Il dialogo del Laelius ha luogo nel 129 a.C., dopo la morte, avvenuta da poco, di Scipione l'Emiliano,
figura chiave di quel periodo storico.
Il 130 a.C. è segnato dalla morte di Appio Claudio, il quale insieme a Caio e Crasso doveva
partecipare al triumvirato. Questi ultimi, però, furono sostituiti da due amici di Tiberio Gracco: M.
Fulvio Flacco e C. Papiro Carbone. Infatti, nel 129, la presidenza e l'azione attiva toccò a Fulvio
Flacco. In quell'anno erano consoli due amici dell'Emiliano: C. Sempronio Tudiano e M. Aquilio, che
pose termine alla guerra di Aristonico[6]. In questi anni si intensificarono le manifestazioni di
malcontento per l'azione da parte della repubblica del recupero dell'ager pubblico. Infatti vennero
messe in discussione tutte le terre, sia per il mal di porzionamento, sia per la voglia da parte della
nobilitas di appropriarsi indebitamente di alcuni territori; per questo si era perso il confine tra
pubblico e privato, soprattutto nelle terre occupate dagli Italici. Seconda Appiano, gli Italici non
lamentarono di essere stati esclusi dalla ridistribuzione della terra, in realtà il loro malcontento
nacque dal recupero dell'ager già posseduto[6].
Furono proprio gli Italici a rivolgersi a P. Cornelio Scipione Emiliano, il quale nelle guerre passate li
aveva sempre sostenuti. Così, l'Emiliano propose al senato di trasferire la decisione di recuperare i
territori, dai triumviri ai consoli. Il Senato l'approvò. In realtà questa proposta fu strategica, in
quanto il console M. Aquilino, in quell'anno, si trovava fuori Roma, esattamente in Asia; mentre il
console Sepronio Tudiano si recò in Illiria per evitare di prendere alcuna decisione. I consoli,
quindi, trovandosi fuori Roma e non prendendo nessuna decisione, la legge non fu applicata e tutti
i giudizi si arenarono[6].
La rivolta degli Italici appariva pericolosa soprattutto per gli ottimati, in quanto ai primi interessava
ottenere la cittadinanza romana, via principale per tutti i diritti riservati ai Romani. La cittadinanza
fu anche argomento di discussione nella lotta tra Gracchiani e Senato. Come magistralmente
descrive Cicerone nel De re publica[7], il popolo risultò diviso in due parti, una democratica con a
capo i Gracchi e l'altra aristocratica capeggiata da Scipione Emiliano.
Nella primavera del 129 a. C., mentre i Romani sul monte Latino festeggiavano le "Ferie latine",
sembrava che Scipione volesse fare il colpo di stato, rovesciando così le leggi agrarie. In realtà non
fu così, in quanto Scipione si riunì per poterne riparlare in un congresso che doveva durare due
giorni.
Il primo giorno del congresso giunse a termine e Scipione ne uscì vincitore. Questo viene descritto
anche da Cicerone nel De amicitia (III.12) in cui scrive che Scipione fu acclamato e accompagnato a
casa da un grande corteo di senatori, popolani e latini; il giorno seguente, Scipione fu trovato
morto. Le cause sono sconosciute, ma non appena la notizia riecheggiò per la città, alcuni
gridarono all'assassinio, altri, come ad esempio Appiano (b.civ., I, 20), che racconta che si sia
suicidato poiché non era riuscito a ottenere quanto promesso[6].
La morte dell'Emiliano sedò gli accesi animi, soprattutto perché la prima legge aveva portato alcuni
benefici, cioè rese ineffettuabile l'opera dei triumviri. Il 129, quindi, si concluse con la vittoria degli
ottimati.
I (1-5): Cicerone, che dedica l'opera ad Attico e spiega all'amico la fonte del dialogo e l'origine delle
sue riflessioni sull'amicizia. La storia che si appresta a raccontare deriva dal racconto riferitogli da
Quinto Mucio Scevola, a cui Cicerone era stato affidato dal padre quando aveva assunto la toga
virile. In questo periodo (presumibilmente l'88 a.C.), Mucio Scevola avrebbe riferito a Cicerone la
conversazione tenuta con il suocero Lelio e con l'altro suo genero, Gaio Fannio, poco dopo la
morte di Scipione l'Emiliano (o Africano minore). I concetti contenuti nel trattato – spiega Cicerone
– sarebbero quelli esposti da Lelio e la forma dialogica sarebbe stata scelta per rendere il discorso
più diretto ed evitare ripetizioni.
Cicerone, invitato più volte dallo stesso Attico a discorrere sull'amicizia, avrebbe scelto di dare
voce a Lelio perché il sentimento che lo legava a Scipione l'Emiliano era il più degno da raccontare.
Secondo Cicerone le sue argomentazioni, affidate a uomini più illustri, avrebbero un effetto più
incisivo sul lettore. L'autore stesso paragona tale scelta a quella operata nel Cato maior, in quanto
Catone gli sembrava la persona più idonea a parlare della vecchiaia. Invita Attico a dimenticare la
mano dell'autore e a pensare che sia lo stesso Lelio a parlare.
II (6-10): prende avvio il dialogo vero e proprio. Il primo a parlare è Gaio Fannio, elogia Scipione
l'Emiliano ma soprattutto Lelio, il quale – racconta – viene chiamato sapientem per la sua sapienza
e per l'amore della scienza, alla pari di personaggi come Catone (per la sua esperienza) e Lucio
Acilio (per la conoscenza del diritto civile). Lelio sarebbe definito così per la sua sapienza e per
l'amore della scienza. Diverse persone chiedono a Fannio come il suocero stia affrontando la
morte dell'amico, notando anche la sua insolita assenza alla riunione degli auguri in occasione
delle None. Interviene Mucio Scevola. Anche a lui la stessa domanda viene posta frequentemente
e ai curiosi risponderebbe che Lelio sta affrontando con moderazione il lutto e l'assenza alle None
sarebbe dovuta esclusivamente a motivi di salute. Lelio quindi conferma la versione di Scevola,
ringrazia Fannio per le parole riservategli, ma lo ammonisce sulla poca importanza che sembra
dare alla figura di Catone: nessuno sarebbe sapiente quanto lui e nessuno avrebbe sopportato
come lui il dolore per la perdita dei figli. Paragona Catone a Lucio Emilio Paolo Macedonico e a
Gaio Sulpicio Gaio, i quali anche loro avevano perso dei figli, ma nessuno si potrebbe anteporre
alla figura di Catone.
III (10-12): neanche Lelio si può anteporre a Catone, perché mentirebbe se dicesse di non sentire
la mancanza dell'Emiliano. Nonostante la sofferenza, Lelio dichiara di non aver bisogno di alcuna
medicina, perché gode già di quella che gli deriva dall'essere privo di errori, a Scipione non è
accaduto nulla di male, in quanto la sua vita è stata piena di soddisfazioni, ottenendo tutto ciò che
potesse desiderare. Sin da fanciullo – continua a raccontare Lelio – ha superato le aspettative della
famiglia ed è stato eletto due volte console senza che si fosse mai candidato, ha spento future
guerre sottomettendo Cartagine e Numanzia, lo ricorda come un uomo devoto alla famiglia,
liberale nei confronti della madre e delle sorelle e amato dall'intera Roma, nonostante alcuni
sospettino che sia stato ucciso.
IV (13-16): Lelio dichiara di essere in disaccordo con chi crede che l'anima perisca insieme al corpo,
perché le sue idee sono più vicine a quelle degli antichi, dei loro antenati oppure a quelle dei Greci
(primo tra tutti Socrate), che credevano che l'anima sopravvivesse, anche Scipione era vicino a
queste idee. Pochi giorni prima di morire avrebbe infatti tenuto una conversazione con Filo, Manio
Manilio e tra gli altri lo stesso Scevola circa lo stato (Cicerone si riferisce qui al De Re Publica),
dedicando l'ultima parte del discorso all'immortalità dell'anima. È inutile soffrire, se l'anima
sopravvive, nessuno più dell'Emiliano ha diritto di ascendere agli dei; se l'anima perisce con il
corpo, la morte non è positiva, ma neanche negativa.
Il destino più duro è toccato a Lelio stesso, che gli è sopravvissuto, nonostante sia più anziano.
Però potrà godere del ricordo della loro amicizia e si augura possa essere nota anche ai posteri.
Fannio chiede a Lelio di esporre le sue teorie circa l'amicizia, Scevola invita il suocero a discuterne.
V (17-20): Lelio accetta di interloquire circa l'amicizia, ma spiega umilmente ai generi che
discorrere all'improvviso è uso dei filosofi e non è compito facile, potrà spiegare loro solo alcuni
aspetti, come ad esempio la necessità di anteporre l'amicizia a tutte le cose umane.
Secondo lui l'amicizia sarebbe un sentimento esclusivamente dei buoni, scredita la visione degli
stoici che legavano la bontà alla sapienza, ma che negavano che un uomo così sapiente (e quindi
buono) fosse mai esistito. In ogni caso persone definite sapienti come Gaio Fabrizio, Manio Curio,
Tiberio Coruncanio, erano palesemente buone. Furono ritenuti buoni perché seguirono, per
quanto possibile agli uomini, la natura. Lelio definisce buone le persone dalla forte lealtà e
generosità, privi di cupidigia e di vizi. L'uomo segue questo principio: i concittadini sono più cari
degli stranieri e i familiari degli estranei, perché con questi è la natura stessa a generare l'amicizia.
Nonostante ciò, l'amicizia è superiore alla parentela.
VII (23-25): l'amicizia è superiore a tutte le cose perché dona speranza e non fa piegare l'uomo
dinnanzi al destino. Guardare un amico è come rimirare se stessi e anche la morte sembra
piacevole, perché accompagnata dal ricordo. La società si basa sull'amicizia, senza la quale
neanche le case si ergerebbero, infatti allude a Empedocle (senza nominarlo), il quale diceva che
l'amicizia compone e disgrega tutte le cose del mondo. Allude anche a un dramma di Marco
Pacuvio (probabilmente Dulorestes), molto gradito al pubblico, in cui Pilade afferma di essere
Oreste per salvare l'amico. Lelio dichiara di non avere altro da dire sull'amicizia e di chiedere altro
a chi è solito discutere di filosofia.
Fannio dichiara che preferisce chiedere a Lelio. Scevola osserva che questo non è comunque pari
al discorso sullo stato (De Re Publica), durante il quale Lelio aveva abilmente discusso per
difendere la giustizia. Fannio ribatte che sarà stato facile per lui essendo una persona giusta, così
Scevola trova uno stratagemma per farlo continuare, dichiarando che per un uomo come lui
sarebbe stato altrettanto facile difendere l'amicizia.
VIII (26-28): quasi costretto a continuare, Lelio riflette su un altro punto: se alla base dell'amicizia
ci sia la necessità di avere favori o qualcosa di più nobile. È infatti l'amore il primo motore
dell'amicizia. Ci sono rapporti finalizzati a certi scopi, ma questi non sono di amicizia. Lelio crede
che l'amicizia sia da legare alla natura piuttosto che alla riflessione sull'utilità che essa possa
portare. Questo aspetto si può notare sia nelle bestie sia nell'uomo, legati naturalmente con i figli
da un rapporto di amore. Inoltre in un amico si scorge un alone di virtù. È proprio la virtù che porta
ad amare qualcuno, anche tra chi non si è mai visto, come Gaio Fabrizio e Manio Curio. Invece si è
portati a odiare chi non è virtuoso, come Tarquinio il Superbo, Spurio Cassio o Spurio Melio. La
virtù ci rende più graditi anche i nemici, come Pirro e Annibale.
IX (29-33): l'amore è ancora più grande in coloro in cui si scorge la virtù e che ci sono legati.
L'amore viene rinforzato dal bene ricevuto e dalla devozione. Questo, unito alla simpatia a pelle,
possono far nascere una profonda amicizia. Gli Epicurei sostengono che l'amicizia nasce dalla
debolezza e dalle mancanze degli uomini. Ma se così fosse solo chi ha bisogno, cercherebbe di
creare un rapporto. Lelio espone l'esempio del deceduto Scipione che di certo non aveva bisogno
di lui e spiega che il loro affetto si è fondato sulla stima reciproca. I favori che ne seguono non
sono comunque fondamentali. Sostiene anche che, l'amicizia derivando dalla natura e questa
essendo la natura immutabile, la vera amicizia dura in eterno.
X (33-35): Lelio inizia a esporre quello che si diceva sull'amicizia tra lui e Scipione l'Emiliano.
Quest'ultimo sosteneva che fosse difficile che un'amicizia durasse per sempre, per disaccordi
politici che si possono creare o per i reciproci interessi che cambiano. Faceva l'esempio
dell'amicizia tra giovani che si conclude presto per litigi di vario genere (partito di matrimonio, un
bene che entrambi non possono raggiungere). Le cose che maggiormente possono distruggere
un'amicizia sono la brama di denaro e la corsa a una magistratura, anche chiedere di fare qualcosa
di disonesto a un amico può rovinare il rapporto.
XI (36-39): analizza fino a quanto un amico può fare per un altro. Fa l'esempio di Coriolano o di
Melio, che nessuno avrebbe aiutato. Cita anche Quinto Elio Tuberone che con altri avevano
abbandonato Tiberio Gracco. Al contrario racconta di Gaio Blossio di Cuma che avrebbe fatto
qualsiasi cosa per il tribuno. Secondo Lelio si dovrebbe sempre fare ciò che dice un amico, qualora
però non crei disordini o inconvenienti.
XII (40-43): ammettere di aver nociuto allo stato per un amico è una scusa inaccettabile. A causa
delle amici di Tiberio Gracco, Scipione Nasica era stato costretto a lasciare Roma. Lelio è
preoccupato di cosa possa accadere durante il tribunato di Gaio Gracco, perché la condizione è
sempre più preoccupante, soprattutto dopo le leggi Gabina e Cassia; il popolo gli sembra sempre
più potente e distante dal senato, quindi più difficile da controllare. Invita così gli uomini buoni di
non assecondare ogni richiesta, anche malvagia, degli amici. Paragona Temistocle a Coriolano, i
quali avrebbero dovuto tollerare in silenzio l'esilio.
XIII (44-48): Lelio elenca le leggi che devono regolare un'amicizia: non chiedere cose disoneste agli
amici, anzi bisogna ammonire i cattivi comportamenti e dare consigli; tenere larghe le redini di
un'amicizia e tirarle a piacimento, l'amicizia dovrebbe portare alla tranquillità, per questo, come
alcuni ritengono, non si può basare sulla ricerca di favori o potere.
Anche se l'animo dell'uomo sapiente è sensibile al dolore, questo non deve comunque sottrarsi
all'amicizia per paura o seguendo l'idea stoica secondo cui sarebbe da evitare tutto ciò che turbi la
pace, perché sarebbe come ripudiare la virtù stessa.
XIV (48-51): nulla è piacevole quanto il contraccambio dei servigi, quando c'è l'amicizia, ed
entusiasmarsi per i successi altrui. Inoltre l'amicizia si basa sulla somiglianza: i buoni attirano a sé
uomini buoni e giusti. Questa stessa bontà si estende anche all'altra gente, perché l'amore, non
essendo egoista, punta a voler proteggere interi popoli. Non è l'utilità che deve spingere l'uomo a
creare l'amicizia, ma la gioia di vedere l'amore dell'altro. Non è l'amicizia a seguire l'utilità, ma
l'utilità a seguire l'amicizia.
XV (52-54): chi vuole essere amato senza amare e vivere nella ricchezza, è un tiranno. Quando i
tiranni cadono si capisce quanto fossero privi di amici. La sua fortuna tiene stretti uomini che lo
servono, ma che in realtà non nutrono nei suoi confronti una sincera amicizia, perché soggiogati
dall'alterigia e dall'arroganza. Tutti i beni acquistabili, non sono duraturi e utili quanto l'amicizia.
XVI (56-60): circa il limite dell'affetto da provare verso un amico, ci sono tre opzioni, che Lelio non
condivide: la prima è di voler bene a un amico quanto a se stessi, la seconda di voler bene nella
misura in cui loro ce ne vogliono, la terza che una persona si stimi nella misura in cui gli amici lo
stimano. La prima porta a fare troppo per gli amici, la seconda riduce il rapporto a un vincolo di
doveri e la terza smorza la speranza di migliorarsi.
Scipione criticava la massima di Biante sull'amicizia, secondo cui ci si doveva avvicinare a un amico
pensando che quello un giorno sarebbe potuto diventare un nemico.
XVII (61-64): secondo Lelio l'amicizia può essere profonda solo quando i costumi di entrambi siano
corretti, in modo che qualunque favore fatto a un amico non porti disonore. C'è un limite
d'indulgenza verso gli amici, perché bisogna sempre tener presente la virtù. Bisogna scegliere bene
i propri amici, così da circondarsi di persone costanti e diligenti. Bisogna verificare il carattere
quando si è all'inizio dell'amicizia, così da eventualmente mantenere le distanze.
Trovare la vera amicizia è difficile soprattutto tra gli uomini politici, perché il potere e il denaro
corrompono l'uomo. Molte persone disprezzano gli amici nella fortuna o abbandonano quelli in
difficoltà. Chi invece è costante in entrambi i casi, è un uomo di carattere.
XX (71-76): i superiori, nell'amicizia, devono abbassarsi e gli inferiori innalzarsi e liberarsi dall'idea
di essere disprezzati dagli altri, devono inoltre fare quanto è in loro potere per aiutare.
Bisogna scegliere un'amicizia in età matura, quando cioè il carattere è già formato. Perché
cambiando i caratteri, cambiano anche i gusti. L'affetto non deve però impedire all'uomo di fare
grandi cose. Lelio prende ad esempio il comportamento di Neottolemo, narrato in una tragedia di
Accio, che non sarebbe partito per Troia se avesse ascoltato Licomede.
XXI (76-81): se si ha un amico le cui azioni sono tanto disdicevoli da portare vergogna a chi gli sta
attorno, bisogna pian piano allontanarsi da esso, si devono “dissuandae” senza strapparle, come
detto da Catone. Se invece l'amico cambia le proprie idee politiche, bisogna fare attenzione che
non diventi un nemico. Fa l'esempio di Scipione, che aveva rotto l'amicizia con Quinto Pompeo
sotto richiesta dello stesso Lelio, senza però creare un'inimicizia. Per questo non bisogna stringere
amicizia troppo presto. Gli amici degni sono molto rari, chi sceglie gli amici per convenienza, si
priva del vero e naturale affetto. Bisogna amare senza esigere nulla in cambio. Questo
comportamento è visibile anche negli animali.
XXII (82-85): chi cerca l'amicizia deve essere una persona per bene che non pretenda dall'altro ciò
che lui stesso non è disposto a dare. Una volta creato il rapporto, ci dev'essere la verecundia, ossia
il reciproco rispetto. L'amicizia deve essere basata sulla virtù e priva di vizi, affinché l'uomo viva
felice con tutti i beni desiderabili (onore, gloria, tranquillità e letizia). Senza la virtù, l'uomo può
avere solo falsi amici. Questo è il motivo per cui bisogna giudicare le persone prima di legarsi a
esse.
XXIII (86-88): nonostante sulla virtù, la politica e molte altre cose molti uomini si trovino in
disaccordo, sulla necessità e utilità dell'amicizia la pensano tutti alla stessa maniera: senza amicizia
non c'è vita. Racconta del matematico Archita, che sosteneva che un uomo, salendo al cielo e
mirando la magnificenza degli astri, non ne avrebbe provato alcun piacere se non avesse avuto
nessuno a cui raccontarlo.
XXIV (88-90): molti uomini non ascoltano la natura e creano rapporti di amicizia malevoli. Bisogna
rimproverare gli amici solo con animo benevolo e bisogna accogliere le ammonizioni serenamente.
Gli amici raramente accettano le critiche. A tal proposito, Lelio cita l'Andria di Publio Terenzio Afro,
quando sostiene che dall'ossequio derivano gli amici e della verità l'odio. Per evitare questo,
bisogna ammonire con garbo, in modo che non sembri un'offesa. Chi invece non accetta la verità,
non può essere salvato. Lelio cita Catone, che invita a stare attenti agli amici che sembrano sempre
dolci e non fanno critiche perché non dicono sempre il vero.
XXV (91-96): l'adulazione è la peggior peste di un'amicizia, distrugge la verità, senza cui non può
esserci l'amicizia. Lelio cita l'Eununchus di Terenzio (verso 252) per spiegare che non c'è niente di
peggio di un amico che appare come in realtà non è.
Anche l'assemblea popolare, dice Lelio, che è formata di persone ignoranti, distingue subito un
demagogo da un cittadino serio e ponderato. Cita l'esempio di Gaio Papirio, che era a favore della
rieleggibilità dei tribuni della plebe e provò a ottenere il consenso popolare con lusinghe. La legge
fu respinta, grazie – dice Lelio – al discorso di Scipione. Racconta un altro aneddoto, di quando egli
era pretore. Con un discorso evitò che fosse approvata la legge secondo cui la scelta dei colleghi,
che spettava ai collegi sacerdotali, andasse al popolo.
XXVI (97-100): nell'amicizia, come nella vita politica, la verità viene premiata. L'adulazione nuoce
soprattutto a chi l'accoglie. Questi sono coloro che vivono solo nella parvenza di virtù e che
accolgono discorsi adulatori come testimonianza dei loro meriti. Lelio cita le parole del soldato
Trasone, personaggio dell'Eununchus di Terenzio.
Bisogna ammonire anche gli amici più seri, affinché stiano in guardia dalle adulazioni. Alcuni
adulatori, infatti, si insinuano di nascosto, con furbizia, anche magari facendo finta di litigare. Cita
una commedia di Cecilio Stazio, parole di una “stultissima persona” che è spesso presente nei
lavori teatrali.
XXVII (100-104): Lelio conclude il discorso tornando alle amicizie nobili, queste sono quelle in cui
regna la virtù, la serenità e la costanza. Entrambi gli amici, in questa condizione, devono amare e
lasciarsi illuminare dall'amicizia altrui. Lelio elenca le diverse amicizie di tal genere sue e di
Scipione (Emilio Paolo, Marco Catone, Gaio Galo, Publio Nasica, Tiberio Gracco, Lucio Furio, Publio
Rupilio, Spurio Mummio, Quinto Tuberone, Publio Rutilio). La vita umana è fragile, così è
necessario trovare sempre qualcuno che ci ami. Nonostante ciò, in Lelio, Scipione continuerà a
vivere, perché la sua virtù non perirà mai. L'amicizia con Scipione era la cosa più bella della sua
vita, ricca di virtù, basata sull'uguaglianza delle idee politiche e priva di offese. La perdita
dell'amico può essere superata grazie ai ricordi e alla consolazione che porta l'età. L'opera si
conclude con l'esortazione ai due generi di dare un grande valore alla virtù, perché solo all'interno
di essa può nascere l'amicizia.