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Anno Accademico 2015 -2016

Dispensa autorizzata
Prof.

Saverio Marchignoli

di

Filosofie dell’India e
dell’Asia Orientale
©
Copyright
2005
Saverio
Marchignoli

saverio.marchignoli@unibo.it



I
ed.
presso
Eurocopy
–
Bologna

maggio
2005


Ristampa
maggio
2008


come
volume
di
apertura
della


Collana S.O.Fi.E. - Storia dell’Orientalismo e Filosofie dell’Eurasia
Diretta da Giorgio Renato Franci
Promossa dal Dipartimento di Studi Linguistici e Orientali
dell’Università di Bologna





Progetto
copertina:
Angelo
Chieco

 Bologna


La traduzione, l’adattamento totale o parziale, la riproduzione con qualsiasi mezzo
(compresi i film, i microfilm, le fotocopie), nonché la memorizzazione elettronica,
sono riservati per tutti i paesi.
Indice

Premessa p. 5
Nota sulla trascrizione
delle lingue indiane p. 7

Introduzione generale
1. Scopi e limiti di questa trattazione p. 11
2. Partizione – Sguardo d’insieme p. 15

Parte prima
1. Prologo p. 23
2. Chi erano i filosofi.
Tradizione bråhma±ica e
movimenti çrama±ici.
Teorie del karman e della rinascita p. 28
3. Il Buddhismo e il Jainismo primitivi p. 32
4. La Bhagavadgîtå e lo yoga dell’azione p. 41
5. Teoria della disputa e medicina p. 46

Parte seconda
1. Epistemologia e logica I: il Nyåya p. 53
2. Sviluppi nel Buddhismo. Någårjuna p. 58
3. Il Såµkhya della Såµkhyakårikå p. 63
4. L'ontologia del (Nyåya-)Vaiçeßika p. 70
5. Epistemologia e logica II: Dignåga p. 75
6. Filosofia del linguaggio: Bhart®hari.
Filosofia della parola rituale: la Mîmåµså p. 79
7. Il Kevalådvaita Vedånta di Çaºkara p. 86

Esempi di testi filosofici indiani


1. Någårjuna: la dottrina delle due verità p. 93
2. Någårjuna: critica dei mezzi di conoscenza p. 95
3. I Vaiçeßikasûtra sulla cognizione
dell’irrealtà p. 99
4. La relazione tra purußa e prak®ti
nel Såµkhya p. 101
5. Çaºkara e la «sovrapposizione» p. 104
6. Çåntarakßita sulla non esistenza di Dio p. 110
7. Çåntideva sul Nyåya p. 114

Filosofi moderni sul pensiero indiano


1. Hegel sulla coscienza yogica p. 119
2. Piero Martinetti sul Såµkhya p. 123
3. Simone Weil sul Såµkhya
e sulla Bhagavadgîtå p. 127
4. Karl Jaspers su Någarjuna p. 130
5. Jitendra Nath Mohanty sulla natura
del pensiero filosofico indiano: empirismo,
razionalismo e “fondazione” ultima p. 133

Riferimenti bibliografici p. 141


Premessa

Nonostante molti segnali sembrino andare in direzione


opposta, resta vero, soprattutto in Italia, che le filosofie
indiane non hanno ancora occupato una posizione stabile
nelle trattazioni della storia del pensiero filosofico. Ciò si
deve al perdurare dei pregiudizi sulla natura del pensiero
indiano che si sono formati nel corso del XIX secolo sulla
base di una contrapposizione essenzialistica tra Occidente e
Oriente (e tra Europa e India in particolare).
Con questo lavoro intendo proporre un breve percorso tra i
temi e i problemi di natura inequivocabilmente filosofica
che le varie correnti del pensiero indiano hanno trattato in
modo acuto e originale. I rapporti tra la causa e l’effetto, tra
l’intero e le sue parti, tra il significante e il significato, tra il
soggetto conoscente e l’oggetto, ecc., sono stati al centro di
dibattiti appassionanti che hanno attraversato le epoche più
diverse della storia indiana. Oltre ad interrogarsi sulla natura
dell’azione e sulle sue eventuali conseguenze non
percepibili, i filosofi indiani hanno affrontato con rigore e
spregiudicatezza problemi importanti e delicati di filosofia
del linguaggio, di logica e di epistemologia, di estetica, di
ontologia e di teologia, secondo uno stile di discussione tra
“scuole” che costituisce di per sé un motivo di estremo
interesse.
La piccola antologia di testi filosofici indiani in fondo al
volume è intesa tra l’altro a fornire un’esemplificazione di
questi dibattiti.
Allo scopo di testimoniare le possibilità che potrebbe offrire
un confronto con il pensiero indiano ho poi raccolto alcuni
testi di filosofi moderni, europei o di formazione europea,
che si misurano, con prospettive molto diverse, con alcuni
dei temi filosofici trattati nel percorso da me proposto. Ho
inteso così costruire un primo nucleo di un’antologia sulla
ricezione filosofica del pensiero indiano: esso costituisce,
voglio sperare, un elemento di originalità della presente
trattazione.
Questo primo volume, che spero di poter arricchire di altri
materiali in una successiva edizione, si ferma al secolo VIII
d.C. Sono in preparazione altri volumi, strutturati in modo
analogo, sui periodi seguenti fino all’età contemporanea.

Bologna, marzo 2005.

S. M.
Nota sulla traslitterazione delle lingue indiane

Si è adottato il sistema di traslitterazione del sanscrito e del påli usato


comunemente dagli indologi. Esso consente di avvicinarsi abbastanza facilmente
alla pronuncia corretta dei termini indiani, a patto di tenere presenti le seguenti
avvertenze:
g è sempre velare (come in “gola", non come in "giro"): gîtå («canto») si legge
dunque "ghita", non "gita" (in grafia italiana);
c è sempre palatale: cakra ("ruota") si legge dunque "ciakra", non
"cakra" (in grafia italiana);
j è palatale, come la j inglese;
ç è una sibilante palatale sorda vicina al suono indicato in grafia italiana
da "sc" (seguito da i o da e): Çaºkara si legge approssimativamente "sciankara";
ß è una retroflessa, di pronuncia simele alla ç, ma ottenuta retroflettendo
la punta della lingua contro il palato;
® è un suono vocalico oscillante tra r e ri: K®ß±a si legge approssimativamente
"Kriß±a" (in grafia anglicizzante, "Krishna");
± e º (nasali, rispettivamente retroflessa e gutturale) si possono pronunciare
approssimativamente come la nostra n (poiché si assimilano naturalmente al
contesto fonico);
ñ corrisponde alla nasale palatale indicata in grafia italiana da "gn" (ñ
spagnola);
h è un’aspirata sonora;
¿ è l’aspirata sorda;
µ indica una nasale generica.

Occorre distinguere:
le vocali brevi (a, i, u) dalle lunghe (å, î, û; anche e e o sono sempre lunghe);
le consonanti dentali (t, th, d, dh) dalle corrispondenti retroflesse (¥, ¥h, ∂, ∂h),
che si pronunciano retroflettendo la punta della lingua contro il palato;
le consonanti non aspirate (k, g, c, j, ¥, ∂, p, b) dalle corrispondenti aspirate (kh,
gh, ch, jh, ¥h, ∂h, ph, bh), che si pronunciano aggiungendo una forte aspirazione
sonora.

Per l’accentazione si segue convenzionalmente la regola seguente (valida per il


sanscrito classico): l’accento cade sulla penultima sillaba se questa è lunga
(saµs˚åra), altrimenti retrocede fino alla prima sillaba lunga (br˚åhma±a). Sono
lunghe, oltre alle sillabe che contengono una vocale lunga o un dittongo, quelle
che contengono una vocale lunga per posizione (seguita da due o più
consonanti). Nei composti si conserva l’accento delle singole parole.
Introduzione generale
1.

Scopi e limiti di questa trattazione.

1. Un’esposizione sintetica dei principali temi filosofici


affrontati dai pensatori dell'area indiana non può che
cominciare con alcune avvertenze e precisazioni.
In realtà, sarebbe opportuno affrontare preliminarmente la
discussione di problemi molto generali. Per esempio: il
termine «filosofia» è adeguato a designare le diverse
dottrine che hanno preso forma sul suolo indiano, o si tratta
di un addomesticamento fuorviante? Esistono barriere
culturali insormontabili che rendono qualitativamente diversa
la comprensione, ad esempio, della «filosofia greca» rispetto
a quella della «filosofia indiana»? Perché la storiografia
filosofica dell'Ottocento e di gran parte del Novecento ha
consapevolmente evitato, tranne rare eccezioni, di trattare il
pensiero indiano?; perché oggi è invece divenuto possibile,
anzi necessario, includere il pensiero indiano tra gli oggetti
degni dell'attenzione storico-filosofica?.
Va subito detto che la formulazione di questi interrogativi
non prelude, nelle pagine che seguono, ad alcun tentativo di
risposta. Suo unico scopo è, al contrario, quello di
sottolineare uno dei limiti più evidenti della presente
trattazione: la rinuncia inevitabile a discutere in modo
esplicito tali importanti e legittime questioni. Tuttavia esse
vanno sempre tenute presenti sullo sfondo, quasi fossero un
12 L’India filosofica

invito alla cautela, nel momento in cui ci si accosta alle


filosofie dell'India.

2. Non si troverà poi nelle pagine che seguono – in questo


caso intenzionalmente - alcun tentativo di elencare in via
preliminare le caratteristiche presunte o gli orientamenti
generali del pensiero indiano: non si ripeterà qui, ad
esempio, il topos secondo cui la speculazione indiana, a
differenza di quella greca, sarebbe motivata da
preoccupazioni soteriologiche e non dal «puro desiderio di
conoscenza», proprio di un atteggiamento puramente
«teoretico»; né quello secondo cui il pensiero indiano
tenderebbe inevitabilmente ad un approdo «mistico».
Si cercherà invece di evidenziare l'estrema complessità e
l'irriducibile varietà della tradizione filosofica indiana, che
ha accolto in se stessa tendenze contrapposte e tra loro
altrettanto divergenti quanto, per fare un esempio, quelle
espresse dalle scuole filosofiche greche.

3. La difficoltà principale che deve affrontare un'esposizione


sintetica dei temi e dei problemi filosofici dell’India è
proprio quella di rendere il più possibile giustizia, in uno
spazio ristretto, alle numerosissime posizioni teoriche che
hanno trovato espressione nel corso degli oltre due millenni
e mezzo di ininterrotto, ancorché disomogeneo, sviluppo, e
contemporaneamente di evitare che i dettagli tecnici e
storiografici prendano il sopravvento ed eclissino le
questioni filosoficamente più rilevanti.
Si è dunque scelto di non tentare affatto di redigere un
compendio propriamente storico delle filosofie indiane.1 Né

1
Oltre alle ovvie difficoltà di sistemazione cronologica connesse con la
mole della letteratura filosofica, le perduranti incertezze sulle datazioni
Introduzione generale: 1. Scopo e limiti 13

d'altra parte si poteva, data la mole sterminata della


letteratura, tentare di giungere nemmeno lontanamente ad un
inventario delle posizioni filosofiche.

delle opere fanno sì che il terreno indiano risulti, per la storiografia


filosofica, particolarmente arduo da dissodare. Si pensi che in molti casi
le datazioni possono essere precisate solo con uno scarto temporale che
va misurato non già in decenni, bensì in secoli.
Inoltre, sia per la fase più antica (fino ai primi secoli dell’era volgare),
sia, anche se in misura minore, per il cosiddetto «periodo classico» (la
parte centrale del primo millennio d.C.) dobbiamo tener conto del fatto
che la trasmissione delle conoscenze avveniva essenzialmente per via
orale. Ciò comportò almeno due conseguenze. In primo luogo, molti
degli insegnamenti, allorquando venivano superati da nuove e più
comprensive formulazioni, finivano per essere omessi nella trasmissione
orale tradizionale e pertanto venivano dimenticati: il risultato è che essi
sono per noi definitivamente perduti, cosicché in molti casi la genesi e le
fasi più antiche delle filosofie delle "scuole" sono oggi quasi impossibili
da ricostruire.
In secondo luogo, le necessità della memorizzazione ponevano vincoli
molto stretti alle modalità della trasmissione: nella fase più antica le
opere di riferimento erano spesso costituite da raccolte di brevi frasi
facilmente memorizzabili ma a volte assai criptiche e involute (i sûtra),
che necessitavano di una spiegazione. Tali spiegazioni, in un primo
tempo solo orali, dettero poi origine ai commentari interpretativi che
costituiscono una delle parti più cospicue della letteratura filosofica
indiana. Il fatto che in molti casi diversi commentari forniscano
interpretazioni divergenti dei medesimi «aforismi» ci fa capire che molto
presto i sûtra perdettero univocità e perspicuità di significato. Ciò
costituisce per noi un ulteriore ostacolo sulla via della ricostruzione delle
fasi più antiche delle varie scuole. Tuttavia, nonostante tutti gli
impedimenti che si frappongono alla ricostruzione storica, storie della
filosofia indiana non solo sono state scritte, ma in alcuni casi hanno
raggiunto ottimi risultati (si pensi a opere pur diversissime tra loro come
quelle di Surendranath Dasgupta ed Erich Frauwallner). Ma questi
risultati vanno comunque sempre commisurati, anche nel caso delle opere
che hanno portato avanzamenti reali nella conoscenza, alle difficoltà e
agli ostacoli insormontabili sopra esposti.
14 L’India filosofica

Piuttosto si è cercato di selezionare – non senza una certa


dose di arbitrarietà – alcune delle dottrine più rilevanti, e di
organizzare il materiale contemperando tra loro tre esigenze
distinte: a) quella di individuare le caratteristiche
fondamentali delle principali «scuole filosofiche» al di là dei
complessi problemi posti dalla ricostruzione storiografica; b)
quella di porre in evidenza i temi centrali che costituiscono
l'oggetto delle fitte discussioni e polemiche tra le varie
«scuole»; c) quella di non perdere di vista, comunque, il
senso dello sviluppo nel tempo delle dottrine.

4. La letteratura di interesse filosofico dell'area indiana è


immensa e comprende opere di natura molto diversa, scritte
in varie lingue.2 Accanto ai testi base delle «scuole
filosofiche» e ai loro numerosi commentari e
subcommentari3 si collocano intere sezioni di opere
appartenenti a generi completamente diversi, come l’epica,
la mitologia o la trattatistica poetico-letteraria. Poiché una
scelta si imponeva, si è preferito privilegiare le opere e le
tradizioni di pensiero di natura più distintamente filosofica,
tralasciando o trascurando le correnti nelle quali altri
interessi sono di fatto preponderanti.
Ciò ha voluto dire, ad esempio, dare maggiore rilievo alle
fasi «classica» e «postclassica» del pensiero indiano, nelle

2
La lingua principale è certamente il sanscrito, che per un lungo periodo
ebbe la funzione di lingua di cultura paragonabile a quella svolta dal
greco in età ellenistica o dal latino in Europa fino all'età moderna. Altre
lingue importanti sono il påli (lingua del canone buddhista dei
Theravåda), l'ardhamågadhî (lingua del canone jaina) e il tibetano (se si
assume che il Tibet, almeno per un certo periodo, vada compreso
nell'area culturale indiana).
3
Per una efficace descrizione della forma dei testi filosofici indiani si
veda Torella, Il pensiero indiano [2001], pp. 644-645.
Introduzione generale: 1. Scopo e limiti 15

quali la delimitazione del genere «filosofia» si pone in India


in modo molto netto.
2.

Partizione – Sguardo d’insieme.

1. Seguiremo convenzionalmente una partizione di comodo


del pensiero indiano in cinque grandi periodi: 1) la prima
fase, di formazione delle grandi correnti di pensiero (VIII
secolo a.C. - I sec. d.C.); 2) il periodo «classico» (secoli
II-VIII); 3) il periodo «post-classico» (secoli IX-XV); 4) i
secoli XVI-XVIII (corrispondenti al periodo Moghul); 5) la
fase della colonizzazione europea e la fase post-coloniale.
Tale partizione è ovviamente in larga misura arbitraria,
segnatamente per quel che riguarda i confini tra il secondo e
il terzo periodo.

L'inizio della fase di formazione delle filosofie dell'area


indiana va collegato con le trasformazioni culturali e sociali
avvenute intorno alla metà del I millennio a.C. Precedono,
forse di poco, questo periodo le più importanti delle
Upanißad vediche (B®hadåra±yaka Up. e Chåndogya Up.),
che testimoniano l'avvenuto distacco dalle preoccupazioni
mitologico-ritualistiche tipiche della fase precedente.
Nascono in questo periodo il Buddhismo, il Jainismo e altri
«movimenti spirituali», tra i quali si suppone abbia avuto
una certa importanza quello degli Åjîvika. Nel frattempo
all’interno della tradizione bråhma±ica fiorisce la
speculazione di derivazione upanißadica, mentre si gettano le
Introduzione generale: 2. Partizione – Sguardo d’insieme 17

basi della filosofia del linguaggio, della teoria politica e


della teoria della disputa. È questo il periodo di incubazione
delle «scuole filosofiche» tipiche dell'epoca successiva.

A partire almeno dal II secolo dell'era volgare i pensatori


indiani sono infatti perfettamente consapevoli di essere degli
specialisti e di rivolgersi con le loro opere ad altri specialisti
che possiedono un linguaggio tecnico altamente
settorializzato. Gli esponenti delle varie «scuole» (spesso
chiamate in sanscrito darçana, lett: "visioni", o "punti di
vista") hanno ben presenti le posizioni di fondo delle altre
scuole, affini o concorrenti, e molta parte del loro lavoro
filosofico consiste in tentativi di confutare razionalmente le
posizioni altrui. Contrariamente a un'opinione assai diffusa,
dunque, le filosofie indiane non sono caratterizzate da un
rapporto ferreo con la "tradizione", della quale non
sarebbero che la sistemazione razionalizzata: sono invece
anzitutto il risultato, a volte la registrazione, di continui
dibattiti tra diverse posizioni in concorrenza tra loro.1

Proprio dalla teoria della disputa ebbero origine


l'epistemologia e la logica del Nyåya, che presto si
trovarono associate alle più antiche dottrine ontologiche del
Vaiçeßika. Il dualismo del Såµkhya-Yoga, anch’esso di
origine molto antica, trovò durante la prima metà del I
1
Ciò si evince non solo, come si diceva, dalla letteratura più
propriamente filosofica (opere autonome o, più spesso, commentari alle
opere di base delle scuole, sub-commentari, sub-sub-commentari, ecc.),
ma anche dalla tradizione dossografica che, pur senza essere ricchissima,
ha trovato in India espressioni di altissimo rilievo. Anche i dossografi
infatti tendono a dare molta importanza alle differenze tra le varie
scuole, e spesso la loro esposizione, pur essendo in molti casi
relativamente affidabile, tende esplicitamente a disporre gli argomenti in
modo che una delle scuole presentate risulti comparativamente vincente.
18 L’India filosofica

millennio d.C. una sistemazione pressoché definitiva, mentre


le antiche scuole esegetico-ritualistiche dettero origine alla
Pûrva-Mîmåµså. Decisivi furono gli sviluppi del buddhismo:
alla speculazioni fortemente tecniche delle scuole
dell’Abhidharma fece seguito la comparsa, nel II secolo,
della scuola någårjuniana della «vacuità» e, nel IV-V secolo,
della scuola rappresentazionista degli Yogåcåra. Fortemente
influenzata da questi sviluppi buddhisti fu, con ogni
probabilità, la tradizione speculativa di derivazione
upanißadica che, attraverso Gau∂apåda, dette origine
all'Advaita Vedånta di Çaºkara (VIII sec.). Decisivi
contributi da parte buddhista vennero anche nel campo della
logica, con la scuola di Dignåga e Dharmakîrti.

Nella fase post-classica si nota una certa prevalenza delle


preoccupazioni teologiche e mistiche, anche se non viene
mai meno la speculazione prettamente razionalistica. Grande
sviluppo hanno le tradizioni del tantrismo çivaita, soprattutto
nel Kashmir dove fioriscono importantissime scuole di
estetica e dove operano le grandi personalità filosofiche di
Utpaladeva e Abhinavagupta. Altre scuole vedåntiche si
contrappongono al Kevalådvaita-vedånta di Çaºkara.
Particolare importanza ha, nel sud, la tradizione viß±uita che
culmina in Råmånuja.
Intanto il buddhismo si espande soprattutto nell'area tibetana,
dove attecchisce la corrente tantrica (Vajrayåna). In India si
assiste invece ad un affievolirsi della tradizione buddhista,
che giunge quasi a scomparire nel XIII secolo.
Importantissimi sviluppi si hanno poi nella logica, con
Gaºgeßa e la nascita del «nuovo Nyåya». Nel frattempo
tende sempre più ad imporsi una sorta di sintesi di tutti i
sistemi sotto l'egida del Vedånta.
Introduzione generale: 2. Partizione – Sguardo d’insieme 19

Nei secoli XVI-XVIII non cessa l'attività di commento delle


opere classiche, anche se si assiste a un certo irrigidimento
della tradizione scolastica. La caratteristica più evidente di
questa fase fu il diffondersi di tendenze mistiche e bhaktiche
che ebbero notevoli ripercussioni sulla filosofia. Importante
il consolidarsi delle speculazioni logiche e filosofico-
linguistiche.

Nel corso della fase coloniale spiccano i pensatori che


tentano una “riforma” religiosa in senso universalistico
dell’induismo. Tra questi hanno notevole rilievo filosofico
Rammohan Roy e Bankimchandra Chattopadhyay. Tra i
pensatori neo-induisti emerge nel XX secolo la figura di
Sarvepalli Radhakrishnan, mentre il confronto con l’Europa
diventa il tema dominante per molti filosofi (da
Brajendranath Seal, attivo all’inizio del secolo, a Jaswant
Lal Mehta).
Parte prima
1.

Prologo.

1. «O caro, al principio questo [universo] era soltanto


l'Essere (sat), uno, senza secondo. A questo proposito alcuni
dicono: "Al principio questo [universo] era soltanto Non
essere (a-sat), unico, senza secondo. Di poi dal Non essere
nacque l'essere". Ma come, o caro, potrebbe essere così? -
soggiunse egli -. Come dal Non essere potrebbe essere sorto
l'Essere? Essere soltanto questo [universo] era al principio, o
caro, uno, senza secondo».1
Con queste parole il maestro upanißadico Uddålaka Åru±i dà
inizio al suo insegnamento al figlio Çvetaketu. La qualità
dell'interrogativo in esse contenuto («Come dal Non essere
potrebbe essere sorto l'Essere?») e l'uso di termini astratti
come sat e asat2 attestano la presenza, nell'India
upanißadica, di un pensiero capace di formulare chiaramente

1
Chåndogya Upanißad VI, 2, 1-2. La traduzione, qui e in seguito, è di
Carlo Della Casa (Upanißad, UTET, Torino 1976).
2
Sat è il neutro del participio presente del verbo essere, as-, radice
sanscrita parallela alla radice latina es- di esse («essere»). In a-sat la "a"
prefissata ha funzione di negazione, come l'alfa privativa del greco.
24 L’India filosofica

problemi di natura filosofica e di assumere posizioni critiche


rispetto alla tradizione.
Non sappiamo nulla circa la storicità del dialogo tra
Uddålaka e il figlio. Possiamo ragionevolmente supporre che
la redazione della Chåndogya Upanißad vada collocata prima
della metà del I millennio a.C. Alcuni studiosi la datano
all'VIII secolo a.C.. Uddålaka dunque - intendendo
convenzionalmente con questo nome un personaggio storico
oppure chi gli ha dato voce - va considerato tra i primi
filosofi in senso assoluto, non solo dell'area indiana.
Non è questo tuttavia l'aspetto che qui maggiormente
interessa. Importa invece porre in evidenza come quella di
Uddålaka sia una delle prime formulazioni a noi note di due
problemi: quello dei rapporti tra essere e non-essere e quello
della relazione tra essere e divenire. Si tratta di problemi
affrontati in seguito da quasi tutte le scuole filosofiche
dell'area indiana. Soluzioni caratteristiche e divergenti ne
saranno date in particolare dalla "scuola" Såµkhya – che,
nel contesto della teoria della trasformazione continua della
prak®ti ("natura"), sosterrà la dottrina della preesistenza
dell'effetto nella causa (satkårya-våda) - e dal Vaiçeßika, che
sosterrà la dottrina opposta (a-satkårya-våda).

2. Vediamo come continua l'insegnamento di Uddålaka al


figlio. Il tema è quello del rapporto tra l’Essere (il sat) e le
creature. Volendo riprodursi, infatti, il sat «emette» il tejas
(“calore” e “luminosità”), che a sua volta «emette» l'acqua,
la quale poi «emette» il "cibo". Tejas, acqua e "cibo" sono i
tre principi costitutivi grazie ai quali il «Sé vivente» del sat,
penetrando in ciascuna delle creature, dà loro «nome e
forma», ossia le individua. Nell'uomo poi ciascuno dei tre
principi si triplica:
Parte prima: 1. Prologo 25

«Il cibo mangiato si divide in tre parti: la parte più


grossolana diventa escremento, la mediana carne, la più
sottile mente. L'acqua bevuta si divide in tre parti: la parte
più grossolana diventa urina, la mediana sangue, la più
sottile respiro. Il tejas assorbito si divide in tre parti: la
parte più grossolana diventa l'osso [dello scheletro], la
mediana midollo, la più sottile parola. Costituita di cibo è la
mente, o caro, costituito di acqua è il respiro, costituita di
tejas è la parola».3
Uddålaka è dunque sostenitore di una visione che potremmo
definire naturalistica, secondo la quale non vi è discontinuità
tra i principi costitutivi “naturali” e le funzioni mentali
(«Costituita di cibo è la mente», ecc.). Per provare la sua
teoria Uddålaka sottopone il figlio Çvetaketu ad una sorta di
esperimento: lo fa digiunare per quindici giorni,
permettendogli solo di bere l'acqua sufficiente a mantenere
vivo il respiro. Il sedicesimo giorno lo invita a recitare i
Veda, e Çvetaketu si rende conto che la memoria non lo
sorregge. Finalmente dopo aver mangiato, cioè allorquando,
secondo la teoria precedente, la terza parte del cibo ingerito
si è trasformata in pensiero, Çvetaketu ritorna a ricordare i
Veda.
Lo sperimentalismo che affiora nella storia ora narrata è un
tratto che risulterà riconoscibile in molte posizioni
filosofiche indiane. La continuità tra la dimensione
“corporea” e quella “mentale” non sarà affatto negata
neppure dalle correnti più “antimaterialistiche”: semmai, in
queste ultime, al complesso psico-fisico verrà contrapposta
una “coscienza” o, come vedremo, una “coscienzialità pura”
totalmente separata dall'elemento psichico e mentale.
3
Chåndogya Upanißad VI, 5, 1-4.
26 L’India filosofica

3. «Allora Ußasta discendente di Cakra disse: "[...] Parlami


veramente di quella che è l'essenza presente in ogni cosa,
ossia del brahman visibile e direttamente percepito". "È il
tuo åtman quello che è presente in ogni cosa". "Quale è,
Yajñavalkya, [questo åtman] presente in ogni cosa?". "Tu
non puoi vedere chi è causa della vista, non puoi ascoltare
chi è causa dell'ascolto, non puoi pensare chi è causa del
pensiero, non puoi conoscere chi è causa del conoscere.
Questo è il tuo åtman presente in ogni cosa. Al di fuori di
esso non c'è che dolore". Allora tacque Ußasta discendente
di Cakra».4
In questo brano il maestro Yajñavalkya enuncia il principio
definitorio dell’assoluto: da esso tutto dipende, esso non
dipende da nulla. Secondo un’immagine che diverrà un
topos della letteratura filosofica, l’assoluto è come una
lampada, la quale illumina tutto, ma non viene illuminata da
nulla; essa permette di vedere tutto il resto, ma nient’altro
permette di vederla. L’assoluto dunque non può essere
oggetto del pensiero, perché ciò che è pensato dipende dal
pensante.

4. «Due uccelli, stretti amici, abbracciano lo stesso albero.


Uno di essi mangia la dolce bacca; l'altro, senza mangiare,
guarda attentamente».
Questa immagine, così semplice e solenne ad un tempo,
risale alla più antica testimonianza letteraria della cultura
indiana, il ·g-Veda.5 Essa è volutamente enigmatica,6 e

4
B®hadåranyaka Up. III, 4, 2.
5
·g-Veda I, 164, 20.
Parte prima: 1. Prologo 27

precisamente come enigma è stata accolta nel pensiero


indiano, dalle Upanißad7 in poi. Vi si potrebbe vedere
enunciata icasticamente la decisiva opposizione teorica tra
“fruizione” (bhukti) e “liberazione” (mukti) che caratterizzerà
tante correnti del pensieriero indiano e che viceversa sarà
contestata dal tantrismo - una tendenza del pensiero indiano
che si sviluppò nella seconda metà del I millennio d. C.
Çaºkara (VIII sec. d.C.) vi vide precisamente l'opposizione
tra il sé individuale (jîva) che è affetto dall'esperienza del
mondo e l'îçvara, il “signore”, l'eterno “testimone”:
opposizione che, valida sul piano relativo, si perde tuttavia
sul piano assoluto dell'identità tra il sé e il brahman (forse
per questo i due sono «stretti amici»?). Ma l'immagine si
potrebbe interpretare anche come la contrapposizione tra due
atteggiamenti: quello del ritualista che, mosso dal desiderio,
agisce in vista dei frutti dell'azione, e quello del rinunciante
che è pienamente soddisfatto della ben diversa "esperienza"
del brahman. Una contrapposizione che sarà al centro della
dottrina dell’azione della Bhagavadgîtå.

6
Nell'inno in cui è contenuta (I, 164) è posta accanto a una serie di
oscure espressioni metaforiche, di indovinelli, di enigmi appunto, che
costituiscono altrettante sfide all'interpretazione.
7
Cfr. Mu±∂aka Up. II, 1; Çvetåçvatara Up. IV, 6.
2.

Chi erano i filosofi.


Tradizione bråhma±ica e movimenti çrama±ici.
Teorie del karman e della rinascita

1. Nei testi più antichi, in particolare nei testi buddhisti,


come pure nelle iscrizioni, è abbastanza comune imbattersi
in un composto, çrama±a-bråhma±a, che sembra voler
abbracciare l'insieme di tutte le figure religiose e spirituali.
Esso è costituito di due termini, bråhma±a e çrama±a, il
primo dei quali indica gli appartenenti alla classe
sacerdotale dedita alla scrupolosa conservazione dell'eredità
vedica; il secondo gli asceti itineranti o i monaci mendicanti
che spesso assumevano le funzioni di maestri spirituali.
Çrama±a è un derivato della radice çram-, e significa «colui
che si sforza, si affatica, si esercita». Di qui l'analogia con il
termine di derivazione greca “asceta”, che significa appunto
“colui che si esercita”.
Movimenti çrama±ici per eccellenza furono il Buddhismo e
il Jainismo, ma le fonti autorizzano a ritenere che dovettero
avere una certa importanza anche numerose altre tendenze,
per esempio quella degli Åjîvika.
Da parte bråhma±ica la tradizione speculativamente più
rilevante fu quella di derivazione upanißadica. Occorre
tuttavia aggiungere subito che nello sviluppo delle
importanti teorie del linguaggio indiane ebbero un ruolo
Parte prima: 2. Chi erano i filosofi 29

decisivo le scuole esegetiche e la tradizione «tecnica» dei


grammatici (che culminò nell’opera di På±ini).
Forse poi, oltre ai bråhma±a e ai movimenti çrama±a,
dobbiamo riconoscere un terzo gruppo, tipologicamente
distinto, nella tradizione intellettuale che dette origine alla
corrente cosiddetta “materialista” dei Cårvåka o Lokåyata.1

È assai verosimile che l'incontro-scontro tra tradizioni


bråhma±iche e movimenti çrama±a abbia caratterizzato la
vita intellettuale dell'India settentrionale intorno alla metà
del I millennio a.C., allorquando, nel contesto di mutamenti
profondi della struttura sociale e politica (sviluppo di una
civiltà urbana, moltiplicazione delle professioni, costituzione
di veri e propri stati, ecc.), alle speculazioni mitologico-
ritualistiche delle parti più antiche dei Veda si affiancano o
si sostituiscono nuove preoccupazioni e nuove tendenze
dottrinali.

2. In realtà non è possibile stabilire se il movimento


çrama±ico debba essere pensato come un'evoluzione interna
al vedismo o se piuttosto non si debbano immaginare due
percorsi in origine distinti e indipendenti che siano giunti ad
intersecarsi intorno alla metà del I milliennio a.C.
Quello che si può dire è che, a partire dal periodo in cui
questo incontro ebbe luogo, assunse valore pressoché
assiomatico per quasi tutte le correnti del pensiero indiano
una concezione estranea al vedismo più antico: la
caratteristica credenza nella retribuzione delle azioni

1
È tuttavia possibile che anche la corrente materialista vada ricondotta a
uno dei due gruppi fondamentali: alcuni ritengono che si sia sviluppata in
ambienti bråhma±ici; altri, più verosimilmente, pensano che sia sorta in
ambienti çrama±ici.
30 L’India filosofica

(karman) e nella rinascita. Ed è probabile, benché tutt'altro


che certo, che il contributo decisivo all'imporsi di questa
concezione provenga dagli ambienti çrama±ici.
Karman è un derivato della radice sanscrita k®- («fare») e
significa «azione», «opera», «atto» (in primis in senso
rituale). L'idea di base della teoria del karman è che ogni
azione produce di per sé una retribuzione, cioè una
ricompensa o una punizione, le quali sono il fondamento
delle esperienze negative o positive che segnano la nostra
esistenza. Viene così stabilito un nesso causale tra il passato
e il presente (che è ricondotto alle azioni compiute nel
passato) e tra il presente e il futuro (che sarà il risultato
delle azioni presenti). La credenza nella rinascita2 consente
di estendere il potere retributivo dell'azione anche alle vite
future e di pensare la vita presente come retribuzione delle
infinite vite che l'hanno preceduta.
Comune alle tradizioni bråhma±iche e a quelle çrama±iche è
l'idea che la serie senza inizio di nascite e rinascite regolate
dal principio retributivo del karman (ciò che viene chiamato
generalmente saµsåra) sia intrinsecamente dolorosa e
insoddisfacente e che occorra cercare di interromperla.
Questa interruzione viene chiamata in vario modo: mokßa,
mukti (“liberazione”) o nirvå±a (“spegnimento”,
“cessazione”), ecc.

3. Il patrimonio di credenze fin qui sommariamente


tratteggiato costituisce un presupposto imprescindibile della

2
È opportuno evitare termini come “trasmigrazione” o “metempsicosi”,
che implicano l'esistenza di un sostrato trasmigrante (l'“anima”): esistenza
che è esplicitamente negata, ad esempio, dalla gran parte delle correnti
buddhiste.
Parte prima: 2. Chi erano i filosofi 31

speculazione bråhma±ica e çrama±ica della seconda metà del


I millennio a. C.
Si legano ad esso questioni decisive di natura metafisica,
epistemologica ed etica. Che cos'è che permane nel
passaggio da una vita all'altra? Se esiste questo sostrato
permanente, in che modo esso è conoscibile? Qual è la
natura del rapporto causale che connette i vari momenti
della serie saµsårica? Che cosa si può dire dello “stato” di
chi abbia interrotto la serie saµsårica? In che modo si
ottiene tale interruzione? Occorre forse interrompere la
catena causale astenendosi totalmente dalle azioni? Oppure
si deve controllare l'intenzione con cui si agisce? Oppure,
ancora: la catena causale viene forse interrotta non già al
livello “ontologico” tramite l'azione, bensì a un altro livello,
quello “gnoseologico”, tramite la conoscenza o il
“riconoscimento” della condizione liberata? Infine: qual è la
differenza tra il merito e il demerito nell'agire, visto che
ogni azione, anche meritoria, produce comunque
inevitabilmente una conseguenza a livello karmico che
ostacola il processo di liberazione?
Le varie correnti bråhma±iche e çrama±iche della prima fase
di sviluppo delle filosofie indiane si differenziano
fondamentalmente a partire dalle risposte date a questi
interrogativi, o anche, come vedremo, sulla base del rifiuto
esplicito di fornire queste risposte.
3.

Il Buddhismo e il Jainismo primitivi

I. La prima fase del pensiero buddhista.

1. Buddhismo e Jainismo furono i movimenti çrama±ici più


importanti.
Il movimento buddhista, che si sarebbe diffuso in gran parte
dell'Asia e che ormai da tempo ha raggiunto anche l'Europa
e l'America fino a divenire un fenomeno planetario, ebbe
origine e si sviluppò in India nel primo millennio a.C.
I punti filosoficamente più rilevanti dell'insegnamento del
Buddha sono i seguenti: la diagnosi del carattere
insostanziale, impermanente e insoddisfacente di tutte le
cose; l'indicazione delle «quattro nobili verità» e
dell'«ottuplice sentiero» (che contempla precetti etici); il
rifiuto metodico di prendere posizione sulle grandi questioni
metafisiche e lo sviluppo di una «posizione mediana» - cioè
al di là degli estremi - anche attraverso l'uso dello strumento
logico-argomentativo del “tetralemma” (catußko¥i);
l'esposizione della catena causale della «coproduzione
condizionata»; l'indicazione di una tecnica di meditazione in
quattro stadi (le «quattro meditazioni»). Questi ultimi due
Parte prima: 3. Buddhismo e Jainismo 33

elementi furono quasi certamente elaborati dai primi


successori del Buddha storico.
Gli scritti canonici ci restituiscono l'immagine viva di un
Buddha che rifiuta metodicamente, opponendo silenzi
significativi e istruttivi, di pronunciarsi sulle grandi questioni
metafisiche; egli pone in evidenza l'impermanenza di tutte le
cose, le quali non sono altro che «aggregati» destinati alla
dissoluzione, ed addita a ciascun uomo, al di là
dell’appartenenza castale (la cui importanza viene rifiutata),
la possibilità di liberarsi dal dolore/insoddisfazione (du¿kha)
praticando la «via intermedia» che conduce alla condizione
di arahant (påli; scr. arhat: “degno”, “perfetto”) e al
nibbåna (påli; scr. nirvå±a: “spegnimento”, “estinzione”, ma
si tratta di una nozione veramente complessa, se è vero che
in alcuni ambienti mahåyana si giungerà ad affermare, come
si vedrà, la non-differenza tra nirvå±a e saµsåra).1
1
Sulla vita dell'uomo che sarebbe stato considerato lo «svegliato» per
antonomasia (questo è il significato del termine buddha), possediamo
numerose testimonianze scritte, che però sono in gran parte di natura
leggendaria. È opinione comunemente condivisa dagli studiosi che
Siddhårtha Gautama, della stirpe degli Çåkya, sia un personaggio storico,
uno dei primi a noi noti dell'India antica. Si sono fatte molte ipotesi sulle
date della sua vita, ma il problema rimane a tutt'oggi aperto, pur
rimanendo certo che egli sia vissuto prima del III secolo a. C. (le
iscrizioni di Açoka della metà del III secolo documentano la già
avvenuta espansione del dharma buddhista). La questione della datazione
del Buddha è molto importante, giacché molte altre datazioni decisive sia
sotto il profilo della storia del pensiero che sotto quello della storia tout
court, dipendono, per così dire a cascata, da essa. Recentemente gli
studiosi si sono orientati a considerare più plausibile una datazione più
"bassa" rispetto a quella calcolata in un primo tempo (VI-V secolo). Si
veda Bechert (ed.), The Dating of the Historical Buddha [1991]. Il Buddha
sarebbe vissuto circa ottanta anni. Intorno ai trentacinque avrebbe
conseguito il «risveglio» (bodhi, abhisambodhi). La sua vicenda
personale sarebbe stata segnata da tre avvenimenti decisivi: l'abbandono
34 L’India filosofica

2. Le comunità di orientamento monastico cui il Buddha


avrebbe dato vita provvidero a tramandare la memoria dei
suoi insegnamenti, finché si giunse alla fissazione di veri e
propri «canoni» (i più importanti sono quelli dei Theravådin
e dei Sarvåstivådin). Questi sono suddivisi in tre grandi
sezioni, dette «canestri»: il canestro dei discorsi, quello delle
regole disciplinari (vinaya) e quello della sistematica
dottrinale (abhidharma). È soprattutto dai testi contenuti nel
canestro dei discorsi (Sutta-pi¥aka) che possiamo ricostruire
l'insegnamento del Buddha storico, mentre nelle dottrine e
nelle speculazioni contenute nell'ultimo possiamo riconoscere
le origini della grande speculazione filosofica buddhista
fiorita nel primo millennio d.C.

3. In quello che si usa chiamare Discorso della messa in


moto della ruota del dhamma, e che costituisce
tradizionalmente il resoconto del suo primo discorso dopo il
risveglio - il Buddha si presenta essenzialmente come un
terapeuta che nelle quattro «nobili verità» (påli ariya-

della vita principesca, della casa paterna, della moglie e del figlio per
seguire la vita ascetica; l'abbandono della via della mortificazione e il
distacco dagli insegnamenti dei vari maestri per seguire una «via
mediana» anche nel cammino çrama±ico; il risveglio, cioè la conquista
autonoma e definitiva della verità circa la natura della
sofferenza/insoddisfazione (du¿kha) e circa il modo per farla cessare.
Superata la tentazione di “entrare” immediatamente nello stato di
cessazione del dolore (nirvå±a) senza comunicare agli altri esseri viventi
la via del risveglio, il Buddha avrebbe trascorso il resto della sua vita a
guadagnare al proprio insegnamento (dharma) gli ex-maestri e gli ex-
compagni di vita ascetica, nonché a diffonderlo presso numerosi nuovi
adepti. Da questo momento il Buddha, che già era noto come Çåkyamuni
(«Asceta degli Çåkya»), sarebbe stato chiamato anche Tathågata (forse:
«Pervenuto alla verità»), Bhagavat («Beato») e Jina («Vittorioso»).
Parte prima: 3. Buddhismo e Jainismo 35

saccåni / scr. årya-satyåni) ha condensato la conoscenza


acquisita nel risveglio. Seguendo il modello dell'esposizione
medica, egli definisce innanzitutto la malattia (la
frustrazione, il dolore), poi ne individua la causa (la «sete»),
quindi prospetta la possibile cessazione di tale causa, e
infine indica il mezzo per ottenere la guarigione (il «nobile
ottuplice sentiero»). L'insegnamento del Buddha è dunque,
in estrema sintesi, l'indicazione di una via intermedia di
autoperfezionamento che ha per meta il superamento del
dolore (cioè del raggiungimento del nirvå±a / påli nibbåna).
Nelle otto parti (lett. «membra») del nobile sentiero la «via
della conoscenza» e le indicazioni etiche si intrecciano
saldamente tra loro: particolarmente interessanti sono i
contenuti della «retta intenzione» e della «retta azione», in
cui vediamo configurati in forma di precetti al negativo (in
particolare non nuocere, non essere violenti, non uccidere) i
comportamenti che sono alla base delle speculari e positive
virtù buddhiste della «compassione» (karu±å) e della
«benevolenza» (påli mettå / scr. maitrî).

4. Il «non-sé» (in påli anattå, in sanscrito anåtman o


nairåtmya) è una delle categorie più importanti e
controverse del pensiero buddhista. Nell'India del primo
millennio a.C. la speculazione di matrice vedica era giunta,
nelle Upanißad, a negare sostanzialità al soggetto che dice
«io» e «mio», per attribuire realtà solo al sé anegoico
(åtman), identificato con la realtà assoluta (brahman).
Questo sé costituiva tra l'altro il sostegno, la garanzia di
continuità su cui basare il principio del susseguirsi delle
rinascite (saµsåra). Le dottrine buddhiste invece, a partire
da quelle attestate nella letteratura canonica in lingua påli,
rinunciano - pur con qualche resistenza e tentennamento (su
36 L’India filosofica

cui si appoggiano alcuni studiosi2 per combattere le


interpretazioni radicali dell'anattå) - a questa
ipostatizzazione del sé: al contrario, avventurandosi, si
potrebbe dire, al limite estremo del percorso di
disidentificazione già iniziato nelle Upanißad, esse
affermano che non si può attribuire sostanzialità non solo
all'io, ma neppure al sé anegoico. Per alcune scuole poi (ma
pure qui spesso l'interpretazione è aperta, e gli studiosi in
disaccordo tra loro) anche gli elementi nei quali viene
analizzata la realtà esperienziale, i dhammå, sono privi di
sostanzialità.3 Secondo una formulazione caratteristica,
«sabbe dhammå anattå», «tutti gli elementi sono privi di sé»
(Dhammapåda, 279). È bene tuttavia chiarire subito che
sarebbe avventato concludere che il pensiero buddhista
abbracci una metafisica del nulla.4

5. L'anattå sembra essere piuttosto, nella maggior parte dei


casi, uno strumento argomentativo antimetafisico, che nega
non già la realtà, bensì le affermazioni su di essa, le

2
Si veda ad esempio, tra gli ultimi di una lunga serie, Pérez-Remón, Self
and Non-Self [1980]. Su questa importante questione vale la pena di
segnalare alcuni lavori per un approfondimento: per una analisi critica
delle varie posizioni possibili si vedano Collins, What are B. doing when
they deny the self? [1994]; Tillemans, What would it be like to be selfless?
[1996]; e Gómez, The Elusive Buddhist Self [1999].
3
Certamente non tutte le scuole buddhiste sostennero questa posizione:
anzi, alcune delle più importanti scuole antiche si sono dichiarate per la
sostanzialità dei dhammå.
4
È questa la vecchia accusa rivolta al buddhismo, di essere cioè un
«culto del nulla». Sulla storia di questa interpretazione e dell'apologetica
religiosa e "occidentale" ottocentesca ad essa connessa si veda Droit, R.-
P., Le culte du néant, Paris 1997. Si veda anche, sulle interpretazioni del
nirvå±a Welbon, G. R., The Buddhist Nirvå±a and Its Western Interpreters,
Chicago and London 1968.
Parte prima: 3. Buddhismo e Jainismo 37

dottrine che si formulano a proposito della sua stabilità, del


suo permanere, oppure viceversa della sua nullità. L'anattå
sarebbe dunque non una dottrina, bensì uno strumento di
confutazione delle dottrine, o «visioni speculative» (di¥¥hi),
che, tutte indimostrabili, non darebbero indicazioni su come
liberarsi dal dolore, e quindi andrebbero evitate. Si legga a
questo proposito la spiegazione degli istruttivi silenzi del
Buddha che si trova nel Discorso a Vacchagotta sul fuoco:5
«O Vaccha, pensare che "il mondo è eterno", [...] "il mondo
non è eterno", "il mondo è finito", "il mondo è non finito",
"il principio vitale e il corpo sono la stessa cosa", "il
principio vitale è una cosa e il corpo è un'altra", "il
Tathågata, dopo la morte, è", "il Tathågata, dopo la morte,
non è", "il Tathågata, dopo la morte, è e non è", "il
Tathågata, dopo la morte, né è né non è", questo, Vaccha,
significa tendere a una visione speculativa, attenersi a una
visione, alle giungle delle visioni, ai contorcimenti delle
visioni, alla zuffa delle visioni, ai vincoli delle visioni. Ciò
è accompagnato da angoscia [...]; non conduce al distacco
[...] né al nibbåna. Io, o Vaccha, ritenendo che questo sia
un pericolo, non mi accosto a queste visioni speculative».

6. Quanto a ciò che è invece possibile dire, esso trova un


compendio, ad esempio, nelle due espressioni che
accompagnano il «sabbe dhammå anattå» citato prima, e
cioè: «sabbe saºkhårå aniccå», «sabbe saºkhårå dukkhå»:
«tutte le predisposizioni sono impermanenti», «tutte le
predisposizioni sono dolore» (Dhammapåda, 277 e 278). Il

5
Si trova in Majjhima-Nikåya I, 483-489 (è il discorso n. 72): il brano
riportato è tradotto in The Middle Length Sayings, transl. by I. B. Horner,
The Påli Text Society, London 1957, vol. II, p.164. La traduzione
italiana è di chi scrive.
38 L’India filosofica

richiamo al dolore e all'impermanenza è evidentemente


basato sull'esperienza diretta della realtà come continuo
fluire e continuo perire.
Il ritmo, per così dire, di questo flusso è scandito dai vari
anelli della catena (circolare) della «coproduzione
condizionata» (pratîtyasamutpåda). Essa descrive
sinteticamente in dodici punti le relazioni causali e di
interdipendenza che provocano la permanenza nel flusso
saµsårico: «nescienza» (avidyå) e «latenze karmiche»
(saµskåra) costituiscono il passato; «coscienza» (vijñåna),
«nome-forma» (nåmarûpa, cioè l'individualità), le «sei
entrate» (ßa∂åyatana), «contatto» (sparça), «sensazione»
(vedanå), «sete» (t®ßnå), «appropriazione» (upadåna) e
«esistenza» (bhava) sono gli otto anelli del presente;
«nascita» (jåti) e «vecchiaia e morte» (jaråmara±a) sono il
futuro.6

II. Il Jainismo.

1. Il Jainismo è un “movimento spirituale” ancora vivo,


benché minoritario, nell'India contemporanea.
Il suo tratto fondamentale - e filosoficamente più rilevante
insieme al «multilateralismo» epistemologico - è l'adesione
radicale all'ideale dell'ahiµså: «Tutti gli arhat e i bhagavat
del passato, del presente e del futuro, tutti così dicono, così
dichiarano, così proclamano, così spiegano: "non si deve

6
Uno dei testi più celebri sul pratîtyasamutpåda è il Çålistambasûtra,
tradotto in italiano in Gnoli (a cura di), Testi buddhisti [1983].
Sull'interpretazione del pratîtyasamutpåda si veda, ad es., Potter et alii
(eds.), Abhidharma Buddhism to 150 A.D. [1996], pp. 43-47.
Parte prima: 3. Buddhismo e Jainismo 39

uccidere, né trattare con violenza, né maltrattare, né


tormentare, né scacciare alcuna creatura che respiri, che
esista, che viva, che senta". Ecco il puro, immutabile,
perenne dharma, proclamato dai sapienti che comprendono
il mondo».7
La giustificazione dottrinale della «non-volontà di nuocere»
(a-hiµså) è naturalmente connessa alla teoria del karman e
della rinascita, che nel Jainismo assume una forma
particolarmente nitida.

2. Della vita di Vardhamåna, che sarebbe stato chiamato


Mahåvîra («grande eroe») e il Jina («vittorioso»),8 e che
svolse per il Jainismo un ruolo parzialmente analogo a
quello ricoperto, per il Buddhismo, da Siddhårtha Gautama,
sappiamo molto poco. Nato prima del Buddha, anch'egli
sarebbe stato di famiglia nobile. Abbracciata la vita
dell'asceta itinerante, avrebbe raggiunto a quarantatre anni la
«conoscenza assoluta», cioè la conoscenza della via per
sfuggire al saµsåra. Considerato dalla tradizione jaina il
ventiquattresimo tîrthaµkara (lett. «facitore di guado»),
sarebbe stato preceduto dal tîrthaµkara Pårçva, che gli
studiosi ritengono una personalità storica.

3. La dottrina jaina costituisce un esempio molto chiaro di


dottrina çramanica, caratterizzata dalla problematica
dell'azione e dei legami che questa comporta. Ne vediamo
qui alcuni aspetti paradigmatici. Essa viene riassunta in sette

7
Åcåråºga-sutta (I, 4, 1), dalla tr. ingl. di H. Jacobi, Jaina Sûtras, part I
= SBE, vol. 22, Oxford 1884, p. 36).
8
I suoi seguaci vengono chiamati jaina (è il derivato di jina) da cui
«Jainismo». Si noti che in italiano a volte si preferisce la grafia
«Giainismo».
40 L’India filosofica

argomenti di base: 1) le «anime» o «spiriti» (jîva), 2)


l'inanimato (ajîva), 3) l'afflusso o contaminazione (åsrava),
4) il legame (bandha) 5) l'arresto del flusso (saµvara), 6)
l'eliminazione (nirjarå) e 7) la liberazione (mokßa). Le
sostanze, cioè i jîva e l'ajîva, esistono realmente.
L'inanimato si suddivide in cinque sostanze (spazio,
presupposti del movimento e della stasi, tempo, materia). La
materia (pudgala) ha una struttura atomica. Non c'è un Dio
creatore, la cui esistenza sarà sempre oggetto di polemica da
parte dei Jaina. I jîva sono infiniti e immortali. L'azione in
generale, ogni azione, produce «afflusso» di particelle
materiali verso il jîva, sul quale si depositano facendogli
assumere una «colorazione» (leçya). La liberazione si
raggiunge attraverso un processo di purificazione che si basa
sui «tre gioielli» («retta visione», «retta conoscenza», «retta
condotta») ed è suddiviso in quattordici stadi. Al termine il
jîva consegue la perfezione (siddhi) e rimane libero.
Il fatto che ogni azione, anche quelle moralmente approvate,
sia causa di «afflusso» karmico, ha due conseguenze
decisive: 1) che il comportamento ideale sarebbe la rinuncia
totale ad agire (e quindi la morte per fame, che fu
effettivamente praticata); 2) poiché tuttavia resta il problema
della «colorazione» accumulata in precedenza, tra le
quattordici tappe del cammino di purificazione deve
necessariamente venirne prevista una (la settima) a partire
dalla quale si ha effettiva «eliminazione» del leçya: è la
kßapaka-çre±î, la «linea dell'asceta distruttore [del karman]».
I precetti etici, in primis l'“astensione dal desiderio di
nuocere” agli altri esseri (ahimßå), costituiscono la
condizione indispensabile per attenuare l'afflusso karmico ed
incamminarsi sul cammino della liberazione.
4.

La Bhagavadgîtå e lo yoga dell’azione.

1. «Perché agire?», «che cos'è l'azione?», «qual è il rapporto


tra azione e conoscenza?», «chi è l'uomo saggio?», «qual è
il rapporto tra l'uomo e la realtà suprema?». A questi
interrogativi cerca di rispondere un poema celeberrimo, la
Bhagavadgîtå, databile tra il II sec. a. C. e il II sec. d. C.

2. La tradizione speculativa bråhma±ica trovò espressione in


opere di varia natura (trattati sul dharma, sulla lingua, sulla
politica, ecc.) ma fu soprattutto nell'epica che vennero
incorporati testi di natura spiccatamente filosofica. La
Bhagavadgîtå è contenuta nel VI libro del Mahåbhårata, il
vasto poema che, accanto al Råmåya±a, costituisce la
grande epica dell'India antica. La vicenda principale narrata
nel Mahåbhårata è quella dello scontro esiziale tra i
Kaurava e i loro cugini, i cinque På±∂ava. Nelle sue diciotto
«letture» la Bh.-g. presenta il dialogo tra Arjuna, il guerriero
per eccellenza tra i På±∂ava, e K®ß±a, il suo auriga, nel
corso del quale K®ß±a si rivela come volto personale della
«realtà suprema» e impartisce ad Arjuna il suo
insegnamento sul problema dell'agire. Arjuna infatti,
vedendo nello schieramento avversario parenti e maestri, è
42 L’India filosofica

preso dallo sconforto e pone angosciosamente l'interrogativo


«perché combattere?» - domanda che nel corso del dialogo
si amplierà sempre di più, fino a comprendere
implicitamente o esplicitamente gli interrogativi ben più
generali che abbiamo elencato all'inizio.

3. K®ß±a risponde indicando perlomeno tre vie, tre


«discipline» (yoga): la disciplina della conoscenza (jñåna-
yoga), la disciplina dell'azione rinunciante in ottemperanza
al proprio dharma (karma-yoga), e la disciplina della
devozione (bhakti-yoga). Nei numerosissimi commenti
filosofici alla Bh.-g. che si sono susseguiti da quando essa
venne considerata un testo a sé stante ed estremamente
autorevole - cioè almeno da quando, al più tardi alla fine
dell'ottavo secolo, il filosofo Çaºkara ne diede una celebre,
assai unilaterale interpretazione - la discussione verte,
fondamentalmente, sulle tre vie sopra elencate: c'è chi
sostiene che una sola di esse debba essere considerata
essenziale (per Çaºkara, ad esempio, lo jñåna-yoga), chi
pensa che esse si implichino vicendevolmente (Yåmuna, X-
XI sec.), chi le dispone una di seguito all'altra in ordine
ascendente (per Råmånuja, XI-XII sec, ad esempio, il
karma-yoga è superiore allo jñåna-yoga, ma il gradino più
alto è riservato al bhakti-yoga), chi le vede come vie
distinte e parallele tra le quali ciascuno deve trovare la
propria (o piuttosto quella che gli è stata assegnata dal fatto
di nascere in una determinata condizione), ecc.

4. Ma se tutte e tre le vie trovano nella Bh.-g. una loro


giustificazione (e forse una reciproca complementarità), è il
karma-yoga ad affrontare più direttamente il problema
dell'agire, offrendone un'analisi ed una soluzione
Parte prima: 4. La Bhagavadgîtå e lo yoga dell’azione 43

particolarmente sottili. Il rifiuto di combattere di Arjuna si


ricollega infatti alla più vasta disputa sulla rinuncia ad agire:
l'azione infatti implica un «frutto» (phala), che costituisce
un «legame», il quale, caricando il meccanismo retributivo
del karman, è causa dell'aborrito perpetuarsi delle rinascite
(saµsåra), in perenne, dolorosa vicenda. La "soluzione
karmayogica" si fonda sull'assunto che il «legame» non sia
intrinseco all'azione stessa, ma dipenda dall'"intenzione" di
chi la compie: l'azione «lega» se chi agisce lo fa spinto dal
desiderio e dall'attaccamento al «frutto dell'azione». Non
essendo in realtà possibile non agire (per vari motivi, come
si spiega nel terzo canto del poema), l'unico modo per
liberarsi dal «legame delle azioni» è compiere l'azione
rinunciando preventivamente al suo frutto: infatti, una volta
abbandonato il frutto dell'azione, questa a priori diviene -
come si è detto glossando nelle lingue occidentali -
un'"azione disinteressata", un'"azione rinunciante", un'"azione
senza desiderio", e una siffatta azione non lega, si esaurisce
in se stessa, senza generare conseguenze.

5. Ma se il karma-yoga consente dunque all'azione di


assurgere al rango di non-azione, esso pone tuttavia un
problema delicatissimo: qual è, infatti, il movente che regge
un'azione che parrebbe restare sospesa nel vuoto della
mancanza di intenzionalità? La risposta karmayogica,
apparentemente semplice, ma in realtà profonda e
inquietante insieme, è che il criterio dell'agire consiste, per
ciascuno, nella necessità di conformarsi allo sva-dharma, al
«proprio dharma»,1 al dovere specifico del proprio ruolo,

1
Dharma è un concetto fondamentale della cultura indiana. Racchiude
in sé significati diversi: dharma è al tempo stesso il «mantenersi»
dell'ordine del mondo, la legge morale (o le leggi morali), a volte la
44 L’India filosofica

inteso sostanzialmente in senso castale: nel caso di Arjuna,


essendo egli un guerriero, il dharma gli impone di
combattere.2

6. La Bh.-g., con la sua capacità di far convivere in un


unico quadro posizioni tra loro (apparentemente?)
contraddittorie, si presenta come una sorta di registrazione
compendiaria, in una forma letteraria spesso molto
suggestiva e raffinata, di alcuni dei principali problemi e
temi che caratterizzano l'universo filosofico-religioso della
tradizione bråhma±ica: il tema del distacco dal desiderio
(kåma), il tema della fedeltà al proprio dharma, il tema del
riconoscimento - come strumento di liberazione (mokßa) -
dell'identità tra l'åtman (il «sé») e la realtà assoluta
(brahman), il tema dell'abbandono amoroso e totale alla
divinità (bhakti), ecc. Anche per questa sua caratteristica la
Bh.-g. è stata individuata, fin dai primordi degli studi

legge in senso giuridico, il dovere, e persino quella che in Europa si


chiama «religione». Il termine sva-dharma, cioé «il proprio dharma»,
rimanda al "proprio posto nel mondo", normalmente inteso in senso
castale. Sul concetto di dharma illuminante è il denso saggio di W.
Halbfass intitolato Dharma in the Self-Understanding of Traditional
Hinduism, comparso come capitolo 17 del suo India and Europe [1988].
2
Vale la pena di notare qui che nell'ambito del cosiddetto “neo-
induismo” tale risposta ha dato adito a interpretazioni divergenti, e
numerosi sono stati i tentativi di svincolare il dharma dalla dimensione
castale. Gandhi, ad esempio, interpreterà il dharma in senso
universalistico e ne individuerà il nucleo essenziale nell'ahiµså (con il
conforto di varie testimonianze testuali - cfr. ad esempio Mahåbhårata
XII, 110, 10; ecc.-; ma certo esiste il problema di quale fosse in questi
testi il significato di ahiµså, e il tentativo gandhiano di spiegare perché
K®ß±a, in nome della «non-violenza», induca Arjuna a riprendere la
guerra, pone non poche difficoltà).
Parte prima: 4. La Bhagavadgîtå e lo yoga dell’azione 45

indologici in Europa, come il testo con cui confrontarsi per


un primo avvicinamento al pensiero indiano.3

3
Molto importanti a questo proposito furono la versione inglese di
Wilkins del 1785 e soprattutto quella latina di August Wilhelm Schlegel
del 1823, che diede il via a una interessante disputa a distanza sul
pensiero indiano che coinvolse W. von Humboldt e Hegel). La Bh.-g. è
così divenuta, negli ultimi due secoli, un testo «universale» (per
utilizzare il termine adottato da Sharpe, E.J., The Universal Gîtå [1985]).
Assai spesso l'interesse dei lettori europei e americani si è concentrato
sull'interpretazione del concetto di dharma, particolarmente importante
nel contesto della «soluzione karmayogica»: non potendoci qui
soffermare su una vicenda che tuttavia varrebbe davvero la pena di
ripercorrere, basterà dire che le interpretazioni variano dalla segnalazione
di vaghe assonanze kantiane all'accettazione del dharma come norma
perenne e universale, dalla totale adesione interiore al dharma inteso
come «necessità amata» (S. Weil) all'esaltazione di un esteriore e
militaresco «dovere per il dovere» connesso a una «metafisica
dell'azione» (ad esempio gli indologi Hauer e Formichi), ecc.
5.

Teoria della disputa e medicina

1. Già nel periodo documentato dalle Upanißad più antiche


la disputa filosofica e il dibattito pubblico rivestivano
un’importanza eccezionale. Il maestro upanißadico
Yåjñåvalkya era noto e temuto per la sua abilità nello
sconfiggere gli avversari. Si deve pensare anche a veri e
propri tornei dialettici organizzati presso le corti regali, al
termine dei quali erano previsti premi consistenti per i
vincitori.1 Le Upanißad attestano che a tali dispute
pubbliche partecipavano, almeno in certi casi, anche le
donne.2
Anche il canone buddhista, l'abbiamo visto, come pure
quello jaina, riportano numerosissimi incontri, discussioni e
dispute memorabili tra maestri itineranti.
Durante la fase più antica sembra comunque che non siano
state elaborate regole per la conduzione del dibattito né che

1
Vedi ad es. B®hadåranyaka Up. III, 1-2: «Janaka di Videha ebbe
desiderio di sapere qual fosse il più dotto tra i brahmani. Rinchiuse
allora in un recinto mille vacche e alle corna di ciascuna erano attaccate
mille monete[d'oro]. Poi disse [ai convenuti]: "Venerabili brahmani! Chi
tra voi è il più dotto brahmano si porti via queste vacche"» (tr. di C.
Della Casa).
2
Si veda il caso di Gårgî, interlocutrice di Yåjñavalkya nella
B®hadåranyaka Up. (III, 6).
Parte prima: 5. Teoria della disputa e medicina 47

siano stati stabiliti criteri in base ai quali assegnare la


vittoria.
Il tema della disputa in generale divenne verosimilmente
oggetto di riflessione in occasione delle contese tra le varie
sette buddhiste,3 allorquando si trattò di stabilire per via
argomentativa quale fosse l'eredità dottrinale del Buddha.
Una testimonianza in tal senso è rappresentata dal
Kathåvatthu (forse del II sec. a.C.): celebre è il dibattito tra
un pudgalavådin e un theravådin sul modo di conoscere il
pudgala (il sostrato trasmigrante esistente secondo i
pudgalavådin e negato dai theravådin).4
Di un certo interesse storico è poi la distinzione tra, per dir
così, “forza dell'argomentazione” e “argomentazione della
forza” che ci viene proposta, sempre in ambito buddhista,
dal Milindapañha: «Il re disse: "Venerando Någasena, vuoi
discutere con me?". "Se tu, gran re, discuterai come fanno i
saggi, io discuterò con te; se invece vuoi discutere come
fanno i re, allora no". "Come discutono i saggi, venerando
Någasena?". "Gran re, nella discussione dei saggi si hanno
lo svolgimento e la ricapitolazione, il convincere e il
concedere; si raggiungono accordi e disaccordi. E i saggi
non si irritano per questo. Così discutono i saggi". "E come
discutono i re?". "Quando i re discutono, essi approvano un
argomento e puniscono chi non lo approva. Così discutono i
re"».

3
Per la storia del buddhismo indiano si possono consultare: Lamotte,
Histoire du Bouddhisme Indien [1958]; Warder, Indian Buddhism [1970].
Una breve sintesi in traduzione italiana è quella di Conze, Breve storia
del Buddhismo [1985].
4
Il brano è riportato e discusso in Matilal, The Character of Logic [1998],
pp. 33-37, oltreché in Bochenski, La logica formale, II [1972 (1956)], pp.
543-6.
48 L’India filosofica

Si verificò tuttavia un mutamento decisivo quando la


riflessione sul dibattito sfociò in una vera e propria teoria
della disputa e delle sue procedure, teoria che divenne essa
stessa un sapere tecnico e codificato.

2. Una sorta di manuale di questo nuovo sapere è contenuto


in uno dei più importanti trattati medici antichi, la
Carakasaµhitå (I o II sec. d.C.). La medicina (Åyurveda) in
India come altrove contribuì notevolmente allo sviluppo di
concezioni e dottrine riguardanti la fisiologia del complesso
psico-fisico, le forze naturali, le vie per superare il dolore.
Abbiamo inoltre visto come ad esempio il modello
espositivo delle quattro nobili verità del Buddha sia quello
medico. Ma quello che qui si vuole sottolineare è che
l'ambito medico - dove doveva essere sentita fortemente la
necessità di discutere, anche pubblicamente, le varie fasi del
processo diagnostico e terapeutico, e di argomentarne la
validità adducendo prove e dimostrazioni - costituì con ogni
probabilità un terreno ideale per la codificazione di un
sapere e di uno stile di ragionamento che finì per
oltrepassare la teoria della disputa, contribuendo a dare
origine alla logica e alla epistemologia che diverranno
dominanti nella filosofia indiana “classica”.5

5
Leggiamo per esempio la seguente raccomandazione di Caraka ai
medici: «Non lasciatevi coinvolgere in argomentazioni e
controargomentazioni complesse, né d'altra parte permettetevi di fingere
che la verità sia ovvia e facile da raggiungere se si aderisce ad una
singola posizione filosofica (pakßasaµçraya). Grazie al vostro intelligente
argomentare finirete per girare a vuoto, come uno che siede su un
torchio che gira in tondo. Liberatevi dai pregiudizi semplicistici e cercate
spassionatamente la verità». Carakasaµhitå I, 25, 32 (citato in Larson,
Åyurveda and the Hindu philosophical systems [1993], p. 111).
Parte prima: 5. Teoria della disputa e medicina 49

Nel “manuale” contenuto nella Carakasaµhitå6 si distingue


dapprima tra la discussione «amichevole» - nella quale si
devono esporre apertamente le proprie ragioni, facendo
appello all'intelletto e alle conoscenze dell'altro senza temere
la sconfitta - e la contesa, nella quale lo scopo da tenere
presente è il vantaggio personale. Seguono un elenco delle
qualità del buon disputatore, consigli su come valutare
l'avversario e su come individuarne e sfruttarne i punti
deboli, nonché indicazioni su quali atteggiamenti tenere a
seconda che il pubblico sia favorevole, neutrale o
sfavorevole.
Quello che fin qui parrebbe solo un manuale di eristica
passa infine a presentare una lista degli argomenti che chi
vuole «sapere come agire nelle dispute» deve conoscere. Si
tratta in realtà di una serie di termini tra i quali
riconosciamo molte delle categorie ontologiche, logiche ed
epistemologiche della filosofia indiana classica. Vediamone
alcune: innanzitutto la disputa stessa (våda). Poi le categorie
del Vaiçeßika: sostanza (dravya), qualità (gu±a)
movimento/azione (karman), universalità/generalità
(såmånya), particolarità (viçeßa). Seguono le parti del
ragionamento dimostrativo, parzialmente analoghe a quelle
sviluppate dal Nyåya: tesi (pratijñå), enunciazione della
prova (sthåpanå), enunciazione della controprova
(pratisthåpanå), ragione/motivo (hetu), applicazione
(upanaya), conclusione (nigamana), replica (uttara), esempio
(d®ß¥ånta), enunciazione conclusiva (siddhånta). Si passa poi
ai mezzi di conoscenza, variamente accettati come validi o

6
Carakasaµhitå III, 8, 14 sgg. Il brano è discusso lungamente già da
Dasgupta (A History of Indian Philosophy, Cambridge 1932, vol. II, pp.
378-88). Si veda inoltre Matilal, The Character of Logic in India cit., pp.
38-43 e soprattutto Frauwallner, E., Nachgelassene Werke I, Wien 1984.
50 L’India filosofica

respinti dalle “scuole»: parola autorevole (çabda), percezione


sensibile (pratyakßa), inferenza (anumåna), tradizione
(aitihya), comparazione/analogia (aupamya). La lista infine
si conclude con una serie di termini tecnici del linguaggio
eristico, anch'essi di notevole interesse.

3. Dopo la fase di cui il testo discusso sopra costituisce


un'importante testimonianza, il pensiero indiano era ormai
pronto a compiere il passaggio verso una sistematica
filosofica dotata di tecniche e di procedure discorsive
proprie. Le “scuole” dei più vari orientamenti si
organizzarono intorno a postulati e tesi fondamentali che
vennero difesi facendo riferimento a regole comuni di
ragionamento. La struttura stessa dell’esposizione nelle opere
e nei commentari filosofici rivela la sua origine dalla
disputa: su un dato argomento si espone dapprima una tesi
avversa (pûrva-pakßa, «prima posizione», «obiezione»), poi
la si confuta dimostrando la propria tesi (uttara-pakßa,
«seconda posizione» o «risposta»), che viene infine ribadita
nell'«enunciazione conclusiva» (siddhånta).
Parte seconda
1.

Epistemologia e logica I: il Nyåya.

1. Il tipo di problemi che, con terminologia di derivazione


greca, chiamiamo «logici» ed «epistemologici», furono in
India affrontati soprattutto dalla scuola Nyåya e da alcune
correnti buddhiste. Contributi notevoli vennero anche dai
Jaina e dai Mîmåµsaka, nonché dai filosofi del linguaggio.
Come si è visto, le origini di questo tipo di dottrine vanno
ricercate nella pratica e nella teoria della disputa.
All'interrogativo epistemologico «quali sono i “mezzi di
conoscenza” (pramåna)?» il Nyåya (Nyåyasûtra I, 1, 3)
risponde sostenendo che essi sono i quattro seguenti:
percezione (pratyakßa), inferenza (anumåna), comparazione
analogica (upamåna) e parola autorevole (çabda).
All'interrogativo logico «qual è la struttura dell'inferenza
valida?» i Nyåyasûtra (d'ora innanzi NS) offrono la seguente
risposta: «I componenti dell'inferenza (anumåna) sono:
l'asserzione preliminare della tesi (pratijñå), il probans
(hetu), l'esemplificazione (udåhara±a), l'applicazione
(upanaya) e l'asserzione conclusiva (nigamana)» (NS I, 1,
32)». «Il probans è la proposizione che asserisce "la causa
dello stabilimento del probandum" (sådhya-sådhana)
attraverso la somiglianza [del soggetto o pakßa] con
l'esempio citato [udåhara±a]; similmente, il probans è la
54 L’India filosofica

proposizione che asserisce "la causa dello stabilimento del


probandum" attraverso la dissomiglianza (vaidharmya) [del
soggetto con l'esempio contrario citato]» (NS I, 1, 34-35).
Come si vede, si tratta di una dottrina giunta ad un elevato
grado di elaborazione tecnica. Abbiamo appositamente
accostato l'elenco dei mezzi di conoscenza alla descrizione
della struttura dell'inferenza per sottolineare fin dall'inizio la
continuità, nel Nyåya, tra l'epistemologia e la logica (ma il
giudizio si può estendere a gran parte della logica
posteriore). Sarebbe dunque fuorviante voler valutare lo
schema inferenziale che costituisce il nucleo centrale della
“logica” indiana classica sulla base di un confronto (che
pure, come vedremo, sembra sorgere spontaneamente) con il
sillogismo aristotelico, il cui orizzonte è invece quello della
“logica formale”.

2. È molto probabile che i NS attribuiti a Gautama (detto


anche Akßapåda) costituiscano il risultato, almeno per le
parti più antiche, dell'elaborazione sistematica di qualche
manuale di eristica. Delle sedici “categorie” trattate dai NS,
infatti, molte provengono dall'ambito della teoria della
disputa, giacché oltre che dei 1) pramå±a e dei 2) prameya
– rispettivamente “mezzi di conoscenza» e “oggetti di
conoscenza» - i NS si occupano dei seguenti argomenti: 3)
il dubbio (saµçaya), 4) l'intento (prayojana), 5) l'esempio
(d®ß¥ånta), 6) la conclusione (siddhånta), 7) i membri
(avayava) dell'inferenza, 8) l'argomentazione (tarka), 9) la
tesi (nir±aya), 10) la disputa o obiezione (våda), 11) la
controversia (jalpa), 12) il cavillo (vitå±∂a), 13) l'errore
logico (hetvåbhåsa), 14) l'inganno (chala), 15) la
confutazione insussistente (jåti) e 16) i punti deboli
dell'avversario (nigrahasthåna). La presenza nei NS dei
Parte seconda: 2. Epistemologia e logica I: il Nyåya 55

prameya («oggetti di conoscenza»: åtman, corpo, facoltà


sensoriali e d'azione, oggetti dei sensi, buddhi, manas,
attività, colpe, esistenza del trapassato, frutto delle azioni,
sofferenza e liberazione) attesta l'avvenuto innesto, sul
tronco della tradizione logico-epistemologica della scuola
Nyåya, di una tradizione metafisico-soteriologica.
I NS furono commentati innanzitutto da Våtsyåyana (V
sec.), a sua volta commentato da Uddyotakara (VI-VII sec.),
che ne prese le difese contro gli attacchi del logico
buddhista Dignåga. Våcaspati Mîçra poi nel X secolo difese
l'opera di Uddyotakara dagli attacchi dell'erede di Dignåga,
Dharmakîrti. Altri importanti filosofi della scuola furono
Jayanta Bha¥¥a, Bhåsarvajña, Çrîdhara e soprattutto Udayana.

3. Torniamo ora alla struttura del processo inferenziale


(anumåna). Per vederne da vicino il funzionamento
riporteremo un esempio tipico, ossia la dimostrazione della
non-eternità del suono (contro la tesi eternalista tipica della
“scuola” denominata Mîmåµså).
Ecco il ragionamento a cinque membri:
1) pratijñå : «il suono è non-eterno».
2) hetu: «perché ha la caratteristica di esser prodotto».
3) udåhara±a: «gli oggetti come la pentola che hanno la ca-
ratteristica di esser prodotti sono non-eterni».
4) upanaya: «similmente, il suono ha la caratteristica di
essere prodotto».
5) nigamana: «dunque il suono è non-eterno, perché ha la
caratteristica di esser prodotto».

In questo caso il probans è basato sulla similarità (del


suono con la pentola).
56 L’India filosofica

La seconda possibilità è che il probans sia basato sulla


dissimilarità:

1) pratijñå : «il suono è non-eterno».


2) hetu: «perché ha la caratteristica di esser prodotto».
3) udåhara±a: «gli oggetti, come il sé, che non hanno la
caratteristica di esser prodotti, si trova che sono eterni».
4) upanaya: «ma il suono non ha la caratteristica di essere
non prodotto».
5) nigamana: «dunque il suono è non-eterno, perché ha la
caratteristica di esser prodotto».1

Si sarà notato che il terzo passo, l'udåhara±a, non si limita


ad enunciare una regola di concomitanza astratta («dove c'è
fumo c'è fuoco»), ma associa sempre a questa regola un
esempio. Questo fatto, lungi dall’essere inessenziale, rivela
la natura profonda della concezione indiana del processo
inferenziale: esso combina in modo inseparabile deduzione e
induzione. Se lo si trasformasse in un sillogismo (ad es. :
«tutto ciò che è prodotto è non-eterno, il suono è prodotto,
dunque è non-eterno»), si perderebbe l'esibizione
dell'esempio, o del controesempio, che ancorano l'inferenza
alla “realtà” e mostrano che la regola da applicare non è
“vuota”.

1
Ma l'esempio più spesso citato di processo inferenziale è il seguente: 1)
pratijñå : «sulla montagna c'è fuoco»; 2) hetu: «perchè c'è fumo»; 3)
udåhara±a: «dove c'è fumo c'è fuoco, come nella cucina»; 4) «upanaya:
c'è fumo sulla motagna»; 5) nigamana: «dunque sulla montagna c'è
fuoco».
Parte seconda: 2. Epistemologia e logica I: il Nyåya 57

Su questo schema inferenziale, e sui problemi posti dalla


sua “ambiguità”, si incentrerà la ricchissima riflessione
logica che coinvolgerà Nayåyika, Buddhisti e Jaina per oltre
un millennio.
2.

Sviluppi nel Buddhismo. Någårjuna

1. Någårjuna fu una delle personalità filosofiche più forti


dell'India antica. La sua dottrina antidottrinaria della vacuità
(çûnyatå) non solo ebbe un'influenza decisiva su gran parte
delle correnti filosofiche buddhiste successive, ma più in
generale costituì una delle strutture portanti del Buddhismo
Mahåyåna, che si sarebbe diffuso, al di là dell'India, in
Cina, Tibet, Giappone, ecc. Si può inoltre dire che il fascino
intellettuale di una dottrina che sfocia nella negazione di se
stessa – o meglio la comprende in sé - abbia oltrepassato i
confini dell'India e dell'espansione buddhista, e non abbia
mancato di esercitarsi su pensatori, anche europei e
americani, estranei a quella tradizione.1
Le risonanze attualizzanti del suo pensiero costituiscono con
ogni probabilità una componente non inessenziale delle
continue controversie interpretative che il suo lascito
filosofico suscita tra gli studiosi.2

1
Si vedano ad esempio nella sezione “Filosofi moderni sul pensiero
indiano” le pagine dedicate a Någårjuna da Karl Jaspers.
2
Su questo tema si veda Tuck, Comparative philosophy and the
Philosophy of Scholarship[1990].
Parte seconda: 2. Sviluppi nel Buddhismo. Någårjuna 59

2. Någårjuna, nato nell'India meridionale, visse a quanto


pare nel II sec. d. C. Su di lui esiste una nutrita tradizione
agiografica dalla quale poco si può trarre per ricostruire la
sua biografia. Gli sono attribuite moltissime opere, tra le
quali anche alcune di carattere alchemico. La più importante
tra le opere che si possono considerare autentiche è quella
intitolata Madhyamaka-kårikå (Le stanze del cammino di
mezzo,3 d'ora in poi MK), che costituisce il testo-base del
Madhyamaka. Essa fu difesa e commentata da vari
esponenti della scuola, tra i quali vanno ricordati
Buddhapålita, Bhavaviveka (V e VI sec.) e Candrakîrti (VII
sec.), autore dell'importante commento intitolato
Prasannapadå. Tra le altre opere di Någårjuna, oltre ad
alcuni inni poetici, andrà segnalata soprattutto la Vigraha-
vyåvartanî (La sterminatrice degli errori,4 d'ora in poi VV).
Discepolo diretto di Någårjuna fu Åryadeva. Nel solco del
Madhyamaka, ma fortemente influenzati dalla logica di
Dignåga e Dharmakîrti e dallo Yogåcåra, vanno considerati
Çåntarakßita e Kamalaçîla (VIII sec.). Instancabile diffusore
del Buddhismo Mahåyåna e del Madhyamaka fu poi
Çantideva (VIII sec.), autore del Bodhicaryåvatåra, un'opera
divulgativa dotata di notevole forza polemico-argomentativa
(si veda la sezione antologica).

3. Någårjuna riprende la nozione di vuoto (çûnya) dalla


letteratura della «Perfezione della Gnosi» (prajñåpåramitå) e

3
Tradotte in italiano da Raniero Gnoli: Någårjuna, Le stanze del cammino
di mezzo, Torino 1961; anche in Gnoli, R. (a cura di), Testi buddhisti in
sanscrito, Torino 1983.
4
Anch'essa tradotta in italiano in Någårjuna, Le stanze cit., pp. 139-56; si
veda anche Någårjuna, Lo sterminio degli errori, a cura di A. Sironi,
Milano 1992.
60 L’India filosofica

ne fa il cardine interpretativo della dottrina della


«coproduzione condizionata»: «la coproduzione condizionata,
questa e non altro noi chiamiamo la vacuità» (MK XXIV,
18). In altre parole, la «vacuità» designa in primo luogo
l'interdipendenza e l'impermanenza dei fenomeni. In
particolare, in polemica con la dogmatica dell'Abhidharma,
Någarjuna attacca la dottrina secondo cui i dharma (gli
elementi ultimi e istantanei della realtà) sarebbero dotati di
«natura propria» (svabhåva). Anch'essi invece, in ultima
analisi, sono «vuoti»:5 Någårjuna ripete cioè contro lo
svabhåva l'antico argomento dell'anattå, condensato nella
frase «tutti i dharma sono privi di sé».

4. Un secondo obiettivo polemico di Någårjuna è la teoria


dei mezzi di conoscenza sostenuta dal Nyåya e in generale
(pur con notevoli differenze) dalle «scuole» bråhma±iche.
«Se io percepissi, mediante la percezione diretta, eccetera,
qualcosa, l’ammetterei o la negherei. Ma, visto che nulla
percepisco, la mia posizione è inobiettabile». «Se, inoltre, tu
pensi che l’esistenza delle varie cose è stabilita dai mezzi di
conoscenza, da che cosa, dí un po’, è stabilita l’esistenza
dei mezzi di conoscenza?» (VV 30-1). Sotto accusa,
ovviamente, è la pretesa di stabilire attraverso i pramå±a la
“realtà” degli oggetti conosciuti.

5. La critica çûnyavåda non si limita alla confutazione della


«natura propria» (svabhåva) e dei pramå±a: in generale si
appunta contro la fondatezza di ogni tesi positiva. Ciò è
chiarissimo nelle MK, dove una dopo l'altra tutte le varie
posizioni filosofiche vengono confutate dimostrando che
esse hanno inevitabilmente implicazioni assurde. Någårjuna
5
La polemica sullo svabhåva dei dharma si può leggere in VV 52 ss.
Parte seconda: 2. Sviluppi nel Buddhismo. Någårjuna 61

fa spesso un uso brillante della struttura argomentativa della


catußko¥i.6 Si tratta di dimostrare di ogni cosa che 1) «né
è», 2) «né non-è», 3) «né è né non-è», 4) «né non-è né non
non-è».
A tale critica radicale sono sottoposte anche le verità
buddhiste, in quanto passibili di essere assunte
dogmaticamente. Di conseguenza Någårjuna deve rispondere
all'obiezione secondo cui anche le quattro nobili verità del
Buddha sono «vuote» (si veda la sezione antologica).

6. Raggiungiamo così il punto più alto della dialettica


någårjuniana. L'apparentemente paradossale negazione degli
stessi dogmi buddhisti conduce ad una domanda radicale
sulla natura del çûnyavåda: in che cosa consiste la
differenza tra esso e il nichilismo (ucchedavåda)? La
risposta di Någårjuna è la seguente: il çûnyavåda stesso
deve essere preservato dal divenire una tesi (VV 29). Se lo
divenisse, si trasformerebbe in una fonte di pericolo: «La
vacuità, male intesa, manda in rovina l’uomo di corto
vedere, così come il serpente male afferrato o una formula
magica male applicata». «E per questo, la mente
dell’Anacoreta si tirò addietro dall’insegnamento della legge,
pensando alla difficoltà che avrebbero avuto gli uomini di
corto vedere a penetrarla» (MK 11-12).
Come l'insegnamento del Buddha era stato una «via
mediana» tra gli estremi del soddisfacimento e della
mortificazione, così il çûnyavåda è una «via mediana»
(madhyamaka, da cui il nome della “scuola”) tra eternalismo

6
Già utilizzata nel Buddhismo primitivo (vedi il discorso a Vacchagotta).
Si veda, anche per un interessante confronto con il rifiuto aristotelico di
utilizzare questo schema tetralemmatico, Bugault, G., L'Inde pense-t-elle?,
Paris 1994.
62 L’India filosofica

(çasvåtavåda) e nichilismo (ucchedavåda), dove «via


mediana» va inteso non nel senso che sta in mezzo, ma nel
senso che è oltre gli estremi, cioè li supera entrambi.

7. Resta tuttavia il problema: che cosa si deve pensare del


dharma buddhista? Occorre seguirlo? Come ci si deve
comportare nella vita ordinaria?
Nasce da questo tipo di interrogativi la dottrina della doppia
verità: quella «assoluta» (paramårtha) e quella «relativa del
mondo» (lokasaµv®ti). Le quattro nobili verità possono certo
essere dichiarate vuote dal punto di vista assoluto, ma non
da quello relativo.
A questo secondo livello il dharma buddhista continua ad
essere indispensabile, pur nella consapevolezza che si tratta
di una zattera che, una volta condottici all'altra riva, deve
essere abbandonata.
3.

Il Såµkhya della Såµkhyakårikå.

1. Il Såµkhya è una dottrina dualista che distingue due


principi, entrambi reali ed eterni, opposti tra loro: il purußa
e la prak®ti. Il purußa (normalmente si rende con «spirito»,
ma la traduzione è fuorviante) è coscienzialità pura, non
soggetta a modificazioni, assolutamente inattiva. La prak®ti
(normalmente si rende con «natura») è invece attività pura
ma inconsapevole: è il principio che da immanifesto
(avyakta) dà origine, per evoluzione/trasformazione
(pari±åma), a tutto quanto è manifesto, intendendo con ciò
sia la realtà materiale che la realtà mentale e “psichica”. È
questo un punto da sottolineare. Non solo infatti nel
Såµkhya c'è continuità tra “corporeità” e “psichicità”, ma
entrambe le dimensioni sono pensate come radicalmente
opposte - in quanto prak®ti - alla pura coscienzialità del
purußa. Il quale di conseguenza non è affatto una realtà
“psichica”.
Contrariamente a quello che ci si potrebbe attendere, il
purußa non è uno: esiste infatti eternamente una pluralità
infinita di purußa, uno per ciascun individuo.
Ogni purußa è in contatto con la prak®ti, ma la natura di
questo contatto non è sufficientemente tematizzata, e ciò
64 L’India filosofica

costituisce ovviamente uno dei problemi teorici più rilevanti


del Såµkhya.
Scopo della dottrina è descrivere il «mezzo» per far cessare
l'«oppressione dovuta al dolore» (Såµkhyakårikå 1). Tale
mezzo, si dice esplicitamente, non è quello rivelato dai Veda
(cioè non è la pratica rituale e sacrificale). «Superiore [ai
mezzi rivelati] è quel mezzo, diverso da essi, che proviene
dalla conoscenza discriminativa (vijñåna) del manifesto
(vyakta), dell'immanifesto (a-vyakta) e del conoscitore (jña)
[cioè il purußa]» (Såµkhyakårikå 2).

2. Il Såµkhya è ritenuto uno dei darçana più antichi e


conserva anche nel periodo “classico” molti tratti di
arcaicità. Tracce significative di quello che viene chiamato
«proto-Såµkhya» si trovano già nelle Upanißad, anche nelle
più antiche.1 Alcune porzioni del Mahåbhårata (soprattutto
la Bhagavadgîtå e il Mokßadharma)2 attestano come intorno
all'inizio dell'era volgare il «proto-Såmkhya» avesse già
sviluppato molte delle categorie che diverranno
3
caratteristiche del Såµkhya “classico”. Una fase ulteriore e

1
La stessa dottrina di Uddålaka Åru±i (Chåndogya Up. VI, 2-5), secondo
cui l'Essere nasce necessariamente dall'Essere e avrebbe tre
manifestazioni, fuoco (rosso), acqua (bianco) e nutrimento (nero), può
essere considerata un precedente della dottrina della preesistenza
dell'effetto nella causa, e delle concezioni della prak®ti e dei tre gu±a
(vedi sopra, Prologo).
2
Il Mokßadharma è una sezione del libro XII del Mahåbhårata.
3
Altre testimonianze del «proto-Såµkhya» si possono trovare nei trattati
medici (soprattutto nella Carakasaµhitå) e nel XII canto del
Buddhacarita di Açvaghoßa (si veda la tr. it. di A. Passi: Le gesta del
Buddha, Milano 1979). In generale sul Såµkhya «pre-classico» e i suoi
rapporti con il Såµkhya classico si possono vedere Johnston, E.H., Early
Parte seconda: 3. Il Såµkhya della Såµkhyakårikå 65

più sistematica sarebbe rappresentata da uno o più testi ora


perduti intolati Íaߥitantra. L'elegante opera di ¡çvarak®ß±a,
la Såµkhyakårikå (350-450 d.C., d'ora in poi SK),
costituisce una sintesi e al tempo stesso una rielaborazione
delle dottrine precedenti. Essa svolge lo stesso ruolo che in
altri darçana svolgono i sûtra di base. Tra i vari commenti
antichi (noti sono soprattutto quello di Gau∂apåda del VI
sec. e la Suvar±asaptati tradotta in cinese da Paramårtha
sempre nel VI sec.) quello di gran lunga più importante è la
Yuktidipikå,4 databile al VII sec. Tra i commenti più tardi
spiccano quelli di due grandi dotti: Våcaspati Miçra (X sec.)
e Vijñånabhikßu (XVI sec.). Soprattutto con quest'ultimo il
Såµkhya subisce un processo di assimilazione, o meglio di
subordinazione, al Vedånta.5

Nel seguito, dopo aver rapidamente tratteggiato la teoria dei


gu±a e dei derivati della prak®ti, ci soffermeremo sui
seguenti temi: 1) la teoria della preesistenza dell'effetto nella
«causa materiale» (satkåryavåda), 2) il ruolo della buddhi
nella relazione tra purußa e prak®ti.

3. Se, per ipotesi assurda, i purußa cessassero di esistere, la


prak®ti cesserebbe di essere attiva. Infatti il processo
creativo (sarga) è causato dall'«associazione» (saµyoga) o

Såµkhya, London 1937; Larson, G. Classical Såµkhya, Delhi 1979;


Larson, G. - Bhattacharya, R. S. (eds.), Såµkhya: A Dualist Tradition in
Indian Philosophy, Princeton 1987.
4
Edita per la prima volta nel 1938.
5
Un elenco esaustivo e una articolazione in tendenze delle opere della
tradizione Såµkhya si può trovare in Larson, G. - Bhattacharya, R. S.
(eds), Såµkhya cit., pp. 14-18.
66 L’India filosofica

compresenza dei due principi, associazione che è come


quella di uno zoppo (il purußa immoto) con un cieco (la
prak®ti priva di coscienzialità).6 L'attività della cieca prak®ti
è dovuta al movimento incessante dei suoi tre costituenti
fondamentali, i tre gu±a, che, senza la presenza del purußa,
resterebbero in una condizione di equilibrio inattivo. I gu±a
sono il sattva (il bianco e luminoso, il tranquillo,
l'intelligibile, ecc.), il rajas (il rosso, l'eccitato e dinamico,
l'instabile, ecc.), e il tamas (l'oscuro, l'inerte, l'errore, ecc.).
Nelle SK gli evoluti elementari della pråk®ti - i tattva - sono
ventitre. Aggiungendo il purußa e la prak®ti i principi
enumerati sono dunque venticinque. È probabile che la
denominazione «Såµkhya» (lett.: «calcolo») tragga origine
da questa e da altre «enumerazioni» analoghe.
Contrariamente a quanto può far supporre la traduzione di
prak®ti con «natura», il movimento di emergenza della
prak®ti dallo stato immanifesto e primordiale (mûla-prak®ti,
lett. prak®ti-radice) allo stato manifesto non comincia dagli
elementi «grossi» per passare poi agli elementi «sottili» e
così via. Al contrario, il primo derivato è proprio l'elemento
che sta assiologicamente all'apice della catena dei derivati:
la buddhi (spesso il termine viene reso con «intelletto»),
che, come si vedrà, ha un ruolo decisivo nel processo di
“liberazione” del purußa. Seguono il senso dell'io
(ahaµkåra) e il sensorio comune (manas), le cinque facoltà
di senso (udire, toccare, vedere, gustare, odorare), le cinque
facoltà d'azione (parlare, afferrare, muoversi, evacuare,
procreare), i cinque elementi sottili (suono, contatto, forma,
gusto, odore) e infine i cinque elementi grossi (“etere”, aria,
fuoco, acqua, terra).

6
Vedi SK 21.
Parte seconda: 3. Il Såµkhya della Såµkhyakårikå 67

Si è voluto dare l'intero elenco dei venticinque tattva, pur


senza discutere il dettaglio della loro derivazione, perché
esso costituisce una sorta di patrimonio o lessico comune
delle dottrine indiane. La portata di questa osservazione può
in realtà essere estesa fino a dire che il Såµkhya stesso
costituisce una specie di “dottrina generale”, un presupposto
- da accettare o da rifiutare polemicamente - sempre
presente sullo sfondo degli altri sistemi filosofici.7

4. «Poiché (a) non si dà produzione di ciò che non esiste


(asat), poiché (b) si dà selezione del materiale, poiché (c)
non si dà originazione di qualcosa da qualsiasi altra, poiché
(d) la produzione del[l'effetto] possibile è propria di ciò che
può [produrlo], e poiché (e) l'effetto ha la stessa essenza
della causa: [per questi motivi] l'effetto preesiste nella
causa» (SK, 9).
Così ¡çvarak®ß±a formula l'importante teoria della
preesistenza dell'effetto nella sua causa (sat-kårya-våda). Si
tratta di una teoria della causalità che viene spesso descritta
come teoria dell'identità dell'effetto e della causa, o in
questo caso, più precisamente, della produzione dell'effetto
come «trasformazione» (vikåra) della causa materiale. Tutto
ciò che si produce preesiste allo stato latente nella sua causa
materiale, dato che (a) non si può produrre ciò che non
esiste già, (b) per produrre un vaso si deve ricorrere all'ar-
gilla, e (c, d) dal chicco di riso non nasce qualcosa di
diverso dal riso, ad es. il grano. L'effetto è sì “reale”, ma
(e)non è essenzialmente diverso dalla sua causa (materiale).8

7
Su questo punto insiste Torella, R., Såµkhya as såmånyaçåstra, in
«Asiatische Studien/Études Asiatiques» 53/3 (1999) pp. 553-562.
8
Contrariamente all'accusa portata dai pensatori del Nyåya, il Såµkhya
conosce anche la nozione di «causa efficiente».
68 L’India filosofica

Questa teoria “fortissima” della causalità apparenta il


Såµkhya all'Advaita Vedånta (dove però l'effetto non è
“reale”) e lo contrappone al Nyåya-Vaiçeßika (l'effetto è
nuovo e diverso rispetto alla causa), così come alle varie
correnti buddhiste (che sostengono discontinuismo e
istantaneismo nel rapporto tra causa ed effetto) e allo
scetticismo radicale dei Cårvåka (secondo i quali i rapporti
tra quelli che percepiamo come «cause» ed «effetti» sono
accidentali). La teoria della preesistenza dell’effetto nella
causa è decisiva per riservare alla prak®ti (nella forma dei
suoi tre gu±a) il ruolo di causa ultima (pradhåna) e unica
del manifesto e delle sue trasformazioni. Da ciò si deduce
che questa teoria è motivata, più che dal desiderio di
rendere conto del processo causale, da preoccupazioni
ontologiche.9 Tutti i derivati sono preesistenti eternamente
nella prak®ti, la cui esistenza evita il regressus ad infinitum.
Non c'è dunque bisogno di postulare un Dio creatore (come
invece avverrà in altri sistemi) o altre cause, né, soprattutto,
di attribuire alcuna causalità o attività al purußa.10

5. Il purußa è coscienzialità pura o, come dice con


precisione la Yuktidipikå,11 «potenza di coscienza» (cetanå-
çakti), mentre la prak®ti non è dotata di coscienza (è a-
cetana): come può dunque la buddhi, un derivato della

9
Su questo punto si veda Halbfass, W., On Being and What there is.
Classical Vaiçeßika and the History of Indian Ontology, Albany1992, pp.
58 sgg.
10
Vedi ad es. il commento di Gau∂apåda alla strofa 61: «come è
possibile che le creature, le quali sono provviste degli elementi
costitutivi, siano create da Dio che ne è privo, o dall'anima [cioè il
purußa] che ne è altrettanto priva? Onde la causalità appartiene alla
stessa natura» (tr. di C. Pensa).
11
Ad es. nel commento a SK 1.
Parte seconda: 3. Il Såµkhya della Såµkhyakårikå 69

prak®ti, essere capace di conoscenza discriminativa e di


intelligenza? Viceversa, come può il purußa, che è inattivo,
accogliere le esperienze che la buddhi gli porge? Questo
interrogativo non cesserà di tormentare i filosofi del
Såµkhya, che, attraverso varie fasi, elaboreranno una teoria
del «riflesso» (pratibimba) e del «mutuo riflesso» (anyonya-
pratibimba) per descrivere la relazione tra la buddhi e il
purußa.12
Tale relazione ha un'importanza decisiva anche nel processo
di “liberazione” - come si può vedere nelle ultime strofe
delle SK riportate nella sezione antologica - giacché questo
avviene in virtù di un atto conoscitivo che si attua non nel
purußa, ma nella buddhi. La prak®ti attiva è immaginata
come una danzatrice, il purußa come lo spettatore. Tutto ciò
che avviene - le trasformazioni della prak®ti, l'acquisizione
del merito, la stessa dolorosa trasmigrazione del «corpo
sottile» - è una danza che la prak®ti compie «a favore del
purußa» (purußårtha). L'atto conclusivo di questa danza si
ha quando la danzatrice «sa» di essere «vista», ossia quando
la buddhi conosce discriminativamente la differenza tra
manifesto/immanifesto e conoscitore. Solo allora la prak®ti
cessa la sua attività, lasciando il purußa nel suo definitivo
isolamento. Il purußa viene così generosamente sollevato
anche dell'unica azione che sembrerebbe competergli, cioè
quella di “raggiungere” lo stato di isolamento (kaivalya).

12
Le due teorie saranno esposte rispettivamente da Våcaspati Miçra e
Vijñånabhikßu.
4.

L'ontologia del (Nyåya-)Vaiçeßika.

1. Che cosa è “reale”? Che cosa “c'è” veramente? Sono


questi gli interrogativi che orientano la ricerca del darçana
chiamato Vaiçeßika. Si tratta di un sistema filosofico realista
e pluralista. Il suo obiettivo è quello di identificare ed
enumerare esaustivamente, tramite l’analisi, gli elementi
della realtà non ulteriormente riducibili.
Ad un primo livello di analisi il Vaiçeßika classifica ciò che
esiste in termini di sei padårtha («significati», o «oggetti di
parola»; spesso si traduce con «categorie»): 1) sostanza
(dravya), 2) qualità (gu±a), 3) azione o movimento
(karman), 4) universalità (såmånya), 5) particolarità (viçeßa),
6) inerenza (samavåya).
Le sostanze sono 9; le qualità 17 (o più); 5 (o più) i
movimenti. Si noterà che gli ultimi tre padårtha sono
eterogenei rispetto ai primi tre.
A un secondo livello l'analisi scompone ulteriormente alcune
delle sostanze (le prime quattro: terra, acqua, fuoco e aria)
in atomi (a±u o paramå±u), eterni e invisibili.
L'atomismo è un tratto caratteristico, se pur non esclusivo,
del Vaiçeßika.1

1
Pertanto non è forse un caso che il nome con cui è noto l'autore del
testo di base della scuola (i Vaiçeßika-sûtra), e cioè «Ka±åda» (che si
potrebbe tradurre come “Il mangia-particelle”, “Il mangia-semi”)
Parte seconda: 4. L'ontologia del (Nyåya-)Vaiçeßika 71

2. Oltre ai Vaiçeßika-sûtra (d'ora innanzi VS) la cui


composizione risale ai primi secoli dell'era volgare, l'opera
più autorevole della scuola è il Padårtha-dharma-saµgraha
di Praçastapåda (V-VI sec.), che non è un commento ai
sûtra, ma un'opera originale che si discosta in vari punti
dall'opera di base (per esempio presenta 24 «qualità»
rispetto alle 17 dei VS). Si può anzi dire che il “sistema” di
Praçastapåda costituisca il punto di partenza per gli ulteriori
sviluppi della scuola.2 Minore influenza ha avuto il Daça-
padårtha-çåstra di Candramati (V sec.), perduto
nell'originale sanscrito e a noi noto attraverso una traduzione
cinese. Come indica il titolo (Trattato delle dieci categorie),
in quest'opera il numero delle categorie è elevato a dieci,
grazie a quattro aggiunte di notevole interesse teorico:
“universalità limitata” (såmånyaviçeßa),3 “potenzialità” e
“non-potenzialità” (çakti e a-çakti) e non-essere (a-bhåva).4
Il più antico commento ai VS a noi giunto sembra essere
quello di Candrånanda (secondo Halbfass forse del IX-X
sec.). Un importante commento all'opera di Praçastapåda è
la Vyomavatî di Vyomaçiva.

contenga un accenno, verosimilmente ironico, alla sua dottrina. Un altro


nome per l'autore dei Vaiçeßika-sûtra è Ulûka.
2
Si può addirittura ipotizzare, per esempio, che la lista delle sei
«categorie» risalga a Praçastapåda, poiché nei VS le categorie erano
originariamente, con ogni probabilità, solo le prime tre.
3
W. Halbfass propone di interpretare il termine come “universale per
se”, “esistenza” (On being and what there is. Classical Vaiçeßia and the
History of Indian Ontology, Albany 1992, p. 72).
4
La categoria di a-bhåva viene aggiunta come settima e ultima categoria
anche in un'opera del XII sec., la Saptapadårthî (Le sette categorie) di
Çivåditya.
72 L’India filosofica

Nel corso della seconda metà del I millennio il Vaiçeßika


tende a fondersi, in un rapporto di complementarità, con il
Nyåya. In altri termini, il Vaiçeßika contribuisce con la sua
sviluppatissima ontologia a completare l'epistemologia e la
logica tipiche del Nyåya. Gli studiosi sono perciò propensi a
parlare di un'unica scuola, il Nyåya-Vaiçeßika.
Nelle pagine che seguono si cercherà di mettere in luce due
degli aspetti più controversi della dottrina Vaiçeßika, la
teoria degli aggregati e la teoria della causalità.

3. Il realismo atomista del Vaiçeßika doveva cercare di


rispondere alla sfida portata dai buddhisti, che negavano la
realtà degli interi compositi o aggregati. Secondo il
Vaiçeßika, gli oggetti forniti dalla percezione sensoriale sono
costituiti in ultima analisi da atomi, che sotto la spinta di
una forza invisibile (ad®ß¥a) si aggregano dapprima in diadi
e poi in triadi di diadi - raggiungendo a questo punto la
soglia della visibilità - e così via. Ora, il Vaiçeßika e il
Nyåya affermano in generale che le totalità composte di
parti costituiscono qualcosa di diverso e di nuovo rispetto
alla semplice somma delle parti. Essi ammettono, infatti, che
«c'è incertezza a proposito dell'intero (avayavin), perché [la
sua esistenza] va provata» (NS II, 1, 33); tuttavia affermano
che a questo dubbio si possono dare due risposte: in primo
luogo, «se non si prova l'esistenza dell'intero, ne consegue
che non si dà apprensione di nessuna cosa» (NS II, 1, 34);
in secondo luogo, al di là di questa conseguenza
paradossale, l'esistenza dell'intero è provata dal fatto che
possiamo «tenerlo e spingerlo» (NS II, 1, 35). Rispetto, cioè,
al mero ammasso delle parti, l'intero è dotato di qualità
ulteriori e distintive: il carro dei buddhisti può essere
«tenuto» e «spinto» in avanti, contrariamente all'eventuale
Parte seconda: 4. L'ontologia del (Nyåya-)Vaiçeßika 73

mucchio dei suoi componenti (ruote, assi, ecc.). Se infine si


vuole attaccare la teoria atomica adducendo per analogia i
casi della foresta composta di alberi e dell'esercito composto
di guerrieri, la risposta è che l'analogia non tiene, perché «a
differenza degli esempi proposti, gli atomi sono
[intrinsecamente] impercettibili» (NS II, 1, 36), cioè il
rapporto tra atomi e intero è diverso da quello che intercorre
tra elementi e insieme, in quanto questi ultimi sono
entrambi visibili.

4. La teoria secondo cui l’«aggregato» (avayavin) è qualcosa


di nuovo rispetto alla somma delle «parti» (avayava) pone
tuttavia rilevanti problemi a livello ontologico. Essa è infatti
in aperto contrasto con la teoria della preesistenza
dell’effetto nella causa (satkåryavåda), sostenuta ad esempio
dal Såµkhya. Infatti tale concezione implica che qualcosa
che «non c'era» giunga all'esistenza: dunque il prodotto (in
questo caso il tutto) non preesiste nella sua causa materiale
(in questo caso le parti).
Il (Nyåya-)Vaiçeßika non indietreggia di fronte a questa
conseguenza, e sostiene apertamente che l'effetto non è
“reale” già nella causa. Né esso può essere, come
sostengono alcuni, sia reale che non reale: «poiché il reale e
l'irreale sono eterogeni, la realtà e la non-realtà non possono
coesistere nell'effetto [prima della sua produzione]» (VS IX,
8, 12). Dato poi che prima della sua produzione non si dà
alcuna percezione dell'effetto (VS IX, 8, 7) - percezione che
ne attesterebbe la realtà - se ne conclude che prima della
sua produzione l'effetto è solo irreale.5 Questa dottrina è
nota come a-satkåryavåda, e costituisce un importante
tentativo di affrontare il problema del divenire, alternativo
5
Si veda il brano riportato nella sezione antologica.
74 L’India filosofica

all'idea che il divenire sia solo una trasformazione (vikåra)


di una sostanza che resta tuttavia eternamente identica a se
stessa.6 Il divenire, secondo il (Nyåya-)Vaiçeßika, è
passaggio dall’irreale al reale, è un giungere all’esistenza di
qualcosa che prima non c’era.

6
Wilhelm Halbfss suggerisce per questa opposizione un modello tratto
dalla riflessione linguistica indiana: la distinzione che Patañjali il
grammatico fa tra vikåra (trasformazione) e ådeça (sostituzione)
(Halbfass, On being cit., p. 57).
5.

Epistemologia e logica II: Dignåga.

1. «Ci sono soltanto due mezzi di conoscenza (pramå±a), e


cioè la percezione sensoriale (pratyakßå) e l'inferenza
(anumåna), perché gli altri, come la parola autorevole,
l'analogia, ecc. sono contenuti in questi due».1
Parte da qui, si potrebbe dire, la polemica del buddhista
Dignåga (V-VI sec.) contro l'epistemologia del Nyåya (e in
generale delle scuole bråhma±iche): i pramå±a indipendenti
non sono quattro, ma solo due, perché gli altri si riducono a
quelli. Infatti la «parola autorevole» si fonda essa stessa
sulla percezione di qualcuno, mentre l'«analogia» non è che
un caso di inferenza. La conseguenza implicita di questa
riduzione era, naturalmente, che la «rivelazione» non poteva
essere invocata per fondare l'esistenza di enti soprasensibili.
Per Dignåga la percezione sensoriale (pratyakßå) è un
mezzo di conoscenza valido in quanto essa fornisce una
conoscenza pura, immediata, libera da ogni costruzione
mentale (kalpanå). Sono le costruzioni mentali e linguistiche
infatti che, sovrapponendosi alla percezione e interferendo
con essa, causano l'errore. Oggetto della percezione
sensoriale è la «caratteristica propria» (sva-lakßana) del

1
Tucci, G. (ed. e tr.), Nyåyamukha of Dignåga, in "Materialien zur
Kunde des Buddhismus" 15, Heidelberg 1930, p. 50.
76 L’India filosofica

percepito. È questa, per Dignåga, la conoscenza per


eccellenza.
Ogni atto percettivo è puntuale, così come è puntuale la
conoscenza che esso produce.
Tuttavia a questa conoscenza si accompagna sempre, per
Dignåga, la percezione di sé in quanto percipiente: l'atto
percettivo è così distinto in due momenti - percezione
immediata dell'oggetto e autocoscienza del percipiente - che
Dignåga chiama le due «forme del conoscere».2

2. Stando alle notizie biografiche che ci sono giunte,


Dignåga sarebbe nato alla fine del V secolo vicino a
Kañchi, nell'India meridionale, da famiglia bråhma±ica. Si
sarebbe fatto monaco buddhista e, insoddisfatto
dell’insegnamento dei suoi maestri, si sarebbe recato
nell'India settentrionale per divenire discepolo di
Vasubandhu. Scrisse varie opere di epistemologia e di
logica. Il suo capolavoro è il Pramå±asamuccaya. Altre
opere importanti sono l'Hetucakra∂amaru e il Nyåyamukha.
Suo successore fu Dharmakîrti (autore del Pramå±avårttika),
che finì per oscurarne la fama. Altri autori notevoli della
scuola logica buddhista furono Dharmottara, Çåntarakßita e
Kamalaçîla.

3. Oltre al pratyakßa Dignåga accetta, come si è visto, un


mezzo di conoscenza indiretto: l’inferenza (anumåna).
Naturalmente l'inferenza, coinvolgendo l'attività della mente,
corre continuamente il rischio di essere inficiata dalle
costruzioni mentali. Il compito che Dignåga si assume è

2
Si veda Pramå±asamuccaya I, 11-13, in Frauwallner, E., Die
Philosophie des Buddhismus, Berlin 1969, pp. 393-4.
Parte seconda: 5. Epistemologia e logica II: Dignåga 77

dunque quello di purificare il processo inferenziale da


qualunque intromissione arbitraria.
Il primo passo da lui compiuto consiste nel distinguere tra
l'inferenza «per se stessi» e quella «per un altro». Quella di
cui ci si deve occupare speculativamente è ovviamente la
prima, poiché è priva delle preoccupazioni comunicative
proprie della seconda. Ebbene, dice Dignåga, lo schema
inferenziale «per se stessi» non è a cinque membri come
quello classico del Nyåya, ma è a tre membri: i primi tre,
visto che altri gli due sono ridondanti.
Dopo aver così “ripulito” lo schema inferenziale da ciò che
non è ad esso pertinente, Dignåga compie un deciso passo
in avanti verso la risoluzione dell'ambiguità (tra deduzione e
induzione) intrinseca allo schema, enunciando la regola dei
tre membri (trairûpya): «È evidente che questa è l'unica
regola d'inferenza valida: se 1) la presenza di questo segno
caratteristico [liºga] definito è stata constatata nel soggetto
[pakßa], e se ricordiamo che 2) lo stesso segno caratteristico
è certamente in tutto ciò che è simile al soggetto [sapakßa],
ma 3) assolutamente assente in tutto ciò che è diverso da
esso [vipakßa], allora il risultato dell'inferenza è certamente
valido».3 È evidente che il punto decisivo di questo passo
risiede nell'uso del termine «tutto»: la validità dell’inferenza
poggia sulla verifica che il «segno caratteristico» definito sia
presente in tutti i «membri della classe del soggetto»
(sapakßa) e sia simultaneamente assente in tutto ciò che
«non appartiene a quella classe» (vipakßa).
Dignåga continua poi passando in rassegna tutte le
possibilità: in linea teorica un «segno caratteristico» può
infatti essere presente a) in tutti i sapakßa, b) in qualche
sapakßa, c) in nessuno dei sapakßa. Lo stesso dicasi per i
3
Tucci, G. (ed. e tr.), Nyåyamukha cit., p. 44.
78 L’India filosofica

vipakßa. Combinando in tutti modi possibili si ottengono,


per la coppia sapakßa/vipakßa, nove possibilità, che
costituiscono quella che Dignåga chiama la «ruota delle
ragioni» (hetu-cakra). Di queste nove combinazioni,
Dignåga mostra come solo due costituiscano la base
dell'inferenza valida, e cioè 1) quella in cui il segno
caratteristico si trova in tutti i sapakßa e in nessun vipakßa,
e 2) quella in cui il segno caratteristico si trova in qualche
sapakßa e in nessun vipakßa.

4. È impossibile discutere qui i passaggi successivi della


storia della logica indiana.4 Si ricorderà soltanto che ci
furono tentativi di intendere in senso estensionale
l'«invariabile concomitanza» tra i sapakßa e il liºga (teoria
della «pervasione», vyåpti) e che da parte jaina venne
enunciato il criterio della «non-occorrenza altrove»
(anyathånupapannatva).

4
Per i quali si vedano Matilal, B.K., The Character of Logic in India,
Albany (NY) 1998 e Bochenski, J.M., La logica formale, vol. II (1956),
tr. it. Torino 1972.
6.

Filosofia del linguaggio: Bhart®hari.


Filosofia della parola rituale: la Mîmåµså.

I. Bhart®hari

1. La tradizione bråhma±ica fu sempre interessata al tema


del linguaggio. Ciò non può stupire, data la necessità, da
parte bråhma±ica, di preservare l'eredità del parola vedica.
Tra le scienze vediche sussidiarie (vedåºga) ben presto
fiorirono l'etimologia e la grammatica (vyåkara±a), che ebbe
carattere al contempo normativo e descrittivo. Il progressivo
affermarsi della lingua sanscrita come lingua dotta delle
classi dominanti rese poi indispensabile una codificazione
del suo uso. Da questo tipo di esigenze trasse origine il
grandioso edificio grammaticale di På±ini (IV-III sec. a.C.),
che con l'Aߥådhyåyî fissò una volta per tutte le regole
normative del sanscrito e fornì un esempio formidabile di
che cosa sia la descrizione linguistica. L'opera di På±ini fu
commentata da Patañjali nel suo Mahåbhåßya (forse del I
sec. a.C.), un'opera che presenta già una notevole
problematica filosofica.
Erede di questa tradizione fu, nell'età della filosofia
sistematica, Bhart®hari (V sec d.C.), che cercò di elevare la
scienza grammaticale al rango di darçana. Ciò comportò il
80 L’India filosofica

tentativo di dimostrare che «la grammatica è la porta che


conduce alla liberazione» (Våkyapadîya 1, 14). Le opere
filosofiche principali di Bhart®hari sono il Våkyapadîya (La
parola e la frase, d'ora innanzi VP) e il commento al
Mahåbhåßya di Patañjali.

2. Le parole esistono? La risposta a questo interrogativo non


è affatto scontata nell'ambito dell'ontologia indiana. La
parola, infatti, non solo si presenta come un tutto costituito
di parti (il che come sappiamo ha implicazioni notevoli sul
suo statuto ontologico), ma le sue parti (i fonemi) non
soddisfano alla condizione essenziale di coesistere
simultaneamente. Di fatto, quando pronunciamo una parola i
fonemi si susseguono prendendo via via l'uno il posto
dell'altro.
I grammatici cercarono di risolvere i problemi teorici che
nascevano dalla debolezza ontologica della parola
distinguendo, nel linguaggio, ciò che è dotato di significato
da ciò che invece, come i fonemi, non lo è.
Per Bhart®hari, come già per Patañjali, il portatore del
significato è un'entità “linguistica” diversa dall'insieme dei
fonemi, chiamata spho¥a (lett. «sbocciamento», «esplosione»
[del significato]). Come il Nyåya-Vaiçeßika aveva difeso le
totalità composite dagli attacchi analitici dei buddhisti
sostenendo che l’aggregato è ontologicamente superiore alla
semplice somma delle sue parti, così Bhart®hari postula con
lo spho¥a un'entità ontologicamente superiore alla semplice
sequenza dei fonemi. Lo spho¥a non ha parti e non è
soggetto a mutamento temporale. Ma che relazione può
esserci tra lo spho¥a e la sequenza fonica? Quando il
parlante intende comunicare un significato, nella sua mente
la parola (o più precisamente, come si vedrà, la frase) è
Parte seconda: 6. Filosofia del linguaggio 81

presente come spho¥a (VP 1, 44). Attraverso la mediazione


di suoni non percepibili (dhvani), il parlante trasforma lo
spho¥a immutabile e privo di parti in una sequenza di suoni
«grossi» finalmente udibili (nåda). Il percorso inverso si
compie dalla parte dell'ascoltatore. Per illustrare come sia
possibile il passaggio da un'unità immutabile e priva di parti
ad una sequenza temporale di suoni Bhart®hari usa l'esempio
del riflesso nell'acqua: se l'acqua è agitata dalle onde,
l'oggetto, che è immobile, sembra, nel riflesso, muoversi
continuamente. Un altro esempio è quello del pittore, che
dipinge come un'unica cosa ciò che vede e percepisce nel
tempo in momenti inevitabilmente successivi (VP 1, 49-52).
Un'analisi analoga vale, ad un livello superiore di
segmentazione, per il rapporto tra le parole e la frase
(våkya): per Bhart®hari anzi è proprio il våkya-spho¥a, lo
spho¥a della frase, a costituire il vero portatore unitario del
significato. Questo significato, esso stesso privo di parti,
unitario e indivisibile, ha la natura della pratibhå, il «lampo
intuitivo».

3. Ma la filosofia del linguaggio di Bhart®hari non intende


limitarsi a queste importanti considerazioni. Infatti «la
purificazione della parola è il mezzo per raggiungere il sé
supremo. Chi ne conosce il principio di funzionamento
ottiene il brahman immortale» (VP 1, 131). La
“grammatica” si pone dunque come un percorso di
liberazione, come uno yoga: il çabda-pûrva-yoga (lett.:
«yoga preceduto dalla parola»).
Il cammino previsto da questo yoga non è tuttavia delineato
chiaramente nel VP, e dobbiamo ricorrere, per saperne di
più, al commento (v®tti), la cui attribuzione allo stesso
82 L’India filosofica

Bhart®hari è però incerta.1 Qui il cammino yogico è


descritto come una sorta di percorso a ritroso rispetto a
quello che si compie nella manifestazione cosmica (vivarta).
Si parte, al livello più basso, dalla lingua come sonorità
percepibile e sequenziale (vaikharî): la «purificazione della
parola» a questo livello consiste nell'uso grammaticalmente
corretto delle parole. Quindi, «dopo aver preso dimora nella
parola che si trova oltre l'attività del respiro, dopo aver
raggiunto la quiete in se stessi attraverso l'unità che risulta
dall'eliminazione della sequenza, dopo aver purificato il
discorso e averlo acquietato nella mente, dopo aver reciso i
suoi legami ed averlo reso libero dai legami, dopo aver
raggiunto la luce interiore, egli [cioè chi ha seguito questo
percorso], si unisce con la Luce suprema».2 La Luce
suprema è quella del Brahman, descritto, all'inizio del VP,
come il principio del suono (çabdatattva) che attraverso la
sua potenza di tempo e di spazio si manifesta e si dispiega
(vivartate) nella molteplicità e nella sequenzialità temporale.
Questo Brahman-suono è il fondamento della totalità del
reale, che - secondo lo schema della causalità già riscontrato
più volte - non è diverso da esso. Siamo di fronte, con
Bhart®hari, ad una forma di non-dualismo (advaita) che non
presuppone l'irrealtà del cosmo.

1
Sulla questione, e in generale sullo yoga linguistico, si veda Franci,
G.R., Grammatica e liberazione. Appunti sullo yoga linguistico, in
Diacronia, sincronia e cultura. Saggi linguistici in onore di L. Heilmann,
Brescia 1984, pp. 91-114.
2
Commento a VP 1, 131. Traduco seguendo la tr. ingl. riportata in
Coward, H.G. - Kunjunni Raja, K., The Philosophy of the Grammarians,
(vol. 5 dell'Encyclopedia of Indian Philosophies curata da K. Potter),
Princeton 1990, pp. 46-7.
Parte seconda: 6. Filosofia del linguaggio 83

II. Filosofia della parola e del rito nella Pûrva-Mîmåµså.

1. Una via notevolmente diversa prese un'altra scuola


bråhma±ica, anch'essa estremamente feconda di speculazioni
sul linguaggio: la scuola esegetica della Pûrva-Mîmåµså
(lett.: «Prima Indagine»). Essa ha certamente origini molto
antiche, da ricercarsi forse nell'esegesi rituale che ritroviamo
nei Bråhma±a.3 I suoi scopi principali sono due: in primo
luogo, stabilire i criteri di corretta interpretazione della
parola vedica ai fini della sua attuazione nel rituale; in
secondo luogo, e soprattutto, difendere argomentativamente
l'autorità dei Veda, e la insostituibilità per la liberazione
delle loro «ingiunzioni», dagli attacchi mossi anche dalle
scuole bråhma±iche (come abbiamo visto per esempio nel
caso del Såµkhya). Per la Pûrva-Mîmåµså i Veda - la çruti,
«ciò che è stato udito» - sono privi di autore e, perciò,
eterni (nitya). Vedremo come da questo presupposto
discendano conseguenze importanti riguardanti la filosofia
del linguaggio.

2. I Mîmåµsaka non ammettono l'esistenza di un Dio


creatore, che evidentemente comprometterebbe l'eternità dei
Veda. Gli stessi dèi ai quali sono indirizzati i sacrifici sono
in realtà ininfluenti per quel che riguarda l'efficacia del
sacrificio: questo infatti è efficace di per sé,
automaticamente; se i suoi effetti non sono percepibili, ciò
non significa che siano inesistenti: sono invece ad®ß¥a,
«invisibili». La caratteristica fondamentale del rito è di
produrre qualcosa che prima non c'era (apûrva). Compiendo
i riti eternamente prescritti (nitya-karman) si interviene sulla

3
I Bråhma±a sono testi ritualistici ed esegetici compresi nel corpus
vedico.
84 L’India filosofica

catena causale del karman e delle rinascite, e si può così


godere di rinascite migliori per poi giungere alla liberazione
dell'åtman immortale.

3. Il testo-base di questa scuola sono i Mîmåµsåsûtra (MS)


di Jaimini (forse dell'inizio dell'era volgare). Il più antico
commento a noi giunto è quello di Çabara (forse del IV-V
sec.). Questo, a sua volta, fu commentato dai due principali
filosofi Mîmåµsaka: Kumårila (VII sec.) - autore dello
Çlokavårttika - e Prabhåkara (VII sec.). Da loro presero
origine due diverse tradizioni di Mîmåµsaka, in forte
opposizione tra loro perfino su punti dottrinariamente
essenziali.

4. Il postulato dell'eternità e autosufficienza del Veda fa di


questa scuola un sistema metafisico impenetrabile alla
critica. Tuttavia le implicazioni di questo postulato andavano
difese dalle obiezioni che venivano mosse dagli avversari.
Ad esempio, se il Veda è eterno, anche il linguaggio in cui
è espresso deve essere eterno. Un'intera sezione del primo
libro dei MS (I, 1, 6-23) è dedicata alla difesa dell'eternità
del suono (çabda). Le obiezioni degli avversari sono: che il
suono (si intende: l'espressione linguistica) è prodotto, che è
impermanente, che viene modificato da una sostanza
materiale (quando si ha l'elisione o la assimilazione di
fonemi contigui), che una stessa parola può essere
pronunciata simultaneamente in luoghi diversi, ecc. A tali
obiezioni si risponde che il suono è un'entità latente e non
prodotta che si attualizza di volta in volta nell'espressione
udibile e che, come il sole che splende da ogni parte, è
ubiqua e può attualizzarsi ovunque. Contro la teoria dello
spho¥a, tuttavia, i Mîmåµsaka (in particolare Kumårila)
Parte seconda: 6. Filosofia del linguaggio 85

insistono sull'eternità della parola in quanto successione di


fonemi (var±a). I fonemi stessi (non dunque i significanti
come in Bhart®hari) sono eterni e ubiqui, il che non può
essere contestato adducendo la loro imperfetta realizzazione
sonora. Ma l'eternità del Veda implica anche che i significati
siano eterni, e soprattutto che siano universali e non prodotti
convenzionali (come ad esempio ritenevano i buddhisti). Ciò
che lega la parola al suo significato non è dunque la
convezione, ma una potenza intrinseca (çakti). Quanto alla
referenzialità della parola: il referente della parola è l'åk®ti
(«forma»), non l'individuo.
Si segnala infine un'interessante differenza di posizioni tra i
seguaci di Kumårila e quelli di Prabhåkara a proposito del
rapporto tra il significato complessivo della frase e i
significati delle singole parole che la compongono: i primi
sostengono che le parole di una frase esprimono in primo
luogo i significati che sono loro propri, e solo in un
secondo tempo questi si combinano a formare il significato
della frase (teoria dell'abhihitånvaya). I secondi sostengono
invece che il significato di ogni singola parola viene
immediatamente modificato, nel momento stesso in cui
viene pronunciata, da quelli delle parole che si trovano in
relazione sintattica con essa (teoria dell'anvitåbhidhåna).
7.

Il Kevalådvaita Vedånta di Çaºkara.

1. Se la Pûrva-Mîmåµså assume come oggetto di indagine


il rito fondandosi sull'esegesi della parte rituale (kriyå-
kå±∂a) dei Veda, la «seconda Mîmåµså» (Uttara-Mîmåµså)
ha invece come oggetto il brahman, e si fonda sull'esegesi
della parte dei Veda relativa al brahman (brahma-kå±∂a),
ovvero le Upanißad, la sezione più speculativa e finale dei
Veda (Veda-anta, «fine dei Veda»). Per questo motivo la
«seconda Mîmåµså» viene chiamata più comunemente
Vedånta. Difficilmente tuttavia si potrebbe affermare che il
Vedånta costituisca una scuola. Le differenze tra i vari
indirizzi che rivendicano il nome di Vedånta sono infatti
enormi, nonostante tutti accettino la «triplice base»
(prasthåna-traya) di testi autorevoli costituita, oltre che
dalle Upanißad, dai Brahmasûtra e dalla Bhagavadgîtå. Le
diverse posizioni di fondo vanno dal non-dualismo assoluto
dell'Advaita Vedånta (il cui rappresentante più noto è
Çaºkara, VIII sec.) al dualismo dello Dvaita Vedånta di
Madhva (XIII-XIV sec.), passando per vari gradi intermedi,
come il «non-dualismo qualificato» di Råmånuja (XI-XII
sec.) e il bhedåbheda («non-differenza nella differenza») di
Bhåskara. Nelle pagine che seguono si cercherà di
tratteggiare rapidamente alcune delle principali dottrine di
Parte seconda: 7. Il Kevalådvaita Vedånta di Çaºkara 87

Çaºkara, l'autore del più antico commento ai Brahmasûtra a


noi giunto (e che rientra nel limite cronologico da noi
convenzionalmente adottato per questo volume).

3. Dei racconti in gran parte leggendari che trattano della


vita di Çaºkara si può ritenere qui quanto segue: Çaºkara fu
un brahma±o dell'India meridionale, nato probabilmente in
Kerala; dopo aver scelto la vita del rinunciante, egli si
sarebbe recato a Benares per approfondire gli studi;
polemista acuto e finissimo, egli avrebbe girato l'India per
dibattere pubblicamente contro avversari di ogni tipo, sia
buddhisti sia appartenenti alle scuole bråhma±iche. Sempre
vincitore, avrebbe non di rado "convertito" i suoi avversari
alle sue dottrine. Dopo aver fondato importanti scuole a
Ç®ºgeri (odierno Karnataka) e a Kañchi (odierno Tamil-
Nadu), egli sarebbe morto all'età di trentadue anni.1
Nonostante la datazione tradizionale lo collochi a cavallo tra
l'VIII e il IX secolo, l'opinione oggi prevalente è che egli
sia vissuto nel secolo VIII. Gli sono attribuite decine di
opere. La critica recente tende a considerare autentici, oltre
al grande Commento ai Brahmasûtra, i commenti alle
principali Upanißad e alla Bhagavadgîtå, nonché, almeno in
parte, un'opera autonoma intitolata Upadeçasåhasrî.

4. Il punto di partenza e di arrivo della dottrina di Çaºkara


è il brahman. Solo il brahman è reale: esso è non duale,
eterno (nitya), privo di qualificazioni (nir-gu±a), non
soggetto a cambiamento, assoluto (kevala). In conformità
con l’insegnamento delle Upanißad, esso è 1) causa

1
Sulla vita di Çaºkara si veda Piantelli, M., Çaºkara e la rinascita del
brahmanesimo, Fossano 1974; si veda anche Piantelli, M., Çaºkara e il
Kevalådvaitavåda , Roma 1998.
88 L’India filosofica

efficente e sostanziale del mondo, ma è anche 2)


precondizione dell’esperienza, in quanto identico all’åtman,
al «sé». Solo accostandosi a queste ultime due caratteristiche
e alla loro articolazione si può comprendere la natura del
brahman çaºkariano. Se infatti ci fermassimo alla prima
caratteristica, ci troveremmo a concepire il brahman come
pura sostanzialità indeterminata.2 Invece la caratteristica di
essere precondizione dell’esperienza ci fa comprendere che
il brahman non è la sostanzialità illimitata, ma è,
essenzialmente e primariamente, coscienzialità (cit).3 Questo
aspetto a volte non viene sufficientemente sottolineato nei
compendi dedicati al pensiero di Çaºkara. Il brahman non
può non essere coscienzialità, perché solo la coscienzialità è
autonoma, indipendente: secondo un argomento già noto al
Såµkhya, ciò che non è cosciente è necessariamente
dipendente, perché dipende dalla coscienza di cui diventa
oggetto. L’åtman-brahman, in quanto assoluto e
indipendente, è dunque coscienzialità pura, precondizione
della coscienza ordinaria. E tuttavia si tratta di una
coscienzialità davvero sui generis. Essa è infatti radicalmente
diversa dalla coscienza ordinaria (e per questo si è preferito
usare il termine «coscienzialità»), in quanto non è
occasionale, ma sussiste eternamente.4 Mentre infatti la

2
Si vedano, nella sezione “Filosofi moderni sul pensiero indiano”, le
critiche di Hegel al concetto dell’assoluto quale viene espresso nella
Bhagavadgîtå.
3
Anche se nelle opere di Çaºkara non compare mai la formula sintetica
sac-cid-ånanda, che dopo di lui servirà a compendiare le caratteristiche
(se così si possono chiamare) del brahman, è certo che Çaºkara concepì
il brahman come essere (sat), coscienzialità (cit) e beatitudine o gioa
(ånanda).
4
In questo l’Advaita Vedånta è in accordo con il Såµkhya, mentre si
oppone tanto alle filosofie buddhiste quanto al Nyåya e alla Mîmåµså.
Parte seconda: 7. Il Kevalådvaita Vedånta di Çaºkara 89

coscienza ordinaria dipende dal presentarsi di oggetti e


dall’attività dei sensi, la coscienzialità pura risplende
indipendentemente dalla presenza di un oggetto. Ci
possiamo fare un’idea di questo tipo di coscienza pensando
al sonno profondo senza sogni (sußupti). In quella
condizione la continuità della coscienza non viene meno
(infatti al risveglio siamo coscienti di non avere sognato),
eppure la coscienza non è diretta verso alcun oggetto. La
coscienzialità pura, inoltre, non è essa stessa oggetto di
coscienza, secondo l’argomento classico che una lampada
non necessita di un’altra lampada per essere illuminata.5
Priva di oggetto, essa stessa non oggetto, la coscienzialità
del brahman è, si potrebbe dire, pura soggettività.
Siamo a questo punto in grado di apprezzare la celebre
introduzione di Çaºkara al suo commento ai Brahmasûtra,6
dove viene analizzato il concetto di «sovrapposizione»
(adhyåsa). L’argomento è il seguente: è purtroppo
connaturato all'uomo il «sovrapporre» sul soggetto (che è
naturato di coscienzialità e la cui sfera è la nozione di “io”),
l’oggetto (la cui sfera è la nozione di “non-io”) e gli
attributi dell’oggetto. Ciò è sbagliato, come è sbagliato,
inversamente, sovrapporre sull’oggetto il soggetto e gli
attributi del soggetto. Le due sfere sono assolutamente
distinte «come la luce e il buio», e solo a causa
dell'ignoranza (a-vidyå) noi operiamo l'erronea
«sovrapposizione» dell'una sull'altra. In questo modo le
limitazioni dell'oggetto vengono attribuite al soggetto puro,
al brahman non duale. Per questo motivo pensiamo di
essere soggetti conoscenti, agenti e fruitori (i cosiddetti
jîva). In realtà l'åtman non conosce, non agisce, non fruisce.

5
Questo paragone si trova, ad esempio, in Upadeçasåhasrî I, 2, 71.
6
Riportata più avanti nella sezione “Esempi di testi filosofici”.
90 L’India filosofica

Çankara interpreta così l'enigma dei due uccelli: «Due


uccelli, stretti amici, abbracciano lo stesso albero. Uno di
essi mangia la dolce bacca; l'altro, senza mangiare, guarda
attentamente».

5. Il rapporto tra la sfera di pura soggettività dell'åtman-


brahman e quella oggettiva non è, ovviamente, paritario. In
certo qual modo il brahman è “causa” del mondo
fenomenico, nel senso che lo “produce” per trasformazione
identica (vivarta). Ma questa trasformazione non è reale. È
un trasformarsi illusorio che si produce per effetto, sul piano
“oggettivo”, della måyå, e, sul piano soggettivo, dell'avidyå.
Esiste dunque un abisso ontologico tra il brahman e il
mondo fenomenico: quest'ultimo scompare allorquando si
conosce la propria identità con il brahman isolato (kevala),
non duale (advaita).
Come nel caso del Çûnyavådå di Någårjuna, anche il
Kevalådvaita Vedånta di Çañkara fa propria la dottrina della
doppia verità, e accorda una sorta di realtà relativa al
mondo fenomenico, all'¡çvara (il Signore), al jîva, alla
fruizione e all'azione. L'indagine sul brahman
(brahmajijñåså)7 è diversa dall'indagine sul dharma, e ad
essa infinatemente superiore: tuttavia anche nel Kevalådvaita
resta la necessità di conformarsi, pur sul piano relativo, al
dharma e alle sue regole.

7
Vedi Brahmasûtrabhåçya, commento al sûtra I, 1.
Esempi di testi filosofici indiani
Esempi di testi: 1. Någårjuna: la dottrina delle due verità 93

1. Någårjuna: la dottrina delle due verità.

In questo brano Någårjuna espone la dottrina dei due livelli di verità,


per rispondere alla critica di chi sostiene che è conseguenza del
çûnyavåda che anche l’insegnamento del Buddha (a partire dalle “quat-
tro Sante Verità”) sia vuoto.
Il brano è tratto dalle Madhyamaka-kårikå, tradotte in italiano da
Raniero Gnoli: Någårjuna, Le stanze del cammino di mezzo, Torino 1961;
anche in Gnoli, R. (a cura di), Testi buddhisti in sanscrito, Torino 1983.

1. Se tutto questo mondo è vuoto, non v’ha allora né


apparizione né sparizione di nulla: in conseguenza, per te, le
quattro Sante Verità non esistono.

2. Non esistendo le quattro Sante Verità, la retta


conoscenza, l’eliminazione, la realizzazione meditativa e
l’esperienza diretta non son più logicamente possibili.

3. Non esistendo questi quattro momenti, non esistono i


quattro santi frutti e, non esistendo i frutti, non esistono né
residenti nei frutti né candidati.

4-5. La comunità non esiste, se questi otto personaggi non


esistono. Non esistendo poi le quattro Sante Verità, non
esiste neppure la buona legge, e, non esistendo né legge né
comunità, come potrà esserci uno Svegliato?

5-6. Così, affermando la vacuità, tu rifiuti l’esistenza reale


dei frutti, il bene e il male morali e tutto l’ordine pratico
delle cose.
94 L’India filosofica

7. A ciò noi rispondiamo: tu non comprendi né il fine della


vacuità, né la vacuità, né il senso della vacuità. Per questo ti
dai tanta briga.

8. L’insegnamento della Legge da parte degli Svegliati si


svolge in base a due verità: la verità relativa del mondo e la
verità assoluta.

9. Coloro che non discernono la differenza tra queste due


verità, non discernono la realtà profonda insita nella dottrina
degli Svegliati.

10. La realtà assoluta non può essere insegnata, senza prima


appoggiarsi sull’ordine pratico delle cose: senza intendere la
realtà assoluta, il nirvå±a non può essere raggiunto.

11. La vacuità, male intesa, manda in rovina l’uomo di


corto vedere, così come il serpente male afferrato o una
formula magica male applicata.

12. E per questo, la mente dell’Anacoreta si tirò addietro


dall’insegnamento della legge, pensando alla difficoltà che
avrebbero avuto gli uomini di corto vedere a penetrarla.
Esempi di testi: 2. Någårjuna: critica dei mezzi di conoscenza 95

2. Någårjuna: critica dei mezzi di conoscenza.

La posizione çûnyavåda di Någårjuna non può risparmiare i pramå±a,


cioè i mezzi che dovrebbero permettere di stabilire la validità delle
conoscenze.
Il brano è tratto dalla Vigraha-vyåvartanî (La sterminatrice degli errori)
nella traduzione italiana di A. Sironi (Någårjuna, Lo sterminio degli
errori, a cura di A. Sironi, Milano 1992).

29. Se io avessi una qualche tesi, senza dubbio sarei vittima


di questi controsensi. Io, senonché, non ho nessuna tesi, e
quindi non mi si può imputare nessun controsenso.

30. Se io percepissi, mediante la percezione diretta, eccetera,


qualcosa, l’ammetterei o la negherei. Ma, visto che nulla
percepisco, la mia posizione è inobiettabile.

31. Se, inoltre, tu pensi che l’esistenza delle varie cose è


stabilita dai mezzi di conoscenza, da che cosa, dí un po’, è
stabilita l’esistenza dei mezzi di conoscenza?

32. Se tu pensi che l’esistenza dei mezzi di conoscenza è


stabilita da altri mezzi di conoscenza, si cade evidentemente
in un regresso all’infinito, e, stando così le cose, non si
stabilisce l’esistenza del primo, non quella del mediano, non
quella dell’ultimo.

33. Se, d’altro canto, tu pensi che l’esistenza dei mezzi di


conoscenza è stabilita senza altri mezzi di conoscenza, tu
vieni meno alla tua tesi, sei passibile dell’accusa di
parzialità e devi addurre ragione di questa parzialità.
96 L’India filosofica

34. Ma (tu dirai) a quel modo che il fuoco illumina se


stesso e le altre cose, così i mezzi di conoscenza provano
l’esistenza di se stessi e delle altre cose.

35. Quest’esempio (io ti rispondo) non quadra. Il fuoco,


infatti, non illumina se stesso. Esso, infatti, non esiste prima
all’oscuro, come un vaso, senz’essere percepito.

36. Se, come tu dici, il fuoco illuminasse, così come le altre


cose, se stesso, esso, logicamente, dovrebbe allora bruciare
se stesso.

37. Oltre a ciò, se il fuoco, come tu dici, illuminasse se


stesso e le altre cose, anche la tenebra, allora, così come il
fuoco, offuscherebbe se stessa e le altre cose.

38. La tenebra non sta nel fuoco né dove sta il fuoco. E


come può dunque dirsi che il fuoco illumina? La luce infatti
è un’offesa ed eliminazione della tenebra.

39. La tua tesi che il fuoco, nascente, illumina se stesso e le


altre cose, è insostenibile. Il fuoco, nascente, non entra,
infatti, in contatto colla tenebra.

40. Se, d’altro lato, tu pensi che il fuoco sopprime la


tenebra, anche senza entrare in contatto con essa, il fuoco
che sta qui dovrebbe allora sopprimere la tenebra di tutti i
mondi.

41. Oltre a ciò, se tu pensi che l’esistenza dei mezzi di


conoscenza è provata di per se stessa, essa lo sarà allora
indipendentemente dalle cose conoscibili. Ciò infatti la cui
esistenza è provata di per se stesso, non dipende da altro.
Esempi di testi: 2. Någårjuna: critica dei mezzi di conoscenza 97

42. Se, per te, l’esistenza dei mezzi di conoscenza è provata


di per se stessa, indipendentemente dalle cose conoscibili,
questi mezzi di conoscenza non saranno più allora per te
mezzi di conoscenza di qualche cosa.

43. Ma (dirà alcuno) se si ammette che l’esistenza dei


mezzi di conoscenza dipende da quella della realtà
conoscibile, a quale controsenso si va mai incontro? A
questo - io rispondo - che uno stabilirebbe l’esistenza di una
cosa che è già di per se stessa stabilita. Una cosa
riconosciuta come esistente non dipende, infatti, da un’altra.

44. Se l’esistenza dei mezzi di conoscenza è, di regola,


stabilita in dipendenza dalle cose conoscibili, l’esistenza
delle cose conoscibili sarà allora stabilita di per se stessa,
indipendentemente dai mezzi di conoscenza.

45. E se l’esistenza delle cose conoscibili è stabilita di per


se stessa, indipendentemente dai mezzi di conoscenza, a che
pro, allora, questi tuoi sforzi per stabilire l’esistenza dei
mezzi di conoscenza? Perché? Ma perché ciò cui essi
servono è già stabilito di per se stesso.

46. Se, d’altro lato, tu pensi che l’esistenza dei mezzi di


conoscenza è stabilita dipendentemente dalle cose
conoscibili, si ha, stando così le cose, un’inversione dei
mezzi di conoscenza e del conoscibile.

47. Se, infine, tu pensi che l’esistenza delle cose conoscibili


è stabilita mediante quella dei mezzi di conoscenza e quella
dei mezzi di conoscenza mediante quella delle cose
98 L’India filosofica

conoscibili, né l’esistenza degli uni né quella degli altri, per


te, è allora più stabilita.

48. Se infatti l’esistenza delle cose conoscibili è stabilita


mediante i mezzi di conoscenza e questi sono, a loro volta,
stabiliti mediante le cose conoscibili, - come, dico, i mezzi
di conoscenza potranno mai stabilire il conoscibile?

49. E se l’esistenza dei mezzi di conoscenza è stabilita


mediante le cose conoscibili e queste sono a loro volta
stabilite mediante i mezzi di conoscenza, - come, dico, le
cose conoscibili potranno mai stabilire i mezzi di
conoscenza?

50. Se il figlio è prodotto dal padre e se, a sua volta, il


padre è prodotto dal figlio, chi è, dimmi, il produttore? e
chi è il prodotto?

51. Qui chi è il figlio? e chi è il padre? E come, dimmi tu,


posseggono ambedue i caratteri di padre e di figlio? Ciò è
infatti per noi argomento di dubbio.

52. L’esistenza dei mezzi di conoscenza non è stabilita né


di per se stessa, né reciprocamente tra di loro, né mediante
altri mezzi di conoscenza, né in dipendenza delle cose
conoscibili né senza causa.
Esempi di testi: 3. I Vaiçeßikasûtra sulla cognizione dell’irrealtà 99

3. I Vaiçeßikasûtra sulla cognizione dell'irrealtà

In questo brano, tratto dai Vaiçeßikasûtra, si dimostra, attraverso l’analisi


delle cognizioni di “reale” e di “irreale”, che l’effetto non può
preesistere nella causa.
Vaiçeßikasûtra IX, 6-12 è stato tradotto in inglese da W. Halbfass in On
being and what there is. Classical Vaiçeßika and the History of Indian
Ontology, Albany 1992, pp. 244-6 (a cui si rimanda per un
approfondimento). Si traduce qui a partire da quella versione.

6. La cognizione «irreale» [sorge] perché non cè più la


percezione di un'entità passata, a causa del ricordo di
[questa] entità passata, e perché c'è qualcosa che contraddice
[la continuità della sua esistenza].

7. Perché, parimenti, c'è percezione dell'esistenza in


riferimento a [ciò che era] inesistenza.

8. Questo spiega [anche] [il prefisso negativo a-, come in]


a-gha¥a, «non-vaso», a-go, «non-mucca», e a-dharma, «non-
dharma».

9. Non c'è differenza di significato [tra il soggetto e il


predicato] ne[lla frase] «una non-entità [cioè ciò che non è
mai presente] non esiste (abhûtaµ na asti)».

10. «Non c'è un vaso nella casa». Ciò nega la connessione


di un vaso reale con la casa.

11. «Non c'è un'altra [cioè una seconda] luna». Ciò esclude
che la luna [abbia un] universale.
100 L’India filosofica

12. Poiché il reale e l'irreale sono eterogenei, la realtà e


l'irrealtà non possono coesistere nell'effetto [prima che sia
prodotto].
Esempi di testi: 4. La relazione tra purußa e prak®ti nel Såµkhya 101

4. La relazione tra purußa e prak®ti nel Såµkhya di


¡çvarak®ß±a
(Såµkhyakårikå 56-69).

In questo brano di grande potenza immaginativa, posto quasi alla


conclusione delle Strofe del Såµkhya, si noterà la fine descrizione del
problematico rapporto tra purußa e prak®ti, che, in fondo, non viene
pensato come un'unione, ma come una semplice compresenza: tutto
(legame, rinascita, liberazione), avviene dal lato della prak®ti, che si
esibisce come una danzatrice di fronte al purußa-spettatore, e cessa la
sua esibizione non appena si accorge di essere stata vista, lasciando così
il purußa nel suo isolamento (kaivalya). La traduzione è di C. Pensa
(¡çvarak®ß±a, Le strofe del Såµkhya, Torino 1960), con qualche modifica.

56. Sicché questo sforzo in quanto vien fatto dalla prak®ti, a


cominciare dalla mente fino agli elementi grossi specifici,
avviene per la liberazione di ogni singolo purußa, cioè a
vantaggio di un altro.

57. A quel modo che il latte insenziente funziona in vista


della crescita del vitello, così la natura funziona in vista
della liberazione del purußa.

58. L'immanifesto agisce per liberare il purußa non


diversamente dalla gente comune che si adopera allo scopo
di soddisfare il desiderio.

59. Come la danzatrice smette di danzare dopo essersi


mostrata al pubblico, così la prak®ti cessa la sua attività
dopo essersi manifestata al purußa.
102 L’India filosofica

60. La prak®ti, che è generosa e provvista dei gu±a, con


innumerevoli mezzi, senza alcun beneficio per sé, compie
l'utile del purußa che è sprovvisto dei gu±a e non la
ricambia in nulla.

61. Nulla, a mio vedere, è più sensibile della prak®ti; la


quale, non appena è conscia di essere stata vista, non si
porge più allo sguardo del purußa.

62. Perciò nessun purußa è legato o liberato né trasmigra.


Non è altro che la prak®ti, con i suoi molti stadi, ad esser
legata o liberata o a trasmigrare.

63. La prak®ti lega se stessa da se medesima per via di sette


forme; per mezzo poi di un'unica forma si libera, compiendo
così il fine del purußa.

64. Così, grazie all'esercizio sui principii, nasce una


conoscenza la quale, atteso che (uno si dice): «Io non sono,
nulla è mio, questo non sono io», è totale: questa
conoscenza, non dandosi errore, risulta unica e pura.

65. In virtù di ciò il purußa, che se ne sta raccolto in se


stesso al proprio posto come uno spettatore, vede la prak®ti
che ha cessato di essere produttiva e che risulta svincolata
dalle sette forme per aver finalmente compiuto lo scopo del
purußa.

66. Il purußa, uno, è indifferente come uno spettatore di


teatro; la prak®ti, una, cessa la sua attività, quando sa di
essere stata vista. Malgrado il contatto esistente tra i due,
non sussiste movente alla creazione.
Esempi di testi: 4. La relazione tra purußa e prak®ti nel Såµkhya 103

67. Ottenuta la perfetta conoscenza, la virtù e le altre forme


divengono improduttive, tuttavia per effetto degli impulsi
carmici il corpo permane ancora, così come accade col
movimento della ruota.

68. Avvenuta la separazione del corpo e avendo la prak®ti,


poiché il suo fine è compiuto, cessato l'attività, il purußa
perviene all'isolamento assoluto e definitivo.

69. Questa segreta conoscenza intesa a compiere il fine del


purußa e nella quale sono considerate nascita, durata e
dissoluzione degli esseri, è stata rettamente esposta dal
sommo veggente.
104 L’India filosofica

5. Çaºkara e la «sovrapposizione» (adhyåsa)

Questo brano costituisce l'introduzione al Brahmasûtrabhaçya, l'opera


principale di Çaºkara. Vi si enuncia compiutamente la teoria della
«sovrapposizione». La traduzione italiana, compiuta tenendo conto della
traduzione inglese di G. Thibaut (in Vedånta-Sûtras. With the
Commentary of Çaºkaråcårya, vol. I, Oxford 1904 = SBE vol. 34), è di
chi scrive.

Che soggetto e oggetto, le cui rispettive sfere sono i concetti


di “io” e di “tu”, e che sono tra loro opposti come la luce e
il buio, non possano essere identificati, è una questione che
non richiede prova. Né possono essere identificati i loro
rispettivi attributi. Ne consegue che è sbagliato sovrapporre
(adhyåsa) sul soggetto, che è naturato di coscienzialità e la
cui sfera è la nozione di “io”, l’oggetto, la cui sfera è la
nozione di “non-io”, e gli attributi dell’oggetto. E viceversa
è sbagliato sovrapporre sull’oggetto il soggetto e gli attributi
del soggetto.
Ciononostante è da sempre connaturato all’uomo - e la
causa di ciò risiede nell’errata conoscenza - il non
distinguere i due campi e i loro rispettivi attributi, benché
essi siano assolutamente distinti: e il sovrapporre invece a
ciascuno la natura caratteristica e gli attributi dell’altro; e
così, mettendo insieme il reale e l’irreale, fare uso di
espressioni quali «Quello sono io» o «Quello è mio».
Ma che cosa dobbiamo intendere con il termine
«sovrapposizione» [adhyåsa]? L’affiorare alla coscienza, in
forma di ricordo, di qualcosa osservato in precedenza in
qualche altro luogo. Alcuni in verità definiscono il termine
“sovrapposizione” come la sovrapposizione su una cosa
degli attributi di un’altra cosa. Altri la definiscono come
Esempi di testi: 5. Çaºkara e la «sovrapposizione» 105

l’errore fondato sulla non apprensione della differenza tra


ciò che è sovrapposto e ciò su cui avviene la
sovrapposizione. Altri ancora la definiscono come
l’attribuzione fittizia di caratteristiche contrarie alla natura
della cosa sulla quale avviene la sovrapposizione.
Tutte queste definizioni concordano su un punto: che la
sovrapposizione è il presentarsi apparente degli attributi di
una cosa su di un’altra cosa. Con ciò concorda anche la
concezione popolare che si esprime in frasi tipo «la
madreperla appare come argento» o «la luna, benché unica,
appare come fosse doppia».1 Ma come è possibile che sul
Sé interiore, che non è esso stesso un oggetto, vengano
sovrapposti degli oggetti e i loro attributi? Giacché ciascuno
sovrappone un oggetto solo su oggetti che gli stiano di
fronte (ossia in contatto con i suoi organi di senso), e tu hai
detto prima che il Sé interiore, che è completamente slegato
dall'idea del Tu (il Non-io), non è mai un oggetto. La
risposta è che esso non è un non-oggetto in senso assoluto.
Infatti esso è l'oggetto della nozione di Io, e l'esistenza del
Sé interiore è conosciuta in ragione del suo presentarsi
immediatamente all'intuizione. D'altra parte non è neppure
una regola senza eccezione quella secondo cui gli oggetti
possono essere sovrapposti solo su altri oggetti che siano di
fronte a noi, cioè in contatto con i nostri organi di senso;
infatti gli uomini privi di discernimento sovrappongono
all'etere, che non è oggetto di percezione sensibile, il colore
blu.2

1
Çaºkara si riferisce a due tipici esempi di errore percettivo: la
madreperla scambiata per argento e la luna vista come duplice da chi ha
un difetto di vista (una malattia chiamata timira).
2
Cioè, guardando il cielo, pensano che l'etere (åkåça) - che non è
percettibile - sia blu.
106 L’India filosofica

Ne consegue che l'assunto secondo cui il Non-sé viene


sovrapposto al Sé interiore non è irragionevole.
La sovrapposizione quale è stata ora definita, i dotti la
considerano Nescienza (a-vidyå), mentre chiamano
conoscenza (vidyå) l'accertamento della vera natura del Sé
per mezzo della discriminazione di ciò che è sovrapposto al
Sé. Essendoci tale conoscenza, [né il Sé né il Non-sé] sono
affetti da qualità negative o positive dovute alla loro mutua
sovrapposizione. La mutua sovrapposizione di Sé e Non-sé,
che viene chiamata Nescienza, è il presupposto su cui si
basano tutte le distinzioni pratiche - sia quelle della vita
ordinaria sia quelle indicate dai Veda - tra mezzi di
conoscenza, oggetti di conoscenza [e soggetti conoscenti],
nonché tutte le scritture, che trattino di ingiunzioni o di
proibizioni [di azioni meritorie o non meritorie], o della
liberazione finale.
Ma [si domanderà], come possono i mezzi di conoscenza
come la percezione sensoriale, l'inferenza, ecc., e le scritture
avere come oggetto ciò che dipende dalla Nescienza?
La risposta è che i mezzi di conoscenza non possono
operare se non c'è una personalità conoscente, e che
l'esistenza di quest'ultima dipende dall'erronea concezione
che il corpo, i sensi ecc. siano identici al Sé della persona
conoscente o gli appartengano. Infatti senza l'impiego dei
sensi la percezione sensibile e gli altri mezzi di conoscenza
non possono operare. E senza una base [ossia il corpo] i
sensi non possono agire. D'altra parte nessuno agisce per
mezzo di un corpo sul quale non sia sovrapposta la natura
del Sé. Né, in assenza di ciò, il Sé - che per sua natura è
libero da ogni contatto - può diventare un agente
conoscente. E se non c'è un agente conoscente, i mezzi di
conoscenza non possono operare [come si è detto sopra].
Pertanto la percezione sensibile e gli altri mezzi di
Esempi di testi: 5. Çaºkara e la «sovrapposizione» 107

conoscenza e i testi vedici hanno per oggetto ciò che


dipende dalla Nescienza. [Il fatto che l'attività cognitiva
umana abbia come presupposto la sovrapposizione sopra
descritta] segue anche dalla non-differenza, sotto questo
profilo, tra l'uomo e gli animali. Gli animali, quando sono
toccati nell'udito o in altri sensi da un suono o altra qualità
sensibile, avanzano o indietreggiano a seconda che l'idea
prodotta dalla sensazione sia rassicurante o impaurente. Per
esempio, se una vacca vede che un uomo le si avvicina con
il bastone alzato, pensa che questi la voglia battere, perciò
fugge; mentre si avvicina a un uomo che le porga dell'erba
fresca. Allo stesso modo gli uomini - che pure possiedono
un'intelligenza superiore - fuggono via allorché vedono
avvicinarsi altri uomini forti e dall'aspetto feroce che
gridano e impugnano spade; mentre si avvicinano
fiduciosamente a persone che mostrino atteggiamenti e
comportamenti opposti. Vediamo così che uomini e animali
seguono il medesimo modo di procedere in rapporto ai
mezzi e agli oggetti di conoscenza. Ora, è noto che il modo
di procedere degli animali si basa sulla non-distinzione [tra
Sé e Non-sé]; ne concludiamo che, visto che presentano le
stesse apparenze, anche gli uomini - per quanto distinti da
intelligenza superiore - procedono in relazione alla
percezione sensibile ecc. nello stesso modo degli animali;
fintantoché, cioè, dura la mutua sovrapposizione di Sé e
Non-sé. Riguardo poi, di nuovo, a quel tipo di attività che è
fondata sul Veda [sacrifici e simili], è certamente vero che
l'uomo di riflessione che sia qualificato a compierla non lo
fa senza sapere che il Sé ha relazione con un altro mondo.
E tuttavia la sua qualificazione non dipende dalla
conoscenza, derivabile dai testi vedåntici [cioè le Upanißad],
della vera natura del Sé in quanto libero da tutti i bisogni
108 L’India filosofica

ed innalzato sopra le distinzioni tra le classi dei bråhma±a e


degli kßatriya e così via, e trascendente l'esistenza
trasmigrante. Infatti questa conoscenza è, rispetto alla
pretesa [dei sacrificatori, ecc. di compiere certe azioni e
goderne i frutti] inutile e persino contraddittoria.
E prima che questa conoscenza del Sé sia sorta, i testi
vedici continuano nella loro operazione, cioè ad avere per
oggetto ciò che dipende dalla Nescienza. Infatti i testi che
dicono, ad esempio, che «un bråhma±a deve compiere i
sacrifici» sono operativi solo se supponiamo che sul Sé
siano sovrapposte condizioni particolari come casta, stadio
di vita,3 circostanze esteriori, e così via. [...] Sono
sovrapposti al Sé attributi extrapersonali allorquando un
uomo si considera sano e integro, o l'opposto, fintantoché
sua moglie, i suoi figli ecc. sono sani e integri o l'opposto.
Sono sovrapposti al Sé [...] attributi degli organi di senso
allorquando egli pensa «sono muto, o sordo, o orbo, o
cieco». Attributi dell'organo interno allorquando si considera
soggetto al desiderio, all'intenzione, al dubbio, alla
determinazione e così via.
Quindi ciò che produce la nozione di Io [cioè l'organo
interno] è sovrapposto al Sé interiore, che, in realtà, è il
testimone di tutte le modificazioni dell'organo interno, e
viceversa il Sé interiore, che è il testimone di tutto, è
sovrapposto all'organo interno, ai sensi e così via. In tal
modo procede questo cominciamento naturale - e la
sovrapposizione senza fine, che appare nella forma di
concezione erronea, è la causa del fatto che le anime

3
Cioè uno dei quattro åçrama, secondo la regola che prevede il
passaggio dalla condizione di brahmåcårin, a quella di g®hastha, poi di
vanapråߥha e di saµnyåsin.
Esempi di testi: 5. Çaºkara e la «sovrapposizione» 109

individuali appaiono come agenti e fruitore [dei risultati


delle loro azioni], e ciò lo può osservare chiunque.
Lo studio dei testi del Vedånta comincia dunque con l'idea
di liberarsi di quell'erronea nozione che è la causa di ogni
male, e di raggiungere così la conoscenza dell'assoluta unità
del Sé.
110 L’India filosofica

6. Çåntarakßita sulla non esistenza di Dio.

Nel brano che segue (Tattvasaµgraha 72 ss.) troviamo un'interessante


applicazione dello schema inferenziale, da parte del filosofo buddhista
Çåntarakßita (sec. VIII), per discutere il problema dell'esistenza di Dio.
La traduzione italiana è tratta, con qualche modifica, da Tucci, G.,
Storia della filosofia indiana, Bari 1957, pp. 326 ss.

Voi [assertori dell'esistenza di Dio] non soltanto desiderate


provare che [il mondo è] stato preceduto da un Ente
intelligente, ma altresì che esiste un'entità detta Dio la quale
è eterna, una, sostrato dell'intelligenza eterna e onnisciente,
causa dell'Universo. Voi desiderate provare che Egli è
anteriore al mondo. Esso è l'oggetto della presente
discussione. L'esistenza di siffatta entità non può essere
provata perché nel vostro ragionamento manca la invariabile
concomitanza in quanto esso è privo del probandum; [il
mondo ha un fattore intelligente, esempio omologo: come
l'orcio; esempio differente: non come l'atomo]; infatti in
ogni esempio omologo "come l'orcio" e altre cose simili
farebbe difetto l'analogia (il vasaio non potrebbe avere gli
attributi di Dio); pertanto non potrebbe provarsi la
concomitanza invariabile del probans con un probandum di
codesta natura. E davvero in nessun esempio [che possa
addursi di un prodotto] si trova questa concomitanza fra il
probans e il carattere del probandum quale è da voi asserito
[...].

[...] Tutto ciò che non ha nascita non può essere causa di
nulla, come un fiore di loto cresciuto nell'aria [che si porta
ad esempio di cose inesistenti]; e noi sappiamo che Dio non
Esempi di testi: 6. Çåntarakßita sulla non esistenza di Dio 111

ha nascita; perciò il vostro argomento è contrario alla


premessa universale (vyapåka). Questo nostro ragionamento
prova altresì l'incongruenza della tesi avversaria; perciò non
si può obiettare contro di esso che il probans non ha locus
standi (åçrayåsiddha). Per quale ragione l'Autore dice che
diversamente tutte le cose nascerebbero contemporanea-
mente? Ma perché se la causa avesse una capacità mai
ostruita [da forze contrarie] - come si conviene a Dio - tutte
le cose dovrebbero nascere nel medesimo tempo, sarebbero
cioè simultanee.
Questo ragionamento logico rende insufficiente la tesi
dell'avversario; oppure si può intendere come semplice
dichiarazione del senso di ciò che è stato detto. La prova
dell'incongruenza nella posizione dell'avversario può così
formularsi: quando una causa è completa, l'effetto ne
consegue naturalmente; così accade nei riguardi del
germoglio il quale si manifesta quando la sua causa sia
completa, il complesso degli elementi causali essendo
arrivato al suo estremo limite di maturazione. Ora, secondo
voi, il mondo, che è prodotto da Dio, ha una causa
completa e perciò dovrebbe nascere simultaneamente.
Voi potete opporre che Dio non è la sola causa del mondo,
ma egli lo crea, avuto riguardo a cause concomitanti come il
merito, il demerito, gli atomi, ecc. in quanto che egli è
soltanto la causa efficiente; per la qual cosa quando queste
altre cause, merito, ecc. difettano, la causa non è intera. Ma
questa interpretazione è errata. Infatti se qualche ausilio
fosse dato dalle cause concomitanti, allora Dio sarebbe
dipendente da codeste cause concomitanti; tuttavia, essendo
egli eterno, e nessuna superiorità potendogli derivare da una
sua dipendenza da altri, le cause concomitanti, non possono
porgergli nessun ausilio. Allora come mai egli potrebbe
112 L’India filosofica

dipendere da siffatte cause concomitanti che non gli sono di


nessun ausilio? Per di più tutte codeste cause concomitanti,
per il fatto che ripetono la loro origine da Dio, dovrebbero
essere continuamente confluenti in lui: perciò la ragione da
noi addotta non è non provata. E non è neppure
inconcludente, perché allora ne deriverebbe l'assenza della
condizione (dianzi detta) che debba esservi completezza di
tutte le cause. Se questa completezza della causa non si
manifesta vi sarebbe perpetua non nascita di chicchessia in
quanto ugualmente mancherebbe quella completezza della
causa.
Uddyotakara (cioè le scuole logiche) obietta: «Sebbene la
causa che si chiama Dio sia intera, ed eterna e presente in
tutte le cose, tuttavia la nascita delle cose non è simultanea,
perché Dio agisce con l'intelligenza. Se la nascita delle cose
fosse dovuta alla semplice essenza divina, senza che quella
nascita fosse prodotta dalla sua intelligenza, allora la
confutazione che voi fate sarebbe applicabile al nostro
ragionamento; ma siccome egli agisce con l'intelligenza,
siffatto errore non può rimproverarsi a noi, in quanto Dio di
sua propria volontà si volge alla creazione dei prodotti che
intende creare. E pertanto la nostra ragione non è
inconcludente». Ma cotesto argomento è improprio: l'attività
e l'inattività delle cose non dipende dalla presenza o
dall'assenza della volontà della causa, quasi che fosse
possibile dire che, essendo sempre prossima la causa
chiamata Dio con la sua efficienza mai impedita, quella
attività o inattività rispettivamente si determinano dopo la
presenza e il difetto della volontà di Lui. Infatti l'essere o
non essere delle cose segue la presenza o l'assenza della
efficienza inerente nella causa; onde avviene che sebbene un
agente abbia la volontà di fare alcunché, quando difetti in
lui l'efficienza nulla potrà egli produrre; ma il frutto deriva
Esempi di testi: 6. Çåntarakßita sulla non esistenza di Dio 113

dalla causa come il seme ecc. che ha l'efficienza di crearlo,


anche senza che la causa possegga la volontà di generarlo.
Allora se codesta causa che voi chiamate Dio sempre
possiede un'efficienza mai impedita, come gli accade nel
momento stesso in cui produce un effetto, perché mai le
cose dovrebbero dipendere, per venire alla esistenza, dalla
sua volontà che non servirebbe proprio a nulla? Esse
dovrebbero infatti venire alla luce simultaneamente come
quando egli crea una quale che sia cosa. Queste cose
dunque solo se nascessero simultaneamente potrebbero
mostrare la perfetta causalità di lui. E Dio, che non ha
bisogno dell'ausilio di nessun'altra cosa, non può dipendere
da nessun'altra cosa per la quale egli dovrebbe dipendere
dalla propria volontà. Inoltre non vi può essere volontà
all'infuori dell'intelligenza; ma voi affermate che
l'intelligenza di Dio è eternamente identica. Allora, sebbene
Dio sia un attore intelligente, come mai le cose non
nascerebbero simultaneamente? Infatti, così come Dio, anche
la sua intelligenza sarebbe sempre presente. Se poi voi
sostenete che la sua intelligenza non è eterna, l'errore in cui
cadete è il medesimo, perché la esistenza di quella
coincidendo con la essenza di Dio, come Dio dovrebbe
sempre esistere.
114 L’India filosofica

7. Çåntideva sul Nyåya.

Dal Bodhicaryåvatåra IX, 69-78. Çåntideva (VIII sec.) fu un importante


esponente del buddhismo madhyamaka. In questo brano egli confuta
alcune dottrine del Nyåya. Il brano è tratto da R. Gnoli (a cura di), Testi
buddhisti in sanscrito, Torino 1983, pp. 515-16.

69. “L'io (dicono alcuni) non è incosciente per incoscienza


naturale, come una stoffa, eccetera”. Se però (io osservo)
esso è cosciente per virtù della sua unione colla coscienza,
allora, appena privato di coscienza, sarebbe distrutto.

70. “L'io (tu forse dirai) è immutabile”. Ma allora (ti


rispondo) qual è l'effetto prodotto da questa unione colla
coscienza? Le qualità di “io” potrebbero essere altrettanto
bene attribuite allo spazio, anch'esso incosciente e inattivo.

71. “Ma la relazione fra l'atto e il frutto è impossibile, senza


l'io! Se infatti chi ha compiuto l'atto perisce, a chi toccherà
il frutto?”.

72. Noi siamo d'accordo su questo punto, che cioè, l'atto e


il frutto hanno un supporto differente. Se, d'altro lato, tu
pensi che l'atto e la degustazione del frutto suppongono
l'attività dell'io, tu repugni alla tua stessa tesi, perché il tuo
io è privo di attività. La discussione è, dunque, superflua.

73. “L'autore dell'atto ne degusta il frutto”. Questa (io ti


rispondo) non è affatto una cosa evidente. Lo Svegliato,
quando ha detto che l'autore dell'atto è anche colui che lo
degusta, ha di fatto attribuito al continuum fenomenico
un'unità fittizia.
Esempi di testi: 7. Çåntideva sul Nyåya 115

74. L'io non può essere né il pensiero passato né il pensiero


futuro, perché essi adesso non esistono. L'io sarà dunque il
pensiero presente? Ma allora, appena sparito questo
pensiero, non vi sarà neppure l'io.

75. Il tronco del banano, decomposto nelle sue parti, non


esiste più come tale. Parimenti l'io esaminato criticamente,
si rivela per una pura irrealtà.

76. “Ma se le creature non esistono su che si esercita allora


la compassione?”. Le creature (ti rispondo) sono immaginate
come esistenti per virtù di un'illusione che noi adottiamo in
vista del fine che vogliamo raggiungere.

77 “Ma, se le creature non esistono, chi può avere un fine


da raggiungere?”. Nessuno, in effetto, (rispondo) e lo sforzo
procede unicamente dall'illusione. Ma, avendo come frutto
l'acquietamento del dolore, questa illusione del fine non è
proibita.

78. Ma l'illusione dell'io, al contrario, alimenta il sentimento


del'io, causa di dolore; e visto che esso non può essere
eliminato altrimenti, bisogna allora coltivare l'idea
dell'inesistenza dell'io.
Filosofi moderni sul pensiero indiano
1. Hegel sulla coscienza yogica.

Nel 1827 Hegel pubblicò una lunga recensione1 ad un importante saggio


di Wilhelm von Humboldt sulla Bhagavadgîtå. Fu questa la sua più
significativa presa di posizione sul pensiero indiano. Notevole è in
particolar modo, al di là delle inesattezze dovute alle ancora scarse
conoscenze del tempo, l’analisi del contenuto della forma di pensiero
propria del meditante.
Il giudizio di Hegel sulla Bhagavadgîtå restò sempre molto negativo.
La traduzione italiana del brano è di G. Pinna in Hegel, Due scritti
Berlinesi, Napoli 1990, pp. 161 sgg. Per un commento si rimanda a S.
Marchignoli, La Bhagavad-gîtå come testo canonico dell'azione: appunti in
margine ad alcune interpretazioni europee, in “Annali di storia
dell'esegesi” 15/2 (1998), pp. 375-388.

I.
Per parlare ora del grado della perfezione, che è lo scopo
supremo [della dottrina dello Yoga espressa nella Bhagavad-
gîtå], consideriamola innanzitutto nella sua forma soggettiva.
Questa perfezione si determina come un perdurante stato
d'astrazione, quell'astrazione di cui si è trattato in tutto
quanto precede - una perenne solitudine dell’autocoscienza,
che ha rinunciato a tutte le sensazioni, a tutti i bisogni e a
tutte le rappresentazioni di cose esterne, e con ciò non è più
coscienza - neppure una compiuta autocoscienza, che
avrebbe come contenuto lo spirito e in tale misura sarebbe
ancora coscienza; un intuire che non intuisce nulla, e non sa
nulla - il puro vuoto di sé in se stesso. In termini moderni
la determinatezza di questo stato va chiamata assoluta
immediatezza del sapere. Giacché dove c’è sapere di

1
Über die unter dem Namen Bhagavad-Gîtå bekannte Episode des
Mahåbhårata, von W. von Humboldt (Berlin 1826), in «Jahrbücher für
wissenschaftliche Kritik» (1827), pp. 51-63 e 1441-1492.
120 L’India filosofica

qualcosa, di un contenuto, là c’è anche al tempo stesso


mediazione. Il soggetto conoscente è conoscitore del
contenuto solo mediante questo contenuto, che è per lui un
oggetto, e il contenuto è un oggetto solo mediante il fatto
che è saputo. Ma la coscienza ha un contenuto solo in
quanto questo è per essa un oggetto, nella sensazione,
nell’intuizione o come si vuole. Giacché il sentire, l’intuire,
se non è il sentire dell’animale, è il sentire, l’intuire
dell’uomo, cioè dell’essere dotato di coscienza. Sono
determinazioni semplici e meramente analitiche, ma coloro
che oggigiorno parlano tanto di sapere immediato sono
addirittura incapaci, nella loro inconsapevolezza e ignoranza,
di notarle e di conoscerle.
Ora questa concentrazione astratta è la beatitudine [...] che
viene promessa ai pii e ai credenti quasi ad ogni pagina del
nostro poema - attraverso il penetrare nella divinità ovvero
letteralmente, innanzitutto, in Krishna, il dissolversi in
Brahma, il trasformarsi in Brahma [...]. Questa unità con
Brahma dona anche la liberazione dalla metempsicosi.

II.
Quest’unità con Brahma conduce da sola al punto finale,
che è il punto più alto all’interno della religione indiana: il
concetto di Brahm, la vetta dell’approfondimento meditativo
[Vertiefung] che abbiamo considerato. Per quanto ciò che è
il Brahm sia facilmente comprensibile e ben noto, tanto
maggiore è la difficoltà di comprendere che rapporto esso
intrattenga con questo approfondimento meditativo, ed è
tanto più interessante considerare tale rapporto da cui, come
risulterà, deriva il concetto stesso di Brahm o che piuttosto
si identifica con tale concetto.
Filosofi sul pensiero indiano: 1. Hegel 121

Se consideriamo più da vicino quali siano l’aspetto


affermativo e l’affermativa determinatezza dello spirito, cui
quello sprofondarsi in se stessi e quell’isolarsi della
coscienza appartengono, vediamo che si tratta del pensiero.
L’espressione “approfondimento meditativo” [Vertiefung] e
le altre espressioni designano l’aspetto situazionale, non la
cosa stessa. Quel fare astrazione da ogni determinatezza,
esteriore ed interiore, da ogni contenuto della sensazione e
dello spirito nel loro affermativo e specifico esserci, è il
pensiero al di fuori di ogni situazione. Bisogna ritenere
sublime che gli indiani si siano sollevati fino a questa
separazione del sensibile dal non sensibile, della molteplicità
empirica dall’universalità, della sensazione, del desiderio,
della rappresentazione, del volere, ecc., dal pensiero, che si
siano sollevati fino alla coscienza dell’altezza del pensiero.
Ma il tratto specifico è costituito dal fatto che dall’immane
astrazione di questo lato estremo non si sono spinti fino alla
conciliazione del particolare, sino al concreto. Il loro spirito
è soltanto il debole oscillare dall’uno all’altro ed infine la
sventura di conoscere la beatitudine solo come
annientamento della personalità, che è identico al nirvå±a
dei buddhisti.
Se, in luogo di espressioni come approfondimento
mediatativo, devozione, ecc. fosse stata usata la designazione
della cosa, cioè pensiero, ciò si opporrebbe al fatto che
quando si tratta del pensiero, anche del pensiero più puro e
astratto, abbiamo sempre l’idea che venga pensato qualcosa,
che nell’atto di pensare abbiamo dei pensieri, che essi sono
cioè per noi un oggetto interno. Se si considera l’intuizione
nella medesima assenza di determinazione, come intuizione
assolutamente pura, essa è la stessa astratta identità con sé.
Neppure la pura e semplice intuizione intuisce qualcosa,
122 L’India filosofica

così che non la si può neanche chiamare intuizione del


nulla, perché essa è priva di oggetto. Ma l’intuizione
implica essenzialmente l’elemento concreto, vale a dire che,
se il pensiero è vero solo nella misura in cui è concreto, la
sua determinatezza specifica è quella pura universalità,
l’identità semplice. Lo yogi che sta seduto, senza alcun
moto interiore o esteriore, e guarda fisso la punta del suo
naso, rappresenta quel pensiero che si è elevato alla vuota
astrazione e si mantiene in questo stato con uno sforzo
violento. Ma questo stato è per noi del tutto estraneo e
remoto, e designandolo con il termine pensiero, che è
assolutamente comune al nostro modo di vedere le cose, lo
si avvicinerebbe troppo a noi.
Se tuttavia ricordiamo quelle espressioni secondo cui
quest’approfondimento meditativo cerca Brahma e
costituisce la via, la direzione che a lui conduce e l’unione
con lui, ciò implica certamente che esso ha un oggetto che
si sforza di raggiungere. Tale approfondimento meditativo di
fatto, nella sua determinazione, come si è mostrato, è privo
di oggetto, e l’atto di sforzarsi e dirigersi a lui afferiscono
soltanto alla coscienza che non l’ha ancora raggiunto. Ora,
in quanto questo pensiero privo di oggetto è nel contempo
rappresentato come essenzialmente in relazione con Brahma
- e però una relazione immediata, cioè indistinta - questo
pensiero puramente astratto è necessariamente determinato
come Brahma stesso: un elemento soggettivo che è identico
a ciò che viene detto oggettivo, così che questa opposizione
scompare e diviene un’enunciazione esteriore, che non è
presente nel contenuto in quanto tale.
Filosofi sul pensiero indiano: 2. Martinetti 123

2. Piero Martinetti sul Såµkhya.

Piero Martinetti, importante filosofo italiano, esordì come scrittore di


filosofia con un libro sul Såµkhya, che egli interpretò in chiave
idealistica. Per un commento si vedano G. R. Franci, Piero Martinetti e
“Il Sistema Sankhya”, in La conoscenza dell’Asia e dell’Africa in Italia nei
secoli XVIII e XIX, vol. I (a cura di A. Marazzi), Napoli 1984, pp. 465-
485 e F. Scialpi, Studi recenti e osservazioni dimenticate sul Såµkhya, in
«AION» 32 (1972), pp. 453-482.
Il brano è tratto da P. Martinetti, Il Sistema Sankhya. Studio sulla filosofia
indiana, Lattes, Torino 1896, pp. 62-65.

Dalle considerazioni precedenti mi sembra quindi risulti con


sufficiente chiarezza che l’Intelligenza e la Personalità1 dalle
quali il Sankhya fa derivare il mondo, non sono da
intendersi come due principi cosmici, extraindividuali, ma
semplicemente come due principi interiori ai quali
l’astrazione psicologica riconduce ogni manifestazione così
soggettiva come oggettiva dell’esistenza empirica. E con lo
stesso criterio deve perciò essere interpretato il concetto
della Natura. Essa non deve cioè essere considerata come
alcunché di esterno e di materiale, ma come l’indistinto
psicologico primitivo e supremo nel cui seno giace allo stato
latente la totalità della nostra esistenza soggettiva empirica,
come quel principio misterioso ed oscuro che esiste da tutta
l’eternità accanto all’anima, come essa increato ed
onnipresente, ma a differenza di essa attivo e non spirituale
ossia incapace di elevarsi per sé alla vita cosciente, e che
per effetto dell’ignoranza diventa, alla luce dell’anima,
l’essere individuale empirico. La sua essenza è costituita di
piacere, dolore ed indifferenza perché sono questi i tre modi

1
Martinetti così intende, rispettivamente, la buddhi e il purußa.
124 L’India filosofica

più generali dell’esistenza empirica stessa ossia della nostra


vita cosciente. [...] Queste tre categorie costituiscono
secondo il Sankhya l’essenza delle cose, perché il mondo
non è concepito da esso che per rapporto all’individuo il
quale lo crea e ne fruisce. Il sattva è la sensazione piacevole
in astratto: quindi comprende ciò che è fonte di gioia, la
bellezza, la bontà, la luce, l’armonia; ed inoltre ciò che
avvicina al bene supremo come la quiete e l’atto del
conoscere, nella cui serena obbiettività par che il Sankhya
veda, come Schopenhauer, il contrapposto della cieca e
dolorosa volontà di esistere che si estrinseca specialmente
nel secondo dei costituenti. Il rajas è la sensazione dolorosa
in astratto: quindi specialmente l’agire, il voler esistere,
l’attività d’ogni specie che ci avvolge in un’infinità di
dolori. Il tamas per ultimo è la sensazione indifferente in
astratto: quindi ciò che non si manifesta a noi né come
piacere né come dolore, come il sonno, l’impotenza
intellettuale ed in genere tutto ciò che è assenza d’ogni
attività dolorosa ma anche d’ogni elevazione e perfezione.
Tale è il senso che, secondo il mio avviso, devesi attribuire
alle teorie cosmologiche del Sankhya. Nella sua forma
originaria la serie delle cause materiali non dovette essere
altro che, come ci è conservata nel Buddhismo, una serie di
astrazioni procedente dalla ricerca della concatenazione delle
cause soggettive del dolore individuale; ed in questa forma
solamente essa ha un senso ed una connessione razionale.
La teoria della sostanzialità permanente delle cose e della
gradazione delle cause materiali secondo la loro maggiore o
minor distinzione alterarono poi la fisionomia primitiva di
questa serie dialettica; e tanto gli organi della soggettività e
gli oggetti (dai quali come da fondamentali dati della
rappresentazione o d’un’induzione semplicissima il Sankhya
muove), quanto la Personalità e l’Intelligenza, furono intesi
Filosofi sul pensiero indiano: 2. Martinetti 125

non come una serie ascendente di cause soggettive della


schiavitù, ma come un’evoluzione di sostanze; ed a capo di
tutta la serie, come causa materiale prima, fu posta
l’indistinzione assoluta, la Natura. Ma in nessun modo
perciò e la Personalità e l’Intelligenza e la Natura vennero
ad essere intesi come esseri cosmici esteriori, materiali: e la
Natura stessa non venne altrimenti pensata che come la
coscienza empirica stessa nella sua assoluta
indeterminatezza, come un’indistinta miscela di piacere,
dolore ed indifferenza destinata a diventare, evolvendosi,
l’io, l’essere empirico individuale nel cui seno sorge il
mondo.
Né si potrebbe opporre (come il Garbe oppone alla
denominazione di idealistico data dal St. Hilaire al
Sankhya), che, poiché la spiritualità appartiene all’Anima
sola, la Natura ed il resto sono alcunché di esteso e di
materiale. Come si è veduto Vijnana2 caratterizza assai bene
ciò che si intende nel concetto indiano per materiale (che
significa “percepibile sensibilmente”); e la sua definizione
esclude la natura e gli altri principi sovrasensibili: né
l’essere i medesimi estesi implica materialità, perché anche
l’anima viene considerata come estesa. Non è quindi esatto
dire che la Natura del Sankhya sia alcunché di materiale;
essa è piuttosto semplicemente un principio attivo ed
inconscio come l’Inconscio di Hartmann o la Volontà si
Schopenhauer. E dalla Volontà di Schopenhauer (con cui lo
Schopenhauer stesso rettamente l’identifica v. Par. u. Par. II,
187) essa differisce in questo solo punto essenziale: che la
Volontà obbiettivandosi produce dal proprio seno anche la
coscienza (in s. s.), il soggetto vero e proprio della

2
Cioè Vijñånabikßu, autore del commento alla Såµkhyakårikå intitolato
Såµkhyapravacanabhåßya.
126 L’India filosofica

conoscenza; laddove la Natura è per sua essenza inconscia e


la coscienza (in s. s.) le perviene da un principio superiore
la cui essenza non è altro che pura spiritualità, cioè
dall’Anima.
Filosofi sul pensiero indiano: 3. Weil 127

3. Simone Weil sul Såµkhya e sulla Bhagavadgîtå

I questa pagina tratta dai Quaderni di Simone Weil emerge un'originale


lettura e una importante applicazione attualizzante delle categorie del
Såµkhya e delle dottrine espresse nella Bhagavadgîtå. Simone Weil, che
ci ha lasciato anche interessanti interpretazioni delle principali Upanißad,
fu attratta dalla Bhagavadgîtå soprattutto per la sua trattazione del
problema dell'azione. Gli appunti risalgono al settembre-ottobre 1941.
Per un commento si rimanda a S. Marchignoli, S.Weil a colloquio con i
testi indù: il desiderio, l'åtman e il dharma, in AA. VV., Politeia e
sapienza, a cura di Adriano Marchetti, Bologna 1993, pp. 47-65.
Il brano è tratto da S. Weil, Quaderni, ed. it. a cura di G. Gaeta, vol. I,
Milano 1982, pp. 333-335.

Che nessuna attività - lavoro fisico o studio - divenga un


ostacolo a vedere l'åtman in ogni cosa. Che ogni attività
abbia al centro dei momenti di arresto. Vi è tamas nella
buddhi. È la fatica che degrada e limita l'attenzione
superiore. Il sattva è ovunque nella prak®ti. Non c'è una
soglia.
L'obbedienza è la virtù suprema. Amare la necessità. La
necessità e il dharma sono una cosa sola. Il dharma è la
necessità amata. La necessità è, rispetto all'individuo, ciò
che vi è di più basso - costrizione, forza, “una dura
necessità” - la necessità universale libera da essa.
Considerare il dharma non come dovere, ma come necessità,
è elevarsi al di sopra. Lasciare libero gioco alle proprie
facoltà di azione e di sofferenza. Parallelismo tra Arjuna e il
Cristo. Combatterà perché non può arrestare questa guerra e
perché, se essa ha luogo, non può non prendervi parte. (Essa
è già cominciata). Fare solamente ciò che non si può non fare.
128 L’India filosofica

Azione non-agente. Egli non vorrebbe combattere e si perde


nella sua emozione di pietà. Ma se si chiede chiaramente:
“mi è consentito non combattere?”, non può a questo punto,
in questa situazione, rispondere di sì.
La non-violenza è buona solo se è efficace. In questi termini
si pone la questione rivolta a Gandhi dal giovane a
proposito di sua sorella. La risposta dovrebbe essere: usa la
forza, a meno che tu non sia in grado di difenderla, con
altrettanta probabilità di successo, senza violenza. A meno
che tu possegga un'irradiazione la cui energia (cioè
l'efficacia possibile, nel senso più materiale) sia uguale a
quella contenuta nei tuoi muscoli. Alcuni hanno avuto
questo potere. San Francesco. Sforzarsi di diventare tale da
poter essere non-violento. Ciò dipende anche dall'avversario.
sforzarsi di sostituire sempre più, nel mondo, la non-violenza
efficace alla violenza. Niente di ciò che è inefficace ha valore.
La seduzione della forza è bassa.1 È una difficoltà terribile.
Arjuna è nel torto perché si lascia sommergere dalla pietà
invece di pesare chiaramente il problema: posso non
combattere? Ha dimenticato la sua bilancia. Ogni uomo
deve imitare Zeus e fare uso della sua bilancia d'oro. La
bilancia del dharma.
Non credere di poter uccidere - né di poter salvare,
beninteso. Non credere di avere un potere. La prak®ti con i
suoi gu±a fa tutto - anche il bene - anche il male - il male
e il bene, tutto. L'uomo non ha alcuna potenza, e tuttavia ha
una responsabilità. L'avvenire corrisponde alla responsabilità,
il passato all'impotenza. E tutto ciò che deve ancora venire
sarà passato.
Se K®ß±a fosse intervenuto a illuminare Arjuna, Arjuna si
sarebbe battuto ugualmente, ma male. Il corpo è una
1
Le ultime due frasi sono unite da una graffa.
Filosofi sul pensiero indiano: 3. Weil 129

bilancia per i moventi, una bilancia perpetua, perpetuamente


mobile. Ciò che si chiama io, me - è solo un movente.
Ma è soprannaturale che per un istante la bilancia si arresti e
sia sospesa. Dopo l'arresto, le STESSE FORZE agiscono su
di essa, ma è più giusta. Deve esservi un ritmo ottimale - una
durata e una frequenza ottimali negli arresti. Anche
quest'arresto implica necessariamente dispendio di energia -
ma energia essenzialmente differente. Come avviene che
qualcosa si arresti? Nella materia inerte, un corpo mobile si
arresta per degradazione dell'energia meccanica in energia
termica. Nell'uomo, apparentemente, trasformazione
dell'energia in senso inverso.
Perché negli scambi e modifiche dei tessuti organici,
soprattutto nervosi, non vi sarebbe una forma di energia che
stia al movimento e all'irradiamento come il movimento e
l'irradiamento stanno al calore?
Il mistero comunque resta lo stesso. Si tratta dei gu±a della
prak®ti. Vi è qualcosa nel mondo con cui il soprannaturale
ha un rapporto, un legame speciale. Che cosa? Quale
legame?
130 L’India filosofica

4. Jaspers su Någårjuna.

Nel suo I grandi filosofi (1957) Karl Jaspers dedica un capitolo al


Buddha e uno (quello finale) a Någårjuna. Notevolissima è la
comprensione della dialettica della vacuità e la comprensione dei suoi
effetti sulla coscienza.
La trad. italiana è di F. Costa in K. Jaspers, I grandi filosofi, Milano
1973, pp. 1237-39.

I Çûnyavådin sono una setta tra le tante. A tutte queste sette


è comune la volontà buddhistica di redenzione, la scienza
del dolore e dell'inessenzialità della realtà mondana. Entro
questa dottrina comune, la riflessione sulla conoscibilità del
reale ha fatto sorgere una molteplicità di opinioni. Il mondo
esterno è veramente reale e si può immediatamente
conoscere con la percezione (come pensano i Sarvastivådin);
esso non è percepito dai sensi, ma la sua esistenza può
essere desunta dalle percezioni (come pensano i
Sautråntika); c'è solo la certezza che la coscienza ottiene da
se stessa, reale è solo il mondo interiore, nella vera realtà
non vale alcuna distinzione tra soggetto e oggetto (così gli
Yogåcåra); né il mondo esterno né quello interno sono
conoscibili come un essere reale per sé stante, non vale
alcuna distinzione reale tra l'essere soggettivo e quello
oggettivo (così i Çûnyavådin, cui appartenne Någårjuna).
In questo quadro schematico dei vari punti di vista
“riguardo alla teoria della conoscenza”, si possono ritrovare
le distinzioni schematiche di idealismo e razionalismo,
razionalismo ed empirismo, positivismo e nichilismo proprie
del pensiero occidentale, specialmente quando si tratta del
problema riguardante la realtà del mondo esterno. Ma questi
concetti non sono che residui razionali del contenuto
Filosofi sul pensiero indiano: 4. Jaspers 131

filosoficamente vissuto nell'India. Ciò che questo contenuto


ha di essenziale si rivela come un punto di vista che non si
può adeguatamente comunicare in una dottrina espressa in
parole. La possibilità di una simile traduzione dottrinaria
dipende dalla misura in cui un sapere determinato viene
usato come mezzo di salvezza. Ma poiché ogni sapere, in
quanto costituito da contenuti positivimente enunciabili,
significa piuttosto adesione, la via della salvezza sta nella
scomposizione del sapere stesso, di ogni soggetto
conoscibile e di ogni concezione possibile. La vacuità di
ogni realtà dell'esserci diventa ora l'essere positivo di ciò da
cui derivano sventura e dolore per la caduta nel divenire del
mondo e verso cui si compie il ritorno. Ogni pensare e ogni
pensato appartengono a questa caduta. Il senso del vero
pensiero sta nel rovesciamento di ogni dispiegamento di
pensiero nel mero non pensare. Ciò che si è verificato
mediante questo dispiegamento si risolve, per opera di un
pensiero migliore, nel ritorno alla dissoluzione del pensiero.
Questo si verifica in ultimo nella penetrazione intuitiva della
falsità di ogni segno indicativo e quindi di ogni linguaggio.
Se la mera datità della parola come segno e la sua
mancanza di senso verace è intuitiva fino in fondo, allora si
dissolve e questa è la liberazione. La dolorosa elaborazione
compiuta dalla coscienza della vacuità nel dispiegamento del
mondo è allora ricondotta all'origine.
Ma nel mondo restano ancora la dottrina, il linguaggio,
l'indicazione della via della salvezza, la distruzione del
pensato ad opera del pensare stesso che ha prodotto la
caduta. Nonostante ogni intellezione ottenibile nel proprio
pensiero mediante l'autosuperamento del pensiero, resta
perciò presente una posizione, a meno che non si realizzi di
fatto seriamente il silenzio assoluto e non abbia fine ogni
parlare, udire, comunicare. Pertanto la posizione di
132 L’India filosofica

Någårjuna, cioè la dottrina del “sorgere condizionato”,


ritorna ad essere una rigida formula della vacuità.
La dottrina di Någårjuna del “sorgere condizionato” dice che
ogni cosa è condizionata perché è e non è allo stesso tempo.
Chi è giunto alla saggezza vede a fondo tutto questo e
perciò diventa padrone di tutte le idee senza esser soggetto
a nessuna di esse. Egli sta sospeso su tutte le idee
determinate mentre si muove tra esse e mette in sospensione
tutto se stesso con il suo esserci. La condizione di ogni cosa
sta in ciò per cui c'è un mondo come questo, simile
all'illusione prodotta da un mago; sta cioè in me e nel mio
pensiero. Il mondo dei dharma e l'io stesso sono dentro il
processo di condizionamento. È questo processo del sorgere
condizionato che produce un mondo in cui presumiamo di
avere sicura dimora mentre il nostro dolore non ha via di
scampo. Il mondo intero del sorgere condizionato, insieme a
questa dottrina, s'infrange nel suo stesso venire enunciato e
questa è la salvazione. Ottenuta la salvazione l'inganno
svanisce nel fondo e si apre ciò di cui è impossibile parlare.
La dottrina è come un barca che ci porta al di là del fiume
dell'esserci. Se questo veicolo ci porta da una sponda
all'altra diviene del tutto inutile. Chi volesse allora
continuare a insegnare la dottrina, così connessa con la
corrente illusoria dell'esserci mondano, sarebbe tanto stolto
come chi, approdato all'altra riva, volesse inoltrarsi nel
nuovo territorio portando la barca sulle spalle. Il saggio
invece l'abbandona alla corrente che si lascia dietro di sé.
La dottrina è utile per farci sempre sottrarre a ogni realtà,
non per farci impiantare in essa.
Filosofi sul pensiero indiano: 5. Mohanty 133

5. Jitendra Nath Mohanty sulla natura del pensiero


filosofico indiano: empirismo, razionalismo e
“fondazione” ultima.

Jitendra Nath Mohanty, grande studioso della fenomenologia husserliana,


è uno dei maggiori storici e interpreti viventi della filosofia indiana. In
questo brano, che apre a prospettive comparatistiche, egli si interroga, in
una sorta di bilancio critico, sulla natura del razionalismo e
dell’empirismo indiani.
Il brano è tratto da J.N. Mohanty, Reason and Tradition in Indian
Thought, Oxford 1992, pp. 227 ss. (la tr. it. è di chi scrive).

I capitoli precedenti hanno senz'altro chiarito che nel


pensiero indiano esiste un forte filone empirista. Ciò è
attestato dal primato della percezione, dall'importanza
dell'“esemplificazione” (d®ß¥ånta) nella teoria del sillogismo,
e dalla notevole mancanza di pensiero modale (“mondi
possibili”, “necessità”, ecc.). Tuttavia, alcune delle rovinose
conseguenze dell'empirismo vengono evitate estendendo
l'ambito della “percezione” fino a includere l'apprensione
intuitiva degli universali e delle relazioni (e in alcuni casi
persino la percezione straordinaria, a-laukika, da parte degli
yogin, di tutto il tempo, passato, presente e futuro). Di fatto,
anche se le posizioni filosofiche non sono mai state
classificate in termini di empirismo e razionalismo (o
simili), l'empirismo ha, nella tradizione filosofica indiana,
prerogative più forti di quelle del razionalismo. Mentre il
termine “esperienza” può, pur con qualche perdita di
significato, essere tradotto con pratyakßa (“percezione”), il
termine “ragione” non possiede sinonimi sanscriti. Buddhi
può essere tradotta con “intelletto“, ma mancano le
134 L’India filosofica

principali implicazioni epistemologiche e metafisiche


connesse al termine “ragione”.
E tuttavia c'è un aspetto della “ragione” che la filosofia
occidentale moderna riconosce specialmente a partire da
Kant. La ragione “costruisce” e “costituisce” il mondo che
conosce. L'idea di “costruzione” è presente in un filone che
attraversa lo Yoga, il Buddhismo e il Vedånta. I termini
decisivi sono kalpanå e vikalpa - che significano entrambi
“immaginazione”. Nel discorso filosofico, per estensione,
vennero a significare la costruzione mentale, intellettuale o
concettuale.
Gli Yogasûtra (I, 9) definiscono il vikalpa come ciò che «è
generato dalla cognizione verbale ma non ha un oggetto
reale» (çabdajñånånupåtî vastuçûnyo). Il commento di Vyåsa
spiega: il vikalpa non è né un pramå±a né appartiene alla
categoria delle cognizioni false. Benché il vikalpa non abbia
un oggetto reale, esso è utile grazie alla potenza della
cognizione verbale. Tra i vikalpa vengono inclusi non solo i
concetti d'invenzione, ma anche concetti come quello di
“tempo”, che, stando al commento a Yogasûtra III, 52, è
«senza alcun oggetto reale», è un «costrutto mentale»
(buddhinirmå±a) ed è «generato dalla cognizione verbale»,
benché alla mente ordinaria appaia reale. Il vikalpa è
dunque una particolare unione di parola, pensiero e cosa;
nel caso dei pramå±a, e anche nel caso delle a-pramå,
questi tre elementi restano disgiunti. Il vikalpa dello Yoga
diventa la kalpanå dei buddhisti, che attribuisce “nome”,
“genere”, “sostanza” ecc. - intese come categorie - all'essere
istantaneo, alla “natura propria” (sva-lakßana) che è afferrata
dalla percezione (pura). Si può poi dire che l'Advaita
Vedånta consideri tutti gli oggetti, e così tutte le differenze
tra essi e all'interno di essi, come «mere costruzioni verbali»
Filosofi sul pensiero indiano: 5. Mohanty 135

(våc-årambha±a-måtra), dovute ad un'ignoranza metafisica


che non ha inizio.
Se di qualcosa si dice che è un a priori nel senso che è una
condizione non empirica della possibilità dell'esperienza, si
può dire che in una vasta parte del pensiero indiano l'avidyå
o ignoranza sia precisamente un a priori. È non-empirica
perché l'ignoranza - sia nel Buddhismo che nel Vedånta -
non ha origine: è an-ådi, senza inizio. Ed è senza inizio
perché, da un lato, non ha senso chiedere «quando hai
cominciato ad ignorare la tal cosa?», e, dall'altro, la
tendenza a concettualizzare, a costruire e a differenziare è
trasportata dalle “nascite” precedenti a quella presente,
sicché in linea di principio non è appresa (quella che si
apprende è la capacità di utilizzare specifici concetti
empirici, non le categorie superiori quali quelle di
“sostanza”, “qualità”, ecc.). Mentre quindi l'avidyå funziona
da a priori in quei sistemi, essa è tuttavia diversa dall'a
priori di molta parte del pensiero occidentale nella misura in
cui 1) è eliminata o meglio distrutta dalla conoscenza
metafisica della natura delle cose, e 2) quelle che essa
costruisce e pertanto fa “essere” sono, piuttosto, false
apparenze rese presenti (mithyå).
Se ora delimitiamo l'idea di un a priori a ciascuno dei
sistemi, sarei indotto a pensare che la teoria dei pramå±a e
la lista dei prameya proprie a ciascun sistema siano una
struttura a priori che il sistema si limita ad elaborare e a
difendere contro i critici. […] I filosofi d'altronde non
riconoscono alcuna modalità particolare di conoscenza
riflessiva che sia implicata in quella speciale attività che è il
pensiero filosofico: i mezzi cognitivi utilizzati dal filosofo
sono gli stessi che utilizzano anche lo scienziato e l'uomo
comune nella vita quotidiana. Sono gli usuali pramå±a:
136 L’India filosofica

percezione, inferenza e çabda, o alcuni altri che possono


essere riconosciuti dal sistema.
Qual è, dunque, il fondamento ultimo dei darçana? Uno
degli scopi che la filosofia in Occidente si è proposta è
quello di fornire un fondamento sicuro ad ogni esperienza
umana - cognitiva, morale, estetica - e a se stessa. Questo
tradizionale fondamentismo è divenuto a poco a poco
sospetto, e ha finito per essere abbandonato da molti
pensatori contemporanei. Ma un pensatore moderno che ha
perseguito senza tregua questo scopo fondamentista è
Husserl e, come ho già fatto in varie occasioni, vorrei
comparare l'ideale dei filosofi indiani a quello di Husserl.
La filosofia indiana condivide con Husserl l'idea che ogni
prova, e pertanto il fondamento ultimo di ogni affermazione,
sia coscienza.
Ma Husserl perseguiva un fine estremamente radicale - il
fine della razionalità: che cioè si possa mostrare, in linea di
principio, che tutte le formazioni mondane, tutte le credenze
scientifiche e quotidiane sono radicate nelle strutture della
coscienza in un modo tale che il filosofo può, riflettendo
all'interno del suo io, far giungere a chiarezza intuitiva
questo radicamento. Questa tesi radicale della
“fenomenologia trascendentale” non ha mai fatto capolino
nel mondo del pensiero indiano. Come ho già avuto modo
di sottolineare, la coscienza fondazionale, per il pensiero
indiano, è una coscienza testimoniante e/o fondante, e non
una soggettività costitutiva universale.
Proseguendo su questa strada, è come se la messa a nudo
della razionalità delle nostre credenze e delle nostre
cognizioni, delle regole morali e delle creazioni artistiche, si
scontrasse, nel pensiero indiano, contro un limite assoluto. I
pramå±a le affermano, la coscienza testimonia di quest'atto
Filosofi sul pensiero indiano: 5. Mohanty 137

di affermazione, ma l'autorità giudicante dei pramå±a non è,


e non può essere, rintracciata nella loro origine nella
struttura di quella coscienza. Qual è dunque la fonte della
loro autorità? Il concetto di razionalità che opera - benché
non tematizzato - nel pensiero indiano dipende dalla nostra
risposta a questa domanda.
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