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NOTAE
GREGORIANUM, VOL. 102 (2021) FASC. III: NOTAE 683
des christlichen Glaubens (Freiburg 1984) e Jesus von Nazaret. Was er wollte, Wer er
war (Freiburg 2011). Non fa eccezione il libro in esame, il quale, arrivando in un’età
abbastanza avanzata, si propone come l’espressione più matura delle conoscenze e
della saggezza di una vita, che sa andare all’essenziale delle questioni, riuscendo a
comunicarlo. E qui si tratta niente di meno che delle questioni escatologiche, da sem-
modo esemplare, guardando da una parte alla sua esperienza di credente e di studioso,
e dall’altra a un mondo in cui l’aldilà è pensato spesso con scetticismo. Per questa ric-
chezza l’analisi del libro si offre anche come l’occasione per fare un po’ il punto sulla
situazione attuale dell’escatologia, che in ambito tedesco ha negli ultimi anni presen-
tato almeno altri due testi interessanti: J. Wohlmuth, Mysterium der Verwandlung (Pa-
derborn 2005); J. Rahner, Einführung in die christliche Eschatologie (Freiburg 2010).
Cominciando dalla struttura del libro, ne cogliamo subito la linearità e la chiarezza:
dopo un primo capitolo su “La domanda delle domande”, cioè quella sull’oltre la mor-
te, seguono il capitolo sulla fede nell’Antico Testamento, quello sul Nuovo Testamen-
cosa possiamo fare”, sul rimbalzo nella vita del discorso escatologico. All’interno
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gia del secolo scorso: non potendo elencarli tutti, ne ricordiamo due particolarmente
importanti, perché capaci di cambiare non solo la visione di singoli temi, ma anche
l’approccio alle questioni escatologiche, dei teologi ma anche dei cristiani in generale.
1) Innanzitutto lo smascheramento, alla luce di una lettura fedele del giudizio di Dio
nella Scrittura, della falsa dialettica tra misericordia e giustizia: «I grandi testi biblici
sul tema della “misericordia di Dio” non partono affatto da considerazioni teoriche,
al di fuori del tempo e staccate da situazioni concrete. Esse sono sempre inserite nella
storia drammatica di Dio con il suo popolo […] nella Bibbia si descrive come la mise-
ricordia di Dio si manifesti, di fronte al peccato e alla perdizione di Israele, entrando
nelle più diverse situazioni storiche» (p. 134). Diventa perciò inutile, e al limite anche
stucchevole, andare a ragionare su cosa, tra la misericordia e la giustizia, prevale o
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Naherwartung,
Auferstehung, Unsterblichkeit. Untersuchung zur christlichen Eschatologie (Freiburg
1975), un testo che ha acceso un vivace dibattito nel mondo teologico. All’idea, diffe-
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si chiede: “nella” morte o “dopo” la morte c’è ancora il tempo nel senso terreno? Si
ritiene che, perlomeno, questo “tempo” dell’aldilà non possa più essere commensu-
universale dei morti non si potrà formulare semplicemente con i concetti usati per il
tempo terreno. Pertanto, si parla di risurrezione “nella” morte, tenendo presente però
che ovviamente anche questo “nella” è un concetto analogo, del quale non ci si può
più fare una rappresentazione» (p. 184). La distinzione tra il tempo di qua e il “tem-
po” di là non è nuova, nella sua schematicità anni prima l’aveva presentata anche E.
Brunner in Das Ewige als Zukunft und Gegenwart (Zürich 1953): la peculiarità di
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ta l’escatologia, riuscendo in tal modo a tenere insieme l’uomo, la storia e il mondo, e
a superare perciò la deleteria dicotomia tra escatologia individuale ed escatologia co-
essa tutta la restante storia, che intanto, nella dimensione del tempo terreno, può aver
conclude con altre domande, tra cui: «Il nostro io svanisce per sempre? o dopo viene
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quella vita che i cristiani, con un’espressione così logora e comunque insostituibile,
chiamano “beatitudine eterna”?» (p. 60). In questo modo l’escatologia si ritrova col-
locata da subito all’interno di una prospettiva antropologica, alla luce della quale ven-
gono organizzate le varie questioni, in sostanza diventa la risposta a questa e ad altre
domande a questa correlate. Ora, che la morte sia il grande interrogativo per l’uomo
– potremmo azzardare di ogni tempo? – è fuor di dubbio, ma è ancora un interrogativo
neutro, per tutti, in varie forme a seconda delle culture, per cui l’escatologia assume
un’impostazione che certamente co-risponde all’interesse di molti (speriamo!), ma
non corrisponde all’interesse del cristianesimo pimitivo che ha dato, o dovrebbe dare
saggio Die Anfänge christlicher Theologie (in Zeitschrift für Theologie und Kirche,
57, n.2 (1960) pp. 162-185) ha sostenuto che «l’apocalittica è la madre della teologia
cristiana», al di là dei riferimenti al discorso che andava facendo, intendeva dire che
la teologia – e di conseguenza l’escatologia – nasce dall’interesse cristologico per la
venuta di Gesù, che genera la domanda fondamentale su chi è il Signore della storia, e
che perciò è a partire da qui che vengono fuori tutte le altre domande teologiche. Non
dimentichiamoci che la questione della risurrezione dei morti nel Nuovo Testamento
compare di fronte alla morte di cristiani che sembravano così esclusi dalla partecipa-
zione alla venuta prossima di Gesù (1Tes 4,13-18). È a partire dalla questione della
parusia, perciò, che nell’escatologia l’uomo e il mondo si trovano correlati, e quindi
vanno pensati, e non a partire dalla struttura dell’esistenza umana e dal suo interroga-
tivo sulla morte.
2. «Ci si deve domandare: secondo quale schema rappresentativo, secondo quale
forma i primi testimoni percepirono l’evento pasquale? che cosa fu sperimentato dai
discepoli, nelle apparizioni pasquali, di ciò che era accaduto a Gesù? Questo interro-
gativo viene posto raramente perché la risposta appare ovvia: i discepoli sperimen-
tarono Gesù come risorto dai morti. In realtà, qui non c’è nulla di ovvio, perché, nel
giudaismo dell’epoca, c’erano tante altre forme rappresentative con le quali i discepo-
li avrebbero potuto esprimere la loro esperienza pasquale» (p. 118). A proposito della
prodigiosi. Ecco allora che l’escatologia non può evitare di domandarsi sul contesto
apocalittico di Gesù e del cristianesimo primitivo. Certo ne è passato di tempo, in tutti
i sensi, dalla Geschichte der Leben-Jesu-Forschung (Tübingen 1913) di A. Schweit-
zer, ma qualche suo spunto può essere fruttuoso ancora oggi.
3. «Ciò che una volta la fede ha voluto dire parlando del ritorno di Cristo, sarà
allora realmente e totalmente vero, non però nella forma di uno spettacolo apocalit-
tico davanti agli occhi del minuscolo sottoinsieme dell’intera umanità del mondo di
come il “presentarsi” di tutti gli uomini, nessuno escluso, che “insieme” e “al contem-
po” incontrano Cristo nella loro morte» (p. 211). È evidente che parlare di parusia e
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avendone distillato il nucleo, perché questi nuclei rivestiti culturalmente, di cui spesso
in teologia si parla, in realtà non ci sono, o, se si preferisce, sono inafferrabili. Dunque
l’escatologia deve pazientare di più con l’apocalittica, restandovi dentro e pensandola
seriamente e costantemente, quasi come una compagna di viaggio, un po’ imperti-
nente, di tutti i suoi ragionamenti che mette in questione le sue soluzioni “moderne”.
4. «Una seconda considerazione preliminare: di ciò che accade dopo la morte si
può parlare solo per immagini. Tutte le affermazioni sulla risurrezione dei morti, esat-
tamente come le affermazioni su Dio, sono un “linguaggio metaforico”. La teologia
diverso, tutt’altro che intercambiabili, per cui: che tipo di linguaggio è quello escato-
linguaggi ha una sua “logica”, non è indifferente per la ricerca escatologica approfon-
dire la questione, magari privilegiando il tema della metafora, che Paul Ricoeur in La
métaphore vive
e poetica, per cui possiamo e dobbiamo parlare anche di metafore vere.
5. «Quando incontreremo Dio nella morte riconosceremo, per la prima volta e in
modo assolutamente chiaro, chi siamo veramente. Dio non ha bisogno di ergersi giu-
dice al di sopra di noi; non ha bisogno di convincerci, come fanno i giudici umani
nei confronti degli imputati; non ha bisogno di dirci: hai sbagliato miseramente in
questo e quest’altro punto, ti devo rimproverare questo e questo, la tua colpa è questa
e quest’altra, ti devo condannare. Non ci sarà nessun giudizio di questo tipo. Nell’in-
contro con il Dio santo, i nostri occhi si apriranno su noi stessi. Conosceremo chi
siamo. Noi stessi giudicheremo e condanneremo il male in noi. L’incontro con Dio
sarà per noi un autogiudizio» (p. 151). L’immagine, meglio: la metafora del giudizio
quasi disperata, perché la mentalità giuridica è come una pericolosa seconda pelle
dell’uomo religioso, dalla quale i trattati escatologici non ci hanno ancora liberato.
Questo accade perché se nei vari libri esplicitamente la neghiamo o la interpretiamo,
usare il linguaggio giuridico, dall’altra ci illudiamo che per cambiare una mentalità,
che testimonia di un modo di porsi nella vita, basta dire che è sbagliata, ammissione
che invece riguarda il mero aspetto intellettuale.
Così in fondo l’idea dell’autogiudizio sembra essere usata come una sorta di parola
magica per far dimenticare il Dio terribile e castigatore e segnare il passaggio della
responsabilità dell’inferno dal Dio padre all’uomo peccatore, al punto che, contenti di
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sulla storia e quindi sul singolo, e non è certo l’opera decisiva dell’uomo. La seconda:
in un simile scenario il Dio creatore e salvatore, che Gesù ci ha insegnato a chiamare
padre e che come tale sempre accompagna l’uomo durante la sua vita, se ne distanzia
somma tra bene e male. Non c’è niente da fare: quando si parla di escatologia, ma an-
che in genere di religione e di rapporto con Dio, non riusciamo a uscire dal linguaggio
giuridico, perché non riusciamo ancora a capire la reale portata del linguaggio metafo-
semplice, di “buonismo”: allora Dio perdona tutti, l’inferno non esiste; o di “relati-
vismo”: allora bene e male sono relativi, l’inferno non esiste; con questo inferno che
ritorna e che sembra fatto apposta per corrispondere al nostro bisogno di una nostra
nel segno. Qui non si tratta di negare il dogma dell’inferno, che nella sua verità non è
soggetto alle mutazioni culturali né è a disposizione di ciò che l’uomo desidera, ma di
superare la visione giuridica del rapporto dell’uomo con Dio, una liberazione che fa
parte dell’essenza del vangelo annunciatoci da Gesù. Capiamo che è un altro proble-
Ormai solo un Dio ci può salvare. Ci resta, come unica possibilità, quella di preparare
nel pensare e nel poetare, una disponibilità all’apparizione del Dio o all’assenza del
Dio nel tramonto» (Der Spiegel, 31 maggio 1976). Parafrasando la conclusione, forse
ci resta di preparare, nel meditare la parola di Dio e nel pregare, la venuta dell’idea
giusta. Quel giorno la teologia (e non solo) ce ne sarà immensamente grata.
Antonio nitrolA