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DALL’OBBEDIENZA ALL’AMORE
Riscoprire la confessione
Scopo di questo libriccino non è una trattazione completa ed esaustiva del sacramento
della penitenza, né delle tematiche spirituali o morali connesse. Le pagine che
seguono vorrebbero essere un piccolo aiuto per scoprire l’amore di Dio in questo
sacramento, soprattutto nell’anno santo della misericordia. D’altra parte, la
confessione è una porta sempre aperta, e una benedizione che è sempre a nostra
disposizione. Nostro scopo è semplicemente quello di aiutare a ben vivere questo
segno di grazia e perciò a viverlo non da schiavi, ma da uomini liberi; proprio perché
è stato molto vissuto come un peso, molti se ne sono liberati, e tuttavia ciò non ha
aiutato. Esso è offerto a tutti, sacerdoti e laici, per la nostra più grande gioia, che è la
maggior gloria di Dio nostro Signore.
Introduzione
Non è semplice scrivere sulla confessione. Questo gesto, infatti, è uno dei più
personali che si possano pensare, e su di esso si riflette l’intera personalità del
penitente, il suo modo di rapportarsi a Dio, l’immagine che ha di Lui e, di riflesso,
quella che ha di se stesso, degli altri e del proprio mondo. Del resto, è vero che
difficilmente chi non si confessa leggerà qualcosa sulla confessione, mentre chi già lo
fa non ha bisogno di un’esortazione: in questo senso questo libriccino può sembrare
inutile. Ma, appunto, il nostro non vuole essere un invito alla confessione rivolto a chi
è già praticante, proprio perché non ne ha bisogno; piuttosto, vuole essere una
riflessione sul modo di viverla, sul «come» farla, sul modo di avvicinarsi ad essa, e in
questo senso è una riflessione sul nostro modo di vivere l’intera vita cristiana. In
termini biblici, vorrebbe essere una riflessione sul nostro «cuore»: infatti ci si può
confessare «di testa», perché magari si pensa che sia giusto farlo, o doveroso, ma
senza uscire da una logica ispirata alla legge; oppure ci si può confessare «di cuore»,
lasciandosi avvolgere e sorprendere da una realtà più grande, non da una legge che ci
sovrasta, ma da una fedeltà che ci stupisce.
Ecco perché possiamo sintetizzare il percorso proposto con il titolo «dall’obbedienza
all’amore»: si tratta, in ultima analisi, di scoprire, o riscoprire, la vita cristiana non
come una logica della legge, cioè di un divieto, e quindi della paura (di noi stessi
come di Dio), ma come esperienza della sua pazienza, della sua attesa, del suo «sì»
incondizionato, senza se e senza ma, a quel che noi siamo. Insomma, si tratta di
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scoprire davvero, e non per sentito dire, quello in cui tutti diciamo di credere: l’amore
di Dio. In realtà, il più delle volte non ci crediamo sul serio, ma, per così dire, solo
fino a un certo punto: e questo accade perché abbiamo sperimentato l’amore umano,
che normalmente è «fino a un certo punto», cioè a condizioni più o meno ampie, o a
termine. Al contrario, l’amore di Dio si manifesta in Gesù Cristo, nelle sue parole, nei
suoi gesti, nella carne della sua stessa persona: chi vede Lui vede il Padre, e comincia
a imparare chi è Dio davvero, e passa dalle nostre immagini o rappresentazioni di
Lui, che possono anche essere molto fuorvianti, al suo vero volto. Questo è l’esodo
autentico del quale tutti abbiamo bisogno.
Ecco perché sulla confessione si riflette quel che noi pensiamo di Dio e, in
particolare, se abbiamo riconosciuto e creduto la legge, il dovere, e Dio come autore
di questi, oppure se, come tanto semplicemente ma così profondamente Giovanni
insegna, abbiamo piuttosto riconosciuto e creduto l’amore che Dio ha per noi. E da
qui deriva se rimaniamo nell’amore o invece nell’obbedienza: ma «chi non ama
rimane nella morte» (1Gv 3, 14), anche se obbedisce. C’è infatti un’obbedienza che
conduce alla morte, perché nasce dalla paura e conduce alla paura, e una che conduce
alla vita, perché la legge è un pedagogo che conduce a Cristo: ma non dobbiamo
rimanere bambini bisognosi di un maestro per tutta la vita, e compito della pastorale
dovrebbe essere quello di aiutare a diventare adulti, cioè maggiorenni, e non a
rimanere minori o minorati tutta una vita.
Quando confessarsi?
Questo è un dubbio che possiamo trovare nei fedeli, e con questa espressione intendo
anche i sacerdoti, che sono confessori ma anche fedeli e che, come tutti, si accostano
a questo sacramento. Per quanto sia riduttiva una prospettiva puramente legalistica,
possiamo tuttavia iniziare a ragionare partendo proprio da questa, per interpretare
rettamente lo spirito e la lettera delle norme canoniche.
Tutti sappiamo che la confessione è, per i fedeli cattolici, la via ordinaria della
riconciliazione con Dio. Questo ci dice che, da un lato, non è l’unica: infatti ci sono
vie che ottengono realmente la remissione dei peccati, e che non sono da intendersi
come straordinarie solamente nel senso che siano percorribili in situazioni
straordinarie; di queste tratteremo più oltre. Inoltre, dal fatto che la confessione è la
via ordinaria, deduciamo che è quella abituale, o normale, o regolare. Non abbiamo
ancora quantificato l’abitudine, la norma o la regola in termini matematici, cioè,
banalmente, «ogni quanti giorni»: e non si potrebbe nemmeno farlo, perché dipende
molto dal penitente stesso, dalla sua età, dal suo stato di vita, dalla sua necessità
oggettiva.
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Così il diritto dice semplicemente che ci si deve confessare almeno una volta l’anno:
l’esodo pasquale, infatti, è ben fatto presente non solo dal sacramento del battesimo,
ma anche da quello della riconciliazione, ed è opportuno che si faccia nel tempo di
Pasqua perché la vita della persona e la liturgia della Chiesa si incontrino
proficuamente. Tuttavia «almeno» non significa «solamente».
Trascurando, per il momento, la questione dell’opportunità della confessione
frequente, settimanale o quindicinale, e tenendo fermo, per altro verso, che «via
ordinaria» significa certo che certamente necessaria se si è in peccato mortale, penso
che ognuno potrebbe riflettere sul fatto che essa è un dono del Signore risorto, una
rinnovata esperienza dello Spirito Santo, una grazia che ci è offerta. Ognuno saprà
quando profittarne, consapevole del fatto che si dovrebbe essere mossi non tanto dalla
paura, quanto piuttosto dall’amore, cioè dal desiderio di rispondervi. La questione su
quando confessarsi non può essere posta in termini astratti, ma ognuno la deve, per
così dire, sentire nella propria esperienza: infatti solo parzialmente vi si potrebbe
rispondere «di testa», cioè secondo la legge, ma, senza dimenticare la testa o la
ragione, vi si risponde lasciandosi pro-vocare, ossia, in senso etimologico, lasciandosi
“tirare fuori” dalla propria pigrizia o neghittosità per scoprire qualcosa di nuovo e di
più bello. Spetterebbe poi a noi sacerdoti fare vivere la confessione come qualcosa di
bello e di confortante: ma questo è un altro discorso.
Per dare però una risposta più concreta, potremmo dire che la stessa liturgia della
Chiesa, con le solennità del Signore e della sua Madre beatissima, può aiutarci a
vivere più profondamente la confessione: Pasqua, Natale, Tutti i Santi, la Pasqua di
Nostra Signora, ossia l’Assunzione, Pentecoste, tanto per riferirne solo alcune,
possono essere momenti molto utili per celebrare con più profitto l’Eucaristia, alla
quale la stessa riconciliazione è direttamente ordinata, senza per questo essere una
specie di «passaporto». Nulla d’altra parte vieta, e può essere molto efficace, una
celebrazione ancora più frequente, mensile o quindicinale, in particolare per i
religiosi e le religiose: direi, tuttavia, che le cose spirituali non si possono affrontare
soltanto in termini di scadenzario. Forse, alla domanda su «quando» confessarsi, si
potrebbe rispondere con un’altra domanda: perché non mi confesso più spesso?
È poi vero che, di fatto, per molti la confessione si unisce alla direzione spirituale:
penso che in linea di principio sarebbe meglio distinguere gli ambiti, anche per poter
parlare più liberamente con lo stesso penitente. D’altra parte, specialmente i giovani
possono trovare nella confessione frequente, ad esempio quindicinale, unita alla
direzione spirituale, un appuntamento molto formativo.
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affermare che una confessione debba essere formale, rigida, anonima o fredda, ma
solo che le due cose hanno peculiarità proprie.
Il peccato
È quindi giunto il momento di comprendere questa realtà che chiamiamo, con un
termine classico ma finora non sostituito da altri, «peccato», per distinguerlo da altro,
con il quale può facilmente essere confuso. Infatti tutti noi, pur usando lo stesso
vocabolo, possiamo intendere cose diverse. E così alcuni considerano o confondono il
peccato con un tabù, un divieto ancestrale, una specie di regola calata dall’alto, della
quale non si capisce più il perché, ma solo che ci sono cosa da fare o da non fare. Un
esempio potrebbe essere la stessa partecipazione alla messa: «non sono andato a
messa», si dice, ma la frase non è ancora significativa. Non basta la violazione di una
regola o legge per costituire un peccato. Infatti questo è una realtà anche soggettiva:
richiede la comprensione di un valore e il suo ragionato rifiuto. Per questo il peccato
è anche chiamato «mancanza», perché, appunto, manca qualcosa per vivere
pienamente una relazione, un rapporto, che può essere con il prossimo, con Dio e
anche con se stessi. In questo senso, il peccato è un «vivere di meno» tutte quelle
possibilità che ci sono date e, a ben pensarci, un fare qualcosa che in fondo nemmeno
vorremmo, se ce ne rendessimo conto. Tanto è vero che Gesù dice: «Padre, perdonali
perché non sanno quello che fanno», ed è assolutamente vero.
Rimanendo nell’esempio, è chiaro che esistono motivi che rendono impossibile
andare a messa, cioè osservare la regola, e tuttavia non tolgono che tra il soggetto e
Dio ci sia una relazione profonda, vera, significativa, che permane intatta. Così entra
in gioco l’impossibilità pratica di recarsi in chiesa, per malattia, per un dovere grave e
imprevisto, per eccessiva lontananza. Insomma, tutto questo per dire che non basta
avere infranto una regola, ma si deve riflettere sul perché lo si è fatto. Diventa perciò
evidente che un buon confessore, dietro a simile accusa, dovrebbe aiutare il penitente
a riflettere sul significato dell’Eucaristia nella sua vita, perché non rimanga schiavo di
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una regola da eseguire, ma diventi un figlio alla mensa del Padre. E così l’accusa in
realtà può significare: «non m’importa molto di Dio perché ho cose più importanti a
cui pensare». È questo il vero peccato. Ed è importante rendersene conto.
Come la violazione di una regola non dice ancora necessariamente la frattura di un
rapporto, così, a ben pensarci, nemmeno la sua osservanza. Per rimanere nell’esempio
della messa, che si può estendere per analogia all’intero ambito della preghiera e del
rapporto con il Signore, non basta «dire preghiere» per pregare davvero. Posso ad
esempio essere puntualissimo nella recita delle Ore canoniche oppure nelle devozioni
personali, ma di fatto dirle a pappagallo, senza custodire davvero la Parola, senza
farla entrare nella mia vita. Bisognerebbe domandarsi non tanto quello che ho fatto
prima di partecipare alla messa, per sapere se posso o no accostarmi all’Eucaristia,
ma su quello che intendo fare dopo: se la preghiera è solo un’abitudine ripetitiva, se
la preghiera è solo rito, cioè se non influisce sulle mie scelte e sul mio modo di
vivere, anche se non è violata alcuna regola tuttavia manca qualcosa di essenziale.
Eppure, per una certa mentalità purtroppo dura a morire, se la regola è salva, è salvo
anche tutto il resto. In tal modo si esclude un possibile «di più», che è proprio
dell’amore e di ogni relazione che cresce, rimanendo imprigionati ancora in
un’obbedienza da servi senza entrare nell’amore dei figli.
Tutto questo per dire semplicemente che il peccato è una realtà, come accennavamo
prima, personale e relazionale. Per essere tale, deve esprimere la personalità del
soggetto, la sua scelta, la sua volontà, la sua comprensione del mondo, qualificandosi
con un atto veramente umano, secondo la terminologia insuperata di San Tommaso.
Il catechismo esprimeva molto efficacemente questo concetto affermando che è
richiesta «piena avvertenza e deliberato consenso», perché solo un atto compreso e
voluto può essere veramente umano. Ciò non toglie, come vedremo subito dopo, che
anche gli atti nei quali questo non si dà in modo pieno siano significativi, ovvero
esprimano qualcosa di noi stessi che può ancora crescere. Inoltre il peccato va
compreso in un rapporto personale con il Signore, in una vita rapportata a Lui e non
come trasgressione di una legge: per questo abbiamo detto che è una realtà
relazionale. Il che in fondo significa una realtà molto bella: il Signore vede il cuore e
non il semplice dato di fatto, e sa distinguere le debolezze dal peccato. E nella nostra
debolezza si manifesta sempre la sua grazia, come del resto nel peccato la sua
misericordia. E allora, davvero, chi ci separerà dall’amore di Cristo?
L’esame di coscienza non ci conduce a guardare noi stessi, in un’autoanalisi che non
vede al di là delle proprie forze, ma, proprio perché nasce in una relazione con Gesù
Cristo, ci porta sempre a contemplare la sua fedeltà, che si rinnova di giorno in
giorno. Potremo sempre affermare, dopo tutto, che «in questo sta l’amore: non siamo
stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi» ( 1 Gv 4, 10). La nostra è solo una
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risposta, spesso balbettante, a Colui che ci ha amati per primo, lì dove siamo, così
come siamo.
Il peccato mortale
Per comprendere quest’espressione dobbiamo capire il significato simbolico, e non
scientifico, del termine «morte». Noi diciamo che una persona è morta quando
nessuno può più fare niente per lei, quando è in un altro mondo, quando è al di fuori
di ogni possibile rapporto con noi. La morte è sinonimo di mancanza di relazione,
come possiamo vedere anche in alcune espressioni di uso comune, tipo: «quello per
me è morto», oppure «ci ho messo una croce sopra», dove la croce è appunto quella
che sta sopra le tombe. Per questo motivo la morte, o figure analoghe come ad
esempio la lebbra, nella Scrittura è sempre in qualche modo associata al peccato: e
così nel linguaggio tradizionale si parla di peccato mortale, o mortifero, portatore di
morte e suo segno premonitore.
In questo senso dunque il peccato mortale è quello che fa morire il rapporto tra noi e
gli altri, tra noi e l’Altro per eccellenza, che è Dio, e lo stesso tra noi e noi stessi,
conducendoci a una specie di schizofrenia, una divisione o lacerazione nel nostro
intimo. Abbiamo già ricordato che, secondo san Giovanni, «chi non ama rimane nella
morte», e in fondo questa potrebbe essere considerata la sintesi di tutto quello che
intendiamo dire. È evidente, a questo punto, che il peccato mortale non è una cosa
così rara come si potrebbe supporre: e vorrei osservare che si tratta di un qualcosa
equamente distribuito tra credenti e non credenti, sebbene assuma caratteristiche
diverse nei vari casi, poiché Giovanni non dice «chi non crede» o «chi non prega»,
ma «chi non ama», indipendentemente dalla parrocchia di appartenenza. La Bibbia,
infatti, si capisce utilmente non solo comprendendo quel che dice, ma pure
osservando che cosa «non» dice, anche se potrebbe dirlo, e dunque capendo perché
non lo dice.
Si può non amare più, in tutti i significati possibili del termine: e così un matrimonio
può essere morto, o un’amicizia, perfino una consacrazione. Rimane un simulacro,
una crosta, un’apparenza di quello che fu una volta: ma in realtà non c’è più niente.
Ci sono i gesti, ma non c’è più la sostanza. Questo è un ragionamento che pochi sono
disposti a svolgere, perché può disorientare e inquietare non poco; ma dobbiamo
almeno qualche volta avere il coraggio di farlo, per vedere semplicemente se siamo
vivi o no. Guardarsi allo specchio può essere molto faticoso, anche se qui, come ho
cercato di dire, lo specchio in cui riflettersi non è se stessi, ma Gesù Cristo, specchio
dell’amore del Padre.
Un segno abbastanza significativo per verificare se siamo vivi o no è la nostra
capacità di parlare: i morti non parlano. Verifichiamo i silenzi, le cose non dette,
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perché non si dicono, e le cose dette, che cosa dicono. La televisione o la musica
riempiono le nostre orecchie e coprono la nostra incapacità di comunicare gli uni gli
altri, oppure la nostra capacità di stare soli, esorcizzando le nostre paure non
affrontate, il vuoto che in realtà riempie le nostre esistenze: in famiglia non si parla,
nelle comunità religiose non si parla, noi stessi non parliamo a noi stessi delle cose
più vere e profonde che sentiamo, e così lasciamo covare il malessere dentro di noi. È
da notare che il silenzio non è soltanto assenza di suoni, ma può manifestarsi anche
come un mare di suoni, che però riempie un vuoto di comunicazione o dialogo,
oppure, più semplicemente, un fiume di parole vuote, stupide o insignificanti: si parla
di niente, ma si parla in continuazione. Così perfino la preghiera può essere un mare
di parole senza dire a Dio niente, perché non si ascolta niente; ovviamente può essere
un mare di silenzio, nel senso che può mancare del tutto, e questo è un esempio di
come atei e credenti possono commettere gli stessi peccati, anche verso Dio.
I morti poi non solo non parlano, ma anche non sentono: ovvero non ascoltano.
Possiamo verificare se siamo vivi o no – o fino a che punto lo siamo, poiché anche in
catalessi o in coma continuiamo a essere vivi – verificando la nostra capacità di
ascolto: e noi ascoltiamo non quando prestiamo orecchio alle cose che vorremmo
sentire, ma a quelle che non vogliamo sentire, e di conseguenza non alle persone che
vorremmo noi, ma a quelle che ci sono. Non so se sempre i genitori siano capaci di
ascoltare i figli, o se invece non sia più semplice accontentarli o tacitarli, appunto,
dando loro quel che chiedono. Non so se sempre riusciamo ad ascoltare chi amiamo –
nel senso più normale che possiamo dare a questo termine – e ad averne cura anche
quando il rapporto a due diviene un peso. Non so se chi comanda, qualunque sia
l’ambito di questo suo potere, abbia cura di chi è a lui sottoposto. Avere cura
significa innanzi tutto ascoltare, accorgersi, osservare, ma spesso siamo troppo
indaffarati con noi stessi per saper ascoltare davvero. I nostri progetti sugli altri, che
sono poi le nostre ambizioni, oppure, al contrario, i nostri rancori, ci impediscono di
vedere gli altri per quello che sono e in realtà ce li fanno usare: consapevolmente o
no, il risultato non cambia. Tutto ciò è la negazione di quello che, nel linguaggio
metaforico della scrittura, si chiama fraternità.
Un’altra cosa che i morti non fanno è vedere: così il peccato mortale rende ciechi. La
cecità è una malattia rappresentativa: le Scritture narrano realtà spirituali servendosi
di immagini fisiche, e tutto questo si chiama precisamente metafora, che è la
deposizione del significato proprio, o scientifico, di un termine. Esempio classico è
quello di chi dice «Padre, non mi confesso da tanto tempo, ma non ho fatto niente»:
infatti la diagnosi se l’è già fatta lui, dicendo che non ha fatto niente, ma
curiosamente non la comprende. Appunto, non ha fatto niente, che qui significa
niente di buono, perché non ha visto altro che se stesso, non ha pensato ad altro che a
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lui medesimo: in realtà, si può vivere come se Dio non esistesse, anche se non lo
rinneghiamo a parole. Questo modo di pensare è tutt’altro che infrequente, e compito
di un buon confessore sarebbe quello di smascherare le nostre illusioni, aiutando le
persone a riflettere e a vedere. Dunque possiamo interrogarci su quel che vediamo, su
quel che non vediamo, su quel che non vogliamo vedere: è un esercizio difficile,
perché richiede di uscire da se stessi e dalle proprie abitudini mentali; ma è sempre
possibile, perché la porta per uscire è vicina e sempre aperta: sono gli altri,
soprattutto coloro che hanno o possono avere bisogno di me, della mia capacità di
cura, di ascolto, di compassione, del mio tempo e anche del mio denaro. San
Giovanni dice: «Se uno ha ricchezze di questo mondo e vedendo il suo fratello in
necessità gli chiude il proprio cuore, come dimora in lui l’amore di Dio» (1 Gv 3, 17):
tutti noi, anche i più poveri di denaro, abbiamo sempre qualche ricchezza da
condividere. Porta aperta per uscire dal proprio «io», che a volte può diventare grande
come una cattedrale, è la Parola di Dio, che ascoltiamo e custodiamo fedelmente:
l’ascolto è il primo e vero esodo. La fede nasce dall’ascolto, dicevano i Padri, fides ex
auditu; e, si potrebbe aggiungere, la carità nasce dalla fede.
Potrebbe essere molto utile riflettere sul salmo 113 B. Gli idoli sono derisi, proprio
perché hanno occhi e non vedono, hanno orecchie e non odono, hanno mani e non
toccano, piedi e non camminano: diventa così chi confida in essi, cioè chi pone il
proprio cuore in essi. Non va da nessuna parte, cioè non cammina, girando su se
stesso senza sosta, non odora il buon profumo di Cristo, ma solo l’aria viziata della
stanza chiusa del proprio «io», non ha respiro, cioè spirito, in sé: sembra vivo ma è
morto. La Scrittura è terribile: quello che dice si realizza. E qui dice appunto: «sia
come loro chi li fabbrica e chiunque in essi confida». Il che ci conduce a parlare degli
idoli degli uomini.
Il peccato veniale
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Questa nozione è spesso confusa: si ritiene che si tratti di un peccato, e dunque
qualcosa da evitare, ma minore, e quindi, questo è il retropensiero, che se non si evita
non succede niente di grave. Se è veniale, non è mortale, se non è grave, non è
neanche importante: c’è del vero in questo, eppure le cose non stanno proprio così.
Cercherò di spiegarmi con un esempio: un infarto è mortale, nel senso che se mi
viene muoio; la pressione alta non è mortale, però se non la controllo e non la tengo
bassa, diventerà molto probabilmente un infarto. Così è per il peccato veniale: io
posso di sicuro venire alle mani con qualcuno e fargli del male in modo grossolano,
ma posso anche soltanto vivere e fomentare quotidianamente un’atmosfera fatta di
piccole punture di spillo, brontolando, rimproverando, scoraggiando ogni momento
quel che lui dice, propone o fa. Così è anche per il pettegolezzo o la critica maligna,
ovvero la bugia, il non dire le cose come stanno o il dire come non sono, tacendo
volutamente aspetti significativi: ricordiamo che, se è sempre peccato parlare dietro
le spalle, non lo è mai dire le cose davanti.
Dunque possiamo dire che, se è vero che il peccato veniale è, perlomeno da certi
punti di vista, meno «grave» di quello mortale, rimane vero che gli effetti, prolungati
nel tempo, non sono inferiori. Così l’adulterio è un peccato gravissimo; tuttavia, se un
matrimonio può essere lacerato in modo così brutale, è anche vero che può essere
sfilacciato giorno dopo giorno fino a consumarsi e sfinirsi. Nello stesso modo il
trascurare l’orazione, l’ascolto della Parola, l’Eucaristia, di fatto viene a prosciugare
le nostre riserve d’acqua viva, ci espone alla consunzione e a una sorta di
desertificazione spirituale, spegne la gioia della vita cristiana degradandola a
semplice vita morale, doveri da osservare e non amore da vivere.
Penso che sia impreciso vedere il rapporto tra peccato veniale e mortale solamente
nei termini del «piccolo» e del «grande»; a un certo punto ci si potrebbe ritrovare,
senza accorgersene, con un grande carico di pesetti sulla bilancia, che pesano più di
un quintale messo sull’altro piatto. Non è una misura solamente quantitativa: del
resto, le realtà spirituali non possono essere misurate allo stesso modo di quelle
fisiche. La differenza non sta tanto nella materia, ma nella nostra consapevolezza o
partecipazione, in quello che ci mettiamo di noi stessi.
Vorrei qui osservare che si dovrebbe evitare una sorta di schizofrenia molto diffusa, il
ritenere cioè quel che accade sotto la cintura sempre peccato mortale, il famoso de
sexto, come se quello che accade sopra la cintura, intendo dire quel che compiamo in
tutta la nostra vita come frutto del nostro modo di pensare, fosse necessariamente
veniale o poco più. Bisogna dire chiaramente che trattare male le persone, pagare
poco o troppo tardi i dipendenti o richiedere affitti sproporzionati, non pagare le
tasse, trascurare la vita di preghiera, fare del bene solo alla nostra famiglia e ai nostri
cari, usare il prossimo spadroneggiando su di esso, non voler perdonare quelli che ci
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hanno fatto del male vivendo di rancori, rispondere al male con il male, vivere
perseguendo il denaro o la carriera sono altrettanti peccati mortali, tanto quanto le
cose più turpi. Solo che, per disgrazia, sono cose sulle quali siamo più facilmente
portati a transigere, mentre la sessualità rimane fondamentalmente un tabù. La gente
non si domanda se può fare la comunione quando manca di carità; ma può porsi
grandi problemi per debolezze in realtà meno significative di quel che pensano.
La sessualità non è mai significativa di per se stessa, ma è come una spia o cartina di
tornasole di qualcosa d’altro; se è mal vissuta, con tutto quello che tale espressione
può significare, è una fuga o un surrogato di qualcosa d’altro, che purtroppo manca.
Dovremmo ricordare le parole di san Tommaso: l’uomo non può vivere senza il
piacere, e per questo chi non ha quelli dello spirito deve avere quelli della carne. Se
una persona conduce una vita piacevole, piena di amicizie, relazioni vere e appaganti,
interessi, se non è costretta a vivere come alienata e prigioniera di qualcosa che
impedisce la sua realizzazione piena, dovrà avere surrogati di felicità. Il sesso è
dunque come l’alcool, o la droga, o il semplice sballo del sabato sera: un tentativo
disperato di sentirsi ancora vivi. Per questo la via da percorrere non è quella della
repressione di un’energia che è incomprimibile, ma dell’integrazione di tutta la
propria esistenza nei suoi vari aspetti. La sessualità va compresa nel suo significato
umano, prima che demonizzata o esorcizzata: l’equilibrio non è immediato né
definitivo per nessuno.
Il peccato veniale, in conclusione, si nutre della stessa materia prima del peccato
mortale, e in questo senso gli è accomunato: del resto, infatti, sempre di peccato si
tratta. Ciò che cambia, e in tal senso si dice che sono essenzialmente diversi, è la
nostra partecipazione ad esso, intendo dire la volontarietà. È al confine con la
debolezza, e in questo senso non è voluto, perlomeno nel senso pieno del termine;
diciamo che ci lasciamo vivere così, e in questo modo c’è una parte di nostro libero
volere che dice qualcosa di noi stessi. Quanto meno, ci rivela che il nostro cuore è
ancora diviso, che è comunque diverso dal cuore di Cristo, non è unificato dalla
carità, non è informato dalla fede; insomma, sempre per usare immagini bibliche, che
in noi c’è ancora, volenti o nolenti, molto dell’«uomo vecchio»: e perciò è utile
confessarlo, perché ce ne rende consapevoli, e dire le cose sapendole chiamare con il
loro nome è già iniziare a superarle.
Così ci possono essere dei caratteri fiammiferini, che si accendono per niente, e
questo tipo di personalità è facilmente esposto all’ira e all’aggressività: sta alla
persona rendersene conto, vigilare, imparare ad amare non lasciandosi vincere dal
male, ma vincendo il male con il bene. Lo stesso per gli avari, quelli che non
scuciono un soldo neanche a spremerli perché per loro il denaro è sicurezza; oppure
per i pigri, che delegano agli altri quel che potrebbero e dovrebbero fare loro; e gli
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esempi si possono moltiplicare. Un aiuto a fare l’esame di coscienza potrebbe venire
dal sapere ascoltare quel che gli altri dicono di noi: un fondo di verità c’è sempre e,
se siamo antipatici, un motivo ci sarà. Certo che essere invisi a qualcuno può
accadere anche senza colpa: ma dipende a chi, se ai giusti o agli empi, alle persone
mediocri o a quelle generose e libere. In genere noi tendiamo a circondarci di gente a
nostra immagine e somiglianza. Possiamo domandarci, per questo: noi e la nostra
cerchia di amici, come siamo fatti? Come viviamo? Chi evitiamo? Che cosa non
facciamo mai? Potremmo fare qualcosa di meglio, e non lo facciamo? E perché, se
possiamo, non lo facciamo? Questo è un uscire da se stessi molto proficuo, e un
esercizio notevole della nostra capacità di autocritica, nella consapevolezza dei nostri
limiti. Il giusto accusa se stesso, sta scritto: ed è anche proprio dell’intelligenza.
Inoltre, non è vero che accusarsi non cambia niente: cambia te stesso, e perciò cambia
tutto il tuo mondo, perché cambia come tu lo abiti.
Un’indubbia utilità della confessione frequente è, tra le altre, il renderci più sensibili
a tale affinamento quotidiano della carità, il vivere meno superficialmente i rapporti
con gli altri e con Dio. Non si tratta di inseguire ansiosamente una perfezione astratta:
del resto, tutto ciò che viene dall’ansia non è dallo spirito buono. Si tratta invece di
crescere nell’amore e nella generosità. E così chi è fedele nel poco sarà fedele anche
nel molto, e il poco, nel quale consiste del resto la nostra quotidianità, diventa come
la palestra per opere sempre più belle e grandi.
Evitiamo di trincerarci dietro banalità: se sono vecchio, non è detto che per questo
non sia in peccato o non ne possa fare, cioè che sia buono e libero, e così se sono una
mamma o un sacerdote. Il problema è appunto se siamo buone mamme, papà,
ragazzi, vecchi, laici o preti. I ruoli, sociali ed ecclesiali, non garantiscono niente.
Le omissioni
«Ho molto peccato in pensieri, parole, opere ed omissioni», diciamo all’inizio della
messa, ed è proprio vero, sia che ce ne siamo accorti, sia se non lo abbiamo fatto
apposta: i risultati sono uguali. Posso ferire volendo, oppure non volendo: la ferita c’è
lo stesso, e il male, fatto agli altri e perfino a se stessi, rimane tale, anche se non lo
pensavamo o non lo prevedevamo. Una forma singolare di «non prevedere» o di «non
pensare» il male è, appunto, l’omissione, che consiste nel non fare quel che avremmo
potuto e dovuto fare. È chiaro che non dobbiamo fare tutto quello che non abbiamo
fatto, e in questo senso non è vero che le omissioni sono per loro natura infinite; ma è
vero che facciamo fatica a identificarle, perché sono frutto della nostra pigrizia
mentale, dell’offuscamento della nostra sensibilità, della nostra abitudinarietà ed
inerzia.
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Ecco perché può essere difficile parlarne, e coglierle quando si presentano, proprio
perché presuppongono una capacità davvero non comune di andare oltre se stessi,
oltre la propria immediata percezione delle cose. Purtroppo siamo abituati a non
prenderci cura di molte situazioni, pensando che altri ne siano incaricati; forse è
anche vero che altri dovrebbero provvedere, ma se non c’è di fatto nessun altro e se
posso fare qualcosa, la carità esige che me ne faccia carico. E chi non ama rimane
nella morte: di nuovo, abbiamo occhi per vedere e non vediamo, orecchi per ascoltare
e non ascoltiamo.
Ecco perché il peccato mortale, ossia la morte delle relazioni con gli altri, si può
facilmente nutrire anche di omissioni, anche se non sono percepite come tali. Noi
abbiamo, ad esempio, obblighi verso la nostra famiglia e i nostri cari: ed è certamente
vero, ma ciò non significa che gli altri possano esserci indifferenti. Di fatto, invece,
non ce ne importa molto. Questo implica che spesso per noi gli altri non esistono, che
sono come morti per noi e noi per loro: ecco di nuovo il senso vero del peccato
mortale. È chiaro che non grava sul singolo la soluzione di problemi epocali che
coinvolgono la collettività, come l’accoglienza dei profughi o dei rifugiati, e che
problemi politici esigono risposte politiche e non individuali, ma è certamente vero
che la città vive di individui, e che molte riposte, per quanto momentanee e non
risolutive, possono essere date anche da me. Insomma, se amiamo solo chi ci ama,
che merito ne abbiamo? Non fanno così anche i pagani? Questo per dire che non
basta voler bene alla propria moglie e ai propri figli: se non li amassimo, saremmo
persone snaturate. E non basta nemmeno essere onesti: Gesù non è morto in croce per
insegnarci ad essere onesti, ma per insegnarci a seguirlo fino alla fine, anche
rinunciando a quel che sarebbe nostro, proprio come Lui ha fatto.
Forse l’omissione potrebbe definirsi proprio come il restare all’interno dell’ambito
del dovere, della legge, dello «stretto necessario»; finché rimaniamo nella dinamica
dell’obbedienza, non ne potremo uscire, non per cattiveria, ma perché manca il
presupposto. Solo entrando nell’amore possiamo capire la generosità: ed è per questo
che la confessione dovrebbe aiutarci a passare dall’obbedienza, dalla «legge violata»
o tabù infranto, alla generosità dell’amore che nasce dall’esperienza di essere amato.
Ma anche all’interno della logica del dovere, vi sono doveri che non sono percepiti
come tali: per esempio, pagare le tasse. È vero che essere cristiani non significa
essere buoni cittadini, perché dobbiamo dare a Dio le cose di Dio e a Cesare quelle di
Cesare, però è altrettanto vero che i cristiani sono buoni cittadini, fanno quel che
devono, e anche qualcosa di più. D’altra parte, un buon cristiano non fa anche cose
che la legge permette, o non vieta, proprio perché altro è l’ambito della legge morale
e altro quello della legge civile. Così è chiaro a tutti che il divorzio o l’aborto, che
sono permessi e disciplinati dalla legge civile, non sono permessi dalla legge di Dio,
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e su questo probabilmente siamo tutti d’accordo. Ma il discorso si può allargare:
molte cose che la legge permette sono percepite come moralmente possibili, e non è
necessariamente vero. Un esempio: può ben darsi che la legge civile permetta di
affittare una stanza a prezzi molto alti, come conseguenza della legge della domanda
e dell’offerta. Così, nelle città universitarie, si affittano stanze, o posti letto, in
estrema periferia a prezzi assurdi: il proprietario può fare i prezzi che vuole, tanto, se
c’è domanda, qualcuno lo trova sempre. Di fatto, questo significa sfruttare il bisogno
o la necessità altrui, approfittare del proprio vantaggio economico strozzando il
prossimo. Chissà se i proprietari sanno di essere in peccato mortale: e lo sono
davvero, anche se fanno quello che gli è consentito doppiamente, dalla legge
economica della domanda e dell’offerta e dalla legge civile. Ma usare il bisogno del
prossimo non solo non è carità, ma nemmeno giustizia, anche se si può fare in modo
legale. Lo stesso per le badanti: si trovano donne a pochi euro l’ora, perché tanto ce
n’è eserciti a disposizione, perché una poveraccia la trovi sempre. E quando non ti
serve più la puoi licenziare, soprattutto se il lavoro è «in nero»: nero proprio come
l’anima di quelli che agiscono così.
Non capisco perché la giustizia non sia percepita come doverosa, quando è il minimo
del dovere. Al contrario, si pensa di compiere atti di carità quando si trascura il
dovere, come talvolta può accadere facendo opera di volontariato. Il volontariato si fa
fuori casa solamente quando in casa hai fatto tutto quel che dovevi fare, senza
delegarlo a qualcun altro. Con un esempio: prima si lavano i piatti alla mamma e ci si
fa il letto, e poi si va a dare la minestra alla mensa dei poveri. E così quando facciamo
volontariato ricordiamoci che dare cose altrui non è carità, che invece significa
privarsi del proprio; si dovrebbe vigilare attentamente nell’esercizio della nostra
intelligenza che ci permette costantemente di ricordarci che noi non abbiamo sborsato
niente di quel che diamo. Fare volontariato è una gran cosa, ovvio. Ma il demonio
vuole corrompere tutto e a volte ci riesce assai bene, in specie quando diciamo, anche
se in modo inconfessato e nascosto persino a noi stessi: «Signore, ti ringrazio perché
non sono come gli altri». La qual cosa, il più delle volte, è un’illusione.
Diciamo che un buon esercizio per uscire dalla inconsapevolezza delle omissioni è
entrare con gli occhi aperti nella realtà: sapere veder, ascoltare, sentire quel che
succede intorno a noi. E questo non significa angosciarsi o fare capriole mentali:
basta smettere di pensare unicamente a se stessi. Di nuovo, l’ascolto sincero e
quotidiano della Parola è la porta del vero esodo, l’uscita dal nostro «io» che, come
un palloncino, tende a gonfiarsi a dismisura. L’ingresso della realtà riporta tutto alle
giuste proporzioni.
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Conclusione
Se la confessione non ci fosse, bisognerebbe inventarla: ed è pur significativo che
coloro che non credono più in questo sacramento ne abbiano di fatto ricostruito un
simulacro, la psicanalisi. Non desidero con questo sminuire il ruolo e l’importanza di
questo strumento: al contrario, si può dire che tanto forte è il bisogno dell’uomo di
parlare di se stesso, anche delle sue cose più personali, con qualcuno che lo aiuti a
ben vivere, in un colloquio riservato, intimo, attento, che sembra che il Signore stesso
ne abbia, per così dire, tenuto conto, e ci sia venuto incontro in questa nostra
necessità. Al tempo stesso, è stupefacente che la confessione, questa pratica per molti
così datata e insignificante, richieda in ognuno, nella vecchietta più umile come nella
persona più formata o colta, una capacità di lettura della propria vita, un’interiorità
della quale il mondo antico, o pagano, avrebbe ritenuto capaci ben pochi. Ricordo che
da liceale leggevo Seneca, in cui effettivamente si trova l’inizio di quell’esame di
coscienza che la Chiesa richiede a tutti, e mi stupivo di questa comparazione. Quello
che un tempo si riteneva che solo un filosofo potesse fare, in realtà lo può fare
chiunque, perché tutti siamo figli di Dio, perché a ognuno è dato lo Spirito, perché
ognuno di noi – direbbe Hegel – vive «a petto con l’Infinito».
In fondo, ciò a cui la confessione ci porta è, ancora con le parole di san Giovanni,
«vivere nella verità», nel senso più semplice di questa parola: da un lato, la verità di
noi stessi, se siamo davvero padri, madri, figli, preti, suore, sposati o celibi, giovani o
anziani; oppure se, e fino a che punto, usiamo maschere, finzioni, sotterfugi;
riconoscendo appunto se e fino a che punto viviamo in questa verità. Dall’altro,
riconoscendo la verità che è Dio, che ci ha amati per primo. La confessione non è una
ricerca spasmodica delle proprie colpe, una specie di caccia al tesoro, né si esaurisce
nel proprio orizzonte umano: è la scoperta di una fedeltà che ci avvolge, di una cura
che ci precede, che viene prima di noi e va oltre noi stessi, in una parola, di un amore
che sempre è dato per primo, immeritatamente, ostinatamente, nonostante ogni cosa
in contrario. Infatti «se diciamo che siamo senza peccato, inganniamo noi stessi, e la
verità non è in noi. Se riconosciamo i nostri peccati, egli che è fedele e giusto ci
perdonerà i peccati e ci purificherà da ogni colpa» (1 Gv 1, 9), da ogni ambiguità e
opacità.
Naturalmente questa prospettiva ci può essere aperta solo dalla Parola che
ascoltiamo, che custodiamo, dalla fede che professiamo. E così la Parola ascoltata si
fa segno, sacramento, rito, parole che diciamo e gesti che compiamo, che dicono e
realizzano quel che è stato ascoltato e creduto. Questa è la ricchezza di nostra santa
madre Chiesa cattolica, tutta fatta di peccatori eppure tale da continuare nel tempo e
nello spazio la stessa opera di misericordia di Dio che contempliamo in Gesù Cristo,
nelle pagine di un Vangelo di duemila anni fa. Non c’è differenza tra il perdono dei
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peccati compiuto da Gesù e quello che noi compiamo nel suo nome: e non per
mantenere le persone alla nostra dipendenza, ma per annunciare loro quel che
veramente sono e che non credevano più di essere, ossia figli di Dio. Ma non figli nel
significato troppo spesso frequente nella figliolanza umana, e cioè figli dominati,
telecomandati, schiacciati da un’autorità che richiede obbedienza e servaggio, ma
uomini fatti figli in un «sì» senza se e senza ma che ci è dato.
Questa è la vera paternità di Dio, questo è come Gesù ha conosciuto Dio, padre non
come lo concepiamo noi, ma come lo è Lui, il Padre del Signore nostro Gesù Cristo.
Ce lo dice Lui stesso: «e io ho fatto conoscere loro il tuo nome perché l’amore con il
quale mi hai amato sia in essi, e io in loro» (Gv 17, 26). E il nome di Dio, come ben
sappiamo dalla stessa preghiera che il Signore ci ha insegnato, è «Padre nostro», e il
suo nome è santificato in noi amando i peccatori. Dio ci dona lo stesso amore con il
quale ha amato Gesù, e Gesù ce lo regala, gratis, in fondo senza alcuna logica o
interesse. Regalandocelo, se ne priva e resta senza: Dio mio, perché mi hai
abbandonato? Il prezzo è la sua passione. Quello che sarebbe dovuto toccare a me, il
dolore e la morte che derivano dalla lontananza di Dio, frutto appunto del mio
peccato, lo ha preso Lui. Infinito è l’amore del Padre, infinito è l’amore del Figlio;
infinito è l’amore con il quale il Padre ama il Figlio, infinito è l’amore del Figlio che
ce lo dona; infinito è lo stesso amore che ci è dato, che è quello Spirito che è effuso
nei nostri cuori, dilatandoli, e facendoci essere non servi più o meno obbedienti, ma
figli, uomini e donne veri, non ideali ma reali, che scoprono in loro stessi il mistero di
una Presenza infinita. «Non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella
paura, ma avete ricevuto uno spirito da figli, per mezzo del quale gridiamo, abbà,
Padre » (Rm 8, 15). È vero, infatti, quanto già testimonia Pascal: i tuoi peccati ti sono
rivelati nel momento stesso in cui ti sono perdonati.
Ecco perché, al contrario, è falso quanto affermava Nietzsche, quando diceva che i
preti vi fanno fare tutti i peccati che volete, basta che ogni tanto vi inginocchiate
davanti a loro. Non è una struttura di potere quella davanti alla quale ci
inginocchiamo, non è un padre-padrone che si serve di funzionari della sua legge e
del suo ordine costituito. Per questo non ci accostiamo alla confessione per paura, o
perché riteniamo che il Signore sia adirato con noi, che si sia legato al dito qualche
nostra trasgressione, come se fosse un poliziotto onnipotente e onniveggente. Forse
qualcuno può avere questa immagine di Dio, ma non è questo il Dio che si è rivelato
in Gesù Cristo. Magari abbiamo dei fantasmi di Dio: spaventosi come tutti i fantasmi,
eppure inconsistenti come tutti gli spettri. Quando Lui viene a noi camminando sulle
acque tempestose della nostra vita, molti possono gridare, presi da grande spavento: è
un fantasma. Ma Gesù ci dice ancora: «coraggio, sono io. Non abbiate paura» (Mt 14,
27).
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