Per gli studiosi degli anni sessanta e settanta la moda era un oggetto che Susy Porter e Mike
Nichols da Maxim’s
incuriosiva, in parte anche attraeva per il suo trasformarsi proprio in quel-
a Parigi, 1962 (Fotografia
l’epoca da pratica di distinzione sociale, la moda di classe, a pratica espres- Richard Avedon)
siva e comunicativa, la moda “degli stili di vita”, ma che veniva aspramente
criticato in quanto uno dei fenomeni di neomania indotti dal capitalismo.
Sulla scorta della Scuola di Francoforte, nella propensione ai consumi veni-
va individuata una possibile deriva dall’impegno sociale. Gli studi recenti1,
al contrario, si sono focalizzati principalmente sull’interpretazione della
varietà di significati di ciò che va sotto il termine moda, cercando di liberar-
la dalla connotazione effimera di cui ha sofferto a fasi alterne sin dai tempi
della polemica settecentesca sul lusso. Già Jean Baudrillard2, seppure
assai critico nei confronti della moda, che secondo la sua analisi promette
un’uguaglianza di fatto introvabile nelle società capitaliste, riteneva che la
moda offrisse il terreno per analizzare aspetti significativi delle nostre
società. Il continuo rinnovamento di segni, la perenne produzione di senso,
solo in apparenza arbitrario, nel mistero intatto dell’alternanza dei suoi cicli,
sono l’espressione più efficace della nostra società contemporanea. Con il
tramonto della moda come distinzione sociale e l’inizio dell’era della moda
aperta3, nuovi significati si presentano pronti a essere veicolati dalla moda,
emblema dei consumi culturali della società contemporanea. Nella società
tardo-capitalista dei consumi l’accresciuta importanza della moda in quan-
to comunicazione è più che evidente. Non solo la forma moda influenza,
ma plasma le modalità del desiderio e dell’immaginazione. Il desiderio di
“muoversi con la moda”4 fa convergere in modo crescente le nozioni dello
stile sul corpo vestito e la nostra attenzione si focalizza sull’insieme delle
pratiche che definiscono l’identità. La moda è dunque attività antropoietica
per eccellenza, serve, cioè, a “fare umanità”5. Attraverso i suoi must la
moda fornisce indicazioni su cosa è giusto o non è giusto indossare e ci
prepara per l’immediato futuro, facendoci assaporare le anticipazioni dei
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gusti e delle tendenze. Scrive Ugo Volli: “Quando ci mettiamo un abito
diciamo quello che siamo, e gli altri lo capiscono. Vestirsi è scrivere la pro-
pria identità sul corpo, comporre frasi relative secondo una grammatica
pubblica e facilmente decifrabile (anche se mobile), tradursi e tradirsi in
forma di tessuto”6.
Intendere la moda come comunicazione significa postulare l’esistenza di un
suo linguaggio specifico. L’abito è uno dei molti sistemi di comunicazione
non verbale, cioè di una comunicazione che non coinvolge il parlare o lo
scrivere, come i gesti, gli sguardi, la prossemica, ma che è altrettanto effi-
cace. Proviamo a elencare somiglianze e differenze tra il linguaggio della
moda e la lingua vera e propria. Diversamente dal linguaggio che si basa su
segni e regole per la combinazione di essi in specifici messaggi, l’abbiglia-
mento non possiede la medesima qualità generativa. La parola, inoltre, è
più arbitraria e meno ambivalente. Il significato di alcune combinazioni di
abiti o dell’enfasi su un certo stile varia infatti in base all’identità della per-
sona che indossa quegli abiti, all’occasione, al luogo, alla compagnia e “per-
sino a qualcosa di così vago e passeggero come lo stato d’animo di chi
indossa e di chi osserva”7. Per alcuni autori è proprio la nozione di ambiva-
lenza, nelle sue varie espressioni, di genere, tra il maschile e femminile, di
status tra le classi sociali e tra ricchezza e povertà, e della sessualità nella
dicotomia erotico-casto, a costituire la materia stessa di cui la moda è fatta
e si nutre.
Potremmo dire che in gran parte la nostra identità, il senso di chi e che cosa
siamo prende forma nella misura in cui bilanciamo e tentiamo di risolvere
le ambivalenze che la nostra natura, il nostro tempo e la nostra cultura ci tra-
smettono. E l’abbigliamento, pur avendo avuto come scopo iniziale quello
di proteggerci dagli elementi della natura, entra oggi a far parte della gestio-
ne dell’ambivalenza al pari di altri mezzi, già di per sé fonti di comunicazio-
ne, a nostra disposizione per la comunicazione del sé: la voce, il portamen-
to e il movimento del corpo, le espressioni facciali e gli oggetti materiali di
cui ci circondiamo8.
Eppure la comunicazione della moda, pur nell’ambivalenza che la caratteriz-
za, ha un suo valore specifico di cui siamo tutti consapevoli. È dall’ambiva-
lenza della condizione umana messa in scena e spettacolarizzata, tuttavia
resa innocua nelle sue reali conseguenze, che deriva il fascino della moda,
come fosse un “continuo palcoscenico della rappresentazione di noi stes-
si”9. Moda e abbigliamento veicolano significati culturali obliqui che il lin-
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guaggio con la sua natura esplicita non potrebbe veicolare. Come la cultura
materiale in genere, la moda può infatti parlare “sotto voce”10 e come la
musica possiede un valore altamente metaforico. Punto di incontro tra
corpo, abito e cultura, la moda indica un fenomeno sociale dalle ampie impli-
cazioni che soprattutto in epoca contemporanea si delinea dunque come una
sorta di esperanto. Basti pensare ai marchi del cosiddetto lusso globale che
attraversano confini geografici ed economici mantenendo miracolosamente
intatto il loro potere comunicazionale. Precisamente per le sue caratteristi-
che compositive e per la sua ambivalenza nonché per la sua duttilità, la moda
funziona in un certo senso come il pensiero mitico11, cioè produce nuovi
significati servendosi di pezzi esistenti, come anche il caso del vintage illu-
stra. Tra i primi a sostenere che la moda prenda vita attraverso i sistemi
comunicativi che ne costituiscono il senso è Roland Barthes12 nel suo pio-
nieristico saggio sul sistema della moda. Analizzando la “moda scritta”, in
particolare le didascalie delle riviste di moda, Barthes provocatoriamente ne
sottolinea gli aspetti più sottili (e perversi, in quanto rivelatori delle discrimi-
nazioni che il capitalismo produce) di sistema di comunicazione. Il codice
vestimentario proprio perché più instabile del linguaggio può anche precede-
re il linguaggio nello svelare nuovi comportamenti e istanze sociali. È un
mezzo per molti aspetti imperfetto, ma con un potere talmente forte da ren-
derlo indispensabile nella trasmissione della cultura nella sua complessità. Il
concetto di destino personale, di scelta e di responsabilità individuale legato
all’emergere delle società liquide13 ha nei rituali del guardaroba e nelle prati-
che di cura del corpo i suoi esempi più notevoli. Come sostiene Michel
Maffesoli14, mentre la politica era il tratto distintivo della modernità, l’esteti-
ca è quello della nostra società definita di tarda-modernità. La ricerca esteti-
ca che contraddistingue la nostra epoca trova nei meccanismi della moda il
luogo dell’apprendimento più immediato. Non si tratta soltanto di un codice
semantico, scrive a questo proposito Lars Svendsen, quanto di un effetto
estetico: “Dobbiamo optare per uno stile di vita che, in quanto stile, farà
della nostra preferenza una decisione estetica fondante. L’estetica pertanto
diviene il centro della formazione dell’identità”15.
La prevalenza degli stili di vita sulle classi sociali, che in termini sociologici Nelle pagine successive:
Il chi c’era nella Sala
segna il passaggio dalla cultura della produzione alla cultura del consumo, Bianca di Palazzo Pitti,
si accentua dopo gli anni sessanta e soprattutto negli anni ottanta, quando 1954 (Disegno Brunetta)
e Il pubblico di Palazzo
la moda inizia a divenire un segno in grado di significare estetica, moderni- Pitti, 2001 (Disegno
tà, democrazia, culto della giovinezza. L’Italia ha un ruolo fondamentale in Paolo Fiumi)
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questo passaggio che trasforma la moda da industria produttiva a industria
prevalentemente culturale16. Con l’innovazione apportata dagli stilisti mila-
nesi, cioè con il connubio tra stilisti e industria tipico del prêt-à-porter, si
esce dal registro del lusso e si entra in quello della diffusione popolare. In
pochi anni, come noto, la moda diviene un bisogno sociale diffuso e lo
shopping di moda una delle attività preferite dal pubblico. Le proposte si
diversificano, lo stilista propone modelli di comportamento estetico cui
risponde un’accresciuta capacità di usare la moda come strumento espres-
sivo e attivazione di consonanza con i propri simili. La moda, che possiamo
anche definire come un universo immaginario di possibili scelte individuali
e sociali17, è divenuta dunque in epoca recente un mezzo di comunicazio-
ne di massa che “si riproduce e diffonde secondo le sue proprie modalità e
che, al tempo stesso, entra in relazione con altri sistemi massmediatici”18.
Proprio perché la moda è comunicazione essa stessa, indiretta, ambivalen-
te, ma estremamente puntuale ed efficace, può anche entrare in conflitto
con i tradizionali metodi di comunicazione, in modo particolare con la pub-
blicità. Per poter seguire, interpretare, promuovere, diffondere capillarmen-
te le novità che la moda presenta, la pubblicità tradizionalmente intesa non
è mai stata sufficiente, come invece per la maggior parte degli altri prodot-
ti. La capacità di intrecciare narrazioni è centrale nel processo di affermazio-
ne del vocabolario della moda e dei suoi simboli. L’attività di PR, cioè le pub-
bliche relazioni, è stata per questo parte integrante e fondamentale per tra-
smettere ai consumatori degli anni ottanta, desiderosi, ma ancora incerti
del loro gusto, quella sicurezza che si traduce nelle giuste coordinazioni sti-
listiche. La moda richiede sempre l’ausilio di professionisti che siano porta-
tori di quello che Joanne Entwistle19 definisce il “sapere estetico implicito”.
Chi è dotato di conoscenza estetica implicita è caratterizzato da un approc-
cio intuitivo alla realtà e dall’abilità di tradurre l’esperienza sensoriale del
mondo dello stile in un discorso coerente e comprensibile, ma che lascia
intatta tutta la sua magia fatta di allusività e ambivalenze. Più diversificate
rispetto agli anni ottanta, le cosiddette “pubbliche relazioni” restano oggi un
elemento fondamentale della comunicazione della moda, in un mondo fatto
di consumatori più consapevoli, ma sempre pronti a essere sedotti dalle
storie e dagli eventi che la moda suscita, evoca. Agendo da intermediari cul-
turali, da un lato la/il PR traduce, dall’altro diffonde, in entrambi i casi con-
tribuisce a divulgare una cultura della moda. È come se le PR garantissero
la comunicazione intesa come da etimo “messa in comune”, a differenza
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della pubblicità che fungerebbe in molti casi da mera informazione. Moda e
pubblicità in effetti sono due sistemi autonomi i cui relativi codici non pos-
sono essere “prestati” l’uno all’altro, come ha dimostrato Grant David
McCracken, in quanto entrambi trasmettitori di valori culturali assai potenti.
La saturazione di pubblicità, inoltre, porta alcuni analisti a sostenere che nel
campo della moda essa sia in declino a fronte di una crescita di importan-
za delle PR: “Secondo i sostenitori di questa tesi, la provenienza dell’infor-
mazione da una fonte percepita come neutrale contribuirebbe a dare credi-
bilità al messaggio, diversamente da quanto avviene con l’informazione
pubblicitaria”20.
L’effetto “immedesimazione” che caratterizza la comunicazione dei fashion
blog odierni, in cui il soggetto che comunica è anche l’oggetto che promuo-
ve, è stato in un certo qual modo anticipato dalle PR della moda che hanno
saputo per prime – si trattava in genere di donne – modificare quel vissuto
di distanza che la moda aveva in passato. La moda è il risultato di una serie
di scelte fatte da molteplici attori in un percorso che trasforma i capi di abbi-
gliamento in pezzi di cultura. Il valore della moda è definito dalle attività col-
lettive e dalle pratiche degli operatori del settore proprio perché i mercati
della moda sono configurazioni metaforiche che mettono insieme aspetti
culturali e aspetti economici21.
Probabilmente perché culturalmente distanti, se non addirittura diffidenti,
nei confronti dei metodi e degli strumenti tradizionali, come le agenzie di
pubblicità e gli istituti di ricerca tarati sui beni di largo consumo, le aziende
e i designer di moda hanno dunque generato sistemi inediti di comunica-
zione. Benché diventata un bene di largo consumo essa stessa, la moda
conserva infatti una sua peculiarità di prodotto che parla a individui che si
riconoscono in particolari modi di vita, e non a moltitudini eterogenee.
Poiché il prodotto abbigliamento, più di altri, è un prodotto “nudo”, vestito
dalla comunicazione, alcuni ritengono un po’ provocatoriamente che la
moda si sia addirittura affermata senza ricorrere alle usuali strategie di mar-
keting degli altri comparti di consumo, quasi per caso e come segno della
sua differenza qualitativa rispetto ad altri prodotti e servizi. Quello che è
certo è che il suo marketing mix è stato anomalo e molto innovativo. Le
aziende della moda, spesso in modo inconsapevole e spontaneo nei primi
anni, molto più organizzato e razionalizzato in tempi recenti, hanno fatto
ricorso a un loro specifico marketing. Ecco perché ha caratterizzato il com-
parto della moda un uso creativo del mix di marketing, cioè delle tradiziona-
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Maria Pezzi, abiti li “quattro P” descritte nei manuali di marketing – prodotto, prezzo, posto
di Missoni, San Lorenzo,
(distribuzione), pubblicità – trasformandole in una unica “grande C” in cui
Roberta di Camerino
e Krizia, in supplemento ogni elemento è comunicazione esso stesso22.
di “Il Giorno”, 1975-1980 Il gioco della comunicazione con la moda e della moda si allarga e restrin-
ge in continui rimandi che non possono essere interamente razionalizzati,
come una lucciola estiva che scompare nel momento stesso in cui credia-
mo di afferrarla, né tuttavia ignorati come meccanismi specifici. Uno dei
paradossi della moda, l’essere un fenomeno sociale e una pratica individua-
le, che Georg Simmel23 per questo già definiva individualizzante e omoge-
neizzante, ne ha determinato le peculiarità di diffusione e il successo nel-
l’epoca contemporanea. Si può sostenere che il sistema della moda comu-
nichi a ogni individuo e che ciascuno lo usi per comunicare alla propria cer-
chia sociale in una circolarità che ne determina la fascinazione e la perenne
trasformazione.
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