György Domokos
dispensa
per il corso del III anno del corso di laurea triennale (BA) in
romanistica/italiano presso l’Università Cattolica Péter Pázmány
INDICE
1. Questioni terminologiche
1.1 Il termine ‘filologia’
1.2 Il termine ‘romanzo’
1.3 I termini ‘latino volgare’, ‘volgare’, ‘volgari’
2. Il dominio romanzo
2.1 Romània perduta e Romània nuova
2.2 Le lingue romanze
2.2.1 Il galego-portoghese
2.2.2 Lo spagnolo
2.2.3 Il catalano
2.2.4 Il francese
2.2.5 Il provenzale
2.2.6 Il franco-provenzale
2.2.7 Il ladino, il romancio e il friulano
2.2.8 L’italiano
2.2.9 Il sardo
2.2.10 Il dalmatico
2.2.11 Il rumeno
3. L’Italia linguistica
3.1 Cronologia dell’evoluzione della lingua e della coscienza linguistica sulla penisola
italiana
3.2 L’italiano standard, l’italiano regionale, il dialetto regionale e il dialetto locale
3.3 Allofoni in Italia
3.4 L’italiano L1 al di fuori dell’Italia
3.5 L’italiano L2 al di fuori dell’Italia
Bibliografia
1. Questioni terminologiche
La parola filologo significa ‘amante delle lettere’ dal latino tardo philologus, a sua volta dal
greco dal greco philologos. Il significato odierno si riferisce a una disciplina, o meglio, a un
gruppo di discipline e non sempre rientrano gli stessi concetti sotto la stessa denominazione. In
sostanza, la filologia è la scienza che studia la lingua e la letteratura di un popolo o di un gruppo
di popoli deducendola dai testi scritti. Siccome dal periodo della nascita della scienza filologica
si sono rese autonome alcune delle discipline (linguistica in senso stretto, critica del testo,
ermenutica ecc.), filologia viene a significare oggi la scienza e la tecnica che si prefigge come
fine la ricostruzione di un testo letterario nella sua forma più vicina all’originale indagandone la
genesi e la struttura.
Romanzo indica subito il suo etimo, Roma. Le lingue romanze sarebbero, quindi, le lingue
discendenti dalla lingua di Roma: galego-portoghese, spagnolo, catalano, provenzale, francese,
franco-provenzale, italiano, sardo, ladino, romancio, sardo, dalmatico e rumeno.
Il nome di Roma ha dato origine a numerosi nomi comuni e propri nonché aggettivi in italiano.
Vediamo:
romano: aggettivo che indica la Roma antica o quella moderna.
rumeno: lingua e popolo dei Valacchi.
romanesco: il dialetto della Roma odierna.
romanzo, romando: neolatino.
Romagna: regione italiana (con Emilia) con capoluogo Bologna.
Romanía: lo Stato balcanico creatosi nel XXmo secolo con l’unificazione della
Valacchia, dell’Oltenia e della Transilvania.
Románia: il territorio che corrisponde alla diffusione delle lingue neolatine.
romanzo: ampio componimento narrativo.
romanticismo: movimento culturale europeo del XVIIIo-XIXo secolo.
La parola volgare è una voce dotta e viene dal tardo latino vulgaris, ‘comune a tutti, ordinario’.
Latino volgare è ormai un termine tecnico consolidato anche se molti preferiscono ‘latino tardo’,
‘latino medievale’, ecc. e si riferisce alla lingua parlata dal popolo, specie nel periodo in cui
ebbero origine le lingue neolatine, in contrapposizione al latino classico, considerato come
lingua colta e letteraria per eccellenza.
Per semplicità e riducendo la situazione a schema un po’ troppo rigida ma didattica, potremmo
dire che il termine ‘volgare’ ha nella storia almeno tre significati diversi che si possono mettere
in evidenza con il termine contrapposto.
I. Nella prima fase (l’Impero Romano ancora esistente) la contrapposizione sarebbe tra latino
classico e latino volgare: il primo inteso come la lingua ricercata e raffinata, riservata a pochi
dotti e il secondo come l’uso quotidiano, la realizzazione plebea di questo ideale (v. a questo
riguardo l’opposizione di F. de Saussure tra langue e parole).
II. La seconda fase, identificabile come la seconda metà del primo millennio, vede contrapposta
semplicemente il latino e il volgare (designato anche con vari altri nomi: sermo plebeius,
maternalis...). L’uso del latino si restringe sempre di più alla scrittura e il divario tra lo scritto e il
parlato continua a crescere (diglossia). La disgregazione territoriale del latino volgare è già in
atto.
III. La terza fase (dopo l’anno Mille) vede il pieno svilupparsi degli idiomi, nascono sempre di
più opere nei volgari, identificabili ormai secondo una fisionomia ben precisa. I volgari italiani
significano praticamente fino al periodo dell’Umanesimo le parlate locali di pari rango. Solo
dopo l’attività letteraria dei tre grandi Toscani, e infine dopo la discussione quattro-
cinquecentesca sulla Questione della lingua questi volgari italiani si abbassano man mano a
livello di dialetto.
2. Il dominio romanzo
Il dominio romanzo occupa una zona continua da Ovest a Est dal Portogallo all’Italia,
comprendendo alcune grandi isole del Mediterraneo (Baleari, Corsica, Sardegna, Sicilia). Sulla
Costa slovena-croata il dalmatico, saldandosi all’italiano, scendeva un tempo fino a Ragusa
(Dubrovnik).
La zona continua comprende dal punto di vista politico (ma con discrepanze anche notevoli ai
confini) quattro grandi stati nazionali: Portogallo, Spagna, Francia, Italia con il Belgio
francofono, le parti della Svizzera romanda, di lingua francese, italiana e romancia.
Entità linguistiche autonome si considerano abitualmente: il catalano, l’occitanico (provenzale),
il sardo; e i tre gruppi romancio, ladino e friulano. In questa zona continua ci sono alcune
enclaves [territori isolati circoscritti] alloglotte non romanze. Le principali sono: il basco nei
Pirenei fra Francia e Spagna (un fatto di conservazione, più precisamente di resistenza alla
romanizzazione), il bretone nella Bretagna (N-O della Francia; un fatto di colonizzazione
medievale dalle isole britanniche), penisole e isole linguistiche tedesche (e germaniche in senso
più lato) in Francia e in Italia (colonizzazione medievale o annessioni moderne); albanese (in
Italia meridionale, soprattutto in Calabria e in Sicilia), greco in Puglia e in Calabria
(colonizzazioni e forse resti antichi).
Una grande zona isolata a Est è poi costituita dall’odierna Romania (con la Repubblica Moldava
e lembi dell’Ucraina ed i gruppi rumeni di Croazia; e con i dialetti separati in Istria, e in Albania,
Croazia e Grecia). Tutto questo dominio è detto Romània.
1
W. von Wartburg, 1941.
romanza è stata importata più tardi. Si tratta soprattutto delle colonizzazioni che hanno portato lo
spagnolo nell’America centrale e meridionale, il portoghese in Brasile, il francese nelle Antille e
in Canada, ecc. Ma ci sono anche fenomeni di altro genere, come gli stanziamenti di comunità
ebree di lingua spagnola nei Balcani e in altre zone europee e nord-africane dopo l’espulsione in
massa dalla penisola iberica nel XV sec. 2 Oggi i parlanti lingue romanze nel mondo sono circa
600 milioni, e sono destinati, con lo sviluppo demografico in atto in America latina, a crescere
ancora.
Ci sono inoltre le lingue creole e i pidgins (o sabir) a base soprattutto portoghese o francese. Si
tratta particolarmente delle lingue formatesi in Africa dal contatto di lingue europee con lingue
indigene, e importate poi con gli schiavi dall’Africa in America. Le lingue creole sono diventate
lingue primarie (cioè lingue materne) dopo essere state per un certo tempo lingue secondarie,
parlate cioè in alternanza con la lingua materna indigena: questo secondo stato è quello del
pidgin. Un pidgin diffuso nell’Africa francese, e a base, appunto, francese è il petit nègre. Nel
Mediterraneo la lingua franca è stata parlata per molti secoli da popolazioni diverse che
navigavano nel bacino comune. La sua base è stata, almeno inizialmente, l’italiano. Pidgins e
lingue creole formano un oggetto collaterale della romanistica. Il loro studio è stato inaugurato
da Hugo Schuchardt.
Un ordinamento non meramente geografico delle lingue romanze solleva tutti i più gravi
problemi della linguistica comparata e della tipologia. Di fronte alle gravi difficoltà di un
ordinamento pensato in termini di diversità linguistica (infatti, il continuum linguistico non rende
spesso possibile nemmeno di tracciare confini netti tra le diverse lingue), una classificazione
meramente geografica finisce per essere preferita da molti, tanto più che è possibile anche una
interpretazione dei fatti di contiguità geografica con fattori di sostrato, di superstrato e in genere
con fatti storici.
2
cf. C. Tagliavini, 1972, capp. III e VI.
Lingue romanze occidentali:
a) Portoghese
Spagnolo Ibero-romanzo
Catalano
b) Provenzale (e guascone)
Franco-provenzale Gallo-romanzo
Francese
c) Ladino
Sardo Italo-romanzo
Italiano
Dalmatico
Balcano-romanzo
d) Rumeno
Le tre lingue ibero-romanze hanno una storia parallela che spiega alcune delle loro
caratteristiche attuali, per cui alla presentazione delle singole lingue premettiamo un breve
schizzo sulla loro formazione storica.
Il punto di partenza per capire lo sviluppo delle lingue iberoromanze è la conquista della penisola
da parte degli Arabi (711-720). La prima conseguenza di questo evento storico fu la divisione
della penisola in un nord cristiano e un sud musulmano: infatti subito dopo l’entrata degli Arabi
si formano, in una stretta striscia nel nord, alcuni stati cristiani che organizzano la resistenza e
poi il lungo processo di riconquista (Reconquista) che porterà all’eliminazione completa del
dominio arabo (1492). Gli stati cristiani erano, da ovest a est, il regno di León, il regno di
Navarra, il regno di Aragona e la contea di Barcellona (che si unirà col regno di Aragona nel XII
sec.); dal regno di León si staccherà, intorno al 1095, la contea (poi regno) di Portogallo e, già
nel X sec., la contea (poi regno) di Castiglia che diventerà presto il centro politico e culturale più
importante della Spagna cristiana e si riunificherà, nel 1230, con il regno di León, ma stavolta
con egemonia castigliana.
Dal punto di vista linguistico, troviamo, sempre da ovest a est, i seguenti gruppi linguistici: 1) il
galego-portoghese nella parte occidentale del regno di León; Con la formazione della contea di
Portogallo, il territorio linguistico galego-portoghese resta diviso in due: il nord “galego” resta
unito a León e quindi alla Spagna, il sud (portoghese) diventa la lingua di un paese indipendente;
2) l’asturo-leonese, nella parte centrale del regno di León; 3) il castigliano, nel regno di Castiglia;
4) l’aragonese, nei regni di Navarra e Aragona; 5) il catalano nella contea di Barcellona. Nel Sud,
occupato dagli Arabi, si parlavano vari dialetti romanzi su cui siamo relativamente poco infor-
mati, data la scarsezza di testimonianze dovuta al fatto che la lingua di cultura era l’arabo. Il
romanzo dei territori arabizzati veniva chiamato dagli scrittori al-cagamiya (“lingua straniera”),
mentre dai filologi moderni viene denominato mozarabico (da una parola araba che significa
“suddito degli arabi”).
Il processo di riconquista significò, dal punto di vista politico, l’occupazione progressiva e la
ripopolazione del centro e del sud della penisola da parte degli stati cristiani del nord e, dal punto
di vista linguistico, l’espansione verso sud delle lingue romanze parlate nel settentrione della
penisola, lingue che vennero così a sostituire l’arabo e a eliminare e in parte assorbire i dialetti
mozarabici. Non tutte le lingue del nord peninsulare hanno però preso parte in maniera uguale
alla riconquista linguistica: vi hanno preso parte a occidente il portoghese, ormai staccato dal
galego; al centro il castigliano, che diventa la lingua egemone nel regno di Castiglia e León e poi,
dopo l’unificazione col regno di Aragona nel 1469, nel regno di Spagna (per cui, a partire dal
XVI sec., comincia a essere chiamato anche spagnolo); e a oriente il catalano. Asturo-leonese e
aragonese hanno invece avuto un ruolo minore nell’espansione verso sud. Si arriva così
all’attuale carta linguistica della penisola iberica in cui ritroviamo i cinque gruppi linguistici
settentrionali, ma con una distribuzione e un’importanza relativa diverse. Il portoghese occupa
tutta la fascia occidentale della penisola ed è la lingua ufficiale del Portogallo (per il galego, vedi
più sotto la parte dedicata al galego-portoghese); il castigliano occupa tutta la parte centrale della
penisola ed è la lingua ufficiale della Spagna, mentre asturo-leonese e aragonese sono ridotti oggi
a gruppi dialettali che vanno via via perdendo terreno sotto l’egemonia del castigliano; il catalano
occupa la parte orientale della penisola iberica ed è lingua nazionale della regione autonoma della
Catalogna.
L’attuale assetto linguistico della penisola iberica è dunque il frutto della riconquista e
dell’espansione dei dialetti settentrionali
2.2.1 Il galego-portoghese
Il galego, dopo il periodo della lirica galego-portoghese, continua la sua vita di lingua letteraria
fino alla fine del Medioevo, ma finisce con il soccombere di fronte all’egemonia del castigliano.
Esso sopravvive oggi allo stato dialettale, anche se a partire dalla metà del secolo scorso sono
stati fatti vari tentativi per ricostituire una lingua letteraria. Recentemente è stato elevato al rango
di lingua nazionale, accanto allo spagnolo (lingua ufficiale), nelle province galiziane. I dialetti
galeghi sono stati fortemente castiglianizzati, soprattutto nel lessico e nella sintassi, e si
differenziano ormai sotto molti aspetti dal portoghese.
Il portoghese, oltre a essere la lingua del Portagallo, è anche la lingua di alcune ex-colonie, tra
cui la più importante è il Brasile, e la base di varie lingue creole asiatiche e africane. Contando
solo Portogalla e Brasile, il portoghese è attualmente parlato da 129 milioni di persone (9 milioni
in Partogallo e 120 in Brasile) ed è quindi la seconda per diffusione fra le lingue romanze.
Come accennato, il portoghese è la lingua originariamente parlata nel nord del Portogallo e poi
diffusasi verso sud. Ma, diversamente che nel caso del castigliano, anche il centro politico e
culturale del paese si è spostato verso sud, per cui la lingua ufficiale ha assunto ben presto tratti
tipicamente meridionali. Dal punto di vista dialettale possiamo distinguere oggi un gruppo di
dialetti settentrionali (che corrispondono alla zona di formazione del portoghese e alle zone
riconquistate più anticamente) e un ampio gruppo di dialetti centro-meridionali (che
corrispondono alla zona di colonizzazione, alla zona cioè dove il portoghese è stato impiantato su
un territorio originariamente mozarabica). Le caratteristiche dei dialetti centro-meridionali, con
cui si allinea la lingua standard, trovano a volte paralleli nei dialetti meridionali dello spagnolo
(andaluso): così nel sud del Portogallo, com nel sud della Spagna, è stata eliminata l’opposizione
originaria tra [ts] e [dz] e tra [dz] e [z] (a favore di [s]< [ts] e [z] < [dz]); per cui oggi paço
“palazzo” non si distingue più da passo “passo” (ambedue [‘pasu]) e cozer “cuocere” non si
distingue più da coser “cucire” (ambedue [ku’zer]).
Il portoghese parlato in Brasile si differenzia sotto molti aspetti dal portoghese europeo e
presenta inoltre una notevole stratificazione in dialetti sociali: così, se le differenze non sono
molte nella norma scritta, esse aumentano man mano che ci avviciniamo ai registri parlati più
famigliari. Le differenze riguardano tutti gli aspetti della lingua e in parte rappresentano delle
conservazioni di stadi di lingua più antica (in genere il portoghese dell’inizio del XVIII sec.), in
parte sono delle innovazioni tipiche del brasiliano. Un esempio di conservazione è la pronuncia
[i] della e atona finale: passe “che io (egli) passi” [‘pasi], come nel portoghese europeo del XVIII
sec. (il portoghese europeo ha in seguito centralizzato questa [i], che è pronunciata oggi come
uno schwa molto chiuso: [‘pase]). Un esempio di innovazione è la pronuncia palatalizzata o
affricata di /t/ e /d/ davanti a [i]: tipo “tipo” è in genere pronunciato [‘t’ipu] o [‘tipu]. I due
fenomeni si ritrovano, per esempio, nella parola de, pronunciata in Brasile [dzsi] (in Portogallo
[de]). Grandi differenze si hanno anche nella sintassi (p. es. nell’ordine dei pronomi clitici:
brasiliano me parece, portoghese parece-me “mi pare”) e nel lessico, soprattutto a causa dei molti
prestiti da lingue amerindie e africane tipici del portoghese del Brasile.
Fra le principali lingue creole a base portoghese citiamo il creolo di Ceylon e quello di Malacca
in Asia e quelli di Capo Verde, della Guinea Bissau e di Sao Tomé e Principe in Africa. Si tratta
naturalmente di lingue che, con il portoghese, ormai hanno in comune praticamente solo la base
lessicale, mentre la struttura grammaticale è completamente diversa.
2.2.2 Lo spagnolo
Lo spagnolo, o castigliano, è la lingua romanza più parlata nel mondo. Cca. 220 milioni di
persone lo hanno come lingua materna o come seconda lingua; è lingua ufficiale in 29 stati
dell’ONU. Lo spagnolo letterario è, come abbiamo visto, originariamente un dialetto
settentrionale (con il suo centro attorno a Burgos) che, grazie al ruolo determinante dell’iniziativa
castigliana nella Reconquista, ha finito con l’imporsi e quasi cancellare le altre varietà dialettali.
Il castigliano aveva alcuni tratti fonetici eccentrici nel panorama iberico: cioè la sostituzione di
/h/ iniziale a /f/ : hijo per fijo “figlio”; la dittongazione, del tipo sierra, è arrestata dalla presenza
di jod: noche invece di *nueche “notte” (dal latino NOCTEM. Il nesso -ct sviluppa uno jod che
palatalizza la consonante che diventa [t ʃ]); [ʎ] in llamar, llover (“chiamare, piovere”) contro
clamar, ploure dell’aragonese e del mozarabe o altre soluzioni nelle altre varietà. Nel corso del
Cinquecento e del Seicento, quando il castigliano era ormai diventato lo spagnola letterario,
l’antico sistema fonologico è ancora notevolmente evoluto, sempre nel senso di semplificazioni:
l’apposizione di [b] e [v] si defonologizza; così quella di /s/ sonora e sorda cade; si riducono le
affricate [ts] e [dz] e si ha il nuovo suono []; il nuovo fonema [x], una fricativa velare sorda,
prende il posto di [ ʃ] e [ʒ]: così oggi si dice Quijote con [x] mentre la pronuncia italiana
Chisciòtte conserva l’antico [ ʃ].
Oggi il panorama dialettale, enormemente meno vario di quello italiano, è il seguente. Il leonese
è notevolmente ridotto, e ancor più lo è l’aragonese. Tutta la zona meridionale è castigliana,
anche se presenta molti fenomeni fonetici nuovi: ‘yeismo’, cioé pronuncia di ll come [j] anziché
come [ʎ]: caye per calle “via” (pronuncia che è testimoniata anche al Nord, e, negli ambienti
popolari, perfino a Madrid); passaggio di s in fine di sillaba a [h] o a zero: mascar “masticare” è
[mah’kar] e [ma’kar], los hombres è [lo’hombreh], ecc.; defonologizzazione dell’opposizione di
[s] e [] (fenomeno detto ‘seséo’), pronunciati ambedue [s] e non [s] e []). All’interno dell’area
meridionale le varietà sono limitate: quella andalusa è particolarmente importante perché sembra
stare all’origine dello spagnolo d’America.
La diffusione dello spagnolo fuori di Spagna è dovuta a due grandi avvenimenti storici. Il primo
è la cacciata degli Ebrei dalla Spagna nel sec. XV: accolti nell’impero turco, si sparsero nei
Balcani e nell’Africa Settentrionale, e hanno conservato fino ad oggi un castigliano arcaico, che
ignora le evoluzioni fonetiche fondamentali che lo spagnolo ha avuto dopo quel tempo.
‘Moderno’ è invece la spagnolo d’America parlato dal Messico alla Terra del Fuoco, perché le
ondate di colonizzatori sono continuate per secoli: la base comune è un castigliano
meridionalizzata, comprendente generalmente i fenomeni descritti sopra (il ‘seséo’ è compatto).
Ci sono stati poi fenomeni innovativi più o meno generali; nelle fonetiche locali l’importanza
dell’influenza delle lingue indigene è variamente valutata dagli studiosi.
Un altro focolaio di espansione dello spagnolo è nelle Filippine, dove si sono formati anche dei
creoli spagnoli. Come si vede da questi rapidi cenni storici, un dialetto molto limitato
originariamente ha subito una progressiva espansione, diventando la lingua abituale di un numero
sempre crescente di parlanti: questo fatto può spiegare probabilmente i continui fatti di
semplificazione che hanno colpito particolarmente il sistema fonologico nel vocalismo, ma
soprattutto nel consonantismo, alleggerendolo notevolmente rispetto al sistema antico.
2.2.3 Il catalano
Il catalano ha oggi più di 7 milioni di parlanti. Come lingua amministrativa, letteraria e di cultura
il catalano è fiorito tra il XIII e il XV sec., con centro nella Corte di Aragona. Qui il catalano ha
assunto un aspetto uniforme. Più tardi il catalano è stato sopraffatto come lingua ufficiale e di
cultura dallo spagnolo, una volta avvenuta l’unificazione con il regno di Castiglia. Il catalano ha
tuttavia oggi di nuovo un grande centro di attrazione e di diffusione linguistica in Barcellona,
grande centro economico e culturale. La “rinascita” nazionale catalana ha promosso un uso
sempre più vivo del catalano in tutte le attività intellettuali e pratiche, finché il catalano è stato
riconosciuto come una delle lingue nazionali che affiancano lo spagnolo (sola lingua ufficiale)
nella Spagna retta dalla nuova Costituzione del 1978.
La frammentazione dialettale catalana non è accentuata. Si distinguono due gruppi dialettali
principali (catalano orientale, e occidentale), chiaramente subordinati a una sola lingua letteraria.
Nell’insieme, il catalano si parla in Catalogna, nell’antico regno di Valencia, nelle Baleari, e
anche nei Pirenei francesi orientali (Roussillon), a Andorra, a Alghero (Sardegna).
La posizione del catalano tra le lingue romanze è stata vivacemente dibattuta tra gli studiosi. Il
catalano è stata talvolta considerato strettamente affine all’occitanico (Meyer-Lübke): in effetti
molti fatti lessicali e anche fonetici del catalano sono piuttosto affini a quelli dell’occitanico che
alle altre lingue della penisola iberica (per esempio caduta delle vocali finali diverse da -a, con
conseguenze morfologiche spesso affini: Ma questo fenomeno è ben più diffuso e interessa
perfino la gran parte dell’Italia settentrionale).
La cultura comune nella quale si situano le produzioni letterarie medievali accentua ancor più la
somiglianza nei testi antichi. Altri studiosi, a partire da Menéndez Pidal, hanno sottolineato le
concordanze con le altre lingue della penisola iberica.
2.2.4 Il francese
Circa 60 milioni di persone, di cui circa 43 milioni come lingua materna, 11 come seconda
lingua in Francia (il resto in Svizzera Romanda, in Belgio, nel Québec) parlano oggi il francese,
che è pure larghissimamente conosciuto nel mondo come lingua di cultura. È lingua ufficiale in
52 stati dell’ONU. Si può considerare che la conoscano 80 milioni di persone.
Nel territorio della Repubblica Francese, il francese è oggi pressoché universalmente conosciuto
e usato, a spese sia delle altre lingue che vi si parlano (bretone, fiammingo, basco, tedesco,
provenzale e franco-provenzale, corso), sia dei dialetti originari, ridotti all’ambito familiare e
rurale (sono i cosiddetti patois). Il fenomeno della diffusione della lingua dell’Ile de France (il
francien), irradiata da Parigi, è molto antico. A partire dalia metà del XII sec. la lingua di Parigi
influenza i testi letterari e non-letterari del Nord. Ma è nell’Ottocento che, in seguito
all’industrializzazione, alla scolarizzazione e alle condizioni moderne di vita, il francese penetra
capillarmente nell’uso orale di tutto il paese. I dialetti antichi (oggi ridotti a gruppi di patois privi
di una norma comune) più importanti, anche per l’impiego letterario che hanno conosciuto, sono
stati: il piccardo; il normanno, il vallone; lo champenois; il borgognone ecc. Anglo-normanno è
chiamata la varietà di francese impiegata in Inghilterra per alcuni secoli da vari strati (spesso, ma
non esclusivamente, superiori) della popolazione. La differenza tra il francese (lingua d’oil)
come complesso dei dialetti settentrionali, e occitanico (provenzale o linga d’oc) è stata
generalmente messa in rapporto a più fattori. Il Nord avrebbe avuto un sostrato celtico compatto,
sarebbe stato meno profondamente latinizzato, avrebbe ricevuto una potente azione di superstrato
germanico nei secoli di dominio dei Franchi (si suppongono tre secoli di bilinguismo franco-
germanico in una parte della popolazione). Il Sud avrebbe posseduto diversi sostrati (celtico,
ligure, iberico, ecc.), è stato più profondamente latinizzato e ha conosciuto una dominazione
germanica, quella dei Visigoti, solo passeggera. Ma è più difficile del previsto riportare precisi
fenomeni linguistici che non appartengano al livello gerarchico più basso, quello lessicale, a
queste diverse condizioni.
Si deve distinguere tra francese antico (fino all’inizio del XIV sec.) e francese moderno. Nel
corso del Trecento infatti, la lingua ha subito una serie di cambiamenti radicali, nella struttura
sintattica e nella fonologia, che ne hanno trasformato profondamente il volto. L’individualità del
francese rispetto alle altre lingue romanze è - contrariamente a quella del rumeno - un fatto
relativamente recente, e risale a questo periodo. I fenomeni che elenchiamo di seguito si
riportano tutti a quest’età. Si spiega così come sia abitudine, nelle Università, studiare il francese
antico come una lingua a parte, e si sa che uno studente francese non capisce la Chanson de
Roland o Joinville se non ha ricevuto una preparazione speciale. È avvenuta anche la
latinizzazione grafica del francese nel Rinascimento. Pure durante il Rinascimento anche il
lessico francese ha subito una profonda latinizzazione, operata per via erudita. È così che il
francese moderno si presenta forse più di ogni altra lingua romanza come un insieme composito e
asimmetrico: si pensi a coppie come langue (parola popolare): linguistique (latinismo); oeil
“occhio” (popolare): oculaire “oculare” (latinismo).
Dal Seicento in poi il francese e la cultura francese sono stati diffusi in tutto il mondo, negli
ambienti colti, grazie all’attrazione della letteratura, della filosofia, della cultura scientifica della
Francia. Molte corti d’Europa hanno parlato e scritto francese (da Torino a Pietroburgo); molti
scrittori europei, da Leibniz a Manzoni, hanno scritto anche in francese. Il francese è stato,
nell’Ottocento, il maggiore agente di “occidentalizzazione” del rumeno, un processo che
interessa naturalmente soprattutto il lessico della lingua. Ma non è fenomeno eccezionale. In
realtà il lessico francese (costituito in parte da latinismi anche crudi, come abbiamo visto) è
passato a moltissime lingue europee e non-europee di diverse famiglie, ed è quasi diventato un
terreno comune di incontro tra lingue altrimenti spesso molto lontane.
La diffusione coloniale del francese fuori d’Europa ha il suo centro principale nel Canada,
colonizzato dai Francesi dall’inizio del Seicento, e dove i francofoni formavano all’ultimo
censimento ( 1976) ca. il 24% della popolazione, con i centri maggiori negli stati dell’Ontario e
soprattutto del Québec, dove costituiscono l’80% della popolazione. In America il francese è
presente poi in alcune regioni degli Stati Uniti, a Haiti, nelle Antille, in Guiana. In Africa il
francese è presente in Tunisia, in Algeria e in Marocco, nell’Africa subsahariana, nel Madagascar
e nelle isole Mascarene, dove però è conosciuto da élites, non dalle grandi masse. In Africa e in
America, in particolari condizioni, il francese ha dato origine a pidgins (come il petit-nègre
africano, lingua di scambio) e a lingue creole (Haiti, Piccole Antille e Guiana, isole Mascarene).
2.2.5 Il provenzale
10 ai 14 milioni di persone parlano o conoscono oggi l’occitanico (lingua d’oc); in Italia si dice
ancora prevalentemente “provenzale”, che designa però anche, più precisamente, una delle
“varietà” dell’occitanico. É la lingua romanza del Meridione della Francia che per prima si è
costituita in una forma letteraria uniforme nel Medioevo (XlI sec.). Geograficamente il sistema
delle parlate provenzali si estende oggi per circa un terzo della Francia. Il confine col francese,
partendo dell’estuario della Gironda e seguendo per un tratto la Dordogna, prosegue verso Nord-
Ovest girando attorno al Massif Central (comprendendo Limosino e Alverniole) e raggiungendo
il Rodano a Sud di Lione, scende al mare vicino a Monaco. In Italia è parlato nelle frange
occidentali delle province di Torino (confinando a nord con il franco-provenzale) e di Cuneo. I
più importanti centri provenzali sono quelli di religione valdese nella Val Pellice. Una colonia
valdese medievale (XV sec.) si trova a Guardia Piemontese in Calabria (provenzale di Cosenza),
e parla ancora il suo dialetto provenzale arcaico. All’interno dell’occitanico si distinguono diversi
dialetti, tra i quali il guascone, con fenomeni molto peculiari, è fortemente distinto, e viene
spesso considerato a parte. Il pittavino è oggi piuttosto francese; nel Medioevo aveva gravitato
prevalentemente a Sud. Le altre varietà sono: il limusino e l’alvernàte; il provenzale alpino; il
languedocino aquitano; e il provenzale propriamente detto. L’occitanico è oggi conosciuto
prevalentemente sotto la forma di uno dei patois locali che lo continuano.
Tale riduzione dell’occitanico è stato il risultato della decadenza politica del Meridione e della
politica centralizzatrice di Parigi; per cui il francese, lingua della monarchia, ma poi anche della
Rivoluzione e dello stato si è imposta gradualmente nelle città e poi nelle campagne del Sud. La
penetrazione è stata lenta, e comprende non solo l’imposizione giuridica dell’Editto di Villers-
Cotterets (1539), con il quale Francesco I prescriveva l’uso esclusivo del francese in tutto il
regno e che tendeva in realtà a colpire non il provenzale ma il latino, ma anche una serie di
adesioni spontanee alla monarchia francese e alla sua lingua precedenti quella data. Ci sono
tentativi modemi di proporre una nuova koiné scritta dell’occitanico.
Il provenzale antico non era molto diverso dal francese antico; le differenze appaiono oggi
aumentate per l’eccezionale evoluzione del francese. L’occitaliano antico è foneticamente meno
evoluto del francese: latino A resta a (mar, ma francese mer); -A finale si conserva: porta
(francese porte, con schwa finale), mentre tutte le vocali diverse da a cadono. Questo quadro, con
altri particolari del vocalismo e del consonantismo, ci riporta abbastanza vicini all’ital.
settentrionale. Ma l’occitanico medievale possedeva ancora una declinazione bicasuale, della cui
esistenza non ci sono prove per l’italiano; la formazione del plurale in -s separa pure l’occitanico
dall’italiano settentrionale. Questi sono fenomeni gerarchicamente più alti di quelli fonetici, e
mostrano dei tratti di affinità sostanziale tra le lingue della Francia, almeno nelle fasi antiche.
2.2.6 Il franco-provenzale
Un gruppo di parlate sudorientali della Francia (Franche-Comté, Lionese, Savoia, la parte set-
tentrionale del Delfinato) unite alla Svizzera Romanda e a alcune vallii a Sud delle Alpi in Italia,
forma un blocco quasi continuo e relativamente uniforme al suo interno, nel panorama linguistico
gallo-romanzo. Dall’Ascoli questa varietà è stata chiamata “franco-provenzale”. Gli studi sui
documenti medievali hanno mostrato che quella che si presenta oggi come una convergenza tra
parlate di regioni anche molto lontane e politicamente divise, era un’unità dialettale ancora più
chiara nel Medioevo. Lione è stato il maggior centro letterario e linguistico. Come Lione, Greno-
ble e Ginevra sono poi passate al francese, e ora il franco-provenzale comprende solo dialetti
rustici (patois). Tali vanno considerati anche i dialetti delle valli di Aosta, la val Soana e la valle
di Lanzo in Italia, che subiscono la pressione non solo dell’italiano ma anche del dialetto
piemontese. Colonie italiane meridionali del franco-provenzale sono nella provincia di Faggia
(Faeto e Celle di S. Vito).
Il franco-provenzale è stato illustrato dagli studiosi, da Ascoli a Stimm, per le sue caratteristiche
fonetiche, che ne fanno un ponte tra Nord e Sud, dunque tra francese propriamente detto e
provenzale. In tsantà “cantare” si osserva uno sviluppo di tipo francese della consonante e di tipo
provenzale della a tonica. In posizione finale il francese provenzale ha -a, -i, -o, -e (erba, filli,
codo “gomito”, pudze “pulce”), mentre il francese ha solo -a o consonante, e il prov a e e. Se
l’unità francoprovenzale sia dovuta alla presenza dei Burgundi e al loro dominio secolare su uno
spazio poi frazionatosi, resta un argomento discusso.
In tre aree periferiche dell’area italiana settentrionale, dei gruppi linguistici mostrano una
fisionomia più spiccata. Le somiglianze con i dialetti italiani settentrionali sono chiare, ma
appaiono anche concordanze con le lingue gallo-romanze, e ci sono infine - nonostante la
discontinuità geografica, - accordi tra le varietà separate. Si tratta:
1) del “romancio” del cantone dei Grigioni (Svizzera), parlato in varietà locali nella Sopraselva,
Sottoselva e Engadina fino a Oriente nella Val Monastero. Ci sono ca. 45.000 parlanti romancio;
2) dei dialetti della regione dolomitica, comprendenti le valli di Fassa, Gardena, Badia e
Marebbe, Livinallongo; parte del Cadore: Ampezzo, Comelico (con propaggini a Sud e a
Oriente, che quasi portano a toccare il terzo gruppo). Ca. 25.000 parlanti in Alto Adige, per un
totale di 75.000, con le altre valli;
3) del friulano, nel territorio omonimo, a parte alcune isole alloglotte, tedesche o slave, e
l’enclave veneta di Trieste, che ha lasciato l’antico “tergestino” alla fine del Settecento; Udine e
altri centri urbani sono parzialmente venetizzati in tempi recentissimi. Circa 700.000 parlanti.
Occasionalmente, ci riferiamo ai tre gruppi col termine di ladino.
Non ci sono prove che i tre gruppi abbiano formato un tempo un’unità; né che si siano formati su
un sostrato comune. L’evidenza è piuttosto dalla parte contraria. Tuttavia certi fenomeni comuni,
come la conservazione di kl, pl e bl latini, o la formazione del plurale con -s, vanno in qualche
modo interpretati. Il primo caso si può facilmente riportare a condizioni che si sanno come
comuni all’italiano settentrionale antico; il secondo richiederebbe di ipotizzare, in mancanza di
ogni sostegno in documenti antichi, una situazione dei dialetti settentrionali diversa da quella
odierna, nella quale non c’è oggi traccia di morfema -s. Altri fenomeni fonetici molto peculiari,
come il passaggio di A > e, senza condizionamento palatale, non sono comuni a tutte le parlate,
per quanto abbastanza diffusi (Engadina superiore, molti pumi del ladino centrale, pochissimi nel
friulano). Un’innovazione comune è quella per cui ka dà ta (o te), nei tre gruppi: latino CAPUT
dà engadinese cho [t], friulano kàf o tàf. I tre gruppi si presentano oggi come molto distinti
dalle varietà italiane confinanti, non solo per fatti conservativi ma anche per le molte
innovazioni. Delle condizioni politiche particolari hanno poi portato i due gruppi grigionese e
dolomitico a costituirsi in piccole “nazionalità”, alle quali è variamente riconosciuto uno statuto a
parte rispettivamente in Svizzera e in Italia (nella sola provincia di Bolzano).
Nei due gruppi occidentale e centrale è sviluppato un certo insegnamento in ladino, si stampano
alcuni giornali, ecc. Nel Friuli, dove particolarmente viva è la tradizione letteraria (non diversa
da quella rappresentata da dialetti italiani di prestigio) è pure in atto un movimento di ritorno al
friulano, che le generazioni precedenti avevano piuttosto abbandonato, come abbiamo visto,
considerandolo una parlata “rustica”.
2.2.8 L’italiano
Ha circa 56 milioni di parlanti (anche se molti hanno per lingua materna un dialetto). Solo élites
molto ristrette e qualche gruppo geograficamente limitato ha anche parlato l’italiano nei secoli
scorsi. Negli ultimi cent’anni, dall’unità in poi e col favore di grandi spinte sociali e di nuove
concentrazioni urbane, si è molto diffuso anche l’uso dell’italiano orale (in varietà locali più o
meno differenziate soprattutto nella fonetica e nel lessico). Accanto all’italiano, o più spesso
invece dell’italiano, si sono parlati dei “dialetti”. Questi rappresentano le continuazioni locali del
latino, sullo stesso piano dell’italiano, che è il latino come si è evoluto a Firenze (con le preci-
sazioni che seguono subito). Naturalmente i dialetti locali - come lo stesso fiorentino -
costituiscono delle continuazioni non rettilinee, ma influenzate dai dialetti vicini di maggior
prestigio. In certi casi, il modello fiorentino ha cominciato a esercitare la sua influenza in età
molto antica: già nel Tre-Quattrocento il veneziano subisce l’influenza del fiorentino. Mettendo
da parte, provvisoriamente, il quadro dei dialetti italiani, cerchiamo di caratterizzare l’italiano in
quanto fiorentino e di accennare alla sua storia.
Il fiorentino si presentava nel Trecento come un dialetto particolarmente conservatore nel quadro
italiano, tale da rispecchiare in modo eccezionale certi caratteri del “romanzo comune”: per
esempio nella situazione del vocalismo (buono, tiene), che negli altri dialetti e lingue romanze è
stata poi superata con nuovi conguagli, fatti metafonetici, perdita della distinzione tra sillaba
aperta e chiusa. Questo fatto dipende probabilmente dalla situazione isolata di Firenze e della
Toscana rispetto alle principali vie di comunicazione medievali. La nuova importanza
economica, politica, commerciale e infine culturale di Firenze avrebbe diffuso in tutta Italia un
tipo di lingua particolarmente vicino al latino, e per questo particolarmente gradita ai letterati e
inoltre, almeno in certi casi, equidistante tra varietà diverse. Tuttavia nessun avvenimento
politico decisivo ha poi effettivamente diffuso l’italiano oltre cerchie ristrette, come si è detto.
Solo a Roma l’uso della corte pontificia ha influenzato profondamente la città. Per questo il
“romanesco” è un tipo di toscano, mentre il dialetto della campagna romana è, com’era quello
originario di Roma, una parlata centro-meridionale. A parte questo caso, l’Italia moderna ha
mantenuto una pluralità dialettale che, all’uscita dal basso Medioevo, era anche della penisola
iberica e della Francia, ma che in quei paesi è stata radicalmente ridotta da fatti storici precisi.
Mentre la lingua di Firenze è evoluta, l’italiano letterario e l’italiano parlato oggi, che ne
dipende, hanno come modello sostanzialmente il fiorentino del Trecento, integrato dalla
tradizione letteraria successiva. Così nessuno segue l’uso di Firenze nel ridurre i dittonghi (bòno,
non più buono). Incerta è l’antichità dei fenomeni della “gorgia”, cioè di aspirazione di
consonanti occlusive intervocaliche (dappertutto poho per poco, in zone più ristrette dio per
dito, ecc.); sicuramente recenti le evoluzioni di [t] > [] e [d3] > [3] (se precedute da vocale):
[laena] “la cena”; [la3ente] “la gente”. Anche in questi casi logicamente l’uso italiano non è
quello fiorentino moderno. Il problema del rapporto tra l’italiano e il fiorentino è stato dibattuto
in un quadro normativo e ai suli fini dell’espressione letteratia, nel corso della cosiddetta
“Questione della lingua”. In una prospettiva moderna, e quindi con un solo scopo descrittivo,
l’Ascoli ha stabilito che l’italiano è il fiorentino antico in base ad alcune prove di fonetica
storica, che lo differenziano prima dai dialetti settentrionali e meridionali assieme, poi anche
dagli altri dialetti toscani. Per es. l’esito -aio del latino -ARIUS è del solo toscano (salvo la
Lunigiana) contro i dialetti italiani sia settentrionali che centro-meridionali che hanno -aro:
toscano pecoraio contro italiano sett. pegoraro, italiano centro-merid. pecoraro. Vediamo ora dei
fenomeni che all’origine erano solo fiorentini (o quasi) e non genericamente toscani (oggi il
toscano è tutto influenzato dal fiorentino):
1) la desinenza innovativa -iamo per tutte le coniugazioni (cantiamo, vediamo, partiamo), invece
di forme distinte (per esempio -amo, -emo, -imo, ora dei dialetti rustici);
2) i tipi pure innovativi, famiglia e pugno con i e a invece che con e e o (da I e U bevi latine), coi
quali il toscano è tornato (casualmente) al latino (cosiddetta anafonesr. Da notare che
l’evoluzione fonetica è condizionata dalla presenza di // /’ny’/ e da altri nessi dopo la vocale in
questione (altrimenti fede regolarmente da FIDES e croce da CRUCEMl).
Diffondendosi, l’italiano, come ho già accennato, appare oggi differenziato dal Nord al Centro-
Sud (con la Toscana sempre a parte, e anche - per ragioni diverse - la Sardegna) e poi regione per
regione, ma quasi esclusivamente nella fonetica e nel lessico. Roma nel Centro-Sud diffonde un
modello particolarmente prestigioso e imitato di italiano. Le differenze sono spesso sottili, ma
veicolano connotazioni relative all’origine e alla classe sociale, e perciò vengono osservate
spesso con grande attenzione (per esempio in relazione ai pregiudizi verso i meridionali in certe
città settentrionali e in certi ambienti). Dato il rapido passaggio all’italiano di molti parlanti in
anni recenti e recentissimi, che rompe per la prima volta e bruscamente il quadro d’una
dialettofonia imperante, è naturale che ci siano molti “italiani”, ognuno dei quali in stretta
relazione - per la fonetica con il dialetto locale. Delle grandi forze di uniformizzazione sono ora
in atto. Non per questo bisogna pensare che ci sarà un processo regolare in questa direzione, e
che nel 2040 o nel 2104 possa esserci un solo italiano. L’esperienza della Francia, degli Stati
Uniti e di altri paesi, mostra che delle nuove differenze tendono sempre a ricrearsi (come ha
mostrato particolarmente nei suoi studi Labov).
I dialetti settentrionali formano un blocco abbastanza compatto, con molti tratti comuni che li
accostano, oltre che tra loro, qualche volta anche alle parlate ladine e alle lingue gallo-romanze,
distaccandosi dall’italiano sia toscano che centro-meridionale. Così le consonanti non possiedono
più la correlazione di lunghezza: carro è come caro, penna come pena (non solo nei dialetti, ma
anche nell’italiano corrispondente meno accurato).
Alcuni fenomeni morfologici innovativi sono pure abbastanza largamente comuni, come la
doppia serie pronominale soggetto (non sempre in tutte le persone): piemontese ti it parli,
bolognese te t di, veneto ti te dizi (e anche friulano tù tu dízis). Ma più spesso il veneto si distacca
dal gruppo, lasciando così da una parte tutti gli altri dialetti, detti gallo-italici. Secondo l’ipotesi
classica dell’Ascoli (che sembra però oggi difficile da mantenere), i dialetti dal piemontese fino
all’emiliano-romagnolo risentono del sostrato celtico, che è assente invece nel veneto. Al sostrato
celtico si attribuiscono - ma la cosa è tutt’altro che certa - la presenza delle vocali ö e ü, assenti
nel Veneto e naturalmente in tutto il resto d’Italia (ma anche in quasi tutta l’Emilia). La gran
parte dei fenomeni fonetici più originali dei dialetti gallo-italici sono in relazione alla caduta
generale delle vocali finali diverse da -a. Questo fenomeno (che esclude però il ligure) è comune
al provenzale e al francese. Se si considerano anche le frequenti cadute di vocali protoniche, e
certi sviluppi consonantici originali, il risultato è che alcuni dialetti si presentano
superficialmente come molto lontani dal latino e dall’italiano letterario: così in bolognese d3an
(cioé giàn) < dzàn < *dizan “diciamo”, in piemontese “uovo” è waf e in lombardo oef. Ma
l’eccentricità è limitata all’assetto fonologico, dunque a un livello basso.
Su una linea che congiunge Massa e Senigallia (piuttosto che, come si dice tradizionalmente, la
Spezia con Rimini, i dialetti settentrionali si incontrano con il toscano e con l’italiano centro-
meridionale.
Non tutti i dialetti italiani centro-meridionali presentano i caratteri di arcaicità che ricorderemo
spesso nel prossimo capitolo. Per il napoletano, per il pugliese continentale, per il pugliese
salentino e il siciliano (che sono affini), sono notevoli soprattutto degli sviluppi fonetici
innovativi. In napol. tutte le vocali atone passano a [schwa] - così certe alternanze sono lasciate
alla vocale tonica, che è soggetta a metafonesi: spuse “sposo”: spase “sposa”. Una zona di
confine tra la Calabria e la Lucania (da Maratea al Golfo di Taranto) presenta lo stesso
vocalismo, ritenuto arcaicissimo, della Sardegna. Si tratta della cosiddetta "zona Lausberg", dal
nome dello studioso tedesco che l’ha identificata e studiata per primo. Il siciliano ha fatto passare
latino e lunga a i e o lunga a u: (es. tila < TELA, vuci < VOCE), contrariamente allo schema del
romanzo quasi-comune. Le assimilazioni per cui nd > nn e mb > mm del tipo monno per mondo,
quanno per quando e, più raro, jamma “gamba”, diffuse nell’Italia centro-meridionale (e perfino
a Roma), sono ritenute un effetto di sostrato: l’osco-umbro si comportava nello stesso modo
rispetto al latino. Il panorama linguistico centro-meridionale rivela nella sua grande complessità
la scarsità di fenomeni di uniformizzazione linguistica intervenuta quasi ovunque altrove.
2.2.9 Il sardo
Circa 1 milione e mezzo di persone parlano o conoscono il sardo. Il sardo riflette un’evoluzione
romanza meno avanzata di ogni altra lingua romanza. Oltre ai fenomeni di livello elevato che
ricorderemo, sono molto notevoli due tratti di conservativismo fonetico e morfologico. Così il
fonema velare [k] del latino CENTUM è ancora rappresentata dal logudorese e nuorese kentu
(mentre tutta la Romània ha accettato la palatalizzazione came in ital. e rumeno: [t], o l’ha
portata ancora più avanti, italiano sett. e franc. [s] ecc.; vedi tuttavia il dalmatico, che concorda
col sardo).
Nei neutri singolari della 3a decl. latina è conservata -s: log, e campidanese tempus “tempo”. La
morfologia verbale del sardo antico e in parte anche quella moderna conservano forme latine
altrove cadute: il cong. imperf. papparet “mangiasse” (Barbagia) continua il cong. imperf. latino.
La Sardegna dal V sec. d.C. in poi ha una vita separata dal resto dell’Impero, e ha conosciuto
forme di amministrazione politica relativamente indipendenti. Dall’XI-XII sec. gli atti ufficiali
vennero redatti in sardo. Le successive penetrazioni economiche e politiche (genovese e
soprattutto pisana, sec. XIII) e la dominazione catalana, poi diventata spagnola, hanno
influenzato in modo fondamentale l’aspetto linguistico dell’isola. Non solo tutte le varietà del
sardo hanno preso caratteristiche dai dialetti italiani in questione e dal catalano e dal castigliano,
ma certe varietà di sardo sono state notevolmente trasformate. Il sassarese e il gallurese (a Nord)
sono state notevolmente trasformate dal toscano con il quale sono venute in contatto già dal
Duecento. Questo vale nella sua interezza per il còrso, che originariamente era affine al sardo,
nel quale la penetrazione pisana è stata più profonda e diffusa. Il campidanese (a Sud, con
Cagliari), e il logudorese e il nuorese (centro-settentrione dell’isola salvo la Costa Nord),
rappresentano le odierne varietà del sardo. Il sardo letterario (anche della produzione poetica
orale: i mutos) è una specie di logudorese “illustre”.
In Sardegna, Alghero (Ovest) parla catalano: Carloforte e Calasetta nelle isole di S. Pietro e S.
Antioco (Sud-Ovest) sono genovesi, fondate da coloni pegliesi che avevano abitato prima l’isola
di Tabarca sulla Costa africana, e che si sono trasferiti più tardi qui: il loro dialetto è detto perciò
“tabarchino”.
2.2.10 Il dalmatico
Il romanzo formatosi lungo la Costa della Dalmazia e nelle isole, da distinguersi da quello che
dal Medioevo è stato introdotto da Venezia tramite i suoi mercanti e amministratori, ha
gradualmente perso di importanza nel corso dei secoli fino a estinguersi del tutto. Il dalmatico
antico ci è noto attraverso documenti commerciali e lettere, a partire da una lettem del 1280. Già
in questo periodo il dalmatico appare soggetto alla pressione del veneziano, che alla fine lo
assorbirà del tutto. Il raguseo, cioè il dalmatico di Ragusa (Dubrovnik), è la varietà più
rappresentata in documenti antichi; ancora nel XV sec. si discuteva in raguseo nel Senato della
importante città marinara (si usavano però anche, è vero, il veneziano e il serbocroato). Il
dalmatico è stato assorbito, come dicevamo, dal veneziano sulla costa, mentre il serbo-croato
avanzava dall’interno. A questa doppia pressione ha resistito più a lungo l’isola di Veglia (Krk)
all’estremo Nord, vicino a Fiume (Rijeka). Del dialetto di Veglia - precisamente del paese di
Veglia sull’isola omonima - ci restano trascrizioni dirette ottocentesche; e il Bartoli [1906], che è
stato il maggiore studioso del dalmatico, ha raccolto ancora nel 1897 della voce dell’ultimo
parlante veglioto (Antonio Udina Burbur) le ultime testimonianze di questa lingua. Fonti
supplementari della conoscenza del dalmatico sono il veneziano e il serbocroato che l’hanno
sostituito, e che ne conservano numerosi elementi lessicali.
A livello morfologico il dalmatico presenta spesso caratteri arcaici, ai quali abbiamo già fatto
cenno. A livello fonetico il dalmatico è pure talora arcaico (come il sardo, conserva ki, ke velari:
vegl. kenur “cenere”, dik “dici”, loik < latino LUCET. Una serie di tratti, in parte comuni
all’italiano toscano e centro-merid., lo distinguono dal veneziano: conservazione di t
intervocalico e davanti a r: patruno non padhròn, paròn; E lunga > ai, per esempio vegl. ekeit
“aceto”, e altri fatti di dittongazione, che è sviluppatissima. La fisionomia del dalmatico risulta,
quindi, abbastanza originale nei confronti di quella dell’italiano - anche se non può certo fare da
ponte verso l’”individualità” (Bartoli) del rumeno, più a Est, ormai nel cuore dei Balcani.
2.2.11 Il rumeno
È parlato da circa 23 milioni di persone. Per rumeno si intende l’insieme abbastanza uniforme
delle parlate che coincidono, in realtà in modo molto approssimativo, con il territorio
dell’odierna Repubblica Romena. In realtà in questo territorio ci sono molti gruppi linguistici
diversi, di varia entità (molto cospicuo soprattutto quello ungherese; segue il tedesco, poi
l’ucraino, il tartaro ecc.); e viceverse il rumeno è parlato oltre i confini dello stato in Serbia
(Banato), in Bulgaria, in Ungheria, ma soprattutto nei territori annessi dall’URSS dopo la II
guerra mondiale, che in parte formano oggi la Repubblica di Moldavia (a maggioranza moldava,
cioé rumena) e in parte sono stati inclusi in quella di Ucraina.
La pretesa “lingua moldava”, scritta in caratteri cirillici nella Repubblica omonima, non è che il
rumeno!
Tutto questo blocco ha due varietà principali: il tipo munteno, a Sud, che ha il centro a Bucarest,
e che rappresenta ora il solo tipo letterario ammesso; il tipo moldavo, a Est. A questi due tipi
principali si riconduce anche la lingua delle rimanenti regioni, compresa la più grande, la
Transilvania, per la quale non pare si possa parlare di una varietà propria. È una situazione di
grande uniformità linguistica, le cui ragioni remote ci sfuggono. Ma certo, per quello che ri-
guarda tempi relativamente recenti, va messo in rapporto con l’assenza di quei grandi centri che
sappiamo che irradiano continuamente novità. In effetti le due grandi varietà di cui abbiamo
parlato dipendono dai grandi centri principeschi: Bucarest (principato della Valacchia) e Iasi
(Moldavia). La Transilvania non presentava un centro paragonabile.
Ripercorrendo dagli inizi la storia del rumeno ci troviamo di fronte a diversi aspetti problematici
e perfino enigmatici. Dopo un lungo periodo di pressione e penetrazione romana, la Dacia è con-
quistata da Traiano nel 106 d.C. Viene largamente ripopolata con coloni che prendono il posto
della popolazione locale decimata in una lotta sanguinosa e in immense stragi. Nel 271 viene
abbandonata, perché indifendibile, da Aureliano. Contrariamente alle testimonianze ufficiali e
degli storici, una parte della popolazione locale romanizzata deve essere rimasta nel territorio.
Secondo un’altra tesi, nota come teoria di Roesler, l’attuale stanziamento dei Rumeni sia frutto di
un ritorno, dopo un periodo secolare di permanenza più a Sud e a Ovest (tra l’odierna Albania e
la Grecia). Anche senza aderire a questa tesi, che si basa sull’osservazione della quasi totale
assenza di toponimia romanza nell’odierno territorio rumeno, è evidente che grandi gruppi di
rumeni si sono mossi in una vasta area balcanica. Di questi movimenti è testimonio l’esistenza di
dialetti separati del rumeno:
a) arumeno (o macedorumeno). Gli arumeni sarebbero separati dal X sec., cioè da un periodo
precedente alla convivenza degli altri rumeni con gli ungheresi. Oggi sono stanziati nella
Macedonia greca, in quella croata, bulgara e albanese. Si tratta di un gruppo molto cospicuo,
anche se è difficile dirne l’entità precisa (400.000 persone?) perché la loro nazionalità spesso non
è riconosciuta e non esistono perciò statistiche.
b) meglenorumeno. È un piccolo gruppo stanziato in Grecia al confine con la Serbia (e in parte
oltre il confine, in Serbia) a N-E di Salonicco.
c) istrorumeno. È un minuscolo gruppo che si trova a Ucka Gora (Montemaggiore) presso
Fiume (Rijeka) (15.000 persone). Si sarebbe staccato per ultimo, verso il XII-XIII sec., dal rume-
no comune.
Dai tratti comuni di questi tre dialetti e del rumeno di Romania (detto anche “dacorumeno”), è
possibile, in prospettiva, ricostruire un protorumeno, o rumeno comune. Nel prossimo capitolo
vedremo alcuni fenomeni che mostrano come il rumeno, isolato dal blocco romanzo, si sia
sviluppato in proprio. Nel lessieo si possono constatare fenomeni simili come la continuazione di
parole latine che sono altrove cadute (a cominciare da a fi “essere”, dal latino FIERI); e anche di
resti abbondanti di vocabolario pre-romano, tracico (in parte comune all’albanese). Più tardi lo
slavo e in misura minore l’ungherese, e infine il turco, hanno influito sul rumeno. La presenza
slava nel lessico è imponente. Il rumeno, per l’influsso slavo (più precisamente per la dipendenza
dalla chiesa ortodossa di ambito slavo) è stato scritto in caratteri cirillici finn al 1840. Dopo un
periodo in cui si adottarono alfabeti di transizione, il rumeno è passato ai caratteri latini.
Tuttavia dal punto di vista linguistico i fatti più importanti per il rumeno vanno ricercati altrove e
precisamente:
1. Nella sua appartenenza alla “lega linguistica balcanica”, per cui il rumeno presenta a tutti i
livelli linguistici fenomeni comuni al neo-greco, al bulgaro, all’albanese e, in misura minore, al
serbo-croato. Questo si spiega con la fitta compenetrazione di popoli e il diffuso bilinguismo (e
anche trilinguismo) nei Balcani, per cui ogni lingua tendeva, nella bocca dello stesso parlante, a
modellarsi sulle altre;
2. Nell’imponente influenza francese a partire dall’800, che convoglia una quantità enorme di
lessico neologistico, in parte facendo scomparire quello antico. Questo fenomeno è parallelo alla
radicale occidentalizzazione della Romania nell’Ottocento, processo che segue particolarmente i
modelli culturali e linguistici francesi. Nella frase che segue, tratta dal quotidiano Scinteia [“La
scintilla”], tutta la parte in corsivo corrisponde a neologismi francesi (o a latinismi veicolati dal
francese):
Traduzione; “Nel quadro della seduta sono stati esaminati e approvati i principi e le norme
generali riguardanti la determinazione dei prezzi e delle tariffe, che diventeranno in seguito
legge”.
Per le parole sottolineate, si noti che in sedintei il materiale è rumeno di origine latina, SEDERE,
ma il significato e la forma di nome sono quelli del francese séance; privind è di origine slava,
ma l’uso è quello del francese regardant. I connettivi sintattici e tutte le parti funzionali sono
rumene; l’ordine inverso delle parole è tipicamente romanzo, ma non sarebbe ammesso proprio
dal francese. Si vedono l’estensione e i limiti dell’influsso.
3. L’Italia linguistica
3.1 Cronologia dell’evoluzione della lingua e della coscienza linguistica sulla penisola italiana
L’Italia coincide geograficamente col territorio centrale dell’Impero Romano per cui per un
periodo ben oltre la caduta dello stesso la coscienza linguistica persiste nel ritenere che la lingua
qui parlata coincidesse con il latino. Nei primi testi citati comme illustrazione (7.1-7.6) i tratti
propriamente latini e quelli neolatini coesistono pacificamente, non sussiste un problema di
classificazione.
In ambito romanzo i primi segnali di distinzione cosciente risalgono al periodo di Carlomagno
che, volendo rielevare il latino usato nella sua cancelleria, scinde in maniera decisa l’uso scritto
(grammatica) da quello parlato (volgare). Ne dà testimonianza il decreto del Concilio di Tours
(7.7) che ordina di predicare nella lingua del popolo (nella lingua romana rustica) affinché i
congiunti potessero meglio comprenderlo. Con ciò anche la Chiesa separa la lingua ufficiale della
liturgia e della scrittura da quella della predicazione. Perciò, mentre la Chiesa cattolica userà il
latino (semplificato rispetto a quello classico, detto latino ecclesiastico) nella sua liturgia fino al
Concilio Vaticano II (1963-1965), nella predicazione offre terreno libero all’utilizzo dei vari
volgari. Non a caso tra i primi testi neolatini troviamo diverse formule di preghiera (p.es. la
Confessione umbra) e prediche (p.es. Sermoni subalpini) – ma anche nel lontano Bacino dei
Carpazi, il primo testo in volgare è una predica: il Sermone sul sepolcro in antico ungherese.
Mentre una cerchia ristretta di chierici adoperava il latino, ridotto spesso a formule e non più
come lingua viva, la gente comune non capiva più i discorsi in latino e perciò l’insegnamento
della dottrina doveva avvenire nella lingua materna loro.
Un altro ambito dove compare presto il latino volgare nello scritto è quello giuridico. Infatti, per
il diritto la parola fisicamente pronunciata ha valore giuridico, quindi non è un caso che
giuramenti e formule vengono tramandati in una variante che non corrisponde all’uso classico.
Dobbiamo a questa particolarità il testo che si può considerare il primo documento del volgare
italiano, i quattro placiti cassinesi (7.8) della seconda metà del secolo X. Nella controversia
territoriale dell’Abbazia benedettina di Montecassino la formula di giuramento dei testimoni è in
volgare, inserito nel più ampio testo scritto interamente in latino.
La tomba dell’ultimo Papa del primo millennio, Gregorio V (7.9) reca un’iscrizione che ormai
esplicitamente distingue l’uso francese e quello italiano, all’interno del termine generale
„volgare”. Con ciò, alla soglia del secondo millennio, osserviamo la disgregazione del latino
unitario in vari volgari da cui nasceranno le lingue nazionali, autonome e quelle minoritarie,
appartenenti alla famiglia delle lingue romanze.
I testi seguenti (7.10 – 7.14) sono del periodo 1000-1300, quando si riesce a localizzare più
precisamente i testi di volgare italiano. Come József Hermann, il caposcuola della romanistica
ungherese aveva sottolineato, non si tratta di una disgregazione spontanea di un latino da
considerarsi compatto ed unitario, bensì dela continuazione dei vari „latini volgari” locali che si
differenziavano ormai nel periodo tardo antico, a testimonianza dell’epigrafia e delle altri fonti.
Una pietra miliare per il pensiero linguistico in generale è costituita dal trattato incompiuto di
Dante Alighieri, il De Vulgari Eloquentia in cui l’autore cerca di individuare quale dei volgari
italiani è adatto a servire come lingua per l’eloquenza, oggi diremmo da lingua letteraria. La
distinzione fondmentale per Dante è tra „grammatica” (= il latino, la lingua scritta che dispone di
norma) e la „lingua materna” (= i volgari che non dispongono di norma). Come era usuale nel
Medioevo, classifica poi i volgari secondo la particella assertiva: lingua d’oil (francese), d’oc
(provenzale) e del sì (italiano). All’interno del volgare italiano cui individua ben 14 varianti (che
non chiama ancora dialetti), 7 ’a sinistra’ e 7 ’a destra’ degli Appennini, col problema però di
tener presente una cartina geografica capovolta rispetto alle nostre nozioni, dove Venezia sarà a
sinistra e Roma a destra rispetto alla catena montuosa. In base a criteri „estetici” (eufonia,
eleganza) ne scarta quasi tutte, salvando in misura diversa il bolognese (il volgare dei suoi
maestri, Cavalcanti e Guinizelli), il siciliano (la lingua della prima scuola poetica dell’Italia alla
corte palermitana di Federico IIo) e il fiorentino. La figura di Dante spicca nella storia della
lingua italiana non solo in teoria, ma anche attraverso la sua opera poetica. Infatti, la base
dell’italiano moderno è nel fiorentino del Trecento, rappresentato dai tre grandi autori Dante,
Boccaccio e Petrarca, diffusosi largamente per via letteraria soprattutto nell’uso scritto.
L’Umanesimo, cioè il periodo della grande ripresa degli studi dei classici vede un rifiorire del
culto delle lingue classiche, quindi inizialmente il volgare viene messo in secondo piano. La
„Questione della lingua”, una discussione che riprende la domanda di Dante, vede però gli
interventi di numerosi umanisti: Leon Battista Alberti che già alla metà del Quattrocento scrive la
prima „grammatichetta” del volgare fiorentino ed organizza il „Certame coronario”, una gara
poetica in volgare ed interventi scritti di Machiavelli, Castelvetro, Trissino ed altri che si
schierano chi per la scelta del fiorentino vivo, chi per la lingua cortegiana e chi per il latino. Tale
discussione viene praticamente risolta e conclusa dal trattato in forma di dialogo del Cardinal
Pietro Bembo, intitolato Le prose della volgar lingua (1525), in cui il grande filologo, poeta,
umanista veneziano argomenta per il fiorentino del Trecento, nobilitato dalle opere delle „tre
corone” e avanza anche proposte concrete per l’uso della detta lingua.
Il successo della proposta di Bembo è subitanea: grandi letterati e cancellerie adattano le sue
proposte. Lodovico Ariosto riscrive il suo Orlando furioso seguendo i dettami del Bembo e la
diffusione del modello toscano si fa sempre più forte anche nelle corti, dove però sopravvivono
anche le altre varietà: il volgare locale (che da questo periodo in poi potremo chiamare dialetto,
siccome è subalterno ad una varietà di diffusione territoriale meggiore), la koiné regionale, il
latino.
Un ulteriore passo dello cristalizzarsi del toscano come lingua scritta è la nascita dell’Accademia
della Crusca e del Vocabolario della Crusca nel Seicento che si prefigge lo scopo di stabilire la
norma grammaticale e lessicale del toscano. Questo comporta allo stesso tempo un’elevazione
del modello toscano a lingua letteraria e scritta e l’isolamento relativo delle varietà non toscane, i
dialetti, appunto. In parte proprio perciò l’italiano letterario si cristallizza in formule, rimari,
generi, modelli che tende a separarlo dal parlato, mentre i dialetti vengono separati dalla
letteratura „alta”.
Il Settecento porta avanti queste due tendenze: formule cristalline della letteratura in
italiano/toscano (Arcadia), però si pone sempre più attenzione alle altre varietà. Nella linguistica
una visione „democratica” comincia a farsi strada: ciascuna lingua è di pari rango. Ecco che
nascono man mano vocabolari, antologie, opere letterarie di primo livello nei dialetti (Goldoni,
Belli, Porta).
Il romanticismo e l’idea della nazione pone la questione linguistica di nuovo in primo piano.
L’italiano della letteratura si era allontanato dall’uso parlato, e anche se era più diffuso nel
territorio della penisola di quanto si credesse ancora poco fa, non era una lingua veramente
vivace, ma libresca. Gli elementi che avevano contribuito alla diffusione dell’italiano:
innanzitutto, la letteratura, non solo quella alta ma anche quella di consumo; la Chiesa, tramite la
predicazione e le tante figure itineranti; le corti dove si raccoglievano persone di provenienza
diversa e che avevano bisogno di comunicazioni con altre entità simili; i tanti mestieri, anche
umili, che non erano legati a luogo fisso: i naviganti, i ladri, gli arrotini, i soldati, gli
spazzacamini…
Un contributo importantissimo per l’elevazione dell’italiano a lingua nazionale viene ancora una
volta dalla letteratura. Alessandro Manzoni, dopo una prima stesura, intitolata Fermo e Lucia del
più grande romanzo del romanticismo italiano, sente la necessità di riscrivere il tutto con forme
più vicine al toscano parlato, quindi va a Firenze, per „sciacquare i panni in Arno”, ripulire la
lingua del romanzo dai lombardismi, ed ecco che la nuova edizione, I promessi sposi avrà una
veste linguistica nuova che starà alla base di molta letteratura successiva.
L’Unità d’Italia (1861) arriva quando ancora la maggior parte degli italiani non è italofono, ma
dialettofono. È difficile calcolare quale era la proporzione di quelli che non sapevano né parlare
né capire l’italiano, per diversi motivi: l’alfabetizzazione è molto bassa, i vari dialetti sono a
distanza varia dalla lingua standard. Lo stesso Manzoni, comprendendo che l’unità nazionale
dipende anche dal fattore linguistico, avanza una proposta importante: l’introduzione dei manuali
di testo in italiano nelle scuole d’obbligo. Oltre alla scolarizzazione, l’unità politica comporterà
anche altri fattori che agiscono a favore dell’unificazione linguistica. Da subito, i mass media
sono tra i mediatori più importanti della lingua nazionale; l’esercito comune dell’Italia vede per
forza uniti la gioventù maschile d’Italia per mesi ed anni; la burocrazia, le forze dell’ordine del
paese sono basate sull’uso dell’italiano. Non vanno dimenticate nemmeno elementi importanti
quali i libri di cucina che saranno presenti in tutte le case italiane.
Un grosso problema è quello dell’emigrazione italiana. Infatti, nel secolo della grande ondata
emigratoria, dalla metà dell’Ottocento alla metà del Novecento, la maggioranza dei trenta milioni
di italiani che cercano la fortuna all’estero, sono dialettofoni. La loro lingua madre non è
l’italiano e non partecipano agli effetti di tutti i fattori di diffusione dell’italiano. Il loro dialetto li
isola spesso doppiamente: sopravvivono isole venete, siciliane, liguri d’oltremare, e la
mescidanza linguistica avviene tra dialetto d’origine e lingua del paese d’arrivo, senza passare
dall’italiano.
1) In Val d'Aosta e su una striscia del Piemonte occidentale lungo il confine con la Francia la
lingua materna non è l'italiano ma il franco-provenzale (Val d'Aosta e Piemnonte
nordoccidentale) e il provenzale (Piemonte sudoccidentale). Quindi l'italiano è la lingua ufficiale
di popolazioni il cui idioma materno ha i suoi centri di irradiazione fuori del paese. In Val
d'Aosta si ha una situazione di trilinguismo, in quanto al franco-provenzale si aggiungono come
lingu ufficiali l'italiano e il francese.
2) In provincia di Bolzano (Alto Adige o Tirolo meridionale) la maggioranza della popolazione è
di lingua tedesca. Ciò è riconosciuto con un'Apposita legislazione che regola i rapporti tra i
germanofoni e la minoranza italofona. In alcuni paesi sparsi nell'Italia settentrionale le
popolazioni hanno pure conservato la loro identità e lingua germaniche.
3) In provincia di Trento e in Friuli sono suddivisi due tronconi di espressione ladina (ladino
centrale o dolomitico e friulano), mentre il terzo è nel Canton Grigioni (retoromanzo o
romancio).
4) Al confine con la Slovenia esiste una minoranza che usa la lingua slovena.
5) In Molise si hanno alcuni paesi (Acquaviva Collecroce, San Felice del Molise, Montemitro)
che conservano tracce di colonie serbe e croate, residui di ampi insediamenti avvenuti nel XV
secolo ad opera di popolazioni che abbandonavano la loro terra per fuggire ai Turchi.
6) È importante la presenza greca in due regioni: la Calabria meridionale (Bova, Condofuri,
Gallicanò, Amendolea, Roghudi, Roccaforte) e il Salento (Calimera, Corigliano, Castrignano,
Martano, Melpignano, Martignano, Soleto, Sternatia, Zollino). La lingua dei centri salentini si
chiama anche "grico", per distinguerla dal greco, alquanto diverso, della madre patria. L'origine
di queste colonie, magnogreca o bizantina, è controversa.
7) La colonia indigena albanese vive dispersa in diverse regioni dell'Italia meridionale:
Abbruzzo, Molise, Puglia, Basilicata, Campania (Greci, in provincia di Avellino), Calabria
(Castrovillari, Vaccarrizzo Albanese e Spezzano Albanese), Sicilia (Piana degli Albanesi in
provincia di palermo). Tali colonie risalgono al XV secolo e sono frutto di accordi politici e
militari promossi dalla monarchia aragonese di Napoli.
8) Un'isola di lingua catalana vive nella città di Alghero, in Sardegna. L'origine della colonia è la
conquista militare della città da parte di Pietro IV d'Aragona. Nel 1354 la popolazione indigena
sardo-genovese è stata espulsa ed è stata sostituita da una colonia catalana.
9) In Puglia, a Faeto e Celle (provincia di Foggia) sopravvivono comunità valdesi che hanno
conservato il proprio idioma franco-provenzale.
10) In Calabria invece, a Guardia Piemontese (provincia di Cosenza) la comunità valdese locale è
di lingua provenzale.
Conviene ricordare anche le colonie gallo-italiche della Sicilia (S. Fratello, Francavilla, Novara)
e della Basilicata (Tito, Picerno, Pignola e in parte Potenza).
Se lingue diverse dall'italiano sono parlate ai confini e nell'interno del paese, dall'altra parte
l'italiano è parlato anche fuori d'Italia (anche prescindendo agli emigrati all'estero). In primo
luogo va menzionato il Canton Ticino (e il Cantoni Grigioni) nella Svizzera. È risaputo che una
della lingue ufficiali della Confederazione Elvetica è l'italiano (assieme al francese, al tedesco e
al romancio).
Un dialetto italiano vicino al toscano si parla in Corsica, dove la lingua ufficiale è naturalmente il
francese.
Nel principato di Monaco si parla un dialetto ligure. L'italiano è stato vitale a Malta e Albania.
Infine si trovano minoranze di lingua italiana disseminate in territorio sloveno e croato (Istria e
Dalmazia).
L’italiano come L2 è un argomento che deve essere diviso subito in due aspetti.
Il grande numero degli immigrati ha costretto l’Italia ad affrontare il problema dell’insegnamento
linguistico a persone di provenienze varie, per la necessità di inserirle nel contesto sociale,
scolastico, amministrativo. L’insegnamento universitario in Italia ha dato inizio a corsi volti a
formatori di questo tipo. Qui abbiamo quindi davanti a no iparlanti di italiano come L2
all’interno del paese.
Al di fuori dell’Italia l’insegnamento dell’italiano ha una storia varia, dipendendo dalle regioni
del mondo. Nei paesi, dove l’emigrazione italiana era stata forte, lo Stato italiano ha fondato
scuole italiane, e per la seconda o terza generazione degli emigrati ormai l’italiano non viene
insegnato in ambiente famigliare, ma a scuola. Nei paesi europei, l’italiano lotta per il terzo-
quarto-quinto posto tra le L2. Incontrastata ovunque la primazia dell’inglese, mentre il tedesco, il
francese, lo spagnolo sono le principali lingue rivali, ma non sono da sottovalutare ormai
nemmeno il russo, l’arabo, il cinese e il giapponese. In Ungheria, le posizioni dell’italiano sono
abbastanza solide, con più di 100 licei e 5 cattedre universitarie ed una tradizione di più di 150
anni di insegnamento.
4.1 La diglossia
La prima classificazione delle lingue romanze avvenne ad opera di Friedriche Diez ancora
all'inizio dell'Ottocento. Lui distingueva sei lingue principali: spagonolo, portoghese, francese e
provenzale, italiano e romeno (o valacco). L'elenco del Diez accoglieva solo le lingue di cultura
elevata, che sono le lingue nazionali, con l'aggiunto del provenzale di cui è nota l'importanza
raggiunta nel Medioevo. Il Diez escludeva quindi il catalano, il sardo, il ladino, il dalmatico e il
franco-provenzale. Il Wartburg, con altri romanisti distingueva ormai nove lingue: portoghese,
castigliano (spagonolo), catalano, francese, provenzale, sardo, italiano, ladino e il romeno
(mancano quindi solamente il franco-provenzale e il dalmatico). Queste classifiche tutte peccano
di confondere criteri linguistici con quelli politico-culturali: guardando più da vicino si avverte
che il toscano si differenzia dal lucano più di quanto il portoghese dallo spagnolo.
5.1 I casi
Le lingue romanze hanno operato una radicale riduzione dei casi, che si conclude
nell’eliminazione dell’opposizione tra il Nominativo e Accusativo. Ma il rumeno benché abbia
pure realizzato quest’eliminazione possiede ancora oggi un sistema casuale. Per esemplificare il
sistema rumeno mi servo di un nome femminile preceduto dall’articolo indeterminato (il
maschile neutralizza infatti sempre l’opposizione casuale; il femminile neutralizza l’opposizione
solo al plurale, come si vede sotto):
Singolare Plurale
Nominativo/Accusativo o casa niste case
Genitivo/Dativo unei case unor case
Come si vede, anche l’articolo indeterminato si declina. Il sistema casuale rumeno, che è una
sopravvivenza del sistema latino (certo favorita dal contatto con le lingue slave, che hanno pure
in genere mantenuto i casi), è diverso da quella quasi pan-romanzo che era conservato ancora in
francese antico e provenzale antico, o dal sistema casuale dei pronomi personali: in quei sistemi
la caratteristica principale è la distinzione tra Nominativo e Accusativo, che in rumeno invece
coincidono.
Il rumeno possiede inoltre, unica tra le lingue romanze, un vocativo con espressione morfologiea
propria. Questa appare nella declinazione maschile non-articolata e articolata (barbate, omule,
ambedue “uomo!”), nella femminile non-articolata (bunico, “nonna!”). Al plurale maschile e
femminile la forma del genitivo/dativo, può valere anche per il vocativo (domnilor, fetelor:
“signori! ragazze.!”). Qui alcune concordanze con le lingue slave (in particolare col bulgaro)
sono chiare; -e è latino ma anche slavo: -o solo slavo. Tuttavia non si può pensare a un semplice
influsso esterno. Il sistema vocativo rumeno, con il plurale, è più esteso di quello slavo. Per
trattare il fenomeno della flessione latina si deve ricorrere a una spiegazione complessa; l’evo-
luzione del latino della Dacia è stata fortemente condizionata dallo slavo. Ma si ricordi che slavo
e latino non sono unità incommensurabili, ma solo rami discretamente conservativi
dell’indoeuropeo. Così il perdurante contatto con lo slavo ha frenato l’evoluzione panromanza
del rumeno, l’ha mantenuto morfologicamente più vicino a un punto di partenza sul quale lo
slavo concordava con il latino. Arumeno, meglenorumeno e istrotumeno, i dialetti separati del
rumeno, hanno perduto del tutto i casi.
A parte il caso del rumeno, si può dire che le lingue romanze sono lingue senza casi. Si
differenziano con questo dalle lingue indoeuropee più conservatrici, come, tra quelle occidentali
più note, soprattutto il tedesco tra le lingue germaniche, il russo e quasi tutte le altre lingue slave.
5.2 L’articolo
La formazione dell’articolo è un tratto comune d’innovazione di tutte le lingue romanze rispetto
al latino. Il momento cruciale per la formazione dell’articolo deve essere collacato verso il VI
sec., dunque in un periodo di profonda frantumazione nello spazio geografico della Romània.
Nonostante questo, l’uso dell’articolo è sostanzialmente uniforme in tutte le lingue. Anche il ru-
meno si inquadra bene nel panorama romanzo’ con un < UNUM e l’articolo determinato derivato
da ILLUM. Tuttavia l’articolo determinato è generalmente enclitico e si presenta fuso con il
nome:
Singolare Plurale
Nominativo/ Accusativo casa cásele
Genitivo/ Dativo casei cáselor
L’articolo possiede delle varianti preposte che si usano per esempio davanti a numerali ordinali:
al treilea (“il terzo”) o in certe combinazioni sintattiche “casa nouà a inginerului” (la casa nuova
la dell’ingegnere”) in quest’ultimo caso aggiungendosi all’articolo preposto, rappresentato da -a
in casa. Per questi aspetti e per altre particolarità sintattiche l’articolo rumeno si distingue
dall’articolo romanzo delle altre lingue.
5.3 Il neutro
Il passaggio dal latino alle lingue romanze comporta la perdita del genere neutro. Le parole
neutre sono riclassificate tra maschile e femminile. Per es. mare, neutro in latino, diventa
femminile in francese la mer, maschile in italiano il mare, il latino tempus diventa, certo per
l’influenza della desinenza -us, maschile in tutte le lingue romanze. Tutte le lingue romanze
hanno in conclusione, due generi invece dei tre latini. Non così il rumeno. Il rumeno continua
regolarmente accanto al maschile e al femminile il neutro latino. Questo si vede bene dai plurali
che continuano regolarmente la forma latina: timpuri < latino TEMPORA “tempi”; ajtoaare <
latino ADIUTORIA “aiuti”. Questa classe è arricchita da molti altri elementi, anche da
neologismi (stilouri, plurale di stilou, dal francese stilo “penna stilografica”), cosicché può essere
definita una categoria viva, contrariamente al caso dei “fossili” neutri delle altre lingue romanze
dei quali parleremo subito. Questo non vuol dire che anche in rumeno, come nelle altre lingue
romanze, molte parole latine non siano passate al maschile e al femminile (per esempio mare è
femminile). Se si aggiunge che il neutro rumeno si comporta per gli accordi come un maschile al
singolare e come un femminile al plurale, si capisce bene come la valutazione del fenomeno non
sia semplice. Sembra che le parole abbiano le caratteristiche dei due generi, piuttosto che
costituire un terzo genere. In definitiva il neutro rumeno non può essere definito un fatto né del
tutto di conservazione né del tutto di innovazione. Certamente è un fatto grandemente originale
tra le lingue romanze. Questa originalità non è attenuata dall’esistenza di “fossili” neutri in altre
lingue, per esempio in italiano. Intendiamo per fossili parole come l’italiano le labbra, e anche
un singolare come foglia che continua, come il francese feulle e lo spagnolo hoja, il neutro
plurale latino FOLIA.
Ma queste forme sono isolate in italiano, nel senso che non formano una classe grammaticale.
5.4 L’avverbio
L’avverbio è una parte del discorso normalmente relata strettamente all’aggettivo. L’aggettivo è
un modificatore del nome, l’avverbio del verbo. In latino gli avverbi si distinguono dagli
aggettivi in vari modi, per esempio con una formazione autonoma (BENE contro BONUS) o con
suffissi (PARITER contro PAR), mentre OPTIME “ottimamente” contro OPTIMUS si presenta
quasi come un altro “caso” della declinazione. In FACILE e simili si usa come avverbio il neutro
singolare dell’aggettivo. Nelle lingue romanze ci sono continuazioni dirette del latino, per
esempio bene è continuato in quasi tutte le lingue romanze, ma in genere la distinzione
morfologica dell’avverbio dall’aggettivo è nuova. In particolare il tipo -mente (portoghese,
italiano, sardo lentamente, certamente; spagnolo lentamente, ciertamente; francese lentement,
certainement; provenzale certamen; engadinese tschertamaing, ecc.) è panromanzo - ma esclude
il rumeno. In rumeno la forma non-marcata degli aggettivi serve direttamente anche come
avverbio: încet “lento” e “lentamente”, sigur “sicuro” e “sicuramente”. Così viene esteso a regola
il modello del latino facile (che nelle lingue romanze è rappresentato di solito solo da casi
sporadici, per esempio in italiano da molto e da piano, dove aggettivo = avverbio, oppure da
sodo in dorme sodo). L’uso del rumeno è quello delle lingue germaniche e slave. Il rumeno tut-
tavia, non è completamente solo. L’uso avverbiale dell’aggettivo è pure del dalmatico (che aveva
anche bun “buono” per “bene”) e di certi dialetti italiani centro-meridionali, come l’abruzzese e
il pugliese. Dunque il rumeno, con i suoi “alleati” citati, si stacca dal panorama innovativo
romanzo per l’assenza del tipo d’avverbio in -mente. Incontriamo qui per la prima volta, sia pure
senza il sardo, l’area conservativa sud-orientale che ritroveremo nei fenomeni che seguono ai
punti 5 e 6.
5.5 Il condizionale
Tra le innovazioni panromanze c’è quella del condizionale, sconosciuto al latino e che si è
sviluppato parallelamente in inglese, in tedesco o in russo. Il condizionale si trova, oltre che in
altre posizioni, nella protasi del cosiddetto periodo ipotetico; ma anche i suoi altri usi lo indicano
sempre come modo “condizionato” (dipendente da qualcos’altro). Così l’uso di “cortesia”: io
vorrei io cercherei,...; quello interrogativo, pure di “cortesia”: mi daresti?...; quello che riporta
un’opinione indiretta (per cui dipende da quell’opinione) o non sicura: sarebbe precipitato;
verrebbe domani. Dal punto di vista morfologico il condizionale romanzo è formato con
l’infinito e l’ausiliare “avere”: CANTARE HABEBAT > francese chanterait; spagnolo,
portoghese, provenzale e dialetti italiani cantaria e simili; oppure CANTARE HEBUIT
(=HABUIT)> italiano, toscano canterebbe. Le due parti che costituiscono il condizionale (e il
futuro - vedi paragrafo seguente) sono ancora distinte in portoghese, anche se ormai solo nella
lingua scritta: un pronome può inserirsi tra l’infinito del verbo e la desinenza: vendé-los-iamos “li
venderemo”, falar-me-ao “mi parleranno”.
In rumeno, in sardo e in dalmatico il condizionale si è formato indipendentemente. In rumeno il
materiale è lo stesso, ma l’ordine tra l’ausiliare e l’infinito è inverso: “avere” + inf. Es.: am cînta
“canteremmo” (è testimoniato anche l’altro ordine: cîntare am). Più originali sono il sardo, che
utilizza déppere “dovere”: deo dià domare, letteralmente “io dovevo domare”. Il dalmatico ha
kant(u)ora < latino CANTAVERAM, secondo una derivazione che era comune una volta anche a
molti dialetti italiani centro-meridionali; e anche oggi nel Lazio meridionale ci sono forme come
avéra, putéra (Rohlfs, par. 602). Come si vede le lingue che non hanno ricevuto l’innovazione
panromanza sono ancora le stesse, più, questa volta, il sarda.
5.6 Il futuro
Le lingue romanze hanno lasciato cadere tutte il futuro latino, e, come per il condizionale, hanno
normalmente utilizzato l’ausiliare “avere”, Per es. italiano canterà, spagnolo cantarà < latino
CANTARE HABET. Questa innovazione è largamente, ma non universalmente, diffusa. Il futuro
ha tendenza a riformarsi: in francese je chanterai che è una forma già perifrastica che appare ora
come sintetica, ha per concorrente un nuovo futuro perifrastico: je vais chanter letteralmente
“vado cantare”. Forme simili appaiono in tutte le lingue, e in qualche parlata hanno sostituito il
tipo panromanzo descritto sopra. A noi interessano però le lingue che non hanno mai accolto il
tipo romanzo comune. Troviamo qui ancora una volta il rumeno, il dalmatico, il sardo. Il rumeno
ha varie forme di futuro: uno utilizza il latino *VOLEO (per VOLO) + infinitivo: VOLEO
CANTARE > voi cînta letteralmente “voglio cantare” (forma nota anche a dialetti italiani
settentrionali). Un altro ha “avere” + congiuntivo: am sà cînt “ho che io canti “. In rumeno
moderno poi tutte le persone dell’ausiliare “volere” sono neutralizzate nel solo o: si ha perciò un
paradigma in cui la persona è distinta dalla desinenza del verbo al congiuntivo. Il sardo utilizza
l’ausiliare “avere” ma in altro modo: app’a fugghire letteralmente “ho a fuggire”. Simili
sembrano essere le formazioni di alcuni dialetti italiani centro-meridionali, e anche l’italiano
settentrionale antico aveva ho corre “correrò”, nel milanese di Bonvesin da Riva. Il dalmatico
usava la forma non perifrastica kantu(o)ra < latino CANTAVERO (forma resa poi omonima con
quella del condizionale), come facevano pure dei dialetti italiani antichi. In molti dialetti italiani
centro-meridionali, infine, il futuro manca del tutto, e questa era forse una volta la situazione
generale.
I fenomeni fin qui esaminati hanno messo in rilievo prima l’originalità del rumeno, fatta di
conservazioni e di innovazioni proprie, rispetto al panorama generale romanzo. Bartoli aveva,
dunque, parlato a ragione di “spiccata individualità” del rumeno. Nell’ultima parte della rassegna
(pumi 4, 5, 6), tuttavia, abbiamo notato che ci sono altre lingue che risultano isolate rispetto a
innovazioni generalmente molto diffuse: sono il dalmatico, il sardo e spesso alcuni dialetti
italiani centro-meridionali. Nella tavola III, che mostra la consistenza geografica di questo
gruppo, esso è designato con la lettera A. Passeremo ora ad esaminare alcuni fenomeni che
ritagliano nulla carta della “Romània continua” uno spazio centro-settentrionale, parzialmente
coincidente con il territorio detto tradizionalmente gallo-romanzo (ma spesso un poco più vasto).
É una zona innovativa, nulla quale faremo spiccare poi, per fenomeni propri moderni (posteriori
tutti al XIII sec.) le innovazioni che isolano completamente l’altra grande individualità romanza:
quella del francese.
La posizione di soggetto permette generalmente nelle lingue romanze come in latino, l’assenza di
pronominalizzazione. In italiano posso dire: è venuto Pietro. Sta bene.; in spagnolo Ha venido
Pedro. Està bien.; in rumeno A venit Petru. E bine., e così nelle altre lingue romanze. II pronome
egli (o lui) non si usa obbligatoriamente in questi casi, ma solo quando c’è contrasto. (Sua
moglie è malata, ma LUI è guarito), o se il soggetto è lontano, o se non è quello atteso. Questo
non vale però per tutte le lingue romanze. Alcune hanno reso obbligatoria la
pronominalizzazione, come lo è per esempio in inglese e in tedesco, allontanandosi con questo
dal modello latino e romanzo comune. In francese bisogna dire: Pierre est venu. IL se porte bien.
Per il francese, l’obbligatorietà del pronome può apparire come un compenso per la perdita di
altri morfemi (per esempio quello di 3a pers.) che erano marche formali dell’accordo. Tuttavia,
anche senza questa condizione, una larga area italiana settentrionale, che interessa anche il
friulano e perfino il fiorentino popolare ha la pronominalizzazione obbligatoria (ma non sempre
in tutte le persone). Sia in francese che nelle varietà italiane settentrionali il pronome personale
obbligatorio è clitico, cioé occupa una posizione sintattica fissa, che nel nostro caso è prima del
verbo, dal quale può essere separato solo da altri elementi clitici, o eventualmente dopo di esso.
Siccome ci può essere anche un altro pronome, libero questa volta, si ha qualche volta la somma
di due pronomi (della reduplicazione): francese toi tu dis, veneto ti te dizi, friulano tu tu dízis,
fiorentino te tu dici, che valgono l’italiano tu dici (per esempio in senso contrastivo) ma se il
senso non lo richiede è il solo pronome clitico a essere obbligatorio: francese quand tu dis
(*quand dis), veneto quando che te dizi (*quando che dizi), friulano quan che tu dizis (*quan
che dizis), fiorentino quando tu dici (quando dici non sarebbe una forma fiorentina popolare).
Questa situazione ha le sue radici nell’assetto medievale delle lingue romanze.
Rientra qui anche il caso del soggetto espletivo (cioé finto, dummy), usato in genere dalle lingue
a pronominalizzazione obbligatoria con verbi impersonali (cfrancese IL faut contro l’italiano
bisogna) e meteorologici (francese IL pleut, contro l’italiano piove).
5.8 La negazione
Come nella gran parte delle lingue, non solo indoeuropee, il latino e in generale le lingue
romanze riservano alla negazione il posto precedente al verbo: latino NON INTELLEGIT,
italiano non capisce ecc. Altre lingue pospongono la negazione come il tedesco, l’inglese, il
turco, il tartaro. Ma non sempre la negazione è “semplice”. Quando la negazione è completata da
un elemento, per esempio temporale, questo si trova nelle lingue romanze dopo il verbo: non
capisce mai. In latino la negazione precedeva il verbo, e in qualche caso formava una negazione
complessa unica: per esempio NUMQUAM “non-mai”. Questo va messo in relazione col diverso
posto del verbo in latino.
Il francese antico aveva la forma negativa panromanza: il n’a en vous leauté “non c’è in voi
lealtà” (Chàtelaine de Vergi, 158); questo stato di cose è ancora riflesso in francese moderno in
sintagmi fissi (n’importe “non importa”), in certi giri dello stile letterario (il ne cesse de parler
“non cessa di parlare”). A parte questi casi marginali, in francese moderno è diventata
obbligatoria la presenza di un secondo elemento, anche semanticamente vuoto, come pas e point,
che occupa il posto che ha per esempio in italiano mai: si dice: il NE comprends PAS come NON
capisce MAI, o il NE comprend JAMAIS.
Si tratta dell’estensione di una forma romanza, come abbiamo visto. Il francese parlato è andato
più avanti, spostando tutto il peso della negazione sul secondo elemento: je sais pas “so mica”, e
j’ai vu personne “ho visto nessuno”. Nell’Italia settentrionale si ritrovano gli stessi fenomeni. In
Italia da Nord a Sud è largamente diffusa una seconda parte di negazione “vuota”, del tipo di
“mica”: lombardo miga, minga; veneto e emiliano miga, mia; bolognese brisa; toscano mica;
salentino filu ecc. Questo secondo elemento è diventato in alcuni casi l’unico obbligatorio,
proprio come nel francese contemporaneo. Così in lombardo (capissi minga “non capisco”),
piemontese (capissu nén), ecc. Anche l’italiano popolare ha: capisco mica. Il provenzale
moderno ha voli pas, sabe pas “non voglio” “non so”.
La doppia negazione obbligatoria del francese letterario rappresenta, in questa luce, una specie di
fissazione d’un momento di transizione.
5.9 L’interrogazione
Ci sono due tipi di interrogazioni, quelle introdotte da un morfema interrogativo (“chi”, “che
cosa”, “quando” ecc.), e quelle dette si/no, nel senso che prevedono una risposta positiva o
negativa. Ci occupiamo qui di questo secondo tipo.
In generale nelle lingue romanze l’interrogazione si/no è ottenuta con la semplice realizzazione
di un’intonazione diversa da quella assertiva, e delle altre possibili: esclamativa, desiderativa ecc.
Le lingue medievali tuttavia hanno conosciuto tutte un mezzo sintattico, l’anteposizione del
verbo al SN soggetto. Questa costruzione è detta tradizionalmente inversione. Oggi solo il
francese e alcune varietà dell’ltalia settentrionale si servono di mezzi sintattici, ma non uguali a
quelli medievali.
Il francese possiede due sistemi alternativi: 1) quello dell’inversione e 2) quello dell’introduzione
di un elemento morfologico interrogativo obbligatorio. L’inversione così come si presenta oggi è
una novità del francese moderno: dopo il verbo deve sempre trovarsi un pronome personale:
était-il malade?; Les enfants seront-ils saitsfaits?; Quand reviéndra-t-il?, letteralmente “era-egli
malato?”, “i bambini, saranno-essi soddisfatti?” cosiddetta inversione complessa; prima si trova il
soggetto nominale, poi il verbo con un pronome interrogativo posposto che riprende il soggetto
nominale); “quando tornerà-egli?” (inversione anche nell’altro tipo di interrogazione, con un
morfema interrogativo).
Alcuni dialetti italiani settentrionali hanno la stessa struttura dell’interrogazione: per esempio
veneto sestu (situ) malà? (“sei-tu malato?”), zelo malà? (“è-lui malato?”), dove -lo rappresenta il
pronome di 3a persona clitico posposto): el putelo zelo malà? (“il bambino è-lui malato?”). È
chiaro che questa struttura interrogativa è condizionata dall’esistenza di pronomi soggetto
obbligatori clitici (vedi 4.7). Tuttavia non tutte le varietà che hanno dei pronomi clitici soggetto
se ne servono per fare l’interrogazione mediante l’inversione.
Vediamo il secondo sistema. Il morfema di interrogazione in francese è est-ce que: Est-ce qu’il
était malade? Quand est-ce qu’il reviendra? letteralmente “È-egli che-egli era malato?” “Quando
è-egli che tornerà?”. Molte varietà romanze hanno simili morfemi interrogativi, ma, a differenza
che in francese, non sembra che in nessuna lingua siano obbligatori.
Un’altra innovazione che interessa tutta la zona gallo-romanza, ma che questa volta si estende
anche al toscano, e quindi all’italiano letterario, riguarda l’uso del di partitivo accompagnato
dall’articolo definito come forma plurale dell’articolo indefinito: francese des garcons jouaient,
italiano dei bambirri giocavano. Anticamente il partitivo era in genere senza articolo, e il
francese moderno ha ancora questa forma in certi casi, per esempio in un contesto negativo: Je
n’ai pas vu de garcons “non ho visto di ragazzi”.
Questa forma è l’estensione di un uso del partitivo testimoniato già nel latino volgare: Gregorio
di Tours: DE SANCTA CERA SUPER EAM POSUI. Letteralmente “di santa cera sopra lei
posi”. Questo uso, particolarmente con nomi che indicano materia (soprattutto commestibili), è
presente in portoghese e spagnolo antico, in sardo, in dalmatico, nei dialetti italiani meridionali -
non in rumeno: si estende, quindi, a quanto pare, su un’area molto vasta del dominio romanzo.
Ma solo in francese, in provenzale e in italiano si è esteso al plurale, colla funzione che abbiamo
detto.
Prima di passare ad esaminare dei fenomeni che isolano la sola individualità del francese
dobbiamo interrogarci sul significato delle concordanze che abbiamo constatato in qui. L’area
geografica coincide parzialmente con quella “gallo-romanza”, come abbiamo già ricordato.
Quest’area era stata tradizionalmente enucleata in base ad alcuni tratti fonetici macroscopici,
come la presenza di /ü/ e /ö/. Neanche allora tuttavia l’area dei fenomeni coincideva bene con
quella di maggior densità degli stanziamenti celtici, in maniera d’appoggiare decisamente la tesi
dell’Ascoli della “reazione di sostrato”. Se ai fenomeni innovativi che abbiamo descritto, bisogna
cercare piuttosto, come sembra logico, delle cause più recenti, dobbiamo tuttavia riconoscere di
mancare ancora dei punti di riferimento essenziali. La cronologia dei fenomeni non è chiara, e
non è facile dire quale deve essere il fondamento di questa unità.
5.11 L’ordine dei sintagmi
In latino e nelle lingue romanze ci sono molte possibilità nella collocazione dei sintagmi nella
frase. Non tutti gli ordini però si equivalgono, anzi è ovvio pensare che ogni ordine abbia la sua
buona ragione di essere; e nemmeno tutti gli ordini sono permessi. Certo gli autori latini
esibiscono una gran varietà di ordini delle parole. Tuttavia non è corretto parlare, come qualche
volta si fa, di “libertà” del latino nell’ordinare i sintagmi. Di fronte alla varietà di Cicerone, un
autore classico sobrio come Cesare presenta nel 90% dei casi un ordine con il verbo in posizione
finale. In una frase che comprenda Soggetto, Verbo, Oggetto l’ordine “ordinario” latino era
dunque: SOV. Quello romanzo è: SVO. Per es.: latino CAESAR (S) OMNEM AGRUM
PICENUM (V) PERCURRIT (O), ma in italiano, Cesare (S) percorre (V) ogni parte del territo-
rio dei Piceni (O) (e così le altre lingue romanze). Ma già la storia del latino ci mostra dalle fasi
arcaiche a quelle tarde un progressivo avvicinamento al secondo tipo, cioè un chiaro imporsi
dell’ordine “ordinario” romanzo. Non ci sono in questo caso, all’origine differenze tra le varie
lingue romanze che continuano tutte il latino tardo.
Tutte le lingue possiedono, però, accanto a un ordine “non-marcato”, che si può chiamare anche
“ordinario”, come abbiamo fatto, o “normale”, altri ordini “marcati”. In particolare è sempre
possibile trasportare certi sintagmi (complementi di vario tipo, avverbi, anche il complemento
oggetto soprattutto se abbia espressione morfologica propria) all’inizio della frase, dove vengono
a prendere particolare rilievo. In questo caso la linea melodica della frase viene mutata: se con-
sideriamo “normale” l’intonazione di Vado a Roma col treno, dovremmo riconoscere che
l’intonazione di Col treno vado a Roma è molto diversa (e comporta in particolare un forte
rilievo al sintagma iniziale: COL TRENO vado a Roma così in spagnolo EN TREN voy a Roma
ecc.). Un ordine del genere è condizionato da un contesto nel quale il sintagma in questione sia in
posizione di contrasto: per esempio: te l’ho detto mille volte. Col treno vado a Roma, non con la
macchina. Questa possibilità non appartiene a tutte le lingue. Manca al francese (*par le train je
vais à Rome), e, fuori dal dominio romanzo, per esempio all’inglese. Un’altra possibilità delle
lingue romanze, e anche non romanze (per esempio delle lingue slave), è quella per cui un verbo
intransitivo precede il soggetto, senza che ci sia questa volta un’intonazione speciale. Si
considerino frasi come italiano arriva Carlo; è passato l’autobus (con equivalente in genere in
tutte le lingue romanze, per esempio spagnolo Llega Carlos; ha pasado el bus; rumeno Vine
Carol; a trecut autobuzul). Quest’ordine serve o a comunicare la “novità”dell’ultimo sintagma
(Carlo, il tram) in confronto alla prima parte che è data per “nota” (e allora potranno essere intese
come risposte a domande come: “Chi viene?” “Che cosa è passato?”; oppure a veicolare un
contenuto interamente nuovo (e allora la domanda che le potrà precedere sarà del tipo: “Che
cos’è successo?”). Il francese moderno non possiede questa possibilità.ű
5.12 La diminutivizzazione
Tra le possibilità di derivazione nominale c’è quella detta della “diminutivizzazione”. In realtà
non si tratta sempre di indicare la piccolezza; c’è un’opposizione semantica del tipo
coltello:coltellino, ma anche una del tipo: erba: erbetta, caffé: cafferino (caffeino, caffettino) e
simili, che indicano piuttosto un atteggiamento affettivo, per il quale si parla perciò spesso di
“ipocoristici”. Il nesso tra diminutivo e ipocoristico deve essere comunque così largamente dif-
fuso (evidentemente su base psicologica comune) che non vale la pena di insistere nelle
variazioni, e qui si parlerà per comodità solo di “diminutivo”. Il latino esprimeva volentieri il
diminutivo con suffissi come -IDUS e -ILLUS. Le lingue romanze hanno diversi suffissi: lo
spagnolo ha, con diversa distribuzione geografica, -ito (sombrerito; animalito), -illo (chiquillo),
-ico (cantarico), -uelo (mozuelo) e variazioni come panecillo da pan; il rumeno ha as (iepuras
“leprotto”), -sor (pomisor “alberello”) ecc. Il francese moderno non possiede più un processo
produttivo di diminutivizzazione. L’impiego dei diminutivi, fiorente nel Medioevo e nel Rinasci-
mento, si è bruscamente fermato nell’epoca classica (XVlI sec.). Il francese moderno possiede
alcuni diminutivi fissati dall’uso, ma è la sola lingua romanza a non avere processi diminutivali:
oggi si dice petit Pierre (italiano Pierino, spagnolo Pedrito). Il francese ha così raggiunto
l’inglese (little boy “ragazzino”, small boat “barchetta”).
Tra le innovazioni indipendenti che hanno finito per interessare gran parte della Romània c’è
l’eliminazione della forma sintetica del passato detta “passato remoto” o “perfetto”.
L’eliminazione si è fatta a vantaggio della forma del passato prossimo: “ho letto” prende il posto
di “lessi”, cumulando così due forme inizialmente distinte. La poligenesi del fenomeno è
evidente. La sua realizzazione è stata lunga: in rumeno il passato rem. è limitato alla sola lingua
letteraria e sopravvive in pochi punti conservativi, soprattutto dell’Oltenia, (è conservato invece
in arumeno e meglenorumeno). In Italia settentrionale ci sono pochi resti (per esempio nelle
parlate friulane arcaiche di Erto e di Collina). Il passato remoto doveva essere caduto a Venezia
già nel Quattrocento, e bisogna probabilmente pensare a una data diversa per ogni località. In
catalano si è formato un nuovo tempo perifrastico, fatto con il verbo modale anar “andare” e che
non esclude il passato prossimo: va cantar “cantò” contro ha cantat “ha cantato”. Il perfetto è
scomparso pure nella gran parte delle varietà del sardo. In dalmatico il perfetto era scomparso
sotto l’influenza del veneziano (e del serbo-croato). Nell’italiano letteralmente, come in francese
e in rumeno, il passato remoto è diventato una forma tipica della narrazione storica, cosicché
Roland Barthes ha potuto scrivere in un saggio molto acuto “scaduto dal linguaggio parlato, il
passato remoto, pietra angolare del Racconto, è sempre il segnale di un’intenzione artistica; fa
parte di un rituale delle Belle Lettere”.
Il fatto che una forma sintetica ceda di fronte a una forma analitica, e che questo accada in
diverse lingue, anche indipendentemente, mostra chiaramente che si tratta della continuazione
della tendenza romanza già osservata per il futuro.
Da questa tendenza innovativa generale sembrano essere esclusi il portoghese e lo spagnolo,
l’occitanico, l’italiano centro-meridionale e anche il toscano. Il catalano sembra, formalmente,
allearsi con le lingue innovative, avendo perduto le vecchie forme, ma in realtà ha riformato la
distinzione tra due tempi diversi del passato.
Un tratto caratteristico del galego-portoghese è il fatto che l’infinito ammette desinenze personali
(infinitivo flexionado o pessoal): così abbiamo forme come cantarmos “cantar-noi” o cantarem
“cantar-loro” dove l’infinito cantar porta la desinenza -mos di prima persona plurale o -em di
terza persona plurale Questo permette di usare l’infinito in costruzioni in cui le altre lingue
romanze usano una forma finita del verbo. Così in portoghese si può dire: Antes de sairmos, o
Joào telefonou à policia, con l’infinito sairmos (prima persona plurale), mentre in italiano si
dovrebbe dire: Prima che uscissimo, Giovanni telefonò alla polizia, col congiuntivo uscissimo
(se usassimo l’infinito, avremmo un senso diverso: Prima di uscire Giovanni telefonò alla
polizia, dove è Giovanni che esce; lo stesso in portoghese se usiamo l’infinito senza desinenze
personali: Antes de sair, o Joào telefonou à policia). Sostanzialmente, mentre con le forme
verbali non personali la referenza del soggetto della forma stessa è determinata dalla costruzione
sintattica (nel nostro es. il soggetto dell’infinito deve essere coreferente col soggetto della frase
principale), la desinenza personale permette all’infinito di avere un soggetto indipendente, come
in genere avviene con le forme finite del verbo.
L’infinito personale portoghese è completamente isolato nel dominio romanzo (è attestato, in
Europa, solo nell’ungherese, una lingua non indoeuropea), se si eccettua il caso particolare
dell’italiano scritto a Napoli intorno alla fine del Quattrocento, in cui si trovano vari casi di
infinito e di gerundio con desinenze personali plurali: potereno “poter-loro”, posseremo “poter-
noi”, avendono “avendo-loro”. Ma questo fenomeno tipico della lingua aulica dell’uso scritto
napoletano (e del tutto assente dal dialetto) è scomparso senza lasciare traccia con l’imporsi della
norma toscana.
Una ripartizione geografica differente da tutte quelle considerate si ottiene esaminando il modo
di formazione del plurale. L’alternanza di numero è espressa nella Romània in due modi
fondamentali: con -s, oppure con alternanza vocalica. Questa distinzione taglia la Romània in un
gruppo occidentale (comprendente questa volta anche la Sardegna), e un gruppo centro-orientale.
Da un lato ci sono, quindi: portoghese cavalo: cavalos, cabra: cabras; spagnolo caballo:
caballos, cabra: cabras; catalano cavall: cavalls, cabra: cabras; francese cheval: chevals, che-
vaus (grafia moderno chevaux), chévre: chévres, provenzale caval: cavals, cabra: cabras; sardo
kaddu: kaddos, kraba: krabas; soprasilvano cavagl: cavagls; caura: cauras. Dall’altra parte c’è
l’italiano, con tutti i suoi dialetti: cavallo: cavalli; capra: capre e il rumeno cal: cai; capra:
capre.
È facile riconoscere nel plurale sigmatico la continuazione dell’acc. plurale latino, che finiva in
-s in tutte le declinazioni. È più difficile dire da dove provengano i plurali vocalici, se dal
nominativo della prima declinazione (CAPRAE: italiano, rumeno capre) e della seconda
declinazione (CABALLI: italiano: cavalli, rumeno cai) esteso a tutti gli altri casi, o se si debba
pensare anche questa volta alla riduzione di forme più antiche sigmatiche, sempre provenienti
dall’accusativo latino (-AS per il femminile che darebbe -e, -IS per -ES al maschile che darebbe
-i.
Il friulano presenta plurali sigmatici, provenienti dall’accusativo latino, ma anche una classe
originariamente vocalica, che proviene dal nominativo della seconda declinazione del latino in -i.
Alcune lingue, nei loro sviluppi ulteriori, sembrano essersi staccate dal loro quadro di origine.
Non si può più dire che il francese ha un plurale sigmatico senza un’accurata discussione che
mostrerà il ruolo, in verità limitato, che ha [z] che continua -s nel francese moderno. Anche il
plurale vocalico non è sempre riconoscibile a prima vista nelle varietà moderne, come lo è invece
perfettamente in italiano. Spesso le vocali finali sono cadute. Qualche volta hanno lasciato
tuttavia, prima di cadere, delle conseguenze. Un esempio classico è la metafonesi, provocata da
-i finale poi caduta: questo è quanto si osserva in piemontese tet, plurale tit : “tetto, tetti”. Altre
volte la vocale ha modificato la consonante precedente: così sempre in piemontese l’opposizione
gros: gro “grosso, grossi” si spiega con l’effetto della -i poi caduta. Questo caso è generale in
rumeno dove nella grafia il plurale masch, appare fatto con la -i, ma nella realizzazione fonetica
abbiamo in realtà la palatalizzazione della consonante: pom: pomi “albero (da frutto), alberi” è in
realtà [pom, pomj]. La -i appare invece nella forma con l’articolo definito posposto: pomu è
realizzato come [‘pomi].
Benché nei casi che abbiamo visto non si possa più parlare di plurale sigmatico o vocalico, è
interessante constatare che la fonologia generativa ha sempre preso in esame la possibilità di
postulare rispettivamente la -s o le vocali cadute nella struttura profonda fonologica.
l due morfi di formazione del plurale tagliano la Romània in modo chiaro (a parte il caso del
friulano). Tradizionalmente ce se ne è serviti per suddividere in due parti la Romània. Ma nessun
altro fenomeno romanzo sembra coincidere con questa linea. Possiamo dire perciò che il suo
valore come test per una caratterizzazione interna della Romània è stato sopravvalutato.
Le iscrizioni murali di Pompei ed Ercolano hanno il grande vantaggio di una datazione sicura, in
quanto devono essere precedenti all’eruzione del Vesuvio, avvenuto nel 79 d.C. In esse sono
attestate tendenze fonetiche che ritroveremo poi nelle lingue romanze e soprattutto nell’italiano.
i.) Sonorizzazione delle consonanti sorde occlusive intervocaliche: pb, td, c [k]g, p.es.
lat. pacatus pagatus (attestato a Pompei) it. pagato.
ii.) Caduta della m finale. La m finale è fin dalle origini una consonante molto debole, tanto che
3
Menichetti, 38-39.
talvolta in metrica non viene letta. P.es. a Pompei si legge Successus amat ancilla. Non
possiamo pensare a dei banali errori perché il fenomeno è troppo frequente.
iii.) La sincope ovvero l’eliminazione di una vocale atona all’interno della parola, p.es. domnus
invece di dominus, maldixi invece di maledixi.
iv.) La prostesi (o protesi) è l’introduzione di una vocale davanti a s seguita da altra consonante
all’inizio di parola. Avviene soprattutto quando la parola precedente finisce anch’essa per
consonante, p.es. per iscritto, in iscuola. Lat. scholae sp. escuela; fr. école, ecc. Il primo
esempio si trova proprio a Pompei: Smyrna Ismurna.
v.) Trasformazione di e breve in i e delle i atone in iato, p.es. lat. ca/se/umlat. volg. ca/sium
(attestato a Pompei) it. cacio.
a) Trax è una grafia non corretta; essendo parola di origine greca dovrebbe essere thrax.
b) retiarius è un nome di professione con suffisso -arius, inesistente nel latino classico.
c) Cresces sarebbe in latino calssico Crescens. A Pompei si trova 44 volte il prenome
Cresces e solo 4 volte Crescens.
d) Domnus da dominus, con la sincope della vocale atona post-tonica.
e) Puparru corrisponde al latino classico puparum, abbiamo quindi la caduta della m
finale e il raddoppiamento di r. Il termine pupa o diminutivo pupula significava con
ogni probabilità le meretrici, quindi il nostro retiario era probabilmente un frequentatore
se non un protettore delle ‘bambole’.
Queste glosse sono così chiamate perché il manoscritto principale che le contiene
proviene dall’abbazia benedettina di Reichenau, sul lago di Costanza (questo manoscritto
si trova oggi a Karlsruhe). Queste glosse sono molto recenti e quindi vi si possono trovare
delle latinizzazioni tradive. Per esempio, il termine del latino classico MINAS da
MINAE, MINARUM (deverbale da MINARI), che non era più compreso, è spiegato con
una parola non del latino volgare, ma dell’antico francese addirittura contenente un tratto
dialettale, la prima ‘a’, del Nord-Est della Francia, manaces [manatses]. Normalmente in
antico francese si aveva menaces.
Secondo alcuni filologi le Glosse di Reichenau sono della fine dell’VIII o degli inizi del
IX secolo, secondo altri del X.
a) Alcuni fenomeni illustrano bene le tendenze del latino parlato: la creazione di forme
analitiche (alia vice, una vice) dalle forme sintetiche (iterum, semel).
4
Menichetti, 29-30.
b) rufa è parola latina, sora è invece un germanismo latinizzato (‘biondo-rossiccia’).
Sora ha dato in italiano (attraverso il provenzale) sauro, in francese è rimasto nella forma
(hareng) saur (‘aringa affumicata’)
c) Reus nel latino classico non significa colpevole bensí accusato. Culpabilis nel buon
latino non c’è.
d) flasconem non appartiene al latino classico, è una parola di origine germanica e si
ritrova nel francese flacon. Buticulam significa bottiglia o piccola botte, termine
mascherato di latinità (anche buttis non è attestato che in latino tardo).
e) pincerna ‘coppiere’ (dal greco) è reso con butilliarius, derivato evidentemente da
buticula, ma rifatto chiaramente sul francese bouteiller.
f) fibulas ‘fibbia’ in latino classico, è spiegato doppiamente, con la parola germanica
(francica) hrincas e con fiblas che è la forma sincopata della stessa parola fibulas.
g) iecoris ‘fegato’ (genitivo di iecur) è spiegato con figido, forse per la prelibatezza del
fegato d’oca, fatto ingrossare dando da mangiare fichi alle oche stesse, donde *ficatu. In
francese abbiamo foie, in spagnolo higado, in italiano fegato.
Marco Valerio Probo fu un grammatico latino del I sec d.C. In verità la cosidetta
Appendix Probi non ha niente a che fare con lui, per due ragioni: il trattato di grammatica
in questione, contenuto in diversi codici, gli fu attribuito erroneamente, porbabilmente
risale al IV secolo. Una copia, circa del VII-VIII secolo, proviene dal monastero
benedettino di Bobbio (fondato dal monaco irlandese San Colombano nel 612); in
appendice a questo manoscritto si leggono cinque brevi testi, tra cui la rinomata Appendix
Probi che forse sarebbe piu opprotuno chiamare Appendix Bobbiensis. La lista contiene
227 parole, nella forma ‘giusta’ del latino classico (anche se a volte già la prima forma
pecca di correttezza) e nella forma ‘errata’ del latino volgare parlato all’epoca, preceduto
da non. In esse si manifestano praticamente tutti i fenomeni fondamentali della fonetica
del latino volgare. La lista con ogni probabilità era destinata ad uso scolastico.
La divisione a gruppi è quella di A. Menichetti e non rispecchia l’ordine originale ma
intende fornire una tipologia degli errori.
a) Fenomeno della sincope (caduta della vocale interna post-tonica), p.es. alterum
altro e similmente specchio, maschio, occhio, verde. Secondo una testimonianza di
Quintiliano, l’imperatore Augusto considerava “odiosa”, insopportabile la pronuncia
calidus anziché caldus (ovviamente a livello di lingua parlata). L’Appendix Probi
raccomanda invece ancora l’uso, nella scuola , della forma “corretta” anche se l’itaiano
caldo viene, ovviamente, proprio della variante parlata caldus.
d) Indica la predilezione del latino parlato per i diminutivi, che però perdono il loro
valore originario, p.es. auricola si ritrova già in Paluto col valore di auris.
e) Fenomeno della caduta della m finale. È un fenomeno normale sin dal latino delle
origini, tant’è che la m finale seguita da vocale iniziale metricamente non conta, permette
la sinalefe. Ritroviamo questo fenomeno già nelle iscrizioni di Pompei (I.secolo d.C.), e a
partire dal III-IV secolo la m tende a cadere anche nelle iscrizioni ufficiali.
f) Assistiamo alla caduta di n davanti a s, p.es. lat. monstrum it. mostro, lat. mensa
sp. mesa, rom. masa, fr. moise (col significato di una tavola speciale nel lessico dei
carpentieri). Naturalmente, la conservazione del nesso consonantico ns nell’it. mensa è
chiaro segno del fatto che si tratta di parola dotta. Altri esempi da iscrizioni antiche: cesu
per censu e cosul per consul.
Di contro, le ipercorrezioni formonsus, occansio fanno vedere un inserimento errato di
n.
h) Confusione tra v, b, u.
Probabilmente in alcune zone, come la penisola iberica i verbi bibere e vivere erano
pronunciati (quasi) allo stesso modo. Perciò baculus (it. bacchio) venica confuso con
vaculus, con sicope vaclus. La stessa confusione si crea anche in plebes. L’it. plebe è
parola dotta che si afferma nell’Italia solo nel ‘300 in seguito alle prime traduzioni dal
latino. La tradizione ininterrotta da invece pieve (con significato di ‘popolo di Dio’
‘Chiesa’).
i) La necessità di distinguere il femminile dal maschile porta all’estensione analogica sul
tipo bonus -a degli aggettivi ad una sola uscita come pauper. Ipse ha una desinenza
inconsueta, per cui si crea per analogia ipsus it. esso. Le altre lingue romanze invece
partono da ipse sp. ese, fr. ant. es, provenzale eis, ecc.
k) Per analogia alle forme femminili della prima declinazione che escono in a, si estende
a quasi tutte le forme femminili la desinenza a (la desinenza di socrus rischiava di far
pensare che si trattasse del suocero).
l) Persica = il frutto che viene dalla Persia pessica. È una tendenza del latino al
fenomeno di assimilazione regressiva in quanto è la seconda consonante ad influenzare la
prima. In seguito pessica pesca per sincope.Alcuni dialetti e lingue romanze
continuano comunque la prima forma.
grundio non grunnio: le due varianti (la seconda dialettale) coesistevano nel latino
parlato. La prima da la forma del fr. ant. grondir fr. mod. gronder ‘rimproverare’; la
seconda forma è continuata nell’it. grugnire e nel prov. gronhir.
Similmente, esistono forme provenienti da sibilus e da sifilus: L’it. sibilo è parola dotta,
quella di tradizione ininterrotta sarbbe zufolo. L’occitanico ha siflar e siblar, entrambe di
tradizione ininterrotta).
7. Altri testi per illlutrare la cronologia dell’evoluzione
Quisquis
ama, valia,
perea qui n
osci amare
bis (t)anti pe
ria, quisqui
s amare vota
... venondavi tivi Dondoni aliquanta terrula in locum qui dicitor ad stabla Marcucci, uno
capite tenente in terra Chisoni et alium capite tenente in terra Ciulloni, de uno latere corre
via publica...
7.4 Breve de inquisitione (Siena, 715)
...iste Adeodatus episcopus isto anno fecit ibi fontis, et sagrauit eas a lumen per nocte, et
fecit ibi presbitero uno infantulo abente annos non plus duodecem, qui nec uespero sapit,
nec madodinos facere, nec missa cantare...
Il latino dell’età longobarda in Italia è simile a quello merovingico, varietà molto dimessa
rispetto alla norma classica. Nel testo, di cui citiamo solo un breve passo, un inviato del re
riferisce la deposizione di un testimonio relativa all’appartenenza di certe chiese e monasteri.
Tratti appariscenti: radicale riduzione dei casi; uno in funzione di articolo; sapit invece di scit, le
consonanti intervocaliche sonorizzate.
... per singulos annos reddere debeamus vino puro da tertia vicees uba bene calcata...
Se pareba boves
alba pratalia araba
albo versorio teneba
negro semen seminaba
Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte Sancti
Benedicti
È scritto in calce a una carta del 1087, con la quale un certo Miciarello e sua moglie Gualdarada
facevano dono di tutti i loro beni all Abbadia S. Salvatore sul Monte Amiata, il rogatario, notaio
Raniero, aggiun geva questa postilla. L’assonanza fa pensare che si tratti di versi (endecasillabi).
Traduzione di Bruno Migliorini: „Questa carta è di Capocotto (soprannome di Miciarello,
probabilmente da intendere come Testadura) e gli dia aiuto contro il Maligno, che un mal
consiglio gli mise in corpo”.
7.11 Iscrizione volgare nella Basilica San Clemente di Roma (dopo il 1066)
. . . et ab eodem Gkisolfolo audivit quod Malfredus fecit la guaita a Travale. Sero ascendit
murum et dixit: Guaita, guaita male, non mangiai mai mezo pane, et ob id remissum fuit
sibi servitium. Et amplius non tornó mai a far guaita . . .
Domine mea culpa. confessu so ad me senior Dominedeo et ad mat donna Sancta Maria
[etc.] de omnia mea culpa et de omnia mea peccata, ket io feci [etc.]. me accuso de lu
corpus Domini, k'io indignamente lu accepi [etc.]. pregonde la sua sancta misericordia e
la intercessione de li suoi sancti ke me nd'aia indulgentia [etc.]
Codicetto miscellaneo proveniente dall'abbazia di S. Eutizio, nei pressi di Norcia (Umbria).
Formule del rito della penitenza.
Statuto di un piccolo comune, preesistente alla versione in latino. Formule giuridiche, grafia piú
moderna ma ancora molto oscillante.
Bibliografia:
Menichetti, Aldo, Filologia romanza. Anno accademico 83-84. Milano, CUSL, 1984.
D’Arco, Silvio Avalle, Bassa latinità, 3 voll. Torino, 1969-1971.
Väänänen, Veiko, Introduzione al latino volgare. Bologna, 1974.
Renzi, Lorenzo, Nuova introduzione alla filologia romanza, Bologna, 1985.
Appendice
La preghiere del Padre nostro in alcuni idiomi romanzi
Latino:
Pater noster, qui es in caelis,
Sanctificetur nomen tuum,
Adveniat regnum tuum,
Fiat voluntas tua,
Sicut in caelo et in terra.
Panem nostrum quotidianum
da nobis hodiae,
Et dimitte nobis debita nostra,
Sicut et nos dimittimus
debitoribus nostris.
Et ne nos inducas in tentationem,
Sed libera nos a malo.
Portoghese:
Pai Nosso que estais nos Céus,
santificado seja o vosso Nome,
venha a nós o vosso Reino,
seja feita a vossa vontade assim na Terra come no Céu.
O pão nosso de cada dia nos dai hoje,
perdoai-nos as nossas ofensas assim come nós perdoamos
a quem nos tem ofendido,
e não nos deixeis cair em tentação,
mas livrai-nos do Mal.
Spagnolo (castilgilano):
Padre nuestro, que estás en el cielo,
santificado sea tu Nombre;
venga a nosotros tu reino;
hágase tu voluntad en la tierra como en el cielo.
Danos hoy nuestro pan de cada día;
perdona nuestras ofensas,
como también nosotros perdonamos
a los que nos ofenden;
no nos dejes caer en la tentación,
y líbranos del mal.
Amén.
Aragonese:
Pai nuestro,
que yes en o zielo, satificato siga o tuyo nombre,
bienga ta nusatros o reino tuyo
y se faiga la tuya boluntá
en a tierra como en o zielo.
O pan nuestro de cada diyada-lo-mos güei,
perdona las nuestras faltas
como tamién nusatros perdonamos
a os que mos faltan,
no mos dixes cayer en a tentazión
y libera-mos d'o mal.
Amén.
Catalano:
Pare nostre que esteu en el cel,
sigui santificat el vostre nom.
Vingui a nosaltres el vostre regne,
faci's senyor la vostra voluntat,
així en la terra com es fa en el cel.
El nostre pa de cada dia,
doneu-nos senyor en el dia d'avui.
I perdoneu les nostres culpes,
així com nosaltres perdonem
les dels nostres deutors.
I no permeteu que nosaltres caiguem en la tentació.
Ans deslliureu-nos de qualsevol mal.
Amen.
Provenzale:
Paire nostre que siés dins lou cèu,
que toun noum se santifique,
que toun Règne nous avèngue,
que ta volonta se fague
sus la terro coume dins lou cèu.
Douno nous vuei noste pan de cade jour,
perdouno nous nòsti dèute
coume nous autre perdounan
à nòsti debitour.
E fai que toumben pas dins la tentacioun,
mai deliéuro nous dóu mau.
Que soun tiéu : lou Règne,
lou Poudé e la Glòri,
aro e pèr l'eternita.
Amen.
Occitanico:
Francese:
Notre Père qui es aux cieux,
Que ton nom soit sanctifié,
Que ton règne vienne,
Que ta volonté soit faite,
Sur la terre comme au ciel.
Donne-nous aujourd’hui
Notre pain de ce jour.
Pardonne-nous nos offenses,
Comme nous pardonnons aussi
À ceux qui nous ont offensés.
Et ne nous soumets pas à la tentation,
Mais délivre-nous du mal.
Amen.
Italiano:
Padre nostro, Che sei nei cieli,
sia santificato il tuo nome,
venga il tuo regno,
sia fatta la tua volontá,
come in cielo, cosi in terra.
Daggi oggi il nostrapane quotidiano,
e rimetti a noi li rimettiamo ai nostri debitori,
e non ci indurre in tentazione,
ma liberaci dal male. Amen.
Napoletano:
'O Pate Nuosto
Siciliano
Patri Nostru
Patri nostru cca si 'n celu,
Sia santificatu 'u nomi teu;
Venga 'u to rregnu,
Sia fatta 'a té voluntati,
Comu 'n celu accussì 'n terra.
Dani oggi 'u nostru pani quotidianu,
Rimeti a niàutri i nostri debiti,
Comu niàutri li rimettemu ai nostri debitori
E nun ni lassàri cadiri 'nta'a tentazziuni
E libérani d'u mali
Amen.
Calabrese:
Tata nostru
chi' sini nt'o celu,
ů si tena pe' santu u noma toi,
ů vena u rregnu toi,
ů si facia a voluntŕ' tua,
com'esta nt'o celu,
u stessu sup'a terra.
Důnandi ped oja u pana nostru e tutti i jorna
e' pardůnandi i dčbiti,
comu nů nc'i perdunamu ad i debituri nostri.
On nci dassara nt'a tentazioni,
ma liberandi d'o mala.
Ammčn.
Romagnolo:
Piemontese:
Veneto:
Pare Nostro
Che Te si nei ciei
Sia santificà el to nome
Vegna el to Regno
Sia fata ea To voeontà in tera
così come ea xe fata nei ciei.
Dane unquo el nostro pan quotidiano
Rimeti a nialtri i nostri debiti
Come noialtri i rimetemo ai nostri debitori
E non sta portarne in tentathion
Ma liberane dal maigno.
Amen.
Ladino (Dolomitico):
Friulano:
Romancio (Grigioni)
Romancio (Sursilvano)
Sardo logudorese:
Dalmatico (veglioto):
Rumeno:
Tatăl nostru care eşti în ceruri, sfinţească-se numele tău; vie împărăţia ta; facă-se voia ta, precum
în cer aşa şi pe pământ.
Pâinea noastră, cea de toate zilele, dă-ne-o nouă astăzi; şi ne iartă nouă greşelile noastre, precum
şi noi iertăm greşiţilor noştri; şi nu ne duce pe noi în ispită, ci ne mântuieşte de cel rău.
Amin.