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Giornata di studi-Roma Tre. Storia dell’arte e storia dell’architettura.

Un difficile
dialogo (Vittorio Franchetti Pardo). Roma, 2006.

Con questo incontro ci proponiamo di abbattere gli steccati specialistici dei due
ambiti accademici "storia dell'arte" e "storia dell'architettura"; o almeno di aprire in
essi larghi varchi. Infatti la perimetrazione di quegli steccati è fenomeno apparso
soltanto a partire o dal tardo XVI secolo o dal secolo XVII: anche se i suoi sviluppi si
sono protratti sino ai nostri giorni o quasi. In precedenza si dibatteva sul primato da
riservare a questa o quella delle arti; però all’interno di un sistema che permetteva
l'osmosi (la permeabilità) di un’arte nei confronti di un’altra, e viceversa. Infatti sino
ai primi decenni del Cinquecento i committenti di varia natura e caratterizzazione
istituzionale affidavano indifferentemente ad una medesima persona, a seconda dei
casi e delle opportunità, sia opere appartenenti ad uno o più settori dell'operare
artistico e tecnico (architettura, scultura, pittura, altre forme decorative) sia compiti di
ordine burocratico (in senso tecnico o di controllo e supervisione: perizie, ispezioni
stime, ed altro). La creazione a Firenze, attorno alla metà del Cinquecento, di una
Accademia delle Arti del Disegno; più tardi, in Francia ed Inghilterra, quella di
analoghe istituzioni di interesse e carattere nazionale (regio); a Roma la fondazione
della gloriosa Accademia di S. Luca, sono il segnale che si guardava alle tre arti
tradizionali (pittura, scultura, architettura) come a tre “classi” di attività che si
svolgevano all’interno di una istituzione "artistica" concettualmente unitaria. Della
quale pertanto, significativamente, non facevano parte (salvo eccezioni) né le
discipline letterarie e poetiche, né, tanto meno, quelle specificamente tecniche e
scientifiche. Questo tipo di Accademie si fondava cioè sull'accomunante orizzonte
del "disegno" inteso come tale ed anche come prefigurazione di opere di una di quelle
tre “arti”. La figura dell’ingegnere e quella dell’architetto, cominciano cioè ad essere
percepite come tra loro concettualmente ed operativamente diverse. Mentre fino ad
allora la qualifica di ingegnere o di architetto attribuita in ragione dei “compiti”
sottesi dall'incarico volta a volta affidato: Francesco di Giorgio, per fare un esempio,
viene alternativamente definito ingegnere od architetto. Ma questa rassicurante
impostazione critico-concettuale del rapporto tra le tre arti inizia ad entrare in crisi
dal momento nel quale ad una delle tre arti, l’architettura, si inizia a pensare in modo
diverso rispetto alle altre due. Emblematici, a tale riguardo, sono i taglienti giudizi
che sul finire del Cinquecento, e poi nel corso del Seicento, si accendevano a
proposito delle costruzioni militari. Più avanti nel tempo, tra Settecento ed Ottocento
l’irrompere di correnti razionalizzanti (Encyclopédie, teorici come il Lodoli e
Memmo, le scuole francesi tipo “Ecole des Ponts et Chaussèes”, le derivate scuole
politecniche) indica che si era ormai affermata l'idea che le componenti “tecniche"
del costruire fossero “saperi” settoriali distinguibili dagli altri: in ispecie per quanto
concerne le tematiche "funzionali", e quelle statiche ed economiche.
Venendo al XIX secolo, la tematica della separatezza dei saperi tecnici si
allargherà ad interessare tutti i settori del costruire: compreso il restauro
architettonico. La cultura positivistica del XIX secolo ha poi ulteriormente accentuato
le differenze tra "architettura" ed "ingegneria". Accorpando, rispetto all'unitaria triade
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vitruviana, la coppia firmitas-utilitas (ne è nata la disciplina “architettura pratica”) e
separando il termine della venustas: cioè l'insieme dei valori formali e concettuali di
quell'opera. Così, da allora, la "storia dell’architettura" ha iniziato a seguire linee
diverse da quelle della "storia dell’arte": sono cioè apparsi studi e manuali impiantati
su criteri metodologici tra loro differenti. Diversamente dalle varie “storie dell’arte”,
le “storie dell’architettura” hanno cioè mirato ad definire ed individuare l'intero
processo ideativo e costruttivo delle singole opere anche nel loro stratificato divenire
e trasformarsi nel tempo. In Italia il rapporto tra componenti "ingegneristiche" ed
"architettoniche" durerà tutta la seconda metà del XIX secolo ed avrà sviluppi fino,
ed oltre, i primi decenni del Novecento: Benedetto Croce segnalava la difficoltà di
considerare l'architettura come un'attività che rientrasse nella famosa triade vitruviana
nella categoria "arte". Nel primo Novecento Gustavo Giovannoni tenta una
sistemazione concettuale di tutta la materia del contendere. Contribuendo sia con
saggi e scritti, sia sul piano professionale e burocratico-istituzionale, alla
trasformazione in corsi universitari di laurea delle preesistenti scuole di architettura
italiane. Così, mediando, propone la definizione di architettura come “l’arte e la
tecnica del costruire edifici”. Ma ciò, oltre a segnare una decisiva frattura con Adolfo
Venturi, porterà anche a distinguere due distinti (e legalmente riconosciuti) profili
professionali: quello dell’ingegnere e quello dell’architetto: una condizione non
esistente in altri paesi europei. Di particolare importanza, per quanto qui interessa
sottolineare, è l’esclusiva attribuzione agli architetti del campo del “restauro
architettonico” ed anche la divaricazione di approccio critico tra le principali opere
della storiografia architettonica italiana del secondo dopoguerra. Il dibattito teorico
però era tutt’altro che esaurito. Nel 1958 Zevi si era contrapposto alla "peculiarità"
giovannoniana dell’architettura: “non esiste una ‘estetica dell’architettura’
differenziata da quella della poesia o della musica, della scultura o della pittura”. Nel
1960 Benevolo proponeva lo statuto dell’architettura in base alla definizione di
Morris secondo la quale l'architettura era un'attività estesa a comprendere e
modificare “tutto l’ambiente fisico che circonda la vita umana”. Ponendo dunque
l'accento sulla responsabilità, etica e politica, del “fare architettura”.
Però, parallelamente, continuava anche una linea di contiguità con la tesi
giovannoniana: che guardando con speciale attenzione alla stratificata fisicità delle
“fabbriche”, intendeva utilizzare prioritariamente gli strumenti di analisi (rilevazioni
e loro restituzione grafica "non pittorica", stratigrafie dei materiali, ecc,) considerati
tipici ed esclusivi dell’architetto-storico. E' la linea da taluni definita (in modo forse
un po' autoreferenziale) “scuola romana di storia dell’architettura”. Un'ultima
osservazione. Il tema della “separatezza” dei campi disciplinari di attività e di analisi
(anche storiografica), come in un gioco di specchi (cioè con immagine ribaltata), ha
trovato una sua sponda in alcuni autorevolissimi storici dell’arte. Per esempio nelle
distinzioni introdotte da Cesare Brandi (nella sua teoria generale del restauro) sia tra
valori dell'esternità e dell'internità propri delle opere architettoniche, sia in
riferimento al diverso significato da attribuire alle superfici di quell'opera rispetto alle
sue parti solo "strutturali": con tutte le conseguenze che ne sono derivate appunto in
tema di resauro architettonico. Chiudo con il tema delle “fonti” cui rivolgersi in ogni
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ricerca storiografica. E' infatti, ritengo, l'argomento essenziale su cui riflettere nella
ricerca delle prospettive di riunificazione o, per meglio dire, di complementarietà tra
differenti modi di intendere la “storia dell’architettura”.
Da qualche decennio, infatti, le molteplici linee d’indagine sulla storia
dell'architettura sembrano proporre uno sforzo sinergico accordo tra "storici dell'arte"
e "storici architetti".

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