenuto fortemente che la psicoanalisi non può essere unicamente
“ricerca nel paziente” e “ricerca con il paziente”, ma “ricerca – attiva e responsiva – del
paziente” alla cui base v'è la personale conoscenza di vita nel piacere e nel dolore
dell'analista stesso e la sua generosità nel porla intuitivamente (prima ancora di divenire
consapevole del gesto che compie) al servizio del paziente e dei suoi “potenziali sé, taciti e
inespressi” (Borgogno, 1999).

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E' di questa stoffa che infatti è intessuta l'analisi fin dai primi colloqui.
L'immedesimazione immaginativa fondata sulla memoria di sé, l'essere recettivi lasciandosi
– come ci ha detto Wille – “inter-penetrare”, il non stancarsi nel cercare e ricercare il
paziente costituiscono invero la nostra forza elettiva affinché abbiano luogo quei fatti
psichici nuovi e quella nuova significazione di sé, del proprio passato e della vita che si ha
davanti a sé, che – indici di trasformazione e risanamento – permettono di “spiccare il volo”.

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Wille R.S.G. (2012). Het vertrouwen van de analyticus in de psychoanalyse en de
communicatie ervan tijdens de eerste gesprekken. Tijdschrift voor
Psychoanalyse, 18 (2), 86-98 [Engl. Tr. The analyst trust in psychoanalysis and

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