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Anna Bisogno - Elementi di Storia del cinema

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da
copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).

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Indice

1. PRIMA DEL CINEMA ................................................................................................................................. 3


2. L’AVVENTURA DEL CINEMATOGRAFO ................................................................................................... 6
3. UNA MACCHINA CHE RACCONTA STORIE ........................................................................................... 8
4. NASCITA E SVILUPPO DEL CINEMA AMERICANO ............................................................................... 10
BIBLIOGRAFIA ................................................................................................................................................. 14

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1. Prima del cinema

Quando parliamo di cinema facciamo riferimento alla più grande macchina dei sogni, la

prima capace di riprodurre immagini in movimento e di instaurare un rapporto privilegiato, rispetto

alle altre arti, con la rappresentazione della realtà. Un dispositivo plurale per la molteplicità di valori

e funzioni che ha assunto nel corso del secolo scorso. Il cinema, infatti, raccoglie e massimizza le

sperimentazioni della fotografia, configurandosi come uno dei risultati dello sviluppo della tecnica

che caratterizza l’epoca in cui è nato, ovvero il culmine della Seconda rivoluzione industriale. Esso

è arte popolare, che si inserisce nella neonata dimensione del tempo libero e si offre a un pubblico

ampio, infrangendo barriere sociali e di ceto culturale.

L'invenzione del cinema avvenne nell'ultimo decennio del XIX secolo, ma l'idea

cinematografica aveva accompagnato l'uomo fin dalle sue origini (es. Il mito platonico della

caverna).

Tra i vari spettacoli ottici che iniziarono a comparire già nel seicento, la più misteriosa era la

lanterna magica, probabilmente proveniente dalla Cina, erede dei giochi di ombre cinesi. La

lanterna magica era una scatola con una candela dentro e una lente anteriore che proiettava

sulle pareti di una sala buia delle figure disegnate su di un vetro. Con il passare del tempo una serie

di accessori permise di moltiplicare le immagini e di muoverle.

Un’altra invenzione diffusa fin dalla fine del ‘600 era il Mondo nuovo, una cassa di grandi

dimensioni all’interno della quale si potevano guardare alcune figure anche animate. Sia la

lanterna magica che il Mondo nuovo richiedevano spiegazioni e per questo le immagini erano

accompagnate dalla voce di un imbonitore che spiegava le immagini al suo pubblico. Il cinema

renderà il contatto tra persone sempre più inutile fino a lasciare gli spettatori davanti ad una

macchina che parla da sola.

I primi che si interessarono alla possibilità di registrare e riprodurre il movimento non furono

personalità del mondo artistico. Tra i precursori del cinema troviamo, infatti, un avventuroso

fotografo californiano di origine inglese Eadweard Muybridge e il fisiologo francese Étienne Jules

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Marey che si occuparono dell’osservazione degli animali. Il primo riuscì a fotografare le varie fasi

della corsa di un cavallo servendosi di dodici macchine fotografiche posizionate lungo il percorso

compiuto dall'animale. Il secondo si interessò allo studio del movimento animale e costruì, nel 1882,

il fucile fotografico, uno strumento capace di impressionare dodici fotogrammi in un secondo

sfruttando un meccanismo del tutto simile a quello di una comune rivoltella (in inglese, il verbo "to

shoot" ha ancora oggi il duplice significato di "sparare" ed "effettuare una ripresa

cinematografica").

Per prima cosa, però, gli scienziati dovettero comprendere che l'occhio umano riesce a

percepire come movimento continuo una serie di immagini fisse, leggermente diverse tra loro, che

gli vengono proiettate in rapida successione, ad una velocità di almeno 16 fotogrammi al

secondo. Si rilevò che strumenti ottici come il fenachistoscopio,(1832) o lo zootropio (1833)

potevano restituire l'illusione di un movimento continuo proprio basandosi su questo principio: le

immagini – cioè - venivano disegnate su dei rulli scorrevoli azionabili girando una manovella;

attraverso un piccolo foro lo spettatore poteva vedere le immagini scorrere e ricevere l'impressione

di un movimento continuo.

Nel 1888 George Eastman mise a punto un apparecchio fotografico, che chiamò Kodak,

capace di impressionare rulli di carta sensibile. L'anno successivo mise in commercio rulli di

celluloide trasparente, compiendo un importante passo in avanti verso la nascita del cinema. Ma

una pellicola, lasciata scorrere ininterrottamente all'interno di una macchina da presa o di un

proiettore, avrebbe creato un'immagine confusa. C'era perciò la necessità di escogitare un

dispositivo che la facesse avanzare ad intermittenza.

Tra il 1889 e il 1982 si segnalano altre due importanti invenzioni nella cosiddetta fase del

precinema e portano la firma di Thomas Edison, l’illustre scienziato dell’Ohio cui dobbiamo, oltre la

lampadina anche la pellicola da 35 mm di larghezza che il kinetoscopio.

Nel 1891 Edison e il suo assistente William Dickson elaborarono un dispositivo che consentiva

la visione di un brevissimo film ad un solo spettatore per volta. Quest’ultimo, chinandosi

sull’apparecchio e girando una manovella, poteva guardare le immagini in movimento al costo di

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un penny. Si trattava di una macchina ingombrante e collocata in spazi pubblici ricchi di molte

altre attrazioni di arte varia. Il rapido declino di questo visore individuale conferma che il futuro del

cinema è la fruizione collettiva a cui il dispositivo brevettato dai Lumière invece risponde

pienamente e più degli altri

Il kinetoscopio può essere considerato il precursore del moderno proiettore

cinematografico; al contrario di quest’ultimo però, tale strumento consentiva la visione ad un

singolo spettatore e non una proiezione corale. Il dispositivo, infatti, era costituito da una grande

cassa su cui si trovava un oculare; lo spettatore poggiava l’occhio su di esso e girando la

manovella poteva guardare il film montato nella macchina al costo di un penny. L’invenzione

dello standard dei 35 mm di larghezza, invece, rappresenta un passo avanti significativo per il

cinema in quanto è ancora oggi il formato maggiormente diffuso per i negativi e i positivi da

proiezione ed è la base per numerosi altri formati che ereditano da quest’ultimo le caratteristiche

principali.

Senza questi presupposti tecnico-scientifici il cinema non avrebbe potuto essere inventato.

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2. L’avventura del cinematografo

Il 28 dicembre 1895 è oggi convenzionalmente considerata la data di nascita del cinema.

Auguste e Louis Lumière, due industriali di Lione, fabbricanti di pellicole fotografiche e titolari di vari

brevetti, tra i quali quello che nel 1895 presentarono come il cinematografo.

Auguste e Louis Lumière, organizzarono la prima proiezione pubblica a pagamento (al

costo di un franco) presso il Salon Indien del Grand Café di Parigi in Boulevard des Capucines,

proponendo dieci film di brevissima durata, tra cui L’innaffiatore innaffiato, ritenuto il primo film

comico della storia del cinema e L'arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat, forse il più famoso e

un classico del dal vero, che riprende l’arrivo di un treno alla stazione della cittadina francese La

Ciotat. La posizione della macchina non frontale ma diagonale rispetto alla direzione del treno,

consente di cogliere in pieno lo spostamento del convoglio, assecondando uno degli scopi

principali del cinema delle origini, ovvero la capacità di cogliere e mostrare il movimento. Una

leggenda metropolitana racconta che alla sua prima proiezione, nel gennaio 1896, la pellicola per

la sua forte impressione di realtà abbia provocato turbamento nel pubblico, convinto di essere

realmente investito dal treno.

La parola cinematografo (o cinema) da quel momento indicò non solo l'arte e la tecnica

delle immagini in movimento ma anche il luogo deputato a tali proiezioni.

aIl Cinématographe, brevettato nel 1894, era una macchina che funzionava sia da

camera che da proiettore, compatta, trasportabile, che non aveva bisogno di elettricità per

essere messa in moto, ma funzionava azionando una manovella (da qui l’espressione utilizzata

ancora oggi di “girare un film”), richiedeva la proiezione su un grande schermo, l’utilizzo di una

pellicola su supporto flessibile e il suo scorrimento a 16 fotogrammi al secondo. I fotogrammi,

ovvero immagini fisse, scorrendo velocemente creavano il movimento agli occhi dello spettatore.

In virtù di queste caratteristiche tecniche, il cinematografo era in grado di produrre un "effetto di

realtà" unitamente a un processo di partecipazione immaginaria alla scena rappresentata, una

sorta di vita colta sul vivo, di illusione totale di realtà, una sensazione di poter toccare quel che si

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muove sullo schermo. Quella sera, dunque, la realtà si fa spettacolo agli occhi di un pubblico

pagante e il cinematografo si fa dispositivo psichico, emotivo, sensorio dello spettacolo della realtà

riprodotta.

Il cinema ora si colloca dentro le forme di potenziamento tecnico della visione e di

consumo dello spettacolo popolare. La fruizione collettiva presto portò alla costruzione di grandi

sale, soprattutto in America, fin dal 1906.

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3. Una macchina che racconta storie

L’invenzione del montaggio, inteso come procedimento per realizzare trucchi

cinematografici, viene attribuito a Georges Méliès, un famoso illusionista e prestigiatore direttore di

un piccolo teatro di Parigi. Oltre al montaggio, che permetteva di mettere insieme scene diverse

(girate in momenti diversi), senza interruzione nella proiezione, Méliès realizzò il mascherino-

contromascherino che permetteva di unificare spazi diversi o sdoppiare un personaggio ma anche

l’arresto della ripresa (per far apparire e sparire o trasformare oggetti, personaggi, ecc.); lo scatto

singolo (per muovere oggetti inanimati); lo spostamento della cinepresa avanti e indietro (per

ingrandire e rimpicciolire un soggetto). Tutto ciò metteva davanti agli occhi degli spettatori un

mondo nuovo dove tutto era improvvisamente possibile.

Méliès non vuole rappresentare la realtà come i Lumière, piuttosto vuole “esprimerla”,

utilizzando la propria esperienza di illusionista sul piano tecnico. Differisce dai Lumière nella

concezione stessa dello spettacolo cinematografico. Egli è consapevole di creare un genere

interamente distinto dalle riprese ordinarie del cinematografo, che – invece - alla realtà

contrappone l’immaginazione, l’invenzione, la sparizione, la ri-creazione.

Méliès entra definitivamente nella storia del cinema nel 1902 con Le Voyage dans la lune (Il

viaggio nella luna), che ricorda i libri avventurosi di Jules Verne, il primo film a soggetto della storia

del cinema e il primo film a essere considerato dall’Unesco, nel 2002, patrimonio dell’umanità

Questo genere di spettacolo, che va dal 1895 al 1915 circa, ha come funzione principale

quella di mostrare immagini per questo motivo venne definito cinema delle attrazioni che

mostrava più che raccontava; aveva inquadrature lunghe, fisse autonome e necessitava di un

imbonitore o presentatore

Nel frattempo sia in Europa che in America si era sviluppata la classe operaia, le cui lotte

avevano portato alcuni miglioramenti, quali ad esempio una certa sicurezza economica e la

possibilità di permettersi qualche svago. Il teatro quindi non fu più appannaggio soltanto dei

benestanti, ma era divenuto accessibile anche alle classi più umili. Queste ovviamente

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prediligevano generi cosiddetti “bassi” (varietà di ballerine, prestigiatori e comici, oppure il

melodramma alla francese). Il cinema dovette rinnovarsi per fare concorrenza al teatro adesso

molto frequentato dalla gente: guerra, western, melodramma e comico furono i primi generi a

nascere. Anche lo stile doveva rinnovarsi.

Con la nascita del cinema narrativo nasce la sequenza ovvero la scomposizione della

vecchia inquadratura in molte brevi inquadrature. Il tempo e la velocità narrativa saranno la cosa

più importante nel nuovo montaggio. Grazie alla sequenza il cinema impara a vedere la stessa

scena da più punti di vista diversi. Nasce anche il concetto di inquadratura, che prima non

esisteva poiché si avevano soltanto vedute. I vari tagli del montaggio saranno detti raccordi. Il

montaggio narrativo e analitico, ovvero la suddivisione della vecchia inquadratura autonoma in

tante inquadrature brevi, rappresenta diversi punti di vista. Lo spettatore veniva così

maggiormente coinvolto nella storia. Il cinema non fu pensato solo come spettacolo popolare ma

anche come forma d’arte, per questo motivo furono messe in scena anche molte opere letterarie

famose.

L’Europa si mette in moto grazie alla spinta americana e passa dai quadri fissi ad un

montaggio dinamico e drammatico. Manterrà però uno stile di campi lunghi e tempi distesi,

insistendo ancora sulla profondità di campo, impostando un cinema lento, di osservazione e

contemplazione, pittorico e poetico più che narrativo. Il cinema americano sarà un cinema

d’azione.

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4. Nascita e sviluppo del cinema americano

Nel 1908 nacque l’oligopolio che gestirà la produzione cinematografica americana

la Motion Picture Patents Company, di cui facevano parte, oltre alle società di Edison e Dickson,

pochi altri produttori americani e le francesi Pathé e Star Film (marchio con il quale Méliès

produceva e distribuiva i suoi film). Chiunque volesse produrre o proiettare un film negli Stati Uniti, di

fatto, doveva pagare un compenso alla MPPC per l'utilizzo dei dispositivi di cui deteneva tutti i

diritti. Grazie ad un accordo concluso con la Eastman Kodak, la MPPC gestiva anche

l'approvvigionamento di pellicola cinematografica. La MPPC monopolizzava così il mercato

nazionale e ne impediva l'accesso ai concorrenti stranieri.

Edwin Stanton Porter fu il regista che maggiormente contribuì allo sviluppo del cinema

americano in questo primo decennio del secolo. Edison lo assunse nella sua società già nel 1896.

Iniziando come assistente passò ben presto alla regia. Porter ebbe la possibilità di visionare molti

dei film prodotti in Europa che la società di Edison distribuiva negli Stati Uniti. Studiò con attenzione

le opere dei registi di Brighton e fu grande ammiratore di Méliès, come traspare dai primi film che

diresse.

La capanna dello zio Tom, adattamento dell'omonimo romanzo di Harriet Beecher

Stowe, che Porter girò nel 1903, con una durata di quasi quindici minuti, fu tra i primissimi

"lungometraggi" prodotti negli Stati Uniti. Porter fu il primo tra i registi americani a far uso di questa

tecnica che sarà fondamentale nel cinema muto. Il film, che ripropone solo alcuni degli episodi più

significativi del romanzo della Stowe, ben conosciuto all'epoca, si compone di una successione di

quadri girati a macchina fissa, ciascuno dei quali presenta un'azione unitaria e compiuta. Le

didascalie vengono collocate fra un quadro e l'altro, e descrivono brevemente il contenuto

dell'episodio che segue, ma non sono ancora utilizzate per illustrare i dialoghi tra i personaggi.

Come dimostra questo film, il cinema di finzione trionfava ormai nei gusti del pubblico e

poiché si andavano affermando film di durata maggiore, le trame da svolgere si facevano sempre

più complesse e articolate. Porter si rese conto che il pubblico apprezzava tanto più un film,

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quanto più chiara e comprensibile ne era l'esposizione. Egli comprese che la chiarezza espositiva di

un film dipende principalmente dal montaggio. L'assalto al treno, che Porter girò nel 1903,

sorprende non solo per le sue sequenze filmate all'aperto, ma soprattutto per la nitidezza del

racconto cinematografico che lo trasformarono presto nel film di maggiore successo commerciale

di quegli anni.

Intanto l'oligopolio messo in piedi dalla MPPC cominciava sfaldarsi, sia per la defezione di

alcuni membri interni, desiderosi di staccarsi dal controllo di Edison, sia per le pressioni esercitate

dagli indipendenti. La sentenza che smantellerà definitivamente la MPPC arriverà nel 1915, ma

intanto piccole e nuove case di produzione e distribuzione, finora rimaste ai margini, poterono

entrare sul mercato. Da questo momento la cinematografia americana poteva riprendere il suo

commino che l'avrebbero ben presto portata ai vertici del mercato mondiale.

Una figura chiave per comprendere i cambiamenti in atto fu quella il regista e

produttore Thomas Harper Ince. Avendo cominciato la sua carriera come regista di film western, fu

il primo a rendersi conto di quanto i paesaggi della costa occidentale costituissero l'ambientazione

ideale per questo genere di film. Egli fu il primo a redigere sceneggiature in maniera dettagliata,

indicandovi se le scene si svolgevano in interni o in esterni, di giorno o di notte. Annotava il tipo di

inquadratura da effettuare e forniva queste note ai produttori, agli artisti, ai tecnici. In tal modo

poteva organizzare e pianificare con precisione il lavoro sul set. Iniziò anche far ricorso a diverse

macchine da presa per riprendere la stessa scena da diversi punti di vista. Se sceneggiatura,

riprese e montaggio erano allora affidati ad una stessa persona, Ince cominciò a separare queste

fasi di lavorazione del film attribuendone ciascuna ad uno o più professionisti specializzati. Ciò gli

consentiva di produrre film in maniera qualitativamente e quantitativamente sempre più

importanti.

Prima ancora che per le sue opere, Ince contribuirà allo sviluppo della cinematografia

americana gettando le basi di quel sistema di produzione industriale noto come studio system.

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Il fulcro dell'industria cinematografica si trasferì da New York alla West Coast. Intorno ad

Hollywood si costruirono nuovi teatri di posa. Qui, infatti, la mitezza del clima, che permetteva di

avere luce naturale gran parte dell'anno, e la varietà dei paesaggi circostanti si rivelavano

particolarmente favorevoli all'insediamento dell'industria filmica.

Il cinema esplodeva come spettacolo popolare, nuove sale cinematografiche aprivano in

tutto il paese, a frequentarle erano soprattutto da operai ed immigrati. Per far fronte a questa

crescente richiesta del mercato, la produzione dovette adeguarsi su modelli industriali: vi erano

diversi comparti che gestivano ciascuno una fase della produzione, dalla stesura della

sceneggiatura al montaggio finale. Alcune case trovarono più conveniente specializzarsi nella

produzione di una particolare tipologia di film gettando così le basi per lo sviluppo del

sistema generi cinematografici. Anche se in questa fase ancora evolutiva dell'industria

statunitense, i generi non costituiscono categorie regolate e codificate con precisione, come lo

saranno negli anni Venti, è in questo periodo che alcune tipologie di film, come il western o il

comico, cominciano ad assumere le caratteristiche di film di genere.

A dare origine al genere western furono i tentativi di imitazione di cui fu oggetto un film

come L'assalto al treno. Altri produttori vollero realizzare film simili, sia per bissarne il successo, sia per

sfruttarne la popolarità di temi e personaggi. Banditi, sparatorie, treni in corsa, eroici sceriffi

cominciarono ad apparire in sempre più numerosi film, ciascuno dei quali aggiungeva una novità,

un personaggio magari: gli indiani, i cercatori d'oro o una diversa ambientazione: la conquista

della frontiera, la corsa all'oro. Il western faceva appello ad un passato ancora recente che

andava assumendo, e assunse soprattutto grazie al cinema, le forme del mito.

Ad Hollywood intanto cresceva la consapevolezza di poter sfruttare la popolarità di una

certa tipologia di film attraverso il traino dei loro interpreti. In un primo momento, infatti, gli studios,

evitavano di rendere noti i nomi dei loro attori, temendo che questi avrebbero potuto chiedere

compensi maggiori una volta divenuti famosi.

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Aveva così inizio il fenomeno dello star system

Lo sviluppo del genere comico fu invece in larga parte opera di Mack Sennet con la sua

prima serie di successo che aveva per protagonisti un gruppo di sgangherati poliziotti i Keystone

Cops. Ispirandosi ai grandi comici francesi come Max Linder o Andrè Deed, Sennett seppe

rielaborare e rinnovare la forma dello slapstick. È questo un sottogenere del comico basato sul

linguaggio del corpo che si articola su gag fisiche semplici quanto efficaci. Il comico presentava

dei tratti eccezionali rispetto agli altri generi cinematografici. Relegato a produzioni di

cortometraggio che dovevano precedere la proiezione del film principale, le comiche si rivelarono

spesso la parte più attrattiva del programma.

Gli autori del genere godettero sempre di una autonomia e indipendenza impensabili per i

loro colleghi. Essi potevano scrivere, interpretare, dirigere ed in molti casi arrivare a produrre i propri

film. Più che su sceneggiature vere e proprie le forme primordiali del genere prevedevano semplici

canovacci che lasciavano ampia libertà all'improvvisazione e alla creatività personali. Se in altre

tipologie di film l'esigenza della continuità narrativa faceva tendere i registi verso un certo realismo

e linguaggio sempre più codificato, gli autori del comico poteva spaziare nei campi dell'assurdo e

del surreale, sostituire alla regola l'eccezione. Quando anche i film comici cominciarono ad

assumere durate di medio e lungometraggio, questa formula farsesca, della risata fine a se stessa,

ricercato e praticato da Sennett, cominciò ad assumere i tratti della commedia. Le storie si

facevano più solide ed elaborate, i personaggi ad acquisire una propria personalità come il

personaggio del vagabondo creato da Chaplin la cui stella cominciava a brillare più alte di tutte.

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Anna Bisogno - L’industria cinematografica (1905-1912)

Indice

1. IL MERCATO EUROPEO ............................................................................................................................ 3


2. LA DIFFUSIONE DEL NICKELODEON ........................................................................................................ 6
3. I MAESTRI DEL CINEMA MUTO AMERICANO (1910-1920) .................................................................... 8
BIBLIOGRAFIA ................................................................................................................................................. 13

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1. Il mercato europeo

Fino al 1904 l’attività cinematografica era avvenuta in modo pioneristico, vario e

avventuroso. Le proiezioni dei film avvenivano in luoghi differenti come teatri, sale da concerto o

padiglioni delle esposizioni. Le pellicole, oltre al non aver trovato ancora una fissa dimora,

circolavano più volte, senza avere un grande ricambio, portando gli spettatori a stancarsi. A

partire dal 1905 l'industria cinematografica assunse dimensioni più ampie e forme più stabili. Sale

permanenti vennero dedicate prevalentemente alla proiezione dei film e la produzione delle

pellicole si allargò per soddisfare la crescente domanda. I film divennero più lunghi, cominciarono

a essere composti da diverse inquadrature e raccontare storie più complesse. I registi

sperimentarono nuove tecniche per comunicare le informazioni narrative.

In questo periodo intervengono importanti cambiamenti formali e stilistici nello spettacolo

cinematografico.

In particolare:

 Francia L'industria cinematografica francese dominava in questo periodo il mercato

internazionale e i suoi film erano i più visti nel mondo. Le due principali società, la Pathé

Frères e la Gaumont continuavano a espandersi. La Pathé era già una grande società, con

tre diversi studi. Fu anche una delle prime ad avere una concentrazione verticale che

fondamentalmente comportava il controllo della produzione, distribuzione ed esercizio dei

film da parte della casa. La Pathé costruiva le sue macchine da presa e i suoi proiettori,

produceva film e fabbricava la pellicola su cui stampare le copie da distribuire. A partire

dal 1906 comprò anche le sale. L'anno seguente cominciò a distribuire i suoi film dandoli a

noleggio e non vendendoli.

Nel 1905 la Pathé contava sei registi che giravano ognuno un film alla settimana. Il film di

maggior successo della Pathé erano le serie che avevano come protagonisti comici famosi: la

serie di Boireau, e soprattutto la serie di Max Linder. Oltre a essere una società concentrata

verticalmente, la Pathé usava anche la strategia della concentrazione orizzontale, ovvero

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l'espansione di una compagnia all'interno di uno specifico settore dell'industria

cinematografica.

Anche l'espansione della Gaumont, fu rapida. Fondata in origine per occuparsi di

apparecchiature fotografiche, la società iniziò a produrre cortometraggi nel 1897 per

promuovere un proiettore di propria produzione. La segretaria di Gaumont, Alice Guy Blaché,

diventò così la prima regista donna dell'industria cinematografica.

Dal 1905 al 1914 gli studi di Gaumont a La Villette diventarono i più grandi del mondo.

La società produceva anche le proprie attrezzature e realizzò una notevole quantità di

film fino al 1907. La direzione artistica della compagnia passò quindi nelle mani di Louis

Feuillade. Tra i primi film di rilievo prodotti si ricordano i serial Judex e Fantômas, le serie

comiche con Ernest Bourbon e Bebé con Renè Dary e i cinegiornali. In diversi momenti

lavorarono per la Gaumont registi come Abel Gance, Alfred Hitchcock e il pioniere

dell'animazione Émile Cohl.

 Italia E’ un altro grande polo produttivo. A partire dal 1905 l'industria cinematografica

italiana si sviluppò rapidamente e nel giro di pochi anni cominciò ad assomigliare a quella

francese. Tra il 1908 e il 1914 la qualità e il successo dei film italiani sono notevoli. E’ del 1905

il primo film a soggetto italiano, La presa di Roma, di Filoteo Alberini; la Cines di Roma e le

case di produzione di Torino, l’Ambrosio e l’Itala Film dimostrano una robusta capacità

competitiva; l’Italia si specializza nella produzione di film monumentali, con Quo Vadis di

Enrico Guazzoni nel 1912 e Cabiria di Giovanni Pastrone nel 1912. Gli altri generi privilegiati

dal cinema italiano sono il melodramma mondano (es. Ma l’amor mio non muore! ancora

di Giovanni Pastrone) e il dramma cosiddetto realista (es. Assunta Spina di Gustavo Serena

del 1915).

Nel giro di pochi anni l'industria cinematografica italiana cominciò a somigliare a quella

francese. Alcuni film italiani erano imitazioni se non addirittura remake di film francesi. Nel 1910,

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l'Italia era probabilmente seconda solo alla Francia per numero di film esportati all'estero. I

produttori italiani furono tra i primi a realizzare film di più di un rullo (quindi più lunghi di quindici

minuti). In quello stesso anno Giovanni Pastrone, uno dei maggiori registi dell'epoca, girò "La

caduta di Troia", in tre rulli. A partire dal 1909 i produttori italiani realizzarono, sull’esempio

francese, diverse serie comiche.

 Danimarca Un piccolo Paese come la Danimarca svolse un ruolo importante nell'ambito

del cinema internazionale grazie all'imprenditore Ole Olsen. Nel 1906 fondò una casa di

produzione, la Nordisk, e cominciò presto ad aprire uffici di distribuzione all'estero,

raggiungendo il successo nel 1907 con "Lovejagten" (Caccia al leone), un film di finzione su

un safari. I film della Nordisk in breve tempo divennero famosi nel mondo per l'eccellente

recitazione e la cura nella realizzazione. Si specializzò nel poliziesco, nel dramma e in

melodrammi in qualche modo sensazionalistici, comprese storie di prostituzione. La Nordisk

aveva un set che riproduceva un circo e che rimaneva permanentemente installato: alcuni

fra i principali film della compagnia erano infatti i melodrammi sulla vita del circo, come "De

Fire Djaevle" (I quattro diavoli, di Robert Dinesen e Alfred Lind, 1911) e "Dodsspring til Hest fra

Cirkus-Kuplen" (Salto mortale a cavallo sotto la tenda del circo, di Eduard Schnedler-

Sorensen, 1912). In quest'ultimo, un conte perde tutta la sua fortuna per saldare i debiti di

gioco di un amico. Anche se qualche piccola casa di distribuzione tentò di avviare

un'attività durante questo periodo, Olsen riuscì a comprarla o a farla uscire dal mercato.

L'industria danese fu fiorente fino allo scoppio della prima guerra mondiale che chiuse molti

dei sui mercati di esportazione.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da
copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).

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2. La diffusione del Nickelodeon

La principale tendenza dell'industria cinematografica americana negli anni 1905-1907 fu il

grande sviluppo del numero delle sale.

Nel giugno del 1905, a Pittsburgh, Pennsylvania, John Paul Harris trasforma alcuni magazzini

in una sala destinata alla proiezione continua di brevi spettacoli della durata media di 20\30

minuti, facendo pagare al pubblico un solo nichelino. Nascono così i Nickelodeon, i “teatri da 5

cents”.

Il nome deriva dall'unione della parola odeon (nome con cui nell'antica Grecia si

designavano gli edifici destinati alle rappresentazioni musicali) con la parola nickel, termine che

designava la monetina da cinque centesimi di dollaro.

Erano in genere piccoli locali che contenevano meno di duecento posti a sedere; l'entrata

costava generalmente un nickel da qui il termine nickelodeon o un dime (dieci centesimi) se il

programma durava dai quindici ai sessanta minuti. La maggior parte dei nickelodeon aveva un

solo proiettore. I nickelodeon potevano programmare i loro film in continuazione, dalla tarda

mattinata a mezzanotte. Più economici dei teatri di varietà, offrivano prezzi più regolari degli

spettacoli ambulanti. Il costo del biglietto era generalmente basso, gli spettatori si sedevano su

panchine o su sedie di legno. Raramente annunci sui giornali informavano in anticipo sui

programmi degli spettacoli, così gli spettatori vi si recavano regolarmente o vi capitavano per

caso. Fuori dal cinema venivano esposti i titoli dei film e a volte il compito di attirare l'attenzione dei

passanti era affidata a un fonografo. Quasi sempre c'era un accompagnamento sonoro: capitava

che fosse lo stesso gestore della sala a spiegare quanto succedeva sullo schermo, ma era più

frequente l'accompagnamento da parte di un pianoforte o di un fonografo. Prima del 1905, il

prezzo del biglietto era di venticinque centesimi o più, un prezzo troppo alto per i salari degli

operai. I nicklodeon permisero a un pubblico di massa, formato sostanzialmente da immigranti, di

assistere agli spettacoli. Gli operai avevano così la possibilità di andare al cinema vicino casa,

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mentre le segretarie e i fattorini potevano vedere uno spettacolo durante l'ora di pausa per il

pranzo o dopo il lavoro.

Lo spettacolo cinematografico delle origini ha un carattere disorganico ed eterogeneo ed

è principalmente uno “spettacolo da fiera”. Le proiezioni avvengono nei luoghi del divertimento

popolare per eccellenza, come luna park, circhi, musei delle cere, Hale’s tour (i celebri

treni\cinema) e penny arcades (locali pubblici attrezzati con fonografi e cinetoscopi azionabili al

costo di un penny).

I Nickelodeon offrono spettacoli visivi, che non frappongono barriere linguistiche alla

comprensione. Le prime produzioni statunitensi, infatti, mostrano azioni, continui inseguimenti,

poche e semplici didascalie, gag grossolane. Non solo, ma permettono, ad un costo irrisorio, una

rapida e “divertente” americanizzazione. Armeni, Russi, Irlandesi, Italiani, Cinesi, Messicani, Indiani

affollano i fumosi e maleodoranti locali di periferia. Grazie a quel pubblico multietnico il “cinema

americano nasce mondiale”.

Nel 1908 i nickelodeon erano diventati la principale modalità di proiezione, e la maggior

parte dei film veniva dall'estero. Pathé, Gaumont, Hepworth, Cines, Nordisk e altre società europee

dominavano il programma di distribuzione settimanale e permisero ad importanti uomini d'affari

d'intraprendere brillanti carriere. I fratelli Warner cominciarono come gestori di nickelodeon.

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3. I maestri del cinema muto americano (1910-1920)

Nei primi anni ‘10 nasce Hollywood. Con la nascita del sobborgo cinematografico nasce

anche il producer system durante il quale i produttori miravano al controllo assoluto del film.

Nascono le prime grandi case di produzione all’inizio degli anni ’20: Paramount, MGM e First

National, affiancate da produttori minori e da altri indipendenti come la United Artists. Il producer

system sviluppa anche i primi generi cinematografici di cui il più importante rimane comunque

quello comico. Sempre negli anni ‘20 maturano i primi aspetti del fenomeno del divismo, creato

dalla collaborazione tra industria cinematografica e informazione. Rodolfo Valentino, culmine del

fenomeno del divismo, fu il primo a suscitare veri e propri deliri di folla. Il divismo degli anni ’20

propone ancora figure molto trasgressive, seduttrici ambigue e uomini tenebrosi. Negli anni ’30 si

cercherà di addomesticare queste immagini e renderle più conformiste.

Il primo genere fu quello delle comiche slapstick, che univa l’assurdità e il nonsenso delle

farse popolari e del circo equestre e in più sviluppava una specifica caratteristica: la velocità. In un

certo senso è un cinema sovversivo, dove le piccole cattiverie erano all’ordine del giorno: torte e

gelati finivano nelle scollature delle signore, gli uomini finivano sempre in mutande ed i poveri

venivano consolati nel vedere i ricchi derubati e beffati. Viene creato un vortice sconnesso di

movimento anarchico, un mondo irreale.

Ma questo cinema non è solo sovversivo, è il laboratorio in cui nasce il linguaggio

cinematografico giocando con il montaggio, il movimento, i trucchi e gli effetti speciali. Le prime

comiche sono tutte una corsa indiavolata in cui l’importante è solo il ritmo. Il più grande regista di

queste prime comiche fu Mack Sennett, pseudonimo di Michael Sinnott, attore, sceneggiatore,

regista e produttore cinematografico canadese naturalizzato statunitense. Sulla sua lapide, nel

cimitero di Holy Cross a Culver City dove riposa, oltre all'anno di nascita e di morte compare un

epitaffio: Beloved King of Comedy.

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Charlie Chaplin fu senz'altro l'autore più conosciuto del genere. La sua fama era ormai

internazionale, quando si unì, nel 1919 alla United Artists. Sarà con questa casa che Chaplin

distribuirà tutti i suoi lungometraggi. Se molte pagine sono state scritte sul personaggio di Charlot,

meno numerose sono state le analisi condotte sugli aspetti tecnici e linguistici del suo cinema, sul

Chaplin come regista. Egli scriveva, dirigeva, interpretava, montava, produceva i suoi film e ne

scriveva le musiche. Il monello, del 1921, fu il suo primo lungometraggio in cui interpreta il suo

personaggio di sempre, stavolta alle prese con un trovatello che ha raccolto neonato per strada e

di cui è divenuto un affettuoso padre adottivo.

Era l'uomo-cinema eppure lo stile della sua regia è, sotto certi aspetti, il meno

cinematografico di tutti. Ad esempio, egli colloca la macchina da presa in modo da riprendere la

scena come se gli attori agissero su un palcoscenico teatrale, l’obiettivo non manifesta mai la sua

presenza, non si sposta per seguire i personaggi. Chaplin usa sporadicamente i primi piani, poco

frequenti sono i tagli di montaggio. Il suo cinema non mette al centro né la regia, né il montaggio,

ma l'attore. Tutto sul set deve essere predisposto affinché la sua perfomance risulti intelligibile

anche ad un bambino. Questo stile lineare ed asciutto, che Chaplin deriva dall'opera di Max

Linder, è, nonostante l’apparente leggerezza, il frutto di un lavoro molto meticoloso e curato in

ogni dettaglio. Chaplin arrivava a ripetere centinaia di volte una stessa scena finché non riusciva

ad eseguirla alla perfezione.

Con Chaplin si scopre la grazia nel cinema comico. Chas è la prima maschera di Chaplin, il

mascalzone elegante e dispettoso, da questa maschera nasce Charlot, il povero e battagliero

vendicatore degli oppressi, vittima indifesa che si ribella e riesce a vincere. Nelle opere di Chaplin,

tutto il materiale grezzo delle comiche di Sennett diventa un balletto, lotte fughe inseguimenti

diventano una danza. Chaplin prima di incontrare Sennett era un ballerino della pantomima a

Londra, aveva imparato le caricature da sua madre e il meccanismo del clown dal circo. Il

meccanismo del clown consiste nel piccolo, debole e goffo che nasconde dentro di sé un vero e

proprio eroe. Questo meccanismo di risarcimento simbolico viene praticato in tutti i suoi film. La

comicità di Chaplin è sempre tragica oltre che comica. Chaplin è il vero padre del montaggio

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veloce, nel suo primo film maturo La cura (1917), in soli 19 minuti ci sono ben 181 inquadrature. I

suoi film quindi non sono soltanto una danza del protagonista, ma una vera e propria danza della

cinepresa. Dopo la danza filmica sorretta da un debolissimo impianto narrativo, Chaplin passa al

melodramma sentimentale e sociale (La febbre dell’oro, Tempi moderni).

Dopo il cortometraggio Il pellegrino (1923), Chaplin tornò ancora alla regia di un

lungometraggio con La febbre dell'oro (1925). Il film contiene la celebre scena in cui vediamo il

poco fortunato cercatore d'oro, sconvolto dalla fame, cucinarsi e magiare una scarpa. Non è lo

strano cibo con cui Charlot si sfama che ci va ridere, ma l'estrema dignità ed eleganza con cui agli

esegue ogni gesto dalla preparazione della pietanza: controlla il tempo di cottura, apparecchia la

tavola in maniera impeccabile, fa uso delle posate proprio come prescritto dal galateo. Egli si

sforza di mantenere la sua dignità anche davanti al più atavico e terribile dei bisogni umani: la

fame. Noi ridiamo, ma c'è del tragico che si insinua in questa scena apparentemente così comica.

La stessa commistione di tragico e comico la troviamo nell'ultimo lungometraggio di

Chaplin realizzato e nel periodo del muto: Il circo (1928). Qui il vagabondo sarà assunto a lavorare

in un circo dove si innamorerà di una trapezista. Questa è la figlia del padrone che Charlot con

ogni mezzo, suscitandoci le più tenere risate, tenterà di difendere dalle angherie del padre. Ma

alla fine, se l'amore trionfa, non è per il vagabondo. Egli rinuncerà alla donna che ama affidandola

al giovane equilibrista Rex. Nell'ultima scena del film, Charlot resta seduto al centro della rotonda

lasciata vuota dal circo. Per questo film Chaplin ricevette il Premio Oscar alla carriera, nella prima

edizione degli stessi.

Se Chaplin lavorava per rendere invisibile la macchina da presa, Buster Keaton mette in

scena il cinema stesso. Elementi metalinguistici compaiono in molti suoi film ed in particolare in The

Playhouse, Sherlock Jr. O in The Cameraman.

Egli produce un cinema ancora più astratto di Chaplin, che è pura musica dello spazio e

del tempo. Keaton è anche esercizio continuo di logica pura. Buster, il suo personaggio, è la

maschera dell’inettitudine, in realtà frutto di un’altissima intelligenza e correttezza morale. Il

protagonista si confronta e lotta contro il mondo reale. Questo confronto è sempre basato su

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somiglianze e analogie ingannevoli. L’arrivo del sonoro lo rovinerà perché nel suo cinema tutto

basato sui giochi visivi la parola non ha importanza.

Chaplin e Keaton sono i grandi maestri del comico di questi anni mentre Erich Von Stroheim

è il maestro del tragico. Stroheim aveva lavorato come attore con Griffith, dal quale aveva

ereditato una concezione di arte come grandiosa e colossale, sulla messa in scena accuratissima

e sfarzosa. Lottò per il diritto dell’autore come padrone assoluto del film. I suoi film sono storie

provocanti e crudamente sensuali che sfidano il perbenismo e l’ipocrisia della borghesia

americana e europea, nonché la falsa generosità dei produttori di Hollywood.

Per Stroheim la profondità di campo diventa lo strumento principale per sviluppare i

contrasti all’interno dell’inquadratura: se il primo piano sembra lieto, spesso lo sfondo è tetro o

terrificante. In questa esaltazione dei conflitti all’interno dell’inquadratura Jean Renoir e Orson

Welles saranno i suoi eredi. La sua grande lezione sarà l’osservazione crudele dei volti e dei corpi.

Mentre in America matura il modello di cinema narrativo, in Europa alcuni artisti

preferiscono ritornare agli aspetti visivi del cinema, trascurando il racconto.

La vita del ‘900 cambiava rapidamente grazie alla diffusione delle macchine e dei vari

mezzi di trasporto meccanici: treni, automobili, aeroplani. Le avanguardie europee degli anni ’20

sono quasi tutte affascinate dal tema e dal grande sogno della macchina. Il corpo umano stesso,

e l’occhio in particolar modo, potevano venir considerati come delle macchine. A lanciare il

sogno di rivoluzionare la vita attraverso le macchine sono i futuristi italiani insieme alle avanguardie

francesi del cubismo e del dadaismo che scompongono il mondo e il linguaggio secondo forme

geometriche. Ci sono poi anche le avanguardie russe e quelle tedesche. Tutte le avanguardie si

allontanano da un modello narrativo di cinema e propongono una frantumazione dei modelli

conosciuti, un’arte che scandalizza e trasgredisce la morale borghese.

Nel 1909 Marinetti insieme ad altri artisti scrive il manifesto del futurismo; nel 1916 apparirà

anche il Manifesto della Cinematografia Futurista, secondo il quale il cinema era da considerarsi

futurista per natura poiché privo di passato e di tradizioni. I futuristi proponevano un cinema di

viaggi, di caccia e di guerre. Sete di novità e rifiuto della bellezza tradizionale e anche la ricerca di

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un linguaggio nuovo. I futuristi capiscono subito il potere dissacrante dei trucchi cinematografici e

del montaggio. Anche Marinetti realizzò un film nel 1916: Vita futurista, di cui rimane soltanto

qualche fotogramma. I futuristi adoravano il cinema comico popolare che celebrava il movimento

e il montaggio allo stato puro.

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Indice

1. DAL VAUDEVILLE AL CINEMA PEDAGOGICO ....................................................................................... 3


2. LA FINE DEI NICKELODEON E IL NUOVO PUBBLICO .............................................................................. 5
3. LA MESSA IN SCENA CINE-TEATRALE ..................................................................................................... 8
BIBLIOGRAFIA ................................................................................................................................................. 10

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1. Dal vaudeville al cinema pedagogico

Gli autori di film continuano essenzialmente a rivolgersi agli spettatori del vaudeville, genere

teatrale nato in Francia a fine Settecento che indica le commedie leggere in cui alla prosa

vengono alternate strofe cantate su arie e melodie conosciute.

Di contro, un gran numero di pellicole pretende di intervenire “educativamente” su questa

tipologia di spettatori approdata in città, rappresentata come rozza, leggera e con l’immigrato

rappresentato come lo “straniero”, disegnandone sullo schermo un’immagine negativa e

ideologicamente viziata.

In Hot Mutton Pies (Biograph, 1902), per esempio, un cinese, all’angolo della strada, vende

pasticci di carne apparentemente di montone. I clienti, dopo aver scoperto che in realtà sono fatti

di carne di gatto, lo rincorrono. La didascalia recita “questa gente mangia proprio di tutto”.

Oppure, in Skyscrapers (Fred A. Dobson, 1906) un immigrato italiano rissoso, perverso e

traditore, “Dago”, si vendica del suo caporeparto colpevole di averlo licenziato, dopo aver

provocato una lite. L’operaio disonesto ordisce un intrigo ma naturalmente alla fine del film viene

punito, ristabilendo l’ordine e la verità.

In un altro film dell’epoca, The Heathen Chinese and the Sunday School Teachers

(Biograph, 1904) alcuni cinesi, obesi gestori di una lavanderia e assidui frequentatori di una fumeria

d’oppio, subiscono un tentativo di “umanizzazione” da parte di alcune insegnanti di catechismo.

Fu però il fondatore e primo presidente della Paramount, Adolph Zukor, un a imprimere una

svolta alle sale cinematografiche. Zukor, un immigrato ungherese, aveva iniziato la sua carriera nel

cinema a Brooklyn, come esercente di un nickelodeon.

Per migliorare la qualità del pubblico cinematografico, Zukor e gli altri proprietari di sale

intervennero in maniera significativa. Costruirono cinema più confortevoli e lussuosi nello stile dei

country club borghesi, spesso a fianco di un grande magazzino o vicino ad una scuola. In questo

modo le donne che facevano spese, o che andavano a prendere i figli, potevano entrare e

vedere lo spettacolo.

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Nel 1908, in numerose sale il prezzo del biglietto passa dai tradizionali 5 cents a 10 e anche

20 cents.

Per riempire i cinema e attirare le famiglie più agiate le sale si dotano di ushers (maschere)

in uniforme. La squadra di maschere viene istituita per intimidire il pubblico più popolare e rissoso e

impedire ogni forma di disturbo ai danni della “gente per bene”.

Per venire incontro alle esigenze di questo nuovo pubblico, nel Massachusetts viene persino

istituita una legge, che proibisce alle sale di proiettare immagini per più di due minuti consecutivi al

fine di non affaticare troppo gli occhi della clientela borghese.

Ma i cambiamenti più incisivi riguardano i contenuti delle pellicole proiettate. I soggetti

vengono adattati per il pubblico puritano del vaudeville, per i professionisti con mogli e figli al

seguito. Si importano film dall’Europa (che negli Stati Uniti è sinonimo di qualità) di contenuto

storico o religioso, come Vie et Passion de Notre Seigneur Jésus-Christ proiettato da Zukor a Newark

nel 1907, ideali per partire alla conquista di un nuovo mercato.

Tra il 1906 e il 1909, inoltre, il cinema comincia ad avvertire la pressione dei moralisti e a

praticare una forma di autocensura che durerà per più di cinquant’anni. Secondo molti, lo sforzo

di individuare ciò che è più opportuno reprimere, in nome del “buon gusto” e dei valori borghesi,

produce un vero e proprio occultamento del reale.

Molti cronisti dell’epoca, tra cui il celebre W. Stephen Bush, scrivono che si tratta di una

forma di protezione verso le classi lavoratrici contro il male impunito, l’oscenità e la violenza. In

realtà, si tratta soprattutto di non turbare eccessivamente i “nuovi clienti”. Le pellicole che

mostrano crudamente una società urbana dominata dalla criminalità sono un pugno allo stomaco

per gli spettatori benpensanti.

Di conseguenza, la produzione preferisce puntare su una drammaturgia rassicurante, sulla

idealizzazione di un ordine familiare e comunitario “perfetto”, solo momentaneamente turbato da

qualche evento drammatico. La conquista di questa importante e prestigiosa fetta di pubblico fu

un passo fondamentale perché il cinema divenisse una grande e florida industria occorreva, infatti,

la costruzione di un pubblico di massa.

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2. La fine dei Nickelodeon e il nuovo pubblico

L’era dei nickelodeon volge al termine: il nuovo pubblico chiede film più lunghi, storie

avvincenti, volti e corpi riconoscibili e fascinosi.

La svolta arriva per merito di David W. Griffith, di cui Peter Bogdanovich ha detto: “Se non

fosse stato per lui il cinema non sarebbe mai uscito dall’infanzia”. Tra il 1907 e il 1913 Griffith diresse

all'incirca 450 cortometraggi per la casa di produzione Biograph, che abbandonò in seguito al

rifiuto della casa di produzione di superare il limite delle due bobine e a quello di inserire il nome

del regista e degli attori nei titoli di testa.

Nel 1914, il regista americano realizza per la casa di produzione Mutual la sua opera più

nota, The Birth of a Nation. Il film viene girato utilizzando 12 bobine (circa 150 minuti) stravolgendo

in tal modo i tradizionali programmi produttivi dell’epoca. Non solo, ma utilizza tecniche per allora

assolutamente innovative, come il cross-cutting (montaggio incrociato), il close-up (una tecnica di

zoomata dal campo largo al particolare) o la ripresa in movimento. A lui si deve l’effetto last

rescue, il salvataggio all’ultimo minuto, l’“arrivano i nostri” abbondantemente usato in numerosi film

d’oltreoceano.

Questo film rappresenta la summa di tutta l'evoluzione linguistica finora compiuta dal

linguaggio cinematografico. La macchina da presa di Griffith passa con estrema agilità di scena in

scena, di personaggio in personaggio, in una dinamica e ben calibrata alternanza di inquadrature

larghe e strette, coglie la scena da numerosi punti di vista, sembra essere dappertutto nello stesso

momento. Questo continuo spostarsi dell’obiettivo fornisce al film un ritmo straordinariamente

fluido.

È pur vero che il film mostra anche numerosi elementi discutibili a cominciare dalla

sceneggiatura stessa, avvelenata dalle inaccettabili tesi razziali del reverendo Dixon. Si riscontra

inoltre un'eccessiva drammatizzazione sia nella storia che nei personaggi privi di spessore

psicologico, Griffith divide troppo nettamente e con estrema superficialità i buoni dai cattivi, il

bene dal male, il nero dal bianco.

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Ma pur considerando tutti questi difetti Nascita di una nazione resta un capolavoro, l'opera

che segna il passaggio dal cinema delle attrazioni al cinema classico. Confrontandolo

con Cabiria, uscito meno di un anno prima, potremmo renderci conto della sua estrema

modernità. Nel film di Pastrone, infatti, è ancora prevalente la volontà di “mostrare”, di stupire lo

spettatore con immagini spettacolari, nel film di Griffith prevale invece la volontà di “raccontare”,

di coinvolgere lo spettatore attraverso una narrazione chiara, lineare e ben ritmata. Con Nascita di

una nazione finisce un vecchio modo di fare cinema e se ne inaugura una nuova forma.

Probabilmente il peso di questo film nel storia del cinema non sarebbe lo stesso se Nascita

di una nazione non avesse ottenuto quell'enorme successo pubblico che ebbe. Le polemiche e le

violente reazioni che il film suscitò per il modo negativo in cui rappresentava i neri d'America ed

esaltava l'attività del Ku Klux Klan, lungi dal nuocergli ebbero l'effetto di portare ancora più

spettatori nelle sale. Il record d'incassi registrato da Nascita di una nazione verrà battuto solo molti

anni più tardi da Via col vento (un altro film sulla guerra civile americana).

L’opera di Griffith appare come un’apologia della segregazione, di cui tenta di fornire, da

uomo del Sud, radici e giustificazioni storiche. Anche se accompagnato da vivaci polemiche da

parte degli anti-razzisti, è un successo straordinario. “Per la prima volta il cinema produce un

evento culturale e politico capace di raccogliere l’attenzione di tutto il paese lo si potrà criticare,

condannare, ma non se ne potrà prescindere” (Umberto Dante).

Il fiume di denaro che il film riversò nell'industria cinematografica americana la liberarono

dai suoi complessi di inferiorità rispetto alle cinematografie europee. Nascita di una

nazione dimostrò che l'investimento di importanti capitali poteva essere ben ripagato anche dal

solo mercato nazionale. Il colossal di Griffith non fu, infatti, distribuito in Europa se non a guerra

finita.

Con la Triangle, Griffith diresse un solo film: il suo secondo e successivo

capolavoro Intolerance. A spingere Griffith a dedicare un film al tema dell'intolleranza erano state

le violente polemiche scatenante da Nascita di una nazione. Per affrontare questo soggetto

astratto, Griffith mette a confronto, attraverso il montaggio parallelo, quattro diverse storie lontane

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nel tempo e nello spazio: la caduta di Babilonia, la passione di Cristo, la strage degli ugonotti nella

notte di san Bartolomeo e una storia moderna ambientata di una città americana.

Per l'episodio babilonese, ispirato ai colossal italiani, Griffith fece erigere, lungo il Sunset

Boulevard, un enorme complesso scenografico che rappresentava la città di Babilonia. Imitando

Pastrone, Griffith ricorre, soprattutto in questo episodio, all'uso di gru e carrelli, e perfino di palloni

aerostatici per effettuare le riprese aeree, ma nel suo cinema i movimenti di macchina non

acquisiscono una vera valenza espressiva, Griffith se ne serve soprattutto per sfoggiare le sue

mastodontiche e costosissime scenografie.

Per realizzare questa titanica e ambiziosissima produzione furono, infatti, necessari capitali

enormi: Griffith vi investi tutto il capitale guadagnato con Nascita di una nazione e reduce dal

grandioso successo del suo film precedente concentrò su di sé l'attenzione della stampa e dei

media fin dalle prime fasi di lavorazione del film. Per la prima volta, a balzare agli onori della

cronaca non era una star o un marchio di produzione, ma un regista.

Intolerance poté finalmente uscire nelle sale nel settembre del 1916.

Il film è senza dubbio un'opera malata di gigantismo ed autocompiacimento, ma che resta

pur sempre, almeno nella sua concezione originaria, estremamente innovativa: in questo film il

montaggio non serve più soltanto a raccontare, ma ambisce a stimolare la riflessione nello

spettatore ed a persuaderlo moralmente. I primi a rendersi conto della portata rivoluzionaria di

questo film furono i registi sovietici, ed in particolare Sergej Ėjzenštejn, che lavoreranno per

realizzare un cinema utile ad istruire e formare lo spettatore.

Ad Intolerance rispose Thomas Harper Ince che diresse per la Triangle Civilization,

un'allegoria pacifista con la quale il regista attraverso la quale il regista proponeva il tema della

pace e della fratellanza particolarmente sentito quegli anni negli Stati Uniti che intendevano restar

fuori del conflitto che stava insanguinando l'Europa. Ma anche quest'opera, troppo pretenziosa, si

rivelò un insuccesso.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da
copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).

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3. La messa in scena cine-teatrale

Se Griffith segnò lo sviluppo del linguaggio cinematografico soprattutto attraverso l'uso del

montaggio, altri registi come Cecil B. DeMille o Maurice Tourneur ebbero una forte influenza sui loro

contemporanei per quel che riguarda altri aspetti della messa in scena. Cecil B. DeMille,

drammaturgo mancato, introdusse nel cinema alcune soluzioni linguistiche, derivate dalla sua

esperienza teatrale, che seppe con molta intelligenza integrare alle peculiarità della nuova arte. Il

suo film I prevaricatori (1915) influenzò profondamente il modo di utilizzare le luci di scena.

DeMille utilizzò lampade ad arco, comunemente in uso in teatro, che gli permettevano di

illuminare porzioni di scena lasciandone in ombra altre. La drammaticità di molte scene di questo

film è dovuta proprio al sapiente uso di contrasti e agli effetti di chiaroscuro. Da questo momento,

tutti i maggiori studi di Hollywood cominciarono ad attrezzarsi con diversi tipi di lampade con i quali

ottenere gli effetti più vari.

Nel successivo Carmen (1915), film che riscosse un grande successo negli Stati Uniti, DeMille

mostrava di saper dirigere i suoi attori con molta perizia, ma anche di porre gran cura nei costumi e

nelle scenografie e di saper sfruttare i primi piani in maniera molto più intensa ed espressiva. I suoi

personaggi acquisiscono quel rilievo psicologico ed emotivo che non avevano quelli di Griffith.

Anche Maurice Tourneur era un uomo di teatro passato al cinema. Dopo un esordio in

sordina ebbe la possibilità di affermare il suo talento dirigendo Mary Pickford1 in film come The

Pride of the Clan o The Poor Little Rich Girl. In entrambi questi film del 1917, dava prova di saper

usare l'illuminazione di scena in maniera anche più sofisticata di DeMille, insistendo soprattutto sui

toni cupi con le quali sapeva creare atmosfere particolarmente ricche di pathos.

Nel 1918 realizzò tre film tratti da preesistenti opere teatrali: The Blue Bird, Prunella, A Doll's

House, tratto dal lavoro teatrale Casa di Bambola di Henrik Ibsen. È in queste opere che Tourneur

1 Conosciuta come "Fidanzatina d'America", "Piccola Mary" e "La ragazza con i riccioli", la sua fama internazionale fu
determinata dalle immagini in movimento. La sua fu una figura decisiva nella storia delle celebrità moderne e le sue
richieste contrattuali furono determinanti nella struttura dell'industria hollywoodiana, essendo una delle più importanti attrici
e produttrici del cinema muto.

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esprime al meglio la sua poetica, in particolare con The Blue Bird. In questa fiaba che si svolge in un

mondo immaginario Tourneur utilizza scenografie estremamente stilizzate tratte dal teatro

d'avanguardia. La sua minuziosa ricerca formale trasforma ogni scena in un'opera pittorica

preannunciando l'esperienza dell'espressionismo tedesco ed influenzando fortemente i registi

americani.

Intanto la Prima guerra mondiale volgeva al termine. Il cinema americano aveva ormai

raggiunto la sua piena maturità linguistica, mentre l'industria si era andata strutturando in un solido

sistema produttivo e distributivo, avvantaggiata anche dal fatto che, durante gli anni della guerra,

le produzioni europee aveva subito una battuta d'arresto. I film prodotti negli Stati Uniti poterono

invadere i mercati del Vecchio Continente, dove si imposero grazie alle qualità tecniche e

linguistiche ormai acquisite.

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Indice

1. IL GENERE EPICO-STORICO (1905-1915) ............................................................................................... 3


2. INEMATOGRAFIA E FASCISMO ............................................................................................................... 8
3. IL PASSAGGIO AL SONORO ................................................................................................................. 12
BIBLIOGRAFIA ................................................................................................................................................. 13

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1. Il genere epico-storico (1905-1915)

In Italia la cinematografia si sviluppa più lentamente rispetto ad altri Paesi europei.

Durante le feste di Pasqua del 1897 un fotografo francese, Henri Le Lieure, aprì con il socio

italiano Luigi Topi una sala di proiezioni a Roma, avviando così, dopo le prime proiezioni avvenute

l'anno precedente a Milano e Torino, la diffusione del cinema in Italia. In pochi anni numerosi

produttori diedero inizio a una vera e propria attività cinematografica; tra questi, a Torino, Rinaldo

Arturo Ambrosio che, a partire dal 1906, film comici e drammatici che avrebbero riscosso grande

successo anche all'estero.

Sempre a Torino c’era l'altra importante casa di produzione, la Film artistica Gloria.

A Roma, invece, c’erano la Film Ambrosio, la Cines di Filoteo Alberini e Dante Santoni; a

Milano, aprì alla Bovisa i suoi stabilimenti Luca Comerio per poi cederli presto a un gruppo di

aristocratici che sarebbero andati incontro a un fallimento con l'ambizioso Excelsior (1913, diretto

dallo stesso Comerio).

C'era Napoli, che applaudiva con entusiasmo i film di Elvira Notari per la Film Dora,

modellati sulla forma di teatro popolare della canzone sceneggiata.

Dal 1905 la casa di produzione romana Cines inaugurò un genere che fece la fortuna dei

cineasti italiani e che venne esportata in tutto il mondo con grande successo il film storico in

costume, che sarà poi detto peplum.

Il primo film italiano ad essere proiettato in pubblico fu La presa di Roma (1905) di Filoteo

Alberini. Il film venne proiettato proprio innanzi a Porta Pia la sera del 20 settembre 1905, in

occasione dell'anniversario della Presa di Roma. Di quest'opera non sopravvivono però che pochi

frammenti.

A partire dal 1905 la cinematografia italiana conobbe un momento di rapida crescita e

consolidamento anche a livello mondiale. Case di produzione erano già attive a Torino ed a

Roma, ma da questo momento si assiste alla crescita del loro numero. Se molti film italiani coevi

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appaiono remake di film francesi dell'epoca, ciò si deve alla mancanza di tecnici specializzati che

indusse le produzioni italiane ad assumere personale dall'estero e soprattutto dalla Francia.

Dall’estero non vennero assunti soltanto tecnici, ma anche diversi artisti tra i quali

soprattutto interpreti del comico, genere che stava diventando sempre più popolare in Francia.

Nel 1908, ad esempio, la Italia Film di Torino assunse dalla Pathè l'attore comico André Deed, che

andò a vestire i panni di Cretinetti. Il successo dei film di Cretinetti spinse le case rivali della Itala

Film a produrre altre serie comiche, come quelle dell'Ambrosio Film basate sul personaggio di

Robinet, interpretato dallo spagnolo Marcel Fabre, o quelle di Tontolini e Polidor, interpretate

da Ferdinand Guillaume e realizzate dalla Cinse.

Benché restassero inferiori, per qualità ed originalità, ai modelli francesi ai quali si

rifacevano, queste serie comiche furono molto popolari all'epoca. Prodotte in maniera piuttosto

economica esse si rivelarono particolarmente redditizie consentendo ai produttori italiani di

investire maggiori risorse nei film di genere epico-storico, costruiti ad imitazione dei film d'arte che si

andavano producendo in Francia nello stesso periodo.

Nel 1908 l’Ambrosio Film di Torino produceva il primo film italiano di genere epico-storico: Gli

ultimi giorni di Pompei, il quale riscosse un enorme successo anche oltre i confini nazionali. Due anni

dopo un altro grande successo arrivò con La caduta di Troia, un film in tre rulli (un'enormità per

l'epoca) diretto da Giovanni Pastrone. In quello stesso anno uscivano nelle sale L'Odissea e

il primo adattamento cinematografico de L'inferno di Dante prodotti dalla Milano Films. A

differenza che nel resto d'Europa, in Italia, il cinema ebbe vita breve come spettacolo itinerante.

Sale cinematografiche stabili si diffusero presto in tutto il Paese e si rivelarono particolarmente

adatte alla visione di film di lungometraggio, formato che in Italia poté affermarsi prima che

altrove.

Nel 1913 il Quo Vadis? (1912) diretto da Enrico Guazzoni, tratto dall'omonimo romanzo

di Henryk Sienkiewicz, diventava un blockbuster internazionale. Questo film poté infatti essere

distribuito anche negli Stati Uniti, smantellato ormai l'oligopolio della MPPC che impediva l'accesso

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al mercato ai lungometraggi ed a i film stranieri. Il successo di questo film fece sì la cinematografia

italiana venisse internazionalmente identificata con le grandi produzioni di genere epico-storico.

Nel 1914 Giovanni Pastrone poté così dirigere uno dei più grandi kolossal della storia del

cinema: Cabiria. Ambientato nella Cartagine del III secolo, il film aveva una durata di circa tre ore

e per girarlo furono impiegate centinaia di comparse, effetti speciali, scenografie mastodontiche,

perfino degli elefanti. Buona parte di questi effetti speciali, tra cui l'eruzione dell'Etna, furono

realizzati da Segundo de Chomón a cui fu affidata la direzione della fotografia. La sceneggiatura

venne invece firmata da Gabriele D'Annunzio.

Nei manifesti pubblicitari del film, D'Annunzio è accreditato come l'autore del film,

ugualmente nei titoli di testa dove Giovanni Pastrone viene indicato semplicemente come "regista"

con lo pseudonimo di Piero Fosco. Questo termine giunse al cinema dal teatro. In ambito teatrale si

dà maggiore importanza all'autore del testo rispetto al regista che lo mette in scena. Così, nell'Italia

di quelli anni, accadeva che la paternità artistica del film venisse attribuita allo sceneggiatore, o

anche al soggettista, piuttosto che al regista. Nel caso di questo film, Giovanni Pastrone pagò

profumatamente un personaggio allora famoso come D'Annunzio per poterne sfruttare il nome a

fini pubblicitari. Questi, in realtà, si limitò ad inventare i nomi di alcuni personaggi e a supervisionare

le didascalie, redatte dallo stesso Pastrone in perfetto stile d'annunziano.

Cabiria è ambientato durante la Prima Guerra Punica (terzo secolo A.C.). Cabiria è una

bambina, figlia del ricco Bacco, che insieme alla sua balia, Croessa, viene rapita durante

un'eruzione dell'Etna, sfruttando il caos della situazione. Cabiria viene venduta alla città di

Cartagine come vittima da sacrificare nel tempio di Moloch. Fulvio Axilla, un romano che vive a

Cartagine, insieme al suo schiavo, Maciste, riescono a riscuoterla e salvarla dall'amaro destino, per

consegnarla alle cure della regina Sophonisba. Dieci anni dopo, trascorse tante guerre e alleanze,

Cartagine viene conquistata dai Romani e Cabiria ritorna a casa con Axilla.

L'importanza di Cabiria nella storia del cinema è legata soprattutto al largo ricorso che

Pastrone fece del carrello e della profondità di campo, dovuti soprattutto all'esigenza di

inquadrare e valorizzare le imponenti scenografie realizzate. Il film contribuì una volta per sempre

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ad affermare la validità dei movimenti di macchina che da allora in poi cominciarono ad essere

sempre più frequenti e complessi. Griffith si ispirò proprio al carrello “alla Cabiria” per la

realizzazione dei suoi più celebri lungometraggi.

Nonostante il genio di Pastrone e il successo internazionale del film, il ruolo del regista

resterà, in Italia, una figura di secondo piano. Oltre alla diffusa abitudine di attribuire allo

sceneggiatore la paternità dell'opera cinematografica, il regista è anche sottoposto alle esigenze

e al volere dei produttori, come avveniva anche nel cinema americano coevo, ma in Italia, più

che altrove, il suo ruolo è scavalcato ed insidiato da quello delle grandi dive. Sono queste a

scegliere, nella maggior parte dei casi, il tipo di fotografia, l'inquadratura da effettuare e la sua

durata, il punto in cui posizionare la macchina da presa.

Francesca Bertini, Eleonora Duse, Lyda Borelli sono le attrici più celebri di questi anni ed in

comune hanno tutte una brillante carriera teatrale alle spalle. I loro film sono spesso riproposizioni

cinematografiche dei ruoli che le avevano rese celebri in teatro. In molti casi, le dive si

sostituiscono al regista. Francesca Bertini, ad esempio, rivendicherà come sua la decisione di

filmare tra le strade di Napoli alcune scene di Assunta Spina (1915), un film che potrebbe essere

considerato precursore del neorealismo. Da attrici, prediligono una fotografia che metta in risalto

la loro bellezza, pretendono scene poco tagliate e soprattutto piani larghi che le ritraggano a

figura intera, in modo che possano muoversi liberamente proprio come su un palcoscenico.

Il cinema non veniva considerato come una forma d'arte, per questo il pubblico borghese

continuava a preferirgli il teatro. La presenza di queste grandi dive, la riproposizione

cinematografica di celebri opere teatrali o letterarie, era ritenuta dai produttori un mezzo per

nobilitare il cinema e sottrarre quindi spettatori al teatro. Ciò spiega come mai i produttori

dell'epoca sostenessero con tale forza il divismo di queste attrici.

La regia dei film italiani, lungo tutto il periodo del muto, rimase pertanto primitiva, incapace

di rendersi autonoma dalle forme dello spettacolo teatrale: i primi piani sono sporadici, il

montaggio minimale e del tutto asservito ad un'esposizione narrativa lineare e priva di sorprese.

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Bisognerà aspettare il secondo dopoguerra perché il cinema italiano torni a farsi protagonista della

storia.

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2. Inematografia e fascismo

Intorno al 1923 il sistema cinematografico italiano entrò in una crisi profonda. Negli anni

Venti solo una percentuale costantemente sotto il 10% dei film in circolazione era di produzione

italiana. Mussolini, al potere dal 1922, si preoccupò nei primi anni solo dell'informazione e della

propaganda, avvalendosi in particolare dell'Istituto Luce che produsse dal 1927 una grande

quantità di cinegiornali.

Il cinema rappresenta in molti casi un efficace strumento di consenso al regime.

Per la cerimonia di posa della prima pietra dell’Istituto Luce venne allestito un gigantesco

apparato scenografico raffigurante Mussolini dietro ad una macchina da presa e la scritta: “la

cinematografia è l'arma più forte”.

Importante fu la costituzione nel 1924 dell’istituto L.U.C.E. (L' Unione Cinematografica

Educativa), la più antica istituzione pubblica destinata alla diffusione cinematografica a scopo

didattico e informativo del mondo che ben presto diviene anche uno strumento di propaganda

del regime fascista.

A partire dal 1927 in tutte le sale venivano proiettati i cinegiornali realizzati dal L.U.C.E. prima

della programmazione di intrattenimento.

Nato nel 1910, il cinegiornale si sviluppano velocemente anche sotto il regime totalitario

fascista come arma di propaganda. E’ un cortometraggio di attualità ed informazione proiettato

nelle sale cinematografiche prima dell'inizio dello spettacolo ed è caratterizzato da un taglio

generalmente documentaristico.

Della durata di circa 10 minuti, è caratterizzat da un taglio di reportage e da un elevato

ritmo di servizi.

In Italia il cinegiornale del contribuisce a formare una cultura popolare unitaria, diffonde

nuovi modelli sociali di comportamento e rappresenta un veicolo di informazione più efficace

della carta stampata in quanto in grado di raggiungere la parte meno alfabetizzata della

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popolazione nelle zone più arretrate del paese, dove, anche se in locali di fortuna o all'aperto, si

allestiscono con regolarità delle proiezioni cinematografiche.

Il cinegiornale italiano storicamente più importante e significativo è rappresentato senz'altro

da quello di regime prodotto dall'Istituto Luce tra il 1927 e il 1945. Il cinegiornale dell'Istituto Luce

segna il primo intervento diretto di un regime politico sul sistema di informazione cinematografica,

sebbene l'Istituto, a differenza di quanto accade nella Germania di Goebbels, non sia posto alle

dirette dipendenze degli organismi di governo e conservi alcuni margini di autonomia.

Il cinegiornale durante il fascismo è un misto sapiente di notizie interne, spesso tese a

celebrare il regime e la personalità del suo Duce, e di notizie internazionali, generalmente frivole,

provenienti anche dagli Stati Uniti. Non mancano però gli approfondimenti culturali, trattati in

genere in modo non completamente ideologizzato, seguendo quella che fu una certa

caratteristica di indipendenza e di autorevolezza dell'Istituto Luce.

All’inizio della guerra l'Istituto Luce produrrà fino a 4 cinegiornali a settimana e la proiezione

sarà resa obbligatoria in tutte le sale di quello che a quel tempo era l'Impero. Il lettore abituale dei

testi era Guido Notari.

I cinegiornali italiani degli anni Cinquanta e Sessanta, non più in regime di monopolio, sono

allineati su posizioni generalmente filo-governative sebbene non manchino spazi dedicati alla

opposizione. In virtù del carattere popolare la morale dei cinegiornali di questa epoca è orientata

a quella tradizionale, fortemente influenzata da quella cattolica. Gli avvenimenti di costume

riguardano generalmente il cinema e tutto il suo sistema industriale e promozionale al quale le

case produttrici di questi cortometraggi non potevano essere estranee.

Tra i cinegiornali più importanti del dopoguerra è da segnalare certamente quello prodotto

dalla Industria Cortometraggi Milano dal 1946 al 1965, meglio conosciuto come La Settimana

Incom, che si avvarrà del contributo di alcune firme prestigiose del panorama giornalistico e

cinematografico italiano. La Settimana Incom è settimanale e possiede l'impaginazione tipica di

un rotocalco, con un'ampia pagina dedicata alla mondanità e alle cronache dell'alta società.

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Per quanto riguarda i film di finzione, l'avvento del sonoro, combinata con la depressione

economica, approfondì la crisi del cinema italiano: nel 1931 si produssero solo 13 film italiani. Il

fascismo reagì alla crisi con una politica protezionistica, e in campo cinematografico cominciò a

sussidiare la produzione nazionale e a limitare la circolazione di film stranieri. Nel 1932 si inaugurò

la Mostra del Cinema di Venezia, nel 1933 nacque la Titanus Film, nel 1935 il Centro Sperimentale di

Cinematografia e nel 1937 Cinecittà. Il regime riteneva che il cinema potesse essere un potente

strumento di costruzione di consenso. La produzione di film aumentò ma non necessariamente la

loro qualità, anche per gli effetti della rigida censura fascista.

Tra i filoni cinematografici fascisti si segnala: un gruppo di film propagandistici, con Vecchia

Guardia (r. di A. Blasetti, 1933) che glorificava la marcia su Roma e lo squadrismo, mentre Lo

squadrone bianco (r. di A. Genina, 1936) e Scipione l'Africano (r. di C. Gallone, 1937) esaltavano il

colonialismo italiano. 1860 (r. di A. Blasetti, 1934) cercava di stabilire una continuità tra Risorgimento

e avvento del fascismo.

Il regime fascista dovette prendere atto che i film più scopertamente propagandistici non

avevano molto successo. Ciò favorì la produzione di film leggeri, scanzonati, di evasione, che

esaltavano la piccola borghesia e i suoi sogni di ascesa sociale. Dato che spesso in queste

pellicole si mostravano ambienti ricchi e scintillanti, il filone venne definito "cinema dei telefoni

bianchi".

Il primo successo fu La canzone dell'amore (r. di G. Righelli, 1930), che è anche il primo film

sonoro presentato al pubblico, seguito da La segretaria privata (r. di G. Alessandrini, 1931)

e T'amerò sempre (r. di M. Camerini, 1933).

Il sonoro incoraggiò il passaggio al cinema di comici del varietà e del teatro: Ettore

Petrolini, Totò, Vittorio De Sica. Quest'ultimo divenne celebre interpretando Gli uomini, che

mascalzoni... (1932), Il signor Max (1937), Grandi magazzini (1939), tutti e tre diretti da Mario

Camerini.

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Con l'inizio della Seconda Guerra Mondiale, nel 1940, la produzione cinematografica

crebbe ulteriormente, spinta dal regime. Ciò permise ad una serie di giovani registi di sperimentarsi

con opere che offrivano un più accentuato realismo: La nave bianca (r. di R. Rossellini e G. de

Roberti, 1941) e I bambini ci guardano (r. di V. De Sica, sceneggiatura di Cesare Zavattini, 1943).

La vera rottura con tutta la cinematografia precedente e l'inizio del neorealismo sono legati

al film Ossessione di Luchino Visconti (1943). Era tratto dal romanzo di J. Cain "Il postino suona

sempre due volte". Il film segue le vicissitudini di un vagabondo e della sua amante, complici

nell'omicidio del marito di lei. L'ambientazione, i costumi, la recitazione sono di un realismo

sconosciuto all'epoca. Dopo alcune discusse proiezioni, il film fu rapidamente tolto dalla

circolazione.

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3. Il passaggio al sonoro

La possibilità di sincronizzare dei suoni alle immagini risale all’origine del cinema stesso:

anche Thomas Edison aveva brevettato una maniera per aggiungere il sonoro alle sue brevi

pellicole. Ma quando i vari esperimenti raggiunsero un livello qualitativo accettabile, ormai gli

studios e la distribuzione nelle sale erano organizzati al meglio per la produzione muta, per cui

l'avvento del sonoro venne considerato inutile e fu rimandato a lungo. Lo stato delle cose cambiò

di colpo quando la Warner, sull'orlo del fallimento, rischiò lanciando il primo film sonoro, Il cantante

di jazz, del 1927 e fu un successo che superò di molto le aspettative. La tecnica venne

perfezionata ulteriormente, creando due nuove attività: il doppiaggio e la sonorizzazione.

Con il sonoro e la musica le stelle del cinema muto scomparvero e salì alla ribalta una

nuova generazione di interpreti, dotati di voci più gradevoli e di una tecnica di recitazione più

adatta al nuovo cinema.

Nei primi anni Venti si impone il concetto di film come racconto, come romanzo visivo che

trascina lo spettatore al centro del film rendendolo partecipe con l'immaginazione. Al pari della

narrativa, iniziano a emergere anche nel cinema dei generi ben precisi: l'avventura, il giallo, etc.

Questo salto qualitativo è reso possibile dall'evolversi delle tecniche del montaggio che

permettono di saltare da una scena all'altra e da un punto di vista all'altro, senza che il pubblico

resti disorientato dal cambio d'inquadratura diminuendo i momenti di pausa.

L'avvento del sonoro comportò in primo luogo una serie di problemi tecnici con i quali i

registi dovettero confrontarsi: non esistevano microfoni direzionali, né leggeri e pratici supporti su

cui collocarli, non vi era neanche la possibilità di effettuare il missaggio, cioè di poter unire diverse

tracce audio registrate separatamente in un’unica traccia. Le macchine da presa dovevano

essere chiuse in pesanti cabine insonorizzate, affinché il rumore da esse prodotto non venisse

registrato nel film, ciò limitava grandemente la possibilità di movimento e bisognava ricorrere alla

tecnica della ripresa multipla: la stessa scena veniva cioè registrata per intero, da punti di vista

diversi, da tre o più macchine da presa.

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Anna Bisogno - Lo sviluppo del cinema in Italia

Nei primi film sonori gli attori si muovono in maniera cauta e alquanto ingessata, ciò era

dovuto alle innumerevoli difficoltà tecniche che i registi incontravano sul set. Ma mano che questi

acquistavano dimestichezza con i nuovi mezzi e le nuove tecniche, gli attori poterono cominciare

a recitare in maniera più sciolta. Il sonoro mutò profondamente l'arte della recitazione

cinematografica. Nel cinema muto l'attore agiva in maniera teatrale, privo di voce, egli doveva

contare su una gestualità molto marcata. Restituendogli la parola, il sonoro esigeva ora una

recitazione sempre più naturale e realistica.

A trarre giovamento dall'avvento del sonoro, oltre al musical, fu il cinema di animazione.

Nel 1928 usciva nelle sale Dinner Time, prodotto dalla Van Beuren Studios, primo cartone

animato interamente sonorizzato. L'esperimento fu prontamente imitato da Walt

Disney con Steamboat Willie, film che segnò il debutto sugli schermi del celebre personaggio

di Topolino ed ottenne uno straordinario successo.

Fin da questo primo esperimento possiamo vedere come la Walt Disney utilizzi un

particolare tecnica di composizione musicale ottenuta sincronizzando le azioni sullo schermo con

gli effetti sonori e una musica di accompagnamento ricca di suoni onomatopeici, che

seguono punto per punto l'azione visibile sullo schermo. Questa tecnica è oggi nota come Mickey

Mousing proprio dal personaggio che la rese celebre. Il cinema di animazione si rivelò uno

straordinario campo di sperimentazione degli effetti sonori, elementi sulle prime trascurati degli altri

generi cinematografici.

Bibliografia

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Anna Bisogno - Gli anni della radio

Indice

1. UNA STORIA NATA NELL’800 ................................................................................................................... 3


2. LE ORIGINI DELLA RADIOFONIA IN ITALIA ............................................................................................. 6
3. IL PIACERE DELLA MUSICA IN CASA ...................................................................................................... 9
4. RADIO E FASCISMO ............................................................................................................................... 10
BIBLIOGRAFIA ................................................................................................................................................. 14

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Anna Bisogno - Gli anni della radio

1. Una storia nata nell’800

L Estate 1895. Marconi scopre che la distanza di ricezione aumenta collegando a terra una

sfera dell’oscillatore mediante una piastra metallica interrata e mettendo l’altra sfera in

collegamento con una lastra o con parallelepipedi metallici posti in alto ed isolati da terra. Più la

lastra metallica viene alzata, maggiore è la distanza da cui il segnale viene raccolto. Marconi

scopre così il potere irradiante del complesso “antenna-terra” e, dopo ulteriori perfezionamenti,

nell’estate del 1895 è in grado di inviare un segnale che viene ricevuto oltre la collina dei Celestini,

posta dietro a Villa Griffone (Sasso Marconi, BO), ad una distanza di circa 1.800 m. dal

trasmettitore, fra due punti non visibili fra loro. La ricezione del segnale viene confermata dal

fratello Alfonso con un colpo di fucile. Nasce così la radio, intesa come telegrafia senza fili.

Tra fine ‘800 e inizi ‘900 furono realizzate le prime radio, prevalentemente utilizzate in campo

radiotelegrafico a lunga distanza, ma non solo. Significativo è il loro impiego per il salvataggio dei

naufraghi del Titanic nel 1912.

Il 23 febbraio 1920 Guglielmo Marconi, dalla stazione di Chelmsford in Cornovaglia (nella

zona sud-occidentale della Gran Bretagna), trasmise quello che forse è il primo messaggio

radiofonico della storia e il successo di quella invenzione ebbe immediato riscontro nei paesi

anglosassoni. Già dalla fine dell’800 lo studioso italiano aveva ottenuto ottimi risultati con la

realizzazione del telegrafo senza fili, ma quell’esperimento segna un punto di svolta nella storia

della comunicazione. Perché l'Italia comprendesse gli effetti di quella invenzione sarà necessario

ancora del tempo, benché a tutti ne fosse chiara la portata rivoluzionaria.

Guglielmo Marconi è l’inventore della radio non solo perché ha realizzato un certo

apparecchio o perché ha depositato per primo un brevetto, ma soprattutto perché ha portato

avanti un’idea, ha creato un sistema e l’ha via via perfezionato per tutta la sua vita, partendo

dagli esperimenti del 1895 a Villa Griffone fino ad arrivare alla radiotelegrafia, alla radiodiffusione,

alla radiotelefonia e successivamente alla televisione. In senso lato l’invenzione della radio evolve

ancor oggi: basti pensare al telefono cellulare, alle ultime imprese spaziali su Marte e intorno a

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Saturno, alla televisione digitale o a chissà quali altre applicazioni in futuro, che hanno in comune il

fatto di essere rese possibili da nuove modalità per la trasmissione di segnali per mezzo delle onde

elettromagnetiche, in una parola dalla radio.

Agli inizi del 1900 Marconi è uno dei personaggi più famosi in tutto il mondo. Dopo la prima

guerra mondiale il numero dei radiofili in tutto il mondo è circa un migliaio, non esiste nessun

servizio di radiotrasmissione e la maggior parte delle emissioni sono statali e nella quasi totalità dei

casi si attuano mediante segnali telegrafici. La svolta avviene tra il 1922 e il 1923: negli USA le

stazioni radiotrasmittenti passano da 30 a 540. In Europa il servizio di radiodiffusione circolare

(broadcasting) inizia nel 1921.

Si configurano sostanzialmente due modelli di radiofonia: uno europeo, l’altro statunitense.

L’Europa scelse il regime di monopolio: una scelta di necessità: in nessun paese c’erano infatti,

all’epoca, le condizioni economiche – e anche politiche - per una radiofonia privata e

commerciale, come esistevano invece negli Stati uniti.

Dopo il fallimento di varie iniziative privatistiche, la scelta di un broadcasting radiofonico di

iniziativa statale era l’unica perché l’Europa potesse avviare, come sembrava indispensabile,

trasmissioni radiofoniche come avveniva in America. Di qui il naturale corollario della proprietà

statale delle frequenze; lo Stato poteva riservarne l’uso a sé stesso o a terzi attraverso l’utilizzo della

concessione, soggetto a molte condizioni e obblighi e, soprattutto, soggetto a revoca. Nel 1922

nasce la British Broadcasting Company (BBC) privata; diventerà poi un ente pubblico (1927) con il

nuovo nome di British Broadcasting Corporation, ma mantenendo la stessa sigla, con l’intento di

essere “un servizio nazionale nell’interesse pubblico avendo come obiettivo quello di educare,

informare, intrattenere”, secondo le parole del suo energico primo direttore generale John Reith.

Nello stesso anno, Reith lanciò “Radio Times”, la rivista della BBC interamente dedicata alla

programmazione radiofonica che ebbe un successo tanto clamoroso quanto inaspettato.

L’altro modello, quello statunitense, scelse la via privata e commerciale, finanziata prima

dalla vendita degli apparecchi, poi dalla pubblicità. Nel 1926 nasceva la National Brodcasting

Company (NBC), il primo e più importante network radiotelevisivo nazionale commerciale e privato

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con sede a New York, fondata dalla Radio Corporation of America (RCA). Un’altra data, ancor più

importante, per la radiofonia americana fu il 5 novembre 1935 quando Edwin Howard Armstrong

inventò la modulazione di frequenza, dando così vita alla prima trasmissione in FM che andò in

onda dall’auditorium dell’Engineers Building di New York.

L’Italia invece diffonderà il primo annuncio ufficiale dell’Unione Radiofonica Italiana alle ore

21 del 6 ottobre 1924, trasmettendo un concerto inaugurale. La radio avrà un ruolo centrale nello

sviluppo dell’industria dell’audiovisivo in Italia, per vari ordini di motivi:

 Ha creato le basi per la diffusione dell’intrattenimento domestico, rendendo disponibili

per tutti un’ampia gamma di contenuti musicali e parlati;

 Ha introdotto nuove forme di spettacolo, anche adattando al proprio linguaggio altre

forme di spettacolo, dal teatro al romanzo, dal cinema al fumetto;

 La futura TV, medium domestico per eccellenza, nascerà all’interno delle aziende

radiofoniche e costruirà il suo successo a partire dal repertorio dei generi creato dalla

radio.

La radio consente di trasportare eventi e contenuti da ogni luogo, in ogni luogo, e nello

stesso tempo:

 Con la radio, non è più necessario essere presenti sul posto per avere esperienza di un

evento (Meyrowitz 1985);

 Con la radio, lo stesso tempo non richiede più lo stesso posto (la «simultaneità

despazializzata», Thompson 1995).

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2. Le origini della radiofonia in Italia

L’Unione Radiofonica Italiana (URI), fondata il 27 agosto 1924, è la prima società

concessionaria della radiodiffusione in Italia. L'unica stazione trasmittente è quella di Roma,

posizionata nell'attuale quartiere Parioli, allora ancora campagna. L'intento è quello di

propagandare il nuovo mezzo e nel contempo di conoscere meglio i gusti e le opinioni di un

pubblico ancora da formare. Poco dopo, tra il '24 e il '29, si comincia a trasmettere, oltre che da

Roma, anche dalle sedi di Milano (1925) da Napoli (1926) e Torino (1929). Il 27 novembre l'URI inizia

comunicazioni regolari giornaliere.

Il 6 ottobre 1924 alle 21una annunciatrice, probabilmente Maria Luisa Boncompagni, dallo

studio romano di Palazzo Corradi, legge il primo annuncio della neonata radio davanti a un

microfono detto “catafalco”: "Unione radiofonica Italiana, stazione di Roma 1-RO, trasmissione del

concerto inaugurale”. Al suo annuncio seguì l'esecuzione di un quartetto d'archi, un bollettino

meteorologico, la borsa. Alle 22.30 le trasmissioni venivano sospese.

Il 25 marzo 1924 L’URI si organizzò di diffondere per radio il discorso di Mussolini dal teatro

Costanzi di Roma (oggi Teatro dell’Opera), ma il tentativo risultò un fallimento, che incise

negativamente sulle sorti dell'’URI.

Il pubblico, all’epoca, era composto da chi chiedeva di ascoltare buoni concerti rilassanti

e chi pretendeva una trasmissione con nitidezza del suono che dimostrasse la perfezione

tecnologica dell'apparecchio. Tra i precursori, citiamo anche Radio Flori, nata a Milsno nel 1923

come stazione radiofonica sperimentale grazie a Erminio Donner Flori che, interessato a tutte le

nuove tecnologie, realizza nella propria casa un laboratorio sperimentale di radiotecnica. La

stazione Radio Flori, assemblata con apparecchiature industriali e completa di una grande

antenna sul tetto, viene impiegata per trasmettere parole e musica suonata con un grammofono.

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Il sistema radiofonico italiano incontrò notevoli difficoltà:

 La superiorità tecnica delle ditte straniere;

 La diffidenza degli altri settori dello spettacolo verso il nuovo mezzo;

 La predilezione del regime fascista per la stampa;

 L’alto costo degli apparecchi;

 L’esiguità degli abbonamenti.

Un aiuto alla diffusione arrivò nel 1926 con l'ingresso della pubblicità. Nello stesso anno

furono aperte le prime stazioni e i bollettini delle origini lasciarono il passo ai primi notiziari, costruiti

sui servizi della Stefani, l'agenzia di informazione giornalistica di Stato.

L’informazione era affidata a:

 I bollettini rappresentano la comunicazione istituzionale e autoritaria, sotto la censura

del regime; unica fonte ammessa l’Agenzia Stefani.

 I Giornali Radio furono istituiti nel 1929 quando già si era costituita l’Eiar, di cui parleremo

fra poco. Erano prodotti meno scarni dei bollettini, con un maggior numero di notizie, 6

edizioni al giorno, e una maggiore capillarità ed efficienza informativa.

 Il commento politico, dal 1933, sarà affidato a Le Cronache del Regime considerate le

realizzazioni più efficaci dell'informazione radiofonica del periodo. Nata inizialmente

come «Commento ai fatti del giorno» condotta da Roberto Forges Davanzati, la rubrica

diventerà la voce politica del fascismo. Al microfono si susseguiranno diversi giornalisti

selezionati dal regime con intenti propagandistici, e il più noto diventerà Mario Appelius

(«Dio stramaledica gli inglesi» concludeva il suo programma).

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Inoltre erano in programmazione le celebrazioni di avvenimenti del passato, discorsi politici

e, verso la fine del '26, “L'angolo dei bambini”.

Dal 1924 al 1929 la radio si afferma per lo più come strumento di evasione. Si assiste al

progressivo consolidamento della radio fascista; la radio è il medium dominante, il pubblico di

massa è soggetto alle manipolazioni di un potere politico autoritario.

Nel 1928 L’URI si trasforma in EIAR (Ente Italiano Audizioni Radiofoniche) con sede legale a

Roma e Direzione Generale a Torino. L’EIAR sarà titolare di una concessione radiofonica

venticinquennale da parte dello Stato, in regime di monopolio. Tuttavia l'alto costo degli

apparecchi, che nell'Italia dei anni Venti costavano circa 3.000 lire a fronte di un reddito medio

annuo di 1.000, ne limitava l'uso alle famiglie più abbienti.

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3. Il piacere della musica in casa

La radio entra nella casa ridefinendo spazi e tempi della quotidianità e della vita sociale. Il

momento clou è quello dello spettacolo serale: l’ascolto di un’opera teatrale, di un concerto

sinfonico, di musiche da ballo, è ora possibile senza muoversi da casa.

«Ogni casa deve avere un apparecchio. Nelle lunghe serate invernali le voci, i concerti e le

conferenze che verranno al vostro orecchio per mezzo di questo meraviglioso apparecchio

saranno il diletto e l’istruzione della vostra famiglia», recitava una pubblicità in un Radiorario del

1929.

I generi musicali più popolari erano:

 Musica lirica: genere di punta della programmazione.

 Musica leggera: operette, canzoni eseguite da orchestre della radio; trasmesse in

collegamento con sale da ballo; riprodotte su disco (dal 1930).

 Un filone italiano, più ritmato e ballabile, conquista gli ascoltatori intrecciandosi con la

passione crescente per il ballo, dentro e fuori casa; il jazz, genere inizialmente vituperato

ma apprezzato soprattutto dai giovani, esploderà nella seconda metà degli anni ’30

(swing americano).

 La canzone: il connubio tra radio e disco apre la strada ai concorsi Eiar per voci nuove;

le orchestre introducono interpreti professionali per le parti vocali e lanciano molti

cantanti dell’epoca (da Buti a Rabagliati al Trio Lescano).

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4. Radio e fascismo

Quando, nell'ottobre 1922, Mussolini salì al potere, l'Italia era, quanto a sviluppo di una rete

radiofonica nazionale, sensibilmente indietro rispetto agli altri paesi. Non era stata ancora costruita

alcuna emittente che funzionasse continuativamente, e la radiofonia restava, in buona parte,

nella fase sperimentale.

Negli Stati Uniti la costruzione di apparecchi radio e la radiofonia erano già un grosso

“business”: 11,5 milioni gli apparecchi radio in funzione.

In realtà il valore potenziale della radio come veicolo di propaganda e di standardizzazione

culturale non apparve immediatamente chiaro a Mussolini, convinto com’era della superiorità

della carta stampata (lui che era stato direttore de l’Avanti!) e della efficacia dell’enfasi dei

discorsi dal balcone.

Un decreto regio del 1925 stabilì, per evitare la nascita di emittenti private,

il monopolio assoluto dello Stato sulle comunicazioni senza fili e le preesistenti imprese furono

incorporate nell'URI. Nel gennaio 1925 era nato il Radiorario, rivista settimanale e organo ufficiale

dell'URI, con l'intento di propagandare il nuovo mezzo e nel contempo di conoscere meglio i gusti

e le opinioni di un pubblico ancora da formare.

Nel 1927 arrivano le prime informazioni dirette sul pubblico della radio e sul gradimento dei

programmi. Nel febbraio di quell’anno viene infatti indetto dall’URI il “Radio referendum” sulle

preferenze per i programmi delle stazioni di Roma, Milano e Napoli. Allo scopo di conoscere con

precisione gusti e tendenze del vasto pubblico e per assecondarlo con maggiore consapevolezza

(come specificato sul Radiorario), i radioascoltatori abbonati furono invitati a rispondere alle

seguenti domande:

 Quali programmi desiderate?

 Quale genere di musica e di teatro preferite?

 Quali corsi di cultura vorreste ascoltare?

 Volete aumentato o diminuito il numero delle conferenze?

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 Secondo il vostro particolare gusto o interesse, che cosa aggiungeresti ai programmi?

 Che cosa vi piace di più e vorreste vedere più sviluppato e che cosa vi piace di meno

dei nostri programmi?

Dalle risposte pubblicate sulle pagine del Radiorario (n. 7, 12 febbraio 1927, p. 1) emerge un

giudizio sostanzialmente positivo sulla programmazione radiofonica. Si richiedono molti corsi o

conferenze di radiofonia e radiotecnica, l’aumento delle trasmissioni di prosa e dei collegamenti

con i teatri. Controverso è l’atteggiamento verso le conferenze: c’è chi le trova noiose e chi le

vorrebbe aumentare o spostare in orari diversi. Infine, si deplorano le trasmissioni di musica jazz e si

esaltano quelle di musica classica e lirica.

Negli anni Trenta la radio inizia ad imporsi come mezzo di comunicazione di massa. Gli anni

’30 sono infatti il momento del vero lancio della radiofonia in Italia. Essa si propone come medium

casalingo ed inizia a scandire con i suoi appuntamenti e i suoi suoni le abitudini degli italiani.

Attraverso la radio gli italiani diventano testimoni di grandi eventi (le radiocronache sportive, i

concerti sinfonici). Al di là delle trasmissioni più propriamente politiche, l'insieme della

programmazione è tradizionale e rassicurante.

Il «Radiorario» diventa «Radiocorriere» con il primo numero dell'anno 1930. Cambia il

formato e la sede si trasferisce da Milano in via Arsenale 21 a Torino. Ora si propone come giornale

di varietà, non solo come bollettino di programmi.

Il 12 febbraio 1931 viene inaugurata la Radio Vaticana, realizzata con l'apporto di

Guglielmo Marconi mentre nel ’32 si inaugura il Palazzo EIAR di via Asiago a Roma ed entrano in

funzione le stazioni radiofoniche di Firenze e Bari. L’1gennaio 1933 i radioabbonati ascoltano per la

prima volta una radiocronaca di una partita di calcio, Italia-Germania, che finì con lo storico

risultato di 3 a 1, scandita dalla voce di Niccolò Carosio, che diventerà inconfondibile.

L’obiettivo preminente del regime fascista, a partire dagli anni Trenta, è quello di creare

una “coscienza radiofonica” nel Paese, ogni villaggio deve avere la sua radio. Così, nel 1933,

nasce l'Ente Radio Rurale, che opera in seno al Ministero delle Comunicazioni, alle dirette

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dipendenze del segretario del Partito e con la stretta collaborazione dei Ministeri dell’Educazione

Nazionale e dell’Agricoltura e Foreste, con il preciso fine di raggiungere anche i ceti contadini. I

suoi risultati tuttavia saranno modesti.

L’Ente Radio Rurale puntava a educare la nuova generazione fin dalla più tenera infanzia

secondo i dettami della dottrina fascista; completare e illustrare le lezioni impartite dall’insegnante

e fare partecipare i fanciulli, anche quelli dei villaggi più vicini, alla vita della Nazione; comunicare

ai cittadini notizie e consigli utili, istruendoli e intrattenendoli allo stesso tempo.

Risultano particolarmente interessanti i dati degli abbonati al 1934: sono circa 350.000 in

Italia (1.500.00 in Francia; 5.000.000 in Germania; 6.000.000 in Inghilterra); al 1939, sono oltre

1.000.000 in Italia (13.000.000 in Germania; 9.000.000 in Inghilterra).

E’ possibile delineare una geografia del pubblico radiofonico degli anni Trenta così

articolata:

 Ceti elevati e medi. La radio, come l’automobile, è associata ai concetti di modernità e

benessere sociale. La passione per la tecnica dei possessori di auto e radio alimenta

ingegnosi esperimenti di “autoradio”, dando vita al fenomeno dei Radio-Raduni

automobilistici (gite in campagna con prove tecniche d’ascolto): per pochi.

 Ceti popolari. La radio è un mezzo di elevazione sociale e culturale, strumento per

stabilire un legame con le “forme più progredite di civiltà”.

 La folla nelle piazze. La radio diventa un altoparlante che replica in tutte le città grandi

e medie la situazione. Di Piazza Venezia a Roma. Ci si riunisce nelle piazze attorno agli

altoparlanti in cui l’EIAR trasmette i discorsi del dittatore.

Nella prospettiva del potere politico, alla percezione di un pubblico potenzialmente vasto

e differenziato (le élites culturali, le donne e i bambini, gli scolari e i contadini) si unisce, e

gradualmente si sovrappone, l’immagine del “pubblico massa” (i gruppi e le folle nelle scuole, i

locali pubblici, le piazze), che occorre educare e conquistare (al ruolo di formazione del mezzo

e/o all’ideologia del fascismo). Gli anni Trenta però sono anche gli anni della rivista musicale (o

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radio rivista) che avvierà il mezzo verso la “popolarizzazione” con conseguente aumento e

diversificazione del pubblico.

La radio rivista è introdotta nel palinsesto radiofonico per rispondere alla domanda

crescente di spettacolo leggero. Si tratta di un genere di derivazione teatrale, al confine tra

musica e parlato: numeri di prosa, sketch comici e musica sono tenuti insieme da una trama con

personaggi fissi. Successivamente si evolverà in varietà, scompaiono trama e personaggi; si

introduce la figura del presentatore a tenere insieme i vari momenti di spettacolo, ma molto più

tardi, dopo la Seconda guerra mondiale.

La radio rivista più rappresentativa del periodo è I quattro moschettieri di Angelo Nizza e

Riccardo Morbelli, parodia del romanzo di Alexandre Dumas in cui ci sono molti riferimenti a

letteratura classica e d’appendice, a teatro e cinema, a testi di canzoni e opere liriche.

Un’alternanza serrata tra dialoghi, musica e battute. Andarono in onda tre edizioni del

programma, tra il 1934 e il 1938, che era abbinato a un concorso a premi sponsorizzato dalle

aziende alimentari Buitoni e Perugina e basato su raccolta di figurine dei personaggi (tra possibili

premi una Fiat 500 Topolino, lanciata nel 1936). La presenza di sponsor privati non piacque al

regime, o forse infastidì il successo del programma e della ricerca delle figurine mancanti, un vero

fenomeno di costume. Il programma fu eliminato.

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Indice

1. PROVE TECNICHE DI TRASMISSIONE ...................................................................................................... 3


2. LE PRIME IMMAGINI................................................................................................................................. 5
3. TUTTO RIMANDATO .................................................................................................................................. 7
BIBLIOGRAFIA ................................................................................................................................................... 9

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1. Prove tecniche di trasmissione

La televisione italiana ha iniziato le trasmissioni regolari il 3 gennaio 1954, dopo un periodo

sperimentale legittimato dalla nuova convenzione Stato-Rai del 1952 ma che sicuramente era

iniziato già prima. Premesso che invenzioni e scoperte utili per la realizzazione della TV si collocano

già negli ultimi vent’anni dell’Ottocento e che essa aveva già un posto, anche se non di primo

piano, nell’immaginario collettivo (nella letteratura e nel cinema), è interessante ricercare le

sperimentazioni che si sono svolte in Italia tra il 1939 e il 1940 a Roma, Milano, Torino per iniziativa

dell’EIAR.

La scansione delle immagini in movimento, fondamentale per trasmetterle a distanza, può

avvenire attraverso un dispositivo meccanico o elettronico. In molti paesi, fra cui l’Italia, furono

compiuti esperimenti di televisione meccanica. Il paese che li portò fino in fondo fu la Gran

Bretagna: paese a cui apparteneva John Logie Baird, inventore principale del dispositivo

meccanico. Anch’esso si convertì poi alla scansione elettronica, che già a metà degli anni Trenta

si dimostrava la tecnologia più promettente.

Gran Bretagna, Germania e Stati Uniti negli anni Tenta erano all’avanguardia nella

tecnologia di trasmissione a distanza delle immagini. A cominciare dalla Radio Corporation of

America (RCA) di cui è Presidente David Sarnoff e di cui fa parte l’ingegnere Vladimir Zworykin.

Proprio quest’ultimo, con l’appoggio di Sarnoff, sceglierà il paradigma elettronico anziché quello

meccanico.

In Germania tra la fine degli anni Venti e l’inizio degli anni Trenta, la comparsa simultanea

degli altoparlanti, della radio e della televisione rivela la volontà del regime nazista di creare luoghi

per radunare il popolo e materializzare la simultaneità della comunicazione tra leader e popolo. La

trasmissione televisiva fu assicurata dal 1935 al 1944: a Berlino la televisione si vedeva nei luoghi

pubblici e la diretta dei Giochi Olimpici del 1936 rimase un evento fondamentale nell’evoluzione

della nuova tecnologia.

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In Italia, al di là di ricerche teoriche vi fu presenza della televisione (o radiovisione, come

talvolta si diceva) in mostre di elettrotecnica, a cominciare da Torino nel 1932. Iniziava intanto una

riflessione teorica sulla televisione e sui suoi rapporti con il cinema. Riviste dell’epoca, come

Intercine nel 1935, e naturalmente il Radiorario e Il Radiocorriere parlano di diretta, di televisione, di

onde hertziane, di televisione che arriva nelle case ruotando un bottone elettronico. Si ha la

sensazione che intellettuali, scienziati e anche uomini politici siano pienamente consapevoli della

potenzialità del mezzo, anche se la propaganda fascista tendeva sempre a enfatizzare i risultati

della scienza e dell’industria italiana.

Nel 1936 il Vaticano chiese a Guglielmo Marconi di realizzare una emittente pontificia, che

però non fu realizzata anche per la morte di Marconi. L’EIAR iniziò nel 1939, il 16 settembre, le prime

trasmissioni sperimentali di televisione dalla Torre Littoria di Parco Sempione a Milano; la tecnologia

di base era tedesca anche se l’industria elettrotecnica italiana, in particolare la SAFAR, fu stimolata

a produrre apparecchiature tecniche e televisori. Viene riportato che in ottobre Mussolini, dalla sua

residenza di Villa Torlonia, potè assistere a delle trasmissioni realizzate ad hoc dall’EIAR.

Era troppo tardi però per le sperimentazioni. In Europa infuriava già la guerra e la Gran

Bretagna entrando in guerra aveva interrotto le trasmissioni televisive. Le sperimentazioni televisive

dell’EIAR durarono ancora alcuni mesi; furono interrotte sia a Roma che a Milano il 31 maggio del

1940, anche perché la frequenza di trasmissione avrebbe potuto interferire con le emissioni radio

negli aeroporti di Roma-Ciampino e Milano-Linate.

Mussolini non comparve mai sulla televisione italiana e, ironia della sorte, la sua unica

prestazione televisiva, peraltro perduta, avvenne sulla televisione tedesca prima della guerra.

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2. Le prime immagini

Le ricerche teoriche sulle trasmissioni a distanza delle immagini, come già accennato,

iniziarono a Milano il 28 gennaio 1929 per volontà di due ingegneri, Alessandro Banfi e Sergio

Bertolotti, con la costituzione di un laboratorio televisivo sperimentale all’interno del quale

effettuavano l’analisi meccanica dell’immagine attraverso il disco di Nipkow, un dispositivo che

analizza e riproduce le immagini. Sempre nel ’29 nella sede EIAR di Torino è allestito il “visiorum”, il

primo laboratorio per la televisione. Grazie anche all’avvio di questi esperimenti iniziano ad essere

usati i termini “televisione” e “televisore”, anche se “radiovisione” resisterà ancora a lungo.

La prima immagine della televisione italiana del 1929 è una bambola di panno Lenci

mentre i primi esperimenti sono presentati nel ‘33 alla V Mostra nazionale della radio di Milano.

Proprio negli anni 1933-1934, con il passaggio dalla televisione meccanica a quella elettronica, la

televisione non è più solo la semplice riproduzione di foto ma il suo specifico diventa la trasmissione

di immagini in movimento.

Dal 1936 al 1939, EIAR, SAFAR e Magneti Marelli, si impegnano nella ricerca e della

sperimentazione. La Magneti Marelli inizia una collaborazione con la RCA-General Electric e tra il

’38 e il ’39 realizza, tra l’altro, alcuni modelli di televisore. La televisione, nonostante le perplessità di

un pubblico scettico, non era più un sogno irrealizzabile. Nel 1939 fu bandito un concorso per

provini di telegenia.

Il 1939 è un anno particolarmente importante per gli esperimenti televisivi: il 22 luglio viene

infatti trasmessa la prima immagine sperimentale televisiva del tecnico dell'EIAR Manlio Bonini dal

trasmettitore di Monte Mario e ricevuta su alcuni teleschermi posti al Circo Massimo nel Villaggio

Balneare. Sullo sfondo appare la sigla EIAR.

Il Radiocorriere di quegli anni restituisce una programmazione televisiva giornaliera del

tempo ricca di novità assolute per l’Italia di quell’epoca. Nessuno, di fatto, poteva vederle e

dunque gli annunci sconfinavano nella propaganda. L’offerta televisiva sperimentale proponeva

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copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).

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documentari dell'Istituto Luce, ma anche tanto intrattenimento con spettacoli, comici e musica,

eseguiti da noti artisti, tra cui Macario e Aldo Fabrizi, Nunzio Filogamo.

All’EIAR di Torino il fermento per questa nuova avventura era tanto. C’era Lidia Pasqualini,

attrice, scelta per le sue qualità telegeniche, fu affidato il ruolo di annunciatrice, diventando

antesignana delle “Signorine buonasera”; Vittorio Veltroni, che guidava la redazione giornalistica;

Victor de Sanctis, che seguiva la regia dei programmi e Isa Miranda, prima attrice a comparire sul

piccolo schermo, che della televisione disse estasiata: “Questa è stregoneria”. Il pubblico poteva

guardare queste trasmissioni attraverso appositi apparecchi allestiti a Roma all'interno delle vetrine

dei negozi di Via Nazionale e di via del Corso.

Il Radiocorriere rappresenta una fonte importante per ricostruire queste attività, anche se

non completamente affidabile per la nota motivazione propagandistica anche rispetto al

governo: l’EIAR sperava di ricevere concreti incoraggiamenti a proseguire l’avventura televisiva.

Nelle pagine del 1939 del Radiocorriere è possibile, ad esempio, vedere alcune immagini di uno

spettacolo, con il pubblico in studio, Al cavallino baio, o alcune scene dell'originale televisivo I

pericoli dell'ascensore, scritto e interpretato da Marcello Giorda, affiancato da Lidia Pasqualini.

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3. Tutto rimandato

A seguito dell'entrata in guerra dell'Italia tutte le stazioni radiofoniche trasmisero un unico

programma (23 giugno 1940) e intorno a quella stessa data vengono sospese anche le trasmissioni

televisive. Il conflitto bellico sottrasse risorse preziose alle sperimentazioni dell’Eiar e vennero dunque

meno gli investimenti economici necessari per portare a compimento il progetto. L’ultimo

programma ad essere andato in onda era stato "Le disgrazie di Gedeone", una parodia dei film

storici di Cecil B. De Mille, oltre a drammi e commedie che resteranno sconosciute.

Non mancano le note di orgoglio patriottico, alquanto azzardato, per quanto la tecnica

televisiva italiana è riuscita a realizzare fino a quel momento. Non sfuggono, accanto alle

apparecchiature esposte dalla Marelli, dalla Safar, dalla Philips e dalla Magnadyne alla XXI Fiera

Campionaria di Milano, i televisori della Allocchio Bacchini.

Ma non solo. Le trasmissioni milanesi hanno un primato assoluto per la TV italiana: quello

della prima diretta in esterni. Gli italiani, in realtà, non accolsero la televisione con slancio atteso

dalla novità. Si pensava fosse un bluff e che le immagini televisive non fossero altro che il frutto di

un non chiaro gioco di specchi. Gli italiani non si erano ancora abituati alla radio, figuriamoci alla

televisione: un apparecchio mastodontico dal costo proibitivo di 15.000 lire.

Dunque, a fermare il progetto che aveva affascinato Filippo Tommaso Marinetti parlando

nel Manifesto Futurista di “radia” e affascinato i gerarchi del regime e a impedire la nascita di una

televisione di massa in camicia nera fu la guerra.

Gli storici della televisione Grasso, Casetti, Menduni, Ortoleva, Monteleone hanno con

autorevolezza ricostruito il percorso lento e faticoso della tv italiana del dopoguerra. Nessuno o

quasi nessuno ricorda la tv prima della guerra, per pochi ma fondati motivi:

 Perché si trattava di una televisione solo sperimentale e per pochi privilegiati del

regime, che sostanzialmente non è mai arrivata al pubblico;

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 Perché questa vicenda fu bruscamente interrotta. L’elettronica di divertimento fu

soppiantata da quella bellica, ritenuta prioritaria, come accade negli USA, in Gran

Bretagna e in altri paesi.

 Perché quella che fu definita una conquista della tecnologia fascista era in realtà una

applicazione di tecnologia germanica (lo stesso accadde, peraltro, in URSS che

ottenne la tecnologia televisiva tedesca dopo il patto Molotov-Ribbentropp del 1939).

 Infine, per la totale assenza di fonti dirette e di materiali filmati. Gli archivi dell’EIAR

relativi a quegli anni sono andati in gran parte dispersi, smarriti o distrutti durante il

periodo bellico; gli storici si affidano per il periodo agli archivi della Presidenza del

consiglio che, ragionevolmente, si preoccupava più dell’informazione e della

propaganda che della televisione. Palinsesti, contratti, ordini di servizio, sceneggiature

per il video, riprese su pellicola non esistono più.

Piccolissima, sperimentale, molto limitata e artigianale ma esisteva.

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Indice

1. LA RADIO IN GUERRA .............................................................................................................................. 3


2. LA COMPLESSA TRANSIZIONE ................................................................................................................. 7
3. UNA RADIO PER TUTTI ............................................................................................................................ 10
BIBLIOGRAFIA ................................................................................................................................................. 12

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1. La radio in guerra

Dal 1920 al 1940 si assiste al progressivo consolidamento della radio fascista con la radio,

appunto, medium dominante e di un pubblico di massa, soggetto alle manipolazioni di un potere

politico autoritario.

Alla vigilia della guerra in Etiopia (1935) la radiofonia italiana si trova in una fase di ascesa

dell’ascolto e di progressiva maturazione in senso politico. Tuttavia, solo da quell’anno, le strategie

dell’EIAR si intrecciano visibilmente e concretamente con le strategie politiche di ricerca del

consenso. Il conflitto in Africa da questo punto di vista diventò una opportunità: portare a

compimento la guerra ed entusiasmare all’idea della stessa un pubblico che appariva ancora

piuttosto passivo nei confronti del regime (anche in seguito agli effetti prodotti dalla crisi politica

del ’29), stimolò un pieno utilizzo del mezzo.

Gli abbonati erano pochi: ancora nel 1938 soltanto 965 mila, il che presuppone un ascolto

collettivo in Case del fascio, sezioni dell’Opera nazionale del Dopolavoro e ritrovi vari, mentre la

fruizione domestica della radio rappresentava un consumo riservato ad una élite. Al termine della

guerra gli abbonati erano 1 milione e 646 mila.

La radio italiana aveva una configurazione “stellare”, con una sede centrale a Roma e

molte stazioni locali talvolta collegate fra loro, ma non sempre: una scelta dettata dalla tecnologia

radioelettrica dell’epoca, più che un’opzione politica.

Nel corso degli anni Trenta e Quaranta, dunque, la radio divenne anche un importante

strumento di propaganda politica. Non a caso, proprio nel 1935, con il trasferimento dei programmi

radiofonici sotto il controllo del nuovo Ministero per la Stampa e la Propaganda si avvia quel

processo di maggiore integrazione del mezzo nell’organizzazione fascista del consenso che nel

1937 sarà portato a compimento dal Ministero della Cultura Popolare che sostituirà il primo nella

promozione e nel controllo della radio. Di qui parte infatti un generale processo di ridefinizione del

mezzo e del suo ruolo nella società. Esso è accompagnato da una robusta azione promozionale

come l’immissione sul mercato di apparecchi sempre più accessibili con ricevitori popolari, ad

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esempio l’apparecchio Radio Balilla, a costi contenuti; la promozione di abbonamenti gratuiti per

le famiglie numerose o la riduzione del prezzo del Radiocorriere (già Radiorario), organo ufficiale

dell’EIAR. Senza escludere, naturalmente, il potenziamento degli impianti trasmittenti con

l’obiettivo di rafforzare la presenza italiana nell’informazione per l’estero.

In Germania e in Italia i regimi totalitari dell’epoca colsero le opportunità offerte da questo

nuovo mezzo di comunicazione di massa, che consentiva per esempio di trasmettere i discorsi di

Mussolini dal balcone di Palazzo Venezia a Roma, dando a ogni cittadino l’impressione di essere

presente. Ma anche nei paesi democratici, e non soltanto durante la Seconda guerra mondiale, la

radio fu importante per sostenere lo spirito dei cittadini. Famoso resta il caso del presidente degli

Stati Uniti, Franklin Delano Roosevelt, che dal 1933 pronunciava alla radio i discorsi del caminetto,

così chiamati perché il presidente trasmetteva da una stanza della Casa bianca in cui si trovava

appunto un caminetto visibile nelle fotografie dell’epoca. Si tratta forse del primo esempio di uso

della comunicazione di massa da parte di un leader politico per parlare direttamente e

regolarmente con i cittadini.

Ad ogni modo, l’onda emotiva di esaltazione per la conquista dell’Etiopia, in gran parte

dovuta proprio all’abile uso propagandistico della radio, è destinata però ad esaurirsi nel breve

tempo. I motivi sono diversi: la negativa congiuntura internazionale, un diffuso malessere sociale,

l’introduzione delle leggi razziali nel 1938, le ripercussioni della guerra civile spagnola. Presto si

sarebbe aggiunto l’uso della radio, trasmessa dall’estero, da parte di altre nazioni e,

indirettamente, delle opposizioni antifasciste. Per la prima volta ai radioabbonati sarebbe stata

offerta un’informazione alternativa, fornendo una immagine diversa da quella propagandata dal

regime fino ad allora. Intanto i primi segnali di diffuso malcontento nei confronti del mezzo

emersero da un nuovo referendum indetto dal Radiocorriere nel 1936.

Il 10 gennaio 1940 Mussolini annuncia l’entrata in guerra contro la Francia e l’Inghilterra.

L’EIAR, superando l’atteggiamento incerto e contraddittorio assunto nel periodo della non

belligeranza, si mobilita totalmente a favore della politica di guerra perseguita dal regime fascista.

Allo scopo di coordinare la propaganda bellica erano state già avviate ristrutturazioni all’interno

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dell’apparato radiofonico, tra queste l’iniziativa di spostare i servizi politici e culturali sotto il

controllo della Direzione Generale per la Propaganda del Ministero della Cultura Popolare; la

riorganizzazione in tre settori dell’Ispettorato per la radiodiffusione preposti al controllo dei

programmi per interno, estero e intercettazioni e la creazione di un Centro Radio Guerra per la

raccolta e la diffusione delle notizie sulle operazioni militari.

A partire dall’intervento in guerra si ridefiniscono quindi i contenuti della programmazione e

i conseguenti atteggiamenti nei confronti del pubblico che ora sono dettati dalla necessità di

tenere sereno e alto lo spirito nazionale all’interno e di controbattere la propaganda nemica

all’esterno. Dal 23 giugno 1940 va in onda un programma unificato con tre obiettivi principali

dichiarati: l’informazione e il commento politico sugli eventi militari; lo svago e l’intrattenimento; la

propaganda per l’interno e la lotta contro l’ascolto clandestino. In realtà negli anni della guerra

non viene lasciato molto spazio all’intrattenimento.

Alla riduzione dei programmi a cosiddetto contenuto leggero fa riscontro il forte aumento

delle trasmissioni di propaganda. Il palinsesto quotidiano ruota intorno alle edizioni del Giornale

Radio (portate da 6 a 8) con bollettini o servizi speciali direttamente da Mussolini prima della messa

in onda.

La propaganda fascista agisce su due fronti: la tendenza ad enfatizzare le notizie di

successi e a minimizzare o addirittura nascondere le notizie contrarie; dall’altro, il contrasto

all’ascolto delle emittenti estere (particolarmente Radio Londra, ricevuta clandestinamente) che

possono smentire le notizie diffuse dall’EIAR.

Altro perno della programmazione di questo periodo è costituito da una serie di trasmissioni

speciali volte a fornire servizi utili ai soldati e ai feriti e alle famiglie dei combattenti. Questo ponte

che si stabilisce tra i soldati in guerra e i loro familiari attraverso il mezzo radiofonico fu molto

apprezzato e in virtù di ciò fu istituita verso la fine del ’42 “La posta di Radio Famiglia”.

Proprio tra il 1942-1943 che si irrobustisce il rapporto tra radio e popolazione (radio al servizio

della popolazione), testimoniato anche dal numero degli abbonamenti: dai 1.375.205 della fine del

1940 ai 1.827.950 del 1942. Le ragioni sono da ricercare in almeno quattro condizioni: la

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contingenza bellica; la stabilizzazione del prezzo degli apparecchi; l’aumentata esigenza di

informazione; la domanda sempre più diffusa di svago e divertimento.

Il 25 luglio 1943 alle 22 il giornale radio dà notizia dell'arresto di Mussolini. L’8 settembre alle

19,45 la radio diffonde la dichiarazione del maresciallo Pietro Badoglio che annunzia l'armistizio.

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2. La complessa transizione

L’8 settembre 1943, la fine del fascismo, l’armistizio e la fondazione della Repubblica sociale

italiana portarono a una divisione in due dell’Eiar, in parte trasferito a Nord, nella RSI controllata dai

tedeschi, e in parte a Sud, attorno a Radio Bari e poi Radio Napoli, nell’Italia liberata dagli alleati.

I primi tentativi di riorganizzazione del servizio della radiodiffusione nel sud si avranno nel ’44

con l’istituzione di un Commissariato per la gestione delle attività radiofoniche. Tali interventi si

ispirano innanzitutto alla necessità di potenziare al massimo il contributo che la radio italiana potrà

dare alla guerra contro i nazifascisti e di gettare le basi di una rinnovata organizzazione radiofonica

che nella nuova Italia del dopoguerra possa diventare un efficace strumento di elevazione

morale, sociale e culturale per il popolo italiano.

Intanto gli Alleati, risalendo la penisola, fondano nelle principali città vivaci emittenti

radiofoniche gestite dal PWB, Psychological Warfare Branch, nome dell’ufficio anglo-americano

che durante la Seconda guerra mondiale aveva il compito di controllare il settore della stampa e

propaganda anche nei paesi di occupazione militare alleata.

Dopo la liberazione di Roma, l’EIAR assunse il nuovo nome (ottobre 1944) di RAI (Radio

Audizioni italiane), l’azienda che esiste ancora oggi (con la stessa sigla ma con un nome diverso,

“Radiotelevisione italiana”) e che da lì a poco avrebbe iniziato a occuparsi anche dell’emittenza

televisiva. Il regime commissariale provvisorio finirà il mandato il 20 aprile del 1945 quando

l’assemblea della società eleggerà un nuovo Consiglio di amministrazione e un nuovo Presidente,

Arturo Carlo Jemolo. Da questo momento assistiamo ai primi passi della radiofonia italiana in una

realtà politica e sociale profondamente mutata.

La nuova società radiofonica si trova ad operare in una situazione non facile rispetto alla

precedente, a cominciare dal fatto che – nonostante l’elezione dei nuovi organi direttivi – il servizio

di radiodiffusione è tenuta ad assolvere agli stessi obblighi stabiliti con la convenzione del 1927 che

però scadrà solo nel 1952.

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Il permanere di una struttura e di un sistema gestionale sviluppati in funzione di un uso

strettamente politico del mezzo avrà la sua influenza sul processo di rinnovamento della radio nella

nuova realtà politico-sociale, determinandone lentezze e contraddizioni.

I rapporti tra informazione e potere, pur con modifiche sostanziali e in un regime

democratico, permangono solidi se si considera che la Democrazia Cristiana – primo partito nelle

elezioni per la Costituente – si assicura subito il controllo sul mezzo (con Giuseppe Spataro alla

presidenza RAI, Enrico Carrara Direttore Generale, Mario Scelba Ministro delle Poste e

Telecomunicazioni).

Anche a livello dei contenuti trasmessi, valori e modelli della radio d’anteguerra

permarranno a lungo. D’altra parte, non sarebbe stata pensabile una ristrutturazione profonda e

immediata di un apparato culturale pubblico non appena fossero mutati i vertici di potere.

Nuove iniziative furono assunte. Il Servizio Opinioni, che si era costituito ufficialmente presso

la Direzione Generale della Rai nel luglio del 1945, provvede innanzitutto ad esaminare moltissime

lettere di radioascoltatori che arrivano alla RAI. Alcune sono trasmesse alla redazione de “Il vostro

amico”, un programma di musica a richiesta; alle altre si risponde privatamente o nell’apposita

rubrica del Radiocorriere. Le lettere costituiscono una preziosa fonte di orientamento per la politica

aziendale, ma di certo non esprimono pienamente l’opinione collettiva. Tra gli ascoltatori, il

numero degli analfabeti o comunque poco abituati a scrivere lettere è molto elevato.

L’esigenza informativa è soddisfatta dal Giornale Radio, con servizi dalle capitali europee e

dagli Stati Uniti; all’educazione culturale contribuiscono i dibattiti speciali e una serie di

conversazioni scientifiche, letterarie e di varietà. La presenza un po’ eccessiva delle conversazioni

e dei discorsi politici era giustificata dal fatto che dopo tanti anni di costrizione e di silenzio imposto,

c’era l’esigenza di dar voce ai rappresentanti di tutti i partiti. In questa ottica di rieducazione alla

vita politica e culturale, in occasione del referendum (che sancirà la nascita della Repubblica) e

per l’elezione dell’Assemblea Costituente, la RAI predispone la diffusione di trasmissioni speciali in

ambito regionale e nazionale

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Nel dicembre del 1946 si dà avvio al nuovo assetto tecnico-organizzativo della radio che

prevede la distribuzione di due programmi nazionali a onda media: la Rete Rossa (che

comprende, tra gli altri, i trasmettitori di Bari-Catania-Firenze-Napoli I- Roma I- San Remo) e Rete

Azzurra (Bari II-Milano I-Roma II- Venezia-Verona-Torino I). Le due reti complementari offrono

programmazioni dedicate prevalentemente alla musica, alla prosa, musica sinfonica, leggera,

l’opera e il varietà, l’informazione e le conversazioni culturali. Tale assetto cancellò definitivamente,

e per squisite ragioni di controllo politico, la configurazione “stellare” che era stata propria della

radio di anteguerra e che avrebbe potuto rappresentare una sorta di regionalismo radiofonico.

Il 31 ottobre 1950 si inaugurano le trasmissioni del Terzo Programma che si caratterizza subito

per la sua dimensione specificamente culturale. Il 30 dicembre del 1951 verrà varata la riforma

delle reti in tre programmi nazionali, sulla falsariga della BBC: il primo destinato a soddisfare le

molteplici esigenze (informazione sugli avvenimenti nazionali ed esteri; aggiornamenti su problemi

politici; svago) di un pubblico medio; il secondo era chiamato ad assolvere un compito soprattutto

di intrattenimento; il terzo rivolto ad un pubblico sia intellettualmente elevato sia a coloro che

intendevano migliorare la loro educazione culturale.

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3. Una radio per tutti

La radio del dopoguerra ha saputo esprimere orientamenti sociali diffusi e farsi volano della

industria culturale: lanciando nuovi talenti; dispensando premi e posti di lavoro, formando registi,

attori, conduttori, cantanti che sarebbero diventati famosi in altri ambiti dello spettacolo (Federico

Fellini, Alberto Sordi, Mike Bongiorno, Claudio Villa, ecc.). Appena prima della TV, la radio si è

avviata a diventare finalmente popolare anche per numero di abbonamenti: quasi 5 milioni, con

crescita soprattutto nei ceti medi e inferiori, nel 1953.

Il dopoguerra si apre all’insegna di “una radio per tutti”, del bisogno diffuso di evasione, del

desiderio di una vita migliore. È qui che si pongono le basi di quel processo di modernizzazione nel

campo dei gusti e dei consumi di massa, di quella rivoluzione del costume che ha dominato la

società in quel secondo cinquantennio che si era aperto con l’arrivo degli americani durante la

guerra.

Nonostante la perdurante influenza della tradizione culturale italiana e della morale

cattolica, si registrò una forte spinta ai consumi culturali di massa e la progressiva crescita dello

spettacolo leggero: varietà, quiz, gare tra dilettanti, canzoni, spesso abbinati a concorsi a premi

(gettoni d’oro, elettrodomestici, Vespa e Lambretta, Fiat 500, etc.).

Trai generi più apprezzati, i programmi per dilettanti, che consentono agli ascoltatori di

mettere in scena i loro talenti, di vivere un momento di notorietà, di coltivare la speranza di trovare

lavoro nel mondo dello spettacolo.

Uno di questi è Il microfono è vostro (1950,1952): programma itinerante, che dai teatri delle

città italiane manda in onda le esibizioni dei migliori dilettanti locali.

Alle selezioni accorrono a centinaia (studenti, impiegati, dattilografe, artigiani, operai,

giovani di leva, aspiranti cantanti, ecc.), scatenando un coinvolgimento popolare simile a quello

della rivista I quattro moschettieri.

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Anna Bisogno - L’Italia alla radio (1938-1951)

Alla base del successo anche la fama del presentatore, Nunzio Filogamo, già interprete del

moschettiere Aramis, e le musiche di Cinico Angelini, direttore delle orchestre leggere dai tempi

dell’Eiar.

Continua in questa fase anche la passione per la canzone, che toccherà il suo culmine con

il Festival della Canzone Italiana di Sanremo (1951). La cosiddetta “canzone all’ italiana”

conviveva con il piacere della musica straniera (boogie-woogie americano, canzone francese,

ritmi sudamericani) diffusa per radio in appositi programmi pomeridiani. Contro la musica straniera,

però, si scatena la critica dei fautori della radiofonia più tradizionale, portando ad un accordo tra

Rai e case editrici musicali: la realizzazione di un evento finalizzato a valorizzare la melodia italiana.

Nasce così il Festival, competizione tra canzoni italiane trasmessa in radio nelle prime 4 edizioni,

prima di passare in televisione (1955).

A partire dal 30 novembre del 1952, ogni domenica mattina, va in onda la Santa Messa, in

collegamento con Radio Vaticana.

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Anna Bisogno - Cinema italiano e neorealismo

Indice

1. IDENTITÀ E CARATTERISTICHE .................................................................................................................. 3


2. DRAMMATURGIA ..................................................................................................................................... 5
3. DISCONTINUITÀ E TRADIZIONE ............................................................................................................... 9
4. LA RISCOPERTA DEL PAESAGGIO ......................................................................................................... 11
BIBLIOGRAFIA ................................................................................................................................................. 13

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Anna Bisogno - Cinema italiano e neorealismo

1. Identità e caratteristiche

Il neorealismo fu un movimento culturale che si sviluppò in Italia dopo la Liberazione fino ai

primi anni Cinquanta, ed ebbe nel cinema la sua maggiore espressione.

Il termine era stato usato per la prima volta nel 1931 in riferimento al romanzo di Moravia Gli

indifferenti, ma già alcune altre opere di quegli anni mostravano la tendenza a una riscoperta

della realtà quotidiana e a uno stile che la ritraesse nel modo più credibile.

Non è semplice comprendere il neorealismo in tutte le sue implicazioni. Possiamo isolare tre

aspetti principali: quello morale, quello politico e quello estetico, precisando però che essi risultano

strettamente intrecciati nei film.

 Fu anzitutto la reazione morale agli orrori e alle infamie della guerra che spinse alcuni

registi e sceneggiatori a ritrovare i valori essenziali dell’esistenza e della convivenza

sociale.

 Occorreva dare una risposta sul piano politico alla serie di tragici errori commessi dal

fascismo. Di qui la necessità di un linguaggio nuovo, che riuscisse a esprimere in modo

diretto una presa di coscienza e una volontà di mutamento.

 Il neorealismo implica una nuova estetica, capace di rinnovare non solo il cinema

italiano, ma anche di costituire un punto di riferimento per altre cinematografie, in varie

parti del mondo.

Roma città aperta (1945) di Roberto Rossellini è il film che segna l’inizio della nuova epoca.

Si tratta di un film emblema della volontà di rinascita del cinema italiano. Realizzato con mezzi di

fortuna, Roma città aperta prende spunto da fatti di cronaca relativi al tragico periodo in cui,

dopo la caduta del fascismo e prima dell’arrivo delle truppe alleate, Roma fu teatro di un disagio

profondo della popolazione e dello scontro tra le forze della Resistenza e la rabbiosa

determinazione dell’esercito tedesco. Il film presenta le vicende intrecciate di gente comune. Tra

queste una rilevanza particolare assumono le traversie di un intellettuale comunista, capo

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Anna Bisogno - Cinema italiano e neorealismo

partigiano, e di un prete di quartiere. Entrambi, pur da diverse posizioni ideali, affrontano un

comune destino di morte.

Alcune scene del film diventarono meritatamente celebri: Pina, la popolana interpretata

da Anna Magnani, falciata dai colpi di mitra dei soldati tedeschi che, nel corso di un

rastrellamento, hanno prelevato il suo uomo, Francesco, sospettato di essere responsabile di un

attentato. Inoltre quella delle torture subite da Manfredi, l’intellettuale comunista interpretato da

Marcello Pagliero; e quella della fucilazione di don Pietro (Aldo Fabrizi) alla quale assistono muti

alcuni ragazzini, che vediamo poi allontanarsi verso uno sfondo dominato dalla cupola di S. Pietro.

Il film di Rossellini presenta ancora aspetti tradizionali: è interpretato da attori professionali di

grande esperienza e popolarità come, Anna Magnani e Aldo Fabrizi, e fa ricorso a metodi di

enfatizzazione drammatica degli episodi: ad esempio, attraverso il montaggio visivo e sonoro della

sequenza della morte di Pina. Tuttavia esso costituisce un preciso segnale circa la direzione in cui si

dovrà muovere il nuovo cinema: trarre ispirazione dalla realtà quotidiana, dare la priorità assoluta

alla cronaca e alla forza delle reazioni morali di fronte alla disumanità di una tragedia che non ha

risparmiato nessuno.

La forza d’impatto di Roma, città aperta trovò conferma in Paisà (1946) e Germania anno

zero (1948), con i quali Rossellini completava una sorta di trilogia retrospettiva della guerra appena

conclusa; in Sciuscià (1946) e Ladri di biciclette (1948) di Vittorio De Sica, e ne La terra trema (1948)

di Luchino Visconti.

Tratti dell’estetica e degli intenti del neorealista emergono anche in diversi registi di origine

e collocazione diversa: da Lattuada a Castellani, da Zampa a Germi, da Blasetti a Soldati.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da
copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).

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2. Drammaturgia

Il neorealismo cinematografico italiano esercitò un vasto e duraturo impatto sul cinema

mondiale. L'Italia era riuscita a liberarsi dal fascismo e dall'occupazione tedesca anche grazie a un

attivo e partecipato movimento di resistenza, che contribuì a creare un clima di speranza e di

rinnovamento che si diffuse nell'ambiente cinematografico. Purtroppo la guerra aveva

danneggiato gli studi cinematografici di Cinecittà, sede della gran parte delle produzioni, i

produttori italiani erano stremati per la mancanza di capitali e spesso compromessi con il fascismo;

le case produttrici americane, al seguito degli eserciti vincitori, avevano colto l’occasione per

assicurarsi il dominio del mercato.

Nel cinema italiano del dopoguerra l’entusiasmo e le idee non mancavano, dunque, ma le

risorse economiche erano scarse. Nonostante ciò videro la luce tutta una serie di film, anche a

budget ridotto, che ebbero un forte successo internazionale. Il personale artistico e tecnico che vi

si impegnò era professionalmente cresciuto tra gli anni Trenta e Quaranta,

Partecipando alla vita delle riviste (tra cui "Cinema") e al dibattito culturale, ma anche

realizzando opere che fanno iniziare, in una semi-clandestinità, il movimento che poi sarà il

neorealismo. Tra i vari esempi, il più importante è Ossessione (L. Visconti, 1943), che rappresenta

una netta rottura rispetto ai canoni rappresentativi ed estetici prevalenti nel cinema del fascismo.

Il neorealismo dovette subire molteplici attacchi perché il clima politico mutò a partire dal

1947, quando i partiti di sinistra furono allontanati dal governo e le forze moderate cominciarono a

incoraggiare un cinema meno impegnato e diversamente orientato. La Legge Andreotti del 1949

(Giulio Andreotti ricopriva allora l’incarico di Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con

delega allo) Spettacolo, subordinava gli aiuti statali ad un rigido controllo governativo: al film

poteva essere infatti negata la licenza di esportazione qualora risultassero elementi diffamatori nei

confronti dell’Italia. Diverse pellicole, tra cui Ladri di biciclette, subirono gli effetti di questa nuova

forma di censura.

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I film neorealisti marcarono una netta differenza dalla produzione precedente sia nazionale

che internazionale. Le scene venivano girate non soltanto nei teatri di posa ma anche nelle strade

e nelle campagne: per scelta estetica e necessità produttiva. Le storie raccontavano le vicende di

una Italia che resisteva (la resistenza partigiana e il suo retroterra nella popolazione), attraversata

dalla povertà e da profonde disparità sociali. Non a caso, e per la prima volta, i protagonisti erano

gli operai, i contadini, i bambini, gli anziani. In molti film erano impiegati attori non professionisti. Si

tratta di film che rappresentano la realtà in maniera densa con trame costruite per somma di

episodi, molti dei quali solo apparentemente sembravano non significativi.

Non erano film di evasione, ma descrivevano criticamente la difficile situazione attraversata

dall’Italia, on una interpretazione della realtà così densa che alcuni di quei film possono essere visti

oggi quasi come documentari di un’epoca.

La cinematografia neorealista può essere distinta in due fasi: la prima che affronta temi gli

anni della guerra e la Resistenza e la seconda, a partire dal 1948, che affronta invece temi di

rilevanza sociale.

Tra i film più importanti di questo movimento, all’indomani di Roma, città aperta, possono

essere annoverati:

 Paisà (R. Rossellini, 1946)

 Sciuscià (V. De Sica, scen. Di C. Zavattini, 1946)

 Germania anno zero (R. Rossellini, 1947)

 La terra trema (L. Visconti, dal romanzo I Malavoglia di G. Verga, 1948)

 Ladri di biciclette (V. De Sica, scen. Di C. Zavattini, 1948)

 Riso amaro (G. De Santis, 1948)

 Miracolo a Milano (V. De Sica, 1950)

 Umberto D. (V De Sica, scen. Di C. Zavattini, 1951)

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Tre sguardi: De Sica, Rossellini, Visconti, ognuno proveniente da esperienze culturali molto

diverse. Rossellini, infatti, era un regista cinematografico dei primi anni Quaranta, De Sica un attore,

Visconti era un regista teatrale con una conoscenza e partecipazione diretta al cinema realista

francese degli anni Trenta.

Nell'Italia uscita dalla guerra e dalla dittatura era fortemente avvertito il bisogno di una

rinascita politica e sociale; sceneggiatori e registi vollero farsi artefici di questo rinnovamento.

Proposero un cinema che scavava nella realtà del presente e del più recente passato, portando

alla luce storie, temi e personaggi di quel mondo su cui bisognava agire. Il cinema neorealista si

caratterizza fin da subito per il suo forte impegno sociale.

L'industria cinematografica italiana era stata messa in ginocchio dalla guerra, il mercato

nazionale invaso da film americani, gli studi di Cinecittà erano inagibili, per questo i neorealisti

scelgono di riportare la cinepresa fuori dagli studi, di tornare a girare per strada e nelle campagne,

con attrezzature leggere ed economiche. Dopo anni di doppiaggio di film stranieri, gli italiani,

avevano ormai perfezionato l'arte della sincronizzazione del sonoro, le troupe potevano quindi

girare in esterni e registrare i dialoghi in fase di postproduzione. Immagini realistiche dell'Italia di

quegli anni fanno da cornice a molti film neorealisti che divengono così preziosi documenti storici.

Fu il critico francese André Bazin, a far notare, più di ogni altro, quale fosse la vera portata

innovativa che caratterizzava il movimento neorealista italiano, concentrando la sua analisi critica

piuttosto che sugli aspetti tecnici, estetici o stilistici, sul nuovo approccio che questi film mostravano

nelle modalità del racconto cinematografico.

Bazin citava e riprendeva alcune idee di Cesare Zavattini, lo sceneggiatore di De Sica ma

soprattutto il più instancabile difensore dell'estetica neorealista. Zavattini voleva un cinema che

presentasse il dramma nascosto negli eventi quotidiani, come l'acquisto di un paio di scarpe o la

difficile ricerca di un appartamento.

Una critica superficiale ritiene che il tipico film neorealista sia girato in esterni, con attori non

professionisti e inquadrature grezze, improvvisate, ma certamente non è così. In realtà il livello

professionale è al massimo, anche per la partecipazione entusiasta di tecnici e collaboratori;

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nonostante le difficoltà pratiche la maggior parte delle scene in interni è girata in set ricostruiti in

studio e illuminati con cura. Anche il sonoro è estremamente professionale e si cercano le voci più

adatte ai ruoli attoriali; la voce del protagonista di Ladri di biciclette, ad esempio, era doppiata da

un altro attore.

Anche se non tutte le immagini neorealiste hanno il rigore compositivo di La terra trema,

ispirato a I Malavoglia di Giovanni Verga, quasi sempre esse presentano un accurato equilibrio tra i

vari elementi che vi appaiono. Anche quando sono riprese in esterni, le scene contengono fluidi

movimenti di macchina, un nitore impeccabile e un'azione scandita su più piani. È tipico del

cinema neorealista l'uso di suggestive colonne sonore che ricordano l'opera lirica nel modo in cui

sottolineano lo sviluppo emotivo di una scena, e talvolta la citano espressamente.

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3. Discontinuità e tradizione

Le maggiori innovazioni del neorealismo risiedono nell'articolazione del racconto: un motivo

ricorrente è quello della coincidenza, come in Ladri di biciclette, quando Ricci e Bruno incontrano

per caso il ladro vicino alla casa della santona che sono andati a trovare. Questi sviluppi narrativi,

che rinnegano il logico incatenarsi degli eventi tipico del cinema classico, sembrano più

obiettivamente realistici e riflettono la casualità degli incontri nella vita quotidiana.

Oggetto vivo del film realistico è "il mondo", non la storia, non il racconto. […] Il film realistico

è in breve il film che pone e si pone dei problemi: il film che vuole far ragionare (Roberto Rossellini,

1953)

A questa tendenza va aggiunto l'uso massiccio dell'ellissi: i film neorealisti spesso trascurano

le cause degli eventi a cui assistiamo. Un esempio è Paisà, il già citato film di Rossellini che in sei

episodi racconta l'avanzata delle truppe alleate in Italia. Come nota ancora Bazin, si rivela

all'improvviso e in maniera dirompente la scena dei partigiani (nel sesto episodio, Porto Tolle,

ambientato sul Delta del Po), appostati in un campo, che trovano un neonato che piange

accanto ai corpi senza vita dei genitori. Oppure, forse in maniera ancora più evidente, una minore

linearità si riscontra nei finali, che si presentano volutamente irrisolti: ad esempio, a metà di Roma

città aperta Francesco sfugge ai fascisti, poi però se ne perdono le tracce; in Ladri di biciclette,

Ricci e Bruno si perdono tra la folla senza aver ritrovato la bicicletta: come proseguiranno, il film

non lo dice.

Mentre nel cinema classico si fa grande attenzione all'economia del racconto, tutto è

funzionale alla narrazione, anche nei momenti di passaggio si possono cogliere elementi utili a

collegarne le varie fasi. Non è così nei film neorealisti che tendono a riportare tutti gli eventi sullo

stesso livello, la macchina da presa indugia su situazioni ordinarie, comportamenti quotidiani, ma

che spesso si rivelano le scene più intense del film.

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Il neorealismo ha sempre più di un’anima - al di là delle differenze di stile fra i diversi autori. Si

fa portatore della “modernità” senza liberarsi completamente della “classicità”. Trasforma l'idea di

racconto cinematografico ricorrendo comunque alle soluzioni e agli effetti che sembra voler

superare; ad esempio, sostiene di voler lasciar parlare la realtà e non esita a farne uno strumento

didattico.

La sua ricchezza sta proprio in questa continua contraddizione, che significa capacità di

riconoscere l'infinita apertura e disponibilità del mondo del racconto, ma anche capacità di

trasformarlo senza rinunciare al fascino stesso della narrazione.

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4. La riscoperta del paesaggio

Con il neorealismo il paesaggio diviene coprotagonista delle storie e non semplice sfondo

scenografico. Molte immagini scorrono sotto i nostri occhi e mostrano, per esempio, Roma ancora

distrutta dalla guerra in Roma città aperta (1945) di Rossellini; ancora Roma in Ladri di

biciclette (1948) di De Sica, percorsa in lungo e in largo da un uomo, accompagnato dal figlio, alla

disperata ricerca della bicicletta che gli è stata rubata. Ma anche la Napoli dei bassifondi e dei

vicoli in Proibito rubare (1948) di Comencini; il mare della Sicilia in La terra trema; il litorale livornese

in Senza pietà (1948) di Lattuada; le risaie piemontesi in Riso amaro (1946) di De Santis.

I registi neorealisti non considerano più la ricostruzione cinematografica in studio, che

aveva primeggiato negli anni 30, un obbligo; scelgono spesso di andare lungo le strade e di girare

in esterni, con un numero di tecnici ridotto, facendo recitare non attori professionisti ma spesso

gente comune.

Le soluzioni narrative e stilistiche del neorealismo ebbero grande influenza sul cinema

moderno internazionale. Le riprese in esterni con doppiaggio in studio, l'amalgama fra attori

professionisti e non, le trame fondate sulla casualità, le ellissi, i finali aperti, le microazioni e

l'accentuata alternanza di diversi toni drammatici sono tutte strategie che sarebbero state

meditate e sviluppate nei quarant'anni successivi da autori di tutto il mondo.

Successivamente, nei primi anni Cinquanta, il neorealismo si tinge – per così dire - di rosa. In

presenza di condizioni politiche e sociali dell’Italia già un po’ diverse vennero realizzati film

considerati espressione del cosiddetto “neorealismo rosa”. Con questa definizione con cui si volle

indicare uno stile da commedia, rispetto al dramma o alla tragedia che erano stati i toni più

frequenti nelle opere precedenti: ma la cesura rispetto al neorealismo era forte e innegabile. Prima

presenti come eroine tragiche, le donne protagoniste sono ora raffigurate soprattutto come

fanciulle di belle speranze, in cerca del giovane da sposare. Tra i titoli più significativi di questa

tendenza, da ricordare Poveri ma belli (1956) di Dino Risi o Susanna tutta panna (1957) di Steno,

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bozzetti di un’Italia che vuol dimenticare gli anni difficili, quelli descritti dal neorealismo, e che

aprono la strada a ciò che sarà la “commedia all’italiana”.

Peraltro negli anni Cinquanta e Sessanta l’intreccio tra divismo e immagine materna

emergerà in ruoli femminili chiave che producono letture identitarie e metaforiche. Anna Magnani,

che aveva interpretato in Roma città aperta (Rossellini, 1945) Pina, madre della Resistenza uccisa

dai tedeschi e prefiguratrice della rinascita italiana dopo la guerra sarà anche la madre volitiva

di Bellissima (Visconti, 1952) e quella tragica di Mamma Roma (Pasolini, 1962).

Nel frattempo era cambiato il clima storico e culturale del paese e la stagione del

neorealismo andava esaurendosi o riformulandosi: una stagione che ha sempre continuato a

suscitare interesse e ha costituito un importante modello di riferimento per registi di generazioni

successive, sia italiani (da Pier Paolo Pasolini a Gianni Amelio), sia stranieri (da Martin Scorsese ad

Abbas Kiarostami).

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Indice

1. ORIGINI DEL NEOREALISMO .................................................................................................................. 3


2. CARATTERI DEL NEOREALISMO .............................................................................................................. 9
3. LE TRILOGIE DI ROSSELLINI ................................................................................................................... 12
4. L’ESTETICA DEL PEDINAMENTO DI DE SICA E ZAVATTINI .................................................................... 15
BIBLIOGRAFIA................................................................................................................................................ 18

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1. Origini del neorealismo

Molta della fama del cinema italiano, sia all’interno dei confini nazionali che all’estero, è

legata al movimento noto come “neorealismo”. Presa in senso stretto, questa etichetta definisce

una fase fondamentale della produzione dell’immediato secondo dopoguerra. Al tempo stesso,

però, essa è servita (e serve) anche ad interpretare i periodi sia successivi che precedenti della

storia del cinema italiano: gli studiosi hanno infatti spesso cercato di individuare nella vocazione ad

un cinema “della realtà” una sorta di filo rosso dell’intera produzione cinematografica nazionale.

Questo tentativo di ricondurre tutta la storia del cinema italiano ad una matrice realista è

un’operazione per certi aspetti assai problematica, perché tende a svalutare la produzione di

genere e ad istituire una gerarchia che valorizza il cinema impegnato a documentare la realtà a

scapito di quello di puro intrattenimento. Tale gerarchia, oltre ad essere opinabile di per sé, è

anche falsante perché spesso le due categorie si sono proficuamente ibridate, e il cinema italiano

ha prodotto molti film divertenti o appassionanti ma anche capaci di riflettere sui processi socio-

storici che hanno formato l’identità nazionale.

Detto questo, cercare di rintracciare i momenti precedenti al periodo del dopoguerra in cui

già si fosse manifestata un’attenzione alle condizioni delle classi subalterne può comunque essere

un’operazione interessante, innanzitutto perché essa consente di rintracciare il legame che esiste

tra il neorealismo cinematografico e movimenti letterari precedenti di matrice naturalista e verista.

Due dei più importanti film italiani dell’epoca muta, per esempio, ovvero Sperduti nel buio

(N. Martoglio, 1914, un film oggi andato perduto) e Assunta Spina (G. Serena, F. Bertini, 1915) erano

caratterizzati da un’ambientazione tra gli strati meno abbienti della società, di cui si illustravano le

vicende di passione e violenza con una certa crudezza. Mentre la maggior parte del cinema muto

italiano è popolato di dive dannunziane, fasciate in abiti all’ultima moda, attorniate da

arredamenti liberty e abbandonate in atteggiamenti di languore o disperato trasporto (si pensi a

film come Tigre reale, G. Pastrone, 1916 o Rapsodia satanica, N. Oxilia, 1917), i film succitati, così

come quelli realizzati dalla celebre regista napoletana Elvira Notari (‘A Santanotte, 1922; Fenesta

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che lucive, 1926 e molti altri) mescolano le convenzioni del melodramma con elementi di

naturalismo e verismo. Si tratta di un mix che, come vedremo, caratterizzerà il neorealismo stesso in

modo significativo.

Il cinema italiano, dopo una profonda crisi (di immaginazione, ma anche concretamente

produttiva) negli anni Venti, si ricostruisce con forza negli anni Trenta, col passaggio al sonoro,

anche per iniziativa del regime fascista. In questo periodo, non si può certo dire che la messa in

scena degli umili sia una delle caratteristiche fondamentali del cinema italiano: anche se il

fascismo tendeva a produrre pochi film esplicitamente di propaganda, perché credeva che il

cinema d’intrattenimento fosse un mezzo più sottile (più subdolo) di indottrinamento delle masse,

esso comunque non consentiva la messa in scena di realtà di disagio economico-sociale.

L’immagine dell’Italia promossa dal regime era quella di un paese prospero e armonico, scevro da

conflittualità di classe. In questo periodo, dunque, l’attenzione alle condizioni di vita del

proletariato era per lo più assente dallo schermo e, se esse venivano messe in scena, era in un

modo totalmente privo di ogni accento polemico di critica alle dinamiche strutturali della società.

D’altronde uno dei pochi film che provò invece a fare un’operazione di questo genere, Ragazzo

(Ivo Perilli, 1934), la storia delle difficoltà di un giovane operaio della periferia romana, fu censurato

dal regime: non fu mai mostrato in pubblico e le copie superstiti vennero poi trafugate dall’esercito

nazista in fuga da Roma nel 1945 e andarono perdute per sempre.

L’unico tratto che avvicina alcuni film degli anni Trenta a quello che sarà poi il cinema

neorealista è quello della veracità dialettale di alcuni personaggi, un elemento che ritroviamo in

contesti anche assai diversi quali la commedia romantica (Gli uomini, che mascalzoni!, M.

Camerini, 1932) e il dramma storico-epico (1860, A. Blasetti, 1934).

Sarà solo all’inizio degli anni Quaranta che un serie di film, pur prodotti ancora sotto l’egida

del regime, inizieranno a mostrare delle crepe nella rappresentazione di un tessuto sociale

uniforme e privo di problematicità, avvicinandosi così a piccoli passi alla critica sociale del

neorealismo. Da una parte, vengono realizzate una serie di commedie di ambientazione

popolaresca, dirette da Mario Bonnard (Avanti, c’è posto…, 1942; Campo de’ fiori, 1943; L’ultima

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carrozzella, 1943), che rendono famosi attori poi cruciali per il neorealismo come Aldo Fabrizi e

Anna Magnani. In secondo luogo, si iniziano a dipingere dei ritratti meno conciliati di altri strati

dell’esperienza soggettiva e collettiva, come La peccatrice (A. Palermi, 1940) storia

melodrammatica delle vicende di una brava ragazza costretta a prostituirsi; I bambini ci guardano

(V. De Sica, 1943), struggente storia di un adulterio che sconvolge la vita di una famiglia della

borghesia romana; o Quattro passi tra le nuvole (A. Blasetti, 1942), che descrive il breve idillio

campagnolo di un commesso viaggiatore oppresso dalla sua vita familiare in città. D’altronde

anche in un film di genere del tutto diverso, la fantasia epico-avventurosa La corona di ferro (A.

Blasetti, 1941: oggi potremmo a tutti gli effetti definirlo un fantasy, un termine che allora

certamente non era ancora in voga) possono essere rintracciati elementi di critica alla logica di

regime, visto il personaggio centrale di un re dispotico a cui il racconto contrappone una logica

pacifista.

I tempi stavano insomma diventando gradualmente maturi per film più apertamente critici,

che squarciassero il velo di ipocrisia perbenista che caratterizzava le rappresentazioni approvate

dal regime. La pellicola che svolse questa funzione e che divenne il simbolo della profonda

necessità di cambiamento non solo del cinema ma della società italiana tutta, fu Ossessione

(1943) di Luchino Visconti. Il film, che narra una storia di adulterio sullo scenario arido e agorafobico

delle paludi del Po, costituì per l’immaginario dell’epoca uno scossone che è per noi difficile

immaginare oggi, abituati come siamo a questo tipo di narrazioni incentrate sulla passione e sul

crimine. I protagonisti sono infatti due amanti (Massimo Girotti e Clara Calamai) che, desiderando

vivere apertamente il proprio amore adulterino, decidono di uccidere il marito di lei. Lo shock

causato dal film era dovuto anche al fatto che i due innamorati fedifraghi non erano dipinti come

essere malvagi: anche se le loro azioni rimangono moralmente riprovevoli, il pubblico è spinto ad

empatizzare con Gino e Giovanna, perché sono delle vittime della società, oppresse dalle strutture

del patriarcato (perfettamente impersonate dal corpo grasso, sudato e ribrezzevole del marito di

lei). I corpi dei due giovani sono al contrario attraenti e carichi di eros, un elemento descritto dal

film con estrema franchezza. L’insieme di questi elementi fece di Ossessione un film scandalo: se ne

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può avere la piena misura se si pensa che Vittorio Mussolini, figlio del Duce e direttore

dell’importante rivista «Cinema», lasciò una proiezione d’anteprima del film, nella primavera del

1943, sbattendo la porta ed esclamando “Questa non è l’Italia!”. Il regime di Mussolini padre

sarebbe però crollato di lì a poche settimane, aprendo la strada all’affermarsi in Italia del

neorealismo vero e proprio.

Ossessione era anche un frutto maturo del dibattito che si andava svolgendo in quegli anni

sulle pagine della summenzionata rivista «Cinema», per cui scrivevano numerosi giovani intellettuali

(tra cui Michelangelo Antonioni e Carlo Lizzani) che sarebbero poi diventati nomi di punta del

cinema del dopoguerra, e che già costituivano una sorta di fronda al regime. Tra gli interventi più

importanti pubblicati su «Cinema», si segnalano quello dello stesso regista di Ossessione, Luchino

Visconti, autore di un saggio intitolato Cinema antropomorfico1, e quelli, risalenti già al 1941, di

Giuseppe De Santis (co-sceneggiatore e aiuto regista di Visconti sul set di Ossessione): Per un

paesaggio italiano e insieme a Massimo Mida, Verità e poesia. Verga e il cinema italiano2. Si tratta

di scritti da cui emerge una forte volontà di rinnovamento del cinema secondo due direttrici solo

apparentemente antitetiche.

Visconti si fa portavoce di un cinema incentrato su una nuova attenzione alla figura

umana, segnalando il bisogno di spogliare gli attori di mestiere dei loro tecnicismi e delle loro

affettazioni, per ritrovare la verità umana nelle loro performance. Per questo, egli anticipa già

l’idea di affidarsi ad interpreti non professionisti, presi dalla strada, che sarà una delle

caratteristiche principali del neorealismo suo e di altri cineasti. Visconti conclude il suo intervento

scrivendo che girerebbe di buon grande un film anche “davanti ad un muro scrostato”, se avesse

a disposizione un interprete in grado di entrare in contatto con delle emozioni autentiche e di

offrirle alla macchina da presa e al pubblico.

1
Luchino Visconti, Cinema antropomorfico, in «Cinema», VIII, 173/174, 25 settembre-25 ottobre 1943, pp. 108-109,
ora in Paolo Noto, Francesco Pitassio, Il cinema neorealista, Bologna, ArchetipoLibri, 2010, pp. 84-85.
2
Giuseppe De Santis, Per un paesaggio italiano, in «Cinema», VI, 116, 25 aprile 1941, pp. 292-293, ora in P. Noto, F.
Pitassio, Il cinema neorealista, cit., pp. 73-75; Giuseppe De Santis, Mario Alicata, Verità e poesia; Verga e il cinema
italiano, in «Cinema», VI, 127, 10 ottobre 1941, pp. 216-217, ora in P. Noto, F. Pitassio, Il cinema neorealista, cit., pp.
76-79.

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De Santis, al contrario, propugna una maggiore attenzione al paesaggio, sostenendo la

necessità, per il cinema italiano, di raccontare storie veriste i cui personaggi siano mostrati nella

loro interazione sottile, stratificata e profonda con la concretezza del proprio ambiente di vita,

anziché risultare avulsi da esso. Nell’articolo l’autore dimostra tra l’altro un notevole

cosmopolitismo: smentendo quanti hanno visto e raccontato il neorealismo, in modo semplicistico,

come movimento autoctono e nazionale, qui De Santis richiama il modello del cinema statunitense

e francese degli anni Trenta, pieno di esempi virtuosi di uso del paesaggio che l’autore non

rintraccia invece nel cinema italiano prodotto sino a quel momento – salvo per qualche eccezione

recente come Piccolo mondo antico (M. Soldati, 1941) che grandemente si avvantaggia dello

scenario lacustre di Lugano a fini melodrammatici.

Le due proposte di De Santis e Visconti sembrano di fatto in contrapposizione, l’una così

legata alla figura umana, l’altra al paesaggio. Ma non lo sono davvero: un indizio della loro

vicinanza sta in un dettaglio del discorso dello stesso Visconti. Questi si proclama pronto, come

abbiamo visto, a costruire un intero film su un attore che reciti dinnanzi ad un muro. E qui sta il

punto: Visconti, infatti, non parla di un muro puro e semplice, ma di un muro “scrostato”. Anche se

ridotto al minimo, l’elemento dell’ambientazione, lo scenario che egli prospetta è comunque uno

scenario che deve esprimere un qualche significato autonomamente. Esso è di fatto un

“paesaggio” che deve riecheggiare in qualche modo il vissuto del personaggio. In quell’aggettivo,

“scrostato”, si può infatti già trovare l’idea di una relazione tra uomo e ambiente nel segno di una

dolente corrispondenza: il muro di sfondo e l’interpretazione che esso fa risaltare devono essere

entrambi grezzi, privi di affettazioni e segnati dalle peripezie di cui sono stati testimoni. Entrambi

esprimono il desiderio di raggiungere un nucleo di verità aspra, primitiva, parzialmente ancora

informe, da contrapporre alla sofisticazione, alla prosopopea propagandistica e alla retorica che

caratterizzavano lo stile comunicativo del fascismo. Nel cinema italiano del dopoguerra, il

paesaggio e la figura umana costruiranno di fatto i due poli tensivi attorno a cui si articola tutto il

tentativo di un rinnovamento radicale della rappresentazione: per raccontare un’Italia nuova sarà

necessario tanto un cinema antropomorfico, che rintracci il suo innovativo verismo nella figura

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da
copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).

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umana, tanto un cinema paesaggistico, che contestualizzi tale verità esistenziale in scenari

autentici che non nascondano più le reali condizioni di disagio del paese.

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2. Caratteri del neorealismo

I registi principali del neorealismo sono di fatto quattro 3. Dopo Ossessione, Visconti metterà

in scena un adattamento contemporaneo dei Malavoglia di Verga (La terra trema, 1948) e poi un

crudele apologo sull’ossessione dell’industria cinematografica dell’epoca per la spontaneità degli

attori bambini (Bellissima, 1951). De Santis invece girerà una serie di film molto attenti alle

dinamiche del lavoro (soprattutto agricolo, ma non solo), interpretate in chiave marxista, e

contemporaneamente molto popolari presso il pubblico grazie all’inserimento di elementi

melodrammatici e polizieschi nella trama: Caccia tragica (1946), Riso amaro (1949), Non c’è pace

tra gli ulivi (1950), Roma ore 11 (1952). Ma i nomi ancora più canonici del cinema neorealista sono

altri due: Roberto Rossellini e Vittorio De Sica, cui ci dedicheremo in dettaglio più avanti.

Prima di farlo, può essere però utile sintetizzare, nel complesso, le caratteristiche stilistiche

del movimento neorealista:

o Riprese in esterni reali

o Illuminazione naturale

o Predominanza di campi medi e lunghi (il soggetto è inquadrato nel contesto)

o Inquadrature più lunghe della media

o Montaggio non intrusivo (tendenza ad immergere lo spettatore nella realtà fenomenica

senza alterarla)

o Attori non professionisti

o Protagonisti appartenenti alle classi più povere

o Trame quotidiane, contemporanee e cronachistiche

o Critica sociale esplicita o implicita

3
Altri autori che firmano in questi anni dei film importanti, con alcuni tratti di prossimità al neorealismo, sono Alberto
Lattuada (Il bandito, 1946; Senza pietà, 1948; Il mulino del Po, 1949), Luigi Zampa (Vivere in pace, 1946; L’onorevole
Angelina, 1947), Renato Castellani (Sotto il sole di Roma, 1948), Pietro Germi (Il cammino della speranza, 1950),
Carlo Lizzani (Achtung! Banditi!, 1951).

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o Uso del dialetto nei dialoghi

Alcune di queste caratteristiche sono di fatto dettate anche da necessità contingenti: in

particolare dal fatto che Cinecittà, il grande teatro di posa costruito dal fascismo ed inaugurato

nel 1937 con le riprese di Scipione l’Africano (C. Gallone), era in quegli anni diventata un campo

profughi. Ospitava infatti numerosi sfollati rimasti senza casa a causa dei bombardamenti subiti

dalla città di Roma a partire dal 19 luglio 1943. Impossibilitati a girare all’interno dello studio, i registi

dovettero arrangiarsi diversamente. D’altronde, questo bisogno di uscire per strada e filmare storie

con persone comuni in spazi autentici, va connesso ad una spinta più profonda (quella di demolire

la retorica rappresentativa fascista e di rifondare l’immaginario collettivo italiano) e non può essere

ridotto meramente alle cause di forza maggiore che rendevano Cinecittà inagibile.

Contemporaneamente, bisogna notare che la spinta ad un rapporto più immediato con la

realtà rimase sempre assai limitato sul piano sonoro: il suono (i dialoghi, i rumori ecc.) del cinema

italiano in questi anni, e per molti anni ancora, non sarà mai in presa diretta, ma sempre realizzato

in post-sincronizzazione. Dunque, da un punto di vista uditivo, il cinema neorealista non sarà mai

integralmente autentico e immerso nella realtà come certa retorica semplicistica vorrebbe.

Più in generale, proseguendo in questo discorso stilistico, occorre segnalare che è

pressoché impossibile trovare tutte le caratteristiche sopraelencate all’interno di un singolo film.

Nessuno dei testi canonici del neorealismo risponde integralmente a tutti quei requisiti, essi si

ritrovano soltanto in un neorealismo iperuranico, rimasto nel regno delle idee e mai realizzato

completamente. Ciascun film neorealista utilizza alcuni di quegli espedienti, e per di più non lo fa in

modo costante durante tutto l’arco della narrazione, scegliendo bensì di ibridare soluzioni

linguistiche innovative con opzioni di messa in scena nettamente più classici.

Il neorealismo costituì insomma un momento di grande innovazione tematica, ed è

caratterizzato anche da alcuni momenti di innovazione stilistica, come vedremo nei prossimi

paragrafi. Ma nel complesso è un cinema anche abbastanza convenzionale, a livello stilistico, e

fortemente debitore delle formule del cinema di genere ed in particolare del melodramma.

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Questo debito nei confronti delle forme popolari dell’intrattenimento non sottrae affatto valore a

questo momento della produzione cinematografica nazionale, che rimane ugualmente

un’autentica pietra miliare della storia del cinema non solo italiano, ma globale: il neorealismo fu e

rimane un modello di cinema indipendente e alternativo, fatto con pochi soldi e con un grande

impegno civile, che si servì tanto di tattiche innovative quanto di stilemi melodrammatici per

raccontare la verità socio-storica di un paese traumatizzato.

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3. Le trilogie di Rossellini

Roberto Rossellini è l’autore di una trilogia di film tra i più significativi film del neorealismo,

Roma città aperta (1945), Paisà (1946) e Germania anno zero (1948) Prima di essere un autore

fortemente associato col cinema postfascista, Rossellini aveva però in verità esordito con un’altra

trilogia (La nave bianca, 1941; Un pilota ritorna, 1942; L’uomo della croce, 1943) di chiaro impegno

propagandistico a sostegno del militarismo del regime. Si tratta di film non privi di forte interesse nei

termini della sperimentazione stilistica e narrativa (specie grazie ad una secchezza antiretorica non

priva di accenni importanti alla fratellanza universale), ma certamente ancora completamente

interni alle logiche produttive del regime. Non fu d’altronde il solo Rossellini a passare indenne dalle

fila del cinema di regime a quello successivo: anzi, se vogliamo Rossellini fu uno dei pochi ad

attuare un’inversione di rotta talmente radicale da essere esplicita. Molti altri registi, attori,

produttori, lavoratori del set ed impiegati delle strutture burocratiche del cinema (censori, revisori)

passarono indenni dall’Italia fascista a quella repubblicana, fatto salvo per i casi di attori come

Osvaldo Valenti e Luisa Ferida, divi del fascismo che erano rimasti legati al regime anche quando

questo era stato costretto a rifugiarsi a nord con la Repubblica di Salò e che furono perciò fucilati

dai partigiani.

Ad ogni modo, per tornare a Rossellini, nel 1945 egli gira Roma città aperta, un film

straordinario che racconta la collaborazione di tutte le componenti del popolo italiano per

sconfiggere l’occupazione nazista e instaurare un regime democratico postfascista. I diversi

personaggi rappresentano ognuno uno strato diverso della società, in modo programmatico:

l’ingegner Manfredi (Marcello Pagliero) è un membro del Partito Comunista, Don Pietro (Aldo

Fabrizi) rappresenta l’impegno della Chiesa cattolica nelle fila della Resistenza (il personaggio si

ispira a due preti realmente esistiti, Don Pietro Pappagallo, morto alle Fosse Ardeatine, e don

Giuseppe Morosini), la sora Pina di Anna Magnani rappresenta invece la componente popolare,

non guidata da alcuna chiave di lettura ideologica precisa (a differenza dei due personaggi

precedenti), ma ugualmente, istintivamente contraria all’oppressione nazista. Quando, durante un

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rastrellamento, le SS arresteranno Francesco (Francesco Grandjacquet), il fidanzato di cui è incinta

e che doveva sposare quel giorno stesso, Pina reagirà con un’esplosione ribelle di rabbia e

disperazione incontenibili, mettendosi ad inseguire il camion su cui portano via il suo amato e

venendo così falcidiata dalle scariche di mitra naziste. Questa scena, probabilmente la più famosa

del neorealismo, ove non del cinema italiano tutto, condensa in sé con grande efficacia la forza

dirompente del neorealismo. Essa fu realizzata con ben otto diverse macchine da presa, che

consentirono a Rossellini di catturare la corsa disperata della Magnani e restituirla in tutta la sua

carica violenta e struggente. Il realismo di Roma città aperta non è perciò un realismo

dell’improvvisazione: al contrario, il film è del tutto indimenticabile proprio per la sua forza

melodrammatica, per il pathos che esso mette nel racconto della lotta contro l’oppressione e

l’ingiustizia.

Tutto il film è d’altronde scritto con grandissima sapienza (nelle fila degli sceneggiatori

compare, tra gli altri, Federico Fellini), alternando momenti di analisi della situazione storica

dell’occupazione con picchi melodrammatici, intermezzi da commedia e momenti di autentica

suspense.

Anche a livello stilistico, se da una parte il film è famoso per il suo utilizzo degli esterni reali e

del paesaggio urbano della capitale devastata dai bombardamenti, al tempo stesso tutta la

seconda parte del film si svolge invece in interni, allorché l’ingegner Manfredi e Don Pietro

vengono catturati ed imprigionati nella prigione del quartier generale romano della Gestapo, a via

Tasso. Questo ambiente è filmato da Rossellini come uno spazio carico di ombre, in un modo che

ricorda chiaramente il modello del cinema espressionista tedesco (il che risulta evidentemente

coerente, visto che si sta mettendo in scena la malvagità dell’esercito nazista).

Tanto a livello dei registri narrativi quanto in termini di stile, dunque, il film è un ibrido di

diverse opzioni della messa in scena, talune più tendenti al realismo, talaltre nettamente di meno,

ma tutte molto efficaci a proporre il ritratto di un popolo in ginocchio che si risolleva, per prendere

in mano il destino del proprio paese e condurlo verso la democrazia. Tale speranza nel futuro è

simboleggiata dal gruppo di bambini e ragazzini che popola il film, e che nel finale vediamo

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stagliarsi sul panorama della città dominato dalla cupola di San Pietro: un esempio perfetto di quel

rapporto tensivo tra la figura umana e l’ambiente che caratterizza tutto il neorealismo.

I film successivi della trilogia della guerra antifascista di Rossellini presentano caratteristiche

diverse. Paisà (1946) è un film a sei episodi, ciascuno dei quali è ambientato in una regione italiana

diversa, a partire dalla Sicilia fino al delta del Po: il film descrive in questo modo un movimento

ascensionale, da sud verso nord, che replica l’avanzata dell’esercito americano nella penisola e

contemporaneamente prosegue nella messa in forma narrativa, già proposta da Roma città

aperta, dell’idea dell’Italia come collettività frammentaria ma solidale che collabora alla rinascita.

Gli episodi sono marcatamente diversi gli uni dagli altri: a fronte dell’episodio romano, dominato

da una appassionante (ma convenzionale) vicenda melodrammatica dell’amor perduto,

l’episodio finale, che racconta la resistenza partigiana sul Po, è un esperimento stilistico-narrativo

originalissimo con i tempi morti. Anziché mettere in scena gli eventi salienti, Rossellini tende a

lasciarli fuori scena, concentrandosi sull’attesa estenuante che caratterizza le operazioni di

guerriglia partigiana.

Un rallentamento dei tempi dell’azione caratterizza fortemente anche Germania, anno

zero (1948), in cui Rossellini, tra i primi a filmare nella Berlino completamente distrutta dai

bombardamenti, racconta la storia di un bambino che non riesce a scrollarsi di dosso il senso

opprimente di smarrimento che caratterizza l’intero popolo tedesco dopo il nazismo. Le

passeggiate senza scopo del piccolo Edmund tra le rovine (che si concluderanno col suo suicidio)

rappresentano uno dei punti più alti sia della rarefazione del ritmo narrativo che caratterizza le

punte più sperimentali del neorealismo, sia di quel rapporto significativo tra figura umana e

ambiente che veniva propugnato già anni prima sulle pagine di “Cinema”.

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4. L’estetica del pedinamento di De Sica e Zavattini

La trilogia antifascista di Rossellini, presa nel suo complesso, descrive una traiettoria

dell’umore nazionale piuttosto peculiare: si passa, potremmo dire, dal neorealismo della

collaborazione collettiva, della speranza e del sacrificio comune, rappresentato da Roma città

aperta e Paisà, al neorealismo della negatività, della disperazione, della depressione,

rappresentato da Germania anno zero ma già anticipato proprio nell’episodio di Paisà dedicato

all’immediato dopoguerra, ovvero quello romano, in cui le speranze di rinnovamento e di

ripartenza nutrite inizialmente dalla protagonista si scontrano presto con la cruda realtà di una

situazione economica assolutamente disastrosa.

Ed uno sguardo similmente ed autenticamente disperato è la cifra caratteristica di tutta la

filmografia neorealista di Vittorio De Sica. De Sica è autore di almeno tre tra i massimi capolavori

fondativi del canone, ovvero Sciuscià (1946), Ladri di biciclette (1948) e Umberto D (1952), a cui

andrebbe aggiunto un frutto tardivo del genere, Il tetto (1956). Questi film non sono in verità frutto

solo del genio registico di De Sica, che comunque non va sottovalutato. Co-autore a pieno titolo è

lo sceneggiatore Cesare Zavattini, uno dei principali teorici del neorealismo. Particolarmente

importante è la teoria zavattiniana del “pedinamento”, ovvero del bisogno del cinema di uscire

dalle trappole della finzione, per seguire invece da vicino le vite delle persone comuni nei loro

aspetti più quotidiani, aspetti degni di attenzione pari ed anzi superiore a quella usualmente

riservata alle gesta dei grandi personaggi della Storia.

Sciuscià è uno struggente dramma d’ispirazione dickensiana su due giovanissimi

lustrascarpe romani che si guadagnano da vivere come meglio possono nel contesto spietato

della capitale occupata. Finiti ingiustamente in riformatorio, i due rimangono vittima delle violenze

dei sorveglianti così come delle lotte tra le fazioni dei loro compagni, ma ancor peggio della

traumatica esperienza carceraria sarà la tragica fuga finale. Il film, un’aspra denuncia del sistema

di rieducazione, segue nella prima parte la poetica zavattiniana del pedinamento, rimanendo

spesso all’altezza dei due piccoli protagonisti mentre questi navigano lo spazio della città in

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subbuglio. Nella seconda parte, opzioni di messa in scena più melodrammatica (in particolare una

fotografia assai contrastata) sono funzionali al racconto degli aspetti più violenti e disperati della

vicenda.

Ladri di biciclette racconta invece di Antonio Ricci (Lamberto Maggiorani), un padre di

famiglia disoccupato che vive in una borgata ai margini di Roma. Quando finalmente riesce a

trovare un lavoro come attacchino, si vede rubare sotto il naso al primo giorno d’impiego la

bicicletta, mezzo per lui essenziale sia per raggiungere il centro della città dalla borgata lontana,

sia per svolgere il proprio lavoro rispettando i tempi richiesti. Il film racconta perciò del disperato

tentativo di Antonio di ritrovare il mezzo rubato, accompagnato dal figlioletto Bruno. La città di

Roma si configura qui come un vero e proprio labirinto infernale, respingente e aggressivo, che

restituisce continuamente ai protagonisti il senso della loro insignificanza. L’utilizzo degli spazi della

città dal vero raggiunge qui il suo massimo livello di efficacia espressiva, utilizzando i diversi aspetti

del paesaggio architettonico romano per raccontare questa commovente storia di sconfitta

sociale.

Umberto D e Il tetto sono invece, rispettivamente, le vicende di un ex professore di filologia

ridotto ormai sul lastrico, sfrattato dalla sua camera ammobiliata e condannato perciò a girare per

Roma con la sola compagnia del suo cagnetto, e la vicenda di due sposini novelli che non

riescono a trovare un appartamento dal prezzo abbordabile dalle loro povere tasche (lui è

muratore, lei domestica) e si trovano dunque costretti a costruire nottetempo una capanna con

mezzi di fortuna presso una borgata abusiva in prossimità dei binari della ferrovia. Celebre, nel

primo film, la scena del risveglio del personaggio della cameriera, filmata con assoluta lentezza e

attenzione ai gesti minimi del personaggio: un momento in cui la ricerca della verità nei dettagli

significanti del vissuto del personaggio tramite la dilatazione della messa in scena approssima gli

esperimenti con la gestione del tempo proposti da Rossellini.

è, Nel complesso, anche se non manca di toccare talvolta vette di patetismo, il

neorealismo di De Sica e Zavattini è davvero rimarchevole perché dipinge senza mezzi termini

situazioni sociali davvero difficili. Questi film sono, di fatto, dei pugni nello stomaco.

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Proprio per questo, essi diventeranno presto invisi alla classe dirigente democristiana, che

domina la politica italiana (ma non la sua sfera culturale) dopo la fine del periodo di transizione e

collaborazione di tutti i partiti antifascisti tra il 1945 e il 1948. Le affermazioni del Sottosegretario allo

Spettacolo democristiano Giulio Andreotti a proposito di Umberto D sono rimaste nella storia: “I

panni sporchi si lavano in casa”. Il politico lamentava che il cinema italiano proponesse

un’immagine troppo negativa della vita del paese: una posizione che non può non ricordare le

simili proteste del rampollo del Duce di fronte ad Ossessione. Mutatis mutandis, le élite politiche

sembrano sempre osteggiare la spinta dei cineasti italiani a raccontare le realtà del paese.

Ma al di là di qualsiasi sforzo di censura più o meno esplicito, questi film sopravvivono nella

memoria degli spettatori di tutto il mondo4 e rappresentano, allora come adesso, un formidabile

passaporto con cui l’Italia si afferma sullo scenario del cinema internazionale, esercitando

un’influenza fortissima fino alla contemporaneità.

4
Sia Sciuscià che Ladri di biciclette vinsero degli Oscar speciali per il Miglior film straniero, prima ancora che questa
categoria fosse ufficialmente istituita.

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Indice

1. DAL GRANDE AL PICCOLO SCHERMO .................................................................................................. 3


2. TELEVISIONE E VITA ITALIANA ................................................................................................................. 8
3. IL PROGETTO PEDAGOGICO ................................................................................................................ 11
BIBLIOGRAFIA ................................................................................................................................................. 14

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1. Dal grande al piccolo schermo

Dai primi del ‘900 il cinema diventa presto il leader dello spettacolo nello spazio pubblico,

sottraendo spazio al teatro e più in generale allo spettacolo dal vivo. Il cinema è fiero della sua

tecnologia che passa dai 16 fotogrammi al secondo del cinema muto ai 24 fotogrammi al

secondo del periodo del sonoro. La televisione di fotogrammi ne trasmette 25 al secondo ma con

una tecnologia diversa dalla pellicola e dal proiettore cinematografico; una tecnologia in cui la

scansione elettronica ha prevalso sulla scansione meccanica delle immagini.

La televisione era già pronta ad un’ampia diffusione prima della II guerra mondiale. Essa

costituiva una risposta competitiva alla grande attrattiva del cinema sonoro, che minacciava il

successo della radio, ed era stata sviluppata all’interno degli enti e delle imprese radiofoniche di

vari paesi. Germania e Inghilterra avevano iniziato, sia pure con un numero di apparecchi molto

modesto, un servizio regolare nel 1936. Ad essi si era aggiunta più tardi la Francia.

Gli Stati Uniti avevano lanciato la televisione con gran clamore alla mostra internazionale di

New York nel 1939. Italia ed Unione Sovietica, con tecnologia tedesca, cominciano i loro

esperimenti nel 1938-39. La guerra, come è noto, frenò e poi subito arrestò la televisione. La

tecnologia andava curvata sulle sue applicazioni belliche e mancavano anche le condizioni di

sfondo (benessere, prosperità, tranquillità) per la diffusione di un nuovo dispositivo di

intrattenimento.

L’avvento in grande stile della televisione si colloca dopo il 1945. In particolare negli Stati

Uniti, con l’Unione Sovietica il principale vincitore della Seconda guerra mondiale ma anche il più

ricco e aperto a una libera economia di mercato, tra il 1948 e il 1952 avviene il decollo della

televisione con successi e fenomeni di costume mai conosciuti prima e così originali da generare

un modello televisivo proprio: la tv all’americana. La tv fu dunque un frutto del dopoguerra,

un’annunciatrice del benessere e della pace ritrovata.

Nel 1947 una conferenza internazionale a Atlantic City nel New Jersey (luogo emblematico

dei nuovi assetti mondiali) pianificò le frequenze su scala mondiale a tutto vantaggio dei paesi

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vincitori. Qui i delegati di 60 Paesi presenti alla Conferenza mondiale delle radiocomunicazioni

decidono di chiamare definitivamente "televisione" la trasmissione a distanza delle immagini in

movimento.

Nel 1951 una trasmissione che sarebbe divenuta celebre, “See it now”, con Eward Murrow,

esordì presentando lo schermo diviso in due (split screen), da una parte il Ponte di Brooklyn e

dall’altra il Golden Gate di San Francisco, in diretta.

Il modello americano si fonda sulla competizione tra più network, finanziate dagli investitori

pubblicitari e gratuite per lo spettatore. I tre network del panorama televisivo americano erano (in

ordine di “prima trasmissione televisiva”) NBC (1938), CBS (1941) ed ABC (1948). La pubblicità

televisiva si attivò nel 1941: la NBC trasmise il primo spot pubblicitario televisivo (riguarda gli orologi

Bulova). Ma nel gennaio 1942 le trasmissioni furono sospese per il coinvolgimento degli USA nella

guerra; solo 7000 erano comunque gli apparecchi televisivi in funzione nell'intero Paese, quasi tutti

concentrati nella zona di New York.

Nell’Europa distrutta dalla guerra, le prospettive del nuovo mezzo erano diverse. Il

continente era diviso in due dagli accordi di Yalta, per alcuni considerati l'origine della Guerra

fredda e della divisione dell'Europa in blocchi contrapposti a causa soprattutto dell'aggressivo

espansionismo sovietico; secondo altri analisti, politici e storici avrebbe rappresentato invece

l'ultimo momento di reale collaborazione tra le tre grandi potenze vincitrici della seconda guerra

mondiale, i cui risultati sarebbero stati vanificati soprattutto a causa di una serie di decisioni prese

da parte occidentale. Per l’Italia, inserita tra i paesi del blocco occidentale a televisione, al di là

dei poco fattivi tentativi compiuti nell’anteguerra, si presentava come un elemento della

ricostruzione e della pacificazione, un fattore di unità nazionale e di stabilizzazione geopolitica

all’interno del blocco occidentale.

Non si trattava soltanto di ricostruire fisicamente l’Europa dalle macerie dei

bombardamenti, ma di rendere popolare e accetta la collocazione dei singoli paesi all’interno di

un blocco politico-militare in cui gli Stati Uniti avevano il ruolo dei protagonisti. Questa era

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un’assoluta novità per chi aveva vissuto tra le due guerre ed era abituato a stati nazionali

autosufficienti e in competizione fra di loro.

La televisione aveva la possibilità di illustrare in ogni casa i vantaggi veri o presunti della

nuova situazione politica ed esibire il benessere prima ancora che fosse materialmente arrivato

nelle famiglie, anche attraverso la presentazione di esempi o storie presi dalla realtà americana o

da quanto avveniva nelle parti più avanzate di ciascun paese. In questa che è stata chiamata la

«socializzazione anticipatrice» la televisione occidentale avrebbe raggiunto risultati inarrivabili per

la televisione del blocco sovietico.

Il sistema sovietico puntava molto sui risultati che affermava di aver ottenuto nella sfera

pubblica (scienza, tecnologia, ricerca spaziale), che in televisione apparivano come goffe «opere

del regime» e non sui sentimenti e i consumi familiari, che rappresentano il vero specifico del

broadcasting.

Secondo il modello europeo:

 La televisione è vista ovunque come parte di un «servizio culturale» che lo stato eroga

potenzialmente a tutti i cittadini: il broadcasting, che si articola in radio e tv, gestite

entrambe dalla stessa impresa pubblica.

 Il potere politico si riserva una funzione di controllo, attraverso un ministero o un’autorità, e

stabilisce gli standard. Come il telefono e la posta, la televisione – insieme alla radio – deve

costituire un «servizio universale».

 Usufruire della tv diventa sempre più un diritto: per assicurarlo tutti i paesi europei

ricorreranno a un monopolio pubblico, con l’eccezione dell’Inghilterra che avrà una rete

privata, controllata peraltro da un’autorità pubblica, dal 1955.

Il rapporto con il mercato è all’origine molto debole; la pubblicità è marginale o non

ammessa, gli investitori faticano ad accedere a quella risorsa esigua e rara che è lo spazio

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per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).

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pubblicitario televisivo. Le industrie produttrici di apparecchi televisivi non hanno alcun

collegamento con il broadcasting; ne hanno invece con il potere politico che fissa gli standard.

L’assenza di un rapporto con il mercato non rappresenta nella fase di sviluppo della

televisione un problema, perché c’è abbondanza di denaro. Gli investimenti iniziali della

televisione sono pagati dai proventi della radio.

L’alta cultura, che dominava l’università, la produzione libraria e i commenti della stampa,

la scuola, avevano necessità di essere rassicurati sulla funzione formativa della tv, ma anche sul suo

carattere divulgativo che significava, implicitamente, la sua collocazione a un livello culturale più

basso di quello che le élite culturali occupavano. I giornali volevano la sicurezza che la pubblicità

televisiva non erodesse la loro principale fonte di ricavi. Il cinema non voleva perdere troppi

spettatori: i film trasmessi in televisione dovevano essere pochi, vecchi, e messi in onda in giorni che

non ostacolassero il cinema nelle sale.

La scuola infine temeva la concorrenza con i modi più facili della televisione, assai attrattivi

per i bambini e i ragazzi, e voleva una programmazione educativa che fosse complementare alla

scuola e mai in concorrenza con essa. In tutti questi campi fu più o meno rapidamente trovato un

accordo. Con queste premesse comuni, anche l’offerta di programmi delle varie televisioni

europee ebbe caratteristiche simili.

Si trattava di un’offerta limitata e diretta dall’alto. Era una televisione in bianco e nero e

con un solo canale, aperto per poche ore al giorno per non ostacolare lo studio, il lavoro, il riposo.

Solo negli anni ’60 arriverà il secondo canale che obbedirà a regole di complementarità rispetto al

primo.

Questa televisione aveva un palinsesto settimanale: così si chiamava almeno in Italia

l’elenco dei programmi, come un’antica pergamena «raschiata e scritta di nuovo» testimonianza

di continue correzioni, modifiche, pressioni politiche.

Nel palinsesto, ogni serata era dedicata a un diverso genere: si pensava dunque a una

televisione di appuntamenti attesi con ansia («festiva»), che veniva accesa quando si era

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interessati a un determinato programma, non alla fruizione continua del televisore acceso come in

America. Implicitamente, la televisione stessa invitava lo spettatore a essere selettivo.

L’indice di ascolto, così importante per la televisione americana, non aveva alcun interesse

per i dirigenti delle tv europee. Per loro era importante soltanto valutare il «gradimento» dei

programmi, essere cioè rassicurati circa la loro qualità e la funzione svolta presso gli spettatori.

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2. Televisione e vita italiana

È una trasformazione profonda, che investe il modo di produrre e di consumare, di pensare

e di sognare, di vivere il presente e di progettare il futuro (Crainz 2005).

La televisione è espressione e motore di questo cambiamento. In primo luogo, soprattutto

tra anni ’50 e ‘60, ha contribuito alla crescita culturale con i programmi educativi: dagli

“sceneggiati” da opere letterarie e teatrali, a Telescuola (1958-66), a Non è mai troppo tardi (1960-

68).

La TV ha contribuito alla trasformazione sociale, innescata dal boom economico, anche e

soprattutto:

 Alimentando il mercato dei consumi (la pubblicità);

 Incoraggiando il protagonismo e il desiderio di emergere degli Italiani (il quiz);

 Divulgando le immagini di una società orientata all’ottimismo e alla ricerca del

benessere

Nelle forme dello spettacolo e nelle immagini della società diffuse dai programmi televisivi

emerge il riferimento al modello culturale americano, rielaborato secondo la sensibilità italiana:

Le istanze educative (e moralistiche) si coniugano con le nuove esigenze di consumo.

[Lascia o raddoppia? (1955-59), Carosello (1957-77), Canzonissima (1958-75/76)]

La televisione dunque fornisce i modelli sociali del consumo; letteralmente: insegna a

consumare. Fa conoscere le marche, i prodotti, spiega come usarli (ad esempio, come si fa il the)

e perché sono importanti. Ciò passa naturalmente attraverso la sorvegliata pubblicità televisiva di

Carosello (1957-1977), dove il messaggio promozionale è contenuto da precise regole stilistiche e

narrative, ma passa trasversalmente nell’intera programmazione. Un modello pedagogico

indubbiamente c’è, ma esso si incarica anche di educare alla modernità. Da questo punto di

vista, il quiz è paradigmatico. E’ una trasparente metafora dell’ascesa sociale attraverso il duro

studio che separa il concorrente dalla gente comune dalla quale pur proviene.

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“La Rai, Radio Televisione italiana, inizia oggi il suo regolare servizio di trasmissioni televisive.

Le maggiori trasmissioni dell’odierno programma sono:

 Ore 11.00 Telecronaca dell’inaugurazione degli studi di Milano e dei trasmettitori di

Torino e di Roma;

 Ore 15.45 Pomeriggio sportivo;

 Ore 17.30 Le miserie del Signor Travet, film diretto da Mario Soldati

(Fulvia Colombo, prima annunciatrice, 3 gennaio 1954)

In realtà dell'inizio delle trasmissioni circolari televisive e dunque dell’inaugurazione del 3

gennaio 1954 non esistono filmati originali, essendo una telecronaca diretta, e dieci anni dopo Ugo

Zatterin farà recitare il palinsesto di quel fatidico giorno all'annunciatrice della sede TV di Milano, la

già citata Fulvia Colombo. Il 4 giugno dello stesso anno viene nominato il primo amministratore

delegato della Rai, Filiberto Guala, ingegnere torinese, vicino alle posizioni del gruppo di Dossetti,

Fanfani e La Pira.

Se nei primi anni dall’avvento della televisione in Italia, paese ancora agricolo-comunitario,

la gente si riuniva nelle piazze, nei bar, nei cinema, nei teatri per assistere alla programmazione,

successivamente, con il boom economico (fine anni ’50), iniziò la tendenza all’acquisto del proprio

apparecchio televisivo da mettere in casa. La situazione degli abbonamenti dal 1954 al 1964 è di

seguito riportata:

 1964: più di 5 milioni di abbonati

 Fine 1954: 90.000 abbonati

 1954: 24.000 abbonati

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La TV è una sorta di grande orologio che scandisce, attraverso i suoi ritmi, i suoi

appuntamenti, le abitudini di ascolto condivise dall’intera popolazione e favorisce una sorta di

unificazione all’interno di un tessuto sociale che non disdegna di rivelare le sue trame, rispecchia i

mutamenti della società dopo aver alimentato le condizioni di questi mutamenti.

(Aldo Grasso, 1992)

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3. Il progetto pedagogico

La Rai, che il 10 aprile 1954, cambia la denominazione sociale da Radio Audizioni Italiane

S.p.A. in RAI - Radiotelevisione Italiana ha un progetto culturale, espressione di un servizio pubblico

orientato a educare, informare, intrattenere. La programmazione dei primi anni televisivi riguarda

soprattutto un tipo di intrattenimento adatto alla famiglia, immediato e spensierato, in grado di

soddisfare un pubblico esteso, anche non acculturato. Delle 28 ore settimanali occupate dal

servizio televisivo degli esordi, la maggior parte è dedicata ai varietà, ai giochi e ai quiz che

entrano a far parte dell’immaginario collettivo. Si tratta di programmi con una struttura

elementare, basata sul ruolo centrale del presentatore e sulla facilità dei contenuti.

L’esempio più significativo è rappresentato da Lascia o raddoppia? che nel 1955 inaugura

l’era del quiz televisivo.

Oltre alla capacità di intrattenimento, la televisione comincia a diffondere anche un nuovo

tipo di linguaggio che in poco tempo andrà a cambiare il lessico comune. Espressioni folcloristiche

o allocuzioni gergali come nientepopodimenoche di Mario Riva o il fiato alle trombe di Bongiorno

entrano a far parte del frasario quotidiano, che inizia in questi anni la sua repentina omologazione

nei confronti del linguaggio televisivo.

È vero, come è stato da più parti sottolineato anche seguendo le considerazioni del

linguista Tullio De Mauro, che il nuovo mezzo contribuisce all’unificazione linguistica delle classi

popolari, trasformando l’italiano nella lingua nazionale. Ma tale unificazione avviene anche

attraverso l’adozione di espressioni e neologismi che di lì a poco muteranno (anche in senso

negativo) la lingua italiana, portando a quell’appiattimento di linguaggio che oggi caratterizza il

modo di esprimersi delle giovani (e meno giovani) generazioni.

Va riconosciuto comunque il ruolo centrale che la televisione ha assunto anche nel

trasformare alcuni aspetti della via quotidiana. Nella sua funzione di veicolo di intrattenimento, il

servizio televisivo doveva raggiungere un pubblico vasto, interessando analfabeti e acculturati,

professori e contadini. Un obiettivo ampiamente raggiunto, nonostante un’iniziale programmazione

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non particolarmente varia. Sino alla fine degli anni Cinquanta, infatti, le ore dedicate

all’intrattenimento sono ancora poche. Esistono due fasce orarie, dalle 17,30 alle 19 con

trasmissioni dedicate ai ragazzi, e dalle 20,45 alle 23 con programmi per adulti, con l’unica fascia

mattutina domenicale per la tradizionale funzione religiosa. Lo schema giornaliero rimane fisso per

parecchio tempo, spaziando dal quiz alla serata di prosa, dallo sceneggiato alla rivista di varietà,

con intermezzi dedicati ai film, agli avvenimenti sportivi e ai documentari.

L’obiettivo di chi si occupava della programmazione era soprattutto quello di combinare

l’intrattenimento con un intento pedagogico. I programmi, infatti, dovevano divertire, ma anche

promuovere e diffondere quei valori morali sui quali l’Italia aveva costruito la propria identità. Valori

improntati naturalmente alla serietà, allo spirito di sacrificio, al rigore, al senso della misura, alla

morigeratezza nei comportamenti, filtrati attraverso programmi in linea con la morale corrente.

In questa direzione fondamentale è il ruolo della Democrazia Cristiana, il partito che per

primo ha intuito l’importanza della televisione ai fini politici e di consenso, che inserisce propri

uomini ai vertici della tv inaugurando una prassi che rimarrà immutata fino ai nostri giorni. I governi

cattolico-moderati, appoggiati in questa funzione dalla Chiesa, affiancano agli intenti pedagogici

intenti di persuasione politica peraltro del tutto inefficaci: da quando nasce la TV la DC perde

progressivamente consensi. A sua volta il PCI aumenta continuamente i suoi suffragi finché non è

ammesso a controllare segmenti della TV di Stato, poi inizia a perderli. La televisione occidentale

non è un mezzo efficace di controllo ideologico e di persuasione, ma è capace di influenzare i

comportamenti in senso individualistico e di incrementare le culture del consumo.

I film e gli sceneggiati, ma pure i varietà e i quiz, dovevano far immedesimare lo spettatore

in un mondo ovattato ma moralmente corretto, lontano dagli sfarzi e dagli eccessi della sempre

più criticata american way of life. Il modello americano, spregiudicato e libertino, costituisce infatti

l’ossessione dei cattolici (ma anche, pur per ragioni differenti, dei comunisti) che combattono

quell’influenza e voglia di imitazione anche attraverso la proposizione di modelli alternativi. Le ore

passate davanti al piccolo schermo devono essere rassicuranti, in grado di divertire o

commuovere, ma soprattutto di incentivare e insegnare uno stile di vita consono al buon cristiano.

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Funzionali a tal proposito sono gli sceneggiati che, riproponendo romanzi ottocenteschi

celebrano i buoni sentimenti. Un esempio fu Il dottor Antonio, il primo romanzo sceneggiato del

1954, diretto da Alberto Casella, tratto dal romanzo di Giovanni Ruffini o, più tardi, Piccolo mondo

antico o ancora Umiliati e offesi sono scelti per promuovere un modello sociale improntato all’idea

dell’unità della famiglia e della purezza dei costumi. Non è un caso che vengano diffuse delle vere

e proprie «norme di autodisciplina» della Rai-tv, da utilizzare come guida per i censori per

cancellare o proibire scene o linguaggi troppo trasgressivi. Peraltro la loro effettiva circolazione e

applicazione non è certa.

Nella campagna per la moralizzazione dei costumi, avviata dalla DC nel dopoguerra,

rientra dunque anche l’attenzione alla televisione, il cui compito era quello di impedire quei

comportamenti giudicati immorali, suggeriti dalle nuove mode dilaganti.

A lanciare i consumi arriverà poi Carosello, che dal 3 febbraio 1957 inaugura l’era della

pubblicità sotto forma di racconto. Due minuti di ministoria trasmessa subito dopo il telegiornale, in

un appuntamento che diventa parte integrante della vita degli italiani, fino a scandirne addirittura

il tempo («andare a letto dopo Carosello»). Sullo sfondo delle piazze o dei monumenti più o meno

celebri d’Italia si ambientano le scene che, con protagonisti o simboli che entrano di prepotenza

nell’immaginario nazionale, sono finalizzate a propagandare questo o quel prodotto. Una maniera

particolare di diffondere la pubblicità, attraverso un linguaggio che cercava di coniugare i valori

domestici con quelli consumistici ed edonistici. Tali aspettative coincidevano, infatti, con il

passaggio dell’Italia rurale all’Italia consumistica, con tutte le conseguenze implicite in un

accelerato processo di modernizzazione.

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Indice

1. I PRINCIPALI ESPERIMENTI ....................................................................................................................... 3


2. IL CINEMA ITALIANO E IL COLORE ......................................................................................................... 6
3. UNA SCELTA OBBLIGATA ........................................................................................................................ 8
BIBLIOGRAFIA ................................................................................................................................................. 10

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Anna Bisogno - Il cinema a colori

1. I principali esperimenti

La ricerca e la sperimentazione del colore hanno accompagnato il cinema fin dalle origini

con la luce che svolge un ruolo centrale per distinguere atmosfere, oggetti, dividere gli spazi,

creare significati, scandire il tempo (il giorno e la notte).

L’illuminazione determina le atmosfere fotografiche nel film. A tal proposito possiamo

distinguere l’illuminazione intradiegetica da quella extradiegetica. Il termine “diegesi” indica ciò

che è pertinente alla narrazione, e dunque l’illuminazione intradiegetica si riferisce a una luce che

entra nella narrazione e di cui lo spettatore vede la fonte. La extradiegetica invece è una luce la

cui fonte resta nascosta all’occhio dello spettatore, ma che può svolgere una funzione

determinante nella definizione figurativa dell’inquadratura. Nella luce intradiegetica le fonti di luce

fanno parte della messa in scena, cioè della storia raccontata (lucerne, candele, ecc.); in quella

extradiegetica l’illuminazione è prodotta da riflettori e superfici riflettenti collocate sul set del film,

ma che non devono mai essere mostrati dalla macchina da presa.

L’utilizzo della luce si differenzia tra un genere e l’altro: il cinema comico predilige luci

diffuse, in modo che siano sempre visibili i movimenti e la mimica dei personaggi e che sia sempre

chiara la situazione. Un bon esempio è costituito dalle scansioni di luce in City Lights (1931) di

Charlie Chaplin, dove il livello di luce della notte nella scena del tentato suicidio è tenue, mentre

quello dell’incontro con la giovane fioraia - il lieto fine - è luminoso, immerso nella luce chiara del

mattino.

Al contrario nel genere drammatico la luce mette in immagine i contrasti, li asseconda, li

sottolinea. Così facendo, detta le atmosfere e genera emozioni più forti. Ne è un esempio il cinema

espressionista tedesco degli anni Dieci e Venti del Novecento, dove l’utilizzo della luce serve a

creare contrasti forti in grado di produrre un’espressività intensa.

Oppure, ancora, l’utilizzo della luce può diventare addirittura la cifra che caratterizza, oltre

che un genere, un regista o una casa di produzione. È quanto accade nello studio system

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hollywoodiano. Negli anni Trenta, ad esempio, l’illuminazione dai forti contrasti caratterizza i

gangster movie o gli horror.

L’avvento del colore nell’arte cinematografica è stato scandito da numerosi e diversi

esperimenti, molti dei quali non portarono ai risultati sperati. Tra la fine degli anni Venti e la fine

degli anni Quaranta le ricerche si intensificarono e vennero proposti e presentati molti

procedimenti diversi, fino a quando ebbero inizio le prime esperienze concrete per ottenere

immagini colorate per sintesi additiva o sottrattiva a partire da due o tre colori primari (come, ad

esempio, nelle pellicole di Stan Laurel e Oliver Hardy).

Ancora prima della nascita del cinema, già nel 1892, ci furono dei tentativi ad opera di

Charles-Émile Reynaud, considerato un precursore del cinema d’animazione, per utilizzare il colore

per le sue pantomime luminose, proiettate al Museo Grévin di Parigi. Egli dipinse a mano ogni

singola immagine e applicò le sue tinture a pastello direttamente sulla pellicola. Ciò fece di lui il

primo realizzatore di disegni animati a colori. Dopo di lui, nel 1894, uno dei film prodotti da Thomas

Edison venne colorato anch’esso a mano, fotogramma per fotogramma. Il film in questione è

Serpentine Dance (La danza della Farfalla), un cortometraggio della durata di venti secondi circa

realizzato per il kinetoscopio, nel quale una danzatrice compie giravolte producendo effetti

deformanti. Si tratta della prima apparizione del colore applicato a una ripresa fotografica

animata originariamente in bianco e nero.

Dopo l’invenzione dei Lumière, si svilupparono due sistemi per colorare le pellicole.

 Un primo sistema consisteva nel dipingere con pennelli sottilissimi ogni singolo fotogramma,

come fece per alcuni suoi film uno dei pionieri del cinema, George Méliès. Questa tecnica

era molto onerosa ma gli effetti spettacolari garantiti. Le produzioni Pathé, Gaumont e

quelle di Edison si dotarono di laboratori attrezzati all’interno dei quali decine di

collaboratori venivano impegnati dapprima a colorare manualmente con un piccolo

pennello i fotogrammi, poi con un sistema meccanico.

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 L’altro sistema, più veloce e più diffuso, consisteva nel dare alla pellicola un colore uniforme

per ciascuna sequenza o inquadratura. Questo effetto si poteva ottenere applicando una

vernice colorata sul supporto della pellicola, o attraverso il viraggio, ovvero utilizzando una

pellicola già colorata in partenza.

Nel 1911 il britannico George Albert Smith con l’americano Charles Urban elaborò un

procedimento che produceva un effetto illusorio del colore su una pellicola in bianco e nero, il

Kinemacolor. Si trattava di un processo che proiettava una pellicola in bianco e nero dietro filtri

alternati rosso e verde. L’idea fu accolta favorevolmente ma quasi subito mostrò tutti i suoi limiti, a

cominciare dagli alti costi di installazione di specifici proiettori nelle sale cinematografiche oltre che

per gli evidenti aloni sulle immagini.

Durante le prime fasi della guerra fu messo a punto un nuovo procedimento,

completamente americano, il Technicolor, che come il precedente utilizzava la pellicola in bianco

e nero. Le riprese venivano realizzate attraverso una pesante camera da presa, che

contemporaneamente faceva scorrere tre strati di pellicola in bianco e nero sincronizzate tra loro

e che rappresentavano le matrici di ciascun colore primario (rosso, giallo, blu). Sin dagli anni Venti,

col Technicolor si realizzarono film d’animazione, musicali, in costume, western, poiché era

evidente che l’uso del colore produceva effetti di particolare spettacolarità ed epicità. Più tardi il

Technicolor fu utilizzato anche dalle commedie e dai film drammatici.

Dopo il Technicolor, negli Stati Uniti nasce l’altra importante tecnica per conferire colore

alle pellicole, l’Eastmancolor, che - a tutt’oggi - risulta il procedimento più utilizzato del mondo. Fu

introdotto nel 1950 dalla Eastman Kodak e costituì una valida alternativa economica al

Technicolor: forniva un colore più reale alla pellicola cinematografica, con tinte né troppo cariche,

né troppo sbiadite. Dopo la sua introduzione, fu continuamente perfezionato negli anni successivi.

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2. Il cinema italiano e il colore

In Italia, inizialmente, si optò per una tecnologia nazionale che risultava più economica e

aveva già dato buoni risultati nella fotografia degli anni Venti, il Ferraniacolor, che inaugura la

stagione del colore nel cinema italiano con Totò a colori (1952) per la regia di Steno. Il

procedimento tuttavia presentava un forte limite dal momento che i colori risultavano eccessivi,

troppo forti, oltre che instabili. Ne è un esempio Gran varietà (1954) con Renato Rascel, Vittorio De

Sica e Alberto Sordi i cui colori sono talmente accesi da far sembrare i protagonisti e gli ambienti

quasi irreali. Così a partire dal 1955 fu sostituito in favore dell’Eastmancolor che forniva maggiori

garanzie e risultava anche più economico. Il suo primo utilizzo in Italia fu applicato al film Pane,

amore e… (1955), con Sophia Loren e Vittorio De Sica e a seguire, con risultati addirittura superiori,

con Venezia, la luna e tu (1958) con Alberto Sordi e Marisa Allasio, dove non si registrano particolari

sbavature cromatiche.

In campo cinematografico gli anni ’60 si caratterizzeranno anche per una divisione tra chi

sostiene le pellicole in bianco e nero e chi, invece, quelle a colori; il bianco e nero fu generalmente

utilizzato per i film più impegnati, mentre il colore connotava all’inizio i film più popolari e

commerciali. Questa distinzione, che a tratti fu anche una contrapposizione, si stemperò col tempo

in una graduale generalizzazione del colore, rimanendo il bianco e nero una scelta di nicchia.

Tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta arriva il Cinemascope,

utilizzabile in egual modo sia per il bianco e nero che per il colore. Si tratta di un sistema di tecnica

di ripresa e di proiezione cinematografica, oggi non più in uso, che permette di allargare, in

orizzontale, il campo visivo attraverso particolari lenti e schermi più grandi del normale. Il sistema fu

brevettato e lanciato sul mercato negli anni Cinquanta dalla 20th Century Fox. Troviamo l’utilizzo

del Cinemascope per la prima volta ne La tunica (1953), con Richard Burton e in Italia in Giove in

doppiopetto (1955) di Daniele D'Anza, con Carlo Dapporto e Delia Scala, trasposizione

cinematografica della commedia musicale di Garinei e Giovannini.

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Il Cinemascope paradossalmente rilancia il bianco e nero e gli dà nuova linfa sia negli Stati

Uniti che in Italia. Qui a titolo di esempio si possono citare due film celebri film fra i massimi risultati

fotografici italiani, entrambi del 1960: Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti (con la fotografia di

Giuseppe Rotunno) e La dolce vita di Federico Fellini (fotografia di Otello Martelli) a cui il

Cinemascope fornisce un contributo straordinario sotto il profilo stilistico e della intensità delle

immagini.

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3. Una scelta obbligata

Il bianco e nero sopravvive ancora nei film di Michelangelo Antonioni L’avventura (1960),

La notte (1961) e L’eclisse (1962), che si servirà del colore in maniera simbolica ne Il deserto rosso

(1964), dove il colore rosso fa evidentemente riferimento a quello dei sentimenti. Ma realizzare

ancora un film in bianco e nero diventa costoso, impegnativo sotto il profilo tecnico e con una

risposta del mercato insufficiente.

Dalla metà degli anni Sessanta quella del colore diventa una strada ineludibile. Il colore è

finalmente liberato, con le opere di Fellini, Antonioni, Godard e può esprimere tutto il suo

potenziale formativo, in grado di guidare la percezione dello spettatore e di dare compiutamente

forma al film.

In Italia da questo momento in poi viene usato come espediente per flash back, salti

all’indietro nel tempo. Un esempio importante è rappresentato da C’eravamo tanto amati di

Ettore Scola (1974), con Vittorio Gassman, Nino Manfredi e Stefano Satta Flores: le scene della lotta

partigiana all’inizio sono girate in bianco e nero, mentre il resto del film è realizzato a colori.

Gli anni Settanta sono anche gli anni in cui i grandi autori del dopoguerra danno ancora

robusta testimonianza della propria presenza: si pensi a Vittorio De Sica (Il giardino dei Finzi Contini,

1971), Roberto Rossellini che – tra l’altro - inizia a sperimentare programmi storico-didattici per la

televisione, Luchino Visconti (Morte a Venezia, 1971), Federico Fellini (Amarcord, 1973),

Michelangelo Antonioni (Professione reporter, 1975).

Sono questi anche gli anni in cui giungono a maturità espressiva registi come Bernardo

Bertolucci (Ultimo tango a Parigi, 1972) e Marco Ferreri (La grande abbuffata, 1973).

Questi anni, al tempo stesso, coincidono con una fase complessa e non omogenea del

cinema e della società in Italia: da un lato il consolidamento di un’industria cinematografica che

riesce ad essere competitiva nei confronti del cinema americano, dall’altro l’inizio di una crisi che

attanaglierà il cinema italiano sino a tempi recenti. L’apparato dell’industria cinematografica

italiana subisce una battuta d’arresto. Alla florida stagione degli anni ’60 si contrappone un

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decennio di delicati cambiamenti e di inadeguate politiche che non garantiscono il sostegno

necessario all’industria. A ciò si aggiungono: la resistenza diffusa al processo di modernizzazione

delle competenze produttive, la chiusura di numerose sale cinematografiche e la differenziazione

delle forme di consumo a vantaggio di quello televisivo.

Ettore Scola con il suo C’eravamo tanto amati si assunse in qualche modo l’impegno di

chiudere in bellezza un’epoca.

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Anna Bisogno - La paleotelevisione

Indice

1. L’ITALIA E LA TV ........................................................................................................................................ 3
2. GLI INTELLETTUALI E IL NUOVO MEZZO ................................................................................................... 6
3. UNO STRUMENTO PEDAGOGICO E DI MASSA ...................................................................................... 9
BIBLIOGRAFIA ................................................................................................................................................. 12

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da
copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).

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1. L’Italia e la TV

La nascita della televisione in Italia è un fenomeno complesso e non sempre lineare.

L’impatto sulla cultura, specialmente quella “alta”, il suo importante ruolo nella costruzione

dell’immaginario collettivo nazionale, è qualcosa di straordinario per lo sviluppo dell’industria

culturale nel nostro Paese. Sin dalle sue origini, infatti, la televisione entra prepotentemente nelle

case degli italiani.

Gli ambiti in cui si esplica l'attività della giovane televisione italiana riflettono i bisogni e

l’obbligo del nuovo, proprio del tempo moderno, attraversando le coscienze di un Paese ancora

povero a seguito dell’esperienza tragica della Seconda guerra mondiale, ma con una forte spinta

alla modernizzazione su tutti i fronti.

La televisione è stata un fondamentale mezzo per la transizione dalla comunicazione

attraverso testi scritti e stampati a quella visuale e audiovisiva, che la pittura e la fotografia

avevano inaugurato. Anche il cinema si è mosso nella stessa direzione, conferendo movimento e

dinamicità alle immagini, proponendosi come intrattenimento in grado di superare le barriere e le

distanze tra classi sociali, ma in forme, tempi, narrazioni diverse dalla televisione, che si propone

come un vedere lontano e come un mezzo che volge lo sguardo oltre la miseria di un vissuto di

povertà.

La radio, dal canto suo, aveva cercato di annullare le distanze, entrando nelle case e nella

quotidianità delle famiglie, ma non come il mezzo televisivo che invece realizzava la

contemporaneità del suono e dell’immagine.

Le attese circa l’evoluzione del mezzo erano molte ed erano state già anticipate sul finire

del 1953, dall’illustrazione di Walter Molino sulla copertina de “La domenica del Corriere”. In essa

compare una famiglia unita che assiste a una partita di calcio. In questa raffigurazione grafica è

rappresentata la metafora più convincente della televisione. Due sono gli elementi più

rappresentativi: il primo è l’idea che il mezzo televisivo sia capace di unire tutte le famiglie italiane,

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in perfetta linea con lo spirito del tempo, e la simultaneità dello spettacolo, l’originalità della diretta

che dava l’impressione, o meglio, l’emozione di stare dentro l’evento.

Il 12 aprile 1952 un impianto trasmittente installato a Milano trasmette nel contesto dei

programmi sperimentali l’inaugurazione della Fiera Campionaria.

Dopo queste «prove» la televisione italiana inizia a trasmettere ufficialmente alle 14,30 del 3

gennaio 1954. In programma vi è una rubrica settimanale di interviste a famosi personaggi in arrivo

o in partenza dall’Italia. Seguono un cortometraggio, un momento musicale, il Pomeriggio sportivo,

un film di Mario Soldati, un documentario sul Tiepolo, il telegiornale, una mezz’ora di curiosità

culturali, una commedia di Goldoni, un intrattenimento di musica leggera e alle 23,15 La

domenica sportiva conclude la prima giornata televisiva.

“Ancora non si può avere idea dell’importanza che assumerà, in un’epoca che mi auguro

non lontana, la diffusione su larga scala, anche in Italia, della televisione. Non sarà una rivoluzione,

che presuppone il sommovimento, ma sarà evoluzione, che è quanto dire progresso.” (C. Ridòmi,

Presidente Rai, in Radiocorriere, 17-23 gennaio 1954)

Il cartellone dei primi anni è simile a quello della prima giornata televisiva: vanno in onda

programmi sportivi, di divulgazione scientifica e letteraria, documentari, opere di prosa e di lirica,

varietà musicali, sceneggiati che fanno conoscere molti romanzi classici, inchieste che affrontano

problematiche attuali, corsi di alfabetizzazione e di istruzione. Questi contenuti inducono a ritenere

che l’impegno dei dirigenti Rai fosse quello di promuovere la cultura tra la popolazione, tra cui

c’erano ancora molti analfabeti o semianalfabeti. Indubbiamente la televisione ha favorito negli

anni successivi alla seconda guerra mondiale quell’unificazione linguistica e culturale, che scuola e

istituzioni non erano riuscite a raggiungere in quasi cento anni di unificazione politica.

Nei primi anni televisivi sono poche le famiglie che si possono permettere un apparecchio

dal costo medio di 250 mila lire: tanto, se si considera che lo stipendio di un operaio si aggira in

questo periodo intorno alle venti-venticinquemila lire mensili; però sono ugualmente molti i

telespettatori che in certe serate si radunano nei bar dove è esposto un televisore, per vedere i

quiz o il festival di Sanremo o le partitissime».

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Gli italiani seguono con interesse ed euforia i quiz, tanto che il giovedì molti cinematografi

interrompono la programmazione per trasmettere il telequiz Lascia o raddoppia? condotto da

Mike Bongiorno in onda dal novembre 1955 fino al 1959. La partecipazione è generale: tutti

parlano dei concorrenti e della loro memoria formidabile. La televisione dei primi anni, poiché la si

vede insieme ad altri, è uno mezzo che aggrega.

Altri quiz lasciano il segno nella storia della nascente tv, come Il Musichiere o Telematch

(1957) che si collega alle piazze della provincia dove un oggetto misterioso, il cui nome viene

indicato nella puntata successiva, diventa il tormentone della settimana.

Campanile sera (1959), proponendo una sfida fra un Comune del Nord e uno del Sud,

convoglia nelle rispettive piazze tutti gli abitanti, vivaci tifosi del loro paese, risoluti a farsi

immortalare dalle telecamere, pronti a biasimare o a esaltare i protagonisti locali della trasmissione

a seconda della loro risposta ai quiz.

Il linguaggio televisivo è serio e austero, vengono censurate parole ritenute troppo ardite e

viene esercitato un severo controllo sull’abbigliamento, che deve essere castigato. La satira

politica, anche se velata, viene osteggiata o vietata.

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2. Gli intellettuali e il nuovo mezzo

Nonostante il ruolo di primo piano assunto dalla televisione nei termini della costruzione

dell’identità nazionale, l’atteggiamento di una parte degli intellettuali italiani circa gli effetti sociali

del nuovo mezzo non è del tutto benevolo. A soli due giorni dall’inaugurazione della tv, il giornalista

Luigi Barzini manifesta già le prime preoccupazioni sullo sviluppo e sull’evoluzione del nuovo mezzo

nel tessuto sociale italiano.

In un articolo Barzini affermava: “Io pensavo con spavento, mentre tutti gli altri parlavano,

alle responsabilità di chi avesse dovuto dirigere una simile spaventosa macchina. Tra breve, senza

dubbio, l’apparecchio sarà letteralmente ovunque, dove ora sono radioriceventi, in parrocchia,

nello stabilimento di bagni, nelle trattorie, nelle case più modeste. La capacità di istruire e di

commuovere con l’immagine unita alla parola e al suono è enorme. Le possibilità di fare del bene

o del male altrettanto vaste. L’Italia sarà, in un certo senso, ridotta ad un paese solo, una immensa

piazza, il foro, dove saremo tutti e ci guarderemo tutti in faccia. Praticamente la vita culturale sarà

nelle mani di pochi uomini” (Luigi Barzini “Occhio di vetro. La prima della televisione”, articolo

pubblicato su “La Stampa” il 5 gennaio del 1954)

Scrittori come Giorgio Bocca, Alberto Moravia, Pier Paolo Pasolini, Paolo Monelli, di fronte al

nuovo mezzo televisivo nutrono profondi sentimenti di timore. Gli intellettuali, specialmente quelli di

sinistra, concepiscono il mezzo televisivo come un nuovo livello di degradazione della cultura

borghese incapace di interpretare la complessità della società moderna. La difficoltà di

comprendere il linguaggio e i contenuti del nuovo apparecchio elettronico, che diffondeva stili e

modelli di vita “americani”, in realtà viene vissuta con ostilità dalla maggior parte degli intellettuali

comunisti. Tale posizione è espressa in un articolo apparso sul quotidiano “L’Unità” del 9 gennaio

1954: “La tv sarà un privilegio riservato a pochi eletti, ma invidiarli francamente non ci sentiamo e

questo per la semplicissima ragione che abbiamo seguito i programmi che la tv italiana offre agli

abbonati. Francamente verrebbe voglia di chiamar privilegiati quelli che nella rete non sono

caduti e hanno fatto a meno della tv”.

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Chi invece seppe cogliere i primi effetti sociali della televisione fu Italo Calvino che ne “La

televisione in risaia”, pubblicata sulla rivista “Il Contemporaneo” nel 1954, scrive:

“Da qualche mese, nella vita dei piccoli paesi della risaia vercellese, è entrato un elemento

nuovo: la televisione, e si può già dire che essa incida sul costume paesano più di quanto non

abbia fatto in tanti anni il cinema. Infatti, nei paesi dove esiste una sala cinematografica gli

spettacoli sono saltuari o limitati ai giorni festivi, e assistervi assume un carattere di eccezionalità.

Invece la televisione c’è tutte le sere,e vi si assiste in un ambiente tradizionale e tipico della vita

paesana: l’osteria; e non c’è da pagare lo spettacolo, ma solo la consumazione, che poi non è

dappertutto obbligatoria […]Mentre nella vita delle nostre città la televisione ha ancora un peso

irrilevante, nella vita paesana si può già dire che essa eserciti un’influenza sulle abitudini sociali: e,

al contrario di quanto può parere a prima vista, la sua fortuna si adatta particolarmente ad una

situazione di povertà e isolamento, dove altri svaghi sono inaccessibili e le possibilità di

spostamento limitate”.

Coloro che, invece, compresero e seppero interpretare meglio le innovazioni del nuovo

apparecchio tecnologico furono i dirigenti della Rai legati al mondo cattolico. Il loro background

ideologico, legato ad alcuni correnti della Democrazia Cristiana, era in sintonia con le posizioni

espresse da Papa Pio XII che nella enciclica Miranda Prorsurs, promulgata l’8 settembre 1957,

illustrerà l’interesse della Chiesa per i mezzi di comunicazione di massa (cinema, radio, televisione),

sottolineandone la missione educativa e la responsabilità a cui sono chiamati nel diffondere

informazione, istruzione, educazione alla popolazione:

[…] Alcune di queste invenzioni servono a moltiplicare le forze e le possibilità fisiche

dell'uomo; altre a migliorare le sue condizioni di vita; altre ancora, e queste più da vicino toccano

la vita dello spirito, servono o direttamente, o mediante artifici di immagini e di suono, a

comunicare alle moltitudini, con estrema facilità, notizie, idee e insegnamenti, quali nutrimento

della mente, anche nelle ore di svago e di riposo.

Tra le invenzioni riguardanti quest'ultima categoria, uno straordinario sviluppo hanno preso,

durante il nostro secolo, il cinema, la radio e la televisione.

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La Chiesa ha accolto queste invenzioni, fin dall'inizio, non solo con particolare gioia, ma

anche con materna ansia e vigilante sollecitudine, volendo essa proteggere da tutti i pericoli i suoi

figli, sulla via del progresso […].

Sono gli anni in cui si sedimenta un rapporto fecondo tra la Rai e la classe politica italiana.

Va in questa direzione l’esperienza breve ma assai importante della dirigenza di Filiberto Guala.

Il nuovo amministratore delegato, vicino alle posizioni politiche di Amintore Fanfani, operò in

due direzioni: da una parte cercò di portare nella Rai di allora quelle capacità imprenditoriali e

manageriali di cui la nuova azienda aveva bisogno, rendendo il mezzo televisivo sempre più

autonomo dal cinema e ponendo le basi per la costruzione di una vera e propria industria

culturale; ruppe, inoltre, il decentramento dirigenziale (la Rai era quasi tutta collocata a Torino)

accentrando l’azienda a Roma. Dall’altra organizzò, sotto l’impulso di Pier Emilio Gennarini, corsi

volti a formare giovani intellettuali cattolici che sarebbero poi diventati i nuovi dirigenti e funzionari

dell’azienda pubblica. Guala inoltre investì sulla programmazione e immaginò un mezzo in grado

di costruire il tempo libero degli italiani. Tuttavia, ciò che contraddistinse la sua azione

imprenditoriale e culturale fu una forte appartenenza ad un cattolicesimo vissuto in maniera

integrale e totalizzante.

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3. Uno strumento pedagogico e di massa

Già nel biennio precedente il Consiglio di amministrazione Rai aveva varato un severo

codice di autoregolamentazione, il quale chi avrebbe lavorato in televisione era tenuto a

rispettare in ogni suo punto. Il codice rappresentò uno scoop del giornalista Arturo Gismondi, che

ne venne in possesso e lo pubblicò con gran clamore. Non ci sono però prove effettive

sull'estensione della sua applicazione. Che si conduca un Tg o si faccia intrattenimento puro,

pertanto, vi sono alcune parole, e ancor più temi, che per nulla al mondo devono essere tirati in

ballo: “divorzio”, “aborto”, “adulterio” e “prostituzione”, ad esempio, saranno per anni le parole

tabù della televisione pubblica nazionale. Almeno secondo il "codice" attribuito a Filiberto Guala.

Il primo notiziario televisivo, della durata di 15 minuti, diretto da Vittorio Veltroni, e trasmesso

poi ogni martedì, giovedì e sabato durante il periodo sperimentale. Dal 1954 sarà quotidiano. Il

telegiornale è ispirato al modello del cinegiornale, con una serie, quindi, di cinque o sei servizi

commentati da una voce fuori campo e conclusi da una sequenza di curiosità.

L’idea è quello di un modello culturale che integri le istanze della modernizzazione nel

sistema di valori della tradizione cattolica (e contrapposto all’egemonia della sinistra in campo

letterario e cinematografico).

Tre le tappe principali:

• Primo biennio, gestione Filiberto Guala: forte impronta religiosa e moralistica della

programmazione. Codice di autodisciplina (“famiglia, ordine e morigeratezza dei

costumi”).

• Fino al 1961/62, gestione Marcello Rodinò di Miglione: prevalenza funzioni

pedagogiche (con Tv scolastica e per ragazzi), dovute anche ad esigenze di

unificazione linguistica e culturale della popolazione, ancora fortemente divisa tra

Nord e Sud, ricchi e poveri, acculturati e analfabeti (nel ‘54, il 13% della popolazione

è analfabeta).

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• Dal 1962/63 fino al 1974, direzione Ettore Bernabei, la più lunga nella storia del

servizio televisivo pubblico. Sotto la sua direzione il Servizio Pubblico conobbe, per la

prima volta, il palinsesto, il secondo canale e l’estensione dell’orario dei programmi,

sperimentò il giornalismo di inchiesta con il Rotocalco Tv (l’attuale Tv7), realizzato da

Enzo Biagi durante il suo breve impegno come direttore del Telegiornale. Il momento

dell’informazione divenne da una parte una finestra aperta sul mondo, dall’altra un

simbolo delle istituzioni. Il Telegiornale, infatti, andava in onda con un tono freddo e

istituzionale, proprio per evidenziare la sua funzione di amplificatore del messaggio

governativo.

Forte sintonia tra Tv e società con il palinsesto progressivamente (e rigidamente) strutturato

in base a dinamiche della vita quotidiana:

 “La tv dei ragazzi” (alle 18)

 “Ritorno a casa” (alle 19, con TG serale e varie)

 “Ribalta accesa” (alle 20, con rubriche, TG e Carosello)

 Prima serata e Seconda serata (dalle 21)

 Trasmissioni mattutine limitate a programmi scolastici e a Santa Messa

domenicale

 Spettacolo serale organizzato per appuntamenti settimanali (domenica lo

sceneggiato, sabato il varietà, ecc.) e in modo complementare tra le due

reti (Nazionale e Secondo).

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L’informazione era affidata a: notiziari, approfondimenti giornalistici, documentari TG,

Tribune elettorali (1960) e politiche (1961); rotocalchi Tv: RT 1962 (Biagi), Tv7 1963 (Vecchietti); I

Viaggi del telegiornale 1958 (reportage), La donna che lavora 1959, Specchio segreto 1964 (Loy).

L’intrattenimento veniva declinato in: canzoni; quiz e giochi a premi; varietà; sport; film,

telefilm, Il Festival di Sanremo 1955, Il cantagiro 1962, Castrocaro 1964; Campanile sera 1959, Lascia

o raddoppia? 1955, Il Musichiere 1957; Un, due, tre 1954, Canzonissima 1958, Studio Uno 1961; La

domenica sportiva 1953, Processo alla tappa 1962; Giallo club 1959 (tenente Sheridan).

La cultura trovava forme nelle: opere liriche, commedie e tragedie; divulgazione culturale e

scientifica Teatro in Tv: programmi in studio o in collegamento da teatro, in diretta (dal ‘54 con

L’osteria della posta di Goldoni al ciclo di Eduardo, ecc.); Una risposta per voi 1954 (prof. Cutolo),

Le avventure della scienza 1954, Almanacco di storia, scienza e varia umanità 1963, L’Approdo

1963.

L’educazione veniva diffusa attraverso: trasmissioni pedagogico-educative - Rubriche

religiose (La posta di Padre Mariano 1959) - Sceneggiati dalla letteratura: il primo è Il dottor Antonio

(1954); tra i tanti altri, spiccano i registi A.G. Majano (La cittadella 1964) e Sandro Bolchi (I promessi

sposi 1967) - Corsi di istruzione: Telescuola (1958-66): corso triennale di avviamento professionale;

Non è mai troppo tardi (1960-68): corso di istruzione popolare per il recupero dell’adulto

analfabeta (con il maestro Alberto Manzi).

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1. TEORIA DEI GENERI ................................................................................................................................. 3


2. IL PERIODO MUTO ................................................................................................................................... 7
3. LA CRISI E L’ETÀ DELL’ORO ................................................................................................................... 10
4. LA PERSISTENZA DELL’IMMAGINARIO.................................................................................................. 15
BIBLIOGRAFIA................................................................................................................................................ 18

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1. Teoria dei generi

Questa lezione è dedicata ad una disamina della genesi del genere western e delle sue

metamorfosi fino al giorno d’oggi. Prima di affrontare questa traiettoria storica, però,

approfitteremo dell’incontro con questo immaginario davvero fondante dell’immaginario

americano per riflettere sui meccanismi di creazione e popolarizzazione delle varie etichette di

genere. Che cosa significa esattamente “genere”? Chi decide che un film appartiene ad un

genere piuttosto che ad un altro? Come si diffondono, in seno a comunità nazionali e

transnazionali, idee condivise relative ai generi cinematografici?

Anche se la definizione di un genere cinematografico potrebbe sembrare, a prima vista,

una faccenda semplice, perché autoevidente e intuitiva, in verità il consolidamento dell’identità di

un genere è un processo tutt’altro che scontato, e prevede dei complessi meccanismi di

negoziazione.

Il volume Film/genere di Rick Altman 1, pubblicato negli Stati Uniti nel 1999 e tradotto in

italiano nel 2004, ha rappresentato un punto di sintesi e insieme di radicale innovazione nell’ambito

della riflessione su questo argomento. Altman compie un implacabile smascheramento di tutti i

possibili luoghi comuni sul genere, di tutte le definizioni semplificate che attribuiscono al Nome del

Genere un valore falsamente universale. Altman contesta sia la posizione di coloro che

banalizzano la questione ricollegando i generi cinematografici a degli antecedenti teatrali o

letterari, sia le letture che fanno invece riferimento all’antropologia culturale per nobilitare lo studio

dei generi e garantire il collegamento. Al contrario, Altman propugna un’analisi del sistema dei

generi che parta dal cinema stesso, ovvero da un attento studio dei meccanismi della produzione

e dei diversi ambiti di ricezione dei film di genere.

Il punto di partenza del discorso di Altman è il suo fortunatissimo articolo del 1984 Un

approccio semantico/sintattico al genere cinematografico, in cui aveva enunciato per la prima

volta l’intuizione di fondo del suo lavoro, ovvero quella che ogni genere è caratterizzato

1
Rick Altman, Film/Genre (1999), trad. it. Film/Genere, Milano, Vita & Pensiero, 2004.

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dall’incrocio tra una serie di elementi semantici con una struttura sintattica. Con il termine

“elementi semantici” si intende quell’insieme di fattori tematici e stilistici che costituiscono il

vocabolario di un genere. Con il termine “struttura sintattica” si designa invece le modalità, gli

schemi di articolazione con cui le storie raccontate da un genere vengono a dispiegarsi.

Questo discorso risulterà più chiaro tramite un esempio pratico, che trarremo naturalmente

dal nostro oggetto di studio, il western. Elementi semantici del genere western sono cavalli e

cowboy, indiani e banditi, così come aspetti più atmosferici (l’enfasi sulla materialità, il fuoco,

l’acqua, l’oro, il cuoio, la polvere, la polvere da sparo), ed anche scelte marcatamente estetiche

(l’uso frequente delle riprese dall’alto con il dolly, per esempio). La struttura sintattica dominante

del genere è invece, come sosteneva già Jim Kitses 2, quella della trasformazione del deserto in

giardino: si possono raccontare diverse fasi della conquista del West (la lotta contro i pellerossa,

contro i fuorilegge o perfino contro la madrepatria inglese) e lo si può fare per mezzo di trame

diverse (in particolare possiamo distinguere tra i western stanziali, ambientati per lo più in un luogo

solo, e i western che invece si focalizzano su un viaggio), ma la narrazione di fondo riguarderà

sempre gli sforzi impiegati dai pionieri per guadagnare il territorio incontaminato e indomito degli

Stati Uniti alle forme del vivere civile e moderno: la trasformazione del deserto in giardino, appunto.

Il punto del discorso di Altman è che né gli elementi sintattici né la struttura semantica

bastano da soli alla creazione di un genere. La sintassi e la semantica devono trovare un intreccio

preciso l’una con l’altra per dare luogo ad un genere riconoscibile e duraturo. Altman sostiene

dunque che un insieme di film inizia a condividere una combinazione semantico-sintattica, ma che

essa rimane dapprima in forma aggettivale (ed infatti è proprio come aggettivo che il termine

“western” viene adoperato inizialmente, durante il cinema delle origini). Soltanto nel momento in

cui quell’aggettivo verrà tramutato in un sostantivo autonomo, nascerà il genere vero e proprio.

Pur tracciando un chiaro modello per la nascita e l’evoluzione dei generi Altman non vuole

certamente dare l’idea che si tratti di una dinamica sempre identica a sé stessa, o che, una volta

2
Jim Kitses, Horizons West: Anthony Mann, Budd Boetticher, Sam Peckinpah: Studies of Authorship within the
Western, Bloomington, Indiana University Press, 1969

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stabilizzatasi, l’identità di un genere rimanga fissa una volta per tutte, monoliticamente. Al

contrario, per lo studioso è fondamentale vedere il genere come un processo, in cui

l’accoppiamento semantico-sintattico è instabile, sempre in evoluzione, e il genere più che

nascere e svilupparsi, deve essere visto come costantemente in fieri.

Proprio a questo scopo, Altman supera qualsiasi visione che presuma una comunicazione

diretta del significato del termine di genere tra i diversi ‘attori’ implicati nel cinema come arte

popolare, ovvero produttori, registi, distributori, critici, spettatori. Se, secondo la vulgata, i

consumatori scelgono i film in base ad una precisa indicazione di genere che viene da una fonte

sola (ovvero l’autore, o la produzione), in realtà la situazione è molto più complessa e Altman

traccia un’approfondita mappa delle diverse modalità di creazione e di fruizione dei generi. Senza

entrare nel dettaglio, basti dire che:

a) i produttori, nel decidere quali film mettere in cantiere, pongono costantemente in atto

un processo creativo-interpretativo retroattivo in cui le categorie di genere sono

sottoposte ad una continua (per quanto spesso implicita) ridefinizione, in quanto

l’obiettivo principale è quello del successo economico, che dipende da una

commistione di elementi tradizionali ed innovativi;

b) nel pubblicizzare il film, i distributori puntano ad interessare la fetta più vasta di pubblico

possibile, e perciò le indicazioni generiche sono tendenzialmente assenti, o viceversa

molteplici: in ogni caso, non univoche;

c) i critici hanno una voce autonoma, che orienta la scelta spettatoriale; se la stampa

specializzata svolgeva questa funzione già all’epoca del cinema classico, l’ingresso del

cinema nell’ambito dell’accademia negli ultimi quarant’anni ha prodotto una serie di

categorie che influenzano la lettura contemporanea dei testi, sia di quelli odierni che di

quelli del passato;

d) anche il passaparola all’interno del pubblico ha la sua importanza, e questo è tanto più

vero al giorno d’oggi, in cui la sfera della comunicazione online facilita grandemente la

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formazione di ampie comunità di spettatori e fan che condividono la propria passione,

le proprie ipotesi interpretative, le operazioni di riscrittura e le distorsioni parodiche degli

universi finzionali di riferimento.

I generi sono insomma frutto di una dinamica complessa, di un processo articolato nessuna

delle cui parti può da sola ambire a costituire effettivamente il genere. Altman supera perciò, nel

volume del 1999, la dualità del suo precedente approccio semantico-sintattico, introducendo un

terzo elemento, quello dell’analisi pragmatica. Attraverso uno studio fattuale del modo in cui le

diverse parti coinvolte nel processo hanno interagito, Altman ambisce a dare conto del continuo

crearsi e ricrearsi dei generi nella specificità dei diversi momenti storici. Solo in questo modo,

ricollegando l’evoluzione del genere alla concretezza pragmatica dei vari contesti socio-produttivi

di riferimento, è possibile inquadrare appieno i film tanto nella loro qualità di prodotti, inseriti

all’interno di un sistema estetico, che come merci, inserite all’interno delle dinamiche economiche.

Uno dei principali, se non il principale obiettivo dell’opera di Altman è dunque quello di conciliare

teoria e storia, al fine di riconoscere la qualità profondamente discorsiva di ogni definizione di

genere.

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2. Il periodo muto

Per parlare del western, bisogna innanzitutto tenere in considerazione la straordinaria

prossimità (temporale e spaziale) che esiste tra i primi decenni del cinema e il mondo del West vero

e proprio. Il cinema nasce, com’è noto, nel 1895, e si trasferisce sulla costa occidentale degli Stati

Uniti a partire dal secondo decennio del Novecento; la conquista dei territori del Far West si era

conclusa soltanto poco prima, con la chiusura ufficiale della Frontiera nel 1890. In un certo senso,

se la California rappresenta il punto di arrivo concretamente geografico dell’epopea dei pionieri,

Los Angeles, come punta più avanzata del capitalismo californiano, sembra costituirne una sorta di

prosecuzione sul piano ideale: Hollywood diventa meta di pellegrinaggio di migliaia di persone,

non più spinte dalla ricerca di terra da coltivare o di miniere d’oro, ma dal richiamo della celebrità.

Alla conquista di uno spazio concretamente fisico, si sostituisce ora il tentativo di conquistare un

regno dell’immaginario, proiettandosi nel firmamento del mito divistico.

D’altronde, la vicinanza storica e geografica tra il West e Hollywood non deve certo far

credere che il cinema si rifacesse direttamente alla realtà storica per raccontare l’epopea della

Frontiera. Anche se alcuni dei protagonisti di questa epopea entrarono effettivamente in contatto

con il mondo del cinema (il mitico sceriffo Wyatt Earp, al centro della sparatoria dell’OK Corral che

ha ispirato molti film3, era un frequentatore regolare dei set di Allan Dwan e John Ford negli anni

Dieci e Venti), più che da resoconti fattuali degli avvenimenti il cinema western prese in prestito a

piene mani dall’amplissima messe di materiale pre-esistenti che avevano contribuito alla nascita

del mito del West in altri ambiti creativi e artistici: dai romanzi di autori come Zane Grey, O. Henry o

Owen Wister ai racconti e fumetti pubblicati sulle riviste; dal circo di Buffalo Bill (un altro

protagonista della storia del West che ne colse presto il potenziale spettacolare), con le sue

ricostruzioni pittoresche di fatti storici alla figura di Theodore Roosevelt, il “presidente cowboy” (in

carica dal 1901 al 1909); dagli scritti storici a quelli biografici e autobiografici sul West; dalla pittura

3
Tra i vari film incentrati sulla vicenda si ricordino almeno: My Darling Clementine (Sfida infernale, J. Ford, 1946),
Gunfight at the OK Corral (Sfida all’OK Corral, J. Sturges, 1957) e Tombstone (G. Pan Cosmatos, 1993).

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spettacolare di autori come Frederick Remington e Charles Marion Russell all’eredità musicale del

West, da cui il cinema sonoro prenderà a piene mani. Tutti questi materiali fornirono importantissimi

punti di riferimento e spunti per la costruzione dell’immaginario del West cinematografico.

La Edison Manufacturing Company cominciò subito a realizzare documentari sul West:

scene di vita indiana, battute di caccia, vedute panoramiche dei parchi nazionali. Alla fine del

1903 Edison produsse The Great Train Robbery (L’assalto al treno), diretto da Edwin S. Porter, che è

generalmente riconosciuto (retrospettivamente, perché questo termine non era ancora in uso)

come il primo western. Si tratta anche di uno dei primissimi film, se non il primo, che fa un uso

significativo del montaggio per costruire la propria linea narrativa, per quanto essa fosse basilare. Il

film, girato in esterni in New Jersey, adoperando un vero treno per le scene della rapina, riscosse un

enorme successo sia negli Stati Uniti che all'estero, grazie soprattutto alla presenza di elementi

spettacolari, quali la rapina, l'inseguimento a cavallo in paesaggi aperti, la sparatoria finale.

Celeberrima anche l’inquadratura del fuorilegge che spara direttamente alla macchina da presa

(e quindi al pubblico): questa immagine, che evidentemente rompeva la conchiusezza e

l’autonomia del meccanismo finzionale, interpellando direttamente gli spettatori, poteva essere

collocata liberamente (a discrezione del singolo proiezionista) all’inizio o alla fine del film. Essa

sembra sintetizzare il carattere ludico del sensazionalismo tipico del western, e mostra come la

figura del bandito si presti al tempo stesso a terrorizzare il pubblico ma anche a stabilire con esso

un contatto sulla base della fascinazione.

Il successo travolgente del film di Porter portò alla replica di questa formula, tramite strutture

narrative man a mano più sofisticate. All’epoca, come si accennava, questi film non erano ancora

chiamati western, ma Horse Operas (racconti di cavalli): i primi esempi di uso sostantivato del

termine “western” per designare un film sono databili intorno al 1910, ma tale denominazione

divenne comune una decina d’anni dopo. Nel frattempo, la popolarità di questo genere a basso

costo subì un’ulteriore impennata con il trasferimento in California, i cui scenari paesaggistici si

prestavano con agio a fare da sfondo a vicende di questo tipo, per le ovvie ragioni cui

accennavamo sopra. Al western si dedicò anche uno dei grandi ‘padri’ del cinema americano,

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Griffith, durante il suo periodo presso la Biograph Company (si vedano in particolare The massacre,

1912 e The battle at Elderbush Gulch, 1913).

Negli stessi anni si impose la personalità di Thomas H. Ince, che creò Inceville, il più grande

studio cinematografico dell'epoca nell'area di Los Angeles. Più ancora che regista, Ince era un

direttore di produzione, ed uno dei suoi meriti maggiori fu anche quello di aver lanciato un attore

come William S. Hart. Se il primo divo/cowboy era stato Broncho Billy (e la sua figura di vagabondo

solitario aveva già fissato molti dei tratti dell’eroe western dei decenni a venire), Hart rappresentò

un’importante svolta in direzione dell’approfondimento psicologico: non più semplice veicolo del

dinamismo dell'azione, ma anche oggetto di analisi introspettiva, il suo personaggio è spesso

tormentato da dubbi e problemi morali, e attraversa quasi sempre vicende di colpa e redenzione.

Altro celeberrimo eroe del western muto fu Tom Mix, i cui film fecero la fortuna della Fox Film

Corporation.

Negli anni Venti il western divenne poi un genere di maggior prestigio, grazie ad una serie di

grandi produzioni che uscivano dalla logica seriale dei film piuttosto formulaici di cui erano

protagonisti Hart e Mix. Si cercarono, piuttosto, opzioni narrative e stilistiche marcatamente

spettacolari (in particolare grazie ad un uso estensivo degli esterni) che restituissero appieno il

carattere epico del genere. Si affermarono insomma produzioni costose, che costruivano racconti

corali e celebrativi delle magnifiche sorti e progressive della nazione americana: il modello fu The

Covered Wagon (I pionieri, J. Cruze, 1923), cui seguirono altre super-produzioni tra cui due dei primi

capolavori, targati Fox, di un regista che aveva esordito nel 1917 e che sarebbe presto diventato

sinonimo dell’epoca del western classico, ovvero John Ford: The Iron Horse (Il cavallo d’acciaio,

1924) e Three Bad Men (I tre furfanti, 1926).

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3. La crisi e l’età dell’oro

L’avvento del sonoro, alla fine degli anni Venti, causò non pochi problemi al western, in

quanto genere basato essenzialmente sull’azione e puntava sulle riprese in esterni. Le nuove

attrezzature sonore erano ingombranti e all’aperto era molto difficile registrare colonne sonore

comprensibili. Ma il successo di film sonori come In Old Arizona (Notte di tradimento, R. Walsh e I.

Cummings, 1929), The Virginian (L’uomo della Virginia, V. Fleming, 1929), The Big Trail (Il grande

sentiero, R. Walsh, 1930) e Billy the Kid (K. Vidor, 1930) fecero presagire una buona ripresa del

western4.

La crisi del ’29 e la Grande Depressione che seguirono non rappresentarono però di certo il

contesto socio-storico migliore per gli aspetti più magniloquenti dell’immaginario western. Negli

anni Trenta, perciò, pur non mancando qualche sparuto esempio di western più spettacolare

(Cimarron, I pionieri del West, W. Ruggles, 1931; The Plainsman, La conquista del West, C. B. DeMille,

1936), furono realizzati soprattutto western di serie B, prodotti da case minori: i loro toni, anziché

epici, erano localistici e vernacolari. Per il pubblico statunitense di quegli anni il cinema

rappresentava quasi l’unica forma di evasione da una difficile realtà di povertà, e il western era

assai popolare soprattutto nelle aree di provincia dell’America profonda. In questo senso, il genere

rinegoziò il proprio intreccio semantico-sintattico per far spazio anche all’elemento musicale. Alle

esibizioni di destrezza del cowboy acrobata della vecchia Horse Opera si sostituirono le esibizioni

canore del cowboy cantante, di cui Gene Autry è il primo e più famoso esempio, seguito poi da

Roy Rogers.

Una svolta avvenne invece nel 1939, vero e proprio anno cruciale per il western classico: il

genere conobbe una rapida rivitalizzazione e fu riportato a dimensioni di prima grandezza. Il 1939 è

infatti, innanzitutto, l’anno di uscita di Stagecoach (Ombre rosse, 1939), il capolavoro di John Ford

che, pur rispettando elementi consacrati dalla tradizione, come gli inseguimenti e le sparatorie, li

4
Gli ultimi due film menzionati furono tra l’altro girati in un formato panoramico diverso dall’usuale proporzione di
4/3 (il rapporto 1.37:1 tra i lati dell’immagine), anticipando di oltre vent’anni le successive sperimentazioni di questo
tipo, che tanta parte avranno nella fortuna del western negli anni Cinquanta.

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approfondisce di uno straordinario spessore morale, sociale e psicologico. Il film lanciò anche il più

grande astro della storia del western, John Wayne: la sua prima apparizione, nel ruolo di Ringo Kid,

è sottolineata da un insistito carrello in avanti della macchina da presa, che si avvicina al suo volto

intenso. Sembra quasi che Ford già sappia di non star soltanto introducendo un personaggio

all’interno della narrazione, ma di star anche presentando al pubblico americano e internazionale

una dei suoi divi più durevoli.

Il 1939 fu anche l’anno in cui il Technicolor offrì al western nuove possibilità espressive molto

significativi: si vedano a questo proposito Jesse James (Jess il bandito, H. King), Dodge city (Gli

avventurieri, M. Curtiz) e Drums Along the Mohawk (La più grande avventura) dello stesso Ford, tutti

usciti in quell’anno fatidico. Della nuova ricchezza cromatica beneficiarono soprattutto le riprese in

esterni, ma anche le atmosfere crepuscolari e notturne, che divennero l’occasione per raffinate

sperimentazioni luministiche: la summa di questa tendenza sarà raggiunta probabilmente una

decina d’anni più tardi da Ford, che nel suo She Wore a Yellow Ribbon (I cavalieri del Nord Ovest,

1949) ambienta una sequenza nostalgica in un cimitero sullo sfondo di un tramonto mozzafiato che

sembra provenire direttamente dai dipinti ottocenteschi di Frederic Edwin Church.

In generale, il 1939 fu l’anno della ripresa del western di serie A: il successo di Union Pacific

(La via dei giganti, C. B. DeMille) rilanciò i grandi prodotti spettacolari che, in chiave romanzata ma

fortemente patriottica, ricostruivano fatti e personaggi storici. Proseguirono su questa linea film

come Northwest Mounted Police (Giubbe rosse, 1940) dello stesso DeMille, Northwest Passage

(Passaggio a Nord Ovest, K. Vidor, 1941), Western Union (Fred il ribelle, F. Lang, 1941) e They Died

with Their Boots On (La storia del generale Custer, R. Walsh, 1941).

Nel corso degli anni Quaranta, la stagione d’oro del western proseguì senza battute

d’arresto, ma l’atmosfera dominante del genere mutò considerevolmente rispetto a quella

celebrativa e ottimista proposta nelle ultime produzioni citate. Il genere venne infatti piegato

sempre di più in direzioni trasgressive ove non di esplicita critica sociale: con The Outlaw (Il mio

corpo ti scalderà, 1943) Howard Hughes punterà a fare dello scenario western lo sfondo per una

vicenda dai contorni fortemente erotici, e il discorso sulla forza ancestrale e annichilente delle

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passioni sarà ripreso e portato allo zenith dal celebre Duel in the Sun (Duello al sole, K. Vidor, 1946).

Al tempo stesso, il western si presta a diventare sede di riflessione per problematiche d’ordine civile,

come nel caso della condanna della pratica del linciaggio attorno a cui è costruito

l’indimenticabile The Ox-Bow Incident (Alba fatale, 1943) di William A. Wellman. Nel dopoguerra

poi, l’affermarsi pervasivo dei temi e dell’estetica del noir finisce per sconfinare anche in territorio

western, con una serie di film che mutuano dal poliziesco postbellico l’uso di un’illuminazione

espressionista e un’attenzione marcata alla dimensione introspettiva e al vissuto traumatico dei

personaggi (Pursued, Notte senza fine, R. Walsh, 1947; Ramrod, La donna di fuoco, A. de Toth, 1947;

Blood on the Moon, Sangue sulla luna, R. Wise, 1948).

Negli anni Cinquanta il western vive il suo momento in assoluto più ricco e affascinante:

assai lontano da ogni esaltazione trionfalistica degli ideali americani, il western diventa viceversa

territorio per l’espressione di problematicità profonde, che riguardano tanto la lettura del passato

fondativo della nazione americana, tanto le dinamiche politiche del presente.

Il conflitto tra generazioni diverse, la protesta contro le forme dell’autoritarismo patriarcale e

la delusione nei confronti di figure paterne mitizzate sono al centro di molti western dell’epoca

(Red River, Il fiume rosso, H. Hawks, 1948; Shane, Il cavaliere della valle solitaria, G. Stevens, 1953;

Broken Lance, La lancia che uccide, E. Dmytryk, 1954; Run for Cover, All’ombra del patibolo, 1955,

che Nicholas Ray diresse nello stesso anno di Rebel Without a Cause, Gioventù bruciata, film-

simbolo della ribellione teenager degli anni Cinquanta).

Il western racconta altrettanto bene una più generalizzata crisi delle istituzioni, che

sembrano talvolta tradire i veri valori americani, prestandosi a metaforizzare la situazione assai

conflittuale legata alla caccia alle streghe anticomunista degli anni Quaranta e Cinquanta (High

Noon, Mezzogiorno di fuoco, F. Zinnemann, 1952; Silver Lode, La campana ha suonato, A. Dwan,

1954).

Il rapporto tra l’individuo e la società è insomma segnato da una sensazione di sfiducia

rispetto ai valori della comunità, che conduce spesso i protagonisti del western a diventare

personaggi individualisti e finanche crudeli. Inaspriti dalle delusioni, i vagabondi solitari tipici del

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genere diventano ora personaggi ossessivi, quasi nichilisti, e il genere si aprendosi a riflessioni amare

sull’avidità e la violenza insite nella natura umana: si pensi ad esempio ai personaggi interpretati

da James Stewart nei western diretti da Anthony Mann (Winchester 73, 1950; Bend of the River, Là

dove scende il fiume, 1952; The Naked Spur, Lo sperone nudo, 1953; The Far Country, Terra lontana,

1955; The Man from Laramie, L’uomo di Laramie, 1955). L’esempio massimo di questo discorso è

senz’altro la figura ritratta da John Wayne nel capolavoro di Ford The Searchers, Sentieri selvaggi,

1956.

Non sono d’altronde soltanto i personaggi maschili a divenire più complessi e problematici:

vengono proposte anche figure femminili molto potenti, che infrangono la consueta segregazione

dei ruoli e degli spazi riservati alle donne in questo tipo di narrazioni, prendendo in mano la pistola

e le redini dell’azione (Marlene Dietrich in Rancho Notorious, F. Lang, 1952; Joan Crawford in

Johnny Guitar, N. Ray, 1954).

Alcuni film di quest’epoca iniziano d’altronde a porsi il problema del trattamento dei nativi

americani da parte dei colonizzatori, proponendo opzioni di relazione interrazziale più concilianti e

progressiste (Broken Arrow, L’amante indiana, D. Daves, 1950). Il western di questi anni diventa

insomma uno spazio di riflessione a tutto campo sull’identità americana e le sue contraddizioni.

Al di là del discorso tematico, il western si fa anche sede di sperimentazione stilistica e

narrativa. La suspense, che gioca un ruolo importante nell’articolazione delle trame del genere, si

presta a riflessioni sulla natura del tempo: si vedano soprattutto il succitato High Noon e 3:10 to

Yuma, Quel treno per Yuma, D. Daves, 1957, che sperimentano il racconto in tempo reale. E se una

delle caratteristiche del genere era sempre stato il suo uso del paesaggio, con l’introduzione del

formato panoramico, a partire dal 1953, il Western diventa uno dei principali territori per

l’investigazione di limiti e potenzialità dello schermo largo. Nei lavori in Cinemascope di Anthony

Mann, di Delmer Daves (L’ultima caccia, The Last Hunt, 1956), di William Wyler (The Big Country, Il

grande paese, 1958), fino al Cinerama di How the West Was Won (La conquista del West, J. Ford, H.

Hathaway, G. Marshall, 1962) l’utilizzo degli scenari mozzafiato del continente americano darà

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piena misura di quella autentica rivoluzione della rappresentazione costituita dall’introduzione del

widescreen.

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4. La persistenza dell’immaginario

Il western entrò in una fase calante negli anni Sessanta, in concomitanza con la crisi più

complessiva del sistema hollywoodiano tutto: il genere era stato da sempre uno dei veri e propri

simboli del modo di produzione del cinema classico, quasi un suo sinonimo, e col progressivo

smantellamento del sistema delle grandi case di produzione, parimenti anche il western sembra

perdere d’importanza. Allo stesso tempo, però, se una delle cause della crisi del cinema

americano di quegli anni fu la televisione, fu proprio migrando verso quel nuovo contesto che il

western riuscì a trovare nuova linfa e rimanere rilevante. Il piccolo schermo si rivelò infatti il mezzo

ideale per la prosecuzione di quella produzione di tipo commerciale in serie che aveva

rappresentato il tessuto più sostanziale di questo genere, fin dalle sue origini. Nell’ambito televisivo,

a partire dalla metà degli anni Cinquanta, trovarono infatti ampio spazio storie avventurose di tipo

tradizionale. Si trattava di un nuovo prodotto medio che riuscì a conquistare un vasto pubblico,

soprattutto giovanile e di provincia, quelle stesse fasce che erano state le più entusiaste nei

confronti dei western minori sin dagli anni Trenta5.

Per quanto riguarda il grande schermo il western era comunque ben lungi dallo scomparire

del tutto: piuttosto, esso entrò in una fase crepuscolare, segnata da una ulteriore fase di

smitizzazione, non più declinata (com’era stato negli anni Cinquanta) in una direzione

contestataria e ribelle, ma attraversata bensì dal disincanto e da un senso di sconfitta esistenziale.

Pieno di personaggi ormai anziani, stanchi e dubbiosi, il western degli anni Sessanta è imbevuto di

un'atmosfera che, se non dà più spazio all'eroismo, ha però momenti di lirismo e di elegia, come in

Ride the High Country (Sfida nell'Alta Sierra, 1962) di Sam Peckinpah e The Man Who Shot Liberty

Valance (L’uomo che uccise Liberty Valance, 1962) di Ford. Quest’ultimo riuniva due delle più

importanti star del western degli anni d’oro, che recitavano insieme per la prima volta insieme:

John Wayne e James Stewart. Il film propone una riflessione amara sulla crisi della verità e sui

5
Per una riflessione sul western televisivo, si veda anche il ruolo interpretato da Leonardo Di Caprio nell’ultimo film di
Tarantino, Once Upon a Time in Hollywood (C’era una volta a Hollywood, 2019).

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meccanismi della fama che regolavano già il mondo del West e le sue forme di mitopoiesi

(celebre la frase “tra la verità e la leggenda, stampa la leggenda!”) che sembra davvero sugellare

la fine del western classico.

A partire dalla metà del decennio, il western americano dovette poi vedersela con la

concorrenza del western europeo, soprattutto quello italiano di Sergio Leone: l’effetto fu quello di

un paradossale adeguamento del cinema americano alle novità introdotte dallo Spaghetti

Western, in particolare l’accentuazione della crudezza visiva delle scene di violenza e

l’introduzione di elementi stilistici estranei alla tradizione (in primis la giustapposizione spericolata da

parte di Leone di campi lunghissimi e primissimi piani per filmare duelli e sparatorie).

Negli anni libertari della New Hollywood, il genere si prestò perciò sia ad operazioni

tradizionaliste, nostalgicamente di retroguardia (si veda True Grit, Il Grinta, H. Hathaway, 1969, che

guadagnò finalmente a John Wayne l’unico Oscar della sua carriera, ben trent’anni dopo il suo

folgorante ingresso in scena in Stagecoach) che a esperimenti molto più innovativi, come nel caso

di altri due film usciti in quello stesso 1969: Butch Cassidy and the Sundance Kid (Butch Cassidy, G.

R. Hill), la storia dell’amicizia tra due ribelli, girata in uno stile vivace e spiritoso, e recitata da due

star di primissima grandezza come Paul Newman e Robert Redford; e Easy Rider (D. Hopper),

rilettura contemporanea dell’epopea dei pionieri in direzione inversa, con due bikers che vanno

alla scoperta dell’America profonda partendo dalla California e scoprendo soprattutto un mondo

ostile, bigotto e violento.

Altri grandi nomi del western degli anni Settanta furono Sam Peckinpah (The Wild Bunch, Il

mucchio selvaggio, 1969; Pat Garrett & Billy the Kid, 1973), Arthur Penn (Little Big Man, Piccolo

grande uomo, 1970) e Don Siegel (The Beguiled, La notte brava del soldato Jonathan, 1971; The

Shootist, Il pistolero, 1976), che contribuirono significativamente a tenere il genere al centro del

dibattito. D’altronde fu proprio un western il film che, col suo fragoroso fallimento al botteghino

(Heaven's gate, I cancelli del cielo, diretto da Michael Cimino nel 1980), pose di fatto fine al

momento di sperimentazione creativa e di libertà registica che aveva caratterizzato la New

Hollywood, favorendo il ritorno del potere decisionale nelle mani dei produttori.

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Lorenzo Marmo - Il genere western

Da quel momento in poi, comunque, pur non tornando mai ad essere un genere

veramente dominante in termini quantitativi come lo era stato nel periodo classico, il western non

ha mai smesso di ritornare sugli schermi: da Pale rider (Il cavaliere pallido, 1985), diretto e

interpretato da Clint Eastwood a Silverado (1985) di Lawrence Kasdan, da Dances with Wolves

(Balla coi lupi, K. Costner, 1990) a Unforgiven (Gli spietati, C. Eastwood, 1992), questi ultimi entrambi

premiati con numerosi Oscar, compreso quello per il miglior film. Il western è un genere troppo

consustanziale all’identità americana e all’identità del cinema stesso, per non ricomparire

periodicamente: il suo ruolo dell’immaginario collettivo è ormai indelebile, ed infatti anche di

recente si segnalano le riletture del mito western proposte dai fratelli Coen (True Grit, Il Grinta,

2010), da Quentin Tarantino (Django Unchained, 2012; The Hateful Eight, 2015), da una regista

femminista come Kelly Reichardt (Meek’s Cutoff, 2010) da uno dei cineasti messicani che trionfano

ad Hollywood negli ultimi anni (Revenant, Revenant – il redivivo, A. Gonzales Iñarritu, 2015) e

perfino di un cineasta francese come Jacques Audiard (The Sisters Brothers, I fratelli Sisters, 2018).

Anche la televisione di qualità che ha caratterizzato gli ultimi decenni ha prodotto una narrazione

western assai importante (Deadwood, HBO 2004-2006). E d’altronde, una serie di film, pur

ambientati nella seconda metà del Novecento o nella contemporaneità (da Brokeback Mountain,

A. Lee, 2005 a No Country for Old Men, Non è un paese per vecchi, J. & E. Coen, 2007 fino a Hell or

High Water, D. McKenzie, 2016), riprendono e rileggono l’eredità del western e la ridiscutono in

modo del tutto originale e interessante in relazione all’oggi.

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Lorenzo Marmo - Il cinema noir americano e transnazionale

Indice

1. PERSONAGGI, TEMI E STRUTTURE DEL NOIR ........................................................................................... 3


2. LO STILE DEL NOIR ................................................................................................................................... 8
3. TRA CULTURA POPOLARE E RIFLESSIONE MODERNISTA ...................................................................... 11
4. LA DIMENSIONE TRANSNAZIONALE .................................................................................................... 13
BIBLIOGRAFIA................................................................................................................................................ 17

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Lorenzo Marmo - Il cinema noir americano e transnazionale

1. Personaggi, temi e strutture del noir

Il cinema noir costituisce un oggetto di studio complesso e affascinante, perché fortemente

marcato, sin dalle sue origini, da una dimensione di dialogo transnazionale. Il termine “noir”, che in

francese significa naturalmente “nero”, è divenuto di uso corrente nella riflessione sulla storia del

cinema in relazione al cinema statunitense degli anni Quaranta e Cinquanta. I critici francesi lo

adoperarono infatti per designare alcuni dei film americani che iniziarono ad arrivare nelle sale

francesi (così come in quelle del resto d’Europa) nel 1945, dopo la fine della Seconda Guerra

Mondiale. Il primo critico a parlare di noir a proposito del cinema americano fu Nino Frank nel

19461, ma fu poi un influente libro di Raymond Borde ed Etienne Chaumeton del 1955, Panorama

du film noir américain2, a sancire definitivamente la fortuna di questa etichetta di genere.

Il periodo d’oro del noir viene generalmente collocato tra il 1940 ed il 1958. Tra i più

importanti film noir si possono annoverare (oltre ai molti che menzioneremo nel seguito di questa

lezione): Stranger on the Third Floor (Lo sconosciuto del terzo piano, B. Ingster, 1940); Laura

(Vertigine, O. Preminger, 1944); Gilda (C. Vidor, 1946); Kiss of Death (Il bacio della morte, H.

Hathaway, 1947); Out of the Past (Le catene della colpa, J. Tourneur, 1947); Lady from Shanghai

(La signora di Shanghai, O. Welles, 1948); Gun Crazy (La sanguinaria, J.H. Lewis, 1949), The Asphalt

Jungle (Giungla d’asfalto, J. Huston, 1950); Sunset Boulevard (Viale del tramonto, B. Wilder, 1950);

The Big Heat (Il grande caldo, F. Lang, 1953) e Killer’s Kiss (S. Kubrick, 1955).

La caratteristica comune di questi film, anche molto diversi tra di loro, è il loro focalizzarsi su

crimini e delitti. Al tempo stesso, i noir si distinguono dai semplici polizieschi e dai gialli (un termine,

quest’ultimo, che ha invece un’origine tutta italiana) perché restituiscono del mondo narrato

un’immagine più angosciosa e disturbante. Spesso protagonisti del noir sono essi stessi dei criminali,

o degli individui comuni coinvolti loro malgrado in situazioni pericolose. Ma anche quando gli eroi

1
Nino Frank, Un noveau genre “policier”: l’aventure criminelle (1946), trad. ing. A New Kind of Police Drama: The
Criminal Adventure, in Alain Silver, James Ursini, a cura di, Film Noir Reader 2, New York, Limelight, 1980, pp. 15-
19.
2
Raymond Borde, Etienne Chaumeton, Panorama du film noir américain, 1941-1953, Paris, Editions du Minuit, 1955.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da
copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).

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sono dei rappresentanti della legge o dei detective, in ballo non c’è mai soltanto un’investigazione

di stampo razionale per scoprire il responsabile o i responsabili di un delitto. Nel noir, si tratta anche

di mettere in scena lo smarrimento esistenziale, le passioni e i desideri di personaggi che faticano

ad integrarsi nel tessuto sociale. Il noir è insomma un genere che racconta il lato oscuro del Sogno

Americano: lontano dalla rappresentazione conciliata della vita americana proposta dalla cultura

ufficiale, questo genere riflette sugli aspetti più oscuri della psiche individuale, ma può talvolta

proporre anche una critica piuttosto esplicita alla società nel suo complesso, concentrandosi sulla

corruzione, la violenza e l’esclusione sociale. Non a caso alcuni dei cineasti più impegnati furono

costretti a smettere di lavorare quando il paese, a partire dal 1947/48, fu pervaso dalla Caccia alle

streghe anticomunista, che perseguitava tutti coloro che con le loro ide progressiste erano

accusati di minacciare gli ideali americani: tra di essi Edward Dmytryk e Adrian Scott, regista e

produttore di Crossfire (Odio implacabile, 1947), noir che denunciava l’antisemitismo della società

americana, e Abraham Polonsky, regista di Force of Evil (Le forze del male, 1948), apologo sui mali

dell’individualismo capitalista.

La maggior parte dei noir non hanno, comunque, questo valore esplicitamente politico.

Importante punto di riferimento per questo genere sono piuttosto una serie di narrazioni letterarie,

cosiddette hard-boiled, tra i cui autori più importanti possiamo annoverare James Cain, Cornell

Woolrich, Dashiell Hammett, Raymond Chandler, Mickey Spillane. Gli ultimi tre, in particolare,

danno vita ad altrettanti personaggi di detective molto popolari: Hammett scrive di Sam Spade,

Chandler crea Philip Marlowe e Spillane racconta le gesta di Mike Hammer. Questi personaggi

troveranno delle importanti incarnazioni cinematografiche: Humphrey Bogart interpreterà Spade in

The Maltese Falcon (Il mistero del falco, J. Huston, 1941); Dick Powell, ancora Bogart e Robert

Montgomery interpreteranno Marlowe rispettivamente in Murder, My Sweet (L’ombra del passato,

E. Dmytryk, 1944), The Big Sleep (Il grande sonno, H. Hawks, 1946) e The Lady in the Lake (Una

donna nel lago, R. Montgomery, 1947); Ralph Meeker sarà Spillane in Kiss Me Deadly (Un bacio e

una pistola, R. Aldrich, 1955).

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La figura del detective messa in scena da questi romanzi e film è molto diversa da quella al

centro del giallo classico: a differenza di Sherlock Holmes, i detective immaginati da Chandler e gli

altri non adoperano una logica strettamente deduttiva, guardando alla scena del crimine come

dall’esterno e analizzandola con lucido distacco. I detective del noir sono piuttosto soggetti che

rimangono completamente invischiati nel labirinto di menzogne e doppi giochi, inganni e

seduzioni, che si dipana intorno a loro. Sono personaggi che “si sporcano le mani” con il mondo

corrotto e avido che li circonda, e anzi hanno con esso un rapporto concretamente fisico, soggetti

come sono alla violenza dei personaggi malvagi e alla seduzione di quelli femminili. Più che essere

dei personaggi a tutto tondo, gli investigatori classici, raccontati da autori come Arthur Conan

Doyle e Agatha Christie, erano una sorta di personificazione dell’intelligenza investigativa, i loro

tratti ossessivi (l’attenzione ai dettagli di Holmes) e le loro caratteristiche fisiche bizzarre (la testa

“d’uovo” di Poirot, l’età avanzata di Miss Marple) un modo per trasformare la loro corporeità in un

segno della loro intelligenza fuori dal comune. Al contrario, i personaggi del noir sono uomini tra gli

uomini, dotati di una fisicità tradizionale e confusi come tutti gli altri personaggi di fronte a misteri di

difficile risoluzione.

Caratteristica fondamentale di questi film sono le strutture narrative assai complesse: si nota

un utilizzo frequentissimo di flashback, talvolta anche multipli, incastonati gli uni negli altri, al fine di

descrivere una realtà caotica e non lineare, dominata da un’ansia generalizzata e dal tormento di

un passato che è spesso sede di uno shock o di una colpa. Le strutture narrative intricatissime di film

come The Big Sleep, The Killers (I gangster, R. Siodmak, 1946) o The Killing (Rapina a mano armata,

S. Kubrick, 1956) sono tra i primi esempi di strutture autenticamente complesse del racconto,

anticipando significativamente alcune tendenze del cinema contemporaneo.

Quando non sono detective, i protagonisti spesso sono reduci di guerra, ancora

traumatizzati dalla propria esperienza al fronte, vittime di amnesie che gli fanno dubitare della

propria stessa identità (Somewhere in the Night, Il bandito senza nome, J.L. Mankiewicz, 1946; The

Crooked Way, Incrocio pericoloso, R. Florey, 1949); o ancora possono essere uomini provati dalla

vita, dediti all’alcool e perciò inclini alla violenza (Dark Angel, Angelo nero, R.W. Neill, 1946; In a

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Lonely Place, Il diritto di uccidere, N. Ray, 1950). O ancora, possono essere cittadini

apparentemente onesti, condotti sulla cattiva strada da un’aspirazione al miglioramento

economico (Side Street, La via della morte, A. Mann, 1950), dal desiderio erotico (Pitfall, Tragedia a

Santa Monica, A. de Toth, 1948) o da entrambe le cose contemporaneamente (Double Indemnity,

La fiamma del peccato, B. Wilder, 1944). Le donne appaiono in questi film soprattutto nelle vesti di

femmes fatales, di seduttrici senza scrupoli che manipolano il protagonista maschile per i propri

scopi e lo conducono alla rovina. Il noir è insomma un genere che racconta rapporti complessi tra

personaggi maschili e femminili, all’insegna del sospetto e della crudeltà. L’immagine, assai

potente, di queste donne fatali, è stata letta come un effetto dei profondi cambiamenti nei

costumi sociali in atto negli anni Quaranta. Durante la guerra, con gli uomini al fronte, molte donne

erano state chiamate a lavorare al loro posto, ed avevano così assaporato per la prima volta

l’indipendenza economica e una maggiore libertà di uscire dall’ambiente domestico e muoversi

nello spazio pubblico: il ritorno alla “normalità” alla fine del conflitto non si rivelò semplice, anche

perché, come accennavamo su, gli uomini tornavano alla vita in abiti civili spesso carichi di

esperienze traumatiche, e si trovavano spiazzati da questa nuova autonomia femminile. Il noir può

perciò essere interpretato come il genere che, mettendo spessissimo la donna in un ruolo di

colpevolezza, esprime ansie generalizzate sulla questione dei rapporti di gender.

Non mancano comunque film che invece mettono in scena dei personaggi femminili molto

più positivi, alleati dei personaggi maschili, che li coadiuvano dalla parte del bene: una delle

coppie più famose della storia del cinema è quella formata da Humphrey Bogart e Lauren Bacall,

protagonista di film come To Have and Have Not (Acque del sud, H. Hawks, 1946), The Big Sleep e

Dark Passage (La fuga, D. Daves, 1947).

Esistono infine anche film noir con protagoniste femminili in ruoli positivi. Si tratta spesso di

film in cui le formule del noir si intrecciano con quelle di un altro genere assai popolare in quegli

anni, quello del woman’s film. Mentre il noir ha generalmente un’ambientazione urbana, il

woman’s film dà generalmente più peso allo spazio domestico, per raccontare un tormento

femminile più esplicitamente legato all’interiorità. Tra i film che ibridano le due formule con grande

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efficacia si notano in particolare molti con protagonista Joan Crawford come Mildred Pierce (Il

romanzo di Mildred, M. Curtiz, 1945), The Damned Don’t Cry (I dannati non piangono, F.E. Feist,

1950), Sudden Fear (So che mi ucciderai, D. Miller, 1952).

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2. Lo stile del noir

Il cinema noir non si definisce d’altronde soltanto in base ai suoi temi. Per coglierne la

specificità è altrettanto necessario riflettere sulle risorse estetiche coinvolte nella messa in scena.

Caratteristiche fondamentali del noir dal punto di vista stilistico sono le seguenti:

 Illuminazione fortemente contrastata

 Ombre espressioniste e nebbie atmosferiche

 Profondità di campo

 Angolazioni inusuali della macchina da presa

 Inquadrature lunghe e piani sequenza

 Riprese in esterni reali

Mentre il cinema precedente, degli anni Trenta (ma in generale il cinema classico più

convenzionale) mira a creare un racconto per immagini che sia soprattutto armonioso, ordinato e

facilmente interpretabile, lo stile noir si sostanzia invece di immagini potentemente evocative. Il suo

fine non è la chiarezza o la trasparenza, ma una messa in scena carica di pathos, che traduca in

termini visivi il vissuto di una soggettività tormentata.

L’illuminazione contrastata del noir, così come l’utilizzo di angolazioni usuali (inquadrature

dall’alto, dal basso, oblique, palesemente sbilanciate) è stata spesso collegata agli stilemi

dell’espressionismo tedesco, il primo movimento cinematografico a lavorare in modo sistematico

sulla deformazione della messa in scena per trasmettere un senso di angoscia. In film dell’epoca

del muto come Das Kabinett des Doktor Caligari (Il gabinetto del Dottor Caligari, R. Wiene, 1920) o

Nosferatu (F.W. Murnau, 1922), lo stile disegna un mondo orrorifico abitato dal male e attraversato

da soggetti spesso in preda a deliri allucinatori e malattie mentali. Il collegamento con il noir

americano è tutt’altro che peregrino: Hollywood negli anni Quaranta è popolata di moltissimi

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tedeschi (registi, sceneggiatori, scenografi, direttori della fotografia ecc.) fuggiti dalla Germania

all’avvento di Hitler.

Anche al di là del modello espressionista, il noir lavora su una messa in scena molto

atmosferica, nella doppia accezione di questo termine: ovvero, sia nel senso della creazione,

tramite le luci, le ombre ed altri accorgimenti visivi, di una sensazione di tensione e minaccia, sia

più letteralmente tramite un uso di fenomeni atmosferici come la nebbia e la pioggia a fini

espressivi.

Una delle grandi innovazioni del cinema americano degli anni Quaranta è poi la profondità

di campo: tutti gli oggetti, i corpi e gli spazi presenti davanti all’obbiettivo vengono messi a fuoco,

per dare la sensazione di un campo visivo ricco e frastagliato, da cui il personaggio è schiacciato

claustrofobicamente. Anche se non è solo una caratteristica del noir, ma di tutto il cinema

americano di quegli anni (fondamentale, nella storia della profondità di campo, è ad esempio un

capolavoro come Citizen Kane, Quarto potere, O. Welles, 1941), di sicuro nel noir questa risorsa

espressiva raggiunge risultati molto importanti.

D’altronde il noir si conferma come un genere di sperimentazione stilistica anche tramite

l’uso di molte inquadrature lunghe, che sfociano talvolta in veri e propri piani sequenza3: si vedano

ad esempio in film celebri come Rope (Nodo alla gola 1948), di Hitchcock, girato tutto in

lunghissimi piani sequenza, e Touch of Evil (L’infernale Quinlan, O. Welles, 1958) col suo celebre

piano sequenza iniziale.

Lo stile marcato del noir, la sua descrizione di un mondo onirico e angosciato non è però in

contrasto (come potrebbe apparire di primo acchito) con una attenzione alle riprese in esterni

reali. A partire soprattutto dal 1947 si diffonde la pratica di girare on location, sia grazie

all’avanzamento tecnologico verificatosi durante la guerra (macchine da presa più leggere,

maggior capacità di filmare in notturna) sia per l’influenza dell’estetica del neorealismo italiano. La

dimensione di resa soggettiva del mondo, tramite una messa in scena fortemente atmosferica, e

3
Dicesi piano sequenza una sequenza che si articola tutta in un’unica inquadratura, senza che ci sia mai uno stacco di
montaggio.

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quello della sua resa oggettiva, tramite immagini del tessuto urbano fotografato nella sua

concretezza, trovano in questo ciclo di film un’interessante conciliazione, rafforzandosi a vicenda.

A volte l’angoscia e la tensione sono ancora più sconvolgenti proprio perché l’ambientazione è

quella di una città fotografata di giorno, in piena luce.

Nel complesso, possiamo dire che col noir la fotografia soppianta il teatro come riferimento

iconografico privilegiato del cinema. A fare da modello alla messa in scena cinematografica non

è più l’impianto statico del dialogo teatrale, su uno sfondo dipinto, ma la vividezza del paesaggio

architettonico e naturale ripreso dal vero. Il fotografo più comunemente associato al noir è il

newyorchese Weegee: il titolo di un suo libro di grandissimo successo, Naked City (1945), verrà

preso in prestito da un film altrettanto celebre (La città nuda, J. Dassin, 1948), e poi anche da una

serie tv (1958-1963), una tra le prime a trasferire il serbatoio delle narrazioni noir nel contesto della

serialità poliziesca televisiva.

Questo rapporto con la fotografia non significa che non si possa rintracciare una vicinanza

tra l’immaginario visuale del noir e la pittura di Edward Hopper, vista la comune messa in scena di

spazi urbani marcati dalla solitudine. Col passare del tempo, poi, lo stile del noir è diventato una

vera e propria iconografia, che ritroviamo oggi in prodotti commerciali di ogni genere, dalla moda

alla pubblicità.

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3. Tra cultura popolare e riflessione modernista

Da una parte, i noir appartengono alla cultura popolare, all’immaginazione pulp, basata

sull’aspetto scandaloso del sesso e della violenza. Non a caso, all’epoca negli Stati Uniti essi

venivano designati non come noir (il termine francese non si era ancora diffuso oltreoceano) ma in

modo più generico come crime melodramas o blood melodramas (melodrammi del crimine o di

sangue).

D’altra parte, le narrazioni a tinte forti dei noir veicolano anche delle riflessioni sulla

condizione umana (specialmente, ma non solo, da un punto di vista maschile) nel contesto della

modernità metropolitana. L’immagine del mondo che ne emerge è quella di un universo caotico e

spesso disperato, in cui i soggetti sono intrappolati e/o smarriti e privi di punti di riferimento. In tal

modo, questi film partecipano delle riflessioni della cultura alta sulla crisi del soggetto e sulla

modernità come dimensione di ansia pervasiva.

Gli anni Quaranta in America sono gli anni della Pop-psychoanalysis, ovvero della

diffusione, anche a livello divulgativo, delle teorie di Sigmund Freud (morto a Londra nel 1938).

Concetti come quello del complesso edipico o della paura di castrazione, e i discorsi relativi al

funzionamento dell’inconscio e del mondo onirico compaiono spesso nei film dell’epoca, in modo

sia implicito che esplicito. I flashback che spesso strutturano le intricate trame del noir sono spesso

espressione di una ricerca da parte del soggetto di una verità interiore: tramite l’autoracconto si

cerca di scoprire qualcosa su sé stessi, mettere ordine negli eventi che sono avvenuti e magari

scoprire il segreto inconscio che è alla loro base. Un esempio tra i più espliciti è quello di

Spellbound (Io ti salverò, 1945), di Hitchcock, in cui la psicoanalista interpretata da Ingrid Bergman

aiuta il collega e paziente Gregory Peck a ricordare il trauma infantile che lo tormenta. Per il film fu

realizzata anche una complessa sequenza onirica, a cui collaborò anche un artista celebre come

Salvador Dalì, il che rende chiari i legami del noir con il movimento surrealista degli anni Venti.

La soggettività messa in scena dal noir è d’altronde una soggettività pienamente fisica, e

questo genere cerca di utilizzare i mezzi stilistici del cinema per trasmettere tutta la gamma

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percettiva del soggetto. Spesso questi film lavorano per mettere in scena una visione soggettiva

deformata dalla paura, dall’allucinazione o da stati di alterazione dovuti all’alcool o alle droghe.

Particolarmente significativa da questo punto di vista una sequenza di Murder, My Sweet in cui

Philip Marlowe si risveglia dopo essere stato drogato da un gangster malvagio e il suo stato di

intossicazione è reso attraverso una ragnatela che si stende sull’immagine.

Questo tentativo di restituire al pubblico il punto di vista del protagonista, di far coincidere i

due sguardi dello spettatore e del personaggio viene portato alle sue conseguenze più estreme da

due film del 1947. Robert Montgomery gira The Lady in the Lake, un film straordinario perché girato

interamente in soggettiva: le inquadrature in soggettiva sono quelle in cui la macchina da presa

aderisce esattamente allo sguardo di un personaggio, e dunque qui per tutta la durata del film noi

spettatori sposiamo il punto di vista del detective protagonista, e lo vediamo in faccia solo se

questi si guarda allo specchio. Questo espediente in realtà funziona solo parzialmente, perché a

noi spettatori viene in questo modo a mancare l’ancoraggio al corpo di un personaggio visibile

sullo schermo. Sentiamo insomma la mancanza di una figura antropomorfica, con cui identificarci,

e non ci basta di poter aderire alla sua prospettiva, che rimane comunque filtrato dalla macchina

da presa. Meno radicale ma molto più riuscito è un altro film dello stesso anno, Dark Passage, con

Humphrey Bogart e Lauren Bacall, che pure sfrutta moltissimo la soggettiva in tutta la prima parte,

ma poi mette saggiamente il divo al centro delle inquadrature.

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4. La dimensione transnazionale

Come accennavamo, una caratteristica peculiare della storia del concetto di noir è che,

mentre questa terminologia si affermava in Francia ed in Europa più in generale, i registi, gli attori e

i membri della crew che concretamente realizzavano i film così designati, negli Stati Uniti, non

sapevano di star girando dei film noir. Oltreoceano questi prodotti erano designati, come abbiamo

detto, come blood melodramas e il termine noir non diventerà di uso comune presso la critica,

l’industria e il pubblico americani prima degli anni Settanta, quindi molto dopo la fine del periodo

d’oro del genere.

Tutto questo ci indica con molta chiarezza come il concetto di genere cinematografico, il

nome che noi adoperiamo per raggruppare un certo numero di film intorno ad un’etichetta, non

sia affatto un’operazione neutra, che è possibile dare per scontata. Al contrario, parlare di genere

richiede un punto di vista interpretativo, che può avere una forte influenza per la strutturazione dei

rapporti culturali tra contesti nazionali diversi.

I critici francesi, sempre molto attenti alla produzione culturale straniera, ed in particolare a

quella del popolo che li aveva da poco liberati dall’occupazione nazista, hanno insomma svolto

una funzione di grande importanza ed hanno avuto grande influenza per individuare e dare

prestigio ad un genere di film che non sempre erano considerati tra i più importanti e prestigiosi

nella loro patria d’origine. Infatti, anche se alcuni noir erano in effetti delle produzioni di un certo

peso, ed ottennero alcune candidature all’Oscar (Double Indemnity, Mildred Pierce, The Killers,

Crossfire), molti film di questo genere sono film a basso budget, realizzati con pochi soldi ma con

moltissima inventiva ed immaginazione.

Alcuni tra i noir oggi più celebri (l’esempio migliore è forse Detour, E.G. Ulmer, 1945) non

furono prodotti dalle case di produzione principali, o comunque non erano considerati film di serie

A. Nonostante si possa dire che questi sono i film dell’epoca più visti e amati ancora oggi, in origine

si trattava di prodotti di serie B e non prestigiosi. L’idea che la mancanza di denaro aguzzi

l’ingegno creativo e faccia sì che si trovino delle soluzioni espressive innovative è una delle

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traiettorie essenziali della storia del cinema. E infatti il noir di serie B sarà un modello per i cineasti

rivoluzionari della Nouvelle Vague francese degli anni Sessanta: Jean-Luc Godard dedicherà

simbolicamente il suo À bout de souffle (Fino all’ultimo respiro, 1960) alla Monogram Pictures, uno

degli studi minori della cosiddetta Poverty Row di Hollywood che aveva prodotto piccoli classici

come When Strangers Marry (Notte d’angoscia, W. Castle, 1944) o Decoy (Inganno, J. Bernhard,

1946).

La storia del noir ci racconta perciò sin dall’inizio della circolazione delle idee a livello

transnazionale, e ci mostra come il cinema e gli audiovisivi siano stati cruciali, nella storia del

Novecento, per la negoziazione del rapporto tra paesi diversi e nella creazione di un immaginario

collettivo condiviso al di là dei confini nazionali.

D’altronde, una delle tendenze principali della riflessione sul noir degli ultimi anni è stata

proprio quella di indagarlo non soltanto come un fenomeno americano ma come un insieme di

forme narrative e stilistiche dalla portata autenticamente globale. Per capire questo discorso

occorre tornare ancora una volta in Francia, poiché in effetti, il termine “noir” era già stato

adoperato dalla critica d’Oltralpe, prima che per i film americani degli anni Quaranta, per alcuni

film nazionali del decennio precedente, già marcati da un’attenzione a vicende criminose, alla

vita dei bassifondi e al tormento esistenziale. Tra i titoli più rilevanti: La bête humaine (L’angelo del

male, J. Renoir, 1938), Le quai des brumes (Il porto delle nebbie, M. Carné, 1938) e Le jour se lève

(Alba tragica, M. Carné, 1939) e La rue sans nom (P. Chenal, 1934), probabilmente il primo film ad

essere designato in questo modo. Questi film, marcati da un’atmosfera nebbiosa molto suggestiva,

si prestano sia ad un romanticismo esasperato che ad una visione cruda del crimine e della

violenza. Questi film appartengono ad un filone più comunemente designato come “realismo

poetico”: un movimento molto importante nel contesto del cinema francese dell’epoca,

caratterizzato, come dice l’etichetta stessa, da un’attenzione alla realtà sociale più dura, trattata

però con un notevole afflato lirico. In alcuni casi, come ad esempio in Le jour sé leve, questi film

adoperano degli espedienti narrativi, come il flashback, che saranno poi fondamentali anche nel

noir americano.

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Se ricostruiamo la fitta rete intertestuale che si dipana a partire da uno dei noir francesi più

comunemente menzionati, Le dernier tournant (P. Chenal, 1939), possiamo avere piena misura

della dimensione transnazionale di questo genere: questo film è infatti l’adattamento di un

romanzo americano (The Postman Always Rings Twice, di James M. Cain), che verrà poi portato

sullo schermo anche negli Stati Uniti col medesimo titolo (Il postino suona sempre due volte, T.

Garnett, 1946). Non prima però di essere stato adattato anche in Italia, da parte di Luchino

Visconti, con il titolo di Ossessione (1943).

Ossessione è considerato a sua volta uno dei primi film del neorealismo italiano, ovvero quel

movimento di profondo rinnovamento del nostro cinema nazionale che scaturì dalla fine della

dittatura fascista. Tanto in Francia quanto in Italia, dunque, la storia del noir si intreccia (pur senza

sovrapporsi del tutto) a film altrimenti designati per il loro rapporto con la realtà (realismo poetico,

neorealismo). Dunque, anche se il noir ci sembra a prima vista molto lontano, con le sue ombre e

la sua enfasi sulla soggettività angosciata, dalla dimensione dell’oggettività realista, in verità i due

registri narrativi (quello oggettivo e quello soggettivo) sono tutt’altro che antitetici, e possono

essere conciliati all’interno degli stessi film.

Di fatto, si può dire che il cinema francese abbia anticipato alcuni aspetti del noir

americano proprio tramite l’attenzione agli spazi del margine, descrivendone senza fronzoli

l’intreccio tra sesso e violenza che li caratterizzava. E parimenti, nel cinema italiano, la narrazione

noir di Ossessione ha rappresentato un primo avvicinamento a problemi di disagio sociale che il

cinema neorealista vero e proprio (film come Roma città aperta, R. Rossellini, 1945 o Ladri di

biciclette, V. De Sica, 1948) avrebbe poi affrontato in termini più rigorosamente realistici, che non

hanno nulla a che vedere col noir. Ossessione è la storia della insopprimibile passione erotica ed

adulterina tra due reietti, Gino e Giovanna, che trovano l’uno nell’altra un po’ di quella felicità che

il mondo gli ha finora negato. I due complottano perciò di uccidere il marito di lei per essere liberi

di vivere il proprio amore. Questa vicenda di una passione smodata, fortemente fisica, che anima i

personaggi portandoli fino al delitto, senza che essi siano dei personaggi aberranti, ma

dipingendoli sostanzialmente come vittime della società, era davvero molto lontana

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dall’immagine del paese che il regime fascista aveva fino ad allora imposto sugli schermi.

Famosamente Vittorio Mussolini, figlio del Duce, andò via da un’anteprima del film nell’estate del

1943 sbattendo la porta e gridando “Questa non è l’Italia!”: il regime di suo padre sarebbe però

crollato di lì a qualche settimana, ed una rappresentazione molto più onesta della società italiana

si sarebbe affermata.

La storia del noir è dunque una storia complessa ed autenticamente transnazionale (si

possono trovare esempi di film associabili a questo genere anche nel cinema inglese, giapponese,

messicano ecc.). Il genere d’altronde non si esaurisce affatto nella sua fase classica, nel contesto

del dopoguerra: ne ritroviamo invece traccia, spesso etichettato come neo-noir, nelle filmografie

di autori celebri come Jean-Pierre Melville, François Truffaut (Tirez sur le pianiste, Tirate sul pianista,

1961 ma anche La marriée etait en noir, La sposa in nero, 1968), Roman Polanski (Chinatown, 1974),

Robert Altman (The Long Goodbye, Il lungo addio, 1975) Martin Scorsese (Taxi Driver, 1976), i fratelli

Coen (da Blood Simple, 1984 a The Man Who Wasn’t There, L’uomo che non c’era, 2001), David

Lynch (da Blue Velvet, Velluto blu, 1986 a Mulholland Drive, 2001), Quentin Tarantino (Reservoir

Dogs, Le iene, 1992), Christopher Nolan (Memento, 2001), David Fincher (Gone Girl, 2014), Paul

Thomas Anderson (Inherent Vice, Vizio di forma, 2014) e molti altri.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da
copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).

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Indice

1. ORIGINI E APPRENDISTATO .................................................................................................................... 3


2. VISCONTI E IL NEOREALISMO ................................................................................................................ 5
3. DA SENSO AL GATTOPARDO, TRA PASSATO E PRESENTE ..................................................................... 9
4. L’ULTIMO VISCONTI .............................................................................................................................. 13
BIBLIOGRAFIA................................................................................................................................................ 15

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1. Origini e apprendistato

Luchino Visconti nasce a Milano il 2 novembre 1903. Figlio di Giuseppe Visconti, duca di

Grazzano e conte di Modrone, e di Carla Erba, appartenente ad un’importante famiglia di

industriali farmaceutici. Il contesto altolocato in cui si forma lo indirizza ad una cultura cosmopolita,

di impronta mitteleuropea. Nonostante la dimestichezza con l’arte e la cultura fosse favorita

dall’ambiente familiare, però, la decisione di Visconti di intraprendere in prima persona la carriera

artistica nel cinema e nel teatro giunge piuttosto tardi, proprio in quanto inconsueta per una

personalità della sua posizione sociale.

L’apprendistato sul set è di altissimo livello. In direzione opposta rispetto a quella di una

cultura italiana che, alla metà degli anni Trenta, si rinchiude sempre di più all’interno dei propri

confini, in accordo con la politica autarchica del regime fascista, Visconti parte per la Francia per

aiutare il grande regista transalpino Jean Renoir sui set di Partie de campagne (La scampagnata,

girato nel 1936 ma uscito solo dieci anni dopo) e Les bas-fonds (Verso la vita, 1936). Il modello del

cinema di Renoir, e più in generale del realismo poetico francese degli anni Trenta, rimarrà sempre

un punto di riferimento cruciale per l’opera registica di Visconti.

Dopo un breve soggiorno a Hollywood, Visconti rientra in Italia nel 1939 a causa della morte

della madre, e si trasferisce a Roma. Comincia, invitato di nuovo da Jean Renoir, a lavorare ad

una coproduzione italo-francese, un adattamento cinematografico della Tosca di Puccini. Dopo

l’inizio della Seconda Guerra Mondiale, però, il regista francese è costretto a lasciare il set, e anche

Visconti abbandona il progetto (il film uscirà nel 1941, per la regia di Carl Koch).

Fondamentale, in questo frangente, l’incontro con i giovani intellettuali collaboratori della

rivista «Cinema», tra cui Michelangelo Antonioni, Giuseppe De Santis, Carlo Lizzani, Gianni Puccini e

Massimo Mida. Entrare a far parte di questo gruppo non significa soltanto, per Visconti, il contatto

con la frangia più illuminata e innovativa della riflessione dell’epoca sul medium cinematografico:

grazie agli intellettuali di «Cinema», il nobiluomo milanese si avvicina anche alle idee del Partito

Comunista, allora ancora illegale. La rivista infatti, pur diretta da Vittorio Mussolini, figlio del Duce,

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era sede di una fronda culturale non indifferente nei confronti del regime fascista. Al Partito

Comunista Italiano Visconti rimarrà d’altronde legato fino alla morte, pur con rapporti alterni e non

sempre di adesione piena (anche a causa dell’omosessualità dichiarata più o meno apertamente

dal regista).

Gli intellettuali di «Cinema» propugnavano un profondo rinnovamento del cinema (e in

senso più ampio della società) italiana, sostenendo la necessità di abbandonare gli schemi triti e

stucchevoli della commedia dei telefoni bianchi tipica degli anni Trenta (ambientazioni lussuose,

personaggi stereotipati e frivoli) a favore di racconti più realistici, incentrati sui drammi quotidiani

della gente comune. Il modello del nuovo cinema italiano, secondo De Santis e gli altri, doveva

essere la letteratura verista di Verga 1. Ciò si traduceva, in concreto, in una maggiore attenzione ai

dialetti e, soprattutto, alla dimensione del paesaggio: l’unico modo di capire a fondo caratteri,

bisogni e potenzialità del popolo italiano era di vederlo concretamente calato nel proprio

contesto, e il cinema doveva farsi carico di questa missione ritraendo le classi subalterne nel

proprio ambiente quotidiano. Molti aspetti dolorosi e controversi del vissuto degli italiani erano stati

troppo a lungo occultati dalla retorica trionfalistica e ipocrita del regime, e dovevano ora essere

riportati allo scoperto.

Il primo film che applicherà pienamente gli elementi di questa poetica – che diverrà presto

nota con il nome di neorealismo – sarà appunto il film d’esordio di Luchino Visconti, Ossessione

(1943).

1
Cfr. Giuseppe De Santis, Per un paesaggio italiano, in «Cinema», VI, 116, 25 aprile 1941, pp. 292-293, ora in P.
Noto, F. Pitassio, Il cinema neorealista, Bologna, ArchetipoLibri, 2010, pp. 73-75; Giuseppe De Santis, Mario Alicata,
Verità e poesia; Verga e il cinema italiano, in «Cinema», VI, 127, 10 ottobre 1941, pp. 216-217, ora in P. Noto, F.
Pitassio, Il cinema neorealista, cit., pp. 76-79.

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2. Visconti e il neorealismo

Ossessione (1943) è l’adattamento del romanzo dello scrittore americano James M. Cain

The Postman Always Rings Twice (1934), che era già stato portato sullo schermo in Francia nel 1939

(Le dernier tournant, P. Chenal, 1939) e lo sarà presto anche ad Hollywood (The Postman Always

Rings Twice, Il postino suona sempre due volte, T. Garnett, 1946). Nel caso del film italiano si tratta di

un adattamento inconfessato, perché Visconti non deteneva i diritti del racconto e anche perché

in quel momento i due paesi erano in guerra2. Ma in barba alle restrizioni legate al conflitto, il film si

colloca, com’è evidente dai rapporti intertestuali appena delineati, in una dimensione di dialogo

transnazionale tra generi e registri diversi, conciliando l’attenzione a personaggi emarginati legata

all’estetica del neorealismo con elementi del cinema di genere, in particolare il noir. Ossessione è

infatti la storia di un adulterio, che conduce la coppia di protagonisti (Massimo Girotti e Clara

Calamai) al delitto. Il punto è che i due sono presentati in modo empatico: anche se si macchiano

di un crimine, uccidendo il marito di lei, essi sono vittime più che carnefici, intrappolati come sono

negli ingranaggi di una società gretta e ingiusta. Il film presta una grande attenzione tanto ai corpi,

assai sensuali, dei protagonisti (un erotismo per l’epoca senz’altro inusitato) che al corpo del

paesaggio: lo scenario delle paludi del Po è quasi un terzo personaggio, la sua imperturbabile

orizzontalità un perfetto correlato della sensazione di smarrimento esistenziale dei due protagonisti

e del destino opprimente a cui essi non potranno in alcun modo sfuggire. Puntuale giungerà infatti

il finale di condanna e di morte a spezzare ogni illusoria speranza di rinascita.

Nel film, dunque, l’attenzione dedicata allo spazio propugnata da De Santis si

accompagna alla grande enfasi riservata ai visi, ai corpi e alle interpretazioni degli attori. Pochi

mesi dopo l’uscita del film, Visconti firmerà un saggio breve ma profondamente rivelatore della sua

concezione del medium in cui aveva appena esordito, intitolato Cinema antropomorfico3. In

2
Il film avrà per questa ragione enormi problemi distributivi all’estero, e rimarrà invisibile negli Stati Uniti per molti
anni, a differenza degli altri capolavori del neorealismo.
3
Luchino Visconti, Cinema antropomorfico, in «Cinema», VIII, 173/174, 25 settembre-25 ottobre 1943, pp. 108-109,
ora in Paolo Noto, Francesco Pitassio, Il cinema neorealista, Bologna, ArchetipoLibri, 2010, pp. 84-85.

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questo scritto, Visconti si fa appunto portavoce di una nuova attenzione alla figura umana,

segnalando il bisogno di spogliare gli attori di mestiere dei loro tecnicismi e delle loro affettazioni,

per ritrovare la verità umana nelle loro performance. Per questo, egli anticipa già l’idea, ancora

non esplorata nel concreto, di affidarsi ad interpreti non professionisti, presi dalla strada, che sarà

presto una delle caratteristiche principali del neorealismo suo e di altri cineasti.

Questa attenzione quasi ossessiva verso il volto la si ritrova anche nel progetto assai

peculiare a cui Visconti partecipò verso la fine della guerra, ovvero il documentario collettivo

Giorni di gloria, co-diretto con Mario Serandrei, Giuseppe De Santis e Marcello Pagliero4: incaricato

di filmare i processi dell’Alta corte di giustizia per le sanzioni contro il fascismo, Visconti è presente in

aula nel momento in cui viene condannato a morte Pietro Caruso, ex questore di Roma ed

efferato collaboratore dei nazisti. Fissando intensamente la sua macchina da presa sul volto di

Caruso, mentre questi apprende di essere destinato alla fucilazione, il regista sembra quasi tentare

in tutti i modi di scorgere la verità umana dietro la maschera dell’efferato criminale di guerra, di

rintracciare una dimensione di pathos dietro la facciata di un uomo che non ebbe mai a pentirsi

dei crimini commessi. Siamo di fronte al primo (il più disturbante) dei ritratti di uomini a contatto con

la Storia e con il Male, che Visconti osserverà da vicino (come vedremo) soprattutto nella seconda

parte della sua carriera.

D’altronde, è bene chiarirlo, non si può certo accusare Visconti di simpatie fasciste,

considerando che era stato egli stesso parte della Resistenza ed era poi rimasto vittima delle

persecuzioni nazifasciste. Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, Visconti aveva infatti collaborato

con i GAP (Gruppi di Azione Patriottica) assumendo il nome di battaglia di Alfredo. La sua casa

romana era divenuta un punto di incontro e rifugio per molti membri della Resistenza attivi in città,

tra cui il comunista sardo Sisinnio Mocci, ufficialmente assunto come maggiordomo ma in realtà

impegnato nella lotta clandestina contro l’occupazione nazifascista: Mocci sarà arrestato nella

villa di Visconti e poi trucidato alle Fosse Ardeatine.

4
Il film è disponibile al seguente indirizzo: https://vimeo.com/303284185.

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Catturato egli stesso nell’aprile del 1944 e imprigionato a Roma per alcuni giorni

dalla temibile Banda Koch, Visconti si era salvato dalla fucilazione grazie all’intervento dell’amica

attrice Maria Denis, che aveva interceduto per lui presso la polizia fascista. Quando, a guerra finita,

Pietro Koch, il capo della formazione da cui il regista era stato fatto prigioniero, fu processato, la

testimonianza del regista ebbe forte peso, e il procedimento si concluse con la condanna a morte

per il noto fascista. In Giorni di gloria Visconti filma anche l’esecuzione di Koch, avvenuta a Forte

Bravetta il 5 giugno 1945.

Dopo la guerra, il neorealismo viscontiano prosegue ancora nella medesima ricerca di una

verità dei volti, volgendosi stavolta, come anticipavamo, alle classi popolari, agli attori non

professionisti. Con La terra trema (1948), Visconti mette in scena un adattamento contemporaneo

dei Malavoglia di Verga. L’impresa, partita come un documentario elettorale del Partito

comunista, sarebbe dovuta articolarsi in un “episodio del mare” (il film effettivamente realizzato),

un “episodio della solfara” e un “episodio della terra” che, intersecati fra loro assieme a un più

breve “episodio della città”, descrivessero in montaggio alternato altrettante situazioni di scontro

sociale. Anche se questo ambizioso progetto non andrà in porto, il film rimane comunque l’opera

più autenticamente neorealista di Visconti. Il discorso di ribellione rispetto alle ingiustizie delle

strutture sociali, che in Ossessione si articolava ancora tutto all’interno della vicenda privata,

lasciando la dimensione ideologica nell’implicito, si trasforma qui in rivendicazione esplicita. Il film si

segnala in particolare, oltre che per l’uso del paesaggio e degli attori non professionisti, per lo

sperimentalismo linguistico legato alla contrapposizione tra una voce narrante in perfetto italiano e

i dialoghi rigorosamente in dialetto. Ma così come il dialetto siciliano di Visconti è in realtà

artificiale, reso più aulico ad hoc, rispetto al parlato corrente, così il film stesso, lungi da essere

semplicemente un’immersione nella realtà dei pescatori d’Aci Trezza nel dopoguerra, è piuttosto

una riconfigurazione del loro mondo, atta a sottolineare la ritualità ieratica, gli arcaismi imperituri e

finanche mitici di questo stile di vita. Il film concilia perciò la concretezza dell’analisi socio-storica

delle condizioni di povertà e oppressione con un lavoro molto forte di formalizzazione, che

raggiunge risultati estetici molto alti. La messa in scena evoca quasi, nella sua propensione per la

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staticità della posa, dei tableaux vivants, ma bilancia sempre questa tendenza con la

consapevolezza della necessità del movimento, anche nel senso concretamente politico della

mobilitazione per la lotta di classe. Il film rende insomma evidente come il neorealismo di Visconti

non si proponga mai come mera registrazione del reale, ma sempre come una sua rielaborazione,

per esaltarne tanto gli aspetti evocativi e melodrammatici, quanto, di pari passo, il portato politico.

L’ultimo film della trilogia neorealista di Visconti, Bellissima (1951), esplicita in modo

chiarissimo la diffidenza di Visconti rispetto ad ogni concezione ingenua (e dunque vuota) del

neorealismo come “cinema della realtà”. Il film è infatti un crudele apologo sull’ossessione

dell’industria cinematografica dell’epoca per la spontaneità degli attori bambini. Visconti rimane

in territorio neorealista proprio tramite una messa alla berlina del neorealismo stesso (tra gli

sceneggiatori c’è d’altronde il massimo teorico del neorealismo, Cesare Zavattini), nonché della

propria personale ossessione per l’autenticità del volto, di cui parlavamo sopra. Con la storia della

popolana romana Maddalena (Anna Magnani), che vuole a tutti i costi trasformare la sua

figlioletta in un’attrice bambina, il regista mostra il tramonto dell'utopia del cinema come

strumento di liberazione e l’affermazione della “macchina cinema” come disumano strumento di

spettacolo e di profitto. E Anna Magnani è protagonista anche dell’episodio viscontiano del film

collettivo Siamo donne (1953), in cui si rievoca, con grande brio, il mondo dell’avanspettacolo

durante la Seconda Guerra Mondiale.

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3. Da Senso al Gattopardo, tra passato e presente

Proprio in teatro (ma quello d’autore, non il varietà) si era nel frattempo distinto Visconti,

esordendo nella regia di prosa nel 1945 (Parenti terribili di Jean Cocteau) e nella lirica nove anni

dopo, dirigendo Maria Callas nella Vestale di Gaspare Spontini. Oltre alle 18 cinematografiche,

Visconti firmerà nel complesso anche 45 regie di prosa, 21 regie liriche e 3 coreografiche,

affermandosi come “il massimo uomo di spettacolo italiano del primo trentennio postbellico”5.

Non casualmente il 1954 fu il momento in cui l’ispirazione melodrammatica

dell’immaginario viscontiano trovò esplicitazione anche sullo schermo. Senso (1954) si apre infatti

proprio su una messa in scena, al teatro La Fenice di Venezia nel 1866, del Trovatore di Verdi e il

modello operistico rimane poi un riferimento costante per tutte le opzioni narrative e stilistiche

proposte nel corso del film. Il film è scandito in macro-episodi che assomigliano a veri e propri atti

teatrali, e grande importanza assume anche l’impiego della musica di Anton Bruckner. La messa in

scena sontuosa (costumi, scenografie, la fotografia a colori con cui Visconti si confronta per la

prima volta) non mancò di destare un certo sdegno, presso la stampa dell’epoca, che accusò

Visconti di aver abbandonato il neorealismo e con esso la dimensione analitica della realtà

sociale.

In verità, però, il film, nonostante l’impostazione melodrammatica, ed anzi proprio grazie ad

essa, è tutt’altro che privo di implicazioni politiche. Ispirato a una novella di Camillo Boito,

ampiamente rimaneggiata, Senso racconta della passione nutrita dalla contessa Livia Serpieri (una

intensissima Alida Valli) per il tenente austriaco Franz Mahler (Farley Granger), passione che

condurrà la donna al tradimento verso i patrioti italiani impegnati nella lotta risorgimentale (fra cui il

cugino marchese Ussoni, Massimo Girotti) i cui fondi la donna consegna a Mahler perché,

corrompendo un medico, possa farsi riformare. La protagonista di Visconti perde dunque

progressivamente interesse nella causa patriottica, e sta proprio in questa traiettoria la dimensione

5
Lino Miccichè, Luchino Visconti, in “Enciclopedia del Cinema”, Treccani, 2004, disponibile al seguente indirizzo:
http://www.treccani.it/enciclopedia/luchino-visconti_%28Enciclopedia-del-Cinema%29/.

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di riflessione politica del film: la contessa Serpieri e il suo tradimento sono simbolici del Risorgimento

come rivoluzione mancata, segnalano la difficoltà, una volta fatta l’Italia, a “fare gli italiani” (per

usare la famosa espressione di Massimo d’Azeglio), ovvero a creare un sentimento di

appartenenza alla comunità nazionale che vada oltre il semplice e meschino interesse per i propri

fatti personali.

Certo, lo stesso Visconti, nell’elaborazione del film, compie una sorta di ‘tradimento’ della

dimensione più dottrinaria del proprio discorso ideologico: il regista finisce infatti per ricalibrare le

proprie intenzioni originarie, dedicando meno spazio del previsto alla ricostruzione della battaglia

risorgimentale di Custoza. La sequenza che ne rimane, pur visivamente splendida, ispirata com’è

alla pittura dei Macchiaioli), risulta come un corpo estraneo rispetto al nodo passionale del film:

non è infatti nella corretta ma fredda illustrazione delle dinamiche socio-storiche che risiede

davvero l’interesse del regista, che si identifica piuttosto con i personaggi che stanno dalla parte

sbagliata, agitati da un’inquietudine melodrammatica insopprimibile che li destina ad una fatale

disfatta.

Anche con il film successivo, Visconti prosegue nella revisione di ogni semplicistica idea di

realismo: Le notti bianche (1957) è ispirato all’omonimo romanzo di Dostojevskij (l’adattamento da

fonte letteraria è una delle vere costanti del cinema viscontiano) ed è l’occasione per il regista di

mettere in scena un racconto che egli stesso definisce “neointimistico”, in aperta polemica con i

fautori di una ortodossia neorealista. Il film è ambientato a Livorno ma, con supremo rifiuto degli

ideali del rinnovamento cinematografico del dopoguerra, Visconti decide di ricostruire lo spazio

urbano totalmente in studio, e senza alcuna pretesa di realismo in senso stretto: opta piuttosto per

un’ambientazione nebbiosa e profondamente suggestiva, fortemente debitrice delle atmosfere

del cinema francese degli anni Trenta in cui il regista aveva mosso i suoi primi passi, e vivacizzata

da una regia davvero virtuosistica.

Con Rocco e i suoi fratelli, del 1960, Visconti sembra invece tornare ad un’attenzione più

stringente alla realtà sociale a lui contemporanea: il film è infatti suddiviso in cinque macro-capitoli,

uno per ciascuno dei fratelli di una famiglia lucana emigrata a Milano. Seguendo le diverse

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traiettorie di inclusione ed esclusione sociale affrontate da Rocco, Simone, Ciro e gli altri, il film è

rimasto nella storia del cinema italiano come una delle più importanti riflessioni sulle dinamiche

della migrazione interna e del lavoro industriale negli anni del boom economico. Se il film è una

pietra miliare lo si deve anche al perfetto equilibrio che in esso trovano le diverse matrici

dell’ispirazione viscontiana, che abbiamo delineato finora: da una parte, l’analisi sociale

influenzata dal materialismo storico di stampo marxista e dalle idee di Gramsci, dall’altra la carica

narrativa ed estetica dell’immaginario melodrammatico, mobilitato qui in tutta la sua forza proprio

per raccontare al meglio i costi esistenziali del processo di modernizzazione. D’altronde il film, pur

essendo ufficialmente tratto da una raccolta di racconti sulla borgata milanese scritti da Giovanni

Testori (Il ponte della Ghisolfa), trae parimenti ispirazione dal modello della tetralogia di Thomas

Mann dedicata a Giuseppe e i suoi fratelli, che riprendeva a sua volta il racconto biblico della

Genesi. Si vede bene insomma come, pur rimanendo legato alla dimensione contestuale degli

anni Sessanta, Visconti è capace di conciliare con essa riflessioni di portata più ampia sulla

condizione umana.

Il film è tra l’altro marcato, così come tutta la produzione viscontiana, da uno sguardo

esplicitamente omosessuale: l’attrazione per il corpo maschile, per quanto ovviamente non

sottolineato esplicitamente dalla critica dell’epoca, è elemento evidente e strutturante della sua

impostazione registica. Questo è vero sin dall’esordio con Ossessione, ma tale discorso trova in

Rocco e i suoi fratelli una declinazione particolarmente efficace, perché contribuisce a caricare di

pathos i corpi dei protagonisti proletari, impegnati in uno scontro melodrammatico tra i propri

desideri e le convenzioni sociali.

L’elemento dell’eros è presente in modo meno esplicito nel film successivo, Il Gattopardo

(1963), che però è accomunato al lavoro precedente dalla sovrapposizione tra tematica storico-

politica e ritratto esistenziale di portato pressoché filosofico. Questo capolavoro viscontiano, tratto

dalla novella di Giuseppe Tomasi di Lampedusa uscita qualche anno prima, ha di nuovo, come

Senso, un’ambientazione risorgimentale. La riflessione del regista si concentra, sul piano politico, sul

trasformismo delle classi dirigenti e sull’arrivismo della nuova borghesia proprietaria, che hanno

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segnato sin dall’inizio il sorgere del nuovo regno d’Italia. Il concomitante tramonto dell’aristocrazia

è personificato nel film dal personaggio del Principe Fabrizio, magistralmente interpretato da Burt

Lancaster. Il Principe è oggetto da parte di Visconti di un’identificazione pressoché completa, che

permette al regista di articolare non solo una disamina storica ma anche una riflessione di respiro

più ampio che concerne l’intreccio tra bellezza e decadenza, vitalità e crepuscolo: Don Fabrizio è

una figura consapevole del proprio anacronismo, ed in questo già anticipa l’inaugurarsi di

un’ultima fase finale dell’ispirazione viscontiana, tutta incentrata su uomini che si guardano

lucidamente morire.

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4. L’ultimo Visconti

Con Il Gattopardo, Visconti ottiene la Palma d’oro al Festival di Cannes, mentre la

consacrazione in patria arriva, tardiva, con il Leone d’Oro al Festival di Venezia per il film

successivo, Vaghe stelle dell’orsa (1965)6. Il film ruota intorno a due fratelli, Sandra e Gianni

(Claudia Cardinale e Jean Sorel), alle prese con un passato pieno di ombre ed un presente

attraversato da torbide tentazioni incestuose. La vicenda getta le proprie radici in un trauma

legato alle vicende degli ebrei italiani durante la Seconda Guerra Mondiale, conservando dunque

un legame con la realtà storico-sociale. Nel complesso però il film appartiene decisamente

all’ultima fase della produzione viscontiana proprio perché prevale la vena soggettiva, che si

articola intorno ai tropi del trauma, della sconfitta, del destino e della morte.

Il film successivo, un adattamento dello Straniero (1967) di Albert Camus è una delle

operazioni meno fortunate di Visconti, che dovette anche scontrarsi con le pretese della vedova

dello scrittore. Ma la crisi d’ispirazione viene brillantemente superata col film successivo, La caduta

degli Dei (1969), ambiziosa saga familiare ambientata nella Germania nazista, che si potrebbe dire

costituisca il primo capitolo di una sorta di “trilogia tedesca”, tutta all’insegna dell’eccesso stilistico,

della magniloquenza spettacolare, del decadentismo rutilante.

Nel successivo Morte a Venezia (1971), ispirato alla celeberrima novella di Thomas Mann

(1911), ma fortemente influenzato anche dalle opere successive dello scrittore tedesco, in primis Il

Dottor Faustus (1942), Visconti esplicita la componente omosessuale della propria ispirazione,

volgendola però in direzione funerea. Il giovane Tadzio (Björn Andrésen), di cui si innamora il

protagonista Aschenbach (Dirk Bogarde), è una sorta di angelo della morte, “più simbolo di

struggente nostalgia, di irrealizzabile quiete e di impossibile serenità contemplativa, che di carnale

desiderio e di erotico appagamento”7.

6
Prima di allora aveva ottenuto soltanto il Leone d’argento per Senso nel 1954.
7
Lino Miccichè, Luchino Visconti, in “Enciclopedia del Cinema”, cit.

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Il terzo capitolo della trilogia tedesca è invece, Ludwig (1973), biopic sui generis di Re

Ludovico II di Baviera, figura estrema di sovrano esteta della seconda metà dell’Ottocento, che

perse il nume della ragione. Il film serve a Visconti per portare alle estreme conseguenze la sua

sperimentazione con la dilatazione temporale (la lunga durata caratterizza molti dei suoi lavori sin

da La terra trema): Ludwig è infatti un film-fiume, monumentale, strabordante e kitsch quanto il suo

protagonista, ma non per questo meno lucido nell’analisi melodrammatica e crepuscolare

dell’intreccio tra l’arte e la vita (e dell’idea di fare della propria vita un’opera d’arte).

Gli ultimi film di Visconti proseguono in questa riflessione esistenziale sulla creatività, la

memoria e l’approssimarsi della fine. Gruppo di famiglia in un interno (1974), i cui Burt Lancaster,

già Gattopardo, torna a lavorare con Visconti per interpretare un professore avanti con l’età che

vive tranquillo nel proprio appartamento-museo, almeno finché le complesse vicende dei suoi

vicini di casa non giungono a disturbarne la quiete esistenziale. Il film è tutto girato in interni, come

suggerisce già il titolo: per un regista che aveva esordito con il neorealismo ed il suo uso innovativo

del paesaggio, si può dire compiuta una metamorfosi a 360°.

Anche l’ultimo film di Visconti, L’innocente (1976), tratto dall’omonimo romanzo di Gabriele

D’Annunzio, propone il leitmotiv di tutta l'opera viscontiana: il crollo di un mondo, di una società e

di un'epoca, visto attraverso la sconfitta di uno o più individui che ne rappresentano la classe

egemone.

Il film d’altronde uscirà postumo: afflitto da problemi di salute già dal 1972 (era stato colpito

da ictus al termine delle riprese di Ludwig), Visconti si spegne a Roma il 17 marzo 1976, senza aver

ancora avuto occasione di ultimare il montaggio del suo ultimo film.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da
copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).

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Indice

1. L’ULTIMO DEI CLASSICI, IL PRIMO DEI MODERNI .................................................................................. 3


2. IL PERIODO INGLESE ............................................................................................................................... 6
3. IL TRASFERIMENTO A HOLLYWOOD ....................................................................................................... 9
4. SPAZIO, COLORE, SGUARDO E DESIDERIO. ........................................................................................ 12
5. PSYCHO E GLI ULTIMI CAPOLAVORI ................................................................................................... 14
BIBLIOGRAFIA................................................................................................................................................ 16

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1. L’ultimo dei classici, il primo dei moderni

Alfred Hitchcock è un cineasta che non ha bisogno di presentazioni. La sua fama di

maestro del brivido perdura anche a quarant’anni di distanza dalla sua morte, ed i suoi film sono

considerati tra i massimi capolavori dell’arte cinematografica del Novecento. La chiave del

successo di Hitchcock sta nella capacità di articolare intrecci formidabili carichi di tensione,

conciliando l’armonia stilistica e narrativa del cinema classico (un cinema pieno, avvolgente, che

cattura la fantasia dello spettatore catapultandolo nel mondo diegetico con forza mitopoietica) e

lo sperimentalismo spericolato del cinema moderno (un cinema più intellettuale, autoriflessivo, che

tramite ardite scelte stilistiche mette lo spettatore a parte del processo costruttivo della macchina

finzionale). Non a caso Gilles Deleuze ha definito Hitchcock “l’ultimo dei classici e il primo dei

moderni”1, proprio ad indicare il collocarsi della lunga carriera hitchcockiana, durata oltre

cinquant’anni, sul crinale tra la logica dell’intrattenimento puro e la spinta alla riflessione. Una

riflessione, finanche filosofica, sull’identità, sul desiderio, sullo sguardo, e su come tutti questi

elementi siano mobilitati dal dispositivo cinematografico.

Campione di ironia, oltre che di suspense, Hitchcock fu capace di creare una cifra stilistica

inconfondibile, basata su un controllo assoluto del processo creativo: arrivava infatti sul set del tutto

pronto a girare, avendo già immaginato ogni movimento di macchina e ogni dettaglio della

messa in scena tramite degli storyboard (aveva d’altronde studiato brevemente disegno

all’Università di Londra negli anni della formazione). Questa idea di Hitchcock come un vero e

proprio demiurgo, che poteva disporre a piacimento dei propri spettatori, facendoli spaventare,

eccitare o divertire, fu coltivata attivamente dal regista stesso, che gestì sapientemente la propria

immagine pubblica: la sua silhouette pingue divenne un vero e proprio marchio di fabbrica, in

particolare a partire dal suo impegno nella serie televisiva Alfred Hitchcock Presents (Alfred

Hitchcock presenta, 1955-1962) di cui egli introduceva tutti gli episodi con un breve prologo in cui

faceva interpellava direttamente il pubblico e faceva mostra del suo proverbiale gusto per l’orrore

1
Gilles Deleuze, Cinema 1. L’immagine-movimento (1983), Milano, Ubulibri, 1984.

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e soprattutto del suo humor tipicamente inglese. D’altronde, questa dimensione di complicità

esplicita con il pubblico era già stato anticipato dalla divertente abitudine di fare una

comparsata, muta e fugace, in ciascuno dei propri film, invitando lo spettatore affezionato a stare

attento a ogni dettaglio della messa in scena, delle inquadrature e dei movimenti di macchina per

non perdersi il cameo registico.

Anche senza questa piccolo gioco autoriale, comunque, la ‘firma’ di Hitchcock sarebbe in

ogni caso presente ovunque nella sua filmografia, perché l’impronta del suo stile è davvero

indelebile ed inconfondibile (ed è stata anche molto imitata). Esso si caratterizza appunto per la

capacità di giostrare con assoluta maestria le dimensioni della sorpresa e della suspense. Mentre la

sorpresa si verifica, com’è ovvio, quando rimaniamo sbalorditi perché sullo schermo accade

qualche cosa d’inaspettato, la suspense invece implica un discorso un po’ più complesso, relativo

ad un’accuratissima gestione del posizionamento del pubblico. Nel caso della struttura a suspense,

infatti, lo spettatore viene collocato in una posizione intermedia tra il sapere assoluto di cui è

naturalmente depositario l’autore e il sapere irrimediabilmente parziale dei personaggi.

Accordando allo spettatore più informazioni di quante ne abbia il personaggio, Hitchcock è

capace di instillare in egli/ella una forma di ansia e di attesa assolutamente peculiare. Questo

discorso è valido sia a livello macro (in relazione alla struttura complessiva del materiale narrativo)

sia a livello micro, ovvero in senso strettamente visivo (Hitchcock sceglie accuratamente in ogni

scena cosa inquadrare con la macchina da presa e cosa lasciare invece fuori campo, e talvolta

lo spazio non visualizzato si configura per l’esperienza dello spettatore come un altrove

autenticamente minaccioso). Conducendo il pubblico in un labirinto intensamente affascinante,

Hitchcock attua così anche una riflessione sui meccanismi della visione e della percezione.

La sua opera si segnala anche per alcuni movimenti di macchina che sono rimasti

celeberrimi, perché capaci di coinvolgere l’emotività ma anche la sfera sensoriale dello

spettatore. Si pensi al carrello in avanti nel finale di Young and Innocent (Giovane e innocente,

1937) o a quello che va a stringere sulla chiave all’inizio della sequenza della festa in Notorious

(Notorius – l’amante perduta, 1946): entrambi costituiscono delle vere e proprie concretizzazioni

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del desiderio di conoscere e guardare che fonda la nostra esperienza sia cinematografica che più

ampiamente esistenziale.

Spesso, d’altronde, il motore dell’intrigo, ciò che mette in marcia la narrazione, non è che

un pretesto (che Hitchcock chiamava col nome, anch’esso del tutto pretestuoso, di MacGuffin),

mentre ciò che interessa davvero al regista è appunto la gestione della situazione di angoscia, di

paura e di desiderio che viene a scatenarsi.

L’importanza del cinema di Hitchcock non venne inizialmente colta dalla critica: forse

proprio a causa di un’incapacità di cogliere la profondità delle implicazioni sottese alla sua opera,

che appariva ad occhi poco attenti come mera produzione di genere. Hitchcock soffrì insomma il

pregiudizio negativo nutrito rispetto agli stilemi del thriller e del giallo, considerati, specie negli Stati

Uniti (meno nel Regno Unito, da cui egli proveniva e dove aveva incominciato la propria carriera),

dei generi minori, puramente di cassetta e lontani dalla ricerca artistica più seria. Fu soltanto negli

anni Cinquanta e Sessanta che, grazie soprattutto al lavoro interpretativo dei critici/cineasti

francesi dei “Cahiers du cinéma” e della Nouvelle Vague (anzitutto François Truffaut, Claude

Chabrol ed Éric Rohmer2) che Hitchcock iniziò ad affermarsi come vero e proprio modello di

Autore cinematografico, per essere poi riconosciuto anche presso la sua patria d’adozione, gli Stati

Uniti (gli verrà assegnato un Oscar speciale nel 1968), e universalmente.

2
Éric Rohmer, Claude Chabrol, Hitchcock (1957), a cura di Antonio Costa, Venezia, Marsilio, 1996; François Truffaut,
Il cinema secondo Hitchcock (1966), Parma-Lucca, Pratiche, 1977.

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2. Il periodo inglese

Nato a Londra il 13 agosto 1899 da genitori cattolici, Hitchcock iniziò a lavorare in campo

cinematografico intorno al 1920, realizzando bozzetti preparatori delle scene, nonché titoli e

intertitoli, presso gli studi londinesi di Islington. Il suo primo film, Number Thirteen, iniziato nel 1922,

rimarrà però incompiuto per mancanza di finanziamenti (ed è oggi considerato perduto). Il suo

periodo di apprendistato più importante doveva, d’altronde, ancora arrivare: nel 1924, grazie ad

un accordo tra Michael Balcon della Gainsborough Pictures e il produttore tedesco Erich Pommer,

si recò a Berlino per un praticantato presso gli studi dell’importantissima casa di produzione UFA.

L’incontro con la realtà cinematografica tedesca, ed in particolare con un regista come Friedrich

Wilhelm Murnau, segnò fortemente il giovane aspirante regista, specialmente per quanto riguarda

il controllo finanche maniacale dei dettagli della messa in scena e lo sperimentalismo dei

movimenti della macchina da presa, di cui Murnau era maestro riconosciuto. I film che Hitchcock

realizzò in seguito mostrano già gli effetti positivi di questo incontro: si tratta di due co-produzioni

anglo-tedesche, The Pleasure Garden (Il labirinto delle passioni, 1925) e The Lodger (Il pensionante,

1927). In particolare quest’ultimo film (che riprende il celebre caso del serial killer Jack lo

squartatore) rappresenta la prima, chiara prova del talento hitchcockiano: vi appare già la figura

dell’innocente ingiustamente accusato e perseguitato, uno dei topoi dell’opera di Hitchcock, ed è

già evidente la capacità di creare atmosfere pervase dal dubbio e dall’ossessione. Il film è, al

tempo stesso, una terrificante riflessione sui meccanismi della violenza di massa (è rimasta celebre

la scena del linciaggio).

L’ispirazione di cui Hitchcock dà prova in questo film è già in piena consonanza con le fasi

più mature della sua carriera, ed essa colpisce a maggior ragione se si considera che non tutti i

numerosi film girati nel periodo immediatamente successivo proseguono in questa linea di ricerca

già così sicura di sé. Tra i titoli che meritano di essere menzionati ci sono però i seguenti:

 Blackmail (Ricatto, 1929): girato muto, venne poi sonorizzato e finì per essere il primo film

sonoro inglese in assoluto. Vi compaiono già alcuni elementi essenziali della poetica

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hitchcockiana, dalla protagonista femminile bionda (qui Anny Ondra) alla scena di climax

della tensione ambientata in un luogo famoso e affollato (in questo caso il British Museum),

un’espediente, questo, che serve sia a massimizzare la suspense (il protagonista è

consapevole della situazione di pericolo ma è immerso in una folla ignara di ciò che sta

accadendo), sia a riflettere sullo spazio pubblico e sul ruolo delle istituzioni e dei monumenti

nella vita quotidiana dei soggetti e delle comunità 3.

 Murder! (Omicidio, 1930): storia di suspense ambientata nel mondo del teatro, in cui

compare già il tema del travestitismo e dell’ambiguità sessuale che avrà un ruolo

importante molto più avanti nella carriera di Hitchcock, con Psycho (Psyco, 1960).

 Rich and Strange (Ricco e strano, 1932): una delle poche opere hitchcockiane che si

collocano al di fuori del genere thriller, proponendo piuttosto un apologo assai originale su

un matrimonio che viene messo in crisi da una ricchezza improvvisa. D’altronde, il discorso

sulla coppia, sul processo di conoscenza dei desideri propri e reciproci, sarà uno dei grandi

temi del cinema di Hitchcock, sempre intento a riflettere sul confronto tra identità maschile

e femminile e sulla loro possibile intesa.

Giungiamo così al momento in cui Hitchcock consolida definitivamente la propria fama, a

partire pressappoco dalla metà degli anni Trenta, con film come The Man Who Knew Too Much

(L’uomo che sapeva troppo, 1934), su una coppia di turisti inglesi in Svizzera il cui figlioletto viene

rapito, e The 39 Steps (Il club dei trentanove, 1935), in cui la figura dell’innocente perseguitato

viene declinata insieme a quella della coppia in fuga, in una commistione di suspense e humor

che è forse il più alto risultato del periodo inglese hitchcockiano.

Altri titoli assai notevoli di questo periodo sono Sabotage (Sabotaggio, 1936), Young and

Innocent (Giovane e innocente, 1937) e The Lady Vanishes (La signora scompare, 1938), tutti film

incentrati su protagoniste femminili che, pur diverse le une dalle altre, si dimostrano fortemente

3
Si pensi, a questo proposito, al finale presso la Statua della Libertà in Saboteur (Sabotatori, 1942) o alla scena presso
il Palazzo delle Nazioni Unite in North by Northwest (Intrigo internazionale, 1959).

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intraprendenti e volitive: l’attenzione del regista per figure femminili complesse sarà in effetti

un’altra delle chiavi del suo successo.

D’altronde però, tanto il processo di formazione della coppia quanto il carattere

carismatico delle eroine hitchcockiane, pur rimanendo centrali nel cinema del regista, subiranno

notevoli metamorfosi qualitative col passare del tempo: i rapporti tra i sessi diventeranno sempre

meno lineari e complici, e parimenti la capacità dei personaggi femminili di prendere in mano le

redini della narrazione dovrà scontrarsi con una crescente tortuosità esistenziale, nell’arco della

carriera hitchcockiana in territorio americano.

La sequela di successi inanellata da Hitchcock, ormai ben affermato nel panorama del

cinema inglese, attirò infatti l’attenzione di Hollywood: messo sotto contratto dal produttore David

O. Selznick, il regista salpa per l’America, insieme alla moglie e alla figlia, nell’estate del 1939, poco

prima dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale.

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3. Il trasferimento a Hollywood

Il periodo statunitense della carriera di Hitchcock si aprì con Rebecca (Rebecca, la prima

moglie, 1940), adattamento di un romanzo di Daphne Du Maurier che riscosse immediato

successo, vincendo l’Oscar per il miglior film dell’anno4. Il film appartiene al genere del

melodramma gotico, e come molti prodotti di questo genere, si concentra su una protagonista

femminile e sulla sua difficoltà di intendersi con uno sposo tenebroso e umorale. Rebecca, così

come il successivo Suspicion (Il sospetto, 1941), con cui condivide l’intensa protagonista Joan

Fontaine (Oscar per il film del 1941), sembra proporre un’equazione tra matrimonio e pericolo.

L’atmosfera di angoscia che caratterizza il rapporto coniugale è condensata meglio che mai nella

celeberrima sequenza, appartenente al secondo film, in cui il marito (interpretato da Cary Grant,

alla prima di molte collaborazioni con Hitchcock) porta alla moglie malata un bicchiere di latte

che ella sospetta sia avvelenato: per far risaltare il biancore inquietante del liquido Hitchcock

ingegnosamente mise nel bicchiere una lampadina. Sono proprio queste trovate molto creative

che gli guadagneranno la fama di maestro del brivido.

Se il dubbio che assilla le protagoniste di Rebecca e Suspicion è, appunto, se i loro mariti

siano o meno degli assassini, si può d’altronde dire che il tema della colpa, vera o presunta, sia

davvero uno dei fili rossi più importanti della carriera di Hitchcock. L’indagine di questo tema può

assumere connotazioni esplicitamente freudiane, incrociando l’estetica del noir, in un film come

Spellbound (Io ti salverò, 1945), in cui Ingrid Bergman interpreta una psicoanalista che cerca di

scoprire il trauma infantile del collega di cui è innamorata (Gregory Peck) che potrebbe essere un

omicida inconsapevole5. O ancora il tema della colpa può essere anche ricondotto alla matrice

cattolica della formazione di Hitchcock (I Confess, Io confesso, 1953, con Montgomery Clift nel

ruolo di un sacerdote afflitto dal segreto confessionale). Altri film riflettono invece sullo scambio e la

4
Il film non vinse però l’Oscar per la migliore regia, che andò invece a John Ford per The Grapes of Wrath (Furore):
visto che il premio per il miglior film è assegnato al produttore e non al regista, Hitchcock non vinse mai un Oscar in
una categoria competitiva.
5
Il film risulta piuttosto meccanico nell’utilizzo delle teorie di Freud, ma è rimasto famoso per la sequenza onirica, a
cui collaborò Salvador Dalì.

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confusione tra colpevolezza e innocenza (Strangers on a Train, L’altro uomo, 1951; ma anche The

Wrong Man, Il ladro, 1956, il più austero dei film di Hitchcock, in cui un errore giudiziario innesca una

struttura persecutoria autenticamente kafkiana, sprofondando il protagonista Henry Fonda in un

vero e proprio incubo ad occhi aperti.

Il tema della colpevolezza non riguarda d’altronde soltanto i personaggi maschili, ma

investe anche quelli femminili: da The Paradine Case (Il caso Paradine, 1947) con Alida Valli

accusata di uxoricidio, a Under Capricorn (Il peccato di Lady Considine, 1949), fino a Marnie

(1964), che rappresenta un ritorno alle tematiche psicanalitiche nell’ultima fase della carriera.

Anche Notorious rientra in qualche modo in questo filone, seppur in modo del tutto

peculiare: Ingrid Bergman vi interpreta la figlia di un criminale nazista che, per espiare le colpe

paterne, diventa una spia al servizio degli americani, sposando uno dei vecchi complici di suo

padre e riproponendo dunque la struttura del matrimonio come trappola mortale. Nell’intreccio

della dimensione thriller con una storia d’amore struggente, il film costituisce senz’altro uno dei

risultati più alti del cinema hitchcockiano.

Il tema del sospetto lancinante che una persona cara sia malvagia, viene esacerbato in un

film come Shadow of a Doubt (L’ombra del dubbio, 1943), in cui i due personaggi non sono più

legati romanticamente, ma imparentati. La giovane Charlie (Teresa Wright) nutre per lo zio Charlie

(Joseph Cotten), da cui ella stessa prende il nome, una fortissima ammirazione, in cui l’amore filiale

sconfina in affinità elettiva e dunque in identificazione. Il film ruota intorno alla scoperta che l’uomo

è un assassino seriale: anziché relegare il Male nella debita distanza dell’alterità, Hitchcock fa qui

del personaggio negativo una figura affascinante, cui non solo la protagonista ma anche lo

spettatore stesso non può che allinearsi, almeno fino ad un certo punto della vicenda.

Un altro tipo di identificazione con i cattivi emerge invece in modo molto netto in un film del

1948, Rope (Nodo alla gola): il film si svolge tutto all’interno dell’appartamento di una giovane

coppia di omosessuali newyorchesi (John Dall e Farley Granger), i quali, nella primissima scena del

film, uccidono un loro compagno di studi e ne nascondono il corpo in una cassapanca. Su di essa

poi, come nulla fosse, imbandiscono un cocktail party a cui sono invitati parenti e amici del morto.

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La vicenda è girata da Hitchcock con la tecnica particolare di una catena di lunghi piani-

sequenza, ciascuno della durata di dieci minuti, in modo da creare per lo spettatore un’esperienza

fortemente immersiva. C’è chiaramente, in questo film, una consonanza tra l’impresa ardita degli

assassini (la loro è una sfida superomistica a tutte le convenzioni etiche e giudiziarie) e l’impresa

ardita di Hitchcock (che articola la propria messa in scena con un virtuosismo allora inusitato,

sfidando le convenzioni linguistiche ed estetiche del cinema classico). In effetti gli assassini, proprio

come Hitchcock, sono dei registi che cercano di manipolare lo spazio e la narrazione: e lo

spettatore rimane catturato in questo affascinante gioco di suspense, condannando l’aberrazione

morale dei personaggi da una parte, ma partecipando del loro gioco demiurgico dall’altra.

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4. Spazio, colore, sguardo e desiderio.

Pur non essendo forse uno dei risultati più compiuti dell’opera hitchcockiana, Rope è in ogni

caso un film cardine, grazie appunto alla sua sperimentazione con lo spazio chiuso e anche con il

colore (è la prima volta che Hitchcock si confronta con la fotografia a colori).

Il discorso dello spazio chiuso, già presente nella claustrofobica ambientazione ferroviaria di

The Lady Vanishes, e in Lifeboat (Prigionieri dell’oceano, 1944, riflessione geopolitica interamente

ambientata sulla scialuppa di salvataggio di una nave affondata durante la Seconda Guerra

Mondiale), trova poi una summa in Dial M for Murder (Delitto perfetto, 1954). Il film costituì uno dei

primi esperimenti di cinema in 3D, una tecnologia che garantisce allo spettatore un’immersione

ancora più radicale nell’ambiente unico del set (anche qui un salotto borghese), dando forte

risalto agli oggetti (le forbici del violentissimo delitto) e ai corpi. Il pubblico si trova come

catapultato su un palcoscenico: sia Rope che Dial M for Murder hanno origini teatrali, e la regia

movimentata e sapiente di Hitchcock fa sì che nessuno dei suoi film soffra della benché minima

staticità tipica del teatro filmato.

L’ambientazione in uno spazio singolo caratterizza anche un altro capolavoro

hitchcockiano, Rear Window (La finestra sul cortile, 1954): qui però l’appartamento del

protagonista, più che funzionare come un palcoscenico o un set di cui bisogna orchestrare la

regia, sembra allegorizzare un altro spazio, ovvero quello della sala. Il protagonista James Stewart,

immobilizzato su una sedia a rotelle per un incidente, passa il tempo a osservare i propri vicini dalla

finestra, proprio come uno spettatore che guarda avidamente lo schermo cinematografico, e

finisce per sospettare la macchinazione di un delitto. Il film articola così una riflessione superlativa

sullo sguardo e sul desiderio di guardare (in termini psicoanalitici: il voyeurismo) e la dimensione

metacinematografica che caratterizza l’intera opera hitchcockiana raggiunge qui la sua forma

più esplicita.

Accanto a queste riflessioni sullo spazio unico, sull’interno claustrofobico come metafora

delle dinamiche spettacolari del cinema e del teatro, il cinema di Hitchcock è attraversato,

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viceversa, anche da un impiego assai significativo del paesaggio. Si pensi, per citare solo uno di

molti esempi, al particolare uso di San Francisco in Vertigo (La donna che visse due volte, 1958): i

panorami collinosi della città, con le sue discese vertiginose, diventa il correlato spaziale perfetto

per le forme ossessive che animano la mente del protagonista, un ex poliziotto catturato in un

labirinto di inganni, doppi e simulacri. Lo spazio urbano della città californiana contribuisce qui in

modo assolutamente peculiare alla costruzione di un’atmosfera voyeuristica, esso diviene a tutti gli

effetti un paesaggio del desiderio. A questo stesso fine è adoperato anche il colore: la

sperimentazione cromatica, specie con il filtro verde, che Hitchcock attua in questo film è

fondamentale all’articolazione di quella che è forse la punta più esplicitamente filosofica del suo

cinema.

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5. Psycho e gli ultimi capolavori

Non a caso per il film successivo, Psycho (Psyco, 1960) Hitchcock torna invece al bianco e

nero. Il film prosegue la riflessione sul voyeurismo e sull’ambiguità sessuale, e per farlo infrange

molte regole del racconto classico, facendo morire la protagonista a metà del film e cercando,

nella celebre scena della doccia e in altri passaggi, una modalità di coinvolgimento con lo

schermo ancora più viscerale delle forme immersive sperimentate finora. La ricerca di un thrill

puramente fisico, vicino a quello tipico del genere horror, fa del film un anticipatore delle forme del

cinema postmoderno contemporaneo, caratterizzato appunto da un forte stimolazione sensoriale

dello spettatore.

La qualità di svolta epocale di questo film non può dunque essere sottovalutata, e lo stesso

può dirsi per The Birds (Gli uccelli, 1963). In questo film, famosamente incentrato sulla rivolta dei

pennuti in una cittadina californiana, Hitchcock preferisce non fornire alcuna spiegazione per

l’improvviso scatenarsi della violenza: se ne potrebbe proporre una lettura filosofica, psicoanalitica,

ecologica o soprannaturale, e probabilmente sarebbero tutte fondate, ma Hitchcock è interessato

proprio a lasciare aperto l’interrogativo, per riflettere sulla minaccia e sulla paura nella loro forma

più pura e assoluta.

L’ultima fase della carriera di Hitchcock è contrassegnata da qualche battuta d’arresto

(Torn Curtain, Il sipario strappato, 1966; Topaz, 1969), ma il Maestro torna poi in piena forma per i

suoi ultimi due film. Frenzy (1972) è ancora una volta la storia di un assassino seriale ma il regista,

essendo venuto ormai meno il codice di censura, può finalmente affrontare i temi dell’eros e della

violenza con tutta la crudezza che si meritano. Ciò che ne emerge è uno sguardo disincantato

sulla natura umana e sui rapporti tra i sessi, un sugello amaro a proposito delle problematiche che

hanno attraversato la sua intera carriera. L’ultimo film, Family Plot (Complotto di famiglia, 1976), si

conclude però su una nota più allegra, mischiando ancora una volta thriller e commedia e

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ricordandoci perciò l’importanza della componente dello humor nella produzione hitchcockiana 6.

Dopo qualche anno di inattività, Alfred Hitchcock muore a Hollywood il 29 aprile 1980.

6
A questo proposito si veda l’intreccio tra thriller e commedia sofisticata di To Catch a Thief (Caccia al ladro, 1955),
ma anche una cinica commedia nera come The Trouble with Harry (La congiura degli innocenti, 1955).

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Anna Bisogno - La via americana della TV italiana

Indice

1. L’AMERICA IN CASA ............................................................................................................................... 3


2. ENTERTAINMENT TELEVISIVO TRA ITALIA E AMERICA ............................................................................ 5
3. IL RITORNO DI UN CALZOLAIO DAL BRONX .......................................................................................... 7
4. ALLE ORIGINI DELLO SHOWBIZ ITALIANO .............................................................................................. 9
BIBLIOGRAFIA ................................................................................................................................................. 12

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copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).

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1. L’America in casa

Le mode e gli stili di vita provenienti dagli Usa sembravano appagare il diffuso desiderio di

rincorsa al benessere, rappresentando un nuovo modello di consumo individuale, spesso in

contrasto con i valori della tradizione italiana.

In realtà però non ci si può riferire all’americanizzazione come ad una fase di mutamento

socioculturale mentre appare più legittimo parlare di un costante processo di sovrapposizione ed

integrazione di un modello preesistente.

E’ possibile individuare tre ondate della cosiddetta “americanizzazione” italiana:

 Inizio ‘900 / 1920- 30: L’AMERICA IMMAGINATA

 Dal 1943 (sbarco truppe anglo-americane) al 1958-‘63 (boom economico) L’AMERICA IN

CASA

 Anni ’80: LA RISCOPERTA DELL’AMERICA

Cosa ha favorito questa spinta verso l’american way?

Una cultura non nazionale.

La storia d’Italia è fatta di frammentazioni regionali, di una tardiva unificazione, di una lenta

diffusione della lingua nazionale. L'integrazione fra i due livelli in senso nazionalpopolare è sempre

stato un punto dolente, come affermò Antonio Gramsci nei suoi "Quaderni del carcere".

Le merci come felicità

I nuovi beni comunicano nuovi valori: la televisione è il simbolo dell’uscita da una comunità

ristretta e chiusa; la macchina o la moto testimoniano l’autonomia, la mobilità spaziale e sociale; il

nuovo appartamento è il luogo dove creare una nuova domesticità per la famiglia nucleare,

un’intimità prima sconosciuta, una nuova gerarchia di spazi. I beni materiali rappresentano la

negazione di un passato di miseria e la realizzazione del sogno italiano (E. Scarpellini, 2008)

Quale società dei consumi si forma in Italia?

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Negli anni Cinquanta l’improvviso insorgere di un nuovo modello di consumo individuale, sul

modello americano, si dimostra di difficile conciliazione sia con la visione cattolica del mondo che

con quella comunista. Si assiste ad una fuga di massa dalle campagne in virtù di un’attrazione

verso la moderna cultura urbana e alla diffusione di una nuova cultura basata sul disimpegno e

sulla secolarizzazione.

L’americanizzazione di valori, costumi, modelli di comportamento e consumo in Italia passa

attraverso 3 vie:

 MUSICA: in particolare il rock’ ‘n ‘roll favorisce la nascita della cultura giovanile.

 TELEVISIONE: the American way of television. Sergio Pugliese, che nel 1953 ebbe

l’incarico di direttore dei programmi nella nascente televisione pubblica italiana,

trascorse sei lunghi mesi in America in un vero e proprio viaggio di formazione. Ma il

personaggio chiave di questa mediazione interculturale fra le due rive dell’Atlantico è

Mike Bongiorno. E’ lui, infatti, che compare il primo giorno della tv italiana subito dopo

le presentazioni ufficiali, presentando il programma Arrivi e partenze, dedicato a

personalità importanti di passaggio dall’Italia e molto vicino alla sua cifra stilistica di

mediatore fra culture diverse; la prima rubrica della tv. Sarà lui a lanciare nel 1955 il quiz

che sarà la vera “killer application” della tv italiana per la crescita esponenziale degli

abbonati e del successo, nonché il più forte anello di congiunzione con i palinsesti

americani. Lascia o raddoppia? riprenderà il famosissimo The $ 64,000 Question di cui si

parlerà avanti più approfonditamente.

 CINEMA: con Hollywood che diventa fabbrica di sogni attraverso il cinema di genere e

lo star system e con la città di Roma che diventa meta delle major americane, scalo

dei divi e delle dive, e Cinecittà set cinematografico privilegiato per le grandi

produzioni, al punto da essere definita Hollywood sul Tevere.

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2. Entertainment televisivo tra Italia e America

L’avvento della televisione in Italia è generalmente ascritto, con varie sfumature, alla

cultura cattolica italiana nelle sue componenti modernizzanti, con intenti pedagogici. Tuttavia, nel

novembre 1955, quando le trasmissioni televisive ufficiali sono iniziate da un anno e mezzo e le

famiglie abbonate sono appena 150 mila1, sarà il quiz Lascia o raddoppia? a rivoluzionare i

consumi culturali e le abitudini degli italiani – le cronache e i transiti intermediali sono fin troppo noti

– mostrando chiaramente la dominanza dell’intrattenimento nella «triade reithiana», tante volte

esibita come marca distintiva del servizio pubblico televisivo: educare, informare, intrattenere, in

rigoroso ordine di apparizione. Da qui partirà una rapida impennata dei consumi televisivi che

porterà gli abbonamenti privati ben sopra il milione in soli tre anni.

Imitazione dell’americano The $ 64.000 Question, il programma è tuttavia la trascrizione di

un omologo francese, Quitte o double? La Rai ne comprò i diritti per l’Italia, perché quelli del

programma americano costavano troppo. Condotto dall’italoamericano Mike Bongiorno, Lascia o

raddoppia? è emblematico del processo di americanizzazione del quotidiano. Accanto a lui,

come vallette-assistenti, prima Maria Giovannini che, per le troppe papere e indecisioni, fu

sostituita da Edy Campagnoli, che divenne subito una beniamina del grande pubblico.

C’è chi ha tematizzato l’exploit di Lascia o raddoppia? soprattutto in termini domestici: «è il

momento della scoperta della Tv e, al tempo stesso, il momento in cui la tv scopre l’Italia», ha

scritto Franco Monteleone.

Dall’America si cerca dunque di esportare un modo per rappresentare e narrare la realtà,

in maniera veritiera e, insieme, empatica. Questo afferma anche Sergio Pugliese, direttore centrale

dei programmi televisivi, nel 1958: «I giochi a quiz hanno semplicemente scoperto e rivelato il

dramma intimo, le verità celate di piccoli uomini della strada a milioni di altri uomini della strada».

Per la televisione l’uomo comune è il soggetto migliore. La struttura seriale della tv e la sua

1Gli abbonamenti ad uso privato sono 147.516 nel 1955. Rai, Gli abbonamenti alla radio e alla televisione, Roma
1982, p. 217.

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collocazione domestica permettono di fare a meno dell’evento straordinario e del personaggio

eccezionale, da cui il teatro e il cinema non riescono a prescindere. La televisione preferisce

inventarsi i propri personaggi, scegliendoli spesso proprio tra la gente comune.

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3. Il ritorno di un calzolaio dal Bronx

Nel giugno 1955 The $64.000 Question viene lanciato dalla CBS con un immediato,

grandissimo successo. Uno dei primi eroi del programma CBS è Gino Prato, un emigrato italiano.

Era partito nel 1922 da Ne Ligure, nel Levante genovese, per cercare fortuna a New York, dove

aveva imparato a fare il lustrascarpe e il calzolaio. Come si comprende siamo già nella leggenda,

perfetta per i rotocalchi americani.

La sua passione era la musica: la sera dopo il lavoro girava per i locali dell'East River con il

suo organetto e cantava in cambio di qualche spicciolo. Ascoltava le opere liriche sul

grammofono di un vicino di casa; conosceva a memoria decine di libretti. Una storia da talentuoso

everyman, vera o artefatta che sia, che appare come il primo atto di ogni commedia, o tragedia,

americana.

Una leggenda metropolitana racconta che per il suo bel canto fu notato da un dirigente

della Cbs, ma lui stesso, in un'intervista del 7 settembre 1955 a "La settimana Incom", disse: "La mia

figlia ha scritto la lettera mia per chiamarmi. Mi hanno fatto l'intervista prima di andare alla

televisione, e poi mi hanno detto 'tu sei l'uomo che vogliamo!'" Poi la svolta, con la partecipazione

alla trasmissione: è il secondo atto. Puntata dopo puntata, Prato arriva fino al gradino dei 32.000

dollari, a un passo dal traguardo massimo. Qui però un colpo di scena: il gran rifiuto, dopo aver

letto in diretta, prima in italiano e poi in inglese, un telegramma giunto dall’Italia: «Fermati». Era il

consiglio dell’anziano padre, e Prato ubbidì. Al termine della puntata, tra riflettori e flash, dichiarò

che il suo maggior desiderio era quello di rivedere, dopo 33 anni, il suo vecchio padre

novantaduenne e il suo paese d’origine in Liguria.

Diviene, così, un personaggio mediale e intermediale di prim’ordine: i tratti arcaici del

laborioso immigrante, l’obbedienza al padre, l’attaccamento alla famiglia, la saggezza del suo

gesto - per il quale si scomoda, per un paragone, la tragedia greca - varcano i confini della

trasmissione, per approdare in altri programmi (il Perry Como Show della NBC) e circolare

ampiamente sui news magazines (Fortune e Newsweek tra gli altri), prodotti mediali mainstream in

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un’America ancora fiduciosa nella sua televisione, non ancora scossa dagli scandali del 1958 che

decretarono, tra gli altri,anche la fine di The $64.000 Question.

Di questo viaggio si erano disperse le tracce, fino al ritrovamento di un intero servizio

fotografico (27 immagini) dell’agosto 1955, erroneamente etichettato come «Joe DiMaggio in

Italia», ma dedicato in realtà al viaggio in Italia di Gino Prato, avvenuto durante una ricerca

iconografica nell’archivio Publifoto, agenzia fotografica di attualità di Vincenzo Carrese,

conservato presso il CSAC dell’Università di Parma.

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4. Alle origini dello showbiz italiano

DiMaggio fu solo uno dei personaggi che Prato incontrò in Italia: una vera e propria tournée

che anticipò di fatto, probabilmente in senso promozionale, il lancio di Lascia o raddoppia? tre

mesi dopo, evidenziando anche il legame della trasmissione con gli Stati Uniti, paese moderno per

eccellenza e, nell’italico immaginario, associato alla promessa di rapidi arricchimenti. Il ciabattino

italiano, che ha fatto fortuna nel Bronx e sui teleschermi americani, diventa così testimonial, non

meno di Mike Bongiorno, di questo legame e di questa spola attraverso fra Stati Uniti e Italia.

Lo sbarco all’aeroporto di Roma Ciampino è ripreso dalle cineprese e dalle macchine

fotografiche come quello di un divo del cinema: uno di quegli Arrivi e partenze con cui Mike

Bongiorno aveva iniziato la sua collaborazione con la Rai il giorno stesso dell’inaugurazione dei

programmi2. Anche il set della sua passeggiata per le strade di Roma, a via Veneto in particolar

modo, rimanda al nesso fra lo showbiz americano e il nostro paese. Qui il musicofilo Prato, davanti

agli obiettivi della troupe CBS che aveva organizzato il viaggio di Prato in Italia, e alle Rolleiflex dei

paparazzi romani, incontrerà prima Joe DiMaggio, il campione di baseball italo-americano, ex

marito di Marylin Monroe, poi l’ambasciatrice americana Clare Boothe Luce in uno dei caffè che si

allineano lungo la via. Clare è moglie del fondatore ed editore di Time, Henry Luce, inquieta

scrittrice e commediografa, convertita al cattolicesimo e fervente anticomunista.

L’incontro con l’ambasciatrice conferisce un tono più ufficiale al viaggio di Gino Prato.

Nella foto, si intravede sul tavolino una copia del magazine americano Newsweek in cui The

$64.000 Question è la storia di copertina; anzi, è proprio questo il dettaglio che ci ha permesso di

identificare la vicenda che qui stiamo esponendo. Prato sarà poi ricevuto da Papa Pio XII e da

Arturo Toscanini, altro pendolare sulla rotta Italia-Stati Uniti, che lo invita ad assistere ad un’opera

alla Scala.

2La rubrica Arrivi e partenze, presentata da Mike insieme ad Armando Pizzo, esordisce alle 14.30 del 3 gennaio
1954. La regia è di Antonello Falqui, che sarà il principale regista dell’intrattenimento Rai. Cfr. A. Grasso, Storia
della televisione italiana, op. cit., pp. 20 e 27.

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Esaurita la parte formale del viaggio, pur indispensabile per la sua legittimazione, si può

dare spazio alle vicende dell’uomo comune, a cui il quiz ha consentito di mostrare ad altre

persone comuni i risvolti emozionali e patemici della sua vita. Come in un road movie, la comitiva

di Prato prende la strada della Liguria.

Dopo 33 anni l’emigrante arriva al suo paese natale, Ne, un minuscolo borgo arrampicato

sull'Appennino nell’entroterra di Chiavari. L’emigrante redivivo è accolto da tutto il paese sulla

piazza tra il ronzio delle macchine da presa e gli scatti dei fotografi; si riconosce il parroco.

Un’ampia copertura intermediale, in cui i fotografi sceneggiano anche, come in un

flashback, il “gran rifiuto”: i familiari italiani che ascoltano alla radio il loro congiunto che annunzia

di accontentarsi dei 32.000 dollari senza «raddoppiare» fino a 64.000, seguendo i consigli del padre

giunti telegraficamente dall’Italia. Ovviamente un tableau vivant in cui si mettono in scena parenti,

raccolti intorno all’anziano patriarca ad ascoltare alla radio il “gran rifiuto” del figlio alla TV

americana. Infine, l’acme della vicenda: l’abbraccio con il padre, anziano, commosso, forse non

completamente consapevole, e il figlio visibilmente emozionato accanto alla figlia Lorena e al

microfono della Radio (allora medium mainstream in Italia), destinato a documentare e a rendere

duraturo l’attimo fuggente dell’abbraccio. Con il ritorno a casa dell’eroe, l’emozione è completa.

Anche se il ritorno è solo provvisorio e provvisorio è anche l’eroe.

Il Radiocorriere dà il benvenuto a Lascia o raddoppia?3 con una foto di Mike Bongiorno e

una di Gino Prato, ormai ritornato in America.

La metafora non potrebbe essere più chiara: i sonanti gettoni d’oro attraversano le

cronache; la TV è ancora assistita dalla radio, dai magazine, dai cinegiornali4. E’una intermedialità

di convenienza, subìta, presto travolta dal successo del medium televisivo, che mette insieme il

ricongiungimento armonioso dei padri con i figli (la vecchia Europa e la nuova America), nel segno

di un intrattenimento che - lungi da essere mero divertimento - coltiva il lato patemico delle

3Radiocorriere, n. 47, 26 novembre 1955, pp. 8-9.


4Archivio Storico Istituto Luce – Cinecittà, Cinegiornale La Settimana Incom n. 1293 del 7 settembre 1955,
Calzolaio musicofilo. Tornato in Italia, Gino Prato il calzolaio milionario risolve anche per noi un ritornello musicale.

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vicende umane. Inutile aggiungere che - nell’approssimarsi dell’inizio di Lascia o raddoppia? - tutto

ciò costituisce uno straordinario lancio promozionale, anche se forse involontario.

La Settimana Incom

Un passo indietro. Nel 1938 Sandro Pallavicini fonda la Incom, casa di produzione di

cortometraggi, che, impossibilitata a infrangere il monopolio dell’Istituto Luce nei cinegiornali, fino

al 1945 si occupa prevalentemente di documentari, su temi di attualità e caratterizzati da toni

fortemente propagandistici.

Nel 1946 è tutto cambiato: il Notiziario Luce Nuova non sembra in grado di liberarsi del suo

ingombrante passato e così nasce la Settimana Incom, più al passo con i tempi in cui la gente,

uscita da 20 anni di regime e 5 di guerra, vuole prevalentemente divertirsi.

Si trattava di un notiziario che veniva proiettato in tutte le sale cinematografiche italiane

prima del film in programmazione, a cui si affianca una rivista settimanale illustrata che ha lo stesso

nome. Un appuntamento seguitissimo, unica fonte di informazione per chi non leggeva i giornali,

visto che la televisione, in Italia, non c'era ancora.

Dieci minuti di cronaca leggera e attualità. Con le notizie lette da una voce stentorea,

squillante e sempre ottimista. Perché l'Italia in ricostruzione aveva bisogno di tante dosi di ottimismo

dopo il buio del fascismo e le distruzioni della guerra.

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Lorenzo Marmo - Alfred Hitchcock

Indice

1. L’ULTIMO DEI CLASSICI, IL PRIMO DEI MODERNI .................................................................................. 3


2. IL PERIODO INGLESE ............................................................................................................................... 6
3. IL TRASFERIMENTO A HOLLYWOOD ....................................................................................................... 9
4. SPAZIO, COLORE, SGUARDO E DESIDERIO. ........................................................................................ 12
5. PSYCHO E GLI ULTIMI CAPOLAVORI ................................................................................................... 14
BIBLIOGRAFIA................................................................................................................................................ 16

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1. L’ultimo dei classici, il primo dei moderni

Alfred Hitchcock è un cineasta che non ha bisogno di presentazioni. La sua fama di

maestro del brivido perdura anche a quarant’anni di distanza dalla sua morte, ed i suoi film sono

considerati tra i massimi capolavori dell’arte cinematografica del Novecento. La chiave del

successo di Hitchcock sta nella capacità di articolare intrecci formidabili carichi di tensione,

conciliando l’armonia stilistica e narrativa del cinema classico (un cinema pieno, avvolgente, che

cattura la fantasia dello spettatore catapultandolo nel mondo diegetico con forza mitopoietica) e

lo sperimentalismo spericolato del cinema moderno (un cinema più intellettuale, autoriflessivo, che

tramite ardite scelte stilistiche mette lo spettatore a parte del processo costruttivo della macchina

finzionale). Non a caso Gilles Deleuze ha definito Hitchcock “l’ultimo dei classici e il primo dei

moderni”1, proprio ad indicare il collocarsi della lunga carriera hitchcockiana, durata oltre

cinquant’anni, sul crinale tra la logica dell’intrattenimento puro e la spinta alla riflessione. Una

riflessione, finanche filosofica, sull’identità, sul desiderio, sullo sguardo, e su come tutti questi

elementi siano mobilitati dal dispositivo cinematografico.

Campione di ironia, oltre che di suspense, Hitchcock fu capace di creare una cifra stilistica

inconfondibile, basata su un controllo assoluto del processo creativo: arrivava infatti sul set del tutto

pronto a girare, avendo già immaginato ogni movimento di macchina e ogni dettaglio della

messa in scena tramite degli storyboard (aveva d’altronde studiato brevemente disegno

all’Università di Londra negli anni della formazione). Questa idea di Hitchcock come un vero e

proprio demiurgo, che poteva disporre a piacimento dei propri spettatori, facendoli spaventare,

eccitare o divertire, fu coltivata attivamente dal regista stesso, che gestì sapientemente la propria

immagine pubblica: la sua silhouette pingue divenne un vero e proprio marchio di fabbrica, in

particolare a partire dal suo impegno nella serie televisiva Alfred Hitchcock Presents (Alfred

Hitchcock presenta, 1955-1962) di cui egli introduceva tutti gli episodi con un breve prologo in cui

faceva interpellava direttamente il pubblico e faceva mostra del suo proverbiale gusto per l’orrore

1
Gilles Deleuze, Cinema 1. L’immagine-movimento (1983), Milano, Ubulibri, 1984.

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e soprattutto del suo humor tipicamente inglese. D’altronde, questa dimensione di complicità

esplicita con il pubblico era già stato anticipato dalla divertente abitudine di fare una

comparsata, muta e fugace, in ciascuno dei propri film, invitando lo spettatore affezionato a stare

attento a ogni dettaglio della messa in scena, delle inquadrature e dei movimenti di macchina per

non perdersi il cameo registico.

Anche senza questa piccolo gioco autoriale, comunque, la ‘firma’ di Hitchcock sarebbe in

ogni caso presente ovunque nella sua filmografia, perché l’impronta del suo stile è davvero

indelebile ed inconfondibile (ed è stata anche molto imitata). Esso si caratterizza appunto per la

capacità di giostrare con assoluta maestria le dimensioni della sorpresa e della suspense. Mentre la

sorpresa si verifica, com’è ovvio, quando rimaniamo sbalorditi perché sullo schermo accade

qualche cosa d’inaspettato, la suspense invece implica un discorso un po’ più complesso, relativo

ad un’accuratissima gestione del posizionamento del pubblico. Nel caso della struttura a suspense,

infatti, lo spettatore viene collocato in una posizione intermedia tra il sapere assoluto di cui è

naturalmente depositario l’autore e il sapere irrimediabilmente parziale dei personaggi.

Accordando allo spettatore più informazioni di quante ne abbia il personaggio, Hitchcock è

capace di instillare in egli/ella una forma di ansia e di attesa assolutamente peculiare. Questo

discorso è valido sia a livello macro (in relazione alla struttura complessiva del materiale narrativo)

sia a livello micro, ovvero in senso strettamente visivo (Hitchcock sceglie accuratamente in ogni

scena cosa inquadrare con la macchina da presa e cosa lasciare invece fuori campo, e talvolta

lo spazio non visualizzato si configura per l’esperienza dello spettatore come un altrove

autenticamente minaccioso). Conducendo il pubblico in un labirinto intensamente affascinante,

Hitchcock attua così anche una riflessione sui meccanismi della visione e della percezione.

La sua opera si segnala anche per alcuni movimenti di macchina che sono rimasti

celeberrimi, perché capaci di coinvolgere l’emotività ma anche la sfera sensoriale dello

spettatore. Si pensi al carrello in avanti nel finale di Young and Innocent (Giovane e innocente,

1937) o a quello che va a stringere sulla chiave all’inizio della sequenza della festa in Notorious

(Notorius – l’amante perduta, 1946): entrambi costituiscono delle vere e proprie concretizzazioni

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del desiderio di conoscere e guardare che fonda la nostra esperienza sia cinematografica che più

ampiamente esistenziale.

Spesso, d’altronde, il motore dell’intrigo, ciò che mette in marcia la narrazione, non è che

un pretesto (che Hitchcock chiamava col nome, anch’esso del tutto pretestuoso, di MacGuffin),

mentre ciò che interessa davvero al regista è appunto la gestione della situazione di angoscia, di

paura e di desiderio che viene a scatenarsi.

L’importanza del cinema di Hitchcock non venne inizialmente colta dalla critica: forse

proprio a causa di un’incapacità di cogliere la profondità delle implicazioni sottese alla sua opera,

che appariva ad occhi poco attenti come mera produzione di genere. Hitchcock soffrì insomma il

pregiudizio negativo nutrito rispetto agli stilemi del thriller e del giallo, considerati, specie negli Stati

Uniti (meno nel Regno Unito, da cui egli proveniva e dove aveva incominciato la propria carriera),

dei generi minori, puramente di cassetta e lontani dalla ricerca artistica più seria. Fu soltanto negli

anni Cinquanta e Sessanta che, grazie soprattutto al lavoro interpretativo dei critici/cineasti

francesi dei “Cahiers du cinéma” e della Nouvelle Vague (anzitutto François Truffaut, Claude

Chabrol ed Éric Rohmer2) che Hitchcock iniziò ad affermarsi come vero e proprio modello di

Autore cinematografico, per essere poi riconosciuto anche presso la sua patria d’adozione, gli Stati

Uniti (gli verrà assegnato un Oscar speciale nel 1968), e universalmente.

2
Éric Rohmer, Claude Chabrol, Hitchcock (1957), a cura di Antonio Costa, Venezia, Marsilio, 1996; François Truffaut,
Il cinema secondo Hitchcock (1966), Parma-Lucca, Pratiche, 1977.

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2. Il periodo inglese

Nato a Londra il 13 agosto 1899 da genitori cattolici, Hitchcock iniziò a lavorare in campo

cinematografico intorno al 1920, realizzando bozzetti preparatori delle scene, nonché titoli e

intertitoli, presso gli studi londinesi di Islington. Il suo primo film, Number Thirteen, iniziato nel 1922,

rimarrà però incompiuto per mancanza di finanziamenti (ed è oggi considerato perduto). Il suo

periodo di apprendistato più importante doveva, d’altronde, ancora arrivare: nel 1924, grazie ad

un accordo tra Michael Balcon della Gainsborough Pictures e il produttore tedesco Erich Pommer,

si recò a Berlino per un praticantato presso gli studi dell’importantissima casa di produzione UFA.

L’incontro con la realtà cinematografica tedesca, ed in particolare con un regista come Friedrich

Wilhelm Murnau, segnò fortemente il giovane aspirante regista, specialmente per quanto riguarda

il controllo finanche maniacale dei dettagli della messa in scena e lo sperimentalismo dei

movimenti della macchina da presa, di cui Murnau era maestro riconosciuto. I film che Hitchcock

realizzò in seguito mostrano già gli effetti positivi di questo incontro: si tratta di due co-produzioni

anglo-tedesche, The Pleasure Garden (Il labirinto delle passioni, 1925) e The Lodger (Il pensionante,

1927). In particolare quest’ultimo film (che riprende il celebre caso del serial killer Jack lo

squartatore) rappresenta la prima, chiara prova del talento hitchcockiano: vi appare già la figura

dell’innocente ingiustamente accusato e perseguitato, uno dei topoi dell’opera di Hitchcock, ed è

già evidente la capacità di creare atmosfere pervase dal dubbio e dall’ossessione. Il film è, al

tempo stesso, una terrificante riflessione sui meccanismi della violenza di massa (è rimasta celebre

la scena del linciaggio).

L’ispirazione di cui Hitchcock dà prova in questo film è già in piena consonanza con le fasi

più mature della sua carriera, ed essa colpisce a maggior ragione se si considera che non tutti i

numerosi film girati nel periodo immediatamente successivo proseguono in questa linea di ricerca

già così sicura di sé. Tra i titoli che meritano di essere menzionati ci sono però i seguenti:

 Blackmail (Ricatto, 1929): girato muto, venne poi sonorizzato e finì per essere il primo film

sonoro inglese in assoluto. Vi compaiono già alcuni elementi essenziali della poetica

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hitchcockiana, dalla protagonista femminile bionda (qui Anny Ondra) alla scena di climax

della tensione ambientata in un luogo famoso e affollato (in questo caso il British Museum),

un’espediente, questo, che serve sia a massimizzare la suspense (il protagonista è

consapevole della situazione di pericolo ma è immerso in una folla ignara di ciò che sta

accadendo), sia a riflettere sullo spazio pubblico e sul ruolo delle istituzioni e dei monumenti

nella vita quotidiana dei soggetti e delle comunità 3.

 Murder! (Omicidio, 1930): storia di suspense ambientata nel mondo del teatro, in cui

compare già il tema del travestitismo e dell’ambiguità sessuale che avrà un ruolo

importante molto più avanti nella carriera di Hitchcock, con Psycho (Psyco, 1960).

 Rich and Strange (Ricco e strano, 1932): una delle poche opere hitchcockiane che si

collocano al di fuori del genere thriller, proponendo piuttosto un apologo assai originale su

un matrimonio che viene messo in crisi da una ricchezza improvvisa. D’altronde, il discorso

sulla coppia, sul processo di conoscenza dei desideri propri e reciproci, sarà uno dei grandi

temi del cinema di Hitchcock, sempre intento a riflettere sul confronto tra identità maschile

e femminile e sulla loro possibile intesa.

Giungiamo così al momento in cui Hitchcock consolida definitivamente la propria fama, a

partire pressappoco dalla metà degli anni Trenta, con film come The Man Who Knew Too Much

(L’uomo che sapeva troppo, 1934), su una coppia di turisti inglesi in Svizzera il cui figlioletto viene

rapito, e The 39 Steps (Il club dei trentanove, 1935), in cui la figura dell’innocente perseguitato

viene declinata insieme a quella della coppia in fuga, in una commistione di suspense e humor

che è forse il più alto risultato del periodo inglese hitchcockiano.

Altri titoli assai notevoli di questo periodo sono Sabotage (Sabotaggio, 1936), Young and

Innocent (Giovane e innocente, 1937) e The Lady Vanishes (La signora scompare, 1938), tutti film

incentrati su protagoniste femminili che, pur diverse le une dalle altre, si dimostrano fortemente

3
Si pensi, a questo proposito, al finale presso la Statua della Libertà in Saboteur (Sabotatori, 1942) o alla scena presso
il Palazzo delle Nazioni Unite in North by Northwest (Intrigo internazionale, 1959).

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da
copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).

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intraprendenti e volitive: l’attenzione del regista per figure femminili complesse sarà in effetti

un’altra delle chiavi del suo successo.

D’altronde però, tanto il processo di formazione della coppia quanto il carattere

carismatico delle eroine hitchcockiane, pur rimanendo centrali nel cinema del regista, subiranno

notevoli metamorfosi qualitative col passare del tempo: i rapporti tra i sessi diventeranno sempre

meno lineari e complici, e parimenti la capacità dei personaggi femminili di prendere in mano le

redini della narrazione dovrà scontrarsi con una crescente tortuosità esistenziale, nell’arco della

carriera hitchcockiana in territorio americano.

La sequela di successi inanellata da Hitchcock, ormai ben affermato nel panorama del

cinema inglese, attirò infatti l’attenzione di Hollywood: messo sotto contratto dal produttore David

O. Selznick, il regista salpa per l’America, insieme alla moglie e alla figlia, nell’estate del 1939, poco

prima dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale.

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3. Il trasferimento a Hollywood

Il periodo statunitense della carriera di Hitchcock si aprì con Rebecca (Rebecca, la prima

moglie, 1940), adattamento di un romanzo di Daphne Du Maurier che riscosse immediato

successo, vincendo l’Oscar per il miglior film dell’anno4. Il film appartiene al genere del

melodramma gotico, e come molti prodotti di questo genere, si concentra su una protagonista

femminile e sulla sua difficoltà di intendersi con uno sposo tenebroso e umorale. Rebecca, così

come il successivo Suspicion (Il sospetto, 1941), con cui condivide l’intensa protagonista Joan

Fontaine (Oscar per il film del 1941), sembra proporre un’equazione tra matrimonio e pericolo.

L’atmosfera di angoscia che caratterizza il rapporto coniugale è condensata meglio che mai nella

celeberrima sequenza, appartenente al secondo film, in cui il marito (interpretato da Cary Grant,

alla prima di molte collaborazioni con Hitchcock) porta alla moglie malata un bicchiere di latte

che ella sospetta sia avvelenato: per far risaltare il biancore inquietante del liquido Hitchcock

ingegnosamente mise nel bicchiere una lampadina. Sono proprio queste trovate molto creative

che gli guadagneranno la fama di maestro del brivido.

Se il dubbio che assilla le protagoniste di Rebecca e Suspicion è, appunto, se i loro mariti

siano o meno degli assassini, si può d’altronde dire che il tema della colpa, vera o presunta, sia

davvero uno dei fili rossi più importanti della carriera di Hitchcock. L’indagine di questo tema può

assumere connotazioni esplicitamente freudiane, incrociando l’estetica del noir, in un film come

Spellbound (Io ti salverò, 1945), in cui Ingrid Bergman interpreta una psicoanalista che cerca di

scoprire il trauma infantile del collega di cui è innamorata (Gregory Peck) che potrebbe essere un

omicida inconsapevole5. O ancora il tema della colpa può essere anche ricondotto alla matrice

cattolica della formazione di Hitchcock (I Confess, Io confesso, 1953, con Montgomery Clift nel

ruolo di un sacerdote afflitto dal segreto confessionale). Altri film riflettono invece sullo scambio e la

4
Il film non vinse però l’Oscar per la migliore regia, che andò invece a John Ford per The Grapes of Wrath (Furore):
visto che il premio per il miglior film è assegnato al produttore e non al regista, Hitchcock non vinse mai un Oscar in
una categoria competitiva.
5
Il film risulta piuttosto meccanico nell’utilizzo delle teorie di Freud, ma è rimasto famoso per la sequenza onirica, a
cui collaborò Salvador Dalì.

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confusione tra colpevolezza e innocenza (Strangers on a Train, L’altro uomo, 1951; ma anche The

Wrong Man, Il ladro, 1956, il più austero dei film di Hitchcock, in cui un errore giudiziario innesca una

struttura persecutoria autenticamente kafkiana, sprofondando il protagonista Henry Fonda in un

vero e proprio incubo ad occhi aperti.

Il tema della colpevolezza non riguarda d’altronde soltanto i personaggi maschili, ma

investe anche quelli femminili: da The Paradine Case (Il caso Paradine, 1947) con Alida Valli

accusata di uxoricidio, a Under Capricorn (Il peccato di Lady Considine, 1949), fino a Marnie

(1964), che rappresenta un ritorno alle tematiche psicanalitiche nell’ultima fase della carriera.

Anche Notorious rientra in qualche modo in questo filone, seppur in modo del tutto

peculiare: Ingrid Bergman vi interpreta la figlia di un criminale nazista che, per espiare le colpe

paterne, diventa una spia al servizio degli americani, sposando uno dei vecchi complici di suo

padre e riproponendo dunque la struttura del matrimonio come trappola mortale. Nell’intreccio

della dimensione thriller con una storia d’amore struggente, il film costituisce senz’altro uno dei

risultati più alti del cinema hitchcockiano.

Il tema del sospetto lancinante che una persona cara sia malvagia, viene esacerbato in un

film come Shadow of a Doubt (L’ombra del dubbio, 1943), in cui i due personaggi non sono più

legati romanticamente, ma imparentati. La giovane Charlie (Teresa Wright) nutre per lo zio Charlie

(Joseph Cotten), da cui ella stessa prende il nome, una fortissima ammirazione, in cui l’amore filiale

sconfina in affinità elettiva e dunque in identificazione. Il film ruota intorno alla scoperta che l’uomo

è un assassino seriale: anziché relegare il Male nella debita distanza dell’alterità, Hitchcock fa qui

del personaggio negativo una figura affascinante, cui non solo la protagonista ma anche lo

spettatore stesso non può che allinearsi, almeno fino ad un certo punto della vicenda.

Un altro tipo di identificazione con i cattivi emerge invece in modo molto netto in un film del

1948, Rope (Nodo alla gola): il film si svolge tutto all’interno dell’appartamento di una giovane

coppia di omosessuali newyorchesi (John Dall e Farley Granger), i quali, nella primissima scena del

film, uccidono un loro compagno di studi e ne nascondono il corpo in una cassapanca. Su di essa

poi, come nulla fosse, imbandiscono un cocktail party a cui sono invitati parenti e amici del morto.

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La vicenda è girata da Hitchcock con la tecnica particolare di una catena di lunghi piani-

sequenza, ciascuno della durata di dieci minuti, in modo da creare per lo spettatore un’esperienza

fortemente immersiva. C’è chiaramente, in questo film, una consonanza tra l’impresa ardita degli

assassini (la loro è una sfida superomistica a tutte le convenzioni etiche e giudiziarie) e l’impresa

ardita di Hitchcock (che articola la propria messa in scena con un virtuosismo allora inusitato,

sfidando le convenzioni linguistiche ed estetiche del cinema classico). In effetti gli assassini, proprio

come Hitchcock, sono dei registi che cercano di manipolare lo spazio e la narrazione: e lo

spettatore rimane catturato in questo affascinante gioco di suspense, condannando l’aberrazione

morale dei personaggi da una parte, ma partecipando del loro gioco demiurgico dall’altra.

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4. Spazio, colore, sguardo e desiderio.

Pur non essendo forse uno dei risultati più compiuti dell’opera hitchcockiana, Rope è in ogni

caso un film cardine, grazie appunto alla sua sperimentazione con lo spazio chiuso e anche con il

colore (è la prima volta che Hitchcock si confronta con la fotografia a colori).

Il discorso dello spazio chiuso, già presente nella claustrofobica ambientazione ferroviaria di

The Lady Vanishes, e in Lifeboat (Prigionieri dell’oceano, 1944, riflessione geopolitica interamente

ambientata sulla scialuppa di salvataggio di una nave affondata durante la Seconda Guerra

Mondiale), trova poi una summa in Dial M for Murder (Delitto perfetto, 1954). Il film costituì uno dei

primi esperimenti di cinema in 3D, una tecnologia che garantisce allo spettatore un’immersione

ancora più radicale nell’ambiente unico del set (anche qui un salotto borghese), dando forte

risalto agli oggetti (le forbici del violentissimo delitto) e ai corpi. Il pubblico si trova come

catapultato su un palcoscenico: sia Rope che Dial M for Murder hanno origini teatrali, e la regia

movimentata e sapiente di Hitchcock fa sì che nessuno dei suoi film soffra della benché minima

staticità tipica del teatro filmato.

L’ambientazione in uno spazio singolo caratterizza anche un altro capolavoro

hitchcockiano, Rear Window (La finestra sul cortile, 1954): qui però l’appartamento del

protagonista, più che funzionare come un palcoscenico o un set di cui bisogna orchestrare la

regia, sembra allegorizzare un altro spazio, ovvero quello della sala. Il protagonista James Stewart,

immobilizzato su una sedia a rotelle per un incidente, passa il tempo a osservare i propri vicini dalla

finestra, proprio come uno spettatore che guarda avidamente lo schermo cinematografico, e

finisce per sospettare la macchinazione di un delitto. Il film articola così una riflessione superlativa

sullo sguardo e sul desiderio di guardare (in termini psicoanalitici: il voyeurismo) e la dimensione

metacinematografica che caratterizza l’intera opera hitchcockiana raggiunge qui la sua forma

più esplicita.

Accanto a queste riflessioni sullo spazio unico, sull’interno claustrofobico come metafora

delle dinamiche spettacolari del cinema e del teatro, il cinema di Hitchcock è attraversato,

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viceversa, anche da un impiego assai significativo del paesaggio. Si pensi, per citare solo uno di

molti esempi, al particolare uso di San Francisco in Vertigo (La donna che visse due volte, 1958): i

panorami collinosi della città, con le sue discese vertiginose, diventa il correlato spaziale perfetto

per le forme ossessive che animano la mente del protagonista, un ex poliziotto catturato in un

labirinto di inganni, doppi e simulacri. Lo spazio urbano della città californiana contribuisce qui in

modo assolutamente peculiare alla costruzione di un’atmosfera voyeuristica, esso diviene a tutti gli

effetti un paesaggio del desiderio. A questo stesso fine è adoperato anche il colore: la

sperimentazione cromatica, specie con il filtro verde, che Hitchcock attua in questo film è

fondamentale all’articolazione di quella che è forse la punta più esplicitamente filosofica del suo

cinema.

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5. Psycho e gli ultimi capolavori

Non a caso per il film successivo, Psycho (Psyco, 1960) Hitchcock torna invece al bianco e

nero. Il film prosegue la riflessione sul voyeurismo e sull’ambiguità sessuale, e per farlo infrange

molte regole del racconto classico, facendo morire la protagonista a metà del film e cercando,

nella celebre scena della doccia e in altri passaggi, una modalità di coinvolgimento con lo

schermo ancora più viscerale delle forme immersive sperimentate finora. La ricerca di un thrill

puramente fisico, vicino a quello tipico del genere horror, fa del film un anticipatore delle forme del

cinema postmoderno contemporaneo, caratterizzato appunto da un forte stimolazione sensoriale

dello spettatore.

La qualità di svolta epocale di questo film non può dunque essere sottovalutata, e lo stesso

può dirsi per The Birds (Gli uccelli, 1963). In questo film, famosamente incentrato sulla rivolta dei

pennuti in una cittadina californiana, Hitchcock preferisce non fornire alcuna spiegazione per

l’improvviso scatenarsi della violenza: se ne potrebbe proporre una lettura filosofica, psicoanalitica,

ecologica o soprannaturale, e probabilmente sarebbero tutte fondate, ma Hitchcock è interessato

proprio a lasciare aperto l’interrogativo, per riflettere sulla minaccia e sulla paura nella loro forma

più pura e assoluta.

L’ultima fase della carriera di Hitchcock è contrassegnata da qualche battuta d’arresto

(Torn Curtain, Il sipario strappato, 1966; Topaz, 1969), ma il Maestro torna poi in piena forma per i

suoi ultimi due film. Frenzy (1972) è ancora una volta la storia di un assassino seriale ma il regista,

essendo venuto ormai meno il codice di censura, può finalmente affrontare i temi dell’eros e della

violenza con tutta la crudezza che si meritano. Ciò che ne emerge è uno sguardo disincantato

sulla natura umana e sui rapporti tra i sessi, un sugello amaro a proposito delle problematiche che

hanno attraversato la sua intera carriera. L’ultimo film, Family Plot (Complotto di famiglia, 1976), si

conclude però su una nota più allegra, mischiando ancora una volta thriller e commedia e

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ricordandoci perciò l’importanza della componente dello humor nella produzione hitchcockiana 6.

Dopo qualche anno di inattività, Alfred Hitchcock muore a Hollywood il 29 aprile 1980.

6
A questo proposito si veda l’intreccio tra thriller e commedia sofisticata di To Catch a Thief (Caccia al ladro, 1955),
ma anche una cinica commedia nera come The Trouble with Harry (La congiura degli innocenti, 1955).

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Indice

1. UN’ONDATA POLEMICA E LIBERATORIA................................................................................................ 3


2. PRECURSORI DELLA NOUVELLE VAGUE E SUO SUCCESSO MEDIATICO .............................................. 7
3. LO STILE ................................................................................................................................................. 10
4. L’INFLUENZA SULLE CINEMATOGRAFIE ESTERE .................................................................................... 13
BIBLIOGRAFIA................................................................................................................................................ 15

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1. Un’ondata polemica e liberatoria

L’espressione “Nouvelle Vague” si riferisce ad un momento molto particolare della storia del

cinema francese, tra la fine degli anni Cinquanta e gli inizi degli anni Sessanta: un momento di

cambiamento profondo, uno shock sismico all’intero sistema creativo e produttivo d’Oltralpe che

ha finito per costituire uno dei grandi punti di svolta nella storia dell’immaginario cinematografico

anche a livello internazionale.

Nouvelle Vague significa letteralmente “nuova onda”: il termine apparve per la prima volta

sul settimanale francese «L’Express» il 3 ottobre 1957, in un’inchiesta sui costumi dei giovani francesi

a firma di Françoise Giroud, e venne poi ripreso da Pierre Billard nel febbraio 1958 sulla

rivista «Cinéma 58». Dopo aver designato le modalità di comportamento di una nuova

generazione disinvolta e inquieta, l’espressione passa dunque nell’ambito cinematografico in

riferimento ai nuovi film distribuiti a partire dal 1958 e in particolare a quelli presentati al Festival di

Cannes dell’anno successivo, tutti firmati da giovani registi esordienti. Questo spostamento verso

l’accezione cinematografica non è privo, inizialmente, di accenti spregiativi: si imputa infatti ai

nuovi cineasti una certa trascuratezza nella messa a punto artistica di un film, senza capire che essi

sopperiscono all’inesperienza pratica con una conoscenza profonda della storia del cinema e con

idee precise sulle potenzialità del mezzo cinematografico.

La Nouvelle Vague acquista d’altronde velocemente un valore mediatico tutt’altro che

indifferente: nel corso della stagione 1958/59 l’espressione diventa un’etichetta commercialmente

appetibile, e viene adoperata dagli operatori dell’industria culturale in modo anche piuttosto

sommario, applicandola indiscriminatamente a tutti i nuovi registi del periodo. Naturalmente,

siccome gli esordienti alla regia del cinema francese, nell’arco di tempo che va dal 1958 al 1962,

sono ben 162, molti di essi non partecipano davvero di un’innovazione del linguaggio

cinematografico, e includerli nel novero della Nouvelle Vague sarebbe essenzialmente un errore.

In modo piuttosto provocatorio, nel numero dei «Cahiers» che, alla fine del 1962, tenta un primo

bilancio complessivo del fenomeno, François Truffaut (uno degli esponenti indiscussi del

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movimento), affermerà provocatoriamente che l’unica caratteristica che davvero accomunava

tra loro gli esponenti della Nouvelle Vague era la passione per i biliardini elettrici1!

Al di là delle esagerazioni giornalistiche, comunque, il nucleo più autentico della Nouvelle

Vague può e deve essere identificato innanzitutto negli autori che si erano formati, nel corso degli

anni Cinquanta, alla scuola critica celeberrima rivista (ancora oggi attiva) dei «Cahiers du

cinéma». Segnatamente, si tratta di: Claude Chabrol, Jean-Luc Godard, Éric Rohmer, Jacques

Rivette e il summenzionato Truffaut. Si trattava di un gruppo di amici che condividevano una

cinefilia appassionatissima, alimentata dalle proiezioni presso i cineclub parigini ed in particolare

presso la Cinémathèque Française. Alla Cinémathèque (fondata nel 1936 da Henri

Langlois e Georges Franju) venivano proiettati film di grandi cineasti statunitensi ed europei, spesso

largamente incompresi dalla critica (Jean Renoir, Jean Vigo, Roberto Rossellini, Jacques Becker,

Josef von Sternberg), o sminuiti meri esecutori della macchina organizzativa hollywoodiana

(Howard Hawks, Alfred Hitchcock, Anthony Mann, Nicholas Ray).

Le opinioni precise che questi giovani critici vennero a formarsi negli anni della loro intensa

cinefilia trovarono presto l’occasione di esprimersi compiutamente quando essi cominciarono a

collaborare con i «Cahiers», sotto l’egida dell’importante critico dell’epoca André Bazin (ancora

oggi considerato uno dei massimi teorici del cinema). Gli articoli apparsi negli anni sulla rivista

finirono per divenire una sorta di manifesto del movimento che sarebbe nato alla fine del

decennio. I «Cahiers» si proponevano come rivista di critica innovativa e militante, in aperta

opposizione alla rivista più tradizionale, «Positif». La linea dei «Cahiers» era soprattutto quella di

propugnare la cosiddetta “Politica degli Autori”. Con questa espressione si intende indicare una

concezione del medium cinematografico in cui si accorda nuova centralità alla figura registica, il

cui apporto è considerato più importante di quelli del produttore, dei divi e del comparto tecnico

e artistico della troupe. All’Autore viene infatti riconosciuta una visione creativa a tutto tondo, una

capacità di plasmare appieno la realizzazione del film. Non tutti i registi, beninteso, sono Autori:

secondo questa prospettiva, si guadagna questo onore soltanto un cineasta che (come quelli

1
«Cahiers du cinéma», n. 138, dicembre 196.

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venerati dai giovani critici che menzionavamo pocanzi) utilizzi consapevolmente il mezzo

cinematografico per comunicare con lo spettatore non soltanto attraverso la scelta del tema e

della trama, ma tramite determinate scelte stilistiche capaci di delineare nel loro insieme una

visione del mondo e del mezzo cinematografico. Un Autore deve fare del film un’opera

intensamente personale (il che non significa affatto autobiografica), la sua firma deve essere

immediatamente riconoscibile all’occhio attento dell’esperto sin dai primi fotogrammi di una

pellicola.

I “giovani turchi” dei «Cahiers» propugnano perciò una vera e propria rivoluzione del

cinema francese, muovendo battaglia alla concezione tradizionale che aveva fino ad allora

dominato il panorama nazionale. Truffaut, Godard e gli altri si scagliano conto quello che

denomina ironicamente il “cinéma de papa”, ad indicare l’impellente necessità di uno

svecchiamento generazionale.

Il cinema francese del dopoguerra era stato caratterizzato da una grande continuità

riguardo alle regole di realizzazione industriale dei film e riguardo alle vie d'accesso a questa

professione: nel periodo tra la Liberazione e il 1958 il numero di nuovi registi si limitò ogni anno a

qualche nome sparuto. Questo cinema veniva ora accusato dai nuovi critici che sarebbero presto

divenuti cineasti di essere ormai stantio e fasullo, se ne condannava la fredda correttezza

accademica di una messa in scena corretta ma priva di guizzi. Fu in particolare il giovane Truffaut

ad attaccare con notevole vis polemica in un suo articolo del 1954 intitolato “Una certa tendenza

del cinema francese”2. La tradizione del “cinema di qualità” tanto vituperata dalle nuove leve del

cinema francese si basava su tre principi essenziali: il primato di una sceneggiatura molto salda; la

realizzazione delle riprese all'interno degli studi con una folta équipe tecnica; e il ricorso ad attori

esperti e popolari che il pubblico ritrovava in ogni film (da Jean Gabin a Martine Carol, a Danielle

Darrieux). Tra i cineasti più importanti di questo status quo c’erano Claude Autant-Lara, Marcel

Carné, André Cayatte, René Clair, René Clement, Henri-Georges Clouzot e Julien Duvivier. Alcuni,

come Carné e Duvivier, erano stati autori di film indimenticabili prima della Seconda Guerra

2
F. Truffaut, Une certaine tendence du cinéma français, in «Cahiers du cinéma», n. 31, gennaio 1954.

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Mondiale, altri, come Clement, avevano realizzato film riuscitissimi anche dopo (Jeux interdits,

Giochi proibiti, 1952), ma erano accusati dai critici dei «Cahiers» di essersi poi arroccati nella

ripetizione di formule trite e conservatrici.

Oltre a questi elementi di lotta culturale, non manca però, nella ribellione che darà luogo

alla Nouvelle Vague, anche un elemento politico rilevante. Alla fine degli anni

cinquanta la Francia vive infatti una profonda crisi politica, legata alla Guerra d’Algeria (1954-

1962). Spesso si dice che i movimenti di rinnovamento cinematografico radicale nascono dai

momenti di smarrimento identitario attraversati dal Paese nel suo complesso. Il neorealismo italiano

è un ottimo esempio di questo, avendo esso un rapporto assai stretto con la caduta della dittatura

fascista, l’esperienza dell’occupazione nazista e i traumi della situazione economica del

dopoguerra. In Francia, il dopoguerra non era stato parimenti traumatico: alla fine del conflitto, la

Francia sentiva (o voleva sentire) di appartenere pienamente alla parte dei vincitori. Questa

narrazione non lasciava spazio per l’autoanalisi, e dunque i tempi non erano favorevoli per un

rinnovamento dell’immagine cinematografica. La Nouvelle Vague scoppia invece,

significativamente, proprio nel bel mezzo della Guerra d’Algeria, nel momento cioè in cui i cittadini

francesi illuminati sono costretti a prendere coscienza dello status della Francia come brutale forza

d’occupazione coloniale.

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2. Precursori della Nouvelle Vague e suo successo


mediatico

Anche se il cinema francese precedente non rappresentava un punto di riferimento per

Godard, Truffaut e gli altri critici e cineasti della nuova generazione, si possono comunque

individuare i nomi di una serie di precursori della Nouvelle Vague.

Jean-Pierre Melville (noto in seguito soprattutto per una serie di celeberrimi polizieschi e noir)

aveva esordito nel 1947 con Le silence de la mer (Il silenzio del mare), basandosi su metodi

decisamente inconsueti che prefiguravano quelli propri della Nouvelle Vague: disponendo di un

budget molto ridotto, ricorse a una équipe limitata e ad attori sconosciuti e realizzò le riprese in

scenari naturali. Il suo film venne distribuito solo nel 1949 e riscosse un buon successo, dimostrando

così un fatto nuovo, ossia la possibilità di una produzione totalmente indipendente, non soggetta a

obblighi di natura commerciale e alle limitazioni imposte dal corporativismo dei sindacati di

categoria.

Altri precursori furono Roger Leenhardt (Les dernières vacances, 1948), Alexandre Astruc

(anch’egli importante critico e autore, nel 1955, di Les mauvaises rencontres) e, in un certa misura,

Roger Vadim: il suo esordio del 1956, Et Dieu créa la femme, Piace a troppi, riscosse un notevole

successo internazionale anche grazie alla sua star Brigitte Bardot, e fu salutato da Truffaut come

opera che mostrava un’immagine completamente rinnovata della figura femminile nel cinema,

ponendo in primo piano l'emancipazione sessuale della donna.

E d’altronde donna fu anche la più importante e diretta anticipatrice della Nouvelle

Vague, ovvero Agnès Varda. Giovane fotografa, Varda realizzò il primo lungometraggio nel 1956:

La Pointe Courte è un’opera profondamente originale, in cui scene quasi documentarie si

alternano a scene di finzione fitte di dialoghi, interpretate da due attori di teatro (Philippe Noiret e

Silvia Monfort). Varda proseguirà la propria carriera firmando uno dei massimi capolavori della

Nouvelle Vague, ovvero Cléo de 5 à 7 (Cleo dalle 5 alle 7, 1962) e continuando poi a lavorare

infaticabilmente fino alla sua morte avvenuta recentemente: da Le bonheur (Il verde prato

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dell’amore, 1965) a Sans toit ni lois (Senza tetto né legge, 1985), fino a Visages Villages (2017, con

JR) il suo percorso creativo ha lasciato un’impronta molto significativa nella storia del cinema, non

solo francese.

Varda potrebbe essere in effetti considerata, più che un’anticipatrice, la vera e propria

prima regista della Nouvelle Vague. Il termine però, come abbiamo detto, non addivenne all’uso

prima del 1959, con l’esordio nella regia, a scaglioni, di tutti i membri del gruppo dei «Cahiers du

Cinéma». Durante la loro attività di critici, Chabrol, Truffaut, Godard, Rivette e Rohmer avevano

iniziato a girare i primi cortometraggi, ma la realizzazione di lungometraggi avverrà, per tutti,

soltanto a partire dal 1958. Fu specificamente nei primi sei mesi del 1959 che s'impose sugli schermi

cinematografici francesi l’idea di una Nouvelle Vague. I primi due film di Chabrol furono presentati

in alcune delle più esclusive sale degli Champs Elysées: Le beau Serge nel febbraio e Les cousins (I

cugini) nel marzo di quell’anno. Questi due film riscossero un grande successo di pubblico,

particolarmente rilevante nel caso di Les cousins, e il Festival di Cannes del 1959 fu il festival della

Nouvelle Vague. La Francia vi fu rappresentata da Orfeu negro (Orfeo negro), il primo film di

Marcel Camus, che ottenne la Palma d'oro, e da Les 400 coups (I quattrocento colpi) di Truffaut

premiato per la migliore regia. Ma anche Hiroshima, mon amour di Alain Resnais, tratto dal famoso

romanzo di Marguerite Duras (sceneggiatrice del film), presentato fuori concorso, conobbe nel

periodo immediatamente successivo il riconoscimento internazionale della critica anglosassone,

italiana e tedesca, e riscosse un successo commerciale poco prima impensabile per un film così

provocatorio e per una scrittura d’avanguardia tanto lontana dalle abitudini del grande pubblico.

Anche Resnais proveniva dalla palestra del cortometraggio e, pur non appartenendo al gruppo

stretto dei «Cahiers», è senz’alto l’autore esterno ad esso più vicino alla sua poetica e visione del

mondo. Nell’estate del 1960 uscì poi À bout de souffle (Fino all'ultimo respiro) di Godard, mentre

Rivette proseguì la realizzazione di Paris nous appartient (Parigi ci appartiene) che aveva interrotto

nel 1958 per motivi finanziari e che uscì nel 1961. Nel 1962 esordì anche Rohmer con Le signe du lion

(Il segno del leone). Il movimento si era così affermato e per due o tre stagioni alcune decine di

giovani artisti tentarono di penetrare nella breccia che esso aveva aperto: altri nomi che si devono

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da
copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).

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ricordare sono dunque quelli di Jacques Rozier (Adieu Philippine, Desideri nel sole, 1963), Jacques

Demy (Lola, Lola – donna di vita 1961; Les parapluies de Cherbourg, 1964; Les demoiselle de

Rochefort, Josephine, 1967), Jean-Pierre Mocky (Les dragueurs, 1959; Un couple, 1960).

Accanto ai nomi della Nouvelle Vague vera e propria, vanno d’altronde menzionati anche

quelli di molti altri cineasti che, pur non essendo completamente assimilabili al movimento firmano

film che rivelano alcune caratteristiche comuni a quelli prodotti dalla scuola della Nouvelle Vague,

pur non appartenendo essi alla scuola dei «Cahiers» in senso stretto. Si possono dunque fare i nomi

di Jacques Doniol-Valcroze (Les surmenés, 1958), Louis Malle (Ascenseur pour l’echafaud,

Ascensore per il patibolo, 1958; Les amants, 1958; Zazie dans le métro, Zazie nel metrò, 1960).

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3. Lo stile

I film della Nouvelle Vague sono caratterizzati da una serie di caratteristiche comuni, che

riassumeremo qui di seguito:

1. I cineasti realizzano film molto personali, spesso scritti dal regista stesso e legati alla su

esperienza personale. Anche se questo non è sempre vero alla lettera (À bout de souffle di

Godard fu scritto da Truffaut), si tratta comunque di un vissuto generazionale condiviso: questi sono

film intrisi perciò dello spirito del tempo e dell’atmosfera alternativa della vita urbana giovanile che

andava affermandosi in quegli anni. Parte del fascino che essi esercitano su di noi sta proprio nel

fatto che rappresentano una tra l prime rese cinematografiche di uno stile di vita che possiamo

definire autenticamente moderno e libertario.

2. I film sono spesso autoprodotti, o comunque realizzati con budget poco costosi, finanziati

al di fuori dei circuiti consueti delle grandi società di produzione e distribuzione, sempre restie nel

dare fiducia ad autori che non avevano affrontato un lungo periodo di apprendistato come

assistenti sui set di registi internazionalmente noti.

3. Lo scopo cinematografico della Nouvelle Vague era catturare “lo splendore del vero”,

secondo una fortunata espressione di Godard. A tale fine venivano eliminati, nella realizzazione

delle pellicole, molti dei sofisticati artifici del cinema tradizionale: si rifiuta l’utilizzo di ambienti

ricreati in studio e di complesse scenografie, preferendo, sia per le scene in esterni che in interni,

luoghi e spazi reali (talvolta gli appartamenti dei registi stessi, o di loro conoscenti); si cerca di

sfruttare il più possibile l’illuminazione naturale e non vengono utilizzate attrezzature costose; si

preferisce l’impiego della macchina da presa a mano, e la troupe tecnica è essenziale, così da

favorire un clima intimo e amicale. Anche per quanto riguarda il sonoro, esso viene registrato in

presa diretta anziché essere post-sincronizzati (a differenza di quanto avveniva per i film di un

movimento, pur dichiaratamente realista, come il neorealismo italiano).

4. Si utilizzano attori poco noti, a volte addirittura amici del regista, e se ne favorisce

l’improvvisazione. Ciò non toglie, naturalmente, che la Nouvelle Vague utilizzi anche divi già famosi

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(si pensi a Jeanne Moreau in Jules et Jim, F. Truffaut, 1962), e che alcuni dei suoi attori siano poi

divenuti celeberrimi proprio in seguito al successo dei film del movimento, trasformandosi in divi a

tutti gli effetti: Jean-Paul Belmondo, Anna Karina e Jean-Pierre Léaud sono solo alcuni dei nomi che

si possono citare a questo proposito.

5. Nonostante quello della Nouvelle Vague sia un cinema caratterizzato da una spinta

all’indagine della realtà, tale spinta non esaurisce minimamente la dimensione stilistica di questo

cinema. Lungi dall’appiattirsi su una dimensione ingenuamente realistica, la Nouvelle Vague

propone una libertà narrativa ed estetica assolutamente radicale. Ciò è evidente soprattutto in

relazione al montaggio (o all’assenza dello stesso). In questo senso l’autore più innovativo è senza

dubbio Jean-Luc Godard, che in À bout de souffle, così come nei suoi film successivi, utilizza una

serie di espedienti del tutto dirompenti, puntando alla distruzione delle regole della composizione

classica. Il linguaggio classico era basato su inquadrature armoniche che si succedono l’una

all’altra senza attirare l’attenzione su sé stesse, al solo fine di orientare lo spettatore nello spazio

diegetico ed immergerlo nel mondo finzionale. Al contrario, Godard, autore moderno per

eccellenza, recupera alcune invenzioni della Scuola sovietica del montaggio degli anni Venti, e le

radicalizza: egli opta per dei salti di montaggio palesemente e provocatoriamente sbagliati, che

sottolineino lo stacco tra un’inquadratura e l’altra, anziché nasconderlo (jump cuts); o viceversa,

rifiuta radicalmente il taglio di montaggio e costruisce numerose scene tramite inquadrature

lunghissime e molte complesse, ove non direttamente tramite piani sequenza, dando in questo

modo allo spettatore il senso di un’immersione nello spazio e nel tempo del film. Questi esperimenti

si relazionano poi al materiale narrativo in modo del tutto peculiare e contro-intuitivo: scene

cruciali, in cui accadono molte cose, sono sintetizzate in poche inquadrature sconnesse, con salti

ingiustificati da un quadro all’altro; viceversa momenti di stasi, in cui non accade nulla, sono

restituiti integralmente, senza stacchi, nella loro qualità di tempi morti. Nel complesso, Godard

porta avanti una profonda riflessione sul tempo cinematografico (come sosteneva anche il

celebre filosofo Gilles Deleuze nei suoi libri sul cinema). Una riflessione che viene portata alle

estreme conseguenze da un altro cineasta, Chris Marker, che girerà nel 1962 un mediometraggio

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di fantascienza distopica, La Jetée (che ispirerà poi il film 12 Monkeys, L'esercito delle 12 scimmie, T.

Gilliam, 1996) che consiste unicamente nella successione di immagini statiche, palesando così la

base fotografica del medium cinematografico. Nel complesso, dunque, alla spinta realistica di

scoperta del mondo dei fenomeni, si accompagna nella Nouvelle Vague una spinta autoriflessiva,

metalinguistica, che non dà mai per scontata la possibilità del medium di restituire la realtà e si

domanda sempre invece quale sia il ruolo del dispositivo cinematografico nell’influenzare e creare

il modo in cui guardiamo al mondo.

6. Il cinema della Nouvelle Vague deve moltissimo all’immaginario del cinema precedente

che, come abbiamo visto, era stato fondamentale nella formazione dei suoi cineasti. Più in

generale, la Nouvelle Vague è una corrente attraversata da un forte citazionismo per i materiali

eterogenei che popolano il paesaggio culturale della cultura di massa.

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4. L’influenza sulle cinematografie estere

Anche se i film della Nouvelle Vague riscossero grande successo in Francia solo per due o

tre stagioni, essi tuttavia suscitarono attenzione a livello internazionale, cosa che era accaduta solo

a pochi altri film francesi degli anni Cinquanta. À bout de souffle, Hiroshima, mon amour e Les 400

coups divennero opere di riferimento per i giovani cineasti inglesi, cechi, polacchi, brasiliani,

italiani, tedeschi e di tutto il mondo.

Naturalmente, ridurre l’emergere, a livello globale, di movimenti cinematografici innovativi

al solo esempio della Nouvelle Vague sarebbe semplicistico, ma gli aspiranti cineasti di tutto il

mondo trovarono in Tirez sur le pianiste (Tirate sul pianista, F. Truffaut 1961), in Vivre sa vie (Questa è

la mia vita, J.-L- Godard, 1962), in L’année dernière à Marienbad (L’anno scorso a Marienbad, A.

Resnais, 1961), i modelli di un cinema diverso, di un’ambizione intellettuale molto lontana da quella

che aveva animato i tradizionali prodotti destinati all'esportazione, e seppero trarre da essi una

straordinaria energia creativa, anche in situazioni molto difficili come quelle della Polonia e del

Brasile.

Tra i movimenti di cinema giovane e indipendente sorti negli anni Sessanta vanno perciò

menzionati: il Free Cinema inglese (Lindsay Anderson, Tony Richardson, Karel Reisz, John

Schlesinger), la scuola di Praga o Nová vlna (Miloš Forman, Věra Chytilová, Jan Němec), il cinema

ungherese di Miklós Jancsó e Judith Elek, quello polacco di Jerzy Skolimowski e Roman Polanski,

quello tedesco di Volker Schlöndorff, Werner Herzog, Rainer Werner Fassbinder e Wim Wenders

(Neuer Deutscher Film), quello jugoslavo di Dušan Makavejev, senza dimenticare lo straordinario e

tumultuoso Cinema Nôvo brasiliano dominato da Glauber Rocha e Ruy Guerra.

Negli Stati Uniti, l’influenza della Nouvelle Vague si può rintracciare nel cinema

straordinariamente personale ed innovativo di John Cassavetes: il suo Shadows (Ombre, 1960), non

fu meno innovatore di À bout de souffle, soprattutto per quanto riguarda l'uso della macchina da

presa. Ma la Nouvelle Vague influenzò anche registi che lavoravano già da tempo (in Lilith, Lilith –

la dea dell’amore, 1964, Robert Rossen adotta i principi stilistici di Godard per mettere in scena la

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Lorenzo Marmo - La Nouvelle Vague francese

percezione alterata dalla malattia mentale) e soprattutto fu punto di riferimento esplicito per il

cinema fortemente innovativo della New Hollywood (Arthur Penn, Robert Altman, Francis Ford

Coppola, Martin Scorsese), inauguratasi nel 1967.

Anche in Italia, infine, si ebbe nei primi anni Sessanta un profluvio di esordi assai significativi

simile a quello francese. Pur essendo la compagine italiana meno compatta da un punto di vista di

poetica e stilistica rispetto alla francese, si usò ed usa comunque l’espressione “Nouvelle Vague

italiana” per parlare dei primi film di grandi autori quali Pier Paolo Pasolini, Bernardo Bertolucci,

Marco Bellocchio, Ermanno Olmi, Lina Wertmüller.

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Lorenzo Marmo - Pietro Germi attraverso i generi

Indice

1. PER UN CINEMA ITALIANO DI GENERE .................................................................................................. 3


2. LO SPAZIO URBANO E LA TRILOGIA NOIR............................................................................................. 5
3. IL WESTERN, IL MELODRAMMA INTIMISTA E IL RITORNO AL POLIZIESCO............................................. 9
4. GERMI MAESTRO DELLA COMMEDIA ALL’ITALIANA ........................................................................... 12
BIBLIOGRAFIA................................................................................................................................................ 15

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Lorenzo Marmo - Pietro Germi attraverso i generi

1. Per un cinema italiano di genere

Nato a Genova il 14 settembre 1914, e morto a Roma il 5 dicembre 1974, Pietro Germi non

fu soltanto regista e sceneggiatore ma anche attore cinematografico. La sua opera mostra un

interesse costante per l’indagine – e spesso una sferzante critica – dei costumi nazionali. Il regista

investiva infatti il cinema, per sua stessa ammissione, di un ruolo cruciale nell’articolazione

dell’identità collettiva degli italiani, e perciò si è sempre mosso alla ricerca di una forma

cinematografica che permettesse al popolo italiano di conoscere sé stesso e facesse uscire «tutti

noi italiani da quello stato di puerile immaturità psicologica cui spesso ci abbandoniamo,

perdendo il contorno preciso dei problemi, rinunciando a conoscere la realtà, a combattere»1.

L’aspetto radicalmente originale e non conformista della concezione di Germi sta nel fatto

che egli riteneva che, per riuscire a parlare al pubblico e creare un cinema autenticamente

nazionale, non occorresse aderire ad alcuna formula realistica. Nonostante infatti, nel passo citato

sopra, il regista evochi esplicitamente il termine «realtà», il percorso di Germi si segnala innanzitutto

per la sua estraneità rispetto alla corrente principale del neorealismo, che pure andava per la

maggiore al momento del suo esordio negli anni Quaranta. Piuttosto, Germi contava sul modello

del cinema francese e americano di genere, in cui ritrovava opzioni stilistiche marcate, capaci di

catturare la fantasia degli spettatori e, coinvolgendoli, farli pensare. Il lavoro di regia di Germi

cerca insomma, come scrive Francesco Pitassio, una forma espressiva che risponda direttamente

alle necessità del racconto cinematografico, «anziché alle pretese di una gerarchia estetica

maturata in differenti forme espressive, o alle necessità di una fedeltà al reale»2.

1
Pietro Germi, In difesa del cinema italiano, in «Rinascita», 3, marzo 1949, ora in Orio Calidron, Pietro Germi, la
frontiera e la legge, Bulzoni, Roma 2004, pp. 27-29, p. 27. Su questo tema cfr. Luca Malavasi, Il cinema è
indispensabile agli italiani, in Id., Emiliano Morreale (a cura di), Il cinema di Pietro Germi, Centro Sperimentale di
Cinematografia/Edizioni Sabinae, Roma 2016, pp. 15-22.
2
Francesco Pitassio, Giovani di poche speranze. Pietro Germi nel secondo dopoguerra, in L. Malavasi, E. Morreale (a
cura di), Il cinema di Pietro Germi, cit., pp. 72-82, p. 75.

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Mentre il cinema italiano dell’epoca andava sempre di più in direzione di una rarefazione

del racconto, mimetica rispetto ai ritmi del fluire dell’esistenza, Germi volle sempre affidarsi a

sceneggiature di ferro, che garantissero un ritmo narrativo serrato. Egli riteneva infatti che i codici

del film di genere fossero tutt’altro che incompatibili con una capacità di acuta osservazione della

realtà sociale. Al contrario: liberandosi di ogni imbarazzo rispetto all’opzione della narrazione forte

e dell’invenzione melodrammatica, Germi mirava a mobilitare la fantasia degli spettatori e i loro

meccanismi di identificazione e desiderio: mobilitazione al di fuori della quale ogni riflessione sul

presente gli sarebbe risultata incompleta e superflua.

Il cineasta genovese riteneva insomma che per fare un cinema autenticamente italiano

bisognasse rifarsi, senza che questo risultasse paradossale, ai modelli delle cinematografie straniere.

In questo modo egli dimostrò di nutrire, specie nella prima parte della sua carriera,

un’immaginazione autenticamente cosmopolita. Il suo cinema è perciò assai adatto a riflettere sul

cinema italiano del secondo dopoguerra in una prospettiva transnazionale. La fase postbellica

costituisce, naturalmente, un momento del tutto cruciale per la definizione dell’identità del nostro

cinema. La qualità fondativa del neorealismo, il mito che esso è diventato, rischiano però di

occupare tutto il campo visivo e di oscurare una comprensione più profonda delle dinamiche in

atto. È importante invece ricordare come sia proprio all’interno di una complessa rete di influenze

reciproche tra diverse cinematografie nazionali che si esercitò in modo più fertile l’immaginazione

di registi come Giuseppe De Santis, Alberto Lattuada, Luchino Visconti e, appunto, Germi.

D’altronde anche quando, a metà degli anni Cinquanta, Germi tenderà ad abbandonare

il riferimento esplicito al modello hollywoodiano, il suo cinema rimarrà profondamente radical nella

logica del genere. Affronteremo perciò la sua produzione seguendo il succedersi dei diversi generi

che dominano l’immaginario dell’autore nelle diverse fasi della sua creatività: il noir prima, il

western e il melodramma poi, e infine la commedia.

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2. Lo spazio urbano e la trilogia noir

Iscrittosi nel 1931 all’Istituto nautico di Genova, Germi non completò gli studi. Tra il 1933 e il

1935 fece parte di una piccola filodrammatica e fu assiduo frequentatore di sale

cinematografiche. Deciso a lavorare nel mondo del cinema, inviò un soggetto cinematografico

alla preselezione dei Gruppi universitari fascisti (GUF) di Genova per l’ammissione al Centro

sperimentale di cinematografia di Roma. Inizialmente respinta, la domanda fu poi accolta, e

Germi, iscritto ufficialmente nel 1938 al corso per attori, frequentò anche quello di regia. Esordì di lì

a poco collaborando alla sceneggiatura di Retroscena (1939) di Alessandro Blasetti, e avrebbe

continuato a scrivere le sceneggiature di tutti i propri film.

Ancora prima che egli venisse accettato come allievo del CSC e si trasferisse a Roma, un

suo breve soggetto (una mezza paginetta) che fu pubblicato sulla rivista «Cinema» nel 1937. Il

soggetto è intitolato Piano regolatore3 e racconta di Alfredo e Angelina, «due giovani del popolo».

I ragazzi abitano entrambi con le rispettive famiglie in un edificio della città vecchia

(presumibilmente Genova, naturalmente) «e il loro amore sembra quasi incrostato a quei muri che

li hanno visti nascere», perché «gli affetti [sono] espressi e specificati dallo stesso ambiente». Poi

arriva però il Piano Regolatore che cambia il volto della città, l’antico quartiere viene smantellato

e sfollato, e i due ragazzi vengono separati perché le loro famiglie vanno a vivere in zone diverse. È

così che «l’amore strappato all’ambiente che lo generò, sbiadisce» finché Alfredo e Angelina si

lasciano, e ognuno troverà un nuovo amore nel proprio nuovo contesto di vita.

Questo racconto, semplice ma assai efficace, testimonia come Germi nutrisse un interesse

precipuo per il rapporto tra individuo e spazio urbano, inteso non soltanto in quanto generico

contesto ambientale tipico della modernità ma come paesaggio dotato di una propria specificità

storica e antropologica. I primi film che egli realizzò, dopo gli anni travagliati e incerti della guerra,

possono essere letti proprio tramite il filtro della rappresentazione dello spazio urbano. In essi si può

3
Id., La borsa dei soggetti. Piano regolatore, in «Cinema», 25 febbraio 1937, ora in O. Caldiron, Pietro Germi, cit., p.
83.

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rintracciare il progressivo cristallizzarsi di un interesse precipuo, da parte di Germi, non solo per la

città in generale ed in astratto, ma per lo spazio urbano di Roma, la sua città d’adozione, in

concreto. Il filtro dello spazio urbano permette inoltre di investigare le differenze e le somiglianze tra

l’immaginario del regista, fortemente influenzato, come abbiamo detto, dal cinema straniero e

dalle strutture dei generi, e il neorealismo, che pure trovava parte fondante della propria

innovazione nel confronto della macchina da presa con i luoghi ripresi dal vero.

Nei suoi primi film, Germi opta per una messa in scena stilizzata di stampo decisamente noir.

La sua pellicola d’esordio, Il testimone, uscita nel 1946, ottenne il Nastro d'argento per il miglior

soggetto. Anche se si apre con il monologo di una voce narrante che s’interroga sulle tensioni che

silenziosamente attraversano lo spazio sociale della città, il film costruisce in realtà soprattutto

un’investigazione della psiche del singolo e sul tema della colpa individuale, fortemente debitrice

del modello del Delitto e castigo dostoevskijano e di altri grandi classici della letteratura europea

Otto-Novecentesca. Per buona parte del film gli spettatori non sanno infatti se il protagonista sia o

meno un assassino, e il film propone perciò un’appassionante riflessione sul rapporto tra crimine,

violenza e mascolinità. Il film è essenzialmente coevo alle produzioni neorealiste ma ne è

evidentemente piuttosto distante, non occupandosi dei problemi della cronaca recente né

facendo alcuno sforzo per calare la vicenda nella realtà contestuale postbellica. Lo stile registico

di Germi, nel connubio tra riprese en plein air e stilizzazione noir, cerca un equilibrio che superi un

approccio strettamente referenziale, senza però perdere di vista la possibilità espressiva concessa

dagli esterni reali. Il riferimento principale smbra essere quello dei film francesi degli anni Trenta, i

noir appartenenti al cosiddetto realismo poetico di registi quali Marcel Carné o Jean Renoir. Pur

non lesinando inquadrature di Roma dal vero, il film si preoccupa però di non nominare mai la città

esplicitamente. Nei dialoghi ricorrono poi numerose indicazioni topografiche (Salita delle Fontane,

Via dell’Opera, Via del Colle), nessuna delle quali esiste a Roma: si tratta piuttosto di indirizzi di

Genova, la città natale di Germi (da cui tra l’altro proviene esplicitamente anche il protagonista

del film). Quest’ambiguità sulla collocazione geografica del film non mancò di mandare in

confusione qualche recensore dell’epoca, che pensò il film fosse girato a Torino. Più che

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rappresentare un ambiente storicamente specifico, i luoghi reali vengono adoperati nel film per la

loro qualità evocativa, facendone spazi per il riverbero delle sensazioni ed emozioni dei

personaggi.

Il secondo dei noir di Germi, Gioventù perduta (1948), tratta il tema dello smarrimento etico

della gioventù appena uscita dal trauma della guerra: protagonista è un rampollo della borghesia

intellettuale capitolina che, annoiato e desideroso di una vita di lusso, si risolve a rapinare

nottetempo, con alcuni complici, le casse dell’Università La Sapienza (dove tra l’altro il padre è

professore di sociologia). Il film prosegue dunque la riflessione sulla mascolinità ed il crimine del film

precedente, ma la declina esplicitamente in relazione alle problematiche della realtà contestuale

postbellica, esplicitando meglio la componente della classe e rendendo nettamente più

riconoscibile i paesaggi di Roma: dalla città universitaria (la cui architettura modernista diviene

simbolo dei mali connessi all’impianto educativo fascista) al Teatro di Marcello, fino alle rive del

Tevere e dell’Aniene. Rispetto all’ispirazione francese del lavoro d’esordio, Germi si avvicina ora più

nettamente al noir americano: notevole l’utilizzo della fotografia fortemente contrastata, i

chiaroscuri che conferiscono spessore drammatico alle immagini, e la strutturazione fortemente

espressiva delle inquadrature. La messa in scena carica di stampo noir permette a Germi di

esprimere concetti e sensazioni in termini puramente visivi e sonori, in modo da restituire l’angoscia

esistenziale del mondo descritto.

Dopo aver diretto altri film (vedi prossimo paragrafo), Germi tornò al noir nel 1951,

completando una sorta di trilogia. La città si difende (1951) è la storia della rapina alle casse dello

Stadio di Roma da parte di un gruppo di quattro disperati, ridotti alla criminalità soltanto a causa

delle disperate condizioni economiche in cui versano. tentata da un gruppo di falliti perseguitati

poi dal destino. La disperazione dei protagonisti avvicina in effetti, in alcuni passaggi, il film alle

atmosfere neorealiste. Al tempo stesso, modello essenziale rimane quello del noir americano:

Germi sembra guardare soprattutto ad un film come Naked City (La città nuda, 1948), il cui regista

Jules Dassin si era d’altronde esplicitamente ispirato a Rossellini e al neorealismo per il suo film. Il film

costituisce dunque un momento di convergenza tra le istanze neorealiste e l’immaginario noir: si

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Lorenzo Marmo - Pietro Germi attraverso i generi

vede bene dunque come le influenze tra le cinematografie ai due lati dell’Atlantico siano

reciproche ed anche alquanto intricate. Con La città si difende, il regista amplia ulteriormente la

dimensione della sua indagine sull’identità urbana, giungendo ad una dimensione corale. Nessuno

dei quattro protagonisti rappresenta però un possibile punto di identificazione sufficientemente

forte per lo spettatore, perché non ne viene raccontata una traiettoria di presa di coscienza ma

soltanto l’inevitabile capitolazione di fronte alla forza incommensurabile di un destino negativo. In

mancanza di un’identificazione forte con i personaggi, è con la città stessa a divenire il centro

della nostra attenzione di spettatori. Il film, ancor più che ragionare sulla colpa individuale (come Il

testimone) o sulle difficoltà socioeconomiche della società postbellica (come Gioventù perduta),

diventa una riflessione sullo spazio urbano, sull’attività del raccontarlo e sulla possibilità di

plasmarne le forme in direzione estetica.

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3. Il western, il melodramma intimista e il ritorno al


poliziesco

Nel frattempo, Germi aveva sperimentato l’incontro con un altro genere, il western, ed un

altro spazio, la Sicilia: In nome della legge (1949), adattato insieme a Federico Fellini e Tullio Pinelli

dal romanzo Piccola pretura di G.G. Lo Schiavo, racconta della dura difesa della legalità da parte

di un integerrimo pretore inviato in Sicilia dal nord. Prima di iniziare le riprese, Germi non aveva mai

messo piede sull’isola, che invece diventerà, come vedremo, uno degli scenari fondamentali della

fase più matura della sua produzione. Nonostante si proponga una visione forse troppo conciliante

nei confronti del giustizialismo della mafia rurale, il film è assai efficace nel traslare gli stilemi del

western (con un particolare riferimento al cinema di John Ford) nell’arido e grandioso paesaggio

siciliano. Germi opta per un registro autenticamente epico, e costruisce un’opera che anticipa in

modo assai significativo il filone del film politico, d’impegno civile, che caratterizzerà fortemente il

cinema italiano degli anni Sessanta e Settanta grazie a cineasti come Francesco Rosi, Elio Petri e

Damiano Damiani.

Germi proseguirà in questa sperimentazione di un’epica nazionale di stampo western con Il

brigante di Tacca del Lupo (1953): qui, oltre all’ibridazione tra il genere cinematografico straniero e

il paesaggio italiano (la Basilicata, in questo caso), si aggiunge anche la dimensione storica,

perché il film è un racconto post-risorgimentale.

Ancora più complesso dal punto di vista del genere è poi uno dei film meglio conosciuti di

Germi, Il cammino della speranza (1950). Si tratta del racconto corale dell’odissea di gruppo di

diseredati, zolfatari siciliani rimasti senza lavoro, che, incompresi e raggirati, cercano di raggiungere

con le loro famiglie il confine per emigrare in Francia. La formula del road movie tiene insieme

generi diversi (dal western al noir al film sociale), e il registro di fondo è ancora una volta quello

epico-melodrammatico. Fortemente simbolico, a questo proposito, il contrasto tra l’inizio del film,

tutto all’insegna della stasi e dell’oscurità (i protagonisti sono inamovibili nel buio ventre della

miniera siciliana, perché risolti allo sciopero) e il finale del tutto inverso (i personaggi si muovono,

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nonostante tutti gli impedimenti, sull’immensa distesa innevata della frontiera italo-francese, di

abbacinante biancore). Il risultato è un commovente e partecipato racconto di migrazione, che è

rimasto una vera e propria pietra miliare nell’immaginario collettivo.

Dopo due film non particolarmente significativi, La presidentessa (1952), farsa tutta

strutturata attorno alla bellezza di Silvana Pampanini, e Gelosia (1953), dal romanzo Il marchese di

Roccaverdina di Luigi Capuana, di cui appaiono esasperati i toni melodrammatici, Germi rimase in

silenzio per quasi due anni. Questa inattività fu evidentemente dovuta ad una seria crisi creativa,

da cui il regista uscì abbandonando i modelli narrativi americani, e dunque ripensando

radicalmente la propria concezione dell’istanza autoriale.

Con l’aiuto dello sceneggiatore Alfredo Giannetti, che divenne uno dei suoi più stretti

collaboratori, Germi individuò nelle strutture del melodramma la tipologia narrativa più consona in

quel periodo alle sue esigenze espressive. Si tratta però, beninteso, di un tipo di melodramma

molto diverso da quello cui abbiamo accennato in relazione a Il cammino della speranza o

Gelosia. I film che Germi realizzò con Giannetti, Il ferroviere (1956) e L’uomo di paglia (1958) non

hanno infatti nulla di epico, nessuna tinta forte, alcun sensazionalismo. Si tratta piuttosto di

melodrammi intimisti, di film crepuscolari che si incentrano, cosa inusitata per l’epoca, sulla

dimensione privata di famiglie della classe operaia. La vicenda di Il ferroviere delinea il destino

amaro del protagonista, che vede sconvolti nella famiglia e nel lavoro tutti i valori in cui crede, di

fronte all’avanzare degli stili di vita moderni legati al benessere del boom economico. L’uomo di

paglia è invece la storia di un tradimento coniugale e delle sue banali quanto dolorose

conseguenze. Questi melodrammi malinconici sono insomma non solo l’occasione per un

ripensamento della figura registica e delle sue modalità d’ispirazione creativa, ma anche per una

disamina della figura del pater familias, colta in tutta la sua fallibilità e la sua crisi, ma guardata

ciononostante con empatia. Che Germi fosse coinvolto emotivamente in prima persona nella

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realizzazione di questi progetti lo dimostra il fatto che volle interpretare egli stesso il protagonista

maschile di entrambi i film4.

Se il successo di pubblico conseguente a questa svolta fu indubbio, alcuni critici tacciarono

Germi di populismo e di sentimentalismo. La critica militante di sinistra lo attaccò poi ferocemente,

perché osava descrivere la vita di esponenti del proletariato i cui principali problemi non erano la

lotta di classe ma preoccupazioni di natura personale, più vicine al (presunto) stato d’animo della

borghesia.

Rispedendo al mittente queste ultime critiche ideologiche, Germi sembrò invece registrare

gli appunti relativi all’eccesso di patetismo. I suoi film successivi adottarono infatti un registro ben

diverso, marcato soprattutto da uno sguardo ironico. Un maledetto imbroglio (1959) nacque dalla

scommessa di ricavare una sceneggiatura plausibile da un libro difficile e particolarissimo, per stile

e per linguaggio, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, di Carlo Emilio Gadda, uno dei pochi

esempi di autentico sperimentalismo letterario di quegli anni. Germi e i suoi sceneggiatori (Ennio De

Concini e Giannetti) vinsero la scommessa di trasformare la caotica struttura del romanzo (il cui

giallo rimaneva privo di soluzione) in una vicenda credibile, senza snaturare del tutto il senso

dell’opera di Gadda. Il regista si riavvicinò così al genere noir, girando però stavolta tutto il film in

interni (proprio a rimarcare, forse, la propria lontananza dalle prime fasi della propria creatività).

Scelse inoltre, ancora una volta, di assumere egli stesso il ruolo del protagonista, il sardonico

Ispettore don Ciccio Ingravallo5. Soprattutto, volgendo la tormentosa scrittura gaddiana in

direzione di uno stile secco ed efficace, Germi riuscì a far proprio il senso di vuoto e di disillusione

del romanzo. Il film tendeva d’altronde, in alcuni momenti, anche verso la farsa, aprendo così le

porte all’ultima, fertilissima stagione della carriera di Germi, che divenne autore di punta della

commedia all’italiana.

4
Nel corso della propria carriera Germi fu anche, saltuariamente, attore in film di altri registi. Tra di essi: Fuga in
Francia (M. Soldati, 1948), Il rossetto (1960) e Il sicario (1961), ambedue di D. Damiani, Jovanka e le altre (M. Ritt,
1960), La viaccia (M. Bolognini, 1961).
5
In effetti la figura dell’investigatore sardonico era già stata abbozzata in Contro la legge (F. Calzavara, 1950), ultimo
soggetto di Germi che egli non aveva diretto personalmente.

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4. Germi maestro della commedia all’italiana

Di pari passo con l’arco evolutivo del cinema di Germi, con le sue metamorfosi attraverso i

generi, si trasforma anche il modo in cui il regista guarda alla società italiana e ai suoi costumi:

sempre molto critico, l’autore sembra passare da un moralismo intransigente ad uno sguardo

progressivamente sempre più caustico. Per essere più precisi, la vibrante dimensione etica del

primo Germi, che stava al fondo della visione epico-melodrammatica dei noir e dei western, si

muta dapprima in una melanconia intimista con i melodrammi e poi, con Un maledetto imbroglio,

diventa sferzante critica sociale. Con la commedia all’italiana la carica corrosivamente della

scrittura e della regia di Germi si avvantaggerà anche delle strutture del grottesco, che diventano

la lente tramite cui leggere innanzitutto la società siciliana.

Divorzio all'italiana (1961) è il film che consacrò definitivamente Germi a livello

internazionale (ottenne il premio Oscar per la miglior sceneggiatura originale e la nomination per la

migliore regia). Originariamente pensato come film drammatico, è la storia del barone siculo Fefè

Cefalù (Marcello Mastroianni in una delle vette interpretative della sua carriera) il quale,

innamorato della giovane cugina (Stefania Sandrelli al suo esordio), decide di compiere il delitto

perfetto: infatti induce la moglie (Daniela Rocca) al tradimento e poi la uccide per motivi d'onore,

assicurandosi così una pressoché certa impunità, in base all'art. 587 dell'allora vigente codice

penale italiano. La genialità satirica del regista consiste “nel dipingere, nel modo più comico e con

un ritmo molto sostenuto e ricco di annotazioni ambientali, psicologiche e di costume pungenti e

profonde, un quadro così globalmente amaro in cui niente e nessuno sono oramai degni di

pietà”6.

Nel successivo Sedotta e abbandonata (1964), scritto con Age & Scarpelli e Luciano

Vincenzoni, si accentua ancora di più il registro grottesco, in direzione di un barocchismo del tutto

ispirato. Anche questo secondo film di ambientazione siciliana si fonda sulla logica potenzialmente

6
Alessandra Cimmino, Pietro Germi, in “Enciclopedia del Cinema”, Treccani, 2003, disponibile al seguente indirizzo:
http://www.treccani.it/enciclopedia/pietro-germi_%28Enciclopedia-del-Cinema%29/.

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paradossale e perversa delle legislazioni in materia matrimoniale, adoperandola per descrivere un

mondo che intrappola il soggetto in un rapporto con la comunità dai risvolti semplicemente

angoscianti. Lo stile di Germi è ricchissimo: le inquadrature stracolme di oggetti sono assai vivide

nella resa della materialità del paesaggio e della fisicità dei corpi, e partecipano integralmente al

senso di esasperazione nevrotica dell’atmosfera. Se il primo approccio alla Sicilia era stato

all’insegna dell’epica melodrammatica, come abbiamo visto, anche ora che lo sguardo si volge

alla commedia, siamo sempre di fronte alla stessa messa in scena carica, alla stessa superfetazione

dell’ambiente in direzione di un simbolismo fortemente espressivo.

Punta massima della produzione commedica di Germi è però Signore & signori (1966), nato

da un’idea dello sceneggiatore trevigiano Vincenzoni ed infatti non più ambientato in Sicilia ma in

Veneto. Anche questo film ripropone una visione amarissima della relazione tra individuo e società.

Unico caso in cui la ferrea unità della sceneggiatura di Germi cede a una suddivisione interna per

episodi, il film descrive con uniforme ferocia il perbenismo ipocrita della borghesia cattolica della

provincia. Al di là delle apparenze di benessere e civiltà legate anche alla moderna società dei

consumi, anche qui a dominare davvero l’agire umano sono le stesse pulsioni primitive, tribali e

oscurantiste che si erano trovate in Sicilia nei due film precedenti. Con questo film Germi vinse la

Palma d’oro al Festival di Cannes, ad ex-aequo col francese Un homme, une femme (Un uomo,

una donna, 1966) di Claude Lelouch.

Negli anni successivi il lavoro del regista appare più convincente nel proseguire la sua

cinica disamina dell’istituzione matrimoniale (L’immorale, 1967, storia di un uomo che non sa

scegliere fra le tre donne della sua vita e le tre famiglie che si è creato con ciascuna di loro;

Alfredo Alfredo, 1972, con Dustin Hoffman alle prese con un vero e proprio inferno coniugale, in un

racconto parimenti vivace e amaro). Meno ispirati gli elogi alla vita agreste (come in Serafino,

1968, fiaba ecologica in cui pure il regista si confronta tardivamente – ma positivamente – con il

colore, e consente ad Adriano Celentano di prodursi in una delle sue interpretazioni migliori: il film

fu di fatto un grande successo) o dei valori di una volta (Le castagne sono buone, 1970,

improbabile elogio dei buoni sentimenti con protagonista Gianni Morandi). Di fatto, sembrano

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rischiare di venir meno la tensione stilistica delle sue opere precedenti ed il loro tono graffiante,

forse anche a causa delle difficoltà di Germi ad intercettare le dinamiche della società dopo la

grande svolta del 1968.

L’ultimo soggetto scritto da Germi fu quello di Amici miei, sul tema dell’amicizia maschile

(vista nelle sue forme più ludiche e goliardiche) come barriera contro la solitudine e la vecchiaia.

Già molto malato, non poté girare personalmente il film, che fu poi realizzato, famosamente, da

Mario Monicelli nel 1975. Esso costituisce in ogni caso una conclusione singolare ma perfetta per il

percorso di Germi: l’autore dimostra qui un inedito atteggiamento partecipativo verso la ribalderia

del gruppo di protagonisti, le cui ‘zingarate’ diventano un rifugio essenziale dalle insoddisfazioni del

quotidiano. Abdicando almeno in parte a quel senso insopprimibile della Legge che pure era stato

un vero e proprio filo rosso della sua carriera, Germi sembra ora favorire un atteggiamento

beffardo, che riesce a farsi gioco anche della morte, quando essa arriva, puntuale, nel finale.

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Indice

1. LA FORMAZIONE E GLI ESORDI NEL DOCUMENTARIO ......................................................................... 3


2. ANTONIONI NEGLI ANNI CINQUANTA.................................................................................................. 5
3. LA TETRALOGIA DELL’INCOMUNICABILITÀ ........................................................................................... 9
4. LA FILOSOFIA DELLO SGUARDO .......................................................................................................... 12
BIBLIOGRAFIA................................................................................................................................................ 16

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1. La formazione e gli esordi nel documentario

Michelangelo Antonioni nasce a Ferrara il 29 settembre 1912, in una famiglia borghese.

Durante studi in economia e commercio all’Università di Bologna, animò un gruppo teatrale, fondò

un circolo letterario con Lanfranco Caretti e Giorgio Bassani (altro grande intellettuale ferrarese,

poi autore, tra gli altri, del celebre romanzo Il giardino dei Finzi Contini) e si avvicinò al cinema

collaborando come critico al «Corriere padano». Nel 1939 si trasferì a Roma, dove frequentò per

alcuni mesi il Centro Sperimentale di Cinematografia ed entrò nella redazione della rivista

«Cinema», in quel momento sede del più vivace dibattito intellettuale sul cinema italiano e sulle

direzioni da intraprendere per il suo rinnovamento (tra i suoi collaboratori Giuseppe De Santis,

Massimo Mida, Gianni Puccini, Cesare Zavattini, Luchino Visconti, Carlo Lizzani).

Le prime esperienze concrete col cinema, sul versante creativo, Antonioni le ebbe prima

collaborando alla sceneggiatura di uno dei film bellici di Roberto Rossellini, Un pilota ritorna (1942)

e poi recandosi in Francia per lavorare come aiuto regista di Marcel Carné per Les visiteurs du soir

(L’amore e il diavolo, 1942), proprio come aveva fatto prima di lui Luchino Visconti con Jean

Renoir, negli anni Trenta.

Tornato in Italia, realizzò nel 1943 un breve documentario nella sua terra d'origine, Gente del

Po1. Il film traeva spunto da uno degli scritti che Antonioni aveva pubblicato su «Cinema», Per un

film sul fiume Po2: il cortometraggio viene considerato, assieme a Ossessione di Visconti (1943), il

primo esempio di cinema neorealista, ma la guerra impedirà la conclusione del montaggio fino al

1947. Gente del Po condivide d’altronde con Ossessione la medesima ambientazione padana:

laddove il film viscontiano è un melodramma noir incentrato su un amore adulterino che conduce

al delitto, l’opera prima di Antonioni è invece un’esplorazione documentaria della vita lungo le rive

del fiume. Il regista ferrarese va insomma dritto al nocciolo di quella spinta alla riscoperta di spazi e

ambienti autentici che caratterizza tutto il neorealismo, senza inizialmente sentire il bisogno di

1
Il film è disponibile qui: https://www.youtube.com/watch?v=ixccmJ5j_oY.
2
Michelangelo Antonioni, Per un film sul fiume Po, in «Cinema», n. 68, 25 aprile 1939 ora in Id., Sul cinema,
Venezia, Marsilio, 2004, pp. 77-80

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costruirvi attorno una storia di finzione. E d’altronde anche in seguito, come vedremo, il paesaggio

giocherà un ruolo fondamentale nell’opera di Antonioni, ed avrà appunto la funzione di

decentrare la rappresentazione e demolire la struttura tradizionale di un film narrativo.

Nel dopoguerra Antonioni riprese l’attività di critico e di sceneggiatore (Caccia tragica, G.

De Santis, 1947; Lo sceicco bianco, F. Fellini, 1952) e girò altri cortometraggi documentari, tra cui

N.U. – Nettezza Urbana (1948), L’amorosa menzogna (1949) e Sette canne, un vestito (1949),

destarono frattanto l’attenzione della critica. Gli argomenti su cui si incentrano queste opere sono

assai diversi – la routine dei netturbini il primo, il mondo dei fotoromanzi il secondo, l’intero processo

produttivo di una fabbrica friulana di rayon il terzo – ma nel complesso si può dire che Antonioni

dimostri un forte interesse per la realtà del lavoro, in tutte le sue diverse manifestazioni, e al tempo

stesso per i meccanismi della finzione, per i retroscena della macchina dell’immaginario. Questi

cortometraggi anticipano inoltre alcune delle principali caratteristiche del cinema successivo di

Antonioni, ovvero il desiderio di rottura con la narrazione armonica e lineare del cinema classico,

tramite un montaggio che privilegia la discontinuità e il rifiuto di strutturare il racconto in base ad

una logica rigorosa di causa-effetto.

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2. Antonioni negli anni Cinquanta

Antonioni dimostra dunque sin dall’inizio una rimarchevole chiarezza d’intenti, orientando

subito il suo cinema in una direzione del tutto peculiare e personale che rimarrà la sua cifra stilistica

di fondo. Anche il suo primo lungometraggio, infatti, opta per uno smantellamento parziale della

narrazione classica. La vicenda di Cronaca di un amore (1950) suona infatti, sulla carta, come una

perfetta trama noir, essendo il racconto del riaccendersi della passione tra due ex amanti che

decidono di uccidere il marito di lei. Ma anziché dipanarsi verso una, pur tortuosa, conclusione, la

trama sembra accartocciarsi su sé stessa, irrimediabilmente compromessa dalla crisi esistenziale

dei personaggi, nonché da un destino beffardo che sottrae loro ogni possibilità di azione concreta.

Il riverbero di una simile vicenda adulterina e criminosa che aveva già visto protagonisti i due

personaggi in passato, durante gli anni della guerra, complica ulteriormente la linearità della

trama. È vero che i personaggi del genere noir devono spesso scontrarsi con un mondo ostile e

claustrofobico, in cui non è facile orientarsi e agire, ma lo smarrimento dei protagonisti di Cronaca

di un amore ha qualcosa di nettamente più radicale, esso è di segno diverso, perché non sfocia

tanto nell’angoscia quanto in una sensazione abulica di sconfitta esistenziale e di rinuncia alla

possibilità di avere un qualsivoglia impatto sul mondo. Il film prende insomma le formule del noir e

le svuota dall’interno. Al tempo stesso, Antonioni si distanzia anche dall’estetica neorealista, che

all’epoca dominava l’immaginario e il dibattito critico in Italia. La scelta di ambientare il suo film

nel mondo dell’alta borghesia industriale lombarda è sintomatica del desiderio di prendere le

distanze dall’attenzione univoca verso il proletariato e le classi subalterne che aveva caratterizzato

il neorealismo. Nonostante il film sia rimasto celebre per alcuni indimenticabili piani sequenza con

cui Antonioni pedina i propri personaggi secondo i dettami dell’estetica realistica di Zavattini,

l’intento di fondo di questa figura stilistica viene nettamente mutato: non è l’adesione mimetica al

mondo dei fenomeni quello che interessa il regista ferrarese, quanto piuttosto la restituzione di una

dimensione esistenziale di vuoto, scontento e sospetto. Come Gente del Po, anche Cronaca di un

amore può essere letto in una dinamica di rapporto intertestuale con Ossessione di Visconti (in

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questo caso molto più profonda e intenzionale): i due film condividono la struttura noir di partenza

(la vicenda adulterina che si intreccia al crimine) e finanche lo stesso protagonista maschile,

Massimo Girotti. Con il noir di Visconti si era aperto il neorealismo, e tocca ora al noir di Antonioni

chiuderlo. È interessante notare come le strutture del genere noir aiutino il cinema italiano ad

avvicinarsi all’estetica neorealista, con Visconti, e come siano sempre queste medesime strutture a

consentire poi ad Antonioni di operare un primo significativo distacco da questo movimento,

inaugurando una stagione che possiamo definire, come vedremo più avanti, come cinema

moderno.

Antonioni fa seguito a questo esordio folgorante con un film assai interessante, ma forse

meno risolto, e comunque non altrettanto apprezzato dal pubblico. I vinti (1953) è un film in tre

episodi, ciascuno ambientato in una diversa nazione europea (la Francia, l’Italia, l’Inghilterra) e

che investiga la dimensione pervasiva della delinquenza giovanile. I tre episodi sono assai disuguali

nei risultati e patiscono qualche incertezza da parte dell’autore e dei produttori (in particolare,

l’episodio italiano doveva avere un intreccio in cui si connetteva esplicitamente l’azione criminosa

del protagonista a una motivazione di matrice neofascista, ma questo aspetto fu censurato, dopo

l’anteprima a Venezia). Essi risultano comunque rimarchevole, soprattutto perché il regista

continua a sperimentare con l’immaginario noir e anticipa, nel terzo episodio, il tema di un delitto

che ha luogo in un parco londinese, proprio come accadrà anche in uno dei suoi capolavori della

maturità, Blow-up (1966).

La signora senza camelie, ancora del 1953, è invece uno straordinario melodramma sui

crudeli meccanismi del divismo cinematografico (riprendendo l’interesse già dimostrato in

L’amorosa menzogna). Antonioni ritrova la Lucia Bosè già protagonista di Cronaca di un amore,

affidandole lo struggente ritratto di una reginetta di bellezza (come Bosè stessa era stata) che

diventa attrice e vorrebbe essere presa sul serio come tale, ma deve scontrarsi con un mondo

opportunistico che si ostina a volerne solo mercificare il corpo. Si tratta della prima di una lunga

serie di investigazioni appassionate ed empatiche della soggettività femminile su sui il regista

costruirà una parte consistente della propria carriera.

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Sempre al mondo femminile è dedicato Le amiche (1955), tratto dal romanzo di Cesare

Pavese Tra donne sole e ambientato nel mondo della borghesia torinese. Questo ambiente sociale

è descritto tramite gli occhi di una nuova arrivata, Clelia (Eleonora Rossi Drago), ed il risultato è uno

studio psicologico di inusitata crudezza, che non fa sconti a nessuno. Antonioni va qui in una

direzione diversa rispetto a tutto il suo cinema successivo, riservando meno attenzione agli spazi

esterni, allo scenario urbano, e concentrandosi piuttosto su una serie di scene corali per lo più in

interni la cui complessa regia è giostrata con vera maestria.

Al contrario il film successivo, Il grido (1957), è profondamente connesso al paesaggio:

Antonioni ritorna infatti alla sua Pianura Padana, e le rive paludose del Po diventano ora un

correlato spaziale perfetto dello stato mentale pienamente depressivo del protagonista Aldo

(Steve Cochran). Questi è un operaio che viene lasciato dalla propria compagna e, preso dalla

disperazione, abbandona il lavoro e si mette a vagabondare per la Bassa Padana insieme alla

figlioletta. La fotografia del film (di Gianni Di Venanzo), più che in bianco e nero, è tutta articolata

su una scala di grigi che, oltre a restituire l’effettiva atmosfera nebbiosa del luogo, traducono la

piattezza esistenziale, il torpore e il senso di sconfitta da cui il protagonista non riesce a ridestarsi. In

questo film Antonioni recupera in pieno l’interesse per il mondo del lavoro industriale che aveva

caratterizzato già alcuni dei suoi cortometraggi documentari: Aldo è però un proletario il cui

profondo disagio non può incanalarsi nelle forme consuete della lotta di classe (rivendicazione di

diritti, di aumenti salariali ecc.), perché ha un’origine esistenziale più profonda. Questo non significa

che il suo malessere non sia legato alla società industriale che avanza (l’Italia entrava negli anni

del boom): il paesaggio periferico del film è costellato dalle architetture e dai simboli di un

progresso (fabbriche, pompe di benzina, cantieri) che pure sembra lontano anni luce dal vissuto

individuale del protagonista. Al benessere economico fa da contraltare il malessere esistenziale,

sembra dire Antonioni, proprio perché l’uomo ha perduto un rapporto più armonico col paesaggio

ed è invece irrimediabilmente alienato. Il vagabondaggio del protagonista, in cui si succedono

incontri, tutti provvisori, con diverse figure femminili, diventa un girare a vuoto profondamente

doloroso, che non potrà che concludersi male. Antonioni usa il tempo in modo del tutto peculiare,

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indugiando su alcuni episodi, anche grazie ad una spiccata propensione per il piano sequenza, ed

operando viceversa ellissi significative. Il risultato di tutto questo è che nella seconda metà del film

risulta piuttosto difficile, per lo spettatore, capire quanto tempo sia effettivamente passato nel

mondo diegetico: un disorientamento temporale che restituisce bene la dimensione di sconforto

profondo che caratterizza il male oscuro della depressione.

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3. La tetralogia dell’incomunicabilità

Il cinema di Antonioni giunge a questo punto alla sua piena maturazione, con la cosiddetta

“tetralogia dell’incomunicabilità”: L’avventura (1960), La notte (1961), L’eclisse (1962) e Deserto

rosso (1964). Si tratta di quattro film accomunati da una medesima ricerca stilistica e tematica,

estetica ed esistenziale, con cui il regista ottiene la consacrazione definitiva presso la critica e il

pubblico. Interprete di tutti e quattro i film è Monica Vitti, in quegli anni compagna e musa del

regista, che diventa con questi film una delle principali attrici drammatiche italiane (saprà in

seguito reinventarsi in modo assai significativo anche nella commedia).

Nella tetralogia Antonioni porta a compimento la propria operazione di smantellamento

delle regole del cinema classico. Ciò avviene a tutti i livelli della messa in scena, ovvero in relazione

sia alla struttura narrativa, che all’articolazione del montaggio e alla configurazione della singola

inquadratura.

A livello della struttura narrativa vediamo infatti la sostituzione del principio di causa-effetto

con un andamento episodico e lacunoso. Con L’avventura, l’idea di prendere la struttura di un

film di suspense e rivoltarla su sé stessa, già intravista in Cronaca di un amore, viene portata alle sue

estreme conseguenze: Guido Fink conierà a tal proposito la fortunata espressione di “giallo alla

rovescia”3. Il film sembra infatti organizzare la propria vicenda intorno alla misteriosa scomparsa del

personaggio di Anna (Lea Massari), di cui il compagno e la migliore amica (Gabriele Ferzetti e

Monica Vitti) si mettono subito alla ricerca. Ma non solo la scomparsa di Anna durante una gita in

barca insieme agli amici sfida radicalmente ogni comprensione logica (è davvero come se ella

fosse svanita nel nulla), ma il film stesso finisce per deragliare, e più che raccontare l’indagine su

Anna descrive il progressivo e problematico emergere di un sentimento tra i due personaggi che

provano a rintracciarla.

A livello del montaggio invece, esso non è adoperato per far orientare agevolmente lo

spettatore nella diegesi, sforzandosi cioè, come avveniva nel cinema classico, di rendere chiaro,

3
Guido Fink, Antonioni e il giallo alla rovescia, in «Cinema nuovo», anno XII, n. 162, 1963, pp. 100-106.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da
copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).

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leggibile, perfino ‘abitabile’ lo spazio finzionale. Al contrario, il montaggio confonde le acque e

modifica la nostra percezione della conformazione geografica di un luogo fino all’indecidibilità: si

pensi alla lunga sequenza della ricerca di Anna in L’avventura, dove l’isolotto di Lisca Bianca

sembra a tratti molto grande e in altre inquadrature quasi claustrofobico.

Infine, anche a livello della configurazione dell’inquadratura, l’adozione del formato

panoramico permette al regista di costruire delle inquadrature decentrate, in cui ci siano più poli

d’attenzione anziché una struttura armonica ed ordinata. Se nel cinema classico la misura su cui si

calibrava l’intera rappresentazione era la figura umana, ora invece l’uomo ha evidentemente

perduto la sua centralità, e il paesaggio smette di essere un semplice sfondo, uno specchio o un

riverbero per i sentimenti e le sensazioni dei personaggi. Al contrario, il mondo assume una sua

significanza autonoma, restituendo irrimediabilmente all’uomo e alla donna la sensazione della

loro marginalità e insignificanza. Fin dall’inizio della carriera di Antonioni, d’altronde, non si contano

gli indugi della macchina da presa prima e dopo che il personaggio ha abbandonato

l’inquadratura.

L’ambiente tende insomma a prendere il sopravvento sui personaggi, e questo discorso

vale sia per i paesaggi siciliani dell’Avventura che per gli spazi urbani dei due film successivi: le

passeggiate milanesi di Jeanne Moreau in La notte servono a raccontare una profonda crisi di

coppia, mentre gli spazi dell’EUR di Roma in L’eclisse, che sembrano fantascientifici pur essendo

reali, sono lo scenario perfetto per sancire la profonda discrasia del rapporto tra umanità e

ambiente circostante. I due amanti del film (Alain Delon e Monica Vitti), la cui relazione è ormai ad

un’impasse, si daranno appuntamento, nel finale del film, ad un incrocio del quartiere nel

quadrante meridionale di Roma. Nessuno dei due si presenterà, ma la macchina da presa

indugerà ciononostante tra strade e palazzine (mentre si accendono le luci al neon), in quella che

è forse la punta più metafisica della produzione di Antonioni (il regista ha più volte dichiarato di

essere tentato dal cinema totalmente astratto, senza mai decidersi però a sperimentarlo

concretamente).

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L’ultimo film della tetralogia, Il deserto rosso (1964), segna una svolta nella carriera di

Antonioni grazie all’utilizzo del colore. Il film approfondisce il discorso sul capitalismo industriale che

abbiamo visto attraversare la carriera antonioniana sin dagli anni Quaranta attraverso una

sperimentazione cromatica straordinaria: verdi, grigi, gialli, rossi compaiono sullo schermo al di là di

ogni rigorosa plausibilità. Quello che interessa all’autore non è d’altronde la verosimiglianza, ma

l’indagine del disagio della protagonista, che si muove tra spazi sconnessi e detriti industriali nel

tentativo di uscire dalla propria gabbia esistenziale.

I film della tetralogia si concentrano dunque sulla cosiddetta “malattia dei sentimenti”, sulla

difficoltà di comprendere e comunicare il proprio sentire, a fronte dell’irriducibile alterità dei propri

interlocutori, anche se con essi si intrattiene una relazione amorosa. Al centro di questo discorso

sull’incomunicabilità e l’alienazione c’è la figura di Monica Vitti, ‘pedinata’ da Antonioni con una

macchina da presa che, più che descriverne le azioni, vuole coglierne gesti, movimenti ed

espressioni minime, in una sorta di coreografia che sembra avere più a che fare con lo studio della

fisicità del personaggio che non con la penetrazione della sua verità psichica, che rimane rimossa,

insondabile.

Il cinema di Antonioni è così un cinema che si spinge a investigare le tessiture del reale e

del vissuto umano, non per coglierne una visione unitaria e chiara, ma al contrario incontrandosi

con la difficoltà a trarne un senso, a trasformare la molteplice materia del mondo e dell’individuo

in una storia con un inizio, uno sviluppo e una fine. La spinta all’indagine è essenziale, per il cinema

di Antonioni, ma al contempo esso è animato anche da una spinta autoriflessiva in cui ci si

interroga sull’atto stesso del proprio guardare, della propria percezione. Se nel cinema classico

l’atto del guardare non era problematizzato, il moderno si caratterizza viceversa per la sua

continua domanda sul funzionamento del medium, per la sua dimensione fortemente

autoriflessiva. Proprio per questo il cinema di Antonioni è eminentemente moderno. È proprio nella

coesistenza di una spinta insopprimibile ad avvicinarsi al mondo e al soggetto con la macchina da

presa, e di una istanza metacinematogafica che trasforma quella spinta in un oggetto di riflessione

esplicita, che sta la caratteristica fondamentale della modernità cinematografica.

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4. La filosofia dello sguardo

Antonioni aveva ormai raggiunto fama internazionale, e firmò un contratto con la Metro

Goldwyn Mayer per tre film in lingua inglese. Il primo è Blow-up, liberamente adattato da un

racconto di Julio Cortázar e ambientato nella Swinging London degli anni Sessanta. Il film è ancora

una volta un giallo potenziale, la cui struttura finisce però letteralmente per sgranarsi di pari passo

con gli ingrandimenti dell’immagine fotografica su cui si basa il mistero. In questo caso, infatti, il

rovesciamento della trama di suspense non serve più alla disamina di una crisi esistenziale, ma è

bensì l’occasione per una riflessione esplicita sui temi del vedere e del conoscere. Blow-up è

dunque un film autenticamente teorico, un saggio sul concetto e sul problema dello sguardo, e in

quanto tale è considerato una vera e propria pietra miliare della storia del cinema. La vicenda si

incentra sulla figura di un fotografo (David Hemmings), che si divide tra servizi di moda e reportage

‘neorealisti’, ma tratta i suoi soggetti, che essi siano modelle o clochard, sempre con lo stesso

distacco, come se fossero oggetti. Durante una passeggiata in un parco, il protagonista (nel film

non se ne dice mai il nome, ma nella sceneggiatura veniva chiamato Thomas, nome da sempre

connotato, sin da San Tommaso, dall’urgenza di vedere per poter credere) si imbatte nelle

effusioni di una coppia adulterina, alla quale ruba alcuni scatti. Sviluppando le immagini si renderà

conto di aver fotografato, forse, molto più di quanto non si fosse reso conto, scorgendo

nell’ingrandimento delle proprie foto le tracce di un revolver che emerge dai cespugli e, più avanti

nella sequenza di immagini, di un cadavere. Il film sembra dunque supportare l’idea della

fotografia come strumento efficace per una documentazione della realtà autenticamente

rivelatrice: questo medesimo schema narrativo era ad esempio al centro di un film come Call

Northside 777 (Chiamate Nord 777, H. Hathaway, 1948), un noir in cui grazie a questa tecnica si

riusciva effettivamente a scagionare due uomini ingiustamente condannati per omicidio. In

Antonioni invece i tentativi del protagonista di arrivare a scoprire una verità concreta e tangibile

per mezzo dell’immagine vengono alla fine frustrati, nonostante ad un certo punto egli rinvenga il

cadavere in questione: anziché chiamare la polizia, Thomas si fa distrarre dalla confusione della

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movida londinese, e la mattina dopo il cadavere è scomparso, e al giovane non resta che iniziare

ad unirsi ad un gruppo di mimi sopraggiunti intanto sulla scena, e iniziare a giocare a tennis con

una pallina immaginaria. Il film richiede evidentemente una lettura allegorica, va interpretato

come riflessione sull’ambiguità e l’inafferrabilità della realtà. Il protagonista, ottenebrato dal

proprio atteggiamento voyeuristico e arrogante, si illude di poter trasformare il reale in un oggetto

tangibile. Al contrario, anziché illuderci di poter catturare il vero (con gli occhi o con i dispositivi

foto-cinematografici a nostra disposizione), dobbiamo rassegnarci alla sua inestricabile

commistione con il falso, con le nostre proiezioni e desideri. Il finale ludico del film, con la partita di

tennis, sembra suggerire la necessità di abituarsi per l’appunto a giocare consapevolmente con

l’intreccio tra mondo reale e il registro della nostra fantasia soggettiva. Proprio tale intreccio è in

effetti, sembra dire Antonioni, il registro principale della nostra esperienza ed il fondamento vero e

proprio della nostra identità. Non a caso, nell’ultima inquadratura, è il protagonista stesso a

scomparire, lasciando tutto lo spazio dell’immagine al prato verde del parco: ancora una volta

un’immagine che smentisce ogni illusorio antropocentrismo incentrato su una concezione realistica

del dispositivo cinematografico4.

Nel 1970 Antonioni realizzò poi negli Stati Uniti Zabriskie Point, uno dei film simbolo della

stagione post-sessantottina. Il film racconta della storia d’amore tra due giovani ribelli, che

fuggono dalle imposizioni della società capitalistica: sono rimaste celebri due scene, molto

significative in relazione al clima dell’epoca. Nella prima, i due giovani fanno l’amore nella Death

Valley (la Valle della Morte nel deserto californiano che era stata anche scenario di tanti film

western) e magicamente l’intera distesa desertica si riempie di altre coppie intente a fare sesso. In

questa scena assistiamo insomma ad una vera e propria inversione del discorso portato avanti

finora dal regista, in cui lo spazio sembrava svuotarsi di persone, per dare piena misura della

solitudine abulica della modernità. Qui invece, la forza erotica della ribellione giovanile riesce

4
Blow-up è un film che ha segnato profondamente la storia del cinema, ispirando tutta una serie di ulteriori riflessioni
sul vedere (Profondo rosso, D. Argento, 1975, con la celebre scena dell’omicidio; Blade Runner, R. Scott, 1982, con la
sequenza dell’ingrandimento computerizzato; finanche le prime stagioni di Stranger Things, Netflix 2016-, con i
dettagli del mondo del Sottosopra nascosti prima in uno scatto fotografico e poi, nella seconda stagione, nel nastro di
una videocassetta), ma anche sulla dimensione uditiva del nostro rapporto con il mondo (The Conversation, La
conversazione, F. F. Coppola, 1974; Blow Out, B. De Palma, 1981).

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addirittura a riempire, per quanto soltanto allegoricamente, uno spazio deserto ed anzi marcato

sin dal nome come mortifero. D’altronde non si può dire che eros trionfi del tutto su thanatos nel

film, perché la sequenza finale riprende a varie velocità, e da ben diciassette punti di vista diversi,

l’esplosione di una villa di Frank Lloyd Wright, (un capolavoro dell’architettura già usato da Alfred

Hitchcock in North by Northwest, Intrigo internazionale, 1959) e di altri simboli del benessere

capitalistico, a concretizzare la voglia della nuova generazione di distruggere e sradicare

completamente un sistema percepito come socialmente ingiusto ed esistenzialmente aberrante.

Antonioni diresse poi Jack Nicholson in Professione: reporter (1975), ancora una volta un

giallo impossibile il cui protagonista è un giornalista televisivo, immerso in una storia ambientata in

Africa e in Spagna e incentrata sui temi dell’ambiguità del reale e dello sdoppiamento

dell’identità. Memorabile anche qui la scena finale, un piano sequenza di sette minuti

tecnicamente davvero prodigioso (la macchina da presa attraversa letteralmente una grata!). Il

piano sequenza ha qui “lo scopo contrario rispetto a quello ricercato dalla stessa figura di stile

nell’Antonioni dei primi anni: non si tratta più di inseguire i personaggi, di pedinarli costantemente,

ma di allontanarsi da essi a tutti i costi, in un movimento di fuga”5. Ulteriore conferma, dopo la

parentesi estatica di Zabriskie Point, della rottura di ogni rapporto armonico tra la percezione

umana e una realtà che rimane imperscrutabile.

Antonioni si cimentò poi con il mezzo televisivo, realizzando un lungometraggio in video, Il

mistero di Oberwald (1980), e tornò ancora al cinema con Identificazione di una donna (1982),

che riprende i temi della creatività e tematizza esplicitamente lo spostamento della ricerca

d’ispirazione dal volto di un’attrice musa (come lo era stata Monica Vitti per Antonioni) alla vera e

propria fonte originaria di ogni immagine, ed anzi della vita stessa: il sole, su un’insistita immagine

del quale si conclude l’ultima inquadratura del film.

A partire dalla metà degli anni Ottanta gravi problemi di salute (nel 1985 un ictus lo lascia

semiparalizzato e privo di parola) costrinsero Antonioni ad interrompere per molto tempo l’attività.

5
Altiero Scicchitano, Michelangelo Antonioni, in “Enciclopedia del Cinema”, Treccani, 2003, disponibile al seguente
indirizzo: http://www.treccani.it/enciclopedia/michelangelo-antonioni_%28Enciclopedia-del-Cinema%29/.

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Almeno fino al 1995, quando grazie all’aiuto dell’amico cineasta tedesco Wim Wenders, riuscì a

realizzare un film a episodi, Al di là delle nuvole, tratto da alcuni racconti presenti nella sua

raccolta Quel bowling sul Tevere (1983). E ancora nel 2004, il suo cortometraggio Il filo pericoloso

delle cose, tratto da un altro racconto del libro Quel bowling sul Tevere, è stato inserito assieme ad

altri due episodi firmati da Wong Kar Wai e Steven Soderbergh, nel film Eros.

Vincitore, nell’arco del tempo, del Leone d’Oro a Venezia (per Deserto rosso) e della Palma

d’Oro a Cannes (per Blow-up), Antonioni venne insignito anche di un Oscar alla carriera nel 1995.

Si spense poi a Roma, ormai novantaquattrenne, il 30 luglio 2007.

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Indice

1. DAL NEOREALISMO AL CINEMA POLITICO ........................................................................................... 3


2. FRANCESCO ROSI .................................................................................................................................. 8
3. ELIO PETRI .............................................................................................................................................. 11
4. IL THRILLER POLITICO E IL POLIZIOTTESCO ........................................................................................... 14
BIBLIOGRAFIA................................................................................................................................................ 16

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1. Dal neorealismo al cinema politico

L’impegno a denunciare i mali della società ha costituito una delle caratteristiche del

cinema italiano dall’epoca del neorealismo. Quest’ultimo movimento però, collocando il proprio

punto di vista in una posizione di prossimità a quella della povera gente, è più intento a costruire

una critica dell’ineguaglianza delle strutture di classe che non una vera e propria disamina del

funzionamento politico della società. In altre parole, i film neorealisti hanno senza dubbio un

portato politico notevole, ma esso risiede nell’istanza cronachistica con cui si vuole raccontare la

vita dei soggetti subalterni, collocati spesso ai margini della città e sicuramente lontano dalle

stanze del potere. Proprio per questo, il neorealismo non si occupa di una disamina diretta del

potere stesso, delle sue strutture e dei suoi meccanismi.

Certo, l’adesione neorealista al mondo ripreso dal vero, girando il più possibile in esterni

reali, con luce naturale e interpreti non professionisti, costituisce di per sé una presa di posizione

forte. E infatti il cinema di De Sica, Zavattini, Rossellini e gli altri non mancò di scatenare le ire della

classe dirigente democristiana dell’epoca, che sperava di proiettare un’immagine diversa

dell’Italia, più positiva, nel momento in cui il paese si avviava verso la ricostruzione postbellica e,

lentamente, il benessere economico. Ciononostante, quello neorealista non è un cinema

esplicitamente politico perché non fa della politica il proprio argomento di discussione specifico, il

proprio tema. Ciò sarebbe d’altronde stato impossibile, nel clima dell’epoca: le ferite relative al

fascismo erano ancora troppo fresche perché si potesse davvero condurre una disamina

spassionata delle logiche che avevano governato l’Italia durante il ventennio, e delle rotture e

continuità che si potevano rilevare con la situazione del dopoguerra. Lo spettro del fascismo

aleggiava inevitabilmente sul cinema del dopoguerra, ma esso veniva raramente evocato in

modo diretto: per lo più, ai mali del fascismo si alludeva tramite riferimenti obliqui nel dialogo o

tramite l’utilizzo, in chiave tutta negativa, dell’architettura di regime (si veda l’uso dell’EUR in Roma

città aperta, Rossellini, 1945; dei ponti di Roma nord in Ladri di biciclette, De Sica, 1948 o della Città

universitaria in Gioventù perduta, P. Germi, 1948). Fa eccezione a questo proposito, una trilogia di

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commedie dirette da Luigi Zampa (Anni difficili, 1948; Anni facili, 1953 e Anni ruggenti, 1962) con cui

il regista compì una sferzante satira della corruzione e del trasformismo politico italiano prima e

dopo la caduta della dittatura.

Solo con gli anni Sessanta si assistette, però, ad un cambiamento significativo, legato

evidentemente sia al sopraggiungere della sufficiente distanza temporale dagli anni del fascismo,

che ad alcune metamorfosi socioculturali più ampie, i cui effetti toccano poi anche gli assetti

politici veri e propri (nel dicembre 1963 si varò il primo governo di centro-sinistra, cui partecipa cioè

anche il Partito Socialista assieme alla Democrazia cristiana). Se gli anni Cinquanta erano ancora

caratterizzati da un assordante silenzio per quello che riguarda gli aspetti più dolenti delle politiche

fasciste, in primis la persecuzione degli ebrei e le leggi razziali, col nuovo decennio il dibattito sulla

memoria poté finalmente accendersi, e vennero realizzati numerosi film che guardano indietro ai

fatti di quindici/vent’anni prima proponendone analisi assai acute: Il generale della Rovere (1959)

ed Era notte a Roma (1960) di un veterano come Roberto Rossellini, La lunga notte del ’43 (F.

Vancini, 1960), Il gobbo (C. Lizzani, 1960), Tiro al piccione (G. Montaldo, 1961), Le quattro giornate

di Napoli (N. Loy, 1962), Tutti a casa (1960) e La ragazza di Bube (1963), entrambi di Luigi

Comencini.

Al tempo stesso, si inaugurò un filone di riflessione esplicita sui meccanismi del potere, che

costituirà una tendenza molto importante del cinema italiano soprattutto a partire dalla fine del

decennio1. Di fatto, con la progressiva politicizzazione della società italiana, si formò un pubblico di

massa di orientamento progressista ben predisposto ad un cinema di maggior impegno sociale.

Registi come Francesco Rosi, Elio Petri e Damiano Damiani, di cui parleremo in dettaglio più avanti,

ma anche Giuseppe Ferrara (Il sasso in bocca, 1970) e Marco Bellocchio (Sbatti il mostro in prima

pagina, 1972), approfittando del fatto che le maglie della censura si erano significativamente

allentate, realizzarono film direttamente ispirati all’attualità politica, che prendevano apertamente

posizione su problematiche prima ignorate, quali la mafia, la corruzione politica, la speculazione

1
In questi stessi anni, anche la commedia partecipa all’italiana, naturalmente, di una disamina spietata e corrosiva del
malcostume italico negli anni del boom: si pensi ad esempio a film come Il medico della mutua (1968), del veterano
Zampa, o Una vita difficile (1960), I Mostri (1963) e In nome del popolo italiano (1971), tutti diretti da Dino Risi.

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edilizia, il ruolo della stampa nella formazione dell’opinione pubblica. Furono anche rivisitati altri

momenti della storia italiana in chiave fortemente critica: si pensi alle ricostruzioni storiche di

Giuliano Montaldo (Sacco e Vanzetti, 1970 e Giordano Bruno, 1973) e Florestano Vancini (Bronte

cronaca di un massacro, 1972 e Il delitto Matteotti, 1973). Gli sceneggiatori che più fortemente

plasmarono questa stagione furono Franco Solinas e Ugo Pirro, mentre l’attore simbolo del cinema

politico, quello che più d’ogni altro seppe incarnare sia il volto grottesco del potere che quello

delle classi subalterne, fu Gian Maria Volontè, interprete di grandissima intensità e versatilità noto

per essere esplicitamente impegnato a sinistra anche fuori dal set.

L’obiettivo del cinema politico era, in generale, quello di portare all’attenzione

dell’opinione pubblica le pesanti contraddizioni con cui doveva confrontarsi l’ancor giovane

Repubblica italiana. Non si trattava però, beninteso, di un cinema che cercava un intervento

diretto nell’agone politico, nel senso che questo tipo di produzione, pur trasmettendo in modo

chiaro il proprio punto di vista e pur portando in modo inequivoco la propria critica alla società

italiana, non aderiva dichiaratamente alla prospettiva di una parte politica precisa, di un partito o

di un movimento specifico. In questo senso, il cinema politico va distinto da quello che possiamo

definire più strettamente come cinema militante. Questa espressione fu coniata in riferimento ai

movimenti cinematografici esplicitamente legati alle rivolte politiche della fine degli anni Sessanta,

e connota anche il cinema realizzato in relazione alle lotte di indipendenza dei Paesi del Sud del

mondo, di impronta prevalentemente documentaristica e ideologica 2. Il cinema militante è spesso

concretamente finanziato da partiti o movimenti politici, non ha scopo di lucro ma di propaganda

e non si giova, di solito, dei consueti circuiti distributivi nelle sale. Il movimento di rivolta sociale che

caratterizzò il Maggio francese, nel 1968, fu, ad esempio, fortemente sentito e partecipato da un

cineasta come Jean-Luc Godard, che girò, insieme al Gruppo Dziga Vertov (un collettivo il cui altro

membro fondamentale, oltre a Godard, era Jean-Pierre Gorin), una serie di film militanti tra cui si

annoverano anche le coproduzioni franco-italiane Lotte in Italia (1971) e Crepa padrone, tutto va

2
Su questo si veda: Sergio Di Giorgi, Cinema politico, in “Enciclopedia del Cinema”, Treccani, 2004, disponibile al
seguente indirizzo: http://www.treccani.it/enciclopedia/cinema-politico_%28Enciclopedia-del-Cinema%29/.

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bene (1972). In Italia, invece, un cineasta autenticamente militante fu Ugo Gregoretti, che realizzò

due preziose pellicole documentarie, Apollon: una fabbrica occupata (1969) e Il contratto (1970),

con cui cercava un intervento politico diretto nella lotta per il miglioramento della condizione

operaia.

Il tentativo, sia nel caso del cinema militante che in quello del cinema più ampiamente

politico, è quello di rendere coerenti la forma e il contenuto: si cerca cioè un nuovo modo di

guardare alla società, al di fuori dalla versione della Storia ufficiale, e dunque di pari passo si

cercano anche modalità innovative di rappresentazione e di messa in scena. Tanto il cinema

politico che quello militante sono insomma attraversati da una tensione che è sia politica che

stilistica, ma laddove il cinema militante opta, generalmente, per il registro documentario, il

cinema politico rimane un prodotto di finzione, pur ibridando spesso, nel caso in cui sia basato su

una vicenda realmente accaduta, la ricostruzione recitata dei fatti con interviste e materiali di

repertorio3.

Il filone politico ha di fatto due punti di riferimento, due tipi di cinema a cui guardare come

modelli. Da una parte, c’è il neorealismo, con la sua spinta cronachistica, da cui discende la

tendenza, evidente soprattutto in Rosi, ad ibridare la dimensione narrativa con le forme

dell’inchiesta4. Il risultato è una forma decostruttiva e autoriflessiva di chiaro impianto modernista.

Dall’altra parte, c’è il cinema di indagine sociale hollywoodiano, con il suo stile visivo decisamente

marcato (da All the King’s Men, Tutti gli uomini del re, R. Rossen, 1949 a Deadline USA, L’ultima

minaccia, R. Brooks, 1952, dal cinema di Frank Capra a quello di Elia Kazan, fino alle punte più

3
Un discorso a parte, all’interno del cinema politico, lo meriterebbe Gillo Pontecorvo, i cui film sono caratterizzati sia
da una propensione per la spettacolarizzazione delle dinamiche socio-storiche messe in atto (criticatissimo in questo
senso fu Kapò, 1960, accusato di trasformare la sofferenza dei lager nazisti nella fonte di un sentimentalismo osceno)
ma anche da uno sperimentalismo intensissimo e da un’intenzione politica molto netta e lucida: si veda ad esempio il
bellissimo La battaglia di Algeri (1966), dedicato alla guerra di liberazione algerina, un film per molti aspetti assai
vicino ai prodotti del cinema militante vero e proprio.
4
Naturalmente, pur essendo il neorealismo e il cinema hollywoodiano le esperienze che ebbero influenza più diretta sul
cinema politico, parimenti occorre menzionare anche l’esempio di tanti altri momenti e movimenti della storia del
cinema che erano stati animati da precisi intenti ideologici ed avevano avuto la capacità di un proporre un intervento
autenticamente politico sull’immaginario: dalla grande tradizione documentaria internazionale all’avanguardia sovietica
di Ejzenštejn, fino al realismo poetico francese. La grande ondata di innovazione internazionale degli anni Sessanta – la
Nouvelle Vague, innanzitutto, ma anche il Free Cinema inglese, le cinematografie ceca e polacca ecc. – stavano
proseguendo su questa linea, con cui il cinema politico e militante è evidentemente in comunicazione.

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politicizzate del cinema noir). Questa modalità di intensificazione della messa in scena è spinta

talvolta fino al registro del grottesco: è il caso soprattutto di Elio Petri, il cui cinema fu infatti spesso

attaccato perché troppo spettacolare, troppo incline ad indulgere nella comicità (per quanto

sempre caustica) e nel barocchismo. Di fatto, anziché aderire ad istanze strettamente realiste, il

cinema politico opta per uno stile forte, perché non concepisce il coinvolgimento degli spettatori

tramite strategie narrative e formali finanche spettacolari come antitetico alla riflessione

d’impegno civile.

Il genere perse vigore dopo la metà degli anni Settanta, di pari passo con l’affievolirsi della

spinta alla contestazione che aveva animato per un decennio la realtà italiana. Gli anni Ottanta

segnano infatti, sul piano sociale, un ripiegamento sul privato e la parziale rinuncia al fervore

politico che aveva fino a quel momento infervorato il dibattito nazionale.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da
copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).

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2. Francesco Rosi

Rosi (1922-2015) fu il vero apripista del cinema politico, anticipando nettamente, da un

punto di vista cronologico, gli altri autori del filone. Il regista napoletano esordì nel lungometraggio

nel 1958, con La sfida, resoconto dell’ascesa e caduta di un piccolo trafficante che riesce farsi

strada nelle strutture della camorra partenopea. Rosi mostra già perfetta padronanza dello stile,

mischiando la lezione del neorealismo (l’utilizzo di molti attori non professionisti; la propensione al

piano sequenza; una grande sensibilità per gli ambienti ripresi dal vero e antropologicamente

esatti) con quella del cinema noir americano (Thieves’ Highway, Il corsaro della strada, J. Dassin,

1949) e di Elia Kazan (soprattutto On the Waterfront, Fronte del porto, 1954). Questa capacità di

fondere uno stile potente con l’analisi lucida dei meccanismi economici e di sfruttamento della

malavita la ritroviamo anche nell’opera successiva, I magliari (1959), incentrata sul fenomeno

dell’emigrazione italiana in Germania.

Fu però con Salvatore Giuliano (1962) che Rosi divenne un autore di punta del cinema

nazionale, perfezionando un proprio metodo personale assai originale, che consisteva nel proporre

una sorta di documentario ricostruito sul modello del giornalismo di denuncia, senza tuttavia

rinunciare a personaggi di forte rilievo narrativo. Il film ruota intorno alla figura – realmente esistita,

ma carica di un alone misterioso e leggendario – del bandito Giuliano, e intende investigare i

possibili rapporti tra mafia e politica nell’Italia degli anni Quaranta. Rosi sceglie di dare pochissimo

spazio sullo schermo all’uomo che pure dà titolo al film (evocato per lo più in absentia), optando

invece per una ricostruzione chirurgica del complesso nodo politico-economico di cui si

avvantaggiò, avvantaggiava e avvantaggia Cosa Nostra. La complessa struttura a flashback del

film è rimasta un modello per il cinema d’inchiesta, perché riesce a connettere in modo assai

efficace il passato e l’attualità.

Una maggiore linearità caratterizza invece la struttura di Le mani sulla città (1963), film

sull’intreccio fra politica e speculazione edilizia nella Napoli dell’epoca. Rosi prende nuovamente

in prestito parte dell’estetica del noir (fotografia chiaroscurata, musica jazz) e struttura tutto il film

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intorno all’alternanza tra riprese dello spazio urbano dall’alto (simbolo dei poteri che controllano

nascostamente la vita metropolitana), la riproduzione del territorio di Napoli tramite mappe (la

cartografia è qui mostrata nella sua alleanza con gli interessi del capitale più bieco) e l’esperienza

della città dal basso (il livello strada a cui accedono le persone comuni, che il potere manipola

con le proprie oscure macchinazioni). Nel magma degli intrighi messi in scena con implacabile

precisione dal film emergono quattro figure di rilievo: il costruttore edile Edoardo Nottola (Rod

Steiger), il mellifluo Maglione (Guido Alberti) e il grande tessitore De Angeli (Salvo Randone), cui si

oppone, dalla parte dei ‘buoni’, il consigliere De Vita, interpretato da Carlo Fermariello, vero

consigliere comunale di Napoli all’epoca.

Dopo essersi dedicato a pellicole di genere e tono diversi, Rosi torna al cinema politico

negli anni Settanta: con Il caso Mattei (1972) analizza nuovamente, come in Salvatore Giuliano, un

personaggio storico, ovvero il presidente dell’ENI Enrico Mattei, morto misteriosamente in un

incidente aereo dieci anni prima. Del film precedente, Rosi riprende la frantumazione di una

cronologia ordinata e gli stilemi da reportage televisivo. Questa volta però la figura di Mattei è il

centro nevralgico della narrazione: le sue battaglie e le sue sfide, cui Rosi guarda con

ammirazione, sono rese perfettamente dall’interpretazione di Gian Maria Volonté, ed il film è

veramente efficace nel descrivere il rapporto tra dinamiche economiche, interventismo statale,

politiche coloniali, ingerenze americane e corruzione che hanno segnato lo sviluppo industriale del

nostro paese.

La stessa tecnica viene ripresa anche nella prima parte di Lucky Luciano (1973), biografia

del mafioso italoamericano (interpretato ancora da Volonté) che si rifugiò in Italia nell’immediato

dopoguerra e morì a Napoli nel 1962. Alle lotte interne alla mafia è dedicato anche Cadaveri

eccellenti (1976), tratto da Il contesto di Leonardo Sciascia, l’autore letterario italiano più spesso

oggetto di adattamenti da parte del filone del cinema politico italiano, di cui può essere

considerato un forte ispiratore, pur nell’ambito di un medium diverso. Rosi fu altresì autore anche di

una bella pellicola antimilitarista sulla Grande Guerra, Uomini contro (1970), dal memoriale di Emilio

Lussu Un anno sull’altipiano e, quando la stagione del cinema politico era ormai sostanzialmente

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passata, propose prestigiosi adattamenti delle opere di Carlo Levi (Cristo si è fermato a Eboli, 1979),

Gabriel García-Márquez (Cronaca di una morte annunciata, 1987) e Primo Levi (La tregua, 1997).

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3. Elio Petri

Petri, nato nel 1929, era figlio della Roma periferica e operaia e manifestò fin da

giovanissimo un forte interesse sia per il cinema che per la politica. Impegnato a partire

dall’adolescenza, nel dopoguerra, nel Partito Comunista italiano, iniziò contemporaneamente a

occuparsi di cinema lavorando nei primi cineclub, e poi come critico su «l’Unità» e «Gioventù

nuova».

Dopo aver esordito come sceneggiatore collaborando con Giuseppe De Santis (Roma ore

11, 1952, e Un marito per Anna Zaccheo, 1953) e Carlo Lizzani (Il gobbo), mosse i primi passi nella

regia con film di genere diverso: il giallo psicologico (L’assassino, 1961), un ritratto individuale

intimista ma tutt’altro che privo di valenze sociopolitiche (I giorni contati, 1962), la commedia

amara (Il maestro di Vigevano, 1963), la fantascienza distopica in chiave brillante (La decima

vittima, 1965). Trovò poi la propria cifra stilistica più personale adattando uno dei più importanti

romanzi di Sciascia, A ciascuno il suo (1967), in cui una descrizione ambientale appassionante

costruisce una puntuale denuncia della vischiosa ragnatela che lega mafia e potere. Il film segnò

l’inizio di due collaborazioni fondamentali, quella con Gian Maria Volonté e quella con lo

sceneggiatore Ugo Pirro, la cui capacità di penetrazione critica nel tessuto sociale risultò da quel

momento in poi inscindibile dal mondo cinematografico del regista.

Fu poi nel 1970, con il celeberrimo Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, che

Petri e Pirro raggiunsero i risultati più alti della propria collaborazione. In questo autentico

capolavoro, il rapporto tra l’individuo e le istituzioni del potere viene esaminato tramite le strutture

del thriller, la dimensione psicoanalitica e i toni del grottesco, del ridicolo, dell’iperrealismo. Volonté

delinea il ritratto di un commissario assassino indimenticabile, e la colonna sonora firmata da Ennio

Morricone è parimenti essenziale a creare l’atmosfera di vibrante tensione che permea tutto il film.

L’intensità delle opzioni formali per cui opta Petri, il cui stile è autenticamente febbrile in più

passaggi, servono a raccontare l’ambiguità e la schizofrenia degli apparati di potere. Il film

d’altronde sembra quasi preveggente, per il modo in cui esplica in maniera chiarissima, ma mai

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didascalica, gli elementi che saranno in gioco nell’Italia degli anni di piombo, col conflitto tra

ribellione studentesca e strutture repressive della società e l’emergere della lotta armata. Il film fu

realizzato prima dell’avvio di quella stagione, prima dell’inizio della strategia della tensione, prima

cioè della strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969. Ma uscendo nelle sale un mese dopo di

quei tragici eventi, rischiò di incorrere nella censura perché sembrava toccare dei nervi davvero

troppo scoperti in quel passaggio assai difficile della Storia nazionale. L’enorme successo di

pubblico che lo accolse condusse invece Petri fino al Gran premio speciale della giuria al Festival

di Cannes e all’Oscar per il Miglior film straniero l’anno successivo.

Il regista fece seguire a questa consacrazione internazionale, programmaticamente, un

piccolo film militante, Tre ipotesi sulla morte di Giuseppe Pinelli (1970), ricostruzione polemica degli

accadimenti che avevano portato alla morte del ferroviere anarchico Pinelli, precipitato da una

finestra della questura di Milano la notte del 15 dicembre 1969, durante le indagini circa le

responsabilità del summenzionato attentato di Piazza Fontana.

Col lungometraggio successivo, La classe operaia va in paradiso (1972), Petri ottenne

invece la Palma d’Oro a Cannes: il film, ancora una volta interpretato dal magnetico Volonté,

mette in scena le drammatiche condizioni psicofisiche cui erano ridotti gli operai industriali

dell’epoca. Adottando nuovamente uno stile carico, espressionista, rabbioso e talvolta surreale,

Petri conferma la natura radicalmente anticonformista del suo lavoro, l’aperto furore contro le

ingiustizie sociali ed anche un certo livello di nichilismo.

Incisive anche le opere successive: in La proprietà non è più un furto (1973), con Ugo

Tognazzi, lo humor nero si mischia ad una forma di straniamento d’ispirazione brechtiana, cui

contribuisce la colonna sonora dodecafonica di Morricone. Il risultato fu però un insuccesso

commerciale. Petri tornò allora al mondo letterario di Sciascia con Todo modo (1976),

rappresentazione barocca, funebre e apocalittica del tramonto dell’intera classe politica

democristiana che, mescolando analisi politica, implicazioni psicoanalitiche e rabbia iconoclasta,

non arretra di fronte a una dimensione di autentica violenza.

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Tra i suoi ultimi lavori, prima della prematura scomparsa nel 1982, il film per la televisione Le

mani sporche (1977), adattamento da Jean-Paul Sartre, e Le buone notizie (1979), apologo sul

potere dei media interpretato da Giancarlo Giannini.

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4. Il thriller politico e il poliziottesco

L’intreccio tra cinema politico e cinema di genere, in particolare il noir, il thriller e il

poliziesco, è già evidente, pur in maniera più indiretta, nell’opera di Rosi, ed emerge con ulteriore

chiarezza nell’opera di Petri. Ci sono poi altri autori che lavorano in modo più esplicito e sistematico

in questa direzione. A parte il caso sparuto di La banda Casaroli (1962), con cui Florestano Vancini

porta sullo schermo le vicende di un gruppo di banditi bolognesi animati anche da rigurgiti

superomistici fascistoidi, è soprattutto Carlo Lizzani, dopo la metà degli anni Sessanta, a realizzare

film che si collochino a cavallo tra le convenzioni del film di genere e il discorso di denuncia

sociopolitica. Veterano da sempre molto impegnato a sinistra, Lizzani dirige Svegliati e uccidi (1966)

e Banditi a Milano (1968), due interessantissime disamine di recenti eventi criminosi realmente

accaduti, realizzate con un sicuro piglio spettacolare che include anche l’utilizzo di inserti

documentari. Non a caso il primo film era già, come i successivi lavori di Petri, sceneggiato da Ugo

Pirro e musicato da Ennio Morricone, mentre il secondo ha tra i protagonisti l’ubiquo Gian Maria

Volonté.

L’altro autore di riferimento a proposito di questo discorso è Damiano Damiani, che

frequentò molti generi diversi (la commedia, l’horror), e con Quien sabe? (1966) diresse uno dei

western all’italiana più esplicitamente declinati nella direzione della denuncia sociale 5. Il nome di

Damiani è però rimasto legato a una serie di interessantissime disamine della società italiana

tramite il filtro del giallo (Il rossetto, 1960; Il sicario, 1961) e poi del thriller: Il giorno della civetta

(1968), adattamento da Sciascia, fu tra i film inaugurali del filone politico, e il regista vi dimostra una

tendenza epica assente nei film degli altri autori, facendo del proprio protagonista Franco Nero un

incorruttibile giustiziere metropolitano. La propensione per un gusto spettacolare non toglie nulla,

d’altronde, alla carica del film, e lo stesso può dirsi per la sua ricca produzione successiva, che

torna spesso ad affrontare la piaga della mafia: da La moglie più bella (1970) a Confessione di un

5
Tra gli altri western all’italiana dalle chiare implicazioni politiche: Faccia a faccia (S. Sollima, 1967) e Requiescant
(1967), del succitato Carlo Lizzani.

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commissario di polizia al procuratore della Repubblica (1971), da Perché si uccide un magistrato

(1975) a Un uomo in ginocchio (1979), da Pizza connection (1985) a Il sole buio (1990). Damiani

troverà enorme successo in ambito televisivo con La piovra, serie ancora di argomento mafioso, di

cui dirige la prima di ben dieci stagioni nel 1984. Ma se l’impeto strettamente politico rischia di

smarrirsi in alcuni di questi lavori più tardivi e più formulaici, importante rimane il contributo di

Damiani alla messa in racconto degli anni di piombo, con un film come Io ho paura (1977), tesa e

assai convincente disamina del terrorismo di destra e di sinistra dalla prospettiva di un uomo

qualunque, un brigadiere (Volonté) assegnato alla scorta di un giudice.

Il momento a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta è viceversa anche il momento in cui

viene a svilupparsi il genere del “poliziottesco”, con film anche rimarchevoli come La polizia

ringrazia (Steno, 1972) e La polizia incrimina la legge assolve (E. G. Castellari, 1973). Col termine

“poliziottesco” si designa una specifica variante del poliziesco, di matrice italiana, che sfrutta le

medesime tensioni che attraversano lo spazio sociale italiano al centro anche del cinema politico,

ma lo fa da un’ottica tendenzialmente qualunquista, ove non destrorsa, perché legata soprattutto

alle figure di integerrimi commissari di polizia disposti a tutto pur di combattere il dilagare senza

controllo della malavita sul territorio. Questa risposta sintomatica della società alle profonde

tensioni degli anni di piombo rappresenta in un certo senso l’inverso esatto del cinema politico di

cui abbiamo parlato fin ora. Se questo ambiva a mettere sempre in dubbio le strutture del potere,

sottolineandone l’ambiguità e la corruzione, il poliziottesco si colloca invece al lato opposto dello

spettro, glorificando la violenza giustizialista, spesso efferata e di certo oltre i confini della legge, dei

rappresentanti stessi dell’ordine: è soprattutto il caso di Roma violenta (F. Martinelli, 1975) e Napoli

violenta (U. Lenzi, 1976), entrambi incentrati sulla figura del commissario Betti interpretato da

Maurizio Merli, ma anche di Milano odia: la polizia non può sparare (U. Lenzi, 1974)

Alcuni di questi film sono comunque diventati, a ragion veduta, dei cult: in particolare la

produzione di Fernando Di Leo (Milano calibro 9, 1972; La mala ordina, 1972; Il boss, 1973; I padroni

della città, 1976) ha esercitato grande influenza su un cineasta come Quentin Tarantino e ha

dunque lasciato, proprio come il cinema politico, una traccia significativa nella storia del cinema.

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Indice

1 LE ORIGINI E I LIMITI................................................................................................................................. 3
2 IL BENESSERE A PORTATA DI SCHERMO ................................................................................................. 7
3 L’ARTE DEI CREATORI ............................................................................................................................. 10
4 SI CHIUDE IL SIPARIO ............................................................................................................................. 12
BIBLIOGRAFIA ................................................................................................................................................. 14

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1 Le origini e i limiti

Il 3 febbraio 1957 la televisione italiana iniziò a trasmettere la pubblicità, solo all’interno della

trasmissione Carosello. Il successo fu immediato. Gli italiani furono sedotti dall’originale connubio di

spettacolo, canzoni, varietà e messaggi commerciali.

Quella sera, alle 20:50, andò in onda il primo spot in assoluto fu quello della Shell in cui

Giovanni Canestrini, giornalista automobilistico e presidente dell’ACI, dava consigli sulla sicurezza

stradale.

Carosello nasce per la pressione delle industrie che nel dopoguerra ripresero a produrre in

grande e volevano un vettore di pubblicità più immediato di quelli in uso, e pure per l’interesse

economico dell’azienda RAI che già dopo tre anni aveva debiti per 2 miliardi.

Nasce perché il pubblico stava crescendo, sia numericamente che da un punto di vista

generazionale, e permette di trasformare la TV, oggetto di consumo occasionale, collettivo e

limitato, in un medium domestico di massa. Quando nasce Carosello la RAI conta 5494 dipendenti,

trasmette 2000 ore di TV l’anno: è già una grande azienda anche se non fa ancora notizia sui

giornali.

Ci vollero però le dimissioni del direttore RAI Gian Battista Vicentini, già presidente

dell’Azione Cattolica e soprattutto dell’Amministratore Delegato Alberto Guala, due cattolici dalle

idee piuttosto restrittive e intransigenti, contrari alla pubblicità in televisione perché già sostenuta

dall’abbonamento. Del resto anche in altri stati come GB, e Scandinavia le leggi non

permettevano pubblicità in televisione.

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Per far dimettere Guala, che era stato messo a capo della neonata Rai per la sua integrità

morale che però alla fine era divenuta un freno per l’azienda, fu posto in pratica quella che passò

come la “congiura dei mutandoni”. Fu quando, saputo per vie traverse che Papa Pio XII avrebbe

guardato la televisione una data sera, un funzionario, poco prima dell'inizio dello spettacolo in

diretta, ordinò alle ballerine di indossare delle calzamaglie di colore chiaro, in modo da farle

apparire praticamente a gambe nude, anche grazie al bianco e nero di bassa definizione

dell'epoca.

Il Pontefice ne fu scandalizzato e l'"Osservatore Romano" fu molto critico contro il governo.

Guala cerco di riparare e raccomandò che nelle puntate successive le ballerine si rimettessero le

sottane. Il sabato successivo un altro funzionario, provocatoriamente, diede disposizione alle

ballerine di indossare mutandoni chiusi fino alle caviglie. L'indomani tutta la stampa laica sparò

contro la RAI che prendeva ordini dal Vaticano e Guala, messo alla berlina, rassegnò le dimissioni il

28 giugno del 1956. Qualche anno più tardi si farà trappista.

I nuovi dirigenti, Antonio Carrelli, presidente, Rodolfo Arata direttore generale e Marcello

Rodinò amministratore delegato, aprirono finalmente l’azienda alla pubblicità. Decisione che

scatenò la dura opposizione della lobby della carta stampata che vedeva nella Televisione una

spietata concorrente.

Il primo Carosello, oltre la Shell, vide le réclame de: L’Oreal, con Mike Bongiorno; Singer con

Mario Carotenuto e Cynar con Carlo Campanini che, nel tempo, sarà sostituito dal mitico Ernesto

Calindri.

La sigla musicale era una tarantella napoletana di Raffaele Gervasio e fu scelta solo la

notte prima del debutto.

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I siparietti rappresentavano artisti da circo, musici in costumi bell’époque e ballerine.

Questi siparietti verranno in seguito sostituiti da vignette raffiguranti coppiette romantiche e

poi con località italiane: uno scorcio veneziano, Piazza del Campo a Siena, Borgo S. Lucia a Napoli

e piazza del Popolo a Roma.

Carosello era una ventata di leggerezza nei programmi pesanti di allora: basti oppure al

telegiornale dato in un tono particolarmente ingessato e austero.

Fu un traino per la TV che dopo il suo inizio in un solo anno raddoppierà gli abbonati,

triplicandoli in due, andando a raggiungere il milione di utenti.

C’erano delle regole precise e inderogabili, a partire dalla durata di ogni scenetta che

doveva essere di 2’15”, dei quali 30” precisi di pubblicità vera e propria, il così detto codino, che

andava quasi sempre dopo lo sketch. All’inizio gli spot erano 4 poi nel ’60, divennero 5.

La norma più singolare e assurda era che ogni scenetta doveva andare in onda

tassativamente una sola volta, vincolo piuttosto costoso per le aziende e così i pubblicitari, per

contenere le spese, si ingegnarono a creare personaggi e temi sempre similari. Ne uscirono delle

specie di raccontini a puntate che in molti casi sapevano attirare e condizionare gli spettatori.

Per regola gli spot dovevano essere in bianco e nero e continuarono ad esserlo anche

quando, nella metà degli anni ’70 arrivò il colore.

Erano vietate le pubblicità di biancheria femminile con l’eccezione delle calze di nylon e in

questo campo sono rimaste famose le Gemelle Kessler, che assieme a Don Lurio, ballavano in

castigati costumi reclamizzando le calze Omsa.

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Era vietato anche usare parole troppo esplicite verso il comune senso del pudore. Fra le

pubblicità contestate ci fu quella del Caffè Paulista, della Lavazza, ideato dal grafico Armando

Testa per via delle frasi “non si vede un cactus” e “caballero che pistola”. Ma il divieto di usare

certi termini era imposto a tutta la TV. Non si potevano pronunciare ad esempio parole come

“seno” anche nel modo di dire “in seno a”, vietata anche “incinta” ma usare in dolce attesa,

“parto” ma lieto evento, e tutti quei termini che facevano pensare al peccato esattamente come

“amante, vizio, talamo, alcova”.

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2 Il benessere a portata di schermo

Carosello ebbe un progetto pilota, una sorta di protocarosello, con diversi siparietti realizzati

a Torino, Milano e Roma. Il più famoso è “La pianola magica” del 1955, un cortometraggio di 25

minuti, in cui un giovane Paolo Ferrari suona con una pianola degli intermezzi per alcune scenette

interpretate da alcuni attori i che pubblicizzano prodotti di fantasia. È, di fatto, ciò che sarebbe

stato il Carosello due anni dopo.

L’idea iniziale era di leggere annunci statici come alla radio ma ci si rese conto che le

potenziali visive di coinvolgimento della TV potevano essere sfruttate in maniera migliore e con

maggiori effetti, si pensò quindi a brevi sketch e così nacque Carosello che significa ‘parata’. Il

nome lo diede Marcello Severati, direttore della Sacis, la società che insieme alla SIPRA che

avrebbe prodotto la pubblicità per la RAI.

La pubblicità in TV si dimostrò un grande business che centuplicava quella del passaparola

fin lì in uso e, per la sua dinamicità, era più convincente di quella piatta di giornali e radio. Bisogna

ricordare che la società italiana negli anni ’50 era ancora molto legata all’ agricoltura e non

particolarmente istruita, quindi più semplice da condizionare. Infatti in origine la funzione della

pubblicità era quella di presentare i prodotti sul mercato ma ben presto ne suggerì e ne condizionò

gli stili di vita e i sentimenti, fattori questi, comuni però a tutta la TV. Carosello un poco per volta

cambiò i rapporti tra domanda e offerta.

Non solo. Carosello scandiva la fine della giornata: “A letto dopo Carosello” era un

imperativo categorico, un ordine che non ammetteva deroghe per milioni di bambini tra la fine

degli anni ’50 e la metà degli anni ’70. Sulle note della sigla finale mestamente si andava a

dormire, la giornata si concludeva così.

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L’offerta divenne così martellante e condizionante che la richiesta automaticamente

aumentava, innescando il primo consumismo di massa. Un condizionamento che modificò molte

usanze, come la maniera di fare il caffè, passando dalle vecchie brodaglie autarchiche alla

miscela e ci fu il boom delle caffettiere napoletane e poi della moka che è un’invenzione italiana.

La pubblicità strizzava l’occhio alle donne, ancora legate ad un cliché arcaico, più facili ad

essere attratte e indirizzate verso quel mondo migliore che vedevano negli sketch e che in qualche

modo le gratificava. Seguendo i consigli interessati delle réclame si iniziò così a comprare un

determinato prodotto a scatola chiusa perché l’articolo scelto voleva dire qualità e fiducia.

Ci fu soprattutto un enorme fiorire di prodotti di pulizia e detergenti per la casa, più pratici,

concreti e convenienti che davano all’abitazione un’immediata aureola di bellezza, pulizia e

salubrità e bisognava fare la scorta per non rischiare di rimanere senza nei momenti meno adatti.

Si cominciò anche ad acquistare cibarie all’ingrosso cui è strettamente legato l’incremento

dei frigoriferi.

Poi fu la volta delle lavatrici perché lavare richiedeva tempo e fatica. Si passò dalle scatole

agli scatoloni poi ai fustini e ai fustoni sempre più convenienti, ricchi di sempre nuovi additivi, e

pazienza se fiumi e laghi si inquineranno riempiendosi di schiume. Fu solo verso la fine dell’epopea

di Carosello che si indirizzò la tendenza verso prodotti biodegradabili.

Una fra le pubblicità più cliccate era senz’altro Calimero, pupazzo inventato per la Mira

Lanza dai fratelli Pagot, che poi, caso unico, ebbe una vita sua anche in altri contesti. Su Calimero

c’è un singolare aneddoto connesso a quando i suoi ideatori pensavano di poterlo esportare negli

Stati Uniti ma furono dissuasi dato che, in quella realtà, un pulcino disprezzato da tutti perché è uno

‘sporco nero’ e che diviene buono e fortunato perché diventa ‘bianco’, chissà quali conflitti sociali

avrebbe scatenato.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da
copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).

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Caso a parte è stato Topo Gigio primo pupazzo animato creato nel ’59 da Maria Perego,

divenuto famoso di suo e che fu chiamato a fare Carosello nel ’60, per la Pavesini. I bambini, ben

presto, con la loro capacità di influenzare i genitori e soprattutto le mamme, divennero il pubblico

privilegiato dai pubblicitari che cominciarono a riempire le loro piccole teste di specifiche e

accattivanti canzoncine pubblicitarie. Tormentoni musicali che facevano da moltiplicatore al

prodotto.

Un’altra branca che fece tendenza fu quella dei paramedicinali come digestivi, purghe,

analgesici, colliri, bende, fasce elastiche e, soprattutto dentifrici e spazzolini, già da tempo una

mania negli Usa, perché avrebbero fatto risparmiare soldi dal dentista e perché avere i denti di un

bianco spento non era affascinante. Per non dimenticare le cicche da masticare che davano un

alito profumato. Cosmetici e profumi fino ad allora prerogativa di un’élite decadente, divennero

importanti per le donne ma anche per gli uomini.

Importanti furono i Caroselli per promuovere i pannolini per neonati, più pratici ed igienici,

poi i cibi per bimbi: farine lattee, omogeneizzati, deglutinati, e merendine che misero in pensione le

merende con i panini imbottiti casalinghi. Subdolamente, tutti i prodotti, prima venivano presentati

come novità indispensabili, poi con capacità sempre superiori di fascino, digeribilità ed eleganza.

Le auto invece erano poco pubblicizzate forse perché il monopolio era molto forte e non

c’era grande bisogno di reclamizzare un prodotto che cresceva in vendite già di forza sua. Si deve

dire però che le macchine apparivano negli spot di molti altri prodotti come pneumatici, oli,

benzine, autoradio, accessori specifici, e soprattutto come immagine di uno status symbol.

Così come simbolo di benessere lo diventarono le cucine componibili, all’americana, come

si diceva, che mandarono in pensione i vecchi armadi e le tradizionali madie.

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3 L’arte dei creatori

I Caroselli spesso erano veri e propri piccoli capolavori, delle vere gemme artistiche create

da grandi registi o da bravissimi disegnatori e sceneggiatori. Molti personaggi animati erano

amatissimi, come ad esempio i già accennati Calimero, Carmensita e Caballero.

Moltissimi furono gli attori, le attrici e i cantanti che lavorarono in Carosello, dai più famosi

che tutti riconoscevano, a quelli meno conosciuti e non pochi sono i casi di personaggi divenuti

popolari per uno scketch, come Franco Cerri, grande musicista, ma per la massa “l’uomo in

ammollo” Cesare Polacco, l’ispettor Rock, quello della brillantina Linetti.

Lavorare a Carosello poteva certo diventare un vincolo al personaggio interpretato e al

prodotto reclamizzato, ma poteva anche essere un modo per divenire famosi. La più eclatante fu

Virna Lisi divenuta celebre per la pubblicità della Chlorodont, e il passaporto per la notorietà gliela

diede sicuramente quella bocca sensuale spesso in primo piano, con la quale poteva dire quello

che voleva.

Molti erano gli artisti che si legavano per anni allo stesso prodotto cosicché ogni Carosello

diventava una breve puntata di una telenovela e gli attori, che ora la gente vedeva tutti i giorni,

diventavano famigliari, quasi come amici. Alberto Lionello e Lauretta Masiero reclamizzando in

copia la brillantina Tricofilina, nella finzione pubblicitaria di “Micio e Micia” si fidanzarono, si

sposarono e si separarono. Erano così famosi insieme che furono chiamati a presentare

Canzonissima nel ‘60.

Praticamente tutti gli attori famosi dell’epoca hanno fatto Carosello, che era talmente

prestigioso da attirare 'big' stranieri come Frank Sinatra, Jerry Lewis, Jayne Mansfield e molti altri.

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Non lavorarono mai invece la Magnani e Mastroianni la prima perché non lo riteneva

qualificante, il secondo per la paura di essere poi rifiutato da qualche regista.

Per i pubblicitari non era tanto importante cosa avveniva nella vicenda, quanto la

ripetitività finale che, come un tormentone, infilava nella testa della gente il nome del prodotto

con un slogan sempre uguale ma accattivante. Le avventure dell’eroe del momento non erano

così importanti, potevano anche essere dimenticate, il nome del prodotto no. E in effetti nella

gente c’era un certo gusto e compiacimento nel ripetete “ullallà è una cuccagna son prodotti

Alemagna” oppure “Ho un debole per l’uomo in Lebole” o ancora “Miguel soy mi”.

Oltre agli slogan tormentone, c’erano le musichette allettanti, come “Voglio la caramella

che mi piace tanto e che fa du du dudu Doufur” fra le più famose, e quella notissima della Colussi:

“Di Gioele amici siam ed insieme a lui cantiam W W gli indiscussi di Perugia Biscolussi”.

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4 Si chiude il sipario

Nel resto del mondo la pubblicità era in continuo sviluppo.

Ai Festival di Cannes-Venezia sulla pubblicità, sorto dal 1954, tutti i paesi si presentavano

con filmati brevi a colori e impeccabili sul piano formale, gli italiani con filmati lunghi, in bianco e

nero divertenti ma solo per i connazionali, perché legati alla realtà nazionale.

Negli anni Sessanta ci fu un grosso boom consumistico e il Carosello divenne insostituibile

per le aziende in forte espansione.

Divenne con il tempo un vincolo per il mondo aziendale e insufficiente rispetto alle

cresciute esigenze; la RAI fu costretta a ridurre i tempi delle scenette e ad aggiungere altri spazi

pubblicitari (gong, arcobaleno, tic tac).

Arrivarono in Italia altre agenzie americane, il mercato si ampliò e divenne internazionale.

Fu una manna per pubblicitari, disegnatori e soprattutto per il mondo del cinema. Venne calcolato

che nel ’76, l’ultimo anno che fu in programmazione, il 57% della produzione cinematografica

italiana era dedicata agli sketch di Carosello.

Il 14 aprile 1976 il presidente della Rai, Beniamino Finocchiaro, scrisse una lettera riservata

per informare la Commissione parlamentare di vigilanza di aver preso la decisione di far cessare le

trasmissioni di Carosello col 1° gennaio 1977.

La decisione fu resa nota ai giornali il 20 luglio successivo, e provocò subito una serie di

reazioni negative su tutta la stampa italiana. Il “Corriere della Sera” scisse di “fine prematura”, “La

Stampa” di “persuasori stanchi”, “Il Tempo” di “una lacrima sul video”. Ugo Gregoretti, parlò di

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“grave er- 7 rore”. Poche le voci contrarie tra cui “L’Unità” che prese atto con soddisfazione della

morte di un “modello di pedagogia negativa” e Ferdinando Camon che sul “Il Giorno” concluse

l’articolo commentando: “Carosello scompare: meglio così”. Comunisti e i cattolici, si sa, sono

sempre stati quelli che amano meno la pubblicità.

Carosello era andato in onda 7261 volte con pochissime sospensioni: per il Venerdì santo e il

giorno dei morti, la morte di Papa Pio XII nel ‘58, quella di Papa Giovanni XXIII nel ‘62, l’uccisione di

John Kennedy nel ‘63, e di suo fratello Bob nel ‘68, la strage di Piazza Fontana nel ‘69, e per il primo

uomo sulla luna nel ‘71 perché era una diretta improrogabile. Dopo aver regalato agli italiani quasi

quarantamila pezzi, che qualcuno ha calcolato in oltre 2.500 km di pellicola, dopo aver segnato

indelebilmente i venti anni del più straordinario sviluppo economico, tecnologico, sociale e

culturale del nostro paese, Carosello cessava.

L’ultima puntata andò in onda il 1° gennaio 1977 e vide le pubblicità di Bassani Ticino,

Amaro Ramazzotti, Tè Ati, Maglieria Dual Blu e Stock per conto della quale, Raffaella Carrà diede

l’addio agli italiani.

Carosello fu un fenomeno solamente italiano che non trovò uguali in nessuna emittente del

mondo. Venne esaltato e maledetto, esecrato e rimpianto.

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Indice

1 UN QUADRO D’INSIEME .......................................................................................................................... 3


2 PEDAGOGICA E POPOLARE ................................................................................................................... 6
3 NON È MAI TROPPO TARDI ..................................................................................................................... 9
BIBLIOGRAFIA ................................................................................................................................................. 11

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1 Un quadro d’insieme

Gli anni ’60 sono per il nostro Paese un momento di grande trasformazione politica e sociale

che chiude un’epoca durata quindici anni. Il centrismo è ormai un’esperienza politica che sarà

superata dal centro sinistra con la partecipazione del Partito socialista al governo. Un esperimento

parzialmente gestito da Aldo Moro diventato segretario della DC nel 1959.

I mezzi d’informazione sono al centro di questa crisi di rinnovamento registrandone tutti i

passaggi. Nel luglio del 1960 la Corte Costituzionale aveva sollecitato il governo ad aprire le porte

della RAI “a chi era interessato ad avvalersene per la diffusione del pensiero nei diversi modi del

suo manifestarsi”, ponendo così – di fatto – la questione del pluralismo del servizio pubblico

radiotelevisivo. In Parlamento cominciavano ad essere depositate mozioni e interpellanze cui il

governo, guidato da Amintore Fanfani, reagiva con qualche imbarazzo.

L’11 ottobre del 1960 venne inaugurata Tribuna Elettorale, condotta dal giornalista Giovanni

Granzotto, in vista delle elezioni amministrative, che nella prima puntata ospitò il Ministro

dell'Interno Mario Scelba. Il programma anticipò il progetto più compiuto, andato in onda il 26

aprile 1961, della Tribuna Politica. Le tribune introdussero nell’offerta televisiva la politica come

format, una vetrina nuova in cui vedere gli uomini politici più da vicino, sentirli rispondere alle

domande dei giornalisti, scrutarne emozioni, valutarne la dialettica.

In un Paese che stava uscendo dai limiti di un dopoguerra faticoso, avvicinare gli italiani

alla politica era un dovere sociale, non solo per allentare la tensione ideologica e attenuare lo

scontro di classe ancora vivo, ma soprattutto per portare a compimento il disegno di

consolidamento della giovane democrazia repubblicana. A ciò si aggiunse la grande rivoluzione

che nel mondo cattolico rappresentò la figura innovatrice di Giovanni XXIII che con il Concilio

Vaticano II avrebbe avviato una radicale trasformazione della Chiesa.

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In questo scenario così variegato il gruppo dirigente della televisione si dedicò con

intelligenza alla mediazione delle spinte che provenivano dalle diverse forze sociali e politiche del

Paese. L’egemonia sul mezzo televisivo della Democrazia Cristiana si mantenne, con Fanfani che

pilotò alla direzione generale della RAI, nel gennaio del 1961, un suo uomo di fiducia, Ettore

Bernabei.

La televisione in questa fase si pone come narratore degli eventi, e ne ripropone la

ricostruzione nella consapevolezza di essere solo un segno delle cose perché la realtà è altro. Di

questa realtà essa fornisce una interpretazione attraverso codici e linguaggi specifici del mezzo,

che rispecchiano i fenomeni ma non li sostituiscono: i romanzi non vengono sostituiti dai

teleromanzi, la politica non è quella che si vede esclusivamente in tv. E’ una televisione con regole

definite come quella di avere orari precisi, ad esempio di notte non andava in onda nessun

programma. La notte del 1967 in cui il pugile Nino Benvenuti disputò la finale mondiale dei pesi

medi al Madison Square Garden contro l’americano Emile Griffith fu

possibile seguire l’incontro solo via radio. Questa regola cadrà in occasione dell’incontro di

calcio Italia-Germania 4 a 3 del 1970. La televisione cerca il suo pubblico ma più che ascoltata

cerca di essere bene accetta, e l’indice di gradimento è uno dei criteri a cui fare riferimento.

Nel 1960 la televisione era già arrivata in 56 paesi: 24 in Europa, fra cui l’Italia, 3 in America

del Nord, 9 in America Centrale, 7 in America del Sud, Prima del 1965, gran parte degli Stati

europei disponeva anche di un secondo canale che in Italia inizierà le trasmissioni regolari il 4

novembre 1961.

La notte del 20 luglio 1969 la televisione dimostra tutta la sua potenza trasmettendo in

diretta lo sbarco di Neil Armstrong sulla luna, i giornali ci arriveranno solo 36 ore dopo. Sono gli anni

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Anna Bisogno - TV anni ‘60

della lunga marcia della televisione per conquistare il primato dell’informazione che aumenta in

quantità e qualità con l’approfondimento grazie al programma TV7.

La televisione ha contribuito alla trasformazione sociale, innescata dal boom economico, in

particolare:

 alimentando il mercato dei consumi (la pubblicità);

 incoraggiando l’esibizionismo e il desiderio di emergere degli italiani (il quiz);

 divulgando le immagini di una società orientata all’ottimismo e alla ricerca del benessere

(lo spettacolo del sabato sera).

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2 Pedagogica e popolare

Nel 1958 per la prima volta si decide di organizzare un corso di avviamento professionale

per studenti residenti in località prive di scuole. Nel 1960 nasce Non è mai troppo tardi con l’intento

di rispondere alla funzione educativa del mezzo e di ridurre l’alto tasso di analfabetismo.

Nello stesso anno negli Stati Uniti per la prima volta si affrontano, in quattro successivi

dibattiti televisivi i due candidati alla presidenza: John Kennedy e Richard Nixon. Nixon, esausto per

il faticoso tour elettorale, si presentò con la barba non fatta e il vestito non particolarmente curato.

Kennedy, aitante, rilassato, perfettamente vestito, ebbe il risultato migliore presso il pubblico e

certo questo giovò alla sua vittoria.

Nel 1961 nasce in Italia il secondo canale. La giornata tv dura quasi 11 ore. Dal 1954 al 1961

la quota di programmazione culturale sale dal 21% al 48,8% (stabile quella informativa: 30%). Col

termine “cultura” s’intende in tv la fiction di tipo teatrale: prosa, lirica, originali tv, racconti e

romanzi sceneggiati (assai pochi i film, i telefilm, i cartoni, anche perché i produttori non vogliono

concedere alla tv i diritti di trasmissione). Molti anche i classici letterari trasmessi: Delitto e castigo,

Orgoglio e pregiudizio, L’idiota, Umiliati e offesi, Piccolo mondo antico. La lirica non è un genere

rilevante in televisione perché la tv si limita a riprendere spettacoli in teatro, mentre avrebbe

potuto fare di più. I film sono sempre introdotti da una breve presentazione; i titoli non sono mai

recenti e non sempre di grande interesse. (nel 1959 si ridurranno a 86 titoli in tutto).

Ciò che rende la tv molto popolare è l’intrattenimento. Nelle forme dello spettacolo e nelle

immagini della società emerge chiaro il riferimento al modello culturale americano rielaborato

secondo la sensibilità italiana compatibilmente con le istanze educative e moralistiche mai sopite.

Un varietà di successo Un due tre, trasmesso il 19 gennaio del 1954 e condotto dai comici Ugo

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Tognazzi e Raimondo Vianello; sarà cancellato dal palinsesto per una innocente parodia del

Presidente della Repubblica Gronchi. Tognazzi e Vianello furono estromessi dai programmi della

Rai.

Nel 1961 la trasmissione più seguita resta sempre il tg (70% degli utenti): per il pubblico meno

colto e non orientato politicamente le notizie date dai telegiornali possono apparire come più

attendibili di quelle fornite dai quotidiani, perché questa parte del pubblico percepiva le immagini

come vere. Sul piano politico la gestione della Rai è democristiana; la cultura di tendenza è quella

umanistica; lo slogan principale è: "I partiti hanno i giornali, il governo ha la Rai". Fino al 1960 i

leader dell’opposizione in televisione sono ripresi il meno possibile e non parlano. Gli sport più

seguiti sono il calcio e il ciclismo.

Nel 1961, a livello nazionale, il settore economico trainante è quello industriale (38%), poi vi

è il terziario (32%), infine l’agricoltura (30%). I consumi privati tra il 1951 e il 1960 crescono del 65%. Il

tasso di crescita di trasporti e telecomunicazioni è del 238%

La nascita del Secondo Programma Nazionale nel ’61 cambiò la fisionomia dell’offerta

televisiva del servizio pubblico. Si notarono subito tre novità:

 a differenza degli anni Cinquanta, allorché si faceva coincidere produzione e messa in

onda, si sviluppano i sistemi di registrazione, per cui il prodotto può essere riproposto,

conservato e venduto;

 sul primo canale il punto di riferimento culturale privilegiato era stato il teatro; sul

secondo invece diventa il cinema (la tv è disposta a pubblicizzare la cinematografia,

cerca dei registi per la realizzazione degli spot di Carosello e per sceneggiati televisivi);

 sul secondo canale le trasmissioni iniziano e finiscano con mezz’ora di ritardo rispetto al

primo e vengono offerte delle proposte complementari.

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Nel 1962, per la prima volta, la tv italiana si può collegare in diretta, via satellite, con

l’America. Nascono anche le coproduzioni con paesi stranieri. Le ore di trasmissione diventano 12

(gli spot 17 minuti al giorno). Fino al 1968 la situazione non cambierà di molto. Gli abbonati sono 8,2

milioni, ma le persone che dichiarano di vedere la tv sono più del doppio. Per la prima volta

l’interesse per i film (80%) supera quello dei tg (75%).

Dal 1962 al 1968 lo spettacolo resta fermo al 25%, la cultura scende dal 45% al 36% e

l’informazione sale dal 29% al 39%. I programmi più graditi sono gli sceneggiati, tra questi I Promessi

Sposi (1967, regia di Sandro Bolchi) e La Freccia Nera (1968, regia di Anton Giulio Majano). Il varietà

diventa sempre più raffinato con Studio Uno (1961). Specchio segreto (1964), è la prima candid

camera all’italiana firmata da Nanni Loy. Nel 1968 si cerca di portare il cabaret nel varietà, ma

dopo la performance trasgressiva di Dario Fo vi si rinuncia. Sul piano sportivo fino al 1968 si

trasmette solo in differita, ma con le Olimpiadi del Messico inizia la diretta intercontinentale. Nel

giro d’Italia compaiono per la prima volta le telecamere montate sulle motociclette che seguono

la corsa.

Nel 1968-69 nasce la contestazione studentesca e operaia. Quotidiani e settimanali si

svecchiano culturalmente, ma la Rai migliora solo sul piano tecnico-professionale. Questo limite

della Rai dipende dalla sua posizione monopolista garantita dallo Stato.

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3 Non è mai troppo tardi

Il programma è considerato l’emblema della televisione pedagogica delle origini. Una

lezione pedagogica certamente, ma anche mediatica, tenuta dal maestro Alberto Manzi che è

stato un grande protagonista della TV italiana degli anni ’60, insegnando a leggere e scrivere agli

italiani ancora analfabeti. Una trasmissione fortunata che consente, narra una leggenda, a più di

un milione di persone l’accesso alla licenza elementare. In realtà i dati effettivi sui risultati della

trasmissione sono scarsi; certo costituiva un’icona rassicurante, per la classe politica e per il

pubblico colto, quanto alla fedeltà della Rai a un ideale pedagogico.

Nelle immagini in bianco e nero si vedono nonnine sdentate capaci di scrivere finalmente il

proprio nome, persone che imparano a leggere un giornale, uomini che prendono in mano un

contratto e lo fanno loro. Alberto Manzi con il gesso carezza una lavagna, coinvolge il pubblico da

casa facendolo sentire uno di quegli alunni presenti lì davanti, nella classe.

Non è mai troppo tardi va in onda il 15 novembre del 1960 come programma di

educazione popolare a cura del Ministero della Pubblica Istruzione e proseguirà fino al 1968. Le

puntate, di mezz’ora ciascuna, vengono trasmesso dal lunedì al venerdì nella fascia preserale sul

Programma Nazionale (dal 1967 sul Secondo Programma). Dopo la sigla dal motivetto leggero

scandita da una danza delle lettere dell’alfabeto, appariva il volto rassicurante e la figura paterna

di Alberto Manzi che insegnava “a leggere, scrivere e far di conto” con una grande capacità

didattica.

Alcuni anni prima, nel 1958, era già stato avviato un progetto pilota, durato fino ‘66,

chiamato Telescuola, che consentiva il completamento del ciclo di istruzione obbligatoria a quegli

italiani che vivevano in città prive di scuole secondarie.

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Anna Bisogno - TV anni ‘60

Si trattava di un vero e proprio corso di insegnamento della lingua italiana realizzato

attraverso l’installazione di 2000 televisori collocati in altrettanti punti in tutta Italia.

Il suo pubblico era prevalentemente analfabeta. Nelle varie puntate della trasmissione, a

un certo punto, arrivano anche gli allievi e le allieve, molti dei quali adulti e anziani.

Manzi riesce a essere sempre rispettoso, non paternalista nei toni, non supponente nei modi.

Non solo chiama tutti amici, ma usa un linguaggio sempre accessibile senza renderlo esplicito in

modo didascalico.

Infine, Manzi usa un altro elemento di grandissima efficacia comunicativa, anche questo

frequentemente assente in molti interventi pubblici e didattici odierni: l’esempio, l’osservazione

della realtà quotidiana. Le lettere scritte sulla lavagna diventano così elementi con i quali si decifra

il mondo circostante. Manzi chiede ai suoi allievi di osservarle ovunque, di leggerle e riconoscerle

sui giornali, di guardarsi attorno. Non rimane su un piano teorico, astratto, ma rende

immediatamente tangibile il senso della conoscenza e della capacità di lettura.

Alberto Manzi lanciò una sfida educativa appassionata ed entusiasmante che diventò

epica, anche nei numeri. Nella prima edizione, si affermò, 35.000 persone avevano ottenuto la

licenza elementare.

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Lorenzo Marmo - Stanley Kubrick

Indice

1. GENIO E METICOLOSITÀ ........................................................................................................................ 3


2. LA FOTOGRAFIA, NEW YORK E IL NOIR ................................................................................................. 5
3. LA MALATTIA DELL’OCCIDENTE ............................................................................................................. 8
4. I CAPOLAVORI DELLA MATURITÀ......................................................................................................... 10
BIBLIOGRAFIA................................................................................................................................................ 14

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Lorenzo Marmo - Stanley Kubrick

1. Genio e meticolosità

Stanley Kubrick nacque a New York, in una famiglia di origine ebraica, il 26 luglio 1928. È

unanimemente considerato uno dei più grandi registi della storia del cinema, un autore visionario

la cui opera sfugge ad ogni semplice etichetta. Il suo percorso creativo lo porta infatti ad una

originalità assoluta, frutto non di una superficiale voglia di stupire, ma di un desiderio profondo di

sperimentare. Kubrick fu inventore e innovatore sia dal punto di vista narrativo che stilistico, ed

anche prettamente tecnologico, riuscendo sempre a trovare un punto di equilibrio tra il gusto

avanguardistico e le necessità spettacolari. L’intensità della sua messa in scena, pur scaturendo da

una ricerca personale sulle forme del senso, ha saputo parimenti intercettare i gusti e la fantasia

del pubblico, installandosi saldamente nell’immaginario collettivo della seconda metà del

Novecento.

Oltre che regista, Kubrick è stato talvolta anche direttore della fotografia, montatore,

scenografo e creatore di effetti speciali per i suoi stessi film: un artista completo, noto per il suo

desiderio di controllo maniacale di ogni dettaglio della messa in scena. La precisione del suo

approccio è d’altronde necessaria alla costruzione di rappresentazioni grandiose e magniloquenti,

ma mai pesanti o asfittiche. La cura ossessiva della prospettiva, la ricerca di simmetria

nell’inquadratura, l’esattezza percettiva dell’illuminazione sono necessarie, piuttosto, ad una

ricerca estetica che colloca il cinema in correlazione con le altre arti. In particolare la pittura

(come sarà evidente soprattutto in Barry Lyndon, 1975, che cita continuamente i quadri del

Seicento e Settecento inglese), ma anche la musica, elemento veramente fondamentale in tutto il

suo cinema maturo: dalla We’ll Meet Again di Dr. Strangelove alle opere di Strauss e Lygeti di 2001:

A Space Odissey (2001: Odissea nello spazio, 1968), da Singin’ in the Rain in Clockwork Orange

(Arancia meccanica, 1971) alle ballate irlandesi di Barry Lyndon, Kubrick dimostra una capacità di

impiegare con uguale efficacia melodie classiche e canzoni del repertorio pop, intrecciandole a

composizioni originali ai fini di una tessitura musicale di assoluta densità.

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Lorenzo Marmo - Stanley Kubrick

Questo approccio è inoltre necessario anche ad una disamina rigorosa, dettagliata e quasi

scientifica della situazione storica e delle atmosfere correlate al materiale narrativo. La gestione

meticolosa dello spazio si accompagna ad una temporalità rallentata, con inquadrature spesso

prolungate, che favorisce una posizione riflessiva e autoriflessiva da parte dello spettatore, senza

per questo che la messa in scena perda alcuna forza. Con Kubrick, si percepisce sempre la

potenzialità che il cinema, anziché essere soltanto un medium per il racconto di una storia o per il

coinvolgimento appassionato dello spettatore, possa essere uno strumento per la creazione di un

mondo intero, e, al tempo stesso, per l’elaborazione di una riflessione e di un pensiero su quel

mondo. Come scrive Sandro Bernardi:

“Tutta la sua opera, che si è ispirata a cineasti differenti come Charlie Chaplin, Sergej M.

Ejzenštejn e Max Ophuls, prendendo dal primo il senso della comicità, dal secondo

l’atteggiamento di riflessione critica, dal terzo la malinconia e la propensione all’uso del

metalinguaggio, può essere letta come una riflessione storico-culturale sul mondo occidentale,

realizzata attraverso storie esasperate e metaforiche nelle quali vengono in luce le contraddizioni

dell'uomo contemporaneo”1.

Kubrick ha insomma messo incessantemente in gioco, e sotto processo, le strutture mentali

e fantasmatiche della società occidentale, illuminista e presunta democratica, svelandone al

contrario i risvolti autoritari, aggressivi e violenti. Per farlo, ha preso spesso spunto da romanzi e

racconti di autori anche celebri (Nabokov, Schnitzler, Thackeray), ed ha toccato molti generi

diversi (dal noir al peplum, dal film di guerra all’horror, dalla fantascienza alla satira), apportando

innovazioni significative e durature al loro interno (si pensi a 2001, vero spartiacque nella storia della

fantascienza).

1
Sandro Bernardi, Stanley Kubrick, in “Enciclopedia del Cinema”, Treccani, 2003, disponibile al seguente indirizzo:
http://www.treccani.it/enciclopedia/stanley-kubrick_%28Enciclopedia-del-Cinema%29/

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2. La fotografia, New York e il noir

Cresciuto nel quartiere newyorchese del Bronx, Kubrick si appassionò alla fotografia sin

dall’infanzia: a soli 17 anni vende alla rivista «Look» una sua fotografia, rimasta famosa perché

cattura perfettamente il senso di sconforto che attraversò gli Stati Uniti il giorno della morte del

Presidente Roosevelt. L’inquadratura è quella di un’edicola, e la posa del giornalaio circondato

dalle prime pagine recanti la triste notizia, è sintomatica dell’umore pervasivo del Paese. Il giovane

Kubrick iniziò presto a collaborare in modo più sistematico con la rivista, praticando un genere

fotografico che potremmo definire come Street Photography. Nonostante esso sia caratterizzato,

in teoria, dalla capacità del fotografo di cogliere l’attimo in cui un evento sta avvenendo

spontaneamente e fissarlo sulla pellicola, la rivista «Look» era invece caratterizzata da un accurato

lavoro di preparazione di ogni servizio: la spontaneità dello scatto era perciò solo apparente, e al

contrario l’esempio di questa metodicità influenzerà il giovane fotografo per tutto il resto della sua

carriera.

Per «Look» fotografa anche modelle e divi emergenti (rimangono alcuni splendidi scatti di

Montgomery Clift), ma uno dei suoi servizi di maggior successo è quello dedicato nel 1949 ad

un’intera giornata nella vita del pugile Walter Cartier, in attesa di un incontro di boxe serale. E

questo reportage finirà per rappresentare il trampolino di lancio con cui Kubrick passerà

dall’immagine fissa a quella in movimento. Il servizio viene trasformato infatti anche in un film, il

cortometraggio Day of the Fight (1949), che mostra con ancor maggiore esattezza il rapporto

simbiotico tra Cartier e il suo fratello gemello. Il documentario successivo, finanziato dall’importante

casa di produzione RKO, fu invece Flying Padre (1951): anch’esso seguiva il format dello sguardo

sulla giornata di un personaggio specifico, in questo caso un prete del Nuovo Messico che

percorreva l’immensa estensione della propria parrocchia a bordo di un piccolo aeroplano. In

entrambi i lavori, alcune scelte stilistiche (l’uso insistito del campo-controcampo in Day of the Fight,

l’inserimento di molti primi piani in Flying Padre) mostrano chiaramente il desiderio di Kubrick di

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oltrepassare il linguaggio consueto dei cortometraggi documentari, superando l’oggettività

cronachistica da cinegiornale in favore di uno stile più narrativo, più complesso ed espressivo.

Kubrick avrà occasione di sperimentare tale stile nel suo primo lungometraggio, Fear and

Desire (Paura e desiderio, 1953). Con questo progetto, risicatissimo quanto al budget ma molto

ambizioso nelle implicazioni filosofiche, Kubrick costruisce il primo dei suoi molti film antimilitaristi,

raccontando di un gruppo di soldati rimasti intrappolati oltre le linee nemiche. Il regista ha in

seguito disconosciuto il film, sostenendo che si trattava di un tentativo dilettantesco appesantito

da un eccessivo autocompiacimento.

Il lavoro successivo, Killer's kiss (Il bacio dell'assassino, 1955) costituisce invece senza meno il

suo primo lavoro autenticamente ispirato. Suggestivo ritratto noir di due solitudini urbane che si

incontrano (protagonisti sono un pugile fallito e una ballerina vessata dal suo datore di lavoro), il

film non punta tanto sulla trama quanto su una rievocazione d’ambiente assolutamente potente.

Kubrick riprende infatti le atmosfere newyorchesi che aveva tanto efficacemente catturato con la

propria macchina fotografica, e si concentra su una New York marginale, filmata con secchezza

eppure fonte di grande fascinazione. La scena finale del film si svolge poi in un magazzino di

manichini, in cui il protagonista lotta col cattivo circondato da una gran quantità di corpi, teste,

braccia e gambe di cartapesta. Il motivo del doppio perturbante del corpo umano si

accompagna poi a quello del doppio perturbante dell’immagine stessa, perché Kubrick decide di

rendere una sequenza onirica del personaggio maschile stampandola in negativo (ed invertendo

dunque i bianchi e i neri). Il gioco metariflessivo sull’immagine foto-cinematografica diventa qui

anche riflessione estetica sul tema del sogno.

Dopo il buon riscontro di questo primo noir, Kubrick ne gira un altro, ma in condizioni

nettamente diverse: The Killing (Rapina a mano armata, 1956) non è più una produzione del tutto

indipendente, ma il primo frutto della società che l’autore aveva fondato insieme a James B.

Harris. Il film sarebbe stato poi distribuito dalla United Artists. Alla New York decadente del film

precedente si sostituisce ora l’assolata – ma parimenti potente – Los Angeles. E The Killing sembra

trarre ispirazione dalla struttura dispersa della città californiana per costruire un gioco narrativo

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davvero complesso (la base è un romanzo dell’importante autore noir Jim Thompson, anche

sceneggiatore): raccontando la messa in atto di un colpo da parte di un nutrito gruppo di

criminali, Kubrick si sposta continuamente nel tempo intrecciando e invertendo l’ordine

cronologico degli eventi. La maestria con cui è costruito questo meccanismo a orologeria funziona

di fatto come forma di fascinazione a sé stante rispetto alla trama, e così anche questo film come

il precedente raggiunge è dotato di una forte componente autoriflessiva, che ne fa, di fatto, un

“meta-noir”.

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3. La malattia dell’Occidente

Con il film successivo, Paths of Glory (Orizzonti di gloria, 1957), Kubrick si volge nuovamente

verso il genere bellico, che si rivelerà una delle costanti della sua carriera. Il film è una vibrante

denuncia della violenta noncuranza con cui le classi dirigenti europee mandarono a morire quelle

subalterne durante la Prima Guerra Mondiale, e da tale una disamina impietosa della cinica

ipocrisia e del vero e proprio sadismo dei generali francesi emerge un messaggio pacifista

potentissimo. Lo stile contribuisce grandemente all’efficacia della pellicola: dal lungo piano

sequenza con cui Kubrick immerge lo spettatore nello stretto ma interminabile corridoio della

trincea, all’ultima, bellissima, scena, in cui i soldati si dimenticano per un attimo degli orrori cui

hanno assistito e dell’odio che dovrebbero provare per il nemico, per unirsi invece al commovente

canto di una ragazza tedesca (interpretata da Suzanne Christian, poi terza ed ultima moglie del

regista).

Il protagonista di Paths of Glory, Kirk Douglas, era un divo molto affermato e risolutamente

impegnato in cause progressiste: il suo personaggio di colonnello buono è l’unica figura positiva

all’interno delle alte gerarchie militari. È proprio su insistenza di Douglas (anche produttore) che

Kubrick verrà chiamato a dirigere il kolossal di ambientazione romana Spartacus (1960), dopo il

litigio con il regista inizialmente previsto, Anthony Mann. Il film è generalmente considerato uno dei

momenti meno interessanti della carriera dell’autore, proprio per la sua natura di film su

commissione, dunque meno personale, ma con questo lavoro Kubrick si guadagna la fama di

regista serio e affidabile, che gli consentirà in seguito di avere carta bianca per i propri progetti più

idiosincratici e ambiziosi. Inoltre, la maestria con cui sono gestite le scene di massa conferma la

capacità di Kubrick di riflettere tematicamente e visivamente sulla guerra. In questo caso, il regista,

tramite la nota vicenda dello schiavo Spartaco, costruisce un racconto epico sulla necessità della

ribellione all’ordine costituito per difendere la propria libertà.

Le opere successive vedono Kubrick muoversi sempre più risolutamente lungo traiettorie

tutt’affatto personali. Decide infatti di adattare il famoso e assai controverso romanzo di Vladimir

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Nabokov, Lolita (1962), incentrato sul rapporto morboso tra un uomo di mezza età, il professor

Humbert Humbert (James Mason) e la sua figliastra adolescente (Sue Lyon), con cui inizia una

relazione pseudo-incestuosa e dai contorni pedofili. Il film, che è sceneggiato da Nabokov stesso, è

una cruda disamina dell’ipocrisia della classe media americana: mischiando registro satirico,

punte grottesche e dimensione drammatica, il film riflette sull’erotizzazione dilagante nella società

del consumo, ed incorse naturalmente in diversi guai con la censura, pur mancando

assolutamente di ogni facile morbosità (risultato non semplice, visto il tema).

Il film successivo sembra esplicitare il legame tra i temi della guerra e del sesso che Kubrick

aveva affrontato nei suoi ultimi film: Dr. Strangelove: or How I Learned to Stop Worrying and Love

the Bomb (Il dottor Stranamore, ovvero: come imparai a non preoccuparmi e ad amare la bomba,

1964) riprende infatti il tema dell’irresponsabilità delle classi dirigenti (non solo militari, ma anche

politiche) declinandolo decisamente in direzione di una satira profondamente corrosiva. Al tempo

stesso, tutti i personaggi del film sono animati da una fisicità eccessiva, come a denunciare

l’incapacità di integrare pensiero e corpo nella cultura occidentale: non a caso il generale Ripper

(Sterling Hayden), che impazzisce e si convince che l’unico modo di difendere l’America dai

Sovietici è quello di iniziare per primi un attacco nucleare, asserisce che i nemici si stiano infiltrando

subdolamente nelle menti degli uomini americani tramite l’inquinamento dell’acqua, che provoca

l’infiacchimento dei preziosi fluidi corporei della mascolinità statunitense. Kubrick prende insomma

l’immaginario paranoide della Guerra Fredda e lo rivolta su sé stesso e lo estremizza in direzione

grottesca, costruendo una parodia delle dinamiche della geopolitica globale ancora oggi

sconvolgente per spirito e originalità.

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4. I capolavori della maturità

Con 2001: A Space Odissey, del 1968, Kubrick entra definitivamente nell’empireo dei grandi

Autori della storia del cinema. La sua carriera proseguirà con film diversissimi gli uni dagli altri, sia

per genere che per ambientazione e tematiche, eppure accomunati dalla innegabile forza

registica di Kubrick, dal suo stile visivo che si consolida in direzione di una messa in scena

autenticamente personale e molto sicura delle proprie opzioni. La maniacalità dell’impresa

registica kubrickiana porta ad un allungarsi dei tempi di progettazione e anche concretamente di

lavorazione dei film, cosicché passano sempre svariati anni tra un prodotto e l’altro: d’altronde,

ognuno dei film del regista è atteso spasmodicamente e accolto trionfalmente dalla critica e dagli

spettatori. Il regista sceglie nel frattempo di trasferirsi a Londra, dove conduce una vita appartata

ma sempre attentissima agli eventi storico-culturali, così da continuare ad illustrare con grande

acume i paradossi e le contraddizioni della cultura occidentale.

2001 è una narrazione fantascientifica che imprime una svolta profondissima a questo

genere. Da prodotto d’intrattenimento, tendenzialmente di serie B, e sede per l’espressione di

ansie culturali sintomatiche della Guerra Fredda, la fantascienza diviene qui, sull’onda di alcuni

pregevoli esempi letterari (il film è l’adattamento di alcuni racconti di Arthur C. Clarke), lo scenario

per una riflessione assai più consapevole (appassionante ma anche criptica) sul rapporto tra uomo

e macchina, tra cultura e tecnologia. Mentre il computer di bordo dell’astronave si ribella e

assume fattezze quasi (perfidamente) umane, lo sguardo dell’astronauta interpretato da Keir

Dullea è volutamente freddo e distante. Molte sequenze sono passate alla storia: dalle scene

iniziali, con la danza delle scimmie intorno al monolite nero, fino al segmento sperimentale inserito

nella parte finale per descrivere l’arrivo sul pianeta sconosciuto. Il film riesce a conciliare una

spettacolarità mozzafiato (è girato nel formato panoramico 70mm Super-Panavision) con una

ricerca visiva autenticamente sperimentale. Anziché puntare sulla struttura narrativa e sulla

suspense, Kubrick ambisce ad immergere lo spettatore in una dimensione di dilatazione

esperienziale, che passa sia attraverso una fotografia strepitosa (è la seconda volta che il regista si

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confronta col colore, dopo Spartacus, ma qui ne fa un uso ben più personale) che l’uso della

musica. E le domande che il film fa emergere in questo modo a proposito del Tempo e dello Spazio

hanno l’autentica portata del pensiero filosofico che si interroga sui fondamenti stessi dell’umanità.

Nel parimenti celeberrimo A Clockwork Orange, del 1971, Kubrick immagina, sulla scorta di

un romanzo di Anthony Burgess, una sconvolgente satira ambientata in futuro prossimo distopico.

Dopo i tempi rallentati e la solennità di 2001, si ritrova qui sia la narrazione ritmata che il tono

caustico della messa in scena che avevano caratterizzato Dr. Strangelove. Al tempo stesso, la

riflessione sulla violenza e sulla frustrazione sessuale che pervadono la società non è mai gratuita.

Nei suoi film Kubrick sfugge sempre, d’altronde, alla tentazione di ergersi a giudice rispetto ai

meccanismi umani rappresentati, esprimendo una morale. Anche in questo caso, l’idea che

l’aggressività sia il vero fondamento dei rapporti interpersonali è espressa con tale pervasività da

non lasciare spazio all’illusione che si possano operare distinzioni durature tra bontà e malvagità.

Anziché al futuro, il progetto successivo, Barry Lyndon, si volge al passato della società

occidentale: tratto da un romanzo di William M. Thackeray, il film esamina una storia di ascesa e

caduta sociale nel Settecento inglese. Nel ricostruire le atmosfere della sua patria d’adozione,

Kubrick raggiunge un’ulteriore vetta della propria creatività. La messa in scena, tanto

incomparabilmente elegante quanto implacabilmente feroce nella descrizione delle dinamiche

sociali (l’arrivismo del protagonista di origini umili, la decadenza dell’aristocrazia superba e ridicola

da cui egli vuole farsi accettare) trabocca di riferimenti al patrimonio della cultura letteraria,

pittorica, musicale, teatrale e storica dell’epoca. Anche in questo film i tempi straordinariamente

lunghi trasformano il film in una serie di tableaux vivants di abbacinante bellezza, e la narrazione è

lasciata alla voce fuori campo di un narratore invisibile, il che contribuisce a collocare lo spettatore

a una distanza siderale dalla scena. Rimasto nella storia del cinema, oltre alla ricchezza

scenografica e alla melanconia della colonna sonora, l’uso della luce: l’utilizzo di un particolare

obiettivo Zeiss Planar (originariamente prodotto per la NASA), consente infatti al regista di indulgere

nella sua precisione maniacale portandola a risultati davvero significanti. Kubrick, infatti, gira tutti

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gli interni notturni alla sola luce delle candele, replicando così con assoluta esattezza l’atmosfera

luministica del mondo descritto.

Assai rimarchevole, da un punto di vista tecnologico, è anche l’utilizzo della steadicam2 nel

lavoro seguente, The Shining (Shining, 1980). Il film, tratto da un romanzo di Stephen King, è un

horror interamente ambientato in un grande albergo isolato durante la bassa stagione: lo abitano

soltanto uno scrittore in crisi (Jack Nicholson), la moglie di lui (Shelley Duvall) e il figlioletto. La

macchina da presa duttile e mobile serve al regista per perlustrare gli inquietantissimi corridoi

dell’hotel, così come il labirinto che si trova nel suo giardino. Questi spazi diventano così i luoghi per

l’esplicazione di una dimensione di terrore al tempo stesso ancestrale e modernissima, allorché il

padre di famiglia, impazzito, cerca di uccidere tutta la propria famiglia. Il contesto onirico e

inquietante, la qualità visionaria della messa in scena e l’interpretazione del cast, garantiscono al

film un successo di pubblico, oltre che di critica, contribuendo a cementare la fama di Kubrick.

Con Full Metal Jacket (1987) Kubrick torna un’ultima volta a mettere in scena l’inumanità

assoluta della macchina bellica, descrivendo stavolta il processo di addestramento dei soldati e

poi il loro incontro con l’effettiva realtà della guerra del Vietnam. Il ritratto della violenza dei ranghi

più alti dell’esercito e dell’infantilismo dei marines semplici conduce alla messa in scena allucinata

e allucinante di una realtà esistenziale in cui l’omicidio è cosa quotidiana e parte integrante della

normalità della vita. Lo stile di Kubrick, come sempre freddo e distaccato, serve qui a mostrare la

profonda dualità dell’uomo, sempre diviso tra Bene e Male: non nel senso dell’articolazione di un

dilemma etico insolubile tra diverse spinte dell’interiorità, ma nel senso di una pervasiva

permutabilità della fragilità in ferocia e vice versa.

L’ultimo film di Kubrick sarà poi Eyes Wide Shut (1999), riflessione sull’istituzione matrimoniale

interpretato dalla celebre coppia composta da Tom Cruise e Nicole Kidman (che divorzieranno di

lì a poco), e uscito solo dopo la morte del regista, avvenuta il 7 marzo 1999. Ispirandosi alla celebre

novella di inizio Novecento di Arthur Schnitzler, Doppio sogno, ma riambientando la vicenda nella

2
La steadicam è un supporto meccanico su cui si può montare la macchina da presa, e che va poi allacciato al corpo
dell’operatore. Esso garantisce una grande fluidità di ripresa, ma anche un’immagine molto più stabile rispetto a quella
delle consuete riprese con la macchina a mano. Cfr. https://it.wikipedia.org/wiki/Steadicam

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New York contemporanea, il regista torna alla prima fonte d’ispirazione in assoluto per le sue

immagini, la Grande Mela. Questa volta però le strade sono interamente ricostruite presso gli studi

londinesi della Pinewood, e la loro perlustrazione non ha più il sapore di un reportage di Street

Photography, né l’aria melanconica, realista e insieme onirica della metropoli solitaria di Killer’s Kiss.

Manhattan si presenta sempre, ed anzi ancor di più, come uno spazio dal potenziale onirico,

associato all’immaginario della notte come luogo dell’incontro con gli istinti, i desideri e le fantasie

inconfessate. Ma l’incongruenza tra le esperienze notturna e diurna segnala qui l’impossibilità di

una chiara dicotomia tra interno ed esterno, tra conscio e inconscio. A Kubrick non interessano

tanto, com’era invece per Schnitzler, le pulsioni profonde che si nascondono dietro la facciata

dell’alta borghesia e dell’istituzione matrimoniale che ne è il centro, quanto piuttosto la scoperta

che quelle stesse pulsioni non sono che forme della meschinità e della miseria esistenziale. Ancora

una volta, Kubrick utilizza tutti gli strumenti alti della cultura occidentale, non per costruirne un

monumento idealizzante, ma per analizzare e demolire l’immagine che essa crea di sé stessa.

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Indice

1 CONTINUITÀ E INNOVAZIONE ................................................................................................................ 3


2 UNA RADIO PER I GIOVANI .................................................................................................................... 5
3 ALTO GRADIMENTO ................................................................................................................................. 8
BIBLIOGRAFIA ................................................................................................................................................. 11

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1 Continuità e innovazione

In linea con il progetto socializzante attuato dalla televisione, la radio del dopoguerra

continuava a raccontare il Paese, intrattenendolo, informandolo ed educandolo attraverso una

programmazione che esprimeva i valori di un Paese in rapida trasformazione. Questa fase si apre

all’insegna di “una radio per tutti”, del bisogno diffuso di evasione, del desiderio di una vita

migliore. La radio contribuirà ad avviare: “quel processo di modernizzazione nel campo dei gusti e

dei consumi di massa, di quella rivoluzione del costume che ha dominato la società di quest’

ultimo cinquantennio” (Isola 1995), che si era aperto con l’arrivo degli americani durante la guerra.

È importante i sottolineare due aspetti della radiofonia italiana: mentre la televisione nasce

il 3 gennaio 1954, la radio italiana compiva il suo trentesimo anno; riparati i danni della guerra agli

impianti tecnici, l’azienda era in buona salute con più di 5 milioni di abbonati, oltre 11mila ore di

diffusione e 18 milioni di lire di introiti.

La radio del dopoguerra ha saputo esprimere orientamenti sociali diffusi e farsi volano della

industria culturale:

- lanciando nuovi talenti;

- dispensando premi;

- creando posti di lavoro;

- formando registi, attori, conduttori, cantanti che si sarebbero affermati anche altri

ambiti dello spettacolo. Tra gli esempi più significativi: Federico Fellini, Alberto Sordi,

Mike Bongiorno, Claudio Villa, ecc.

Con l’avvento della televisione inizia per la radio una perdurante crisi, in cui rapidamente

perde il suo ruolo di strumento principale dell’intrattenimento domestico. La rinascita avverrà dalla

metà degli anni’60:

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 La diffusione del transistor trasforma apparecchio radio in oggetto tascabile, mobile e a

basso costo; la radio si sposta nelle aree più private dell’abitazione (camera da letto,

bagno, cucina) e nei luoghi di lavoro e del tempo libero;

 Lo sviluppo di una “cultura giovanile” che ha nella musica rock una forte fonte di

identificazione diffusa dagli Usa in Europa;

 la radio italiana riorganizza il palinsesto anche in funzione del nuovo pubblico giovanile e

introduce programmi musicali e di intrattenimento dal linguaggio innovativo. In Italia

Vittorio Zivelli conduceva già nel 1953 sul Secondo Programma Il Discobolo da cui

segnalava le novità musicali provenienti da tutto il mondo.

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2 Una radio per i giovani

Cosa può contrapporre la radio alla novità e all’impatto spettacolare della TV? Anzitutto

l’abitudine all’ascolto. Trent’anni di attività alle spalle permettono infatti alla radio di contare su un

pubblico affezionato che apprezza nelle trasmissioni radiofoniche in primo luogo la musica leggera

e programmi di svago generale (che interessano soprattutto casalinghe, operai, agricoltori) e poi

gli aggiornamenti sui fatti del mondo, i temi della politica e della società (che riguardano un

pubblico di professionisti, dirigenti e impiegati).

Di fronte all’onda dei grandi cambiamenti introdotti dagli anni Sessanta nell’ambito dei

consumi culturali di massa, in Italia e nel resto dei paesi dell’Europa occidentale, la radio

sperimenta nuove formule, senza per questo perdere la sua cifra distintiva: una radio diversa che si

rinnova senza alterare le sue radici di servizio pubblico.

La presa di coscienza che il pubblico radiofonico è in movimento, che compie varie

funzioni mentre ascolta e che ha bisogni diversi, spinge la RAI a caratterizzare i tre programmi per

generi. Così il Primo Programma accentuerà la propria fisionomia di canale d’informazione

aumentando il numero e la durata delle rubriche giornalistiche; il secondo che tradizionalmente

riunisce i generi ricreativi punta a spettacoli giornalieri di prosa e varietà impaginati da una

continua colonna sonora di musica leggera; il Terzo ammorbidirà l’impostazione dotta e

accademica, aumentando l’offerta di teatro contemporaneo.

Per rimanere al passo con i tempi, la radio avvertì la necessità di descrivere in modo più

diretto l’emergere della cultura giovanile, che andava intrecciandosi sempre di più con i nuovi

movimenti sociali e politici che avevano creato maggiore possibilità e condizioni per consumare

cultura rispetto alle generazioni precedenti. In questo contesto la musica ricoprì un ruolo

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fondamentale e strategico nella diffusione di ideali nuovi e liberi, di provenienza soprattutto

anglosassone. Stava nascendo “l’attenzione a una nuova soggettività, a una più pronunciata

autonomia, che rivalutava la coscienza e il ruolo dei singoli e la loro possibile azione” (Monteleone,

1992) e di cui la radio sarebbe diventato spazio e voce in un nuovo patto di comunicazione con il

pubblico basato sulla ripetitività del quotidiano.

In conseguenza di ciò:

 l’informazione divenne più rapida;

 la musica acquisì sempre maggiore spazio e importanza all’interno dei palinsesti: si

verificò, quindi, «un cambiamento del ruolo della radio che si trasforma da

protagonista del tempo libero a colonna sonora, ininterrotto rumore di fondo della

giornata che troverà la sua massima diffusione nella filodiffusione e negli apparecchi

portatili». La centralità dell’esperienza musicale nella comunicazione radiofonica incise

profondamente nella definizione di una nuova socialità e di una modernità in

espansione.

 l’industria discografica conobbe un vero e proprio boom, passando da 18 milioni di

dischi venduti nel 1958 agli oltre 30 milioni del 1964. La novità tecnologica giunse

comunque dall’estero con la diffusione dei nuovi lettori portatili, più economici e

leggeri, i cosiddetti mangiadischi, ma anche di registratori a nastro e vinili più piccoli, i

45 giri.

La svolta per la radio avvenne comunque con la diffusione del transistor: l’apparecchio

radiofonico si miniaturizzava, svincolandosi da una dimensione domestica in cui dominava lo

schermo televisivo. Il processo di ringiovanimento della radio è cominciato proprio quando ci si è

accorti che essa poteva seguirci ovunque, che doveva accompagnare, come sostiene Renzo

Arbore, che della radio moderna è stato protagonista e innovatore. Insieme a Gianni

Boncompagni, a partire dalla metà degli anni Sessanta con Bandiera Gialla (Secondo Programma,

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copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).

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1965), dedicato alle novità della musica internazionale, e poi con Alto gradimento nel 1970, Arbore

aveva iniziato a smontare il modo ingessato di fare radio tipico del servizio pubblico proponendo,

da un lato, un linguaggio fatto di tormentoni e slang e, dall’altra, raccogliendo la domanda

discografica del pubblico giovanile sempre più globale.

Mentre la radio dimostrava anche in questo grande vitalità, la televisione essere meno

efficace come mezzo di promozione musicale.

Nello stesso periodo, iniziarono in Europa i primi esperimenti di emittenza radiofonica

privata, in aperta contrapposizione ai monopoli pubblici vigenti nella maggioranza dei paesi.

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3 Alto Gradimento

A partire dalla metà degli anni Sessanta la RAI lanciò una serie di trasmissioni che sono

entrate nelle abitudini di ascolto per il successo della formula. Tra queste, Chiamate Roma 3131

(che nel 1969 utilizzò per la prima volta il telefono nel rapporto diretto con il pubblico); da Bandiera

Gialla di Gianni Boncompagni a Per voi giovani di Renzo Arbore.

La crescente importanza riconosciuta alla musica non pregiudicò però il parlato all’interno

delle trasmissioni che, anzi, diedero l’avvio a un’intelligente operazione di dissacrazione linguistica,

sperimentata per la prima volta proprio da Renzo Arbore e Gianni Boncompagni in Bandiera

Gialla, e portata a definitivo compimento dagli stessi autori in Alto Gradimento.

Alto Gradimento rappresentò l’apice della crisi che aveva investito fino a quel momento il

sistema radiofonico tradizionale ma anche la risposta più adeguata a una istanza di innovazione.

La prima puntata andò in onda sul Secondo Programma, in diretta, il 7 luglio 1970, dalle 12:30 alle

13:30. Il successo fu immediato con ascolti di 2,4 milioni a puntata e con picchi di 3,5 milioni.

La formula si basava sulla chiacchiera radiofonica libera, scanzonata e divagatoria (che

avrebbe costituito la cifra inconfondibile delle radio private), e su una serie di trovate linguistiche

che diventarono subito dei tormentoni nonsense che entrarono subito a far parte del linguaggio

quotidiano, componendo una sorta di enciclopedia giovanile fatta di segni e simboli.

Come ricorda lo stesso Renzo Arbore, il programma nacque per protesta contro le

atmosfere del Sessantotto che avevano politicizzavano un po’ tutto. Erano anni di grandi

trasformazioni e lacerazioni sociali, si rideva pochissimo e Alto Gradimento nacque come

operazione di umorismo demenziale.

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Arbore e Boncompagni erano una fucina inarrestabile di slogan («Patroclo!», «Li pecuri!»), o

il teorema di Pitagora recitato per intero etc.) che si diffusero rapidamente tra i giovani. Come

pure i personaggi interpretati da Mario Marenco (il Colonnello Buttiglione, il Comandante Ray,

Professor Aristogitone) o da Giorgio Bracardi (Max Vinella, Scarpantibus, Patroclo). Nel programma

vennero lanciati anche i cosiddetti stacchetti, siparietti goliardici e sonori lanciati nel corso della

trasmissione che velocizzavano il ritmo delle trasmissioni canoniche e tradizionali.

Questo modo di fare radio permise allo spettatore di diventare parte attiva dello

spettacolo: gli fu finalmente concesso, infatti, di far sentire la propria voce ed esprimere

un’opinione, in pubblico, sugli argomenti più disparati anche grazie dell’utilizzo in pianta stabile del

telefono, già introdotto per la prima volta da Chiamate Roma 3131 qualche anno prima (1969).

L’altro elemento innovativo del programma era rappresentato dallo sguardo verso

l’american way che, però, restò tale. Alto Gradimento non rappresentò un momento di

discontinuità del tutto alternativo alla radio istituzionale, quanto piuttosto un tentativo della stessa

di rinnovarsi dal suo interno soprattutto nelle modalità comunicative e dii interazione con il

pubblico.

Il coinvolgimento degli ascoltatori nella realizzazione del programma sarà, infatti, tra le

eredità più grandi che quel modo di fare radio lascerà alle emittenti private. Facendo particolare

riferimento all’esperienza delle radio libere, Franco Monteleone ha osservato come “quella

straordinaria trasmissione diventerà il modello di quasi tutte le radio libere apparse nel corso del

decennio. Senza Alto Gradimento è impossibile capire nella sua totalità il fenomeno dell’emittenza

privata, del suo linguaggio iterativo e afasico, del suo ascolto epidermico e trasversale. Più che

nella televisione, è stato nella radio che la pratica dell’imitazione si è esercitata da parte delle

radio libere, con una singolare mescolanza di competitività invidiosa e di spocchiosa distruttività”.

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Contemporaneamente e a seguito di Alto Gradimento nacquero, infatti, altre trasmissioni

considerate in modo analogo “di rottura”. Tra queste, si distinse Per voi giovani (1966), ideata – tra

gli altri – da Maurizio Costanzo, dedicata alla musica rock e pop e a tutti i temi di interesse

giovanile alla cui conduzione si alternarono da Arbore a Caterina Caselli, Carlo Massarini, Mario

Luzzatto Fegiz.

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Indice

1 UNA NUOVA STAGIONE .......................................................................................................................... 3


2 LA RIPRESA DEI GENERI CINEMATOGRAFICI ......................................................................................... 5
3 LA COMMEDIA ALL’ITALIANA ................................................................................................................. 7
4 IL SORPASSO .......................................................................................................................................... 10
BIBLIOGRAFIA ................................................................................................................................................. 12

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1 Una nuova stagione

Dopo gli anni del Neorealismo, che sono anche quelli più difficili in cui le ferite della guerra

sono ancora aperte, gran parte del pubblico chiede al cinema italiano intrattenimento e svago ed

anche un consumo leggero e rapido, capace tuttavia di mantenere la presa sulla realtà, di

rappresentare storie verosimili e di raccontare in modo ravvicinato gli italiani con la loro voglia di

riscatto e di benessere.

Il cinema italiano degli anni ’60 è intrecciato con i cambiamenti storici che hanno

modificato profondamente il nostro Paese dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Tra questi,

l’esaurimento del centrismo (i governi retti dalla Democrazia cristiana con l’apporto di partiti

numericamente minori) e l’”apertura a sinistra” coinvolgendo il Partito socialista italiano nella

maggioranza di governo, distaccandolo in parte dal Partito comunista. Si diffondono nuovi stili di

vita: l’industrializzazione si estende fuori dal tradizionale “triangolo industriale” (Lombardia,

Piemonte, Liguria) per coinvolgere il Veneto e l’Emilia, la Toscana e le Marche ma anche nuovi poli

nel Mezzogiorno, prevalentemente promossi dall’industria a capitale pubblico.

All’industrializzazione si accompagna l’urbanizzazione e la mobilità territoriale: dal Sud al Centro e

al Nord, dalle campagne alle grandi città. Crescono così i consumi di massa, l’agricoltura perde la

sua centralità nel sistema economico e cede addetti all’industria e al terziario. Alla trasformazione

delle preesistenti classi sociali si accompagnano la nuova concezione del tempo libero, mentre

anche la sfera intima, la morale sessuale, i rapporti fa i sessi iniziano a modificarsi, sia pure con

maggiore lentezza rispetto alle trasformazioni economiche. In un decennio che produsse un

miglioramento diffuso del tenore di vita e un aumento dei consumi, il possesso dell’apparecchio

televisivo e di una automobile diventano i simboli più rappresentativi di questo nuovo benessere

faticosamente acquisito e, insieme, un duplice viatico verso la modernità.

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Il cinema italiano di quegli anni è stilisticamente vario e tematicamente articolato, coglie lo

spirito di questo decennio dipingendo i tratti che definiscono i nuovi caratteri degli italiani e

dell’Italia e mettendo in luce, insieme ai cambiamenti, anche le contraddizioni ad essi collegate. Si

apre, con minore potenza rispetto al Neorealismo, ma con pennellate di ironia e di umorismo, una

sorta di “Nouvelle Vague” italiana, una “nuova ondata” paragonabile quella che si aprì alla fine

degli anni Cinquanta in Francia rinnovando i modelli estetici della parte migliore del suo cinema;

anche se in Italia con diverse forme espressive e minore compattezza. All’epoca non c’è stato, in

Italia, un dibattito e una scuola paragonabili a ciò che sono stati in Francia i Cahiers du Cinema

(una importantissima rivista di critica e studi cinematografici).

In questa fase si affacciarono alla regia una schiera di autori, spesso già attivi in altri ruoli nel

mondo del cinema, destinati a diventare un punto di riferimento in Italia come all’estero. Tra il 1960

e il 1964 sono tanti e diversi gli autori esordienti. Tra essi: nel 1960 Mario Bava (La maschera del

demonio), Damiano Damiani (Il rossetto), Luciano Salce (Le pillole di Ercole), Florestano Vancini (La

lunga notte del ’43), Ermanno Olmi (Il tempo si è fermato). Nel 1961 Sergio Leone (Il colosso di

Rodi), Giuliano Montaldo (Tiro al piccione), Pier Paolo Pasolini (Accattone), Elio Petri (L’assassino),

Ugo Tognazzi (Il mantenuto); nel 1962, Ugo Gregoretti (I nuovi angeli), Paolo e Vittorio Taviani (Un

uomo da bruciare). Nel 1963 Tinto Brass (Chi lavora è perduto) e Lina Wertmuller (I basilischi). Nel

1964 Ettore Scola (La congiuntura).

Nel passaggio dagli anni’50 ai ’60 si collocano inoltre da pellicole come Poveri ma belli

(1957) di Dino Risi e I soliti ignoti (1958) di Mario Monicelli, con Vittorio Gassman, Marcello

Mastroianni e Renato Salvatori. Gli anni ’60 sono inaugurati da produzioni assai significative come

La Ciociara (1960) di Vittorio De Sica e La dolce vita (1960) di Federico Fellini.

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2 La ripresa dei generi cinematografici

Nel cinema italiano degli anni ’60 è particolarmente evidente una diversificazione dei

generi che parte da una rivisitazione di quelli classici e tradizionali, con l’obiettivo di rispondere alle

esigenze di un pubblico più vario e urbanizzato, per alcuni aspetti più colto. Così, dalla fine degli

anni ’50 fino alla prima metà degli anni ’70 si assiste ad una ampia diversificazione del cinema di

genere: il western, la commedia, il cinema politico, il thriller-horror, l’erotico, solo per citarne alcuni,

invadono le sale, in alcuni casi riscuotendo significativi successi di pubblico.

A parte il caso della commedia italiana, che sarà oggetto di una trattazione apposita, lo

Spaghetti western è l’esempio più vasto quantitativamente e più duraturo di film di genere nella

storia del cinema italiano. Il termine nacque negli Stati Uniti per indicare una versione povera dei

grandi western come quelli di John Ford (che sceglieva spesso come protagonista John Wayne) e

Howard Hawks. Lo Spaghetti western nasceva in un contesto storico e culturale molto diverso da

quello in cui erano stati realizzati e prodotti i film del western americano e segnava un

superamento nei gusti del pubblico italiano del genere epico-mitologico.

Nel western all'italiana le scene sono caratterizzate da un graduale crescendo dell’azione

che culmina in gesti brutali con lo scopo di mantenere alta l'attenzione del pubblico, da un uso

retorico della camera da presa che mirava a dilatare il tempo, dai duelli e le uccisioni preceduti

da solenni attacchi di tromba. Una enfatizzazione del machismo e degli stilemi mediterranei

prende il posto della ruvidezza americana.

Tra i registi italiani che si sono dedicati a questo genere Damiano Damiani, Sergio Corbucci,

Duccio Tessari. Un caso a parte è quello di Sergio Leone che, dopo gli esordi nel western di

fondazione, realizzerà Per qualche dollaro in più (1965), Il Buono, il brutto, il cattivo (1966), C’era

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una volta il West (1968), Giù la testa (1971) e nel 1984 il testamentario C’era una volta in America.

Leone mette in scena eroi molto diversi da quelli classici dei migliori registi americani: quelli di

Leone sono antieroi dalle personalità complesse, astuti e spesso senza scrupoli.

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3 La commedia all’italiana

In questo scenario un’attenzione particolare merita la commedia all’italiana che riflette

appieno la realtà del suo tempo attraverso l’ironia e la satira di costume. È un genere che trae le

sue origini dalla multiforme tradizione teatrale italiana (che attinge alla commedia dell’arte), la cui

influenza rimane rilevante sulla tipologia dei personaggi e i loro rituali di comportamento, dagli

intermezzi comici del varietà popolare, da certa commedia borghese del periodo fascista, che

ironizzava lievemente su alcune debolezze del sistema, dalla commedia dialettale italiana, che si

radica a sua volta nella tradizione popolare più che letteraria. La definizione di commedia

all’italiana può forse ricondursi a un film di Pietro Germi del 1961, Divorzio all’italiana, con Marcello

Mastroianni.

Più che un genere, essa costituisce un bacino di domanda/offerta dove si collocano le

molte varianti di oltre quindici anni di commedia cinematografica. Varianti talora molto diverse fra

loro sia per la sensibilità degli autori, che per i temi affrontati.

Al centro della commedia all’italiano c’è un desiderio, talvolta superficiale, talvolta

grottesco, sempre molto coinvolgente per il pubblico, di indagare la realtà del tempo e in

particolare il contrasto fra i mutamenti, spesso dirompenti, e il permanere di arcaismi nei rapporti

sociali e nelle relazioni interpersonali. Per questo la commedia si sceglie un particolare bersaglio, la

borghesia rampante, gioiosa e avida, rumorosa ma inventiva, che declina l’eterna arte di

arrangiarsi in un contesto più metropolitano e moderno. Un bersaglio godevole anche se si tratta

ovviamente, di un bersaglio finzionale, creato assemblando caratteristiche della vita sociale

dell’epoca con i caratteri della commedia dell’arte. C’è un sorriso piuttosto che la ricerca delle

radici dei problemi, o l’indicazione degli eventuali responsabili, che comporterebbe implicazioni

politiche non desiderate. Si enunciano i temi con tocco lieve, e poi ci si allontana da essi per

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passare ad altri: per questo la struttura a episodi, talora brevissimi (ad esempio ne I mostri di Dino

Risi, 1963), si presta particolarmente a questo “mordi e fuggi”, che peraltro sarà il titolo di un’altra

bella prova di Risi (1973).

Anticipazioni della commedia all’italiana sono rintracciabili già nei primi anni ’50 in film

come La famiglia Passaguai (regia di Aldo Fabrizi, 1951) e soprattutto con il fortunato Pane, amore

e fantasia (Luigi Comencini,1953) e i suoi sequel, con Vittorio De Sica e Gina Lollobrigida. Tuttavia il

contesto è assai diverso, caratterizzato da condizioni di vita ancora modestissime e, nel caso di

Comencini, addirittura arcaiche: prive di quella corale pulsione verso il benessere che

caratterizzerà gli anni, e i film, successivi.

Non stupisce che il finale sia spesso diverso dall’happy ending; acre, amaro, sospeso. Quasi

che il regista si incaricasse di dirci che i danni prodotti dai comportamenti che ha appena

descritto si faranno sentire più tardi. Tuttavia non si ferma a pensare a quei problemi, corre a fare

un altro film. Gli attori più amati (Sordi, Tognazzi, Gassman, Lollobrigida, Loren…) erano molto

richiesti e lavoravano continuamente. In qualche misura la commedia all’italiana è un serial, dove

l’elemento di continuità è rappresentato dai volti dei protagonisti.

Il fondale su cui si animano le vicende della commedia si dipana fra l’avvento del centro-

sinistra, la morte di Papa Pio XII e l’elezione di Papa Giovanni XXIII, le imprese spaziali, la coesistenza

pacifica alternata alla guerra fredda. Intanto si affermano nuovi mezzi di comunicazione di massa

e nuovi dispositivi (la TV, il mangiadischi [giradischi portatile], il flipper, il juke-box) che aprono la

strada a nuovi stili di vita.

L’avvento del centrosinistra porterà con sé anche un attenuarsi della censura: i socialisti

punteranno molto sul Ministero dello spettacolo, di recente istituzione. L’allargamento delle maglie

su ciò che era considerato lecito presentare al pubblico, insieme all’autorevolezza e al successo di

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mercato della commedia all’italiana, consolidano il ruolo sociale dei registi e la loro posizione nel

mondo intellettuale dell’epoca. Fra gli esempi Dino Risi, forse l’esponente più significativo della

commedia all’italiana cui si deve Una vita difficile (1961) e Il Sorpasso (1962), Mario Monicelli (I soliti

ignoti, 1960; l’Armata Brancaleone, 1966; Amici miei, 1975); Luigi Comencini (Infanzia, vocazione e

prime esperienze di Giacomo Casanova veneziano, 1969).

Gli attori che dominano la scena cinematografica del periodo sono Alberto Sordi, Vittorio

Gassman, Ugo Tognazzi e Nino Manfredi, con Marcello Mastroianni spesso impegnato in produzioni

internazionali.

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4 Il sorpasso

Il sorpasso (1962) è la pellicola più nota di Dino Risi, divenuta un simbolo dell’Italia che

cambia e che si rimette in moto e in corsa anche materialmente. Gli anni sono quelli della

diffusione delle automobili e della costruzione delle autostrade. La sceneggiatura è firmata al

regista insieme a Ettore Scola e Ruggero Maccari.

Protagonisti di quello che può essere considerato il primo road movie all’italiana sono

Vittorio Gassman, che interpreta il personaggio di Bruno Cortona: un italiano che si arrangia, che

ostenta un livello di vita che non ha, pervaso da un vitalismo che lo conduce da un’avventura

all’altra. Jean-Louis Trintignant è il timido e pensoso studente di legge Roberto Mariani che si trova

quasi per caso nel ruolo di compagno di viaggio sulla Lancia Aurelia B24 di Cortona lche corre da

Roma verso la Versilia, che non raggiungerà mai, lungo la Via Aurelia appena allargata per

diventare una “superstrada”: una compensazione per le città costiere della Toscana escluse

dall’Autostrada del Sole, che il ministro dei lavori pubblici Giuseppe Togni, toscano anche lui, non

poteva ignorare. Nel cast anche Catherine Spaak, che sarà Lilli, la figlia di Bruno.

Proprio a bordo dell’auto, la mattina di Ferragosto del 1962, si snoderà gran parte del film.

Al volante c’è Bruno Cortona alla ricerca di un pacchetto di sigarette e soprattutto qualcuno con

cui trascorrere quel giorno finché, all’improvviso e puro caso, adocchia affacciato alla finestra del

suo appartamento, Roberto. Lo studente si lascerà convincere lasciare i libri a casa e a seguirlo

nella gita verso il mare.

Bruno e Roberto rappresentano il passaggio dal vecchio al nuovo. Il Sorpasso costituisce a

suo modo un documento storico e sociale prezioso che rappresenta le varie classi dell’Italia

dell’epoca. Al nullatenente Bruno che vive di espedienti si contrappone la medio-alta borghesia

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incarnata dagli zii di Roberto e dal cugino Alfredo che esalta la nuova classe imprenditoriale

dell’uomo che si è fatto da solo. Nel film è presente anche un ampio ventaglio di variegata

umanità che Bruno e Roberto incontrano durante i loro spostamenti. Dino Risi riesce a trovare un

equilibrio registico straordinario tra ironia e disincanto.

Per comprendere a fondo il film è necessario collocare al centro della narrazione il

significato o, per meglio dire, i più significati che la via Aurelia assume. Non solo una strada che

collega Roma al confine francese, ma un’idea di evasione, una sorta di vetrina dei nuovi simboli

del benessere e della nuova tendenza ad accumulare, comprare, per poi esibire e così certificare

di non essere più poveri o come prima. Il film infatti passa in rassegna frigoriferi, televisioni, telefoni a

gettone, vacanze al mare, la musica, il ballo.

La via Aurelia però è anche la rappresentazione scenica di una nazione che si avvia

velocemente alla fine del sogno, di quel benessere consideratore collettivo, generalizzato,

duraturo. Il salto nel vuoto che alla fine del film compirà la Lancia indica proprio questa disillusione.

Anche la vita spezzata di Roberto e il pericolo scampato di Bruno sono un altro messaggio

simbolico-narrativo che rimanda alle due identità dell’Italia, giunta a un bivio della propria storia.

La prima, quella legata ai princìpi, sarà sedotta e morirà, nella fine di un sogno, lasciando campo

libero alla seconda Italia, quella furbesca, individualista e amorale. “Si chiamava Roberto, il

cognome non lo so, l’ho conosciuto ieri mattina”, dirà Bruno al milite della Stradale accorso sul

luogo dell’incidente.

“Quando tutti hanno finito di comprare tutto, eccoci qui, eccoci nella profonda

depressione”, dirà invece Dino Risi.

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Indice

1 TRA SOGNO E RAPPRESENTAZIONE ....................................................................................................... 3


2 LA DOLCE VITA ........................................................................................................................................ 6
3 8½ ............................................................................................................................................................. 8
BIBLIOGRAFIA ................................................................................................................................................. 10

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1 Tra sogno e rappresentazione

Federico Fellini è uno dei grandi maestri del cinema italiano e tra i registi italiani più

apprezzati all’estero per la cifra stilistica dei suoi film e il suo modo originale di concepire l’opera

cinematografica.

Film come La dolce vita, 8½ e Amarcord sono una parte significativa del patrimonio

cinematografico e della identità italiana. Film come Amarcord, I Vitelloni sono diventati modi di

dire, rappresentazioni della realtà entrati nel linguaggio comune. I film di Fellini sono parte

integrante dell’immaginario collettivo (un esempio è la scena del bagno nella fontana di Trevi

di Anita Ekberg ne La dolce vita) e opere cinematografiche uniche in cui il labile confine tra realtà

e sogno è continuamente traversato nei due sensi.

Dopo aver svolto attività giornalistica e radiofonica, ed aver collaborato come disegnatore

per la rivista satirica Marc’Aurelio, Fellini inizia a collaborare alla sceneggiatura di due capolavori

del cinema neorealista, Roma città aperta (1945) e Paisà (1946), entrambi di Roberto Rossellini.

Negli anni successivi collaborerà, tra gli altri, con Lattuada e Germi.

L’esordio avviene in co-regia con Albero Lattuada ne Luci del varietà (1950), film che

racconta il mondo dell’avanspettacolo, un tema che sarà ricorrente nel cinema felliniano e ne

anticipa motivi stilistici. Il debutto vero e proprio può considerarsi Lo sceicco Bianco (1952), con un

soggetto scritto in collaborazione con Michelangelo Antonioni, in cui Fellini p inaugura, infatti, uno

stile nuovo, umoristico, da alcuni considerato l’espressione di un realismo magico. Con I vitelloni

(1953) Fellini ottiene il primo grande successo di pubblico, raccontando le storie di un gruppo di

amici che rievocano ricordi dell’adolescenza del regista romagnolo; ma è con con La

strada (1954) che Fellini si fa apprezzare da un pubblico internazionale. In questo film, che

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racconta le vicende di due artisti di strada, protagonista è Giulietta Masina, compagna di vita del

regista, che intrepreterà anche Le notti di Cabiria (1957).

Tra i due film prima citati si colloca Il bidone (1955), storia di tre imbroglioni, Augusto, Picasso

e Roberto, specializzati in truffe ai danni di poveri contadini. In questo film che riprende tratti del

neorealismo emergono le inquietudini dell’esistenza e l’attrazione per dimensioni quali il sogno, la

magia, il sovrannaturale, la trascendenza e l’inconscio: linee narrative che caratterizzeranno la

cinematografia felliniana.

Attraverso la galleria dei suoi personaggi il regista racconta l’Italia e le contraddizioni del

suo tempo. Un esempio è rappresentato da I Vitelloni, giovani sfaccendati della provincia che

passano la loro giornata nell'ozio, tra bar, gioco, passeggiate, amori inutili e progetti vani, in una

Rimini che ritengono troppo esigua per loro ma che quasi nessuno riuscirà ad abbandonare.

Anche il Marcello, interpretato da Mastroianni, de La dolce vita vive è in una perenne

sospensione tra il suo sogno di affermarsi come scrittore impegnato, l’ammirazione per Steiner,

l’intellettuale di successo che però si suiciderà, e l’ambiente giornalistico scandalistico in cui vive.

Anche Augusto, Picasso e Roberto ne Il bidone si muovono in un’atmosfera amorale, disincantata,

infantile, egoista fino poi a scontrarsi con le crisi di coscienze tra quello che sono e il dover essere.

Nel cinema di Fellini si possono rintracciare altri elementi ricorrenti:

- Il buffo, il grottesco, il circo. Sono modalità con cui Fellini si accosta ai paradossi

della società italiana di quegli anni. Si vedano, ad esempio, l’episodio di fanatismo

collettivo attorno i due bambini che sostengono di aver visto la Madonna ne La

dolce vita (1960), la discesa agli inferi in Fellini Satirycon (1969) o la sfilata di “moda

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ecclesiastica” in Roma (1972), film in cui Fellini racconta una Roma grottesca, vista

con gli occhi di un provinciale che si trasferisce in città.

- La decadenza della nobiltà e le illusioni della nuova borghesia. In numerose scene

dei suoi film risulta evidente come queste classi sociali siano rappresentate come

emblema del declino (della nobiltà) e di scadimento (la borghesia). Sono

emblematiche le scene della festa ne La dolce vita, il bizzarro personaggio del

Principe in Amarcord (1973), la madre di Giulietta in Giulietta degli spiriti (1965) o

ancora il funerale eccessivo di Trimalcione in Fellini Satirycon (1969).

- I personaggi femminili. Nei film di Fellini sono l’elemento stabilizzatore e di equilibrio

nella babele sociale. Le donne si mostrano più forti e resistenti degli uomini e Fellini

le idealizza e le ama.

Fellini ha ricevuto l’Oscar per ben cinque volte: al miglior film straniero nel 1956 con La

strada, nel 1957 con Le notti di Cabiria, nel 1963 con 8½ e nel 1974 con Amarcord. Nel 1993 gli è

stato conferito il premio Oscar alla carriera.

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2 La dolce vita

La dolce vita (1960) è il film con cui Fellini abbandona definitivamente gli schemi narrativi

tradizionali e descrive senza remore la decadenza morale di una certa élite sociale tra gli anni ’50

e ’60 in un affresco corale che contraddice lo stesso titolo. La vita in quegli anni gli appare

tutt’altro che dolce.

I protagonisti di questa monumentale opera cinematografica sono Marcello Mastroianni,

nei panni di Marcello Rubini giornalista con l’ambizione da scrittore e frequentatore, ma in un ruolo

subalterno, dell’alta società romana; Anita Ekberg, la bionda attrice Sylvia la cui scena nella

fontana di Trevi (“Marcello come here”) fece di lei una icona; Alain Cluny ovvero Steiner, per

Marcello un modello intellettuale.

Le musiche del film sono composte da Nino Rota che con Fellini aveva un sodalizio artistico

e un’amicizia molto forte.

La dolce vita ha una trama complessa (tre ore esatte), fondata sull’intreccio di una serie di

episodi, ognuno dei quali mostra da una diversa angolazione il protagonista e l’ambiente in cui si

muove.

Il film si apre con l’immagine di un Cristo di gesso trasportato in elicottero nel cielo di Roma

(qualcosa del genere era accaduto in un pellegrinaggio delle Acli in Piazza San Pietro) e si chiude

in una spiaggia indeterminata, che potrebbe essere Fregene, davanti al mare, dove i pescatori

hanno portato a riva la carcassa di un pesce mostruoso, morto: forse un riferimento a uno

scandalo dell’epoca: il caso di Wilma Montesi, trovata morta sul litorale, dopo un festino,

anch’esso rievocato nel film. Marcello cerca di scrivere chissà quale articolo o progetto di

sceneggiatura e una giovane adolescente, dagli occhi innocenti, tenta invano di parlargli, perché

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le sue parole non gli arrivano. In mezzo, tanti episodi, a volte tragici a volte grotteschi: i “paparazzi”

(il nome viene dal fotografo che compare nel film) di una via Veneto ricostruita in studio a

Cinecittà, la brulla campagna romana in cui accadono “miracoli”, le orge notturne nelle case al

mare dei nuovi ricchi, i palazzi dell’aristocrazia nera, le serate intellettuali, i locali notturni. Quando

uscì nelle sale il film incontrò un enorme successo di pubblico (citato in Divorzio all'italiana di Pietro

Germi e Nuovo Cinema Paradiso di Giuseppe Tornatore). Le proteste che suscitò in gran parte del

mondo cattolico, con piccole significative eccezioni, sicuramente giovarono alla popolarità del

film che molti spettatori dell’epoca considerarono, senza averlo ancora visto, spregiudicato e

piccante.

Fellini rielabora più volte la sceneggiatura (scritta con Ennio Flaiano, Tullio Pinelli e Brunello

Rondi), che subisce più modifiche in corso d’opera, arricchendola del suo sguardo visionario da

cui poi deriveranno particolari scelte stilistiche, come gli stacchi improvvisi, l’uso della dissolvenza

incrociata nelle scene notturne e l’impiego dei trasparenti, in un bianco e nero che conferisce a

molte sequenze una dimensione onirica.

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3 8½
Dopo aver girato Le tentazioni del dott. Antonio, episodio del film collettivo Boccaccio ‘70,

Fellini si prende una pausa pensando al suo successivo film da voler realizzare. L’idea di 8½ (1963)

nasce proprio ispirandosi alla sua vicenda biografica e alle difficoltà di realizzare un nuovo film.

L’intuizione sarà proprio questa: fare un film su un regista che non sa che film fare.

8½ è il grande racconto che il cinema fa di sè stesso, delle sue infinite possibilità, della sua

capacità evocativa. Ma è anche un’opera che racchiude l’esperienza di Fellini, la sua arte, i suoi

dubbi, le sue ossessioni. La controfigura del maestro è lasciata a Marcello Mastroianni nella parte di

Guido, regista famoso ma in crisi di ispirazione, che preso dall’angoscia di non riuscire a realizzare il

proprio film, si rifugia alle terme. Qui viene raggiunto dalla moglie Luisa (Anouk Aimée), ormai

consumata da un matrimonio inesistente, e incontra una serie di donne bellissime tra cui Claudia

(Claudia Cardinale). Il contrappunto musicale del film è affidato, ancora una volta, a Nino Rota.

In 8½ realtà, sogno ed immaginazione si mescolano e di fondono in un tutt’uno e l’intreccio

è ancor più frammentato rispetto ai film precedenti. La logica e l’ordine abdicano in favore del

caos e del sospeso che vengono magnificamente resi da un esercizio artistico e da una maestria

cinematografica densa di talento e potenza visionaria.

In 8½ Fellini parla di sé stesso e dei suoi pensieri attraverso temi chiave come il rapporto con

la sua infanzia, quello con Dio e la religione, quello con l’universo femminile, il suo mestiere d’arte e

la psicoanalisi, in particolare la psicologia analitica di Jung.

Quest’ultima ha una grande influenza nella costruzione dell’opera poiché vengono

affrontati molti degli elementi che la fondano: ansia, insoddisfazione, turbamenti, ricerca della

felicità, apparenza, essere/sembrare.

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Guido, isolato da tutto, è l’emblema di questo vortice dove il solo incontro con Claudia (Claudia

Cardinale) rappresenta un’immagine di speranza che illumina il suo grigiore. Lei appare nel

momento in cui Guido capisce che l’unica possibile soluzione al caos è l’accettazione di ciò che

accade. Inutile ricercare la rigidità dell’ordine. La razionalità soccombe necessariamente

all’abbandono. Fellini sembra indicare che la ragione serve a poco o a nulla. Essa non può darci

tutte le risposte che cerchiamo né alleviare i dubbi che attanagliano l’esistenza. Trovare più

risposte crea soltanto più domande. Ed è così che nella poetica felliniana la condizione del delirio,

della confusione, della sospensione dei sensi è l’unica in cui l’uomo può essere veramente sé

stesso, lontano dalle regole e dal (pre)giudizio sociale.

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Indice

1 DALLA PARTE DEGLI ULTIMI ..................................................................................................................... 3


2 UNA NUOVA FORMA D’ESPRESSIONE .................................................................................................... 7
3 POLITICA E UTOPIA .................................................................................................................................. 9
BIBLIOGRAFIA ................................................................................................................................................. 11

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1 Dalla parte degli ultimi

La nascita di un governo di centro-sinistra, i nuovi modelli di vita, il rapido processo di

industrializzazione, l’aumento dei consumi di massa, la metamorfosi e la perdita progressiva dei

confini e dell’identità delle classi sociali, la nuova distribuzione del tempo libero, la maturazione di

una nuova coscienza politica, il mutamento nei comportamenti sessuali e abitudini collettive e la

migrazione di massa dal Sud ai centri industriali del Nord trovano nel cinema un terreno

particolarmente ricettivo e fecondo.

Nel 1960 il cinema, come un sensibile sismografo, registra la nascita di questi fenomeni e si

assume il compito di rappresentare queste transizioni sociali, culturali e politiche e i relativi strappi

col passato.

Tra i nomi che hanno raccontato questa delicata e travagliata fase del Paese vi sono

Ermanno Olmi, Marco Ferreri, Luchino Visconti, i fratelli Paolo e Vittorio Taviani, Florestano Vancini,

Damiano Damiani, Scola, Liliana Cavani a cui si aggiungono nel corso del decennio Marco

Bellocchio, Luigi Magni, Carmelo Bene.

Alcuni tra gli esordienti degli anni Sessanta hanno già fatto parte del mondo del cinema

come sceneggiatori o gli sceneggiatori e gli aiuto registi. Anche Pier Paolo Pasolini ha collaborato

a sceneggiature, non sempre creditato, ed è stato anche attore ne Il gobbo di Carlo Lizzani (1960);

ma è soprattutto uno scrittore e poeta che decide di usare la macchina da presa nello stesso

modo della macchina da scrivere.

Pasolini infatti si avvicina al cinema dapprima collaborando con Giorgio Bassani alla

sceneggiatura de La donna del fiume (1955), diretto da Mario Soldati e interpretato da Sofia Loren.

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Un’esperienza determinante per un intellettuale impegnato nella continua ricerca di nuovi modelli

espressivi e di nuove vie di comunicazione.

Sulla sua formazione incidono i film di Chaplin, Dreyer, Ejzenstein ma è soprattutto dalla

pittura che deriva la sua folgorazione figurativa, in particolare da Masaccio e Piero della

Francesca.

Nel 1955 Pasolini aveva pubblicato il romanzo Ragazzi di vita, libro-manifesto in cui è chiara

quale Roma lo scrittore sceglie di narrare: non quella del centro e dei monumenti, della borghesia

e del boom economico, che si materializza proprio a metà degli anni Cinquanta, ma quella dei

margini e delle borgate: degli esclusi dalla storia, anche quella narrata dal Partito Comunista

Italiano, che si focalizza sulla classe operaia senza legittimare un mondo di esclusi e di

sottoproletari, spesso ai confini con la malavita.

Il desiderio di narrare Roma, la sua bellezza e il suo sfacelo, la sua gente e il suo pullulare

pervade tutta la sua opera, fino all’anno della sua tragica fine, avvenuta vent’anni dopo, nel 1975.

Tutta la sua opera ha il segno della sfida, della lotta orgogliosa contro un mondo che lo rifiuta.

Quando esce Accattone (1961), che segna il suo esordio da regista, è evidente la

permeabilità tra la pagina e lo schermo. Pasolini sembra non avvertire traumi nella transazione dal

romanzo al cinema. La macchina da presa è per lui un dispositivo di scrittura per immagini e

dialoghi.

Il suo secondo film Mamma Roma (1962) ha come protagonista Anna Magnani che

interpreta una ex prostituta che si è rifatta una vita aprendo un banco di frutta e verdura. I suoi

sogni piccolo-borghesi di riscatto vengono infranti dal ritorno del suo antico protettore (Franco

Citti). L’ambientazione è nella periferia urbana ma profondamente diversa da Accattone, come

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diverso è l’impianto stilistico in cui si fa strada in modo prepotente il rapporto di Pasolini con la

madre.

Nel 1963 esce il folgorante film breve La ricotta che fa parte del film a episodi RoGoPaG

(dai nomi dei registi Roberto Rossellini, Jean-Luc Godard, Pier Paolo Pasolini, Ugo Gregoretti). Orson

Welles è un regista marxista disincantato che guida con distacco una troupe cinematografica fin

troppo disinvolta, chiamata a realizzare un film sulla Passione di Cristo. Un film intrinsecamente

religioso, che fu al centro di una grottesca vicenda giudiziaria che dispose il sequestro dell’opera e

per Pasolini una condanna a 4 mesi di reclusione con la condizionale per “vilipendio alla religione

di Stato”. Un episodio che lo segnò profondamente.

È Il Vangelo secondo Matteo (1964) a consacrare il cinema di Pasolini, divenendo

l’espressione più autentica della sua poetica cinematografica e il frutto di una profonda

meditazione. Il film è una nuova espressione dell’ampiezza della sua cultura figurativa, una

esplicita identificazione di sé con la figura del Cristo che come lui lotta per raggiungere una verità

finale, anche se questa coinciderà con la sua morte.

Il Vangelo secondo Matteo è una riflessione sull’umanità, in particolare sull’essere uomo ai

margini, rifiutato, povero. Un elemento, questo, accentuato dagli attori i cui volti rappresentano

con rudezza la sofferenza dei palestinesi e, per contrasto, i farisei appaiono rappresentati come

esponenti della borghesia per rappresentare. Nel film ambientato nell’Italia rurale degli anni

Sessanta (tra l’Alto Lazio, la Campania, la Puglia e la Lucania), Cristo non è rappresentato come

figlio di Dio ma come uomo fra gli uomini, portavoce dei più deboli. Tant’è che Pasolini non

sceglierà per il ruolo di Gesù un attore professionista ma uno studente spagnolo di 19 anni, mente

affiderà, con una trasparente allegoria, il ruolo della Vergine Maria alla propria madre.

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Sono anni in cui la Chiesa Cattolica, col Concilio Vaticano II, grazie all’opera di Papa

Giovanni XXIII, si avvia ad una fase di rinnovamento e di apertura. Proprio al Pontefice Pasolini

dedica Il vangelo secondo Matteo, a lui che nell’enciclica Pacem in terris si rivolgeva a "tutti gli

uomini di buona volontà", e che prendeva atto delle novità dirompenti del mondo moderno (cui

sino ad allora il mondo cattolico era stato estraneo e diffidente): l'ascesa dei popoli del "Terzo

mondo", come allora si diceva, l'importanza delle classi lavoratrici, il nuovo ruolo della donna.

Uccellacci e uccellini (1966) segna il passaggio di Pasolini ad un cinema che lui chiama

della realtà. La ricerca visiva che in questo film è chiara ed evidente, mettendo su un altro piano

ogni forma letteraria, che era particolarmente evidente nelle opere precedenti. Il film, oltre a

costituire un chiaro apologo ideologico, è finemente ironico. A questa vena ironica e surreale

contribuisce la presenza di Totò, che il regista sceglierà anche per La Terra vista dalla

luna (episodio de Le streghe, 1967) e Che cosa sono le nuvole? (in Capriccio all’italiana, 1968).

Pasolini sceglie come coprotagonista, al fianco di Totò, Ninetto Davoli con cui inizia un lungo

sodalizio che si interromperà solo per la morte del regista.

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2 Una nuova forma d’espressione

Pier Paolo Pasolini sperimenta in modo del tutto originale quello che lui stesso definirà

cinema di poesia che elabora attraverso le immagini il patrimonio simbolico e culturale di una

civiltà, mettendola in scena, documentandola, cogliendone il “sordo caos delle cose".

Pasolini realizzerà tutto questo, paradossalmente, proprio perché egli si ritiene estraneo al

mondo del cinema e implicitamente sostiene di non conoscerne convenzioni e paradigmi (pur

conoscendone bene, in realtà, il funzionamento). Ciò lo porta a elaborare uno stile

particolarissimo, che prende le mosse da una matrice neorealista per poi superarla con un modello

artistico nel quale confluiscono raffinate soluzioni linguistiche e specifiche citazioni pittoriche,

specie dagli autori del Rinascimento e del Manierismo italiano (Masaccio e Piero della Francesca,

ma anche Pontormo e Rosso Fiorentino). La novità introdotta da Pasolini è stata, dunque, quella di

aver applicato al cinema la metrica della poesia al posto di quella della prosa fino ad allora

impiegata. A connotare lo stile del suo cinema, da lui definito cinema di poesia, sono l’impiego

della macchina a mano, le riprese in esterni con luce naturale, il ricorso a lunghi piani sequenza, e

soprattutto un utilizzo nuovo delle giunte nel montaggio fondato sulla nozione del ritmema, che

definisce in un ordine più complesso di significati (anche in funzione psicologica) il carattere spazio-

temporale delle singole inquadrature.

Il risultato di questa riflessione estetica e formale è presente già in Accattone e Mamma

Roma, esempi di un cinema dove poetici non sono i contenuti ma lo stile che rende alta anche

una materia “bassa”, e la eleva ad una dimensione sacrale (si veda, ad esempio, il giovane

di Mamma Roma legato su un letto in prigione, raffigurato come il Cristo morto del Mantegna). Di

cinema di poesia sono intessuti anche i successivi La ricotta e Il vangelo secondo Matteo e la

produzione successiva che si apre a contaminazioni con gli stilemi della “nouvelle vague” e al

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ricorso all’apologo morale con Teorema (1968) e Porcile (1969). Negli anni tra La Ricotta e Medea,

interpretata da Maria Callas, Pasolini dilata al massimo la sua forza visionaria che gioca su tutti i

livelli stilistici, da quelli bassi e comici a quelli elevati della tragedia. Con Edipo Re (1967), cerca di

portare al livello della coscienza il linguaggio dei sogni per dare corpo alle sue ossessioni.

La “trilogia della vita” (Decameron, I racconti di Canterbury e I fiore delle Mille e una notte)

è un omaggio al trionfo della natura, un itinerario di ascesi e liberazione dai condizionamenti

religiosi che ripropone il motivo del rapporto tra il soggetto del racconto e il suo desiderio di

annullamento. L’ultima fase della sua produzione sarà caratterizzata dal “cinema della crudeltà”

di cui Salò o le 120 giornate di Sodoma (1976) è considerata l’opera testamentaria e la

certificazione della impossibilità di produrre sogni individuali e collettivi in un mondo schiacciato

dalla borghesia, che impone il suo sistema di modelli e valori.

Pasolini ha lasciato un cinema poetico-critico fonte di ispirazione per molti autori successivi,

un cinema che non serve né a intrattenere e neppure né a catechizzare e in questo poderoso

lascito artistico risiede ancora l’attualità della sua opera da regista nelle sue diverse manifestazioni

poetiche.

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3 Politica e utopia

Pasolini è interessato soprattutto interessato a una riflessione generale sul presente, come

testimonia il poema cinematografico La rabbia (1963), splendido e poetico film di montaggio

infelicemente accoppiato dal produttore un altro montaggio, di tutt’altro segno e ben diverso

valore, di Giovanni Guareschi. Comizi d’amore (1964) è un reportage sui costumi sessuali dell’Italia

che un po’ cambia, un po’ rimane sempre la stessa, realizzato per la Rai che però si guardò bene

dal mandarlo in onda. Uccellacci e uccellini (1966) mette in discussione in chiave satirica i facili

ottimismi suscitati dal boom economico, le piccole e grandi miserie della società e della cultura

italiana del tempo. Gli scenari verso i quali paiono avviarsi le nazioni industrializzate, pronte a

sacrificare ogni idea di sacro in nome del capitale sono adombrati in Teorema (1968)

e Porcile (1969).

Un approfondimento merita Comizi d’Amore in cui Pasolini, ispirandosi a Chronique d’un

été, il documentario dell’antropologo Jean Rouch e del sociologo Edgar Morin che indagano sulla

sincerità della gente comune davanti all’obiettivo, passa in rassegna, attraverso un film d’inchiesta

atipico, l’immagine di vizi, tabù e nevrosi degli italiani attorno alla questione sessuale, intervistando

uomini, donne, adulti, bambini, contadini e universitari, da Nord a Sud.

L’osservazione e la riflessione politica della realtà, oltre che al cinema, è affidata anche alle

sue collaborazioni giornalistiche. In particolare tra il 1973 e il 1975, pubblica sul Corriere della

Sera, Tempo illustrato, Il Mondo, Nuova generazione e Paese Sera articoli nei quali scrive di aborto,

divorzio, omosessualità ed analizza l’emergere incalzante della società capitalistica e

consumistica. La raccolta di questi articoli si chiamerà Scritti corsari.

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Anna Bisogno - Il cinema secondo Pier Paolo Pasolini

Pasolini tentava sperimentazioni di vario tipo. Nell’ultimo periodo della sua carriera egli

segue il filo di una sua personale utopia ma propone anche una delle più lucide e appassionate

riflessioni sul mezzo filmico. Egli si interroga a lungo sulle ragioni della propria passione per questa

nuova arte e sui presupposti delle sue scelte stilistiche. In alcuni saggi di straordinaria influenza, egli

riprende le riflessioni dei formalisti russi sulla differenza strutturale fra poeticità e poesia e le fa

interagire con alcuni assunti di Kracauer e Bazin sull’essenza realistica del mezzo audiovisivo.

Per lui il cinema, in quanto artista, è il naturale approdo di una ricerca di autenticità e

strumento per immergersi “nel sordo caos delle cose” ed esprimersi attraverso i corpi e gli oggetti,

allo stesso livello della realtà, ma è anche ricerca nel tentativo di individuare il corrispettivo

cinematografico del verso letterario, trovandolo in una figura stilistica da lui denominata

“soggettiva libera indiretta”.

In due saggi del 1967, intitolati rispettivamente Osservazioni sul piano-sequenza e Essere è

naturale? Pasolini adotta il cinema come elemento privilegiato per porre le basi di una nuova

filosofia profondamente esistenzialista, adatta a cogliere l’essenza del presente, anticipando così

le riflessioni di alcuni dei maggiori filosofi contemporanei, primo fra tutti Gilles Deleuze.

Pasolini morì tragicamente nella notte tra l’1 e il 2 novembre del 1975, all’Idroscalo di Ostia

travolto dalla sua stessa auto, guidata dal “ragazzo di vita” Pino Pelosi, che lo uccise.

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Anna Bisogno - La radio che ascolta

Indice

1 UNA SVOLTA EPOCALE ........................................................................................................................... 3


2 “DA DOVE CHIAMA?” ............................................................................................................................. 6
3 TRA PULPITO E CONFESSIONALE ............................................................................................................. 8
BIBLIOGRAFIA ................................................................................................................................................. 11

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Anna Bisogno - La radio che ascolta

1 Una svolta epocale

Parlare della radio e della radiofonia in Italia negli anni ’70 significa parlare di un medium

che ha affrontato una lunga crisi quando non è stato più lo strumento principale

dell’intrattenimento domestico, scalzato dalla tv. Adesso, superata la crisi, vive una nuova florida

stagione. L’introduzione del transistor, a partire dagli anni ’60, trasforma l’apparecchio radio in un

oggetto tascabile, mobile e a basso costo. La radio si sposta nelle aree più private dell’abitazione,

nei luoghi di lavoro e del tempo libero, mentre per la prima volta nell’età moderna assistiamo della

nascita di una cultura generazionale, la “cultura giovanile”, la cui principale fonte di

identificazione è nella musica rock, diffusa dagli Usa in Europa. La radio italiana riorganizza il

palinsesto anche in funzione del nuovo pubblico giovanile e introduce programmi musicali e di

intrattenimento dal linguaggio innovativo.

Intanto il Paese sta entrando negli “anni di piombo” e della “strategia della tensione”: una

espressione coniata dal settimanale inglese The Observer, all’indomani dell’attentato di piazza

Fontana. Il 12 dicembre 1969, infatti, una bomba devasterà il salone della Banca nazionale

dell’agricoltura, in Piazza Fontana a Milano, facendo 17 morti e 88 feriti. La matrice dell’attentato è

incerta; il sistema dell’informazione sarà messo a dura prova, e i media si dividono fra i tra i fautori

della pista anarchica, che all’inizio sembra prevalere, e quelli che accusano il terrorismo di destra,

che poi sarà riconosciuto come mandante ed esecutore della strage.

Si avvicinano le prime elezioni per la formazione dei consigli regionali a statuto ordinario (7-8

giugno 1970); il Parlamento approva nel maggio 1970 lo Statuto dei lavoratori; compaiono i primi

volantini delle Brigate Rosse. La benzina super costa 160 lire al litro; lo stipendio mensile di un

operaio della FIAT supera di poco le 100.000 lire; il giornale quotidiano costa 70 lire, spedire una

lettera ne costa 50, un pacchetto di sigarette nazionali 180.

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Anna Bisogno - La radio che ascolta

Al cinema nel 1970 c’è Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto diretto da Elio

Petri, interpretato da Gian Maria Volonté e Florinda Bolkan, L’uccello dalle piume di cristallo di

Dario Argento, Il Conformista di Bernardo Bertolucci e Lo chiamavano Trinità con Bud Spencer e

Terence Hill. La TV manda in onda Rischiatutto (5 febbraio 1970), condotto da Mike Bongiorno. I

primi tentativi di televisione privata anche attraverso la TV via cavo (CATV, Community Access

Television) avviano timidamente - tra limiti legislativi e difficoltà tecniche e finanziarie – il processo

di decostruzione del servizio pubblico radiotelevisivo.

La radio è chiamata a ridefinire la propria identità mediale rispetto a una nuova

dimensione sociale che incalza, realizzando una revisione del suo assetto strutturale e della sua

impostazione culturale. Con l’avvento del transistor prima e grazie al completamento dell’intera

rete telefonica in teleselezione poi, la radio nell’era dell’opulenza televisiva si era trasformata in

una voce amica e compagna di ascolto. Mentre la televisione consolida l’idea di palinsesto come

sintesi strategica e organizzativa tra domanda e offerta, la radio insegue i suoi nuovi ascoltatori,

soprattutto giovani e casalinghe, negli spazi lasciati liberi dalla prima.

La radio realizzò uno significativo compromesso tra la rigidità della struttura tecnica, che la

collocava ancora tra i media unidirezionali, e una nuova dimensione più personalizzata,

individuale, e dunque tendenzialmente più democratica. Per mezzo del telefono la radio si dota di

un canale di ritorno, dialoga con gli ascoltatori, inverte la direzione del messaggio, crea una

geografia del vissuto intrisa di casi personali, confessioni intime, appelli, momenti leggeri. In quegli

anni, il rapporto che si stabilì tra la radio e il pubblico fu basato essenzialmente su una

comunicazione bidirezionale, intrattenuta nella ripetitività del quotidiano. L’informazione divenne

più rapida e la musica acquisì maggiore spazio e importanza all’interno dei palinsesti. Si verificò

quindi un cambiamento del ruolo del mezzo, che da protagonista del tempo libero si trasforma in

colonna sonora, rumore di fondo della giornata, amplificato dalla filodiffusione e dagli apparecchi

portatili.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da
copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).

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Nel 1966 il direttore dei programmi radiofonici Rai, Leone Piccioni, diede vita ad una riforma

della radiofonia pubblica che rappresenta un vero e proprio rinnovamento di modelli, di formati,

palinsesti e programmi. Furono ideate e prodotte trasmissioni destinate a creare nuove abitudini di

ascolto presso un pubblico che oramai era televisivo, che distingueva i diversi generi ma era

disposto a rinnovare il suo rapporto con la radio, se essa dimostrava di aver superato gli schemi più

rigidi e antiquati del servizio pubblico radiofonico.

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2 “Da dove chiama?”

Vari programmi della radio sono degni di nota non solo per il successo che ebbero al

momento, ma anche perché antesignani di vari generi radiofonici ancora oggi in uso. Da Bandiera

gialla (1965) a Per voi giovani e Gran Varietà (1966), a Hit parade e Il Gambero di Enzo Tortora

(1967) iniziò un’intelligente operazione di dissacrazione linguistica, sperimentata per la prima volta

proprio da Renzo Arbore e Gianni Boncompagni e portata al definitivo compimento dagli stessi

autori in Alto Gradimento.

In questa ricerca del nuovo, da un’idea di Adriano Magli e Luciano Rispoli

nacque Chiamate Roma 3131. Il 7 gennaio 1969 alle 10.40, in uno studio di via Asiago in Roma,

Federica Taddei, Gianni Boncompagni e Franco Moccagatta annunciavano dai microfoni del

Secondo Programma l'inizio di una nuova era radiofonica, quella in cui grazie al telefono

l'ascoltatore assumeva un ruolo attivo. Chiamate Roma 3131 infatti rappresentò un termometro

significativo dei cambiamenti nel costume degli italiani: con il telefono la radio sembrava

acquistare la possibilità di un feedback in tempo reale. Ogni giorno per tre ore i conduttori

avevano il compito di affrontare le richieste più disparate che inizialmente riguardavano pareri di

tipo medico-scientifico e, in una seconda fase, prevedevano racconti, storie, confessioni a voce

alta di ogni tipo.

Per la prima volta la radio sembrava diventare una voce amica, uno strumento culturale e

di comunicazione presso la quale cercare conforto; certo non la soluzione ai propri problemi, ma

un punto di riferimento rassicurante. I dati parlavano di una notevole risposta del pubblico: una

media di tre milioni di ascoltatori e 500 chiamate al giorno, anche perché il telefono durante gli

anni Sessanta era arrivato anche agli quegli strati sociali che prima ne erano esclusi. La possibilità di

intervenire in trasmissione non era più un privilegio, ma era accessibile a tutti.

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Chiamate Roma 3131 fu subito un grande successo: 10 milioni di radioascoltatori, migliaia di

telefonate che dimostravano la capacità nativa della radio di stabilire un ponte tra sfera pubblica

e sfera intima. Il pubblico la sente vicina, come se parlasse solo a ciascuno, anche se in ascolto

sono in tanti. Così radio e telefono, da sempre separati, realizzano una innovativa esperienza di

convergenza mediale; quando si incontra con le telefonate in diretta, la lingua della radio muta e

ne cambia l’anima. Già l’aveva notato Bertolt Brecht proiettando sulla radio le sue tesi sul teatro

didattico: “Potrebbe essere per la vita pubblica il più grandioso mezzo di comunicazione che si

possa immaginare, uno straordinario sistema di canali, cioè potrebbe esserlo se fosse in grado non

solo di trasmettere ma anche di ricevere, non solo di far sentire qualcosa all’ ascoltatore ma anche

di farlo parlare, non di isolarlo ma di metterlo in relazione con gli altri. La radio dovrebbe

abbandonare il suo ruolo di fornitrice e far sì che l’ascoltatore diventi fornitore”.

Con Chiamate Roma 3131 le persone comuni iniziano a parlare in radio, attraverso le

telefonate che vengono filtrate dalla redazione: si chiede all’ ascoltatore cosa intende dire, poi lo

si richiama. Saranno soprattutto casalinghe a chiamare il programma, l’ora è adatta a loro.

Dietro i tre conduttori c'era una squadra di esperti: psicologi, sociologi, medici, avvocati,

architetti, scrittori e personalità varie, compresi i personaggi dello spettacolo. Gianni Boncompagni

scelse come sigla un brano fusion abbastanza sconosciuto del 1967, Alligator bogaloo eseguito da

Lou Donaldson e la sua band (nella quale spiccava, tra gli altri, un giovane George Benson alla

chitarra), che divenne popolare con il crescente successo del programma.

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3 Tra pulpito e confessionale

Il campionario mattutino delle telefonate è vario e multicolore ma è significativa la

ricorrenza di alcuni temi: la moglie che si lamenta del marito, il marito della moglie, del traffico e

del lavoro, la vecchina della solitudine, i figli dei genitori, le casalinghe dei prezzi degli alimenti e

detersivi oppure della difficoltà di un figlio down, o con particolari disabilità intellettive o

malformazioni.

Dal programma partivano così informazioni, consigli di moderazione, inviti alla

sopportazione, rimproveri, spiegazioni, dialogo; in alcuni casi i conduttori si assumono la

responsabilità di confronti telefonici con i diretti interessati. Il primo ciclo di Chiamate Roma 3131

(fino al 1972) ebbe come conduttore-personaggio Franco Moccagatta, imitato da Alighiero

Noschese in Doppia Coppia (1969).

Dal 1972 al 1975 la conduzione fu affidata a Luca Liguori e Paolo Cavallina, con la messa in

onda del programma spostata al pomeriggio, dalle 17:30 alle 19:30. Ciò permetteva al

programma, che nelle precedenti edizioni aveva un pubblico quasi esclusivamente femminile e

casalingo, di essere ascoltato da una fascia più larga di utenti, che lavorano nelle fabbriche e

negli uffici, o quelli che insegnano e studiano. Inoltre nella stessa fascia oraria che era stata di

Chiamate Roma 3131 prese il via una nuova trasmissione condotta da Guglielmo Zucconi e

Maurizio Costanzo, Dalla vostra parte, con gli ascoltatori che potevano intervenire chiamando

proprio il numero 3131. Tutto ciò suscitò numerose e legittime polemiche. Si viaggia anche per

l'Italia per seguire da vicino i problemi locali. Fra le novità anche una serie di trasferimenti come

Chiamate Milano 349194.

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Sono le ultime battute di questo ciclo. Il programma sembra aver fatto il suo tempo:

mutamenti interni all'azienda e nella società impongono cambiamenti e nella primavera del 1975

viene resa operativa la legge di riforma della Rai che stabilisce principi e normative in materia di

diffusione sia radiofonica che televisiva.

Nel giugno dello stesso anno Chiamate Roma 3131 viene sospesa sine die e non per motivi

di basso ascolto. In effetti qualcosa era cambiato rispetto alle prime edizioni, ad un certo punto si

era scesi nel patetico, nella lacrima troppo facile, con telefonate di radioascoltatori che si

sfogavano. Questo tipo di trasmissione fu oggetto della parodia di Giorgio Gaber e di Ombretta

Colli con il brano musicale Papà Radio (1970) nel quale la Colli interpretava varie donne che

raccontavano storie drammatiche ,a cui Gaber sistematicamente rispondeva: “Signora, signora

Antonia mi sente? Signora, la sento avvilita, signora stia su con la vita, è sempre azzurro il cielo è

sempre in fiore il melo.” I molteplici transiti su altri media, tv compresa, insieme agli ottimi ascolti

confermano il successo del programma.

Il successivo arrivo delle radio private, tutte basate su telefonate in diretta e dediche, farà il

resto. Da questo momento il programma cambia più volte pelle: dal 1976 al 1979 il 3131 si orienta

verso tematiche legate all’emancipazione femminile, con il dichiarato intento di affrontare i

problemi della donna nella realtà di quel periodo. Nasce così Sala F. Nel 1979 va in onda Radiodue

3131 con due edizioni giornaliere: una mattutina (9:30 -11,30) e l'altra pomeridiana (15:00 – 16:30)

con la formula del rotocalco, in cui la soluzione al problema è spesso affidata all’improvvisazione.

In regia Michele Mirabella.

Dal 1982 al 1990 Corrado Guerzoni è contemporaneamente conduttore e direttore della

rete. Non si trattò soltanto di un nuovo capitolo del 3131, ma di una svolta del programma, che si

avvalse anche dell'ausilio dello Studio Mobile, un pulmino attrezzato in grado di trasmettere da

ogni luogo d’Italia. La radio si fa così in ogni luogo, e l’ascoltatore può intervenire anche dalle

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Anna Bisogno - La radio che ascolta

piazze con Gianluca Nicoletti “microfono viaggiante”. In questa fase nasce anche l'edizione della

sera Radiodue 3131 notte, uno spazio nel quale le telefonate col pubblico richiesero un approccio

diverso. Il dialogo acquistò maggiore intensità comunicativa, favorita dall’ora tarda, più vicina ai

toni sommessi della confidenza e del racconto personale. Non più una variazione del 3131 del

mattino, ma una trasmissione autonoma, con l’obiettivo era quello di ricuperare il privato, riscoprire

sensibilità e sentimenti; di ritrovare un linguaggio depurato da retorica e ipocrisia, che non chiede

per una volta consigli o risposte, ma racconta di sé.

Infine, dal 1995 al 2001 gli esperimenti con Radio Zorro 3131 (condotto da Oliviero

Beha), 3131 Fatti e Sentimenti, 3131 Chat, 3131 Costume e Società (con Pierluigi Diaco) e Chiamate

Torino 3131. Ma la radio pubblica detiene ormai una quota minoritaria dell’ascolt0.

Con Chiamate Roma 3131 la radio negli anni ’70 confermò la sua grande vitalità. Grazie

alla sua privatezza e personalità è diventata un oggetto d’uso quotidiano, che è anche la

proiezione di simboli e stati d’animo relazionali. Sentire la radio non è più una necessità, ma una

scelta precisa fra molteplici offerte informative e di intrattenimento; uno spazio al confine tra

pubblico e privato.

La radio si conferma una efficace interfaccia comunicativa tra sfera pubblica e sfera

privata, personale e mobile, all’interno di una dotazione mediale ormai molto raffinata e ampia.

L’ibridazione avanzata fra radio e telefono prima, e tra radio e Internet poi, non è soltanto

dovuta ad affinità tecnica, ma all’antico bisogno umano di voler dire qualcosa – anche se non si

ha sempre qualcosa di preciso da dire – e di essere connessi a qualcun altro. La radio riconfigura i

rapporti spazio-temporali ed ha veramente reso “simultaneo” il mondo.

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Indice

1 IL RINASCIMENTO CINEMATOGRAFICO ................................................................................................ 3


2 NUOVE GENERAZIONI ............................................................................................................................. 6
3 LA RIVOLUZIONE DIGITALE ...................................................................................................................... 8
BIBLIOGRAFIA ................................................................................................................................................. 10

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1 Il rinascimento cinematografico

Alla fine degli anni Sessanta il panorama complessivo dell’industria del cinema americano

muta fortemente rispetto all’epoca d’oro dello studio system. Le grandi case cinematografiche

svolgono soltanto il ruolo di distributori laddove la distribuzione vera e propria è realizzata da

piccole compagnie, spesso legate al nome di un attore o di un regista. Allo stesso modo si è

radicalmente modificata anche la composizione del pubblico. La Hollywood classica aveva

sempre avuto come referente principale la famiglia. Ora, invece, gli spettatori sono

prevalentemente sotto i trent’anni: le famiglie rimangono a casa a guardare la televisione, mentre

sono i giovani ad andare al cinema.

Già negli anni Cinquanta il cinema americano aveva cercato il rapporto con questo nuovo

pubblico, realizzando prodotti ad hoc in relazione con le tendenze giovanili del momento (ad

esempio la fortunata serie di film con Elvis Presley). Il processo si intensifica nel decennio successivo,

provocando l’abbandono del Codice Hays (il cosiddetto Production Code, dal nome del suo

estensore, che dagli anni ’30 agli anni ’60 ha rappresentato le linee guida per il rispetto della

morale nei film, in pratica il più rigido sistema di autocensura che Hollywood abbia mai avuto) il cui

puritanesimo non si conciliava più con i gusti della generazione degli anni Sessanta.

Questo profondo cambiamento del cinema statunitense deve essere anche correlato alla

progressiva riduzione del pubblico nelle sale cinematografiche, parallela alla diffusione della

televisione particolarmente nella forma preferita dalla classe media, la pay tv in abbonamento via

cavo che nello stesso periodo si diffonde in tutte le città americane.

Film a basso costo, ricambio generazionale degli spettatori, una nuova leva di registi usciti

quasi tutti dall’Università e un riorientamento dei generi (horror e fantascienza) e delle storie

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connesse ai fenomeni giovanile del momento (ad esempio, il rock and roll) furono le traiettorie con

cui si orientò la nuova Hollywood.

Tra il 1967 e il 1969 escono tre film che riscuotono grande attenzione e vengono subito

considerati altrettanti “manifesti” di una nuova generazione: Il laureato (The graduate, 1967) di

Mike Nichols, Gangster Story (Bonnie and Clyde, 1967) di Arthur Penn, Easy Rider (1969) di Dennis

Hopper. In questi tre film è possibile reperire molte delle caratteristiche di fondo della New

Hollywood. Sia Nichols che Penn e Hopper raccontano storie connesse in qualche modo al clima

della rivolta giovanile degli anni Sessanta.

Il laureato ha per protagonista un ragazzo borghese, interpretato da Dustin Hoffman, il

quale dopo il conseguimento della laurea non sa bene cosa fare nella vita. Inizia una relazione

nevrotica con una donna più anziana di lui, ma poi finirà per innamorarsi della figlia. Il film colpì il

pubblico soprattutto per la franchezza con cui tratta i temi connessi alla sfera sessuale e per la

scelta di una colonna sonora, di Simon & Garfunkel, vicina alle controculture musicali dell'epoca.

Gangster Story rilegge la vicenda di Bonnie e Clyde, leggendari banditi degli anni Trenta,

alla luce dei nuovi fermenti che pervadono l’Americana contemporanea: i due rapinatori di

banche durante la Grande Depressione diventano giovani ribelli in lotta e contrapposizione con

una società oppressiva e vessatoria.

Un’attenzione particolare merita Easy rider che racconta il viaggio di due hippies (Dennis

Hopper e Peter Fonda) da Los Angeles alla Louisiana a bordo delle loro motociclette modificate,

con la forcella anteriore allungata – i “chopper” – in cui il motociclista non ha bisogno di curvarsi

sul manubrio ma procede in posizione eretta. I due, legati al traffico delle droghe di cui sono

naturalmente anche consumatori, dopo molte avventure finiranno uccisi, presi a fucilate sparate

da un camioncino di agricoltori razzisti del profondo Sud. La rottura stilistica è qui assai più forte

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rispetto a Il Laureato e Gangster Story. Il successo di Easy Rider fu la prova provata dell'esistenza di

un nuovo pubblico, prevalentemente giovanile, e dell’avvio di una nuova fase.

Riprese esterne, pellicola fotografica bruciata, budget risicato, attori giovani e poco noti o

sconosciuti (Jack Nicholson), distribuzione fuori dai normali circuiti fanno di Easy Rider il film che

segnala un superamento delle regole formali, narrative e ideologiche tipiche del cinema classico.

Le figure che puntellano le sceneggiature dei film della New Hollywood sono dotate di una

propensione all’azione (che spesso ha esiti autodistruttivi, sia in Gangster Story che in Easy Rider),

che i film europei non hanno in egual misura. Dustin Hoffman ne Il laureato, dopo un periodo di

accidia e di ozio poi prende la decisione forte di scappare con la ragazza che ama, portandola

via dalla chiesa dove si sta sposando.

Un altro elemento da sottolineare nella cinematografia new hollywoodiana è la presenza di

una prospettiva ideologica che si confronta le istanze radicali della società americana. I film di

questa fase si comprendono se correlati ai movimenti che attraversano l’America tra la fine dei ‘60

e l’inizio dei ’70, e in particolare:

 il movimento dei diritti civili;

 le rivolte razziali e l’affermazione del black power;

 l’opposizione alla guerra del Vietnam;

 l’emergere di controculture giovanili che comprendono in vario modo la libertà

sessuale, la passione per la musica rock, le comuni, il pacifismo, l’uso di droghe,

l’attivismo e il radicalismo politico.

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2 Nuove generazioni

Se da un lato il cinema della New Hollywood si allineò al carattere contestativo del suo

pubblico (ad esempio, Fragole e sangue di Stuart Hagmann del 1970), dall’altro lato esso rivisitava

in chiave politica alcuni generi di grande popolarità. Su tutti, il genere western. In questo ambito, la

figura di spicco è quella di Sam Peckinpah che attraverso Il Mucchio Selvaggio (The Wild Bunch,

1969), rappresenta in modo molto crudo e violento il processo di civilizzazione del west, l’epopea

tramontata dell’Ovest e la scalata di uomini d’affari.

Anche altri autori della New Hollywood frequentarono questo genere. Film come Piccolo

grande uomo (Little big man, 1970) di Arthur Penn, Doc di Frank Perry (1971), Corvo Rosso non avrai

il mio scalpo (Jeremiah Johnson, 1972) di Sidney Pollack, Buffalo Bill e gli indiani (Buffalo Bill and the

Indians or Sitting Bull’s History Lesson, 1976) di Robert Altman ribaltano l'impostazione retorica che

aveva fino ad allora presieduto alla descrizione dei pellerossa e delle guerre indiane.

L’ultimo grande western della New Hollywood è I cancelli del cielo (Heaven’s Gate, 1980) di

Michael Cimino. Un western grandioso e particolare, dove il conflitto per la colonizzazione del

territorio non è con gli indiani, ma con gli immigrati europei: siamo nel 1870. Maltrattato dalla

critica, un disastro commerciale al botteghino, malamente rimontato peggiorandolo, è in realtà un

film incompreso. Michael Cimino aveva realizzato due anni prima il complesso, contestato e

bellissimo Il cacciatore (The deer Hunter, 1978) dedicato alla guerra del Vietnam e premiato con

cinque Oscar.

Maturava intanto una nuova generazione. Francis Ford Coppola, John Milius, Monte

Hellman, Peter Bogdanovich, George Lucas, Steven Spielberg, furono solo alcuni di quelli che

portarono il cinema americano su piste nuove.

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Coppola, dopo lo strepitoso successo de Il Padrino (The Godfather, 1972) e Il Padrino parte

II (The Godfather Part II, 1974), si pone l’ambizioso obiettivo di essere un regista produttore che non

realizza soltanto i propri film sostiene anche il lavoro di altri cineasti come George Lucas e Wim

Wenders, di cui produce e distribuisce le pellicole. Il culmine di questo percorso è rappresentato da

Apocalypse Now (1979), probabilmente il miglior film che ha affrontato il tema della guerra del

Vietnam, rielaborandolo alla luce della grande letteratura. Il film è ispirato al romanzo Cuore di

tenebra di Joseph Conrad.

All’opposto del gruppo di registi cosiddetto “californiano” figurano Woody Allen e Martin

Scorsese, autori newyorkesi per eccellenza con un retaggio del tutto diverso e una visione della

città diametralmente opposta: ebraico-borghese Allen, italo-americano e proletario Scorsese. Il

primo si consacrerà nella New Hollywood con Io e Annie (Annie Hall, 1977), con protagonista Diane

Keaton, che gli varrà quattro Premi Oscar, il secondo con Taxi Driver (1976) interpretato da Robert

De Niro che ebbe una candidatura agli Oscar per il miglior attore protagonista.

La New Hollywood fu caratterizzata anche dall’arrivo di una generazione di registi di

estrazione televisiva. Da John Frankenheimer a Sydney Pollack, da Elliot Silverstein agli stessi Sam

Peckinpah e Robert Altman, che si erano formati dirigendo fiction per il piccolo schermo, arrivò

una ventata nuova sulla scena cinematografica: non tanto dal punto di vista formale, quanto in

relazione all'economia delle riprese, al ritmo di lavoro veloce a cui la televisione li aveva abituati.

Dal punto di vista finanziario un regista con esperienze televisive rappresentava una opportunità

per i produttori hollywoodiani poiché il loro background costituiva una garanzia di efficienza

organizzativa e dunque lasciava sperare in un rispetto del budget; previsione peraltro non sempre

risultata esatta.

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Anna Bisogno - The new Hollywood

3 La rivoluzione digitale

L’introduzione delle tecnologie digitali nel cinema aprì una ulteriore nuova fase nella New

Hollywood di cui George Lucas, uno dei giovani autori, rappresentò l’esponente più importante.

Guerre Stellari (Star Wars, 1977) sarebbe stato non soltanto il suo grande successo personale ma

anche la transizione verso forme di produzione decisamente innovative.

Nel 1975 Lucas presentò alla 20th Century Fox il progetto per un film di fantascienza, Star

Wars appunto, che in prima battuta i dirigenti della major non accolsero con grande entusiasmo

per le complessità realizzative che un soggetto così visionario presentava. Lucas alla fine la spuntò,

forte del successo del precedente e fortunato American Graffiti (1973).

La difficoltà vera del regista era l’inesistenza di supporti tecnologici capaci di realizzare il

film esattamente come lo aveva immaginato in una fase nella quale i grandi studios avevano

rinunciato alle sezioni dedicate ai trucchi cinematografici. Così decise di chiedere a Douglas

Trumbull, tra i più importanti realizzatori di effetti speciali del cinema americano, attivo in alcuni dei

più importanti film del genere come 2001 Odissea nello spazio (1968), Incontri ravvicinati del terzo

tipo (1977), Start Trek (1979), Blade Runner (1982). Trumbull dirottò Lucas sul suo giovane assistente,

John Dykstra che, insieme ad un gruppo di ingegneri ed informatici, sperimentò l’interfaccia che

metteva in collegamento la macchina da presa con un computer ottenendo la ripetizione dello

stesso movimento di macchina per un numero imprecisato di volte con assoluta precisione. Così

facendo, generava l’illusione del volo spaziale attraverso il controllo computerizzato dei movimenti

della macchina da presa. Il Computer Motion Control può essere considerato il primo effetto

speciale digitale.

Da quel gruppo di ricercatori nacque, su iniziativa di Lucas, la Industrial Light & Magic (ILM),

società specializzata in effetti speciali, sussidiaria della Lucasfilm, che divenne il laboratorio

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Anna Bisogno - The new Hollywood

privilegiato dei film fantascientifici che proprio Lucas, con Steven Spielberg, aveva contribuito a

lanciare e sviluppare.

Star Wars (Guerre Stellari) venne distribuito nelle sale a partire dal 25 maggio 1977 ed è il

primo film della fortunata saga cinematografica fantascientifica di Guerre stellari ideata da Lucas

articolata in tre trilogie che condividono solo parzialmente i propri protagonisti (nel cast spiccano

Mark Hamill, Harrison Ford, Carrie Fisher) e si svolgono in periodi diversi.

L’ambientazione è quella di una galassia immaginaria (“Tanto tempo fa, in una galassia

lontana lontana…”) dove va in scena l’eterna lotta tra il bene e il male, in cui si contrappongono

gli schieramenti dei Jedi e dei Sith in cui gli esseri umani interagiscono con robot, droidi e specie

aliene. La saga narra le avventure dello Jedi Luke Skywalker e del suo maestro Obi-Wan Kenobi,

impegnati nella lotta contro il Lato Oscuro della Forza a fianco dell'Alleanza Ribelle, guidata

dalla Principessa Leila.

La prima saga (The Skywalker saga), la trilogia originale distribuita dal 1977 al 1983, è

composta da Una nuova speranza, L'Impero colpisce ancora e Il ritorno dello Jedi; la seconda, è

un prequel (racconta dunque eventi precedenti), comprende La minaccia fantasma, L’attacco

dei cloni, La vendetta dei Sith; l’ultima trilogia, che è invece un sequel, è costituita da Il risveglio

della forza, Gli ultimi Jedi, L’ascesa di Skywalker. Star Wars è il film dal maggior incasso nella storia

del cinema , superiore a quello de Lo squalo (1975) e di E.T. l'extra-terrestre (1982) di Steven

Spielberg.

In questo nuovo scenario l’esperienza della New Hollywood si affievolisce lentamente. Si

attenua, nelle nuove condizioni segnate dall’avvento del digitale, la sua funzione primaria di

rilanciare una cinematografia in profonda crisi, il turnover di registi, sceneggiatori, attori, direttori

della fotografia.

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Lorenzo Marmo - La galassia Star Wars

Indice

1. LUCAS, UNA FIGURA DI TRANSIZIONE ................................................................................................... 3


2. GLI ESORDI .............................................................................................................................................. 4
3. UN FILM DUALE ....................................................................................................................................... 6
4. TRANSMEDIA STORYTELLING E FANDOM ............................................................................................ 12
BIBLIOGRAFIA................................................................................................................................................ 15

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Lorenzo Marmo - La galassia Star Wars

1. Lucas, una figura di transizione

George Lucas esordisce nel periodo della New Hollywood (1967-1980). La sua carriera si

sviluppa però su traiettorie innovative e la sua opera sarà di fatto centrale (naturalmente insieme a

quella di altri cineasti, in primis Steven Spielberg) per il superamento della New Hollywood stessa e

per la trasformazione a largo raggio degli assetti produttivi e distributivi del cinema statunitense e

globale.

Lucas è insomma una figura di transizione. Da una parte, è un giovane appassionato e

studioso di cinema che persegue una poetica molto personale, proprio come gli autori innovativi

che, a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta, svecchiano, anzi si può dire rivoluzionano, i

vecchi schemi della cinematografia americana (Mike Nichols, Arthur Penn, Francis Ford Coppola,

Martin Scorsese): in questo periodo la figura del produttore è nettamente subordinata alla visione

del regista, vero autore del film cui ne viene accordato il controllo.

D’altra parte, il franchise di Star Wars che porta Lucas alla fama mondiale inaugura una

nuova fase della storia del cinema, in cui il potere dei produttori è nuovamente centrale, perché si

punta molto sulla realizzazione di film ad alto budget, fortemente spettacolari, generalmente

organizzati in trilogie, quadrilogie, sequel, prequel e spin-off. La visione iconoclasta dell’autore

Lucas aiuterà dunque, paradossalmente, a sottrarre potere agli autori stessi, a favore di produttori

e distributori, decisi a sfruttare al massimo il potenziale culturale ed economico di un cinema

pensato soprattutto per il pubblico giovanile. Un pubblico che viene introdotto all’interno di universi

narrativi ampi ed articolati, che si espandono su contesti mediali diversi (il cinema è spesso la

piattaforma di partenza, ma ci sono poi la televisione, i videogames e più di recente internet).

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da
copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).

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2. Gli esordi

Nato a Modesto, in California, nel 1944, Lucas studia alla University of California,

frequentando i corsi di cinema e diplomandosi nel 1966. Dopo aver realizzato alcuni cortometraggi

sperimentali durante gli anni universitari, l’incontro con Francis Ford Coppola gli permette di

esordire nella regia di lungometraggio con il film THX 1138 (L’uomo che fuggì dal futuro, 1971),

un’allegoria fantascientifica legata all’immaginario distopico di autori come George Orwell o Ray

Bradbury, adattamento di uno dei suoi cortometraggi di studente. Il film, prodotto dalla American

Zoetrope, la casa di produzione di Coppola, non ebbe molti riscontri. Lucas si rivolse allora ad un

genere del tutto diverso, dipingendo con American Graffiti (1973) un’elegia post-adolescenziale

profonda e mai banale, ambientata nel 1962, da cui emergeva tutta la dolente nostalgia per

l’innocenza perduta della generazione che nel frattempo aveva vissuto la Guerra in Vietnam. Il film

ottenne un enorme successo e 5 candidature all’Oscar (comprese quelle per il miglior film e la

migliore regia), consacrando Lucas come uno dei talenti della sua generazione. Ciò diede al

giovane cineasta un ampio margine di credibilità, presso i produttori, per la realizzazione del suo

film successivo, un progetto a cui teneva moltissimo, e che si era andato modificando nel tempo.

In origine, Lucas avrebbe desiderato realizzare una versione cinematografica delle

avventure dell’eroe dei fumetti Flash Gordon, ma non riuscì ad accaparrarsene gli esosi diritti: in

ogni caso è proprio da una delle versioni cinematografiche delle avventure di Flash realizzate a

basso budget negli anni Quaranta (Flash Gordon Conquers the Universe, F. Beebe, R. Taylor, 1940)

che derivano gli iconici titoli di testa di Star Wars, a scorrimento all’indietro verso l’infinito.

Lucas decise a quel punto di creare un proprio universo narrativo autonomo, incentrato su

un guerriero galattico chiamato Anikin Starkiller, un nome che si evolverà poi fino a diventare Luke

Skywalker (mentre Anakin sarà il nome del padre di Luke, una figura molto importante nella storia).

La saga di Skywalker avrà, come tutti sappiamo, un impatto fortissimo sull’immaginario collettivo e

sulle sorti del genere fantascientifico.

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Questo genere aveva in effetti avuto uno sviluppo fortissimo negli anni Cinquanta,

soprattutto grazie a produzioni come War of the Worlds (La guerra dei mondi, G. Pal, 1953),

Forbidden Planet (Il pianeta proibito, F.M. Wilcox, 1956) o Invasion of the Body Snatchers

(L’invasione degli ultracorpi, D. Siegel, 1956), che utilizzavano i conflitti tra umani ed alieni per

allegorizzare le profonde ansie legate ai blocchi contrapposti della Guerra Fredda, gli USA e l’URSS.

A partire dalla fine degli anni Sessanta, il panorama del genere era stato profondamente

modificato da alcuni film d’impostazione fortemente autoriale, che avevano spostato la riflessione

insita nel genere su un piano più consapevole, arrivando ad una dimensione autenticamente

filosofica sulla natura umana (2001: A Space Odissey, 2001: Odissea nello spazio, S. Kubrick, 1968;

Solaris, A. Tarkovsky, 1972), anche sulla scorta di importanti romanzi del genere. A questo filone

fantascientifico dal portato filosofico appartenevano anche il summenzionato film d’esordio di

Lucas, ed il celebre Close Encounters of the Third Kind (Incontri ravvicinati del terzo tipo, S.

Spielberg, 1977). Il primo Star Wars (Guerre stellari), uscito in quello stesso 1977, apporterà invece al

genere una svolta in una direzione diversa: Lucas riporterà infatti la fantascienza nel regno

dell’intrattenimento spettacolare e dell’immaginario spensierato, pur senza per questo rinunciare a

porre degli interrogativi di ampia portata sul rapporto tra Bene e Male.

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3. Un film duale

Oltre che alle avventure di Flash Gordon (o anche a quelle di un altro fantascientifico eroe

di fumetti, film, radio e tv come Buck Rogers), Star Wars può essere ricollegato ad un parterre di

riferimenti intertestuali davvero ampio, che riguarda sia il cinema popolare che quello più

autoriale. Se la figura del droide C3PO sembra provenire da Metropolis (F. Lang, 1926) ma anche

da The Wizard of Oz (Il mago di Oz, 1939), la scena dell’attacco all’astronave Death Star (in italiano

Morte Nera) somiglia molto ad una sequenza del film bellico inglese The Dam Busters (I guastatori

delle dighe, M. Anderson, 1955), mentre finale del film di Lucas, con la premiazione degli eroi,

ricorda da vicino Die Nibelungen (I Nibelunghi, 1924), adattamento della saga wagneriana

realizzato ancora da Fritz Lang. Molti poi i parallelismi tematici e strutturali con almeno due film del

maestro giapponese Akira Kurosawa, Kakushi toride no san akunin (La fortezza nascosta, 1958) e

Yōjinbō (La sfida del samurai, 1961).

Questa commistione eterogenea di riferimenti (se ne potrebbero aggiungere ancora molti

altri) fa del film un esempio assai calzante di quella dimensione che Fredric Jameson 1 ha definito

pastiche postmoderno: la cultura postmoderna è caratterizzata, infatti, proprio da un

atteggiamento citazionista e ludico nei confronti del patrimonio narrativo e audiovisivo

preesistente.

Star Wars si colloca d’altronde a metà tra tradizione e innovazione anche dal punto di vista

dello stile. Si tratta cioè di un film in cui si alternano una dimensione narrativa più tradizionale e una

dimensione spettacolare molto forte, una intensificazione dell’esperienza percettiva dello

spettatore dai caratteri fortemente innovativi.

Secondo Laurent Jullier2, Star Wars è un esempio di cinema postmoderno non soltanto in

quanto pastiche citazionista, ma grazie alla sua qualità di “film-concerto”, ovvero di film che

1
Fredric Jameson, Postmodernism, or, the Cultural Logic of Late Capitalism (1991), trad. it. Postmodernismo, ovvero
La logica culturale del tardo capitalismo, Roma, Fazi, 2007.
2
Laurent Jullier, L'écran post-moderne: un cinéma de l’allusion et du feu d’artifice (1997) trad. it. Il cinema
postmoderno, Torino, Kaplan, 2006.

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investe lo spettatore con un vero e proprio bagno di sensazioni non soltanto visive ma anche

uditive. Il pubblico si trova insomma calato in un’esperienza intensiva e immersiva, che coinvolge

l’interezza della sua sfera sensoriale, non soltanto lo sguardo (a questo discorso si aggiungerà un

ulteriore tassello con la diffusione del dolby surround nei primi anni Ottanta). La visione, dunque, più

che come forma di conoscenza, si configura come strumento per un’iperstimolazione quasi

allucinatoria. Il film non cerca di stabilire con il pubblico una semplice comunicazione, ma propone

invece una fusione tra spettatore e schermo. L’esperienza autenticamente pirotecnica che si

vuole dunque garantire allo spettatore è più simile, secondo Jullier, a quella dell’avventore di un

luna park che all’esperienza cinematografica tradizionale.

In questo, il cinema postmoderno, di cui Star Wars è l’antesignano, sembra recuperare la

qualità radicalmente spettacolare del cinema delle origini, caratterizzato soprattutto dalle forme di

quella che Christian Metz aveva definito “identificazione primaria”3: nel cinema dei primissimi anni,

quando ancora non venivano raccontate storie appassionanti, il pubblico era attratto dal nuovo

medium di per sé stesso, per la sua inebriante novità. E dunque gli spettatori si identificavano non

con i personaggi della storia (che per l’appunto non c’era ancora), ma con lo sguardo stesso della

macchina da presa, con la sua insopprimibile curiosità visionaria, con l’istanza prima che mette in

moto lo spettacolo.

Molto più fortemente che nel cinema delle origini, però, nel postmoderno, grazie allo

sviluppo tecnologico (ad esempio la louma, una gru snodata con telecomando a distanza), la

macchina da presa si emancipa dalla visione antropomorfa, diventando un testimone invisibile al

di fuori dell’umano. Gli effetti speciali della saga di Star Wars furono realizzati dalla compagnia

fondata appositamente da Lucas, la Industrial Light & Magic, attivissima ancora oggi.

Naturalmente, l’innovazione di Star Wars non nasce dal nulla: anche dopo il cinema delle

origini, c’erano stati alcuni momenti ed alcuni specifici autori della storia del cinema che avevano

fatto della mobilità della macchina da presa un elemento fondante del proprio stile: il cinema

3
Christian Metz, Le signifiant imaginaire: psychanalyse et cinéma (1977), tr. it. Cinema e psicanalisi: il significante
immaginario, Marsilio, Venezia 1980.

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profondamente visionario di alcuni cineasti degli anni Venti (da Friedrich Wilhelm Murnau ad Abel

Gance) aveva trovato uno scoglio nell’arrivo del sonoro, che scoraggiava la mobilità della

macchina da presa rendendola difficoltosa. Ma cineasti come Max Ophüls, Alfred Hitchcock e

Stanley Kubrick avevano continuato a sperimentare in maniera assai significativa in questo senso. E

dalla metà degli anni Sessanta in poi si era assistito ad una tendenza crescente verso il montaggio

rapido, l’utilizzo di lenti estreme come il grandangolo e il teleobiettivo, e, appunto, l’impiego di

movimenti di macchina articolati, spesso non antropomorfi. Si trattava insomma di un tentativo di

energizzare l’immagine sempre di più, allontanandola dalla percezione abituale e quotidiana. Un

tentativo i cui modelli erano da rintracciarsi tanto nel cinema d’autore europeo (la Nouvelle

Vague, o un cineasta italiano come Bernardo Bertolucci) quanto nel film di genere (si vedano

thrillers come Bullitt, S. Yates, 1968 o Chinatown, 1974, non a caso diretto da un cineasta europeo

trasferitosi a Hollywood come Roman Polanski).

In Star Wars, questa modalità di energizzazione della messa in scena è presente già nei

succitati titoli di testa: il movimento in avanti molto particolare che essi descrivono è ottenuto

dando l’impressione che le parole siano collocate su una sorta di tapis roulant che le porta verso il

fondo, con l’effetto accentuato dal grandangolo. E questa modalità di presentazione del

paratesto (i titoli di testa) costituisce una traslazione concretamente fisica dell’idea che il film ci

garantirà un coinvolgimento immersivo nel mondo rappresentato.

Dopo le scene inziali, tale modalità immersiva riappare in modo assai significativo

soprattutto in altri due momenti del film. Innanzitutto, nelle scene in cui l’astronave dei protagonisti,

il Millenium Falcon, compie il salto nell’iperspazio, sconfiggendo le usuali coordinate

spaziotemporali. In questa sequenza, pur breve, comprendiamo come il film voglia trasportarci

verso una forma di immersione sensoriale pre-cognitiva e pre-linguistica, catapultandoci nella

profondità dello spazio galattico.

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Questo discorso giunge poi al massimo grado con l’uso insistito del travelling nella lunga

sequenza della battaglia finale4. Il travelling è infatti la figura chiave di questa tonalità intensiva

della messa in scena: si tratta di un vertiginoso movimento di macchina in avanti, che viene

adoperato proprio per consentire allo spettatore di partecipare al brivido della velocità. Le

astronavi compiono le loro evoluzioni tra pareti assai vicine dai rilievi complicati, e non in uno

spazio interstellare vuoto dove le stelle sono lontane: perciò tutti i punti luminosi dello schermo sono

in movimento. L’effetto complessivo è appunto quello dell’ebbrezza.

L’importanza di un’esperienza sensoriale intensificata trova d’altronde un corrispettivo

all’interno della trama stessa del film, con il discorso sulla Forza, l’energia imperscrutabile che dà ai

cavalieri Jedi la propria capacità straordinaria di combattere le forze del Male.

D’altra parte, va anche detto che gli elementi energetici non possono predominare

completamente in un film, perché ciò renderebbe impossibile per gli spettatori seguire lo svolgersi

della storia. Solo un film d’avanguardia, un film insomma che non ha una vera e propria

narrazione, può essere costituito dal susseguirsi di sole immagini esplosivamente intensificate. In Star

Wars, al contrario, anche la dimensione narrativa (come accennavamo su) è di importanza

fondamentale. Mentre l’inizio e il prefinale del film sono fortemente spettacolari e immersivi, nel

resto del film Lucas cerca di coinvolgere il pubblico in modo meno funambolico e più tradizionale,

tramite il dipanarsi dell’intreccio. Nei segmenti più narrativi, anche lo stile di ripresa è meno

innovativo e più classico: l’inquadratura è centrata sui personaggi, i movimenti di macchina sono

tendenzialmente antropomorfi e dunque lo spettatore tende ad identificarsi, come di consueto,

con i protagonisti (quella che Christian Metz chiamava “identificazione secondaria” 5). Il film

insomma – e come esso la maggior parte del cinema hollywoodiano contemporaneo, a cui ha

fatto da modello – propone un’alternanza tra le forme dell’intensificazione sensoriale postmoderna

e una dimensione narrativa più classica.

4
Si veda qui la scena: https://www.youtube.com/watch?v=AA_D__HMuFw.
5
C. Metz, op. cit.

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La figura di Luke è naturalmente quella su cui si incentra più che mai la dimensione

narrativa del film. Con la sua entrata in scena il film mostra sempre di più il suo debito nei confronti

della tradizione cinematografica precedente, palesandosi come un vero e proprio western

camuffato. D’altronde, come Rick Altman spiega benissimo nel suo Film/Genere6, le evoluzioni dei

generi cinematografici passano precisamente per queste ibridazioni, per questo processo secondo

cui un genere magari in decadenza trova nuova linfa impadronendosi degli elementi della sintassi

o della semantica di un altro genere. I film di fantascienza possono essere letti in molti casi come

una trasposizione degli elementi chiave del western nello spazio, che diventa ‘l’ultima frontiera’. La

fantascienza usa elementi semantici diversi (le astronavi sostituiscono gli uomini a cavallo o la

ferrovia) ma alcuni nessi sintattici sono gli stessi. Lo spazio galattico, come già la frontiera

americana, diventa un luogo di azione ed anche di libertà. Il mito del West viene qui riproposto nel

suo autentico valore epico, anziché decostruito e criticato come avveniva in molto cinema della

New Hollywood.

Il legame con il western si può rintracciare innanzitutto nelle ambientazioni desertiche: il

riferimento sembra essere in particolare al capolavoro di John Ford, Sentieri selvaggi (The

Searchers, 1956). Quando Luke torna alla fattoria degli zii, per trovarla incendiata, Lucas costruisce

una citazione diretta, inquadratura per inquadratura 7. Ma si tratta di un discorso che va molto più

a fondo di così. La vicenda di Luke ripercorre infatti anche le tappe della traiettoria edipica

caratteristica del cinema classico ed in particolare del western, tutta incentrata sulla problematica

dell’identificazione e del conflitto con le figure paterne: Luke è inizialmente in contrasto con lo zio

che lo ha adottato da piccolo e che agisce da censore alle aspirazioni avventurose del giovane,

ricoprendo perciò il ruolo della figura d’autorità con cui è impossibile identificarsi. Grazie alla

scoperta di un altro padre putativo, stavolta alleato, nella figura del Maestro Jedi, Obi-Wan

Kenobi, Luke può poi accedere alla maturazione. Un processo che gli consentirà infine di scoprire

l’identità del proprio vero padre, che non è morto come egli credeva. Questo “romanzo familiare”,

6
Rick Altman, Film/Genre (1999), trad. it. Film/Genere, Milano, Vita & Pensiero, 2004.
7
Si veda qui la scena del film di Ford: http://www.youtube.com/watch?v=f7x-rzLoeUA e qui invece quella del film di
Lucas: https://www.youtube.com/watch?v=BTKHZN8c2L8.

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per usare un termine freudiano, avvicina la saga di Star Wars sia alle narrazioni del cinema classico

che agli schemi molto più antichi del mito (abbiamo d’altronde già evocato Edipo), della fiaba,

dell’epica omerica (da cui si riprende per esempio l’inizio in medias res), nonché delle opere

shakespeariane.

Star Wars, come singolo film e come saga nel suo complesso, è insomma fortemente legato

alle strutture del racconto eroico di formazione: The Hero with a Thousand Faces (L’eroe dai mille

volti, 1949) di Joseph Campbell è uno studio che analizza la traiettoria tipica dell’eroe, ed era, non

a caso, proprio il libro che Lucas stava leggendo durante il suo tortuoso processo di scrittura del

film.

La saga, d’altronde, complica un po’ il panorama eroico tradizionale proponendo una

scissione tra due figure eroiche maschili: da una parte, l’Official Hero, l’eroe ufficiale rappresentato

da Luke Skywalker; dall’altra l’Outlaw Hero, il fuorilegge ribaldo Han Solo interpretato da Harrison

Ford, che diventerà una star di primissima grandezza proprio grazie alla saga. Se Luke Skywalker è

l’eletto, l’eroe predestinato, calato e finanche intrappolato in una lotta edipica tra Bene e Male,

Han Solo è una figura più moderna, che col suo atteggiamento inizialmente strafottente (sembra

pensare solo ai propri interessi finché non si converte alla causa della Resistenza) sembra ricordare

molti personaggi interpretati da Humphrey Bogart in una serie di classici come Casablanca (M.

Curtiz, 1943). Una divisione, questa tra le due figure eroiche, che conferma ulteriormente lo statuto

del film e della saga di Star Wars come opere profondamente duali, in equilibrio perfetto tra la

dimensione dell’archetipo e la forza dell’innovazione.

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4. Transmedia storytelling e fandom

Star Wars è evidentemente un prodotto sintomatico delle metamorfosi che stavan

investendo Hollywood alla fine degli anni Settanta. Si assisteva in quel momento ad un

cambiamento dello zoccolo duro del pubblico: il profilo demografico mutava verso una

generazione meno sensibile agli elementi di contestazione degli anni Sessanta, spostandosi dagli

spettatori politicizzati e cinefili di alcuni anni prima a un pubblico più giovane e più conservatore

nei gusti e nella sensibilità.

Con la fine della New Hollywood e l’affermarsi dell’epoca dei blockbuster (produzioni

spettacolari ad alto budget) inaugurato dalla saga di Star Wars, si assiste al riemergere in ambito

hollywoodiano del potere produttivo, incrementato anche dall’intervento di multinazionali

straniere. Parallelamente cresce il potere contrattuale delle star e si creano importanti meccanismi

di sinergia tra il prodotto cinematografico e le campagne di merchandising ad esso relative. Il

sistema dei blockbuster vedrà perfino, nel corso degli anni Novanta, un sorpasso storico, in termini

di profitto economico: la fonte principale di guadagno non saranno più i biglietti venduti per la

visione in sala, e nemmeno gli introiti ricavati dall’home video (con le videocassette,

commercializzate a partire dal 1975/76, per la prima volta il cinema si può vedere in casa

autonomamente dalla trasmissione di un film in tv) bensì i gadget relativi ai personaggi amati dal

pubblico.

Per dare un’idea dell’ampiezza del franchise di Star Wars basti dire che esso si sostanzia di:

 tre trilogie (dal 1977 al 2019);

 alcuni film cosiddetti standalone (storie autoconclusive, ma inserite nella stessa galassia

narrativa): Rogue One: A Star Wars Story (2016); Solo: A Star Wars Story (2018);

 ben cinque serie televisive animate, a partire dal 1985;

 una serie televisiva live action, tutt’ora in corso: The Mandalorian 2019-, protagonista di

recente di un successo strepitoso.

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 E ancora libri, fumetti, videogiochi, attrazioni da parco dei divertimenti

Quello di Star Wars si configura come un esempio perfetto di transmedia storytelling8,

ovvero di un vero e proprio ecosistema narrativo del tutto serializzato e ‘spalmato’ su diverse

piattaforme mediali.

Star Wars fa naturalmente da apripista a tante altre trilogie, a tanti altri franchise, da

Indiana Jones a Ritorno al futuro, per arrivare alla situazione odierna: la logica del franchise è la

logica dominante della produzione hollywoodiana contemporanea, ed i film incentrati sui

supereroi Marvel ne sono naturalmente l’inveramento più pieno.

E proprio per quanto riguarda la contemporaneità, va segnalato come la Disney sia in

questo momento protagonista di un tentativo di monopolio dell’immaginario collettivo senza

precedenti, avendo acquisito, tra il 2006 ed oggi, la Pixar (2006), la Marvel (2009), la Lucasfilm

(2012) e la 21st Century Fox (2017). Tramite la sua espansione tentacolare che le sta consentendo

di divenire proprietaria di molti degli ecosistemi narrativi di maggior successo presso il pubblico, la

Disney sembra decisa a colonizzare definitivamente la fantasia degli spettatori a livello globale.

Bisogna però tenere conto del fatto che, al di là di ogni tentativo di controllo dall’alto degli

ecosistemi immaginari contemporanei, questi producono sempre anche forme della creatività dal

basso, stimolando la fantasia dei fan e portandoli ad aggiungere storie di propria invenzione alla

messe di discorsi narrativi già esistenti. L’esperienza del fandom è un fenomeno importante di

riappropriazione e riscrittura degli universi narrativi transmediali da parte dei fruitori. Non si tratta

d’altronde di una pratica che si esplica solo tramite la scrittura di racconti (o tramite la creazione

di avventure nell’ambito di giochi di ruolo): oltre che per mezzo della parola, il fandom può

esprimersi anche tramite la riconfigurazione effettiva del materiale audiovisivo, con la realizzazione

di video che possono assurgere allo status di veri e propri saggi. Questi videosaggi enfatizzano

elementi già presenti nei film, per collegarli spesso alle dinamiche socio-politiche attuali. Si pensi ad

8
Henry Jenkins, Convergence Culture: Where Old and New media Collide (2006), trad. it. Cultura
convergente, Milano, Apogeo, 2007.

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esempio ai personaggi femminili della saga, protagonisti di questo video:

https://www.youtube.com/watch?v=sDF-0HjAL-M. In particolare, la figura della Principessa Leia è

diventata, negli ultimi anni, un simbolo delle manifestazioni contro il Presidente Trump ed è qui fatta

oggetto di omaggio e celebrazione (anche perché l’attrice che la interpretava, Carrie Fisher, è

scomparsa prematuramente). Le forme del fandom si riappropriano così del materiale narrativo

dei mondi immaginari, collocandosi in perfetto bilico tra una dimensione ludica ed una modalità

riflessiva.

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Anna Bisogno - Alle radici della tv popolare (1961-1974)

Indice

1. I RAPIDI PROGRESSI ................................................................................................................................ 3


2. UN UOMO FORTE AL COMANDO .......................................................................................................... 4
3. L’INTRATTENIMENTO POPOLARE ............................................................................................................ 6
4. CANZONI E CANZONETTE ...................................................................................................................... 7
5. GLI SCENEGGIATI DELL’ERA BERNABEI ................................................................................................ 10
BIBLIOGRAFIA................................................................................................................................................ 12

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Anna Bisogno - Alle radici della tv popolare (1961-1974)

1. I rapidi progressi

All’inizio degli anni Sessanta la televisione aveva acquisito una posizione centrale nella

società italiana e nella vita quotidiana degli italiani. Il sistema politico, sempre a dominanza

democristiana, si stava però aprendo all’esperienza del centro-sinistra, perché le maggioranze

centriste non garantivano più quell’essere “un partito di centro che guarda a sinistra” come

intendeva essere, nella lezione degasperiana, la Dc. Occorreva dunque aprire al Partito socialista

italiano, spezzando – o almeno indebolendo – il legame che lo legava al Partito comunista, sia

pure raffreddato dopo la crisi dello stalinismo e l’insurrezione ungherese del 1956.

Nelle lunghe trattative che precedettero il varo del primo centrosinistra (1963) i socialisti

furono molto attenti al settore dello spettacolo, del cinema e della televisione e ai temi della

censura. Chiesero e ottennero incarichi in televisione per il loro personale, nel momento in cui si

apriva il Secondo canale televisivo con il relativo Telegiornale (1961) e in cui giungevano in Italia

importanti novità tecnologiche come più agili riprese in esterni, i collegamenti satellitari

transatlantici, e l’Ampex. Cos’era l’Ampex? Era la marca del primo registratore videomagnetico

professionale, di fabbricazione americana; precedentemente solo la registrazione in pellicola

garantiva la conservazione di un video, altrimenti a scomparire dopo essere stato trasmesso in

diretta. In Italia fu utilizzato all’inizio solo per i telegiornali. La visione preventiva dei servizi più

delicati davanti ai dirigenti dei vari partiti diveniva una pratica abituale. Con la convenzione del 7

febbraio 1963 la Rai estende la rete in modo da raggiungere tutti i capoluoghi di provincia fino a

coinvolgere, alla fine del 1966, l’80% della popolazione.

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Anna Bisogno - Alle radici della tv popolare (1961-1974)

2. Un uomo forte al comando

L’abilità e la lungimiranza di Ettore Bernabei gli consentirono di mantenere un saldo

controllo sull’azienda e di guidarne la modernizzazione senza mai rompere con i nuovi arrivati, i

vertici espressi dal Partito socialista, con il quale realizzò un riuscito progetto di cooptazione

subalterna.

Non si trattava certo di un disegno di propaganda politica, per la quale a televisione è

meno adatta di quanto sembri. Il Partito comunista italiano, ad esempio, è cresciuto

progressivamente nel paese quando era totalmente bandito dalla televisione di Stato; il suo

declino inarrestabile è coinciso con l’ingresso nel potere televisivo. La televisione ispira piuttosto stili

di vita, presenta novità, conferma i valori di riferimento. Il progetto bernabeiano era,

sostanzialmente, un ambizioso disegno di allargamento sociale più che di cambiamento radicale,

di superamento graduale e cauto di alcuni confini che in precedenza erano assolutamente rigidi.

Del resto la parola-chiave della politica italiana negli anni di avvio del centro-sinistra era

“apertura”.

Era un modello capace di tener conto non solo delle esigenze dei partiti che costituivano i

gli editori di riferimento della Rai, ma all’interno delle culture, delle tecnologie, delle forme

produttive proprie del mezzo. Si realizzava così un processo di osmosi, accuratamente mediata, tra

televisione e quadro politico che rappresenta una caratteristica di tutto il sistema italiano.

Bernabei rimase a capo della Rai dal 1961 al 1974 e numerosi furono gli interventi che, nel

corso di questi anni, interessarono la programmazione e l’organizzazione tout court dell’azienda. La

tv di Stato progettata dalla linea Bernabei- Fanfani era paternalistica, interclassista e

progressista. Una vera mamma Rai che, nell’assolvere pienamente il ruolo di emittente statale,

diventava all’occorrenza maestra, tribuna politica, intrattenitrice o divulgatrice di notizie. Sotto la

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copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).

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sua direzione il Servizio Pubblico conobbe, per la prima volta, il palinsesto, il secondo canale e

l’estensione dell’orario dei programmi.

L’accelerazione del Paese e il relativo boom economico si riflette maggiormente nel

momento dell’informazione con il Telegiornale che da una parte è una finestra aperta sul mondo e

dall’altra simbolo delle istituzioni. Ma non solo. Il telegiornale in quegli anni divenne la costellazione

centrale di una galassia di approfondimenti e rubriche, a partire dal primo rotocalco televisivo a

cadenza quindicinale RT – Rotocalco televisivo (1962) realizzato da Enzo Biagi durante il suo breve

impegno come direttore del Telegiornale ,oppure lo speciale del telegiornale dei primi mesi del ’63

Viaggio nell’Italia che cambia di Ugo Zatterin.

Il momento dell’informazione divenne da una parte una finestra aperta sul mondo,

dall’altra un simbolo delle istituzioni. Il Tg1, infatti, andava in onda con un tono freddo e

istituzionale, proprio per evidenziare la sua funzione di amplificatore del messaggio governativo.

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3. L’intrattenimento popolare

Con l’introduzione del secondo canale Bernabei attivò una politica di complementarietà

tra le due programmazioni. La sua Rai fu una realtà conscia del proprio ruolo e della propria

identità. Nacquero in quegli anni i telequiz, Non è mai troppo tardi con il maestro Alberto Manzi,

l’intrattenimento culturale dei grandi sceneggiati di argomento storico. Con lui esplose la potenza

del mezzo televisivo, destinata a perdurare con ampio consenso popolare fino agli anni ’70

quando le trasformazioni sociali intaccarono ila supremazia della Rai.

La programmazione televisiva degli anni di Ettore Bernabei rappresentò ampiamente la

storia italiana degli anni ’60 con l’Italia del miracolo economico che trovò nel piccolo schermo

evasione e divertimento con il varietà. La tv si incaricò della missione di accompagnare il racconto

della modernizzazione del Paese negli anni del boom, pur mantenendo esplicitamente un ferreo

controllo politico, come quando revocò a Dario Fo e Franca Rame la conduzione

di Canzonissima (1962) rei di avere messo in evidenza la gravità degli infortuni sul lavoro. per uno

sketch su un costruttore edile che se ne infischiava delle norme antinfortunistiche. Quel caso non fu

né l’unico, né il primo; vi erano stati dei precedenti con Ugo Tognazzi, Raimondo Vianello, Enzo

Tortora e Alighiero Noschese.

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4. Canzoni e canzonette

Un tratto forte dell’intrattenimento televisivo è rappresentato da una forma culturale

profondamente radicata nei consumi nazionali degli italiani già alla fine dell’Ottocento: la musica

leggera.

La canzone era al centro di molti programmi televisivi già dagli anni Cinquanta, dal

Musichiere, fondato sul meccanismo d’importazione americana della gara per indovinare un

motivo musicale, alla trasmissione che accompagnava la lotteria di Capodanno, chiamata

appunto Canzonissima in quanto legata per lungo tempo a una gara tra canzoni, a volte nuove e

a volte classiche, ma comunque orecchiabili e dal forte appeal sul pubblico; dai programmi

pomeridiani fatti di esibizioni canore di professionisti, al gran varietà Studio Uno, presentato da

Mina, e costruito in buona parte intorno alle sue interpretazioni, ai suoi incontri con altri cantanti,

alle coreografie che rendevano ancor più suggestivi i motivi musicali. Ed è sempre la musica a

contribuire al successo di tanti programmi: era, ad esempio, elemento essenziale di Carosello

(1957), o si prestava a costruzioni comico-narrative nelle canzoni del Quartetto Cetra.

La musica leggera si prestava bene a una televisione che stava diventando il mezzo di

comunicazione di massa degli italiani sia dal punto di vista della programmazione che di

costituzione del suo patto fondativo con il pubblico.

Tra i più seguiti e amati dal pubblico italiano, Studio Uno è l’esempio migliore

dell‘intrattenimento della televisione in bianco e nero degli anni sessanta Sin dalla prima puntata,

in onda il 21 ottobre 1961, il pubblico mostrò immediatamente di gradire questo varietà che

prendeva il nome dello Studio Uno di via Teulada, soprattutto grazie allo stile innovativo con cui

viene concepito dagli autori Antonello Falqui e Guido Sacerdote: scenografie semplicissime

costituite da ampi spazi con arredi essenziali, movimenti e cambi di scena a vista, grazie anche

all’apporto dello scenografo Carlo Cesarini da Senigallia.

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Il backstage è in scena: gli strumenti tecnici e di ripresa compaiono nell’inquadratura,

inclusi telecamere e microfoni a giraffa; il tutto concepito non solo per favorire la partecipazione

degli ospiti d'onore e la spettacolarizzazione di numerosi balletti, ma anche per dare l’impressione

agli spettatori da casa di trovarsi in studio. Le gemelle Kessler caratterizzarono fin da subito il varietà

Studio Uno. Furono tanti e diversi i personaggi che entrarono nell’immaginario familiare del

pubblico a cominciare da Don Lurio, ideatore delle coreografie e della prima sigla Da-da-Umpa,

cantata sempre dalle Kessler.

Fu Mina (Anna Maria Mazzini) la protagonista assoluta del varietà: ma anche una spigliata

padrona di casa che rivela doti di conduzione, oltre quelle indubbie e validissime di cantante, che

dà vita a divertenti e memorabili duetti con numerosi ospiti del calibro di Totò, Nino Manfredi, Ugo

Tognazzi, Rossano Brazzi, Amedeo Nazzari, Vittorio De Sica, Marcello Mastroianni, Enrico Maria

Salerno, Peppino De Filippo, Vittorio Gassman e Alberto Sordi. Poco dopo però fu costretta ad

abbandonare la scena televisiva: aspettava un bambino e il padre, Corrado Pani, era

formalmente sposato con l'attrice Renata Monteduro. La Rai puntò allora su una ragazzina che

stava divenendo famosa grazie alla vittoria al festival degli sconosciuti di Ariccia, promosso da

Teddy Reno. Quella ragazzina era Rita Pavone.

Nel 1974 Mina ritornò al varietà con Carrà Milleluci condotto insieme a Raffaella Carrà

sempre con la regia di Antonello Falqui.

La canzone aveva già richiamato il pubblico negli spettacoli della prima tv italiana,

programmati nel tardo pomeriggio, messi in onda con semplici scenografie ma nel 1958 il varietà

Canzonissima si rivela da subito un ottimo connubio tra gara canora e rivista, seguendo l’idea di

coinvolgere le città e i centri periferici, contribuendo notevolmente alla costruzione dell'identità

musicale italiana.

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Dal 1963 al 1967 la trasmissione continua assumendo nuovi format e nuovi titoli, Gran

Premio, Napoli contro tutti, La prova del nove, Scala reale e Partitissima, per ritornare al titolo

originario di Canzonissima soltanto nel 1968 con l'edizione che vede protagonisti Mina, Walter

Chiari e Paolo Panelli. L'edizione del 1970 diventa famosa per la conduzione di Corrado, in coppia

con Raffaella Carrà e per la sigla del programma, cantata dalla stessa conduttrice, Ma che

musica maestro. La coppia viene confermata anche per l'edizione successiva del programma; il

ballo Tuca Tuca di Raffaella Carrà sarà considerato per l’epoca scandaloso. Sarà ancora la Carrà,

con Cochi e Renato, a condurre l'ultima edizione, quella del ’74-’75

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5. Gli sceneggiati dell’era Bernabei

La televisione è stata strumento di divulgazione per un’intera generazione di italiani, in una

scelta di opere che vanno dal teatro classico al rinascimento italiano, dal secolo d’oro spagnolo,

ai drammi di Shakespeare e ai drammi della seconda metà dell’Ottocento.

Nel 1962 si raggiunge il massimo punto di presenza del teatro riprodotto con 151 spettacoli

programmati tra primo e secondo canale; a fin dall’inizio dei programmi l’estrazione teatrale (e

non cinematografica) del personale RAI nelle scelte produttive e nell’impostazione degli spettacoli.

Nella seconda metà degli anni ’60, la tv-teatro mette in scena temi di attualità o di

ricostruzione storica trascurando testi di più stretta origine teatrale. Il modello teatrale si converte

allo sceneggiato, che vuole stemperare il contrasto dramma/racconto e lo trasforma in una forma

più vicina al gusto di un pubblico popolare. Lo sceneggiato italiano è lontano dalle soap opera

americane, dai feuilleton francesi e dalle telenovelas sudamericane.

Nel 1964 va in onda per la prima volta sul secondo canale Rai il Mastro Don Gesualdo per la

regia di Giacomo Vaccari: è questo il primo “film a puntate” della televisione italiana. Da questo

momento in poi le strade dello sceneggiato si divisero, da una parte il tele-romanzo si ispirerà al

grande filone della letteratura ottocentesca, dall’altro gli sceneggiati-filmati adotteranno i modelli

produttivi del cinema italiano ed europeo. Lo sceneggiato, quindi piuttosto che essere

concorrente, è un genere che funge da raccordo con il cinema.

Il telefilm americano, ma anche europeo, non è più il favorito del pubblico ma il prima

posto è occupato dal grande film popolare e dal film d’autore. Un nuovo ciclo della storia della

televisione si apre tra il 1968 e il 1969 ed è da questo momento che la televisione ha una fisionomia

sempre più produttiva con caratteristiche specifiche e le dimensioni del fenomeno accrebbero

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notevolmente: nel 1965 la Rai produsse 9 telefilm italiani contro 142 americani (si ricordano

soprattutto I Racconti del Maresciallo e La Famiglia Benvenuti).

Prosegue così la stagione letteraria dello sceneggiato con altri grandi successi: La figlia del

capitano, David Copperfield, La coscienza di Zeno (sceneggiatura di D’Anza e Tullio Kezich),

Oblomov, Il Conte di Montecristo, La fiera della vanità, I Promessi Sposi (Paola Pitagora nei panni di

Lucia e Nino Castelnuovo in quelli di Renzo) diretti da Sandro Bolchi nel 1967 con un cast di

altissimo pregio.

Oltre a Bolchi, l’altro grande padre degli sceneggiati italiani fu Anton Giulio Majano che, tra

le tante, diresse per la tv opere come Delitto e Castigo (1963), La Cittadella (1964), David

Copperfield (1965), La freccia nera (1968) e attori come Alberto Lupo e Virna Lisi.

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Indice

1. LA “STRENUA DIFESA” ............................................................................................................................. 3


2. LA QUESTIONE DEL PLURALISMO ........................................................................................................... 6
3. LA TV VIA CAVO .................................................................................................................................... 8
BIBLIOGRAFIA................................................................................................................................................ 11

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1. La “strenua difesa”

La modernizzazione della società ebbe conseguenti riflessi anche sul sistema radio-televisivo

pubblico italiano che, a partire dalla metà degli anni Sessanta, si mobilitò per una strenua difesa

del monopolio della Rai, e dunque di un collegamento diretto tra le istituzioni politiche e

l’emittenza radiotelevisiva. A fronte di innovazioni tecnologiche (il cavo, la microelettronica) che di

fatto ampliavano la possibilità di trasmettere anche a soggetti molto piccoli, la Corte

Costituzionale fu più volte chiamata ad esprimersi sulla legittimità dei primi tentativi di affermazione

di esperienze televisive libere e private.

La prima pronuncia in materia di radiotelevisione da parte dell’organo costituzionale

avvenne con la sentenza del 59/1960 che non accolse il dubbio di legittimità avanzato dalla

società “Il Tempo TV”, che nel 1956 chiese al Ministero delle Poste e Telecomunicazioni l’assenso

per la realizzazione di un servizio di radiodiffusione televisiva da attuare in Toscana, nel Lazio e nella

Campania, provvedendo alla costruzione di impianti trasmittenti, studi di ripresa e ponti radio e di

utilizzare frequenze altre (UHF) per non interferire con quelle preesistenti stazioni radiotelevisive

italiane (frequenze VHS). Il monopolio era salvo.

Un altro tentativo di messa in discussione del monopolio pubblico arrivò dalla Provincia

autonoma di Bolzano che rivendicava la possibilità di realizzare programmi radio televisivi locali,

per salvaguardare la minoranza di lingua tedesca. La Corte Costituzionale con la sentenza n.

46/1961 respinse la richiesta.

In effetti il sistema tradizionale del broadcasting nella televisione monopolistica italiana

iniziava a rivelarsi inadeguato per effetto di una serie di trasformazioni che stavano attraversando

l’intero continente europeo. La prima trasformazione riguarda i gusti del pubblico, le sue attese, il

suo rapporto con i consumi culturali; la seconda attiene alle innovazioni tecnologiche in tutti i

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campi dell’elettronica che moltiplicano i canali di diffusione e di utilizzazione dei segnali televisivi.

L’idea di una radiotelevisione pubblica fondata prevalentemente su una funzione culturale entra

in crisi per cause oggettive, in Italia e nel mondo.

Il dibattito sul sistema radiotelevisivo subì una notevole accelerazione solo dopo due

storiche sentenze della Corte costituzionale del 1974. Viene dichiarata costituzionalmente

illegittima la riserva allo Stato dell’attività di ritrasmissione di programmi di emittenti estere e se ne

ammette l’esercizio anche da parte di soggetti privati (sent. 225/1974). La Corte si preoccupò di

precisare i requisiti minimi indispensabili che dovevano consentire all' emittenza pubblica di

esplicare il proprio compito, indicando una sorta di decalogo al quale la Rai doveva conformarsi

assicurando un rigoroso pluralismo interno, per consentire l'espressione delle varie formazioni

culturali presenti nella società. A tale scopo la Corte chiedeva anzitutto che la Rai venisse sottratta

alla sfera governativa e collocata nella diretta sfera del Parlamento.

Nella successiva sentenza, la n. 226/1974, la Corte dichiara costituzionalmente illegittima la

riserva dello Stato alla installazione e all’esercizio di reti locali di televisioni via cavo dal momento

che non sussisteva un serio rischio di monopolio. La Corte di fatto apriva alla televisione via cavo in

ambito locale.

Le due sentenze impressero un ritmo più veloce al Parlamento nell’approvare una riforma

della Rai, che era in discussione da anni. Essa fu costituita dalla legge n. 103 del 1975 che spostò in

gran parte il controllo sulla radiotelevisione dal Governo al Parlamento, attraverso la Commissione

di vigilanza sulla Rai, istituendo un terzo canale televisivo e potenziando le sedi regionali a cui era

affidata una parte della programmazione.

Se la legge di riforma aveva rafforzato la posizione della Rai come concessionaria del

Servizio pubblico radiotelevisivo, la sentenza n. 202 del 1976 della Corte costituzionale aprirà di

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fatto un mercato e uno spazio per la televisione e la radio privata. Essa era autorizzata in ambito

locale, tenuto fermo il monopolio del servizio pubblico essenziale e il preminente interesse generale

costituito dalla diffusione via etere su scala nazionale dei programmi.

A quale estensione corrispondeva l’ambito locale? Un chilometro quadrato? Una

provincia? Una regione? Al quesito, non proprio irrilevante, avrebbe dovuto rispondere il

legislatore, cioè il Parlamento. Questa determinazione dell'’ambito locale non fu mai effettuata

con il chiaro intento di favorire la crescita delle emittenti e creare una situazione di fatto da cui non

si potesse più tornare indietro. Chiudere una emittente, con un proprio pubblico di spettatori, con

una testata giornalistica, con una presenza rilevante in una citta o un territorio sarebbe risultato

politicamente impossibile e sarebbe apparso come una restrizione della libertà.

Il pluralismo sarebbe stato dunque assicurato non dalla costituzione interna del servizio

pubblico, ma dalla compresenza di un sistema misto pubblico-privato con una molteplicità di

emittenti.

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2. La questione del pluralismo

Tra gli anni Settanta e Ottanta le principali questioni che scandirono la discussione

sull’apertura a soggetti privati del sistema radiotelevisivo italiano erano la libertà d’espressione e il

pluralismo dell’informazione. In un articolo apparso nel gennaio del 1972 su L’Espresso, il direttore

Eugenio Scalfari, poi fondatore del quotidiano La Repubblica, impostava in modo nuovo la

questione della “libertà d’antenna”. Egli sosteneva, infatti, che la libertà di antenna avrebbe fatto

nascere nel giro di pochi anni così tante nuove emittenti da spostare il dibattito sulla televisione

dalla critica della gestione del monopolio al pluralismo dell’informazione. Una voce solitaria allora,

che mostrava di aver colto le trasformazioni avviate dalla nascita di Telebiella, una emittente che

rappresentò probabilmente la prima emittente televisiva privata registrata nel 1971 presso il

tribunale come “giornale periodico a mezzo video”; le sue trasmissioni furono inaugurate a partire

dal 1972.

All’inizio del decennio si manifesteranno inoltre diversi modelli tecnologici e produttivi da

cui, all’inizio del decennio successivo, sarebbe emerso un nuovo sistema dei media in cui la

televisione commerciale avrebbe avuto un ruolo centrale, anche se non esclusivo.

Di questo periodo è possibile distinguere tre fasi: la prima, dal 1976 al 1979, vede la veloce

proliferazione delle radio e delle televisioni private a carattere locale; la seconda, dal 1980 al 1984

registra la formazione di gruppi privati nazionali. Successivamente la Fininvest di Silvio Berlusconi,

che ha assorbito le televisioni degli editori Rusconi e Mondadori, diventa il principale gruppo

privato, con tre canali e una dimensione di impresa paragonabile a quella della Rai, egemone nel

panorama dell’industria televisiva nazionale.

Il ministro delle Poste Vittorino Colombo definì “cento fiori” le emittenti private,

sottintendendo che era era necessario lasciarli sbocciare. Le emittenti nascevano per le ragioni più

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diverse: alcune, soprattutto le radio, riflettevano posizioni ideologiche di tipo libertario ma la

maggior parte delle emittenti televisive erano sorte per iniziativa di piccoli imprenditori che

volevano sfruttare il mercato pubblicitario locale fino a quel momento sottoutilizzato, attraverso

l’offerta di programmi acquistati o realizzati direttamente a basso costo.

A ciò si aggiunge che le tv private adottarono subito la trasmissione a colori, mentre la RAI

lo farà solo nel 1977; un po’ per una diatriba tra la scelta del sistema francese SECAM e quello

tedesco PAL, un po’ perché la tv a colori era considerata un consumo frivolo rispetto alle politiche

di austerità allora in voga.

Complessivamente la fase iniziale della televisione commerciale corrisponde all’incapacità

di una parte della politica di gestire e regolare l’emergere di un nuovo sistema dei media

arroccandosi a difesa del monopolio, mentre altre forze politiche premevano per la costituzione di

un sistema misto di fatto. Inoltre essa partecipa a un profondo, e spesso inavvertito, cambiamento

dei quadri mentali diffusi. Possiamo citare il nuovo ruolo dei consumi, stimolati da un aumento

senza precedenti della pubblicità televisiva; oppure il ridefinirsi della geografia dei media lungo le

stesse linee che sembrava percorrere la nuova organizzazione dello sviluppo industriale; o ancora,

infine, al nuovo protagonismo del sistema televisivo, con forme inedite di partecipazione e

coinvolgimento del pubblico.

Una delle conseguenze di questa trasformazione sarà il rovesciamento delle premesse su

cui si era fondata la rottura del monopolio televisivo. La “libertà d’antenna”, che a metà degli anni

Settanta aveva incarnato la richiesta di un’informazione plurale e di un modello orizzontale di

comunicazione, sarebbe diventata, un decennio più tardi, una delle forme con cui si difendeva un

nuovo “diritto all’intrattenimento”: segnale che quel processo che Giovanni Gozzini ha definito di

“mutazione individualista” si era ormai compiuto.

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3. La tv via cavo

In principio fu il cavo. Per provare a ricostruire i molteplici percorsi che portano alla nascita

delle televisioni commerciali è necessario infatti occorre partire proprio dalla sperimentazione delle

televisioni via cavo che, nella prima metà degli anni Settanta, incarnavano il modello di una

informazione nuova, più libera e plurale rispetto a quello della Rai.

Tutto ebbe inizio negli anni ’70 con la già citata piemontese piemontese Telebiella –

considerata la prima televisione privata italiana – e la lombarda Telemilanocavo (dalla quale

nascerà la futura Canale 5) che trasmetteva da Milano 2, un complesso edilizio costruito da Silvio

Berlusconi a cui l’emittente fu ceduta al simbolico prezzo di una lira.

Le immagini televisive possono essere trasmesse non soltanto via etere, ovvero per mezzo

delle onde ma anche grazie attraverso un cavo coassiale, con un collegamento di tipo telefonico

capace di trasformare una quantità di informazione assai superiore (dell'ordine di varie decine di

volte) a quella del normale filo del telefono.

La tv via cavo funziona con tre elementi: il canale, la rete cablata e il televisore.

Sul piano teorico essa appariva uno strumento ideale per creare un nuovo rapporto spazio-

temporale tra il mezzo e il telespettatore perché mentre la televisione via etere è limitata dal flusso

di informazioni che partono dal vertice e arrivano alla base, la televisione via cavo è aperta al

flusso di informazioni che utilizza il procedimento inverso, che parte dalla base e arriva al vertice.

Molte delle televisioni via cavo nate fra il 1974 e il 1975 muovevano da questi presupposti: si

pensi ad esempio agli esperimenti di televisione “di quartiere” che volevano fare informazione

locale in stretto collegamento con le forze sociali.

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Le televisioni via cavo riflettono l’immagine delle paladine della libertà d’informazione: si

pensi ancora a Telebiella e al conflitto con il Ministero delle Poste e Telecomunicazioni che

avrebbe portato alla sentenza della Corte costituzionale n. 226/1974. E non è un caso che una

delle associazioni fra tv via cavo si chiamerà proprio Rete A 21, con riferimento all’articolo della

Costituzione che garantisce la libertà d’espressione. Contemporaneamente, proprio nel 1974, la

credibilità della Rai era stata notevolmente ridimensionata durante la campagna per il referendum

sul divorzio che aveva mostrato, da un lato, la propensione del servizio pubblico alla

manipolazione dell’informazione e, dall’altro, la sua incapacità di cogliere i mutamenti e le nuove

istanze dell’opinione pubblica.

A maggio del 1973 venne organizzato a Venezia il primo convegno delle tv via cavo e

nell’agosto dell’anno successivo Tele Libera Firenze salì agli onori della cronaca per essere stata,

probabilmente, la prima rete locale a trasmettere via etere, e in poco più di un anno, ben prima

che la Corte costituzionale si pronunciasse in merito.

A molti, ma non alle tv via cavo, sfuggi un articolo della legge di riforma Rai del 1975 che

consentiva la trasmissione via cavo purché “monocanale” (art. 24) e con limitazioni territoriali

strette (non più di 150 mila abitanti) che rendevano la televisione via cavo impossibile.

Il passaggio dal cavo all’etere, sperimentato in forma illegale nel 1975, diventerà

inarrestabile dopo la sentenza n. 202/1976 della Corte costituzionale e nel giro di pochi mesi

mostrerà che all’evoluzione tecnologica si accompagnavano anche cambiamenti più profondi: “Il

pionierismo è morto! Viva il professionismo!” titolava ad esempio la rivista di settore Millecanali.

Iniziava così a delinearsi l’idea di una nuova televisione che accantonava l’idea di

un’informazione libera in favore di un modello industriale più definito ed efficiente e che sarebbe

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stato ribattezzato “network all’italiana”: si trattava dell’evoluzione di una forma di “consorzio” a cui

avevano già pensato nel 1975 le televisioni via cavo per abbattere i costi e della quale si può

attribuire ancora una volta la primogenitura a Telebiella.

Tuttavia, il primo vero “network” sarebbe stato costituito dal circuito Elefante TV (1979) dei

fratelli Marcucci, nella cui syndication c’erano, tra le altre, l’emittente lombarda Telenord (che già

nel 1978 riceveva con ponti radio gran parte delle sue trasmissioni), Telesud Napoli, Teledue di

Torino.

Un tale cambiamento di modello industriale non era dettato solo da esigenze economiche

ma, forse inconsapevolmente, rispondeva anche a trasformazioni più profonde.

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copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).

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Indice

1. CAMBIO DI ROTTA .................................................................................................................................. 3


2. UNA NUOVA STAGIONE......................................................................................................................... 6
3. CONTENITORI E TALK SHOW (’70-’80) ................................................................................................... 8
BIBLIOGRAFIA................................................................................................................................................ 10

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1. Cambio di rotta

Il dibattito politico e culturale intorno al sistema radiotelevisivo italiano a metà degli anni ’70

è intenso e vivace ma le forze politiche di maggioranza e di opposizione non riuscivano a vedere

un’altra forma di attività televisiva che non fosse la Rai. La legge di riforma (L. 103/1075), approvata

con l’astensione dell’opposizione comunista, ribadiva il suo monopolio spostandone il controllo

verso il Parlamento. La legge si mosse sostanzialmente in un’ottica di garanzia che consentì a tutti i

soggetti politici di essere in qualche modo rappresentati all’interno dell’Ente pubblico

radiotelevisivo.

Le determinazioni più importanti della legge n. 103 possono essere di seguito riassunte:

- conferma del monopolio dello Stato sulle trasmissioni radiotelevisive;

- passaggio del controllo del Servizio pubblico e della società concessionaria dal Governo

al Parlamento (attraverso la Commissione di vigilanza sulla Rai) al fine di garantire un

maggior pluralismo all’informazione con la costituzione di un’apposita;

- regolamentazione assai restrittiva delle trasmissioni via cavo;

- istituzione di spazi autogestiti all’interno della programmazione destinati a sindacati,

confessioni religiose, movimenti politici, associazioni politiche e culturali, gruppi etnici e

linguistici e di coloro che ne facessero richiesta: i cosiddetti Programmi dell’accesso che

andarono in onda dal 1977 su Rai 2 con scarsissimo successo;

- istituzione di una terza rete televisiva;

- creazione di una struttura dedicata alla divulgazione scientifica ed educativa,

il Dipartimento Scuola Educazione.

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Con il passaggio del servizio pubblico dal controllo del governo a quello parlamentare, si

estende il processo poi ribattezzato genericamente lottizzazione, termine coniato nel 1974 dal

giornalista Alberto Ronchey, ovvero la spartizione dei canali radiotelevisivi della Rai e dei posti di

responsabilità su base politica; tale sistema era stato prima esercitato fra le correnti della

Democrazia Cristiana e successivamente, durante i governi di Centrosinistra. Adesso, cautamente,

fu allargato al partito comunista. Le due reti televisive precedenti erano da sempre la prima

nell’orbita della Democrazia Cristiana, la seconda del Partito Socialista. Con la creazione della

terza rete (essenzialmente regionale), sia la rete che la testata furono dirette da personale

democristiano, ma ciascuno di essi si vide assegnato un condirettore espresso dal Partito

comunista. Solo nel 1987 la terza rete passò nella sfera di influenza del Partito Comunista e divenne

una rete nazionale. La cosiddetta zebratura inoltre permetteva di bilanciare una rete assegnata

ad un partito con presenze politiche e professionali altre.

Tra gli effetti positivi vi fu il nuovo rapporto tra le reti, non più di complementarietà ma di

concorrenza intellettuale, che portò a una marcata contrapposizione fra stili e pubblici di

riferimento. Questa nuova dimensione culturale e politica della Rai fu innovatrice nei primi anni -

anche se poi questa spinta fu abbandonata sotto la pressione della concorrenza delle televisioni

commerciali - anche grazie all’esordio delle regolari trasmissioni a colori avvenuto

l’1febbraio 1977. Probabilmente ciò permise agli autori televisivi maggiore libertà progettuale,

creativa e una serie di opportunità tecniche innovative, che portarono ad una maggiore

spettacolarizzazione. Un esempio è l’affermazione di un nuovo genere, il talk show, che avrà come

caratteristica preminente quella di mescolare l’intrattenimento e informazione, anche se i suoi inizi

sono in bianco e nero, intelligenti e austeri come Bontà loro di Maurizio Costanzo (1976), il primo

talk della televisione italiana.

La seconda metà degli anni Settanta in tv fu particolarmente prolifica e sperimentale con

una serie di programmi innovativi nella formula e nel linguaggio, tra questi Odeon. Tutto quanto fa

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spettacolo (1976), L'altra domenica (1976), Non stop (1977), Portobello (1977) condotto da Enzo

Tortora, Domenica In (1976), Fantastico (1979).

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2. Una nuova stagione

Contestualmente le televisioni private nascevano ovunque, in garage, capannoni, sale da

ballo, centri commerciali; il periodo 1976-1980 fu l’era del localismo più accentuato. La dimensione

locale della televisione privata permetteva adesso forme inedite di identificazione e di

riconoscibilità da parte delle comunità anche grazie al trasferimento di divi, personaggi del mondo

dello spettacolo ed ex volti della Rai coinvolti ed economicamente gratificati dalla nuova

esperienza professionale ed artistica.

Su tutti, il caso di Telemilano la cui società e il cui marchio furono rilevati da Silvio Berlusconi

nel 1975. Nel ’78, grazie ad un ripetitore istallato sul grattacielo Pirelli di Milano, Telemilano inizia le

trasmissioni regolari con il nuovo nome di Telemilano 58, che fu l’antesignana di Canale 5.

Alla fine del decennio emersero gruppi nazionali, in particolare quelli legati agli editori

Rizzoli (PIN, Prima rete indipendente), Rusconi (Italia 1), Mondadori (Retequattro), e agli imprenditori

Callisto Tanzi (EuroTv) e Silvio Berlusconi (Canale 5). Nel 1984 la Fininvest di Silvio Berlusconi era

ormai un network a tre reti e il suo fatturato pubblicitario superava quello della Sipra, la

concessionaria della Rai.

Le televisioni locali (se ne contavano circa 400 nel 1978) erano spesso espressione di

imprenditori del luogo, gestori di centri commerciali o luoghi di spettacoli, o commercianti di

elettrodomestici ed elettrotecnici che volevano utilizzare l’onda della grande distribuzione e forme

di commercializzazione del prodotto più diffusa (televendite e aste tv).

Nella loro offerta tanti game show con ampio uso del telefono (sempre con il numero in

sovrimpressione sul video) che animavano le mattine e i pomeriggi intrecciando secondo

un’estetica sempre più deliberatamente tendente al trash.

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L’informazione locale, largamente praticata, si rifaceva ai canoni espressivi e formali dei

telegiornali della Rai che doveva affrontare per la prima volta nella sua storia un problema di

identità. L’emittenza privata che soltanto metteva in discussione il suo ruolo pedagogico ed

educativo ma anche la sua funzione politica e la sua offerta culturale affidata alla terza rete -

invero con modesti risultati di ascolto – che inizia le sue trasmissioni regolari nel 1979.

Siamo all’inizio della cosiddetta guerra dell’audience che porterà il servizio pubblico

televisivo italiano a una competizione sempre più esasperata sia al suo interno che all’esterno, con

la competizione delle tv private e commerciali.

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3. Contenitori e talk show (’70-’80)

La Riforma del 1975 generò concorrenza interna alla Rai che indurrà le tre reti a una

riorganizzazione dei palinsesti distinta e concorrenziale, oltre che a investire su format in grado di

essere più plurali, innovativi, d’evasione. Alcuni generi scompaiono quasi del tutto (la prosa), altri

vengono ridimensionati (programmi per ragazzi), quelli di informazione e cultura collocati in

seconda serata. Termina Carosello e inizia l’era dello “spot”.

Il palinsesto, finora caratterizzato da netta suddivisione tra i generi, rigidità delle collocazioni

e appuntamenti fissi settimanali, lascerà il posto ad una programmazione più fluida e

contraddistinta da una graduale rottura dei generi, diventando strumento indispensabile e

strategico per calibrare domanda e offerta (Monteleone 2003). I primi esempi di questa tendenza

sono il programma contenitore e il talk show, destinati a diventare capisaldi della neotelevisione,

come Domenica in e L’altra domenica, per il primo e Bontà loro per il secondo di cui si

approfondirà.

Come è facile intuire dalla definizione, il contenitore è un programma di lunga durata al cui

interno si succedono momenti diversi, anche non dello stesso genere: tra spettacolo e

informazione, canzoni e interviste, giochi. Dal pomeriggio domenicale, il contenitore si estenderà

anche alle fasce mattutine e pomeridiane dei giorni feriali e contribuirà ad affermare un uso della

televisione quale accompagnamento leggero nella giornata e nella vita degli italiani.

Domenica In (Rete 1, 1976). Il contenitore rappresentò un punto di forza nella

riorganizzazione dello spazio domenicale e nell’intrattenimento domestico per famiglie. Il titolo fu

una idea di Corrado Mantoni che del programma fu anche autore e conduttore per i primi tre anni

prima di lasciare il testimone a Pippo Baudo. Sei ore di diretta con giochi, quiz, canzoni, telefilm e la

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rubrica più popolare della televisione italiana e l’appuntamento più atteso per gli appassionati di

calcio, 90° Minuto condotto da Paolo Valenti.

L’altra domenica (Rete 2, 1976-79). Per la prima volta il pubblico può entrare in diretta

comunicazione con la televisione. Basta fare un numero di telefono per prendere la linea. La prima

edizione, condotta da Renzo Arbore e Maurizio Barendson, si fondò sul connubio varietà e sport

per poi trasformarsi in puro spettacolo, tra gag varie, finti collegamenti internazionali, interazione

con il pubblico che affonda le radici nell’esperienza radiofonica di Alto gradimento. Tra i

personaggi cult del programma l’improbabile critico cinematografico Roberto Benigni, il cugino

americano Andy Luotto, i cartoni animati di Maurizio Nichetti e Guido Manuli, le stelle e strisce delle

Sorelle Bandiera rendono allegro e scanzonato l’appuntamento domenicale.

Il talk show è uno spettacolo che si fonda sulla parola, sulla conversazione, sul confronto tra

opinioni. Il genere è dii provenienza americana e nella sua versione italiana ha inizialmente

puntato sul racconto del privato e della gente comune (Bontà loro) per poi successivamente

estendersi – con importanti modifiche strutturali - all’informazione politica (Samarcanda),

economica (Maastricht Italia), sportiva (Il processo del lunedì). Il conduttore ha un ruolo centrale

nel gestire la conversazione e nel dare forma, ritmo e tono al programma con il pubblico in studio,

spesso partecipante, che evoca il pubblico a casa e una messa in scena casalinga e familiare

(salotto, bar, piazza).

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Indice

1. TELEVISIONE E MODERNITÀ .................................................................................................................... 3


2. A COLORI ................................................................................................................................................ 5
3. PORTOBELLO ........................................................................................................................................... 8
BIBLIOGRAFIA................................................................................................................................................ 10

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1. Televisione e modernità

La TV pubblica italiana a metà degli anni '70 è lo specchio di un Paese sospeso tra la

radicalità degli anni Sessanta e l'edonismo degli anni Ottanta e come una potente macchina di

produzione culturale e di identità. Durante questo decennio la RAI rielabora il suo ruolo

pedagogico e sostanzialmente se ne allontana, avvicinandosi ad una maggiore

spettacolarizzazione che anticipa i tipici racconti della televisione commerciale nel successivo

decennio.

L’entertainment è una delle chiavi interpretative della modernità e delle forme estetiche

che la accompagnano, di cui il cinema è stato il primo vettore (e la sede formativa). Possiamo

tradurre entertainment come intrattenimento: un accompagnamento della vita che non è

soltanto divertimento perché ha una importante componente emotiva, sentimentale, narrativa.

“Entertainment è la parola che oggi comunemente usiamo per definire l’intrattenimento nei suoi

spettacoli, riti e mode culturali e anche nella sua dimensione industriale e produttiva.” (E. Menduni,

Entertainment, 2013, p. 7)

Al centro dell’intrattenimento troviamo il macrogenere dello spettacolo leggero, che in

questi anni è un’area importante per l’evoluzione del linguaggio, della sperimentazione e delle

soluzioni tecniche. Sono state le esigenze di questo genere a introdurre l’impiego di tutta una serie

di artifici sofisticati, di tecniche ed espedienti registici, dal play back ai più raffinati effetti speciali.

Nati all’interno dei programmi leggeri, si sono poi estesi molti altri generi della comunicazione

televisiva. Gli anni Settanta rappresentano da questo punto di vista una officina di produzioni

innovative collocate in fasce di palinsesto che tradizionalmente erano solo sfiiorate da questo

genere perché dedicate a programmazioni ritenute meno leggere e più colte.

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L’altra novità, forse la più importante, è legata al pubblico. Se nella televisione tradizionale

esistevano programmi dedicati a speciali componenti del pubblico (es. “la tv degli agricoltori”),

nella televisione moderna l’obiettivo del genere leggero è quello di accontentare

contemporaneamente i gusti e gli interessi più vari di un pubblico composito che si comincia a

chiamare “generalista” e “nazionalpopolare”. Il modello di questo nuovo stile è già presente in un

programma del 1969 condotto da Renzo Arbore, Speciale per Voi, che miscela gli argomenti più

eterogenei presi dal mondo della moda, del costume diretto a un pubblico giovanile ma con la

tentazione di riuscire a interessare anche il mondo degli adulti.

Qualche anno dopo, nel 1976, è Roberto Benigni ad affermare sul secondo canale il

genere della comicità demenziale con Onda libera, dove interpreta il personaggio dialettale di

Mario Cioni che trasmette da una immaginaria Televacca.

In questa fase dunque si dà vita a un nuovo modello di spettacolo leggero basato su una

comicità spesso strampalata, ricca di nonsense, di esagerazioni anticonformiste. Si afferma la

partecipazione del pubblico in studio, liberandolo dall’obbligo della presenza muta con applausi a

comando; la partecipazione di questo pubblico presente fa somigliare lo spettacolo televisivo a un

cabaret e gli conferisce qualche tonalità underground. Vengono alla ribalta attori e personaggi

nuovi, molti dei quali avevano una comune matrice cabarettistica ed erano slegati dalla

tradizione del teatro italiano nella sua componente leggera (la rivista, il varietà). Si affermano così

in questa fase figure che diventeranno popolarissime nel varietà televisivo (e nel cinema): Cochi

Ponzoni e Renato Pozzetto, o Paolo Villaggio, che debuttarono in Quelli della domenica (1968),

programma con ampi spazi per i comici emergenti.

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2. A colori

Il 1977 per la televisione italiana è un anno particolarmente significativo: l’1 febbraio iniziano

anche sulla Rai le trasmissioni a colori (già molte tv private l’avevano fatto) dopo una lunga fase

definitiva “sperimentale”, ma che serviva in realtà perché la politica non aveva ancora deciso se il

colore era compatibile con le politiche di “austerità” allora in voga, e quale standard si doveva

scegliere. Questo ritardo si rivelò un errore gravissimo soprattutto sul piano economico, perché

massacrò l’industria italiana dei televisori. Tutti aspettavano il colore per cambiare l’apparecchio e,

quando esso finalmente arrivò i televisori erano ormai tutti tedeschi, olandesi o giapponesi.

Ci vorrà ancora un po’ di tempo per e colorare d’azzurro lo storico segnale orario delle 20.

Era ancora in bianco e nero “Furia, cavallo del West”, primo esperimento di telefilm Usa nello

spazio pre-telegiornale ma era decisamente giallo il becco del pappagallo del mercatino di Enzo

Tortora ed erano a colori le gag dei comici di “Non stop”.

Il dibattito sulla scelta dello standard rimandava in realtà alla scelta da parte dell'Italia a

quale area dell'Europa agganciarsi: se quella più sociale della Francia (standard Secam) o quella

siderurgica ed economicamente più forte della Germania (sistema PAL). Un dibattito, lungo,

controverso e a tratti surreale. Il PAL (Phase Alternation Line) sarà adottato dalla maggior parte dei

Paesi, Italia compresa. Il SECAM (Sistème Electronique Couleur Avec Memoire) sarà invece usato in

Francia e venduto nei Paesi dell’Est.

In Italia la Democrazia Cristiana con Amintore Fanfani spingeva per il sistema francese

mentre Ettore Bernabei, direttore generale della Rai e suo uomo di fiducia, era convinto della

superiorità del PAL. Una delle tante leggende, non tutte veritiere, attorno alla televisione racconta

che per ovviare all’impasse Bernabei sarebbe ricorso a una idea ingegnosa: in occasione delle

Olimpiadi di Monaco (1972) fece allestire nel salone più importante della sede Rai due file di

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televisori, una che trasmetteva in PAL e l’altra in SECAM. La differenza fu evidente e la Rai si orientò

sul PAL.

Tuttavia perché la televisione a colori diventasse realtà bisognerà attendere altri cinque

anni perché l’introduzione fu osteggiata da Ugo La Malfa, segretario del Partito Repubblicano, e

dal Pci – insieme alla Cgil - che consideravano la televisione a colori un lusso che gli italiani non si

potevano permettere: una visione arcaica sia dell’economia che dei gusti degli italiani. Queste

incertezze portarono comunque al fallimento dell’industria elettronica italiana, come abbiamo già

accennato: nessuno comprava più televisori in bianco e nero ma non poteva ancora vendere

televisori a colori.

Uno dei generi che beneficiarono della introduzione del colore fu lo sport: le maglie dei

calciatori diventarono finalmente viola o rossonere, ma anche le altre discipline acquistarono un

rinnovato appeal. Parallelamente alla tv a colori, nel ’77 nelle case degli italiani si diffuse il

telecomando, già in commercio da due anni: venduto in dotazione con i nuovi apparecchi, dava

al pubblico la concreta sensazione di poter scegliere.

La Rai iniziò le prove tecniche del colore al mattino, con una serie di immagini statiche a

colori su musica classica.

Nel 1976 fu la volta delle Olimpiadi di Montreal e dei “Quaderni neri del Tg2”, primo

programma parzialmente a colori, un mix di riprese a colori in studio e filmati d’archivio in bianco e

nero.

Fu Corrado Mantoni l’1febbraio 1977 a celebrare l’evento durante la sigla iniziale di

Domenica In.

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Da quel momento la televisione italiana incominciò a svecchiare la sua immagine,

introducendo via via la nota del colore tanto atteso. Le sigle di inizio e fine trasmissioni erano

colorate. Anche le italiche vedute dell’Intervallo ricevettero una nota di vivo colore, prima di

scomparire anch’esse nel cassetto dei ricordi.

Il vecchio monoscopio (l'immagine fissa messa in onda per verificare la qualità tecnica

della trasmissione) rigorosamente in bianco e nero sparì definitivamente e poco per volta il colore

si estese anche alle pubblicità (dal gennaio 1978) e a tutti gli altri programmi, da quelli di

intrattenimento agli sceneggiati, dall’attualità ai film.

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3. Portobello

Portobello fu un’esemplare trasmissione d’intrattenimento e una miniera di innovazioni

televisive. Ancora oggi è possibile trovare tracce di Portobello in vari programmi odierni, dai quiz ai

reality, e in generale quando la gente comune è resa protagonista Qui, forse, sta il vero segreto del

successo che per anni ha accompagnato la trasmissione: l’idea di partire dall’umanità del

pubblico, per creare un appuntamento che raccontasse l’Italia, magari con un pizzico di

buonismo, giustificato dai tempi bui di allora e dalla voglia di distrazione e leggerezza. Scriveva il

giornalista Luca Goldoni sul “Corriere della Sera” nel 1977: “Trasmissioni come Portobello ci

mostrano, in fondo, quella che è ormai definita l’altra Italia. L’altra Italia siamo un po’ tutti noi che -

nonostante le P38, i sequestri, i piani eversivi, le rapine, le evasioni, i conflitti a fuoco, gli attentati

alle istituzioni o alle arterie femorali dei giornalisti - riusciamo nella sfera privata a vivere quasi

normalmente dannandoci o rilassandoci con le cose di sempre.”

Le rubriche del programma, scritte dallo stesso conduttore e anchorman Enzo Tortora (un

interprete eterodosso del giornalismo), hanno ispirato più o meno direttamente molte trasmissioni

degli anni successivi, da Chi l’ha visto a Carramba che sorpresa, da Il gioco delle coppie a

Scommettiamo che: in trasmissione la gente comune era invitata a presentare le proprie

invenzioni, dalle più utili alle più curiose; come una eBay ante litteram essa proponeva un

marketplace in cui era possibile vendere e scambiare oggetti insoliti o rivoluzionari. C’era un

centralino, anzi un "Centralone", con tanto di cabine per gli inserzionisti in cui esordiscono

personaggi come Paola Ferrari, Susanna Messaggio, Federica Panicucci e soprattutto Renée

Longarini, già attrice con Fellini e Germi. Il Centralone era esibito come un arredo della trasmissione

e regolava l’ingresso e l’uscita dei vari numeri e del relativo pubblico. Ma era possibile anche

cercare persone scomparse (rubrica "Dove sei"?), ritrovare amici o amori perduti, e persino trovare

l’anima gemella ("Fiori d'arancio").

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Anna Bisogno - Entertainment all’italiana

Il programma sembrava uscito dalle pagine locali dei quotidiani di provincia: esprimeva

un’Italia operosa, creativa, a volte geniale. Enzo Tortora, con la sua bonaria ironia, si muoveva

divertito nel mercatino del venerdì, tra le belle centraliniste e le mille invenzioni che arrivavano da

ogni parte d’Italia. In ogni puntata venivano infatti presentati degli inventori con le loro invenzioni

un po’ bizzarre (il cono antisgocciolo, la scheda elettorale circolare, le biciclette pazze e la sveglia

che buttava la persona giù dal letto sono alcune di quelle idee).

Quella che è entrata nella storia della televisione è senza dubbio la vicenda di un anonimo

e fino ad allora sconosciuto guidatore di autobus di Milano: “Io sottoscritto Piero D. studioso di

astrofisica e della meteorologia desidero partecipare a Portobello dove esporrò un progetto su

come far sparire la nebbia nella valle Padana, per sempre!”. L’idea era quella di spianare il monte

Turchino, che separa la Pianura Padana dalla Liguria.

Enzo Tortora insieme alla sorella Anna e al pubblicitario Angelo Citterio crearono la prima

piazza televisiva tra retorica, passione, lacrime, esibizionismo, verità: tutti ingredienti della tv

popolare e che sono gli stessi che scandiscono i successi dei programmi di oggi.

Tuttavia, nonostante questa sua funzione seminale rispetto alla neotelevisione e alla

numerosa prole (non tutta legittima) che la trasmissione ha avuto, Portobello non è stato

sufficientemente approfondito. Non si è pienamente compreso il cavallo di Troia

dell’entertainment neotelevisivo nella tv di servizio pubblico, né il processo di adattamento e di

meticciato che da esso ha generato i programmi che andranno a costituire la “tv realtà” prima e

“la reality television” poi: due capitoli fondamentali dell’entertainment.

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Anna Bisogno - La neotelevisione

Indice

1. LE ORIGINI............................................................................................................................................... 3
2. C’ERA UNA VOLTA LA PALEOTELEVISIONE ............................................................................................ 7
3. LE FASI DELLA NEOTELEVISIONE ............................................................................................................. 9
BIBLIOGRAFIA................................................................................................................................................ 11

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Anna Bisogno - La neotelevisione

1. Le origini

Nel 1983 Umberto Eco in un articolo per “L’Espresso” coniava un termine che avrà fortuna,

“neotelevisione”. Essa nasce, secondo Eco, “con la moltiplicazione dei canali, con la

privatizzazione, con l’avvento di nuove diavolerie elettroniche”: insomma, è la televisione nell’era

della concorrenza, un effetto combinato – per esprimerlo in termini propri della situazione italiana -

della riforma della Rai e della televisione privata.

Per la verità Eco parla ancora di una “neo Tv indipendente” locale e provinciale, che

“mostra al pubblico di Piacenza la gente di Piacenza, riunita per ascoltare la pubblicità di un

orologiaio di Piacenza, mentre un presentatore di Piacenza fa battute grasse sulle tette di una

signora di Piacenza che accetta tutto per essere vista da quelli di Piacenza mentre vince una

pentola a pressione.” Questa televisione provinciale e paesana non sarebbe durata a lungo, Eco

però aveva colto benissimo che il tempo televisivo era cambiato definitivamente. “La televisione

americana, per cui il tempo è denaro, imposta tutti i suoi programmi sul ritmo, un ritmo di tipo jazz.

La Neo Tv italiana mescola materiale americano a materiale nostrano (o di paesi del Terzo Mondo,

come la telenovela brasiliana) che hanno un ritmo arcaico. Così il tempo della Neo Tv è un tempo

elastico, con strappi, accelerazioni e rallentamenti.” “Fortunatamente, continuava Eco, lo

spettatore può imprimere il proprio ritmo selezionando istericamente col telecomando. Avete già

provato a vedervi il Tg 1 e il Tg 2 della Rai a singhiozzo, alternativamente, in modo da avere sempre

due volte la stessa notizia, e mai quella che state attendendo. O a introdurre una torta in faccia

nel momento in cui la vecchia mamma muore. Oppure a spezzare la gimkana di Starsky e Hutch

con un lento dialogo tra Marco Polo e un bonzo. Così ciascuno si crea il suo ritmo e si vede la

televisione come quando si ascolta una musica comprimendoci le mani sulle orecchie, e

decidiamo noi cosa debbono diventare la Quinta di Beethoven o la Bella Gigugin. La nostra serata

televisiva non racconta più storie complete. È tutta un ‘prossimamente’. Il sogno delle avanguardie

storiche.”

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da
copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).

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Anna Bisogno - La neotelevisione

La neo televisione si afferma negli anni Settanta:

- per ragioni sociali: la radiotelevisione di stato è una gabbia troppo stretta per l’evoluzione

del costume;

- per ragioni economiche: adesso in Europa c’è mercato sufficiente per la pubblicità

televisiva; la grande distribuzione preme per poter diffondere rapidamente in tutto il paese i nuovi

prodotti)

- per ragioni tecnologiche: la microelettronica adesso fornisce strumentazioni di ripresa e

messa in onda più semplici da usare, più leggere, meno care.

La selezione frenetica sul telecomando si sarebbe presto chiamata “zapping”. Prima che il

termine si affermasse si era parlato anche di “sindrome da pulsante”. Tutte le definizioni

convergevano nell’indicare un aumento nella possibilità di scelta, cioè del potere, dello

spettatore.

La conquista dello spettatore è sempre reversibile da parte dell’emittente televisiva, che

deve sostanzialmente venire a patti con lui, prendendo atto che il suo potere non è assoluto. Si

tratta insomma di stabilire un progressivo “patto comunicativo” tra l’emittente e ogni singolo

elemento del pubblico. Naturalmente ogni proposta di patto è in concorrenza con ciò che gli altri

canali propongono (Casetti 1988, 39-61).

Raymond Williams, uno studioso britannico di letteratura che era anche critico televisivo per

il settimanale della BBC, durante un viaggio in America arrivò alla conclusione che nella televisione

commerciale non c’era – come in Gran Bretagna - la trasmissione di programmi specifici e

delimitati, composti in un laborioso dosaggio tra generi che tutti concorrevano all’elevazione dello

spettatore, ma piuttosto un flusso continuo di brevi sequenze, e questo flusso era l’essenza

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da
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dell’esperienza televisiva, il "guardare la televisione" piuttosto che "guardare il telegiornale o la

partita alla tv", l’entrare in sempre nuovi programmi, la difficoltà a spegnere l’apparecchio.

Un ricercatore statunitense, Thomas McCain, racconta l’esperienza opposta e

complementare di aver acceso la televisione inglese e di essersi trovato di fronte qualcosa di

totalmente diverso da ciò che era solito vedere. “Quando ci trasferimmo a Dublino, per un mese

guardai la televisione inglese con la stessa perplessità e con lo stesso stupore e frustrazione. Non

valeva molto la pena di guardare la televisione. I programmi, invece che ad orari prevedibili,

venivano mandati in onda a caso. Le serie sembravano durare solo poche settimane, e proprio

quando iniziavamo a goderci o a capire un personaggio o un programma… quello scompariva

dal palinsesto. Il telegiornale andava in onda nel bel mezzo della serata, né prima, né dopo. La

programmazione o la scaletta delle trasmissioni aveva poi le sue peculiarità; un film in prima serata,

seguito dalla produzione inglese In Search of the Wild Asparagus, quindi una situation comedy e

poi un documentario sui piccioni in tarda serata.”.

Adesso questi d