Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da
copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).
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Anna Bisogno - Elementi di Storia del cinema
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Quando parliamo di cinema facciamo riferimento alla più grande macchina dei sogni, la
alle altre arti, con la rappresentazione della realtà. Un dispositivo plurale per la molteplicità di valori
e funzioni che ha assunto nel corso del secolo scorso. Il cinema, infatti, raccoglie e massimizza le
sperimentazioni della fotografia, configurandosi come uno dei risultati dello sviluppo della tecnica
che caratterizza l’epoca in cui è nato, ovvero il culmine della Seconda rivoluzione industriale. Esso
è arte popolare, che si inserisce nella neonata dimensione del tempo libero e si offre a un pubblico
L'invenzione del cinema avvenne nell'ultimo decennio del XIX secolo, ma l'idea
cinematografica aveva accompagnato l'uomo fin dalle sue origini (es. Il mito platonico della
caverna).
Tra i vari spettacoli ottici che iniziarono a comparire già nel seicento, la più misteriosa era la
lanterna magica, probabilmente proveniente dalla Cina, erede dei giochi di ombre cinesi. La
lanterna magica era una scatola con una candela dentro e una lente anteriore che proiettava
sulle pareti di una sala buia delle figure disegnate su di un vetro. Con il passare del tempo una serie
Un’altra invenzione diffusa fin dalla fine del ‘600 era il Mondo nuovo, una cassa di grandi
dimensioni all’interno della quale si potevano guardare alcune figure anche animate. Sia la
lanterna magica che il Mondo nuovo richiedevano spiegazioni e per questo le immagini erano
accompagnate dalla voce di un imbonitore che spiegava le immagini al suo pubblico. Il cinema
renderà il contatto tra persone sempre più inutile fino a lasciare gli spettatori davanti ad una
I primi che si interessarono alla possibilità di registrare e riprodurre il movimento non furono
personalità del mondo artistico. Tra i precursori del cinema troviamo, infatti, un avventuroso
fotografo californiano di origine inglese Eadweard Muybridge e il fisiologo francese Étienne Jules
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Marey che si occuparono dell’osservazione degli animali. Il primo riuscì a fotografare le varie fasi
della corsa di un cavallo servendosi di dodici macchine fotografiche posizionate lungo il percorso
compiuto dall'animale. Il secondo si interessò allo studio del movimento animale e costruì, nel 1882,
sfruttando un meccanismo del tutto simile a quello di una comune rivoltella (in inglese, il verbo "to
cinematografica").
Per prima cosa, però, gli scienziati dovettero comprendere che l'occhio umano riesce a
percepire come movimento continuo una serie di immagini fisse, leggermente diverse tra loro, che
immagini – cioè - venivano disegnate su dei rulli scorrevoli azionabili girando una manovella;
attraverso un piccolo foro lo spettatore poteva vedere le immagini scorrere e ricevere l'impressione
di un movimento continuo.
Nel 1888 George Eastman mise a punto un apparecchio fotografico, che chiamò Kodak,
capace di impressionare rulli di carta sensibile. L'anno successivo mise in commercio rulli di
celluloide trasparente, compiendo un importante passo in avanti verso la nascita del cinema. Ma
Tra il 1889 e il 1982 si segnalano altre due importanti invenzioni nella cosiddetta fase del
precinema e portano la firma di Thomas Edison, l’illustre scienziato dell’Ohio cui dobbiamo, oltre la
Nel 1891 Edison e il suo assistente William Dickson elaborarono un dispositivo che consentiva
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un penny. Si trattava di una macchina ingombrante e collocata in spazi pubblici ricchi di molte
altre attrazioni di arte varia. Il rapido declino di questo visore individuale conferma che il futuro del
cinema è la fruizione collettiva a cui il dispositivo brevettato dai Lumière invece risponde
singolo spettatore e non una proiezione corale. Il dispositivo, infatti, era costituito da una grande
manovella poteva guardare il film montato nella macchina al costo di un penny. L’invenzione
dello standard dei 35 mm di larghezza, invece, rappresenta un passo avanti significativo per il
cinema in quanto è ancora oggi il formato maggiormente diffuso per i negativi e i positivi da
proiezione ed è la base per numerosi altri formati che ereditano da quest’ultimo le caratteristiche
principali.
Senza questi presupposti tecnico-scientifici il cinema non avrebbe potuto essere inventato.
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Auguste e Louis Lumière, due industriali di Lione, fabbricanti di pellicole fotografiche e titolari di vari
brevetti, tra i quali quello che nel 1895 presentarono come il cinematografo.
costo di un franco) presso il Salon Indien del Grand Café di Parigi in Boulevard des Capucines,
proponendo dieci film di brevissima durata, tra cui L’innaffiatore innaffiato, ritenuto il primo film
comico della storia del cinema e L'arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat, forse il più famoso e
un classico del dal vero, che riprende l’arrivo di un treno alla stazione della cittadina francese La
Ciotat. La posizione della macchina non frontale ma diagonale rispetto alla direzione del treno,
consente di cogliere in pieno lo spostamento del convoglio, assecondando uno degli scopi
principali del cinema delle origini, ovvero la capacità di cogliere e mostrare il movimento. Una
leggenda metropolitana racconta che alla sua prima proiezione, nel gennaio 1896, la pellicola per
la sua forte impressione di realtà abbia provocato turbamento nel pubblico, convinto di essere
La parola cinematografo (o cinema) da quel momento indicò non solo l'arte e la tecnica
aIl Cinématographe, brevettato nel 1894, era una macchina che funzionava sia da
camera che da proiettore, compatta, trasportabile, che non aveva bisogno di elettricità per
essere messa in moto, ma funzionava azionando una manovella (da qui l’espressione utilizzata
ancora oggi di “girare un film”), richiedeva la proiezione su un grande schermo, l’utilizzo di una
ovvero immagini fisse, scorrendo velocemente creavano il movimento agli occhi dello spettatore.
sorta di vita colta sul vivo, di illusione totale di realtà, una sensazione di poter toccare quel che si
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muove sullo schermo. Quella sera, dunque, la realtà si fa spettacolo agli occhi di un pubblico
pagante e il cinematografo si fa dispositivo psichico, emotivo, sensorio dello spettacolo della realtà
riprodotta.
consumo dello spettacolo popolare. La fruizione collettiva presto portò alla costruzione di grandi
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un piccolo teatro di Parigi. Oltre al montaggio, che permetteva di mettere insieme scene diverse
(girate in momenti diversi), senza interruzione nella proiezione, Méliès realizzò il mascherino-
l’arresto della ripresa (per far apparire e sparire o trasformare oggetti, personaggi, ecc.); lo scatto
singolo (per muovere oggetti inanimati); lo spostamento della cinepresa avanti e indietro (per
ingrandire e rimpicciolire un soggetto). Tutto ciò metteva davanti agli occhi degli spettatori un
Méliès non vuole rappresentare la realtà come i Lumière, piuttosto vuole “esprimerla”,
utilizzando la propria esperienza di illusionista sul piano tecnico. Differisce dai Lumière nella
interamente distinto dalle riprese ordinarie del cinematografo, che – invece - alla realtà
Méliès entra definitivamente nella storia del cinema nel 1902 con Le Voyage dans la lune (Il
viaggio nella luna), che ricorda i libri avventurosi di Jules Verne, il primo film a soggetto della storia
del cinema e il primo film a essere considerato dall’Unesco, nel 2002, patrimonio dell’umanità
Questo genere di spettacolo, che va dal 1895 al 1915 circa, ha come funzione principale
quella di mostrare immagini per questo motivo venne definito cinema delle attrazioni che
mostrava più che raccontava; aveva inquadrature lunghe, fisse autonome e necessitava di un
imbonitore o presentatore
Nel frattempo sia in Europa che in America si era sviluppata la classe operaia, le cui lotte
avevano portato alcuni miglioramenti, quali ad esempio una certa sicurezza economica e la
possibilità di permettersi qualche svago. Il teatro quindi non fu più appannaggio soltanto dei
benestanti, ma era divenuto accessibile anche alle classi più umili. Queste ovviamente
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melodramma alla francese). Il cinema dovette rinnovarsi per fare concorrenza al teatro adesso
molto frequentato dalla gente: guerra, western, melodramma e comico furono i primi generi a
Con la nascita del cinema narrativo nasce la sequenza ovvero la scomposizione della
vecchia inquadratura in molte brevi inquadrature. Il tempo e la velocità narrativa saranno la cosa
più importante nel nuovo montaggio. Grazie alla sequenza il cinema impara a vedere la stessa
scena da più punti di vista diversi. Nasce anche il concetto di inquadratura, che prima non
esisteva poiché si avevano soltanto vedute. I vari tagli del montaggio saranno detti raccordi. Il
tante inquadrature brevi, rappresenta diversi punti di vista. Lo spettatore veniva così
maggiormente coinvolto nella storia. Il cinema non fu pensato solo come spettacolo popolare ma
anche come forma d’arte, per questo motivo furono messe in scena anche molte opere letterarie
famose.
L’Europa si mette in moto grazie alla spinta americana e passa dai quadri fissi ad un
montaggio dinamico e drammatico. Manterrà però uno stile di campi lunghi e tempi distesi,
contemplazione, pittorico e poetico più che narrativo. Il cinema americano sarà un cinema
d’azione.
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la Motion Picture Patents Company, di cui facevano parte, oltre alle società di Edison e Dickson,
pochi altri produttori americani e le francesi Pathé e Star Film (marchio con il quale Méliès
produceva e distribuiva i suoi film). Chiunque volesse produrre o proiettare un film negli Stati Uniti, di
fatto, doveva pagare un compenso alla MPPC per l'utilizzo dei dispositivi di cui deteneva tutti i
diritti. Grazie ad un accordo concluso con la Eastman Kodak, la MPPC gestiva anche
Edwin Stanton Porter fu il regista che maggiormente contribuì allo sviluppo del cinema
americano in questo primo decennio del secolo. Edison lo assunse nella sua società già nel 1896.
Iniziando come assistente passò ben presto alla regia. Porter ebbe la possibilità di visionare molti
dei film prodotti in Europa che la società di Edison distribuiva negli Stati Uniti. Studiò con attenzione
le opere dei registi di Brighton e fu grande ammiratore di Méliès, come traspare dai primi film che
diresse.
Stowe, che Porter girò nel 1903, con una durata di quasi quindici minuti, fu tra i primissimi
"lungometraggi" prodotti negli Stati Uniti. Porter fu il primo tra i registi americani a far uso di questa
tecnica che sarà fondamentale nel cinema muto. Il film, che ripropone solo alcuni degli episodi più
significativi del romanzo della Stowe, ben conosciuto all'epoca, si compone di una successione di
quadri girati a macchina fissa, ciascuno dei quali presenta un'azione unitaria e compiuta. Le
dell'episodio che segue, ma non sono ancora utilizzate per illustrare i dialoghi tra i personaggi.
Come dimostra questo film, il cinema di finzione trionfava ormai nei gusti del pubblico e
poiché si andavano affermando film di durata maggiore, le trame da svolgere si facevano sempre
più complesse e articolate. Porter si rese conto che il pubblico apprezzava tanto più un film,
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quanto più chiara e comprensibile ne era l'esposizione. Egli comprese che la chiarezza espositiva di
un film dipende principalmente dal montaggio. L'assalto al treno, che Porter girò nel 1903,
sorprende non solo per le sue sequenze filmate all'aperto, ma soprattutto per la nitidezza del
racconto cinematografico che lo trasformarono presto nel film di maggiore successo commerciale
di quegli anni.
Intanto l'oligopolio messo in piedi dalla MPPC cominciava sfaldarsi, sia per la defezione di
alcuni membri interni, desiderosi di staccarsi dal controllo di Edison, sia per le pressioni esercitate
dagli indipendenti. La sentenza che smantellerà definitivamente la MPPC arriverà nel 1915, ma
intanto piccole e nuove case di produzione e distribuzione, finora rimaste ai margini, poterono
entrare sul mercato. Da questo momento la cinematografia americana poteva riprendere il suo
commino che l'avrebbero ben presto portata ai vertici del mercato mondiale.
produttore Thomas Harper Ince. Avendo cominciato la sua carriera come regista di film western, fu
il primo a rendersi conto di quanto i paesaggi della costa occidentale costituissero l'ambientazione
ideale per questo genere di film. Egli fu il primo a redigere sceneggiature in maniera dettagliata,
inquadratura da effettuare e forniva queste note ai produttori, agli artisti, ai tecnici. In tal modo
poteva organizzare e pianificare con precisione il lavoro sul set. Iniziò anche far ricorso a diverse
macchine da presa per riprendere la stessa scena da diversi punti di vista. Se sceneggiatura,
riprese e montaggio erano allora affidati ad una stessa persona, Ince cominciò a separare queste
fasi di lavorazione del film attribuendone ciascuna ad uno o più professionisti specializzati. Ciò gli
importanti.
Prima ancora che per le sue opere, Ince contribuirà allo sviluppo della cinematografia
americana gettando le basi di quel sistema di produzione industriale noto come studio system.
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Il fulcro dell'industria cinematografica si trasferì da New York alla West Coast. Intorno ad
Hollywood si costruirono nuovi teatri di posa. Qui, infatti, la mitezza del clima, che permetteva di
avere luce naturale gran parte dell'anno, e la varietà dei paesaggi circostanti si rivelavano
tutto il paese, a frequentarle erano soprattutto da operai ed immigrati. Per far fronte a questa
crescente richiesta del mercato, la produzione dovette adeguarsi su modelli industriali: vi erano
diversi comparti che gestivano ciascuno una fase della produzione, dalla stesura della
sceneggiatura al montaggio finale. Alcune case trovarono più conveniente specializzarsi nella
produzione di una particolare tipologia di film gettando così le basi per lo sviluppo del
statunitense, i generi non costituiscono categorie regolate e codificate con precisione, come lo
saranno negli anni Venti, è in questo periodo che alcune tipologie di film, come il western o il
A dare origine al genere western furono i tentativi di imitazione di cui fu oggetto un film
come L'assalto al treno. Altri produttori vollero realizzare film simili, sia per bissarne il successo, sia per
sfruttarne la popolarità di temi e personaggi. Banditi, sparatorie, treni in corsa, eroici sceriffi
cominciarono ad apparire in sempre più numerosi film, ciascuno dei quali aggiungeva una novità,
un personaggio magari: gli indiani, i cercatori d'oro o una diversa ambientazione: la conquista
della frontiera, la corsa all'oro. Il western faceva appello ad un passato ancora recente che
certa tipologia di film attraverso il traino dei loro interpreti. In un primo momento, infatti, gli studios,
evitavano di rendere noti i nomi dei loro attori, temendo che questi avrebbero potuto chiedere
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Lo sviluppo del genere comico fu invece in larga parte opera di Mack Sennet con la sua
prima serie di successo che aveva per protagonisti un gruppo di sgangherati poliziotti i Keystone
Cops. Ispirandosi ai grandi comici francesi come Max Linder o Andrè Deed, Sennett seppe
rielaborare e rinnovare la forma dello slapstick. È questo un sottogenere del comico basato sul
linguaggio del corpo che si articola su gag fisiche semplici quanto efficaci. Il comico presentava
dei tratti eccezionali rispetto agli altri generi cinematografici. Relegato a produzioni di
cortometraggio che dovevano precedere la proiezione del film principale, le comiche si rivelarono
Gli autori del genere godettero sempre di una autonomia e indipendenza impensabili per i
loro colleghi. Essi potevano scrivere, interpretare, dirigere ed in molti casi arrivare a produrre i propri
film. Più che su sceneggiature vere e proprie le forme primordiali del genere prevedevano semplici
canovacci che lasciavano ampia libertà all'improvvisazione e alla creatività personali. Se in altre
tipologie di film l'esigenza della continuità narrativa faceva tendere i registi verso un certo realismo
e linguaggio sempre più codificato, gli autori del comico poteva spaziare nei campi dell'assurdo e
del surreale, sostituire alla regola l'eccezione. Quando anche i film comici cominciarono ad
assumere durate di medio e lungometraggio, questa formula farsesca, della risata fine a se stessa,
facevano più solide ed elaborate, i personaggi ad acquisire una propria personalità come il
personaggio del vagabondo creato da Chaplin la cui stella cominciava a brillare più alte di tutte.
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Anna Bisogno - L’industria cinematografica (1905-1912)
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1. Il mercato europeo
avventuroso. Le proiezioni dei film avvenivano in luoghi differenti come teatri, sale da concerto o
padiglioni delle esposizioni. Le pellicole, oltre al non aver trovato ancora una fissa dimora,
circolavano più volte, senza avere un grande ricambio, portando gli spettatori a stancarsi. A
partire dal 1905 l'industria cinematografica assunse dimensioni più ampie e forme più stabili. Sale
permanenti vennero dedicate prevalentemente alla proiezione dei film e la produzione delle
pellicole si allargò per soddisfare la crescente domanda. I film divennero più lunghi, cominciarono
cinematografico.
In particolare:
internazionale e i suoi film erano i più visti nel mondo. Le due principali società, la Pathé
Frères e la Gaumont continuavano a espandersi. La Pathé era già una grande società, con
tre diversi studi. Fu anche una delle prime ad avere una concentrazione verticale che
film da parte della casa. La Pathé costruiva le sue macchine da presa e i suoi proiettori,
dal 1906 comprò anche le sale. L'anno seguente cominciò a distribuire i suoi film dandoli a
Nel 1905 la Pathé contava sei registi che giravano ognuno un film alla settimana. Il film di
maggior successo della Pathé erano le serie che avevano come protagonisti comici famosi: la
serie di Boireau, e soprattutto la serie di Max Linder. Oltre a essere una società concentrata
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cinematografica.
Dal 1905 al 1914 gli studi di Gaumont a La Villette diventarono i più grandi del mondo.
film fino al 1907. La direzione artistica della compagnia passò quindi nelle mani di Louis
Feuillade. Tra i primi film di rilievo prodotti si ricordano i serial Judex e Fantômas, le serie
comiche con Ernest Bourbon e Bebé con Renè Dary e i cinegiornali. In diversi momenti
lavorarono per la Gaumont registi come Abel Gance, Alfred Hitchcock e il pioniere
Italia E’ un altro grande polo produttivo. A partire dal 1905 l'industria cinematografica
italiana si sviluppò rapidamente e nel giro di pochi anni cominciò ad assomigliare a quella
francese. Tra il 1908 e il 1914 la qualità e il successo dei film italiani sono notevoli. E’ del 1905
il primo film a soggetto italiano, La presa di Roma, di Filoteo Alberini; la Cines di Roma e le
case di produzione di Torino, l’Ambrosio e l’Itala Film dimostrano una robusta capacità
competitiva; l’Italia si specializza nella produzione di film monumentali, con Quo Vadis di
Enrico Guazzoni nel 1912 e Cabiria di Giovanni Pastrone nel 1912. Gli altri generi privilegiati
dal cinema italiano sono il melodramma mondano (es. Ma l’amor mio non muore! ancora
di Giovanni Pastrone) e il dramma cosiddetto realista (es. Assunta Spina di Gustavo Serena
del 1915).
Nel giro di pochi anni l'industria cinematografica italiana cominciò a somigliare a quella
francese. Alcuni film italiani erano imitazioni se non addirittura remake di film francesi. Nel 1910,
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l'Italia era probabilmente seconda solo alla Francia per numero di film esportati all'estero. I
produttori italiani furono tra i primi a realizzare film di più di un rullo (quindi più lunghi di quindici
minuti). In quello stesso anno Giovanni Pastrone, uno dei maggiori registi dell'epoca, girò "La
caduta di Troia", in tre rulli. A partire dal 1909 i produttori italiani realizzarono, sull’esempio
del cinema internazionale grazie all'imprenditore Ole Olsen. Nel 1906 fondò una casa di
raggiungendo il successo nel 1907 con "Lovejagten" (Caccia al leone), un film di finzione su
un safari. I film della Nordisk in breve tempo divennero famosi nel mondo per l'eccellente
aveva un set che riproduceva un circo e che rimaneva permanentemente installato: alcuni
fra i principali film della compagnia erano infatti i melodrammi sulla vita del circo, come "De
Fire Djaevle" (I quattro diavoli, di Robert Dinesen e Alfred Lind, 1911) e "Dodsspring til Hest fra
Cirkus-Kuplen" (Salto mortale a cavallo sotto la tenda del circo, di Eduard Schnedler-
Sorensen, 1912). In quest'ultimo, un conte perde tutta la sua fortuna per saldare i debiti di
un'attività durante questo periodo, Olsen riuscì a comprarla o a farla uscire dal mercato.
L'industria danese fu fiorente fino allo scoppio della prima guerra mondiale che chiuse molti
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Anna Bisogno - L’industria cinematografica (1905-1912)
Nel giugno del 1905, a Pittsburgh, Pennsylvania, John Paul Harris trasforma alcuni magazzini
in una sala destinata alla proiezione continua di brevi spettacoli della durata media di 20\30
minuti, facendo pagare al pubblico un solo nichelino. Nascono così i Nickelodeon, i “teatri da 5
cents”.
Il nome deriva dall'unione della parola odeon (nome con cui nell'antica Grecia si
designavano gli edifici destinati alle rappresentazioni musicali) con la parola nickel, termine che
Erano in genere piccoli locali che contenevano meno di duecento posti a sedere; l'entrata
programma durava dai quindici ai sessanta minuti. La maggior parte dei nickelodeon aveva un
solo proiettore. I nickelodeon potevano programmare i loro film in continuazione, dalla tarda
mattinata a mezzanotte. Più economici dei teatri di varietà, offrivano prezzi più regolari degli
spettacoli ambulanti. Il costo del biglietto era generalmente basso, gli spettatori si sedevano su
panchine o su sedie di legno. Raramente annunci sui giornali informavano in anticipo sui
programmi degli spettacoli, così gli spettatori vi si recavano regolarmente o vi capitavano per
caso. Fuori dal cinema venivano esposti i titoli dei film e a volte il compito di attirare l'attenzione dei
passanti era affidata a un fonografo. Quasi sempre c'era un accompagnamento sonoro: capitava
che fosse lo stesso gestore della sala a spiegare quanto succedeva sullo schermo, ma era più
prezzo del biglietto era di venticinque centesimi o più, un prezzo troppo alto per i salari degli
assistere agli spettacoli. Gli operai avevano così la possibilità di andare al cinema vicino casa,
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mentre le segretarie e i fattorini potevano vedere uno spettacolo durante l'ora di pausa per il
è principalmente uno “spettacolo da fiera”. Le proiezioni avvengono nei luoghi del divertimento
popolare per eccellenza, come luna park, circhi, musei delle cere, Hale’s tour (i celebri
treni\cinema) e penny arcades (locali pubblici attrezzati con fonografi e cinetoscopi azionabili al
costo di un penny).
I Nickelodeon offrono spettacoli visivi, che non frappongono barriere linguistiche alla
poche e semplici didascalie, gag grossolane. Non solo, ma permettono, ad un costo irrisorio, una
rapida e “divertente” americanizzazione. Armeni, Russi, Irlandesi, Italiani, Cinesi, Messicani, Indiani
affollano i fumosi e maleodoranti locali di periferia. Grazie a quel pubblico multietnico il “cinema
parte dei film veniva dall'estero. Pathé, Gaumont, Hepworth, Cines, Nordisk e altre società europee
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Nei primi anni ‘10 nasce Hollywood. Con la nascita del sobborgo cinematografico nasce
anche il producer system durante il quale i produttori miravano al controllo assoluto del film.
Nascono le prime grandi case di produzione all’inizio degli anni ’20: Paramount, MGM e First
National, affiancate da produttori minori e da altri indipendenti come la United Artists. Il producer
system sviluppa anche i primi generi cinematografici di cui il più importante rimane comunque
quello comico. Sempre negli anni ‘20 maturano i primi aspetti del fenomeno del divismo, creato
dalla collaborazione tra industria cinematografica e informazione. Rodolfo Valentino, culmine del
fenomeno del divismo, fu il primo a suscitare veri e propri deliri di folla. Il divismo degli anni ’20
propone ancora figure molto trasgressive, seduttrici ambigue e uomini tenebrosi. Negli anni ’30 si
Il primo genere fu quello delle comiche slapstick, che univa l’assurdità e il nonsenso delle
farse popolari e del circo equestre e in più sviluppava una specifica caratteristica: la velocità. In un
certo senso è un cinema sovversivo, dove le piccole cattiverie erano all’ordine del giorno: torte e
gelati finivano nelle scollature delle signore, gli uomini finivano sempre in mutande ed i poveri
venivano consolati nel vedere i ricchi derubati e beffati. Viene creato un vortice sconnesso di
cinematografico giocando con il montaggio, il movimento, i trucchi e gli effetti speciali. Le prime
comiche sono tutte una corsa indiavolata in cui l’importante è solo il ritmo. Il più grande regista di
queste prime comiche fu Mack Sennett, pseudonimo di Michael Sinnott, attore, sceneggiatore,
regista e produttore cinematografico canadese naturalizzato statunitense. Sulla sua lapide, nel
cimitero di Holy Cross a Culver City dove riposa, oltre all'anno di nascita e di morte compare un
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copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).
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Charlie Chaplin fu senz'altro l'autore più conosciuto del genere. La sua fama era ormai
internazionale, quando si unì, nel 1919 alla United Artists. Sarà con questa casa che Chaplin
distribuirà tutti i suoi lungometraggi. Se molte pagine sono state scritte sul personaggio di Charlot,
meno numerose sono state le analisi condotte sugli aspetti tecnici e linguistici del suo cinema, sul
Chaplin come regista. Egli scriveva, dirigeva, interpretava, montava, produceva i suoi film e ne
scriveva le musiche. Il monello, del 1921, fu il suo primo lungometraggio in cui interpreta il suo
personaggio di sempre, stavolta alle prese con un trovatello che ha raccolto neonato per strada e
Era l'uomo-cinema eppure lo stile della sua regia è, sotto certi aspetti, il meno
scena come se gli attori agissero su un palcoscenico teatrale, l’obiettivo non manifesta mai la sua
presenza, non si sposta per seguire i personaggi. Chaplin usa sporadicamente i primi piani, poco
frequenti sono i tagli di montaggio. Il suo cinema non mette al centro né la regia, né il montaggio,
ma l'attore. Tutto sul set deve essere predisposto affinché la sua perfomance risulti intelligibile
anche ad un bambino. Questo stile lineare ed asciutto, che Chaplin deriva dall'opera di Max
ogni dettaglio. Chaplin arrivava a ripetere centinaia di volte una stessa scena finché non riusciva
Con Chaplin si scopre la grazia nel cinema comico. Chas è la prima maschera di Chaplin, il
vendicatore degli oppressi, vittima indifesa che si ribella e riesce a vincere. Nelle opere di Chaplin,
tutto il materiale grezzo delle comiche di Sennett diventa un balletto, lotte fughe inseguimenti
diventano una danza. Chaplin prima di incontrare Sennett era un ballerino della pantomima a
Londra, aveva imparato le caricature da sua madre e il meccanismo del clown dal circo. Il
meccanismo del clown consiste nel piccolo, debole e goffo che nasconde dentro di sé un vero e
proprio eroe. Questo meccanismo di risarcimento simbolico viene praticato in tutti i suoi film. La
comicità di Chaplin è sempre tragica oltre che comica. Chaplin è il vero padre del montaggio
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veloce, nel suo primo film maturo La cura (1917), in soli 19 minuti ci sono ben 181 inquadrature. I
suoi film quindi non sono soltanto una danza del protagonista, ma una vera e propria danza della
cinepresa. Dopo la danza filmica sorretta da un debolissimo impianto narrativo, Chaplin passa al
lungometraggio con La febbre dell'oro (1925). Il film contiene la celebre scena in cui vediamo il
poco fortunato cercatore d'oro, sconvolto dalla fame, cucinarsi e magiare una scarpa. Non è lo
strano cibo con cui Charlot si sfama che ci va ridere, ma l'estrema dignità ed eleganza con cui agli
esegue ogni gesto dalla preparazione della pietanza: controlla il tempo di cottura, apparecchia la
tavola in maniera impeccabile, fa uso delle posate proprio come prescritto dal galateo. Egli si
sforza di mantenere la sua dignità anche davanti al più atavico e terribile dei bisogni umani: la
fame. Noi ridiamo, ma c'è del tragico che si insinua in questa scena apparentemente così comica.
Chaplin realizzato e nel periodo del muto: Il circo (1928). Qui il vagabondo sarà assunto a lavorare
in un circo dove si innamorerà di una trapezista. Questa è la figlia del padrone che Charlot con
ogni mezzo, suscitandoci le più tenere risate, tenterà di difendere dalle angherie del padre. Ma
alla fine, se l'amore trionfa, non è per il vagabondo. Egli rinuncerà alla donna che ama affidandola
al giovane equilibrista Rex. Nell'ultima scena del film, Charlot resta seduto al centro della rotonda
lasciata vuota dal circo. Per questo film Chaplin ricevette il Premio Oscar alla carriera, nella prima
Se Chaplin lavorava per rendere invisibile la macchina da presa, Buster Keaton mette in
scena il cinema stesso. Elementi metalinguistici compaiono in molti suoi film ed in particolare in The
Egli produce un cinema ancora più astratto di Chaplin, che è pura musica dello spazio e
del tempo. Keaton è anche esercizio continuo di logica pura. Buster, il suo personaggio, è la
protagonista si confronta e lotta contro il mondo reale. Questo confronto è sempre basato su
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somiglianze e analogie ingannevoli. L’arrivo del sonoro lo rovinerà perché nel suo cinema tutto
Chaplin e Keaton sono i grandi maestri del comico di questi anni mentre Erich Von Stroheim
è il maestro del tragico. Stroheim aveva lavorato come attore con Griffith, dal quale aveva
ereditato una concezione di arte come grandiosa e colossale, sulla messa in scena accuratissima
e sfarzosa. Lottò per il diritto dell’autore come padrone assoluto del film. I suoi film sono storie
contrasti all’interno dell’inquadratura: se il primo piano sembra lieto, spesso lo sfondo è tetro o
terrificante. In questa esaltazione dei conflitti all’interno dell’inquadratura Jean Renoir e Orson
Welles saranno i suoi eredi. La sua grande lezione sarà l’osservazione crudele dei volti e dei corpi.
La vita del ‘900 cambiava rapidamente grazie alla diffusione delle macchine e dei vari
mezzi di trasporto meccanici: treni, automobili, aeroplani. Le avanguardie europee degli anni ’20
sono quasi tutte affascinate dal tema e dal grande sogno della macchina. Il corpo umano stesso,
e l’occhio in particolar modo, potevano venir considerati come delle macchine. A lanciare il
sogno di rivoluzionare la vita attraverso le macchine sono i futuristi italiani insieme alle avanguardie
francesi del cubismo e del dadaismo che scompongono il mondo e il linguaggio secondo forme
geometriche. Ci sono poi anche le avanguardie russe e quelle tedesche. Tutte le avanguardie si
Nel 1909 Marinetti insieme ad altri artisti scrive il manifesto del futurismo; nel 1916 apparirà
anche il Manifesto della Cinematografia Futurista, secondo il quale il cinema era da considerarsi
futurista per natura poiché privo di passato e di tradizioni. I futuristi proponevano un cinema di
viaggi, di caccia e di guerre. Sete di novità e rifiuto della bellezza tradizionale e anche la ricerca di
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un linguaggio nuovo. I futuristi capiscono subito il potere dissacrante dei trucchi cinematografici e
del montaggio. Anche Marinetti realizzò un film nel 1916: Vita futurista, di cui rimane soltanto
qualche fotogramma. I futuristi adoravano il cinema comico popolare che celebrava il movimento
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Gli autori di film continuano essenzialmente a rivolgersi agli spettatori del vaudeville, genere
teatrale nato in Francia a fine Settecento che indica le commedie leggere in cui alla prosa
tipologia di spettatori approdata in città, rappresentata come rozza, leggera e con l’immigrato
ideologicamente viziata.
In Hot Mutton Pies (Biograph, 1902), per esempio, un cinese, all’angolo della strada, vende
pasticci di carne apparentemente di montone. I clienti, dopo aver scoperto che in realtà sono fatti
di carne di gatto, lo rincorrono. La didascalia recita “questa gente mangia proprio di tutto”.
traditore, “Dago”, si vendica del suo caporeparto colpevole di averlo licenziato, dopo aver
provocato una lite. L’operaio disonesto ordisce un intrigo ma naturalmente alla fine del film viene
In un altro film dell’epoca, The Heathen Chinese and the Sunday School Teachers
(Biograph, 1904) alcuni cinesi, obesi gestori di una lavanderia e assidui frequentatori di una fumeria
Fu però il fondatore e primo presidente della Paramount, Adolph Zukor, un a imprimere una
svolta alle sale cinematografiche. Zukor, un immigrato ungherese, aveva iniziato la sua carriera nel
Per migliorare la qualità del pubblico cinematografico, Zukor e gli altri proprietari di sale
intervennero in maniera significativa. Costruirono cinema più confortevoli e lussuosi nello stile dei
country club borghesi, spesso a fianco di un grande magazzino o vicino ad una scuola. In questo
modo le donne che facevano spese, o che andavano a prendere i figli, potevano entrare e
vedere lo spettacolo.
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Nel 1908, in numerose sale il prezzo del biglietto passa dai tradizionali 5 cents a 10 e anche
20 cents.
Per riempire i cinema e attirare le famiglie più agiate le sale si dotano di ushers (maschere)
in uniforme. La squadra di maschere viene istituita per intimidire il pubblico più popolare e rissoso e
Per venire incontro alle esigenze di questo nuovo pubblico, nel Massachusetts viene persino
istituita una legge, che proibisce alle sale di proiettare immagini per più di due minuti consecutivi al
vengono adattati per il pubblico puritano del vaudeville, per i professionisti con mogli e figli al
seguito. Si importano film dall’Europa (che negli Stati Uniti è sinonimo di qualità) di contenuto
storico o religioso, come Vie et Passion de Notre Seigneur Jésus-Christ proiettato da Zukor a Newark
Tra il 1906 e il 1909, inoltre, il cinema comincia ad avvertire la pressione dei moralisti e a
praticare una forma di autocensura che durerà per più di cinquant’anni. Secondo molti, lo sforzo
di individuare ciò che è più opportuno reprimere, in nome del “buon gusto” e dei valori borghesi,
Molti cronisti dell’epoca, tra cui il celebre W. Stephen Bush, scrivono che si tratta di una
forma di protezione verso le classi lavoratrici contro il male impunito, l’oscenità e la violenza. In
realtà, si tratta soprattutto di non turbare eccessivamente i “nuovi clienti”. Le pellicole che
mostrano crudamente una società urbana dominata dalla criminalità sono un pugno allo stomaco
un passo fondamentale perché il cinema divenisse una grande e florida industria occorreva, infatti,
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L’era dei nickelodeon volge al termine: il nuovo pubblico chiede film più lunghi, storie
La svolta arriva per merito di David W. Griffith, di cui Peter Bogdanovich ha detto: “Se non
fosse stato per lui il cinema non sarebbe mai uscito dall’infanzia”. Tra il 1907 e il 1913 Griffith diresse
all'incirca 450 cortometraggi per la casa di produzione Biograph, che abbandonò in seguito al
rifiuto della casa di produzione di superare il limite delle due bobine e a quello di inserire il nome
Nel 1914, il regista americano realizza per la casa di produzione Mutual la sua opera più
nota, The Birth of a Nation. Il film viene girato utilizzando 12 bobine (circa 150 minuti) stravolgendo
in tal modo i tradizionali programmi produttivi dell’epoca. Non solo, ma utilizza tecniche per allora
zoomata dal campo largo al particolare) o la ripresa in movimento. A lui si deve l’effetto last
rescue, il salvataggio all’ultimo minuto, l’“arrivano i nostri” abbondantemente usato in numerosi film
d’oltreoceano.
Questo film rappresenta la summa di tutta l'evoluzione linguistica finora compiuta dal
linguaggio cinematografico. La macchina da presa di Griffith passa con estrema agilità di scena in
larghe e strette, coglie la scena da numerosi punti di vista, sembra essere dappertutto nello stesso
fluido.
È pur vero che il film mostra anche numerosi elementi discutibili a cominciare dalla
sceneggiatura stessa, avvelenata dalle inaccettabili tesi razziali del reverendo Dixon. Si riscontra
inoltre un'eccessiva drammatizzazione sia nella storia che nei personaggi privi di spessore
psicologico, Griffith divide troppo nettamente e con estrema superficialità i buoni dai cattivi, il
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Ma pur considerando tutti questi difetti Nascita di una nazione resta un capolavoro, l'opera
che segna il passaggio dal cinema delle attrazioni al cinema classico. Confrontandolo
con Cabiria, uscito meno di un anno prima, potremmo renderci conto della sua estrema
modernità. Nel film di Pastrone, infatti, è ancora prevalente la volontà di “mostrare”, di stupire lo
spettatore con immagini spettacolari, nel film di Griffith prevale invece la volontà di “raccontare”,
di coinvolgere lo spettatore attraverso una narrazione chiara, lineare e ben ritmata. Con Nascita di
una nazione finisce un vecchio modo di fare cinema e se ne inaugura una nuova forma.
Probabilmente il peso di questo film nel storia del cinema non sarebbe lo stesso se Nascita
di una nazione non avesse ottenuto quell'enorme successo pubblico che ebbe. Le polemiche e le
violente reazioni che il film suscitò per il modo negativo in cui rappresentava i neri d'America ed
esaltava l'attività del Ku Klux Klan, lungi dal nuocergli ebbero l'effetto di portare ancora più
spettatori nelle sale. Il record d'incassi registrato da Nascita di una nazione verrà battuto solo molti
anni più tardi da Via col vento (un altro film sulla guerra civile americana).
L’opera di Griffith appare come un’apologia della segregazione, di cui tenta di fornire, da
uomo del Sud, radici e giustificazioni storiche. Anche se accompagnato da vivaci polemiche da
parte degli anti-razzisti, è un successo straordinario. “Per la prima volta il cinema produce un
evento culturale e politico capace di raccogliere l’attenzione di tutto il paese lo si potrà criticare,
dai suoi complessi di inferiorità rispetto alle cinematografie europee. Nascita di una
nazione dimostrò che l'investimento di importanti capitali poteva essere ben ripagato anche dal
solo mercato nazionale. Il colossal di Griffith non fu, infatti, distribuito in Europa se non a guerra
finita.
capolavoro Intolerance. A spingere Griffith a dedicare un film al tema dell'intolleranza erano state
le violente polemiche scatenante da Nascita di una nazione. Per affrontare questo soggetto
astratto, Griffith mette a confronto, attraverso il montaggio parallelo, quattro diverse storie lontane
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nel tempo e nello spazio: la caduta di Babilonia, la passione di Cristo, la strage degli ugonotti nella
notte di san Bartolomeo e una storia moderna ambientata di una città americana.
Per l'episodio babilonese, ispirato ai colossal italiani, Griffith fece erigere, lungo il Sunset
Pastrone, Griffith ricorre, soprattutto in questo episodio, all'uso di gru e carrelli, e perfino di palloni
aerostatici per effettuare le riprese aeree, ma nel suo cinema i movimenti di macchina non
acquisiscono una vera valenza espressiva, Griffith se ne serve soprattutto per sfoggiare le sue
Per realizzare questa titanica e ambiziosissima produzione furono, infatti, necessari capitali
enormi: Griffith vi investi tutto il capitale guadagnato con Nascita di una nazione e reduce dal
grandioso successo del suo film precedente concentrò su di sé l'attenzione della stampa e dei
media fin dalle prime fasi di lavorazione del film. Per la prima volta, a balzare agli onori della
Intolerance poté finalmente uscire nelle sale nel settembre del 1916.
pur sempre, almeno nella sua concezione originaria, estremamente innovativa: in questo film il
montaggio non serve più soltanto a raccontare, ma ambisce a stimolare la riflessione nello
questo film furono i registi sovietici, ed in particolare Sergej Ėjzenštejn, che lavoreranno per
Ad Intolerance rispose Thomas Harper Ince che diresse per la Triangle Civilization,
un'allegoria pacifista con la quale il regista attraverso la quale il regista proponeva il tema della
pace e della fratellanza particolarmente sentito quegli anni negli Stati Uniti che intendevano restar
fuori del conflitto che stava insanguinando l'Europa. Ma anche quest'opera, troppo pretenziosa, si
rivelò un insuccesso.
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Se Griffith segnò lo sviluppo del linguaggio cinematografico soprattutto attraverso l'uso del
montaggio, altri registi come Cecil B. DeMille o Maurice Tourneur ebbero una forte influenza sui loro
contemporanei per quel che riguarda altri aspetti della messa in scena. Cecil B. DeMille,
drammaturgo mancato, introdusse nel cinema alcune soluzioni linguistiche, derivate dalla sua
esperienza teatrale, che seppe con molta intelligenza integrare alle peculiarità della nuova arte. Il
suo film I prevaricatori (1915) influenzò profondamente il modo di utilizzare le luci di scena.
DeMille utilizzò lampade ad arco, comunemente in uso in teatro, che gli permettevano di
illuminare porzioni di scena lasciandone in ombra altre. La drammaticità di molte scene di questo
film è dovuta proprio al sapiente uso di contrasti e agli effetti di chiaroscuro. Da questo momento,
tutti i maggiori studi di Hollywood cominciarono ad attrezzarsi con diversi tipi di lampade con i quali
Nel successivo Carmen (1915), film che riscosse un grande successo negli Stati Uniti, DeMille
mostrava di saper dirigere i suoi attori con molta perizia, ma anche di porre gran cura nei costumi e
nelle scenografie e di saper sfruttare i primi piani in maniera molto più intensa ed espressiva. I suoi
personaggi acquisiscono quel rilievo psicologico ed emotivo che non avevano quelli di Griffith.
Anche Maurice Tourneur era un uomo di teatro passato al cinema. Dopo un esordio in
sordina ebbe la possibilità di affermare il suo talento dirigendo Mary Pickford1 in film come The
Pride of the Clan o The Poor Little Rich Girl. In entrambi questi film del 1917, dava prova di saper
usare l'illuminazione di scena in maniera anche più sofisticata di DeMille, insistendo soprattutto sui
toni cupi con le quali sapeva creare atmosfere particolarmente ricche di pathos.
Nel 1918 realizzò tre film tratti da preesistenti opere teatrali: The Blue Bird, Prunella, A Doll's
House, tratto dal lavoro teatrale Casa di Bambola di Henrik Ibsen. È in queste opere che Tourneur
1 Conosciuta come "Fidanzatina d'America", "Piccola Mary" e "La ragazza con i riccioli", la sua fama internazionale fu
determinata dalle immagini in movimento. La sua fu una figura decisiva nella storia delle celebrità moderne e le sue
richieste contrattuali furono determinanti nella struttura dell'industria hollywoodiana, essendo una delle più importanti attrici
e produttrici del cinema muto.
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Anna Bisogno - L’America del cinematografo
esprime al meglio la sua poetica, in particolare con The Blue Bird. In questa fiaba che si svolge in un
mondo immaginario Tourneur utilizza scenografie estremamente stilizzate tratte dal teatro
d'avanguardia. La sua minuziosa ricerca formale trasforma ogni scena in un'opera pittorica
americani.
Intanto la Prima guerra mondiale volgeva al termine. Il cinema americano aveva ormai
raggiunto la sua piena maturità linguistica, mentre l'industria si era andata strutturando in un solido
sistema produttivo e distributivo, avvantaggiata anche dal fatto che, durante gli anni della guerra,
le produzioni europee aveva subito una battuta d'arresto. I film prodotti negli Stati Uniti poterono
invadere i mercati del Vecchio Continente, dove si imposero grazie alle qualità tecniche e
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Anna Bisogno - Lo sviluppo del cinema in Italia
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Anna Bisogno - Lo sviluppo del cinema in Italia
Durante le feste di Pasqua del 1897 un fotografo francese, Henri Le Lieure, aprì con il socio
italiano Luigi Topi una sala di proiezioni a Roma, avviando così, dopo le prime proiezioni avvenute
l'anno precedente a Milano e Torino, la diffusione del cinema in Italia. In pochi anni numerosi
produttori diedero inizio a una vera e propria attività cinematografica; tra questi, a Torino, Rinaldo
Arturo Ambrosio che, a partire dal 1906, film comici e drammatici che avrebbero riscosso grande
Sempre a Torino c’era l'altra importante casa di produzione, la Film artistica Gloria.
A Roma, invece, c’erano la Film Ambrosio, la Cines di Filoteo Alberini e Dante Santoni; a
Milano, aprì alla Bovisa i suoi stabilimenti Luca Comerio per poi cederli presto a un gruppo di
aristocratici che sarebbero andati incontro a un fallimento con l'ambizioso Excelsior (1913, diretto
C'era Napoli, che applaudiva con entusiasmo i film di Elvira Notari per la Film Dora,
Dal 1905 la casa di produzione romana Cines inaugurò un genere che fece la fortuna dei
cineasti italiani e che venne esportata in tutto il mondo con grande successo il film storico in
Il primo film italiano ad essere proiettato in pubblico fu La presa di Roma (1905) di Filoteo
Alberini. Il film venne proiettato proprio innanzi a Porta Pia la sera del 20 settembre 1905, in
occasione dell'anniversario della Presa di Roma. Di quest'opera non sopravvivono però che pochi
frammenti.
consolidamento anche a livello mondiale. Case di produzione erano già attive a Torino ed a
Roma, ma da questo momento si assiste alla crescita del loro numero. Se molti film italiani coevi
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Anna Bisogno - Lo sviluppo del cinema in Italia
appaiono remake di film francesi dell'epoca, ciò si deve alla mancanza di tecnici specializzati che
Dall’estero non vennero assunti soltanto tecnici, ma anche diversi artisti tra i quali
soprattutto interpreti del comico, genere che stava diventando sempre più popolare in Francia.
Nel 1908, ad esempio, la Italia Film di Torino assunse dalla Pathè l'attore comico André Deed, che
andò a vestire i panni di Cretinetti. Il successo dei film di Cretinetti spinse le case rivali della Itala
Film a produrre altre serie comiche, come quelle dell'Ambrosio Film basate sul personaggio di
Robinet, interpretato dallo spagnolo Marcel Fabre, o quelle di Tontolini e Polidor, interpretate
rifacevano, queste serie comiche furono molto popolari all'epoca. Prodotte in maniera piuttosto
investire maggiori risorse nei film di genere epico-storico, costruiti ad imitazione dei film d'arte che si
Nel 1908 l’Ambrosio Film di Torino produceva il primo film italiano di genere epico-storico: Gli
ultimi giorni di Pompei, il quale riscosse un enorme successo anche oltre i confini nazionali. Due anni
dopo un altro grande successo arrivò con La caduta di Troia, un film in tre rulli (un'enormità per
l'epoca) diretto da Giovanni Pastrone. In quello stesso anno uscivano nelle sale L'Odissea e
differenza che nel resto d'Europa, in Italia, il cinema ebbe vita breve come spettacolo itinerante.
adatte alla visione di film di lungometraggio, formato che in Italia poté affermarsi prima che
altrove.
Nel 1913 il Quo Vadis? (1912) diretto da Enrico Guazzoni, tratto dall'omonimo romanzo
di Henryk Sienkiewicz, diventava un blockbuster internazionale. Questo film poté infatti essere
distribuito anche negli Stati Uniti, smantellato ormai l'oligopolio della MPPC che impediva l'accesso
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Nel 1914 Giovanni Pastrone poté così dirigere uno dei più grandi kolossal della storia del
cinema: Cabiria. Ambientato nella Cartagine del III secolo, il film aveva una durata di circa tre ore
e per girarlo furono impiegate centinaia di comparse, effetti speciali, scenografie mastodontiche,
perfino degli elefanti. Buona parte di questi effetti speciali, tra cui l'eruzione dell'Etna, furono
Nei manifesti pubblicitari del film, D'Annunzio è accreditato come l'autore del film,
ugualmente nei titoli di testa dove Giovanni Pastrone viene indicato semplicemente come "regista"
con lo pseudonimo di Piero Fosco. Questo termine giunse al cinema dal teatro. In ambito teatrale si
dà maggiore importanza all'autore del testo rispetto al regista che lo mette in scena. Così, nell'Italia
di quelli anni, accadeva che la paternità artistica del film venisse attribuita allo sceneggiatore, o
anche al soggettista, piuttosto che al regista. Nel caso di questo film, Giovanni Pastrone pagò
profumatamente un personaggio allora famoso come D'Annunzio per poterne sfruttare il nome a
fini pubblicitari. Questi, in realtà, si limitò ad inventare i nomi di alcuni personaggi e a supervisionare
Cabiria è ambientato durante la Prima Guerra Punica (terzo secolo A.C.). Cabiria è una
bambina, figlia del ricco Bacco, che insieme alla sua balia, Croessa, viene rapita durante
un'eruzione dell'Etna, sfruttando il caos della situazione. Cabiria viene venduta alla città di
Cartagine come vittima da sacrificare nel tempio di Moloch. Fulvio Axilla, un romano che vive a
Cartagine, insieme al suo schiavo, Maciste, riescono a riscuoterla e salvarla dall'amaro destino, per
consegnarla alle cure della regina Sophonisba. Dieci anni dopo, trascorse tante guerre e alleanze,
Cartagine viene conquistata dai Romani e Cabiria ritorna a casa con Axilla.
L'importanza di Cabiria nella storia del cinema è legata soprattutto al largo ricorso che
Pastrone fece del carrello e della profondità di campo, dovuti soprattutto all'esigenza di
inquadrare e valorizzare le imponenti scenografie realizzate. Il film contribuì una volta per sempre
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ad affermare la validità dei movimenti di macchina che da allora in poi cominciarono ad essere
sempre più frequenti e complessi. Griffith si ispirò proprio al carrello “alla Cabiria” per la
Nonostante il genio di Pastrone e il successo internazionale del film, il ruolo del regista
resterà, in Italia, una figura di secondo piano. Oltre alla diffusa abitudine di attribuire allo
e al volere dei produttori, come avveniva anche nel cinema americano coevo, ma in Italia, più
che altrove, il suo ruolo è scavalcato ed insidiato da quello delle grandi dive. Sono queste a
scegliere, nella maggior parte dei casi, il tipo di fotografia, l'inquadratura da effettuare e la sua
Francesca Bertini, Eleonora Duse, Lyda Borelli sono le attrici più celebri di questi anni ed in
comune hanno tutte una brillante carriera teatrale alle spalle. I loro film sono spesso riproposizioni
cinematografiche dei ruoli che le avevano rese celebri in teatro. In molti casi, le dive si
filmare tra le strade di Napoli alcune scene di Assunta Spina (1915), un film che potrebbe essere
considerato precursore del neorealismo. Da attrici, prediligono una fotografia che metta in risalto
la loro bellezza, pretendono scene poco tagliate e soprattutto piani larghi che le ritraggano a
figura intera, in modo che possano muoversi liberamente proprio come su un palcoscenico.
Il cinema non veniva considerato come una forma d'arte, per questo il pubblico borghese
cinematografica di celebri opere teatrali o letterarie, era ritenuta dai produttori un mezzo per
nobilitare il cinema e sottrarre quindi spettatori al teatro. Ciò spiega come mai i produttori
La regia dei film italiani, lungo tutto il periodo del muto, rimase pertanto primitiva, incapace
di rendersi autonoma dalle forme dello spettacolo teatrale: i primi piani sono sporadici, il
montaggio minimale e del tutto asservito ad un'esposizione narrativa lineare e priva di sorprese.
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da
copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).
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Anna Bisogno - Lo sviluppo del cinema in Italia
Bisognerà aspettare il secondo dopoguerra perché il cinema italiano torni a farsi protagonista della
storia.
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2. Inematografia e fascismo
Intorno al 1923 il sistema cinematografico italiano entrò in una crisi profonda. Negli anni
Venti solo una percentuale costantemente sotto il 10% dei film in circolazione era di produzione
italiana. Mussolini, al potere dal 1922, si preoccupò nei primi anni solo dell'informazione e della
propaganda, avvalendosi in particolare dell'Istituto Luce che produsse dal 1927 una grande
quantità di cinegiornali.
Per la cerimonia di posa della prima pietra dell’Istituto Luce venne allestito un gigantesco
apparato scenografico raffigurante Mussolini dietro ad una macchina da presa e la scritta: “la
Educativa), la più antica istituzione pubblica destinata alla diffusione cinematografica a scopo
didattico e informativo del mondo che ben presto diviene anche uno strumento di propaganda
A partire dal 1927 in tutte le sale venivano proiettati i cinegiornali realizzati dal L.U.C.E. prima
Nato nel 1910, il cinegiornale si sviluppano velocemente anche sotto il regime totalitario
generalmente documentaristico.
ritmo di servizi.
In Italia il cinegiornale del contribuisce a formare una cultura popolare unitaria, diffonde
della carta stampata in quanto in grado di raggiungere la parte meno alfabetizzata della
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popolazione nelle zone più arretrate del paese, dove, anche se in locali di fortuna o all'aperto, si
da quello di regime prodotto dall'Istituto Luce tra il 1927 e il 1945. Il cinegiornale dell'Istituto Luce
segna il primo intervento diretto di un regime politico sul sistema di informazione cinematografica,
sebbene l'Istituto, a differenza di quanto accade nella Germania di Goebbels, non sia posto alle
celebrare il regime e la personalità del suo Duce, e di notizie internazionali, generalmente frivole,
provenienti anche dagli Stati Uniti. Non mancano però gli approfondimenti culturali, trattati in
genere in modo non completamente ideologizzato, seguendo quella che fu una certa
All’inizio della guerra l'Istituto Luce produrrà fino a 4 cinegiornali a settimana e la proiezione
sarà resa obbligatoria in tutte le sale di quello che a quel tempo era l'Impero. Il lettore abituale dei
I cinegiornali italiani degli anni Cinquanta e Sessanta, non più in regime di monopolio, sono
allineati su posizioni generalmente filo-governative sebbene non manchino spazi dedicati alla
opposizione. In virtù del carattere popolare la morale dei cinegiornali di questa epoca è orientata
Tra i cinegiornali più importanti del dopoguerra è da segnalare certamente quello prodotto
dalla Industria Cortometraggi Milano dal 1946 al 1965, meglio conosciuto come La Settimana
Incom, che si avvarrà del contributo di alcune firme prestigiose del panorama giornalistico e
un rotocalco, con un'ampia pagina dedicata alla mondanità e alle cronache dell'alta società.
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Per quanto riguarda i film di finzione, l'avvento del sonoro, combinata con la depressione
economica, approfondì la crisi del cinema italiano: nel 1931 si produssero solo 13 film italiani. Il
fascismo reagì alla crisi con una politica protezionistica, e in campo cinematografico cominciò a
sussidiare la produzione nazionale e a limitare la circolazione di film stranieri. Nel 1932 si inaugurò
la Mostra del Cinema di Venezia, nel 1933 nacque la Titanus Film, nel 1935 il Centro Sperimentale di
Cinematografia e nel 1937 Cinecittà. Il regime riteneva che il cinema potesse essere un potente
loro qualità, anche per gli effetti della rigida censura fascista.
Tra i filoni cinematografici fascisti si segnala: un gruppo di film propagandistici, con Vecchia
Guardia (r. di A. Blasetti, 1933) che glorificava la marcia su Roma e lo squadrismo, mentre Lo
squadrone bianco (r. di A. Genina, 1936) e Scipione l'Africano (r. di C. Gallone, 1937) esaltavano il
colonialismo italiano. 1860 (r. di A. Blasetti, 1934) cercava di stabilire una continuità tra Risorgimento
Il regime fascista dovette prendere atto che i film più scopertamente propagandistici non
avevano molto successo. Ciò favorì la produzione di film leggeri, scanzonati, di evasione, che
esaltavano la piccola borghesia e i suoi sogni di ascesa sociale. Dato che spesso in queste
pellicole si mostravano ambienti ricchi e scintillanti, il filone venne definito "cinema dei telefoni
bianchi".
Il primo successo fu La canzone dell'amore (r. di G. Righelli, 1930), che è anche il primo film
Il sonoro incoraggiò il passaggio al cinema di comici del varietà e del teatro: Ettore
Petrolini, Totò, Vittorio De Sica. Quest'ultimo divenne celebre interpretando Gli uomini, che
mascalzoni... (1932), Il signor Max (1937), Grandi magazzini (1939), tutti e tre diretti da Mario
Camerini.
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Con l'inizio della Seconda Guerra Mondiale, nel 1940, la produzione cinematografica
crebbe ulteriormente, spinta dal regime. Ciò permise ad una serie di giovani registi di sperimentarsi
con opere che offrivano un più accentuato realismo: La nave bianca (r. di R. Rossellini e G. de
Roberti, 1941) e I bambini ci guardano (r. di V. De Sica, sceneggiatura di Cesare Zavattini, 1943).
La vera rottura con tutta la cinematografia precedente e l'inizio del neorealismo sono legati
al film Ossessione di Luchino Visconti (1943). Era tratto dal romanzo di J. Cain "Il postino suona
sempre due volte". Il film segue le vicissitudini di un vagabondo e della sua amante, complici
sconosciuto all'epoca. Dopo alcune discusse proiezioni, il film fu rapidamente tolto dalla
circolazione.
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3. Il passaggio al sonoro
La possibilità di sincronizzare dei suoni alle immagini risale all’origine del cinema stesso:
anche Thomas Edison aveva brevettato una maniera per aggiungere il sonoro alle sue brevi
pellicole. Ma quando i vari esperimenti raggiunsero un livello qualitativo accettabile, ormai gli
studios e la distribuzione nelle sale erano organizzati al meglio per la produzione muta, per cui
l'avvento del sonoro venne considerato inutile e fu rimandato a lungo. Lo stato delle cose cambiò
di colpo quando la Warner, sull'orlo del fallimento, rischiò lanciando il primo film sonoro, Il cantante
di jazz, del 1927 e fu un successo che superò di molto le aspettative. La tecnica venne
Con il sonoro e la musica le stelle del cinema muto scomparvero e salì alla ribalta una
nuova generazione di interpreti, dotati di voci più gradevoli e di una tecnica di recitazione più
Nei primi anni Venti si impone il concetto di film come racconto, come romanzo visivo che
trascina lo spettatore al centro del film rendendolo partecipe con l'immaginazione. Al pari della
narrativa, iniziano a emergere anche nel cinema dei generi ben precisi: l'avventura, il giallo, etc.
Questo salto qualitativo è reso possibile dall'evolversi delle tecniche del montaggio che
permettono di saltare da una scena all'altra e da un punto di vista all'altro, senza che il pubblico
L'avvento del sonoro comportò in primo luogo una serie di problemi tecnici con i quali i
registi dovettero confrontarsi: non esistevano microfoni direzionali, né leggeri e pratici supporti su
cui collocarli, non vi era neanche la possibilità di effettuare il missaggio, cioè di poter unire diverse
essere chiuse in pesanti cabine insonorizzate, affinché il rumore da esse prodotto non venisse
registrato nel film, ciò limitava grandemente la possibilità di movimento e bisognava ricorrere alla
tecnica della ripresa multipla: la stessa scena veniva cioè registrata per intero, da punti di vista
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Nei primi film sonori gli attori si muovono in maniera cauta e alquanto ingessata, ciò era
dovuto alle innumerevoli difficoltà tecniche che i registi incontravano sul set. Ma mano che questi
acquistavano dimestichezza con i nuovi mezzi e le nuove tecniche, gli attori poterono cominciare
a recitare in maniera più sciolta. Il sonoro mutò profondamente l'arte della recitazione
cinematografica. Nel cinema muto l'attore agiva in maniera teatrale, privo di voce, egli doveva
contare su una gestualità molto marcata. Restituendogli la parola, il sonoro esigeva ora una
Nel 1928 usciva nelle sale Dinner Time, prodotto dalla Van Beuren Studios, primo cartone
Disney con Steamboat Willie, film che segnò il debutto sugli schermi del celebre personaggio
Fin da questo primo esperimento possiamo vedere come la Walt Disney utilizzi un
particolare tecnica di composizione musicale ottenuta sincronizzando le azioni sullo schermo con
gli effetti sonori e una musica di accompagnamento ricca di suoni onomatopeici, che
seguono punto per punto l'azione visibile sullo schermo. Questa tecnica è oggi nota come Mickey
Mousing proprio dal personaggio che la rese celebre. Il cinema di animazione si rivelò uno
straordinario campo di sperimentazione degli effetti sonori, elementi sulle prime trascurati degli altri
generi cinematografici.
Bibliografia
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L Estate 1895. Marconi scopre che la distanza di ricezione aumenta collegando a terra una
sfera dell’oscillatore mediante una piastra metallica interrata e mettendo l’altra sfera in
collegamento con una lastra o con parallelepipedi metallici posti in alto ed isolati da terra. Più la
lastra metallica viene alzata, maggiore è la distanza da cui il segnale viene raccolto. Marconi
scopre così il potere irradiante del complesso “antenna-terra” e, dopo ulteriori perfezionamenti,
nell’estate del 1895 è in grado di inviare un segnale che viene ricevuto oltre la collina dei Celestini,
posta dietro a Villa Griffone (Sasso Marconi, BO), ad una distanza di circa 1.800 m. dal
trasmettitore, fra due punti non visibili fra loro. La ricezione del segnale viene confermata dal
fratello Alfonso con un colpo di fucile. Nasce così la radio, intesa come telegrafia senza fili.
Tra fine ‘800 e inizi ‘900 furono realizzate le prime radio, prevalentemente utilizzate in campo
radiotelegrafico a lunga distanza, ma non solo. Significativo è il loro impiego per il salvataggio dei
zona sud-occidentale della Gran Bretagna), trasmise quello che forse è il primo messaggio
radiofonico della storia e il successo di quella invenzione ebbe immediato riscontro nei paesi
anglosassoni. Già dalla fine dell’800 lo studioso italiano aveva ottenuto ottimi risultati con la
realizzazione del telegrafo senza fili, ma quell’esperimento segna un punto di svolta nella storia
della comunicazione. Perché l'Italia comprendesse gli effetti di quella invenzione sarà necessario
Guglielmo Marconi è l’inventore della radio non solo perché ha realizzato un certo
avanti un’idea, ha creato un sistema e l’ha via via perfezionato per tutta la sua vita, partendo
dagli esperimenti del 1895 a Villa Griffone fino ad arrivare alla radiotelegrafia, alla radiodiffusione,
alla radiotelefonia e successivamente alla televisione. In senso lato l’invenzione della radio evolve
ancor oggi: basti pensare al telefono cellulare, alle ultime imprese spaziali su Marte e intorno a
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Saturno, alla televisione digitale o a chissà quali altre applicazioni in futuro, che hanno in comune il
fatto di essere rese possibili da nuove modalità per la trasmissione di segnali per mezzo delle onde
Agli inizi del 1900 Marconi è uno dei personaggi più famosi in tutto il mondo. Dopo la prima
guerra mondiale il numero dei radiofili in tutto il mondo è circa un migliaio, non esiste nessun
servizio di radiotrasmissione e la maggior parte delle emissioni sono statali e nella quasi totalità dei
casi si attuano mediante segnali telegrafici. La svolta avviene tra il 1922 e il 1923: negli USA le
L’Europa scelse il regime di monopolio: una scelta di necessità: in nessun paese c’erano infatti,
iniziativa statale era l’unica perché l’Europa potesse avviare, come sembrava indispensabile,
trasmissioni radiofoniche come avveniva in America. Di qui il naturale corollario della proprietà
statale delle frequenze; lo Stato poteva riservarne l’uso a sé stesso o a terzi attraverso l’utilizzo della
concessione, soggetto a molte condizioni e obblighi e, soprattutto, soggetto a revoca. Nel 1922
nasce la British Broadcasting Company (BBC) privata; diventerà poi un ente pubblico (1927) con il
nuovo nome di British Broadcasting Corporation, ma mantenendo la stessa sigla, con l’intento di
essere “un servizio nazionale nell’interesse pubblico avendo come obiettivo quello di educare,
informare, intrattenere”, secondo le parole del suo energico primo direttore generale John Reith.
Nello stesso anno, Reith lanciò “Radio Times”, la rivista della BBC interamente dedicata alla
L’altro modello, quello statunitense, scelse la via privata e commerciale, finanziata prima
dalla vendita degli apparecchi, poi dalla pubblicità. Nel 1926 nasceva la National Brodcasting
Company (NBC), il primo e più importante network radiotelevisivo nazionale commerciale e privato
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con sede a New York, fondata dalla Radio Corporation of America (RCA). Un’altra data, ancor più
importante, per la radiofonia americana fu il 5 novembre 1935 quando Edwin Howard Armstrong
inventò la modulazione di frequenza, dando così vita alla prima trasmissione in FM che andò in
L’Italia invece diffonderà il primo annuncio ufficiale dell’Unione Radiofonica Italiana alle ore
21 del 6 ottobre 1924, trasmettendo un concerto inaugurale. La radio avrà un ruolo centrale nello
La futura TV, medium domestico per eccellenza, nascerà all’interno delle aziende
radiofoniche e costruirà il suo successo a partire dal repertorio dei generi creato dalla
radio.
La radio consente di trasportare eventi e contenuti da ogni luogo, in ogni luogo, e nello
stesso tempo:
Con la radio, non è più necessario essere presenti sul posto per avere esperienza di un
Con la radio, lo stesso tempo non richiede più lo stesso posto (la «simultaneità
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pubblico ancora da formare. Poco dopo, tra il '24 e il '29, si comincia a trasmettere, oltre che da
Roma, anche dalle sedi di Milano (1925) da Napoli (1926) e Torino (1929). Il 27 novembre l'URI inizia
Il 6 ottobre 1924 alle 21una annunciatrice, probabilmente Maria Luisa Boncompagni, dallo
studio romano di Palazzo Corradi, legge il primo annuncio della neonata radio davanti a un
microfono detto “catafalco”: "Unione radiofonica Italiana, stazione di Roma 1-RO, trasmissione del
Il 25 marzo 1924 L’URI si organizzò di diffondere per radio il discorso di Mussolini dal teatro
Costanzi di Roma (oggi Teatro dell’Opera), ma il tentativo risultò un fallimento, che incise
Il pubblico, all’epoca, era composto da chi chiedeva di ascoltare buoni concerti rilassanti
e chi pretendeva una trasmissione con nitidezza del suono che dimostrasse la perfezione
tecnologica dell'apparecchio. Tra i precursori, citiamo anche Radio Flori, nata a Milsno nel 1923
come stazione radiofonica sperimentale grazie a Erminio Donner Flori che, interessato a tutte le
stazione Radio Flori, assemblata con apparecchiature industriali e completa di una grande
antenna sul tetto, viene impiegata per trasmettere parole e musica suonata con un grammofono.
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Un aiuto alla diffusione arrivò nel 1926 con l'ingresso della pubblicità. Nello stesso anno
furono aperte le prime stazioni e i bollettini delle origini lasciarono il passo ai primi notiziari, costruiti
I Giornali Radio furono istituiti nel 1929 quando già si era costituita l’Eiar, di cui parleremo
fra poco. Erano prodotti meno scarni dei bollettini, con un maggior numero di notizie, 6
Il commento politico, dal 1933, sarà affidato a Le Cronache del Regime considerate le
come «Commento ai fatti del giorno» condotta da Roberto Forges Davanzati, la rubrica
selezionati dal regime con intenti propagandistici, e il più noto diventerà Mario Appelius
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Dal 1924 al 1929 la radio si afferma per lo più come strumento di evasione. Si assiste al
Nel 1928 L’URI si trasforma in EIAR (Ente Italiano Audizioni Radiofoniche) con sede legale a
Roma e Direzione Generale a Torino. L’EIAR sarà titolare di una concessione radiofonica
venticinquennale da parte dello Stato, in regime di monopolio. Tuttavia l'alto costo degli
apparecchi, che nell'Italia dei anni Venti costavano circa 3.000 lire a fronte di un reddito medio
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La radio entra nella casa ridefinendo spazi e tempi della quotidianità e della vita sociale. Il
momento clou è quello dello spettacolo serale: l’ascolto di un’opera teatrale, di un concerto
«Ogni casa deve avere un apparecchio. Nelle lunghe serate invernali le voci, i concerti e le
conferenze che verranno al vostro orecchio per mezzo di questo meraviglioso apparecchio
saranno il diletto e l’istruzione della vostra famiglia», recitava una pubblicità in un Radiorario del
1929.
Un filone italiano, più ritmato e ballabile, conquista gli ascoltatori intrecciandosi con la
passione crescente per il ballo, dentro e fuori casa; il jazz, genere inizialmente vituperato
ma apprezzato soprattutto dai giovani, esploderà nella seconda metà degli anni ’30
(swing americano).
La canzone: il connubio tra radio e disco apre la strada ai concorsi Eiar per voci nuove;
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4. Radio e fascismo
Quando, nell'ottobre 1922, Mussolini salì al potere, l'Italia era, quanto a sviluppo di una rete
radiofonica nazionale, sensibilmente indietro rispetto agli altri paesi. Non era stata ancora costruita
Negli Stati Uniti la costruzione di apparecchi radio e la radiofonia erano già un grosso
culturale non apparve immediatamente chiaro a Mussolini, convinto com’era della superiorità
della carta stampata (lui che era stato direttore de l’Avanti!) e della efficacia dell’enfasi dei
Un decreto regio del 1925 stabilì, per evitare la nascita di emittenti private,
il monopolio assoluto dello Stato sulle comunicazioni senza fili e le preesistenti imprese furono
incorporate nell'URI. Nel gennaio 1925 era nato il Radiorario, rivista settimanale e organo ufficiale
dell'URI, con l'intento di propagandare il nuovo mezzo e nel contempo di conoscere meglio i gusti
Nel 1927 arrivano le prime informazioni dirette sul pubblico della radio e sul gradimento dei
programmi. Nel febbraio di quell’anno viene infatti indetto dall’URI il “Radio referendum” sulle
preferenze per i programmi delle stazioni di Roma, Milano e Napoli. Allo scopo di conoscere con
precisione gusti e tendenze del vasto pubblico e per assecondarlo con maggiore consapevolezza
(come specificato sul Radiorario), i radioascoltatori abbonati furono invitati a rispondere alle
seguenti domande:
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Che cosa vi piace di più e vorreste vedere più sviluppato e che cosa vi piace di meno
Dalle risposte pubblicate sulle pagine del Radiorario (n. 7, 12 febbraio 1927, p. 1) emerge un
con i teatri. Controverso è l’atteggiamento verso le conferenze: c’è chi le trova noiose e chi le
vorrebbe aumentare o spostare in orari diversi. Infine, si deplorano le trasmissioni di musica jazz e si
Negli anni Trenta la radio inizia ad imporsi come mezzo di comunicazione di massa. Gli anni
’30 sono infatti il momento del vero lancio della radiofonia in Italia. Essa si propone come medium
casalingo ed inizia a scandire con i suoi appuntamenti e i suoi suoni le abitudini degli italiani.
Attraverso la radio gli italiani diventano testimoni di grandi eventi (le radiocronache sportive, i
formato e la sede si trasferisce da Milano in via Arsenale 21 a Torino. Ora si propone come giornale
Guglielmo Marconi mentre nel ’32 si inaugura il Palazzo EIAR di via Asiago a Roma ed entrano in
funzione le stazioni radiofoniche di Firenze e Bari. L’1gennaio 1933 i radioabbonati ascoltano per la
prima volta una radiocronaca di una partita di calcio, Italia-Germania, che finì con lo storico
L’obiettivo preminente del regime fascista, a partire dagli anni Trenta, è quello di creare
una “coscienza radiofonica” nel Paese, ogni villaggio deve avere la sua radio. Così, nel 1933,
nasce l'Ente Radio Rurale, che opera in seno al Ministero delle Comunicazioni, alle dirette
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dipendenze del segretario del Partito e con la stretta collaborazione dei Ministeri dell’Educazione
Nazionale e dell’Agricoltura e Foreste, con il preciso fine di raggiungere anche i ceti contadini. I
L’Ente Radio Rurale puntava a educare la nuova generazione fin dalla più tenera infanzia
secondo i dettami della dottrina fascista; completare e illustrare le lezioni impartite dall’insegnante
e fare partecipare i fanciulli, anche quelli dei villaggi più vicini, alla vita della Nazione; comunicare
Risultano particolarmente interessanti i dati degli abbonati al 1934: sono circa 350.000 in
Italia (1.500.00 in Francia; 5.000.000 in Germania; 6.000.000 in Inghilterra); al 1939, sono oltre
E’ possibile delineare una geografia del pubblico radiofonico degli anni Trenta così
articolata:
benessere sociale. La passione per la tecnica dei possessori di auto e radio alimenta
La folla nelle piazze. La radio diventa un altoparlante che replica in tutte le città grandi
e medie la situazione. Di Piazza Venezia a Roma. Ci si riunisce nelle piazze attorno agli
Nella prospettiva del potere politico, alla percezione di un pubblico potenzialmente vasto
e differenziato (le élites culturali, le donne e i bambini, gli scolari e i contadini) si unisce, e
gradualmente si sovrappone, l’immagine del “pubblico massa” (i gruppi e le folle nelle scuole, i
locali pubblici, le piazze), che occorre educare e conquistare (al ruolo di formazione del mezzo
e/o all’ideologia del fascismo). Gli anni Trenta però sono anche gli anni della rivista musicale (o
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radio rivista) che avvierà il mezzo verso la “popolarizzazione” con conseguente aumento e
La radio rivista è introdotta nel palinsesto radiofonico per rispondere alla domanda
musica e parlato: numeri di prosa, sketch comici e musica sono tenuti insieme da una trama con
introduce la figura del presentatore a tenere insieme i vari momenti di spettacolo, ma molto più
La radio rivista più rappresentativa del periodo è I quattro moschettieri di Angelo Nizza e
Riccardo Morbelli, parodia del romanzo di Alexandre Dumas in cui ci sono molti riferimenti a
Un’alternanza serrata tra dialoghi, musica e battute. Andarono in onda tre edizioni del
programma, tra il 1934 e il 1938, che era abbinato a un concorso a premi sponsorizzato dalle
aziende alimentari Buitoni e Perugina e basato su raccolta di figurine dei personaggi (tra possibili
premi una Fiat 500 Topolino, lanciata nel 1936). La presenza di sponsor privati non piacque al
regime, o forse infastidì il successo del programma e della ricerca delle figurine mancanti, un vero
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per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).
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sperimentale legittimato dalla nuova convenzione Stato-Rai del 1952 ma che sicuramente era
iniziato già prima. Premesso che invenzioni e scoperte utili per la realizzazione della TV si collocano
già negli ultimi vent’anni dell’Ottocento e che essa aveva già un posto, anche se non di primo
sperimentazioni che si sono svolte in Italia tra il 1939 e il 1940 a Roma, Milano, Torino per iniziativa
dell’EIAR.
avvenire attraverso un dispositivo meccanico o elettronico. In molti paesi, fra cui l’Italia, furono
compiuti esperimenti di televisione meccanica. Il paese che li portò fino in fondo fu la Gran
Bretagna: paese a cui apparteneva John Logie Baird, inventore principale del dispositivo
meccanico. Anch’esso si convertì poi alla scansione elettronica, che già a metà degli anni Trenta
Gran Bretagna, Germania e Stati Uniti negli anni Tenta erano all’avanguardia nella
America (RCA) di cui è Presidente David Sarnoff e di cui fa parte l’ingegnere Vladimir Zworykin.
Proprio quest’ultimo, con l’appoggio di Sarnoff, sceglierà il paradigma elettronico anziché quello
meccanico.
In Germania tra la fine degli anni Venti e l’inizio degli anni Trenta, la comparsa simultanea
degli altoparlanti, della radio e della televisione rivela la volontà del regime nazista di creare luoghi
per radunare il popolo e materializzare la simultaneità della comunicazione tra leader e popolo. La
trasmissione televisiva fu assicurata dal 1935 al 1944: a Berlino la televisione si vedeva nei luoghi
pubblici e la diretta dei Giochi Olimpici del 1936 rimase un evento fondamentale nell’evoluzione
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talvolta si diceva) in mostre di elettrotecnica, a cominciare da Torino nel 1932. Iniziava intanto una
riflessione teorica sulla televisione e sui suoi rapporti con il cinema. Riviste dell’epoca, come
onde hertziane, di televisione che arriva nelle case ruotando un bottone elettronico. Si ha la
sensazione che intellettuali, scienziati e anche uomini politici siano pienamente consapevoli della
potenzialità del mezzo, anche se la propaganda fascista tendeva sempre a enfatizzare i risultati
Nel 1936 il Vaticano chiese a Guglielmo Marconi di realizzare una emittente pontificia, che
però non fu realizzata anche per la morte di Marconi. L’EIAR iniziò nel 1939, il 16 settembre, le prime
trasmissioni sperimentali di televisione dalla Torre Littoria di Parco Sempione a Milano; la tecnologia
di base era tedesca anche se l’industria elettrotecnica italiana, in particolare la SAFAR, fu stimolata
a produrre apparecchiature tecniche e televisori. Viene riportato che in ottobre Mussolini, dalla sua
residenza di Villa Torlonia, potè assistere a delle trasmissioni realizzate ad hoc dall’EIAR.
Era troppo tardi però per le sperimentazioni. In Europa infuriava già la guerra e la Gran
dell’EIAR durarono ancora alcuni mesi; furono interrotte sia a Roma che a Milano il 31 maggio del
1940, anche perché la frequenza di trasmissione avrebbe potuto interferire con le emissioni radio
Mussolini non comparve mai sulla televisione italiana e, ironia della sorte, la sua unica
prestazione televisiva, peraltro perduta, avvenne sulla televisione tedesca prima della guerra.
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2. Le prime immagini
Le ricerche teoriche sulle trasmissioni a distanza delle immagini, come già accennato,
iniziarono a Milano il 28 gennaio 1929 per volontà di due ingegneri, Alessandro Banfi e Sergio
analizza e riproduce le immagini. Sempre nel ’29 nella sede EIAR di Torino è allestito il “visiorum”, il
primo laboratorio per la televisione. Grazie anche all’avvio di questi esperimenti iniziano ad essere
La prima immagine della televisione italiana del 1929 è una bambola di panno Lenci
mentre i primi esperimenti sono presentati nel ‘33 alla V Mostra nazionale della radio di Milano.
Proprio negli anni 1933-1934, con il passaggio dalla televisione meccanica a quella elettronica, la
televisione non è più solo la semplice riproduzione di foto ma il suo specifico diventa la trasmissione
di immagini in movimento.
Dal 1936 al 1939, EIAR, SAFAR e Magneti Marelli, si impegnano nella ricerca e della
sperimentazione. La Magneti Marelli inizia una collaborazione con la RCA-General Electric e tra il
’38 e il ’39 realizza, tra l’altro, alcuni modelli di televisore. La televisione, nonostante le perplessità di
un pubblico scettico, non era più un sogno irrealizzabile. Nel 1939 fu bandito un concorso per
provini di telegenia.
Il 1939 è un anno particolarmente importante per gli esperimenti televisivi: il 22 luglio viene
infatti trasmessa la prima immagine sperimentale televisiva del tecnico dell'EIAR Manlio Bonini dal
trasmettitore di Monte Mario e ricevuta su alcuni teleschermi posti al Circo Massimo nel Villaggio
tempo ricca di novità assolute per l’Italia di quell’epoca. Nessuno, di fatto, poteva vederle e
dunque gli annunci sconfinavano nella propaganda. L’offerta televisiva sperimentale proponeva
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documentari dell'Istituto Luce, ma anche tanto intrattenimento con spettacoli, comici e musica,
eseguiti da noti artisti, tra cui Macario e Aldo Fabrizi, Nunzio Filogamo.
All’EIAR di Torino il fermento per questa nuova avventura era tanto. C’era Lidia Pasqualini,
attrice, scelta per le sue qualità telegeniche, fu affidato il ruolo di annunciatrice, diventando
antesignana delle “Signorine buonasera”; Vittorio Veltroni, che guidava la redazione giornalistica;
Victor de Sanctis, che seguiva la regia dei programmi e Isa Miranda, prima attrice a comparire sul
piccolo schermo, che della televisione disse estasiata: “Questa è stregoneria”. Il pubblico poteva
guardare queste trasmissioni attraverso appositi apparecchi allestiti a Roma all'interno delle vetrine
Il Radiocorriere rappresenta una fonte importante per ricostruire queste attività, anche se
Nelle pagine del 1939 del Radiocorriere è possibile, ad esempio, vedere alcune immagini di uno
spettacolo, con il pubblico in studio, Al cavallino baio, o alcune scene dell'originale televisivo I
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3. Tutto rimandato
programma (23 giugno 1940) e intorno a quella stessa data vengono sospese anche le trasmissioni
televisive. Il conflitto bellico sottrasse risorse preziose alle sperimentazioni dell’Eiar e vennero dunque
meno gli investimenti economici necessari per portare a compimento il progetto. L’ultimo
programma ad essere andato in onda era stato "Le disgrazie di Gedeone", una parodia dei film
Non mancano le note di orgoglio patriottico, alquanto azzardato, per quanto la tecnica
televisiva italiana è riuscita a realizzare fino a quel momento. Non sfuggono, accanto alle
apparecchiature esposte dalla Marelli, dalla Safar, dalla Philips e dalla Magnadyne alla XXI Fiera
Ma non solo. Le trasmissioni milanesi hanno un primato assoluto per la TV italiana: quello
della prima diretta in esterni. Gli italiani, in realtà, non accolsero la televisione con slancio atteso
dalla novità. Si pensava fosse un bluff e che le immagini televisive non fossero altro che il frutto di
un non chiaro gioco di specchi. Gli italiani non si erano ancora abituati alla radio, figuriamoci alla
Dunque, a fermare il progetto che aveva affascinato Filippo Tommaso Marinetti parlando
nel Manifesto Futurista di “radia” e affascinato i gerarchi del regime e a impedire la nascita di una
Gli storici della televisione Grasso, Casetti, Menduni, Ortoleva, Monteleone hanno con
autorevolezza ricostruito il percorso lento e faticoso della tv italiana del dopoguerra. Nessuno o
quasi nessuno ricorda la tv prima della guerra, per pochi ma fondati motivi:
Perché si trattava di una televisione solo sperimentale e per pochi privilegiati del
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soppiantata da quella bellica, ritenuta prioritaria, come accade negli USA, in Gran
Perché quella che fu definita una conquista della tecnologia fascista era in realtà una
Infine, per la totale assenza di fonti dirette e di materiali filmati. Gli archivi dell’EIAR
relativi a quegli anni sono andati in gran parte dispersi, smarriti o distrutti durante il
periodo bellico; gli storici si affidano per il periodo agli archivi della Presidenza del
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Anna Bisogno - L’Italia alla radio (1938-1951)
Indice
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1. La radio in guerra
Dal 1920 al 1940 si assiste al progressivo consolidamento della radio fascista con la radio,
politico autoritario.
Alla vigilia della guerra in Etiopia (1935) la radiofonia italiana si trova in una fase di ascesa
consenso. Il conflitto in Africa da questo punto di vista diventò una opportunità: portare a
compimento la guerra ed entusiasmare all’idea della stessa un pubblico che appariva ancora
piuttosto passivo nei confronti del regime (anche in seguito agli effetti prodotti dalla crisi politica
Gli abbonati erano pochi: ancora nel 1938 soltanto 965 mila, il che presuppone un ascolto
collettivo in Case del fascio, sezioni dell’Opera nazionale del Dopolavoro e ritrovi vari, mentre la
fruizione domestica della radio rappresentava un consumo riservato ad una élite. Al termine della
La radio italiana aveva una configurazione “stellare”, con una sede centrale a Roma e
molte stazioni locali talvolta collegate fra loro, ma non sempre: una scelta dettata dalla tecnologia
Nel corso degli anni Trenta e Quaranta, dunque, la radio divenne anche un importante
strumento di propaganda politica. Non a caso, proprio nel 1935, con il trasferimento dei programmi
radiofonici sotto il controllo del nuovo Ministero per la Stampa e la Propaganda si avvia quel
processo di maggiore integrazione del mezzo nell’organizzazione fascista del consenso che nel
1937 sarà portato a compimento dal Ministero della Cultura Popolare che sostituirà il primo nella
promozione e nel controllo della radio. Di qui parte infatti un generale processo di ridefinizione del
mezzo e del suo ruolo nella società. Esso è accompagnato da una robusta azione promozionale
come l’immissione sul mercato di apparecchi sempre più accessibili con ricevitori popolari, ad
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esempio l’apparecchio Radio Balilla, a costi contenuti; la promozione di abbonamenti gratuiti per
le famiglie numerose o la riduzione del prezzo del Radiocorriere (già Radiorario), organo ufficiale
nuovo mezzo di comunicazione di massa, che consentiva per esempio di trasmettere i discorsi di
Mussolini dal balcone di Palazzo Venezia a Roma, dando a ogni cittadino l’impressione di essere
presente. Ma anche nei paesi democratici, e non soltanto durante la Seconda guerra mondiale, la
radio fu importante per sostenere lo spirito dei cittadini. Famoso resta il caso del presidente degli
Stati Uniti, Franklin Delano Roosevelt, che dal 1933 pronunciava alla radio i discorsi del caminetto,
così chiamati perché il presidente trasmetteva da una stanza della Casa bianca in cui si trovava
appunto un caminetto visibile nelle fotografie dell’epoca. Si tratta forse del primo esempio di uso
Ad ogni modo, l’onda emotiva di esaltazione per la conquista dell’Etiopia, in gran parte
dovuta proprio all’abile uso propagandistico della radio, è destinata però ad esaurirsi nel breve
tempo. I motivi sono diversi: la negativa congiuntura internazionale, un diffuso malessere sociale,
l’introduzione delle leggi razziali nel 1938, le ripercussioni della guerra civile spagnola. Presto si
sarebbe aggiunto l’uso della radio, trasmessa dall’estero, da parte di altre nazioni e,
indirettamente, delle opposizioni antifasciste. Per la prima volta ai radioabbonati sarebbe stata
offerta un’informazione alternativa, fornendo una immagine diversa da quella propagandata dal
regime fino ad allora. Intanto i primi segnali di diffuso malcontento nei confronti del mezzo
L’EIAR, superando l’atteggiamento incerto e contraddittorio assunto nel periodo della non
belligeranza, si mobilita totalmente a favore della politica di guerra perseguita dal regime fascista.
Allo scopo di coordinare la propaganda bellica erano state già avviate ristrutturazioni all’interno
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dell’apparato radiofonico, tra queste l’iniziativa di spostare i servizi politici e culturali sotto il
controllo della Direzione Generale per la Propaganda del Ministero della Cultura Popolare; la
programmi per interno, estero e intercettazioni e la creazione di un Centro Radio Guerra per la
i conseguenti atteggiamenti nei confronti del pubblico che ora sono dettati dalla necessità di
all’esterno. Dal 23 giugno 1940 va in onda un programma unificato con tre obiettivi principali
propaganda per l’interno e la lotta contro l’ascolto clandestino. In realtà negli anni della guerra
Alla riduzione dei programmi a cosiddetto contenuto leggero fa riscontro il forte aumento
delle trasmissioni di propaganda. Il palinsesto quotidiano ruota intorno alle edizioni del Giornale
Radio (portate da 6 a 8) con bollettini o servizi speciali direttamente da Mussolini prima della messa
in onda.
all’ascolto delle emittenti estere (particolarmente Radio Londra, ricevuta clandestinamente) che
Altro perno della programmazione di questo periodo è costituito da una serie di trasmissioni
speciali volte a fornire servizi utili ai soldati e ai feriti e alle famiglie dei combattenti. Questo ponte
che si stabilisce tra i soldati in guerra e i loro familiari attraverso il mezzo radiofonico fu molto
apprezzato e in virtù di ciò fu istituita verso la fine del ’42 “La posta di Radio Famiglia”.
Proprio tra il 1942-1943 che si irrobustisce il rapporto tra radio e popolazione (radio al servizio
della popolazione), testimoniato anche dal numero degli abbonamenti: dai 1.375.205 della fine del
1940 ai 1.827.950 del 1942. Le ragioni sono da ricercare in almeno quattro condizioni: la
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Il 25 luglio 1943 alle 22 il giornale radio dà notizia dell'arresto di Mussolini. L’8 settembre alle
19,45 la radio diffonde la dichiarazione del maresciallo Pietro Badoglio che annunzia l'armistizio.
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2. La complessa transizione
L’8 settembre 1943, la fine del fascismo, l’armistizio e la fondazione della Repubblica sociale
italiana portarono a una divisione in due dell’Eiar, in parte trasferito a Nord, nella RSI controllata dai
tedeschi, e in parte a Sud, attorno a Radio Bari e poi Radio Napoli, nell’Italia liberata dagli alleati.
I primi tentativi di riorganizzazione del servizio della radiodiffusione nel sud si avranno nel ’44
con l’istituzione di un Commissariato per la gestione delle attività radiofoniche. Tali interventi si
ispirano innanzitutto alla necessità di potenziare al massimo il contributo che la radio italiana potrà
dare alla guerra contro i nazifascisti e di gettare le basi di una rinnovata organizzazione radiofonica
che nella nuova Italia del dopoguerra possa diventare un efficace strumento di elevazione
Intanto gli Alleati, risalendo la penisola, fondano nelle principali città vivaci emittenti
radiofoniche gestite dal PWB, Psychological Warfare Branch, nome dell’ufficio anglo-americano
che durante la Seconda guerra mondiale aveva il compito di controllare il settore della stampa e
Dopo la liberazione di Roma, l’EIAR assunse il nuovo nome (ottobre 1944) di RAI (Radio
Audizioni italiane), l’azienda che esiste ancora oggi (con la stessa sigla ma con un nome diverso,
televisiva. Il regime commissariale provvisorio finirà il mandato il 20 aprile del 1945 quando
Arturo Carlo Jemolo. Da questo momento assistiamo ai primi passi della radiofonia italiana in una
La nuova società radiofonica si trova ad operare in una situazione non facile rispetto alla
precedente, a cominciare dal fatto che – nonostante l’elezione dei nuovi organi direttivi – il servizio
di radiodiffusione è tenuta ad assolvere agli stessi obblighi stabiliti con la convenzione del 1927 che
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strettamente politico del mezzo avrà la sua influenza sul processo di rinnovamento della radio nella
democratico, permangono solidi se si considera che la Democrazia Cristiana – primo partito nelle
elezioni per la Costituente – si assicura subito il controllo sul mezzo (con Giuseppe Spataro alla
presidenza RAI, Enrico Carrara Direttore Generale, Mario Scelba Ministro delle Poste e
Telecomunicazioni).
Anche a livello dei contenuti trasmessi, valori e modelli della radio d’anteguerra
permarranno a lungo. D’altra parte, non sarebbe stata pensabile una ristrutturazione profonda e
immediata di un apparato culturale pubblico non appena fossero mutati i vertici di potere.
Nuove iniziative furono assunte. Il Servizio Opinioni, che si era costituito ufficialmente presso
la Direzione Generale della Rai nel luglio del 1945, provvede innanzitutto ad esaminare moltissime
lettere di radioascoltatori che arrivano alla RAI. Alcune sono trasmesse alla redazione de “Il vostro
rubrica del Radiocorriere. Le lettere costituiscono una preziosa fonte di orientamento per la politica
aziendale, ma di certo non esprimono pienamente l’opinione collettiva. Tra gli ascoltatori, il
numero degli analfabeti o comunque poco abituati a scrivere lettere è molto elevato.
L’esigenza informativa è soddisfatta dal Giornale Radio, con servizi dalle capitali europee e
dagli Stati Uniti; all’educazione culturale contribuiscono i dibattiti speciali e una serie di
e dei discorsi politici era giustificata dal fatto che dopo tanti anni di costrizione e di silenzio imposto,
c’era l’esigenza di dar voce ai rappresentanti di tutti i partiti. In questa ottica di rieducazione alla
vita politica e culturale, in occasione del referendum (che sancirà la nascita della Repubblica) e
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Nel dicembre del 1946 si dà avvio al nuovo assetto tecnico-organizzativo della radio che
prevede la distribuzione di due programmi nazionali a onda media: la Rete Rossa (che
comprende, tra gli altri, i trasmettitori di Bari-Catania-Firenze-Napoli I- Roma I- San Remo) e Rete
Azzurra (Bari II-Milano I-Roma II- Venezia-Verona-Torino I). Le due reti complementari offrono
programmazioni dedicate prevalentemente alla musica, alla prosa, musica sinfonica, leggera,
e per squisite ragioni di controllo politico, la configurazione “stellare” che era stata propria della
radio di anteguerra e che avrebbe potuto rappresentare una sorta di regionalismo radiofonico.
Il 31 ottobre 1950 si inaugurano le trasmissioni del Terzo Programma che si caratterizza subito
per la sua dimensione specificamente culturale. Il 30 dicembre del 1951 verrà varata la riforma
delle reti in tre programmi nazionali, sulla falsariga della BBC: il primo destinato a soddisfare le
politici; svago) di un pubblico medio; il secondo era chiamato ad assolvere un compito soprattutto
di intrattenimento; il terzo rivolto ad un pubblico sia intellettualmente elevato sia a coloro che
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La radio del dopoguerra ha saputo esprimere orientamenti sociali diffusi e farsi volano della
industria culturale: lanciando nuovi talenti; dispensando premi e posti di lavoro, formando registi,
attori, conduttori, cantanti che sarebbero diventati famosi in altri ambiti dello spettacolo (Federico
Fellini, Alberto Sordi, Mike Bongiorno, Claudio Villa, ecc.). Appena prima della TV, la radio si è
avviata a diventare finalmente popolare anche per numero di abbonamenti: quasi 5 milioni, con
Il dopoguerra si apre all’insegna di “una radio per tutti”, del bisogno diffuso di evasione, del
desiderio di una vita migliore. È qui che si pongono le basi di quel processo di modernizzazione nel
campo dei gusti e dei consumi di massa, di quella rivoluzione del costume che ha dominato la
società in quel secondo cinquantennio che si era aperto con l’arrivo degli americani durante la
guerra.
cattolica, si registrò una forte spinta ai consumi culturali di massa e la progressiva crescita dello
spettacolo leggero: varietà, quiz, gare tra dilettanti, canzoni, spesso abbinati a concorsi a premi
Trai generi più apprezzati, i programmi per dilettanti, che consentono agli ascoltatori di
mettere in scena i loro talenti, di vivere un momento di notorietà, di coltivare la speranza di trovare
Uno di questi è Il microfono è vostro (1950,1952): programma itinerante, che dai teatri delle
giovani di leva, aspiranti cantanti, ecc.), scatenando un coinvolgimento popolare simile a quello
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Alla base del successo anche la fama del presentatore, Nunzio Filogamo, già interprete del
moschettiere Aramis, e le musiche di Cinico Angelini, direttore delle orchestre leggere dai tempi
dell’Eiar.
Continua in questa fase anche la passione per la canzone, che toccherà il suo culmine con
il Festival della Canzone Italiana di Sanremo (1951). La cosiddetta “canzone all’ italiana”
conviveva con il piacere della musica straniera (boogie-woogie americano, canzone francese,
ritmi sudamericani) diffusa per radio in appositi programmi pomeridiani. Contro la musica straniera,
però, si scatena la critica dei fautori della radiofonia più tradizionale, portando ad un accordo tra
Rai e case editrici musicali: la realizzazione di un evento finalizzato a valorizzare la melodia italiana.
Nasce così il Festival, competizione tra canzoni italiane trasmessa in radio nelle prime 4 edizioni,
A partire dal 30 novembre del 1952, ogni domenica mattina, va in onda la Santa Messa, in
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Anna Bisogno - Cinema italiano e neorealismo
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1. Identità e caratteristiche
Il termine era stato usato per la prima volta nel 1931 in riferimento al romanzo di Moravia Gli
indifferenti, ma già alcune altre opere di quegli anni mostravano la tendenza a una riscoperta
della realtà quotidiana e a uno stile che la ritraesse nel modo più credibile.
Non è semplice comprendere il neorealismo in tutte le sue implicazioni. Possiamo isolare tre
aspetti principali: quello morale, quello politico e quello estetico, precisando però che essi risultano
Fu anzitutto la reazione morale agli orrori e alle infamie della guerra che spinse alcuni
sociale.
Occorreva dare una risposta sul piano politico alla serie di tragici errori commessi dal
Il neorealismo implica una nuova estetica, capace di rinnovare non solo il cinema
Roma città aperta (1945) di Roberto Rossellini è il film che segna l’inizio della nuova epoca.
Si tratta di un film emblema della volontà di rinascita del cinema italiano. Realizzato con mezzi di
fortuna, Roma città aperta prende spunto da fatti di cronaca relativi al tragico periodo in cui,
dopo la caduta del fascismo e prima dell’arrivo delle truppe alleate, Roma fu teatro di un disagio
profondo della popolazione e dello scontro tra le forze della Resistenza e la rabbiosa
determinazione dell’esercito tedesco. Il film presenta le vicende intrecciate di gente comune. Tra
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Anna Bisogno - Cinema italiano e neorealismo
Alcune scene del film diventarono meritatamente celebri: Pina, la popolana interpretata
da Anna Magnani, falciata dai colpi di mitra dei soldati tedeschi che, nel corso di un
attentato. Inoltre quella delle torture subite da Manfredi, l’intellettuale comunista interpretato da
Marcello Pagliero; e quella della fucilazione di don Pietro (Aldo Fabrizi) alla quale assistono muti
alcuni ragazzini, che vediamo poi allontanarsi verso uno sfondo dominato dalla cupola di S. Pietro.
grande esperienza e popolarità come, Anna Magnani e Aldo Fabrizi, e fa ricorso a metodi di
enfatizzazione drammatica degli episodi: ad esempio, attraverso il montaggio visivo e sonoro della
sequenza della morte di Pina. Tuttavia esso costituisce un preciso segnale circa la direzione in cui si
dovrà muovere il nuovo cinema: trarre ispirazione dalla realtà quotidiana, dare la priorità assoluta
alla cronaca e alla forza delle reazioni morali di fronte alla disumanità di una tragedia che non ha
risparmiato nessuno.
La forza d’impatto di Roma, città aperta trovò conferma in Paisà (1946) e Germania anno
zero (1948), con i quali Rossellini completava una sorta di trilogia retrospettiva della guerra appena
conclusa; in Sciuscià (1946) e Ladri di biciclette (1948) di Vittorio De Sica, e ne La terra trema (1948)
di Luchino Visconti.
Tratti dell’estetica e degli intenti del neorealista emergono anche in diversi registi di origine
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2. Drammaturgia
mondiale. L'Italia era riuscita a liberarsi dal fascismo e dall'occupazione tedesca anche grazie a un
danneggiato gli studi cinematografici di Cinecittà, sede della gran parte delle produzioni, i
produttori italiani erano stremati per la mancanza di capitali e spesso compromessi con il fascismo;
le case produttrici americane, al seguito degli eserciti vincitori, avevano colto l’occasione per
Nel cinema italiano del dopoguerra l’entusiasmo e le idee non mancavano, dunque, ma le
risorse economiche erano scarse. Nonostante ciò videro la luce tutta una serie di film, anche a
budget ridotto, che ebbero un forte successo internazionale. Il personale artistico e tecnico che vi
Partecipando alla vita delle riviste (tra cui "Cinema") e al dibattito culturale, ma anche
realizzando opere che fanno iniziare, in una semi-clandestinità, il movimento che poi sarà il
neorealismo. Tra i vari esempi, il più importante è Ossessione (L. Visconti, 1943), che rappresenta
una netta rottura rispetto ai canoni rappresentativi ed estetici prevalenti nel cinema del fascismo.
Il neorealismo dovette subire molteplici attacchi perché il clima politico mutò a partire dal
1947, quando i partiti di sinistra furono allontanati dal governo e le forze moderate cominciarono a
incoraggiare un cinema meno impegnato e diversamente orientato. La Legge Andreotti del 1949
(Giulio Andreotti ricopriva allora l’incarico di Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con
delega allo) Spettacolo, subordinava gli aiuti statali ad un rigido controllo governativo: al film
poteva essere infatti negata la licenza di esportazione qualora risultassero elementi diffamatori nei
confronti dell’Italia. Diverse pellicole, tra cui Ladri di biciclette, subirono gli effetti di questa nuova
forma di censura.
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copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).
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I film neorealisti marcarono una netta differenza dalla produzione precedente sia nazionale
che internazionale. Le scene venivano girate non soltanto nei teatri di posa ma anche nelle strade
e nelle campagne: per scelta estetica e necessità produttiva. Le storie raccontavano le vicende di
una Italia che resisteva (la resistenza partigiana e il suo retroterra nella popolazione), attraversata
dalla povertà e da profonde disparità sociali. Non a caso, e per la prima volta, i protagonisti erano
gli operai, i contadini, i bambini, gli anziani. In molti film erano impiegati attori non professionisti. Si
tratta di film che rappresentano la realtà in maniera densa con trame costruite per somma di
dall’Italia, on una interpretazione della realtà così densa che alcuni di quei film possono essere visti
La cinematografia neorealista può essere distinta in due fasi: la prima che affronta temi gli
anni della guerra e la Resistenza e la seconda, a partire dal 1948, che affronta invece temi di
rilevanza sociale.
Tra i film più importanti di questo movimento, all’indomani di Roma, città aperta, possono
essere annoverati:
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Tre sguardi: De Sica, Rossellini, Visconti, ognuno proveniente da esperienze culturali molto
diverse. Rossellini, infatti, era un regista cinematografico dei primi anni Quaranta, De Sica un attore,
Visconti era un regista teatrale con una conoscenza e partecipazione diretta al cinema realista
Nell'Italia uscita dalla guerra e dalla dittatura era fortemente avvertito il bisogno di una
rinascita politica e sociale; sceneggiatori e registi vollero farsi artefici di questo rinnovamento.
Proposero un cinema che scavava nella realtà del presente e del più recente passato, portando
alla luce storie, temi e personaggi di quel mondo su cui bisognava agire. Il cinema neorealista si
L'industria cinematografica italiana era stata messa in ginocchio dalla guerra, il mercato
nazionale invaso da film americani, gli studi di Cinecittà erano inagibili, per questo i neorealisti
scelgono di riportare la cinepresa fuori dagli studi, di tornare a girare per strada e nelle campagne,
con attrezzature leggere ed economiche. Dopo anni di doppiaggio di film stranieri, gli italiani,
avevano ormai perfezionato l'arte della sincronizzazione del sonoro, le troupe potevano quindi
quegli anni fanno da cornice a molti film neorealisti che divengono così preziosi documenti storici.
Fu il critico francese André Bazin, a far notare, più di ogni altro, quale fosse la vera portata
innovativa che caratterizzava il movimento neorealista italiano, concentrando la sua analisi critica
piuttosto che sugli aspetti tecnici, estetici o stilistici, sul nuovo approccio che questi film mostravano
soprattutto il più instancabile difensore dell'estetica neorealista. Zavattini voleva un cinema che
presentasse il dramma nascosto negli eventi quotidiani, come l'acquisto di un paio di scarpe o la
Una critica superficiale ritiene che il tipico film neorealista sia girato in esterni, con attori non
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nonostante le difficoltà pratiche la maggior parte delle scene in interni è girata in set ricostruiti in
studio e illuminati con cura. Anche il sonoro è estremamente professionale e si cercano le voci più
adatte ai ruoli attoriali; la voce del protagonista di Ladri di biciclette, ad esempio, era doppiata da
un altro attore.
Anche se non tutte le immagini neorealiste hanno il rigore compositivo di La terra trema,
ispirato a I Malavoglia di Giovanni Verga, quasi sempre esse presentano un accurato equilibrio tra i
vari elementi che vi appaiono. Anche quando sono riprese in esterni, le scene contengono fluidi
movimenti di macchina, un nitore impeccabile e un'azione scandita su più piani. È tipico del
cinema neorealista l'uso di suggestive colonne sonore che ricordano l'opera lirica nel modo in cui
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3. Discontinuità e tradizione
ricorrente è quello della coincidenza, come in Ladri di biciclette, quando Ricci e Bruno incontrano
per caso il ladro vicino alla casa della santona che sono andati a trovare. Questi sviluppi narrativi,
che rinnegano il logico incatenarsi degli eventi tipico del cinema classico, sembrano più
Oggetto vivo del film realistico è "il mondo", non la storia, non il racconto. […] Il film realistico
è in breve il film che pone e si pone dei problemi: il film che vuole far ragionare (Roberto Rossellini,
1953)
A questa tendenza va aggiunto l'uso massiccio dell'ellissi: i film neorealisti spesso trascurano
le cause degli eventi a cui assistiamo. Un esempio è Paisà, il già citato film di Rossellini che in sei
episodi racconta l'avanzata delle truppe alleate in Italia. Come nota ancora Bazin, si rivela
all'improvviso e in maniera dirompente la scena dei partigiani (nel sesto episodio, Porto Tolle,
ambientato sul Delta del Po), appostati in un campo, che trovano un neonato che piange
accanto ai corpi senza vita dei genitori. Oppure, forse in maniera ancora più evidente, una minore
linearità si riscontra nei finali, che si presentano volutamente irrisolti: ad esempio, a metà di Roma
città aperta Francesco sfugge ai fascisti, poi però se ne perdono le tracce; in Ladri di biciclette,
Ricci e Bruno si perdono tra la folla senza aver ritrovato la bicicletta: come proseguiranno, il film
non lo dice.
Mentre nel cinema classico si fa grande attenzione all'economia del racconto, tutto è
funzionale alla narrazione, anche nei momenti di passaggio si possono cogliere elementi utili a
collegarne le varie fasi. Non è così nei film neorealisti che tendono a riportare tutti gli eventi sullo
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Il neorealismo ha sempre più di un’anima - al di là delle differenze di stile fra i diversi autori. Si
fa portatore della “modernità” senza liberarsi completamente della “classicità”. Trasforma l'idea di
racconto cinematografico ricorrendo comunque alle soluzioni e agli effetti che sembra voler
superare; ad esempio, sostiene di voler lasciar parlare la realtà e non esita a farne uno strumento
didattico.
La sua ricchezza sta proprio in questa continua contraddizione, che significa capacità di
riconoscere l'infinita apertura e disponibilità del mondo del racconto, ma anche capacità di
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Con il neorealismo il paesaggio diviene coprotagonista delle storie e non semplice sfondo
scenografico. Molte immagini scorrono sotto i nostri occhi e mostrano, per esempio, Roma ancora
distrutta dalla guerra in Roma città aperta (1945) di Rossellini; ancora Roma in Ladri di
biciclette (1948) di De Sica, percorsa in lungo e in largo da un uomo, accompagnato dal figlio, alla
disperata ricerca della bicicletta che gli è stata rubata. Ma anche la Napoli dei bassifondi e dei
vicoli in Proibito rubare (1948) di Comencini; il mare della Sicilia in La terra trema; il litorale livornese
in Senza pietà (1948) di Lattuada; le risaie piemontesi in Riso amaro (1946) di De Santis.
aveva primeggiato negli anni 30, un obbligo; scelgono spesso di andare lungo le strade e di girare
in esterni, con un numero di tecnici ridotto, facendo recitare non attori professionisti ma spesso
gente comune.
Le soluzioni narrative e stilistiche del neorealismo ebbero grande influenza sul cinema
moderno internazionale. Le riprese in esterni con doppiaggio in studio, l'amalgama fra attori
professionisti e non, le trame fondate sulla casualità, le ellissi, i finali aperti, le microazioni e
l'accentuata alternanza di diversi toni drammatici sono tutte strategie che sarebbero state
Successivamente, nei primi anni Cinquanta, il neorealismo si tinge – per così dire - di rosa. In
presenza di condizioni politiche e sociali dell’Italia già un po’ diverse vennero realizzati film
considerati espressione del cosiddetto “neorealismo rosa”. Con questa definizione con cui si volle
indicare uno stile da commedia, rispetto al dramma o alla tragedia che erano stati i toni più
frequenti nelle opere precedenti: ma la cesura rispetto al neorealismo era forte e innegabile. Prima
presenti come eroine tragiche, le donne protagoniste sono ora raffigurate soprattutto come
fanciulle di belle speranze, in cerca del giovane da sposare. Tra i titoli più significativi di questa
tendenza, da ricordare Poveri ma belli (1956) di Dino Risi o Susanna tutta panna (1957) di Steno,
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bozzetti di un’Italia che vuol dimenticare gli anni difficili, quelli descritti dal neorealismo, e che
Peraltro negli anni Cinquanta e Sessanta l’intreccio tra divismo e immagine materna
emergerà in ruoli femminili chiave che producono letture identitarie e metaforiche. Anna Magnani,
che aveva interpretato in Roma città aperta (Rossellini, 1945) Pina, madre della Resistenza uccisa
dai tedeschi e prefiguratrice della rinascita italiana dopo la guerra sarà anche la madre volitiva
Nel frattempo era cambiato il clima storico e culturale del paese e la stagione del
successive, sia italiani (da Pier Paolo Pasolini a Gianni Amelio), sia stranieri (da Martin Scorsese ad
Abbas Kiarostami).
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Indice
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Molta della fama del cinema italiano, sia all’interno dei confini nazionali che all’estero, è
legata al movimento noto come “neorealismo”. Presa in senso stretto, questa etichetta definisce
una fase fondamentale della produzione dell’immediato secondo dopoguerra. Al tempo stesso,
però, essa è servita (e serve) anche ad interpretare i periodi sia successivi che precedenti della
storia del cinema italiano: gli studiosi hanno infatti spesso cercato di individuare nella vocazione ad
un cinema “della realtà” una sorta di filo rosso dell’intera produzione cinematografica nazionale.
Questo tentativo di ricondurre tutta la storia del cinema italiano ad una matrice realista è
un’operazione per certi aspetti assai problematica, perché tende a svalutare la produzione di
genere e ad istituire una gerarchia che valorizza il cinema impegnato a documentare la realtà a
scapito di quello di puro intrattenimento. Tale gerarchia, oltre ad essere opinabile di per sé, è
anche falsante perché spesso le due categorie si sono proficuamente ibridate, e il cinema italiano
ha prodotto molti film divertenti o appassionanti ma anche capaci di riflettere sui processi socio-
Detto questo, cercare di rintracciare i momenti precedenti al periodo del dopoguerra in cui
già si fosse manifestata un’attenzione alle condizioni delle classi subalterne può comunque essere
un’operazione interessante, innanzitutto perché essa consente di rintracciare il legame che esiste
Due dei più importanti film italiani dell’epoca muta, per esempio, ovvero Sperduti nel buio
(N. Martoglio, 1914, un film oggi andato perduto) e Assunta Spina (G. Serena, F. Bertini, 1915) erano
caratterizzati da un’ambientazione tra gli strati meno abbienti della società, di cui si illustravano le
vicende di passione e violenza con una certa crudezza. Mentre la maggior parte del cinema muto
film come Tigre reale, G. Pastrone, 1916 o Rapsodia satanica, N. Oxilia, 1917), i film succitati, così
come quelli realizzati dalla celebre regista napoletana Elvira Notari (‘A Santanotte, 1922; Fenesta
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che lucive, 1926 e molti altri) mescolano le convenzioni del melodramma con elementi di
naturalismo e verismo. Si tratta di un mix che, come vedremo, caratterizzerà il neorealismo stesso in
modo significativo.
Il cinema italiano, dopo una profonda crisi (di immaginazione, ma anche concretamente
produttiva) negli anni Venti, si ricostruisce con forza negli anni Trenta, col passaggio al sonoro,
anche per iniziativa del regime fascista. In questo periodo, non si può certo dire che la messa in
scena degli umili sia una delle caratteristiche fondamentali del cinema italiano: anche se il
fascismo tendeva a produrre pochi film esplicitamente di propaganda, perché credeva che il
cinema d’intrattenimento fosse un mezzo più sottile (più subdolo) di indottrinamento delle masse,
L’immagine dell’Italia promossa dal regime era quella di un paese prospero e armonico, scevro da
conflittualità di classe. In questo periodo, dunque, l’attenzione alle condizioni di vita del
proletariato era per lo più assente dallo schermo e, se esse venivano messe in scena, era in un
modo totalmente privo di ogni accento polemico di critica alle dinamiche strutturali della società.
D’altronde uno dei pochi film che provò invece a fare un’operazione di questo genere, Ragazzo
(Ivo Perilli, 1934), la storia delle difficoltà di un giovane operaio della periferia romana, fu censurato
dal regime: non fu mai mostrato in pubblico e le copie superstiti vennero poi trafugate dall’esercito
L’unico tratto che avvicina alcuni film degli anni Trenta a quello che sarà poi il cinema
neorealista è quello della veracità dialettale di alcuni personaggi, un elemento che ritroviamo in
contesti anche assai diversi quali la commedia romantica (Gli uomini, che mascalzoni!, M.
Sarà solo all’inizio degli anni Quaranta che un serie di film, pur prodotti ancora sotto l’egida
del regime, inizieranno a mostrare delle crepe nella rappresentazione di un tessuto sociale
uniforme e privo di problematicità, avvicinandosi così a piccoli passi alla critica sociale del
popolaresca, dirette da Mario Bonnard (Avanti, c’è posto…, 1942; Campo de’ fiori, 1943; L’ultima
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carrozzella, 1943), che rendono famosi attori poi cruciali per il neorealismo come Aldo Fabrizi e
Anna Magnani. In secondo luogo, si iniziano a dipingere dei ritratti meno conciliati di altri strati
melodrammatica delle vicende di una brava ragazza costretta a prostituirsi; I bambini ci guardano
(V. De Sica, 1943), struggente storia di un adulterio che sconvolge la vita di una famiglia della
borghesia romana; o Quattro passi tra le nuvole (A. Blasetti, 1942), che descrive il breve idillio
campagnolo di un commesso viaggiatore oppresso dalla sua vita familiare in città. D’altronde
anche in un film di genere del tutto diverso, la fantasia epico-avventurosa La corona di ferro (A.
Blasetti, 1941: oggi potremmo a tutti gli effetti definirlo un fantasy, un termine che allora
certamente non era ancora in voga) possono essere rintracciati elementi di critica alla logica di
regime, visto il personaggio centrale di un re dispotico a cui il racconto contrappone una logica
pacifista.
I tempi stavano insomma diventando gradualmente maturi per film più apertamente critici,
dal regime. La pellicola che svolse questa funzione e che divenne il simbolo della profonda
necessità di cambiamento non solo del cinema ma della società italiana tutta, fu Ossessione
(1943) di Luchino Visconti. Il film, che narra una storia di adulterio sullo scenario arido e agorafobico
delle paludi del Po, costituì per l’immaginario dell’epoca uno scossone che è per noi difficile
immaginare oggi, abituati come siamo a questo tipo di narrazioni incentrate sulla passione e sul
crimine. I protagonisti sono infatti due amanti (Massimo Girotti e Clara Calamai) che, desiderando
vivere apertamente il proprio amore adulterino, decidono di uccidere il marito di lei. Lo shock
causato dal film era dovuto anche al fatto che i due innamorati fedifraghi non erano dipinti come
essere malvagi: anche se le loro azioni rimangono moralmente riprovevoli, il pubblico è spinto ad
empatizzare con Gino e Giovanna, perché sono delle vittime della società, oppresse dalle strutture
del patriarcato (perfettamente impersonate dal corpo grasso, sudato e ribrezzevole del marito di
lei). I corpi dei due giovani sono al contrario attraenti e carichi di eros, un elemento descritto dal
film con estrema franchezza. L’insieme di questi elementi fece di Ossessione un film scandalo: se ne
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può avere la piena misura se si pensa che Vittorio Mussolini, figlio del Duce e direttore
dell’importante rivista «Cinema», lasciò una proiezione d’anteprima del film, nella primavera del
1943, sbattendo la porta ed esclamando “Questa non è l’Italia!”. Il regime di Mussolini padre
sarebbe però crollato di lì a poche settimane, aprendo la strada all’affermarsi in Italia del
Ossessione era anche un frutto maturo del dibattito che si andava svolgendo in quegli anni
sulle pagine della summenzionata rivista «Cinema», per cui scrivevano numerosi giovani intellettuali
(tra cui Michelangelo Antonioni e Carlo Lizzani) che sarebbero poi diventati nomi di punta del
cinema del dopoguerra, e che già costituivano una sorta di fronda al regime. Tra gli interventi più
importanti pubblicati su «Cinema», si segnalano quello dello stesso regista di Ossessione, Luchino
Visconti, autore di un saggio intitolato Cinema antropomorfico1, e quelli, risalenti già al 1941, di
Giuseppe De Santis (co-sceneggiatore e aiuto regista di Visconti sul set di Ossessione): Per un
paesaggio italiano e insieme a Massimo Mida, Verità e poesia. Verga e il cinema italiano2. Si tratta
di scritti da cui emerge una forte volontà di rinnovamento del cinema secondo due direttrici solo
apparentemente antitetiche.
umana, segnalando il bisogno di spogliare gli attori di mestiere dei loro tecnicismi e delle loro
affettazioni, per ritrovare la verità umana nelle loro performance. Per questo, egli anticipa già
l’idea di affidarsi ad interpreti non professionisti, presi dalla strada, che sarà una delle
caratteristiche principali del neorealismo suo e di altri cineasti. Visconti conclude il suo intervento
scrivendo che girerebbe di buon grande un film anche “davanti ad un muro scrostato”, se avesse
1
Luchino Visconti, Cinema antropomorfico, in «Cinema», VIII, 173/174, 25 settembre-25 ottobre 1943, pp. 108-109,
ora in Paolo Noto, Francesco Pitassio, Il cinema neorealista, Bologna, ArchetipoLibri, 2010, pp. 84-85.
2
Giuseppe De Santis, Per un paesaggio italiano, in «Cinema», VI, 116, 25 aprile 1941, pp. 292-293, ora in P. Noto, F.
Pitassio, Il cinema neorealista, cit., pp. 73-75; Giuseppe De Santis, Mario Alicata, Verità e poesia; Verga e il cinema
italiano, in «Cinema», VI, 127, 10 ottobre 1941, pp. 216-217, ora in P. Noto, F. Pitassio, Il cinema neorealista, cit., pp.
76-79.
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necessità, per il cinema italiano, di raccontare storie veriste i cui personaggi siano mostrati nella
loro interazione sottile, stratificata e profonda con la concretezza del proprio ambiente di vita,
anziché risultare avulsi da esso. Nell’articolo l’autore dimostra tra l’altro un notevole
come movimento autoctono e nazionale, qui De Santis richiama il modello del cinema statunitense
e francese degli anni Trenta, pieno di esempi virtuosi di uso del paesaggio che l’autore non
rintraccia invece nel cinema italiano prodotto sino a quel momento – salvo per qualche eccezione
recente come Piccolo mondo antico (M. Soldati, 1941) che grandemente si avvantaggia dello
legata alla figura umana, l’altra al paesaggio. Ma non lo sono davvero: un indizio della loro
vicinanza sta in un dettaglio del discorso dello stesso Visconti. Questi si proclama pronto, come
abbiamo visto, a costruire un intero film su un attore che reciti dinnanzi ad un muro. E qui sta il
punto: Visconti, infatti, non parla di un muro puro e semplice, ma di un muro “scrostato”. Anche se
ridotto al minimo, l’elemento dell’ambientazione, lo scenario che egli prospetta è comunque uno
“paesaggio” che deve riecheggiare in qualche modo il vissuto del personaggio. In quell’aggettivo,
“scrostato”, si può infatti già trovare l’idea di una relazione tra uomo e ambiente nel segno di una
dolente corrispondenza: il muro di sfondo e l’interpretazione che esso fa risaltare devono essere
entrambi grezzi, privi di affettazioni e segnati dalle peripezie di cui sono stati testimoni. Entrambi
informe, da contrapporre alla sofisticazione, alla prosopopea propagandistica e alla retorica che
caratterizzavano lo stile comunicativo del fascismo. Nel cinema italiano del dopoguerra, il
paesaggio e la figura umana costruiranno di fatto i due poli tensivi attorno a cui si articola tutto il
tentativo di un rinnovamento radicale della rappresentazione: per raccontare un’Italia nuova sarà
necessario tanto un cinema antropomorfico, che rintracci il suo innovativo verismo nella figura
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umana, tanto un cinema paesaggistico, che contestualizzi tale verità esistenziale in scenari
autentici che non nascondano più le reali condizioni di disagio del paese.
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I registi principali del neorealismo sono di fatto quattro 3. Dopo Ossessione, Visconti metterà
in scena un adattamento contemporaneo dei Malavoglia di Verga (La terra trema, 1948) e poi un
attori bambini (Bellissima, 1951). De Santis invece girerà una serie di film molto attenti alle
dinamiche del lavoro (soprattutto agricolo, ma non solo), interpretate in chiave marxista, e
melodrammatici e polizieschi nella trama: Caccia tragica (1946), Riso amaro (1949), Non c’è pace
tra gli ulivi (1950), Roma ore 11 (1952). Ma i nomi ancora più canonici del cinema neorealista sono
altri due: Roberto Rossellini e Vittorio De Sica, cui ci dedicheremo in dettaglio più avanti.
Prima di farlo, può essere però utile sintetizzare, nel complesso, le caratteristiche stilistiche
o Illuminazione naturale
senza alterarla)
3
Altri autori che firmano in questi anni dei film importanti, con alcuni tratti di prossimità al neorealismo, sono Alberto
Lattuada (Il bandito, 1946; Senza pietà, 1948; Il mulino del Po, 1949), Luigi Zampa (Vivere in pace, 1946; L’onorevole
Angelina, 1947), Renato Castellani (Sotto il sole di Roma, 1948), Pietro Germi (Il cammino della speranza, 1950),
Carlo Lizzani (Achtung! Banditi!, 1951).
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particolare dal fatto che Cinecittà, il grande teatro di posa costruito dal fascismo ed inaugurato
nel 1937 con le riprese di Scipione l’Africano (C. Gallone), era in quegli anni diventata un campo
profughi. Ospitava infatti numerosi sfollati rimasti senza casa a causa dei bombardamenti subiti
dalla città di Roma a partire dal 19 luglio 1943. Impossibilitati a girare all’interno dello studio, i registi
dovettero arrangiarsi diversamente. D’altronde, questo bisogno di uscire per strada e filmare storie
con persone comuni in spazi autentici, va connesso ad una spinta più profonda (quella di demolire
la retorica rappresentativa fascista e di rifondare l’immaginario collettivo italiano) e non può essere
ridotto meramente alle cause di forza maggiore che rendevano Cinecittà inagibile.
realtà rimase sempre assai limitato sul piano sonoro: il suono (i dialoghi, i rumori ecc.) del cinema
italiano in questi anni, e per molti anni ancora, non sarà mai in presa diretta, ma sempre realizzato
in post-sincronizzazione. Dunque, da un punto di vista uditivo, il cinema neorealista non sarà mai
integralmente autentico e immerso nella realtà come certa retorica semplicistica vorrebbe.
Nessuno dei testi canonici del neorealismo risponde integralmente a tutti quei requisiti, essi si
ritrovano soltanto in un neorealismo iperuranico, rimasto nel regno delle idee e mai realizzato
completamente. Ciascun film neorealista utilizza alcuni di quegli espedienti, e per di più non lo fa in
modo costante durante tutto l’arco della narrazione, scegliendo bensì di ibridare soluzioni
caratterizzato anche da alcuni momenti di innovazione stilistica, come vedremo nei prossimi
fortemente debitore delle formule del cinema di genere ed in particolare del melodramma.
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per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).
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Questo debito nei confronti delle forme popolari dell’intrattenimento non sottrae affatto valore a
un’autentica pietra miliare della storia del cinema non solo italiano, ma globale: il neorealismo fu e
rimane un modello di cinema indipendente e alternativo, fatto con pochi soldi e con un grande
impegno civile, che si servì tanto di tattiche innovative quanto di stilemi melodrammatici per
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3. Le trilogie di Rossellini
Roberto Rossellini è l’autore di una trilogia di film tra i più significativi film del neorealismo,
Roma città aperta (1945), Paisà (1946) e Germania anno zero (1948) Prima di essere un autore
fortemente associato col cinema postfascista, Rossellini aveva però in verità esordito con un’altra
trilogia (La nave bianca, 1941; Un pilota ritorna, 1942; L’uomo della croce, 1943) di chiaro impegno
propagandistico a sostegno del militarismo del regime. Si tratta di film non privi di forte interesse nei
termini della sperimentazione stilistica e narrativa (specie grazie ad una secchezza antiretorica non
interni alle logiche produttive del regime. Non fu d’altronde il solo Rossellini a passare indenne dalle
fila del cinema di regime a quello successivo: anzi, se vogliamo Rossellini fu uno dei pochi ad
attuare un’inversione di rotta talmente radicale da essere esplicita. Molti altri registi, attori,
produttori, lavoratori del set ed impiegati delle strutture burocratiche del cinema (censori, revisori)
passarono indenni dall’Italia fascista a quella repubblicana, fatto salvo per i casi di attori come
Osvaldo Valenti e Luisa Ferida, divi del fascismo che erano rimasti legati al regime anche quando
questo era stato costretto a rifugiarsi a nord con la Repubblica di Salò e che furono perciò fucilati
dai partigiani.
Ad ogni modo, per tornare a Rossellini, nel 1945 egli gira Roma città aperta, un film
straordinario che racconta la collaborazione di tutte le componenti del popolo italiano per
personaggi rappresentano ognuno uno strato diverso della società, in modo programmatico:
l’ingegner Manfredi (Marcello Pagliero) è un membro del Partito Comunista, Don Pietro (Aldo
Fabrizi) rappresenta l’impegno della Chiesa cattolica nelle fila della Resistenza (il personaggio si
ispira a due preti realmente esistiti, Don Pietro Pappagallo, morto alle Fosse Ardeatine, e don
Giuseppe Morosini), la sora Pina di Anna Magnani rappresenta invece la componente popolare,
non guidata da alcuna chiave di lettura ideologica precisa (a differenza dei due personaggi
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e che doveva sposare quel giorno stesso, Pina reagirà con un’esplosione ribelle di rabbia e
disperazione incontenibili, mettendosi ad inseguire il camion su cui portano via il suo amato e
venendo così falcidiata dalle scariche di mitra naziste. Questa scena, probabilmente la più famosa
del neorealismo, ove non del cinema italiano tutto, condensa in sé con grande efficacia la forza
dirompente del neorealismo. Essa fu realizzata con ben otto diverse macchine da presa, che
consentirono a Rossellini di catturare la corsa disperata della Magnani e restituirla in tutta la sua
carica violenta e struggente. Il realismo di Roma città aperta non è perciò un realismo
dell’improvvisazione: al contrario, il film è del tutto indimenticabile proprio per la sua forza
melodrammatica, per il pathos che esso mette nel racconto della lotta contro l’oppressione e
l’ingiustizia.
Tutto il film è d’altronde scritto con grandissima sapienza (nelle fila degli sceneggiatori
compare, tra gli altri, Federico Fellini), alternando momenti di analisi della situazione storica
suspense.
Anche a livello stilistico, se da una parte il film è famoso per il suo utilizzo degli esterni reali e
del paesaggio urbano della capitale devastata dai bombardamenti, al tempo stesso tutta la
seconda parte del film si svolge invece in interni, allorché l’ingegner Manfredi e Don Pietro
vengono catturati ed imprigionati nella prigione del quartier generale romano della Gestapo, a via
Tasso. Questo ambiente è filmato da Rossellini come uno spazio carico di ombre, in un modo che
ricorda chiaramente il modello del cinema espressionista tedesco (il che risulta evidentemente
Tanto a livello dei registri narrativi quanto in termini di stile, dunque, il film è un ibrido di
diverse opzioni della messa in scena, talune più tendenti al realismo, talaltre nettamente di meno,
ma tutte molto efficaci a proporre il ritratto di un popolo in ginocchio che si risolleva, per prendere
in mano il destino del proprio paese e condurlo verso la democrazia. Tale speranza nel futuro è
simboleggiata dal gruppo di bambini e ragazzini che popola il film, e che nel finale vediamo
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stagliarsi sul panorama della città dominato dalla cupola di San Pietro: un esempio perfetto di quel
rapporto tensivo tra la figura umana e l’ambiente che caratterizza tutto il neorealismo.
I film successivi della trilogia della guerra antifascista di Rossellini presentano caratteristiche
diverse. Paisà (1946) è un film a sei episodi, ciascuno dei quali è ambientato in una regione italiana
diversa, a partire dalla Sicilia fino al delta del Po: il film descrive in questo modo un movimento
ascensionale, da sud verso nord, che replica l’avanzata dell’esercito americano nella penisola e
contemporaneamente prosegue nella messa in forma narrativa, già proposta da Roma città
aperta, dell’idea dell’Italia come collettività frammentaria ma solidale che collabora alla rinascita.
Gli episodi sono marcatamente diversi gli uni dagli altri: a fronte dell’episodio romano, dominato
l’episodio finale, che racconta la resistenza partigiana sul Po, è un esperimento stilistico-narrativo
originalissimo con i tempi morti. Anziché mettere in scena gli eventi salienti, Rossellini tende a
guerriglia partigiana.
zero (1948), in cui Rossellini, tra i primi a filmare nella Berlino completamente distrutta dai
bombardamenti, racconta la storia di un bambino che non riesce a scrollarsi di dosso il senso
passeggiate senza scopo del piccolo Edmund tra le rovine (che si concluderanno col suo suicidio)
rappresentano uno dei punti più alti sia della rarefazione del ritmo narrativo che caratterizza le
punte più sperimentali del neorealismo, sia di quel rapporto significativo tra figura umana e
ambiente che veniva propugnato già anni prima sulle pagine di “Cinema”.
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La trilogia antifascista di Rossellini, presa nel suo complesso, descrive una traiettoria
dell’umore nazionale piuttosto peculiare: si passa, potremmo dire, dal neorealismo della
collaborazione collettiva, della speranza e del sacrificio comune, rappresentato da Roma città
rappresentato da Germania anno zero ma già anticipato proprio nell’episodio di Paisà dedicato
ripartenza nutrite inizialmente dalla protagonista si scontrano presto con la cruda realtà di una
filmografia neorealista di Vittorio De Sica. De Sica è autore di almeno tre tra i massimi capolavori
fondativi del canone, ovvero Sciuscià (1946), Ladri di biciclette (1948) e Umberto D (1952), a cui
andrebbe aggiunto un frutto tardivo del genere, Il tetto (1956). Questi film non sono in verità frutto
solo del genio registico di De Sica, che comunque non va sottovalutato. Co-autore a pieno titolo è
lo sceneggiatore Cesare Zavattini, uno dei principali teorici del neorealismo. Particolarmente
importante è la teoria zavattiniana del “pedinamento”, ovvero del bisogno del cinema di uscire
dalle trappole della finzione, per seguire invece da vicino le vite delle persone comuni nei loro
aspetti più quotidiani, aspetti degni di attenzione pari ed anzi superiore a quella usualmente
lustrascarpe romani che si guadagnano da vivere come meglio possono nel contesto spietato
della capitale occupata. Finiti ingiustamente in riformatorio, i due rimangono vittima delle violenze
dei sorveglianti così come delle lotte tra le fazioni dei loro compagni, ma ancor peggio della
traumatica esperienza carceraria sarà la tragica fuga finale. Il film, un’aspra denuncia del sistema
di rieducazione, segue nella prima parte la poetica zavattiniana del pedinamento, rimanendo
spesso all’altezza dei due piccoli protagonisti mentre questi navigano lo spazio della città in
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subbuglio. Nella seconda parte, opzioni di messa in scena più melodrammatica (in particolare una
fotografia assai contrastata) sono funzionali al racconto degli aspetti più violenti e disperati della
vicenda.
famiglia disoccupato che vive in una borgata ai margini di Roma. Quando finalmente riesce a
trovare un lavoro come attacchino, si vede rubare sotto il naso al primo giorno d’impiego la
bicicletta, mezzo per lui essenziale sia per raggiungere il centro della città dalla borgata lontana,
sia per svolgere il proprio lavoro rispettando i tempi richiesti. Il film racconta perciò del disperato
tentativo di Antonio di ritrovare il mezzo rubato, accompagnato dal figlioletto Bruno. La città di
Roma si configura qui come un vero e proprio labirinto infernale, respingente e aggressivo, che
restituisce continuamente ai protagonisti il senso della loro insignificanza. L’utilizzo degli spazi della
città dal vero raggiunge qui il suo massimo livello di efficacia espressiva, utilizzando i diversi aspetti
del paesaggio architettonico romano per raccontare questa commovente storia di sconfitta
sociale.
ridotto ormai sul lastrico, sfrattato dalla sua camera ammobiliata e condannato perciò a girare per
Roma con la sola compagnia del suo cagnetto, e la vicenda di due sposini novelli che non
riescono a trovare un appartamento dal prezzo abbordabile dalle loro povere tasche (lui è
muratore, lei domestica) e si trovano dunque costretti a costruire nottetempo una capanna con
mezzi di fortuna presso una borgata abusiva in prossimità dei binari della ferrovia. Celebre, nel
primo film, la scena del risveglio del personaggio della cameriera, filmata con assoluta lentezza e
attenzione ai gesti minimi del personaggio: un momento in cui la ricerca della verità nei dettagli
significanti del vissuto del personaggio tramite la dilatazione della messa in scena approssima gli
neorealismo di De Sica e Zavattini è davvero rimarchevole perché dipinge senza mezzi termini
situazioni sociali davvero difficili. Questi film sono, di fatto, dei pugni nello stomaco.
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Proprio per questo, essi diventeranno presto invisi alla classe dirigente democristiana, che
domina la politica italiana (ma non la sua sfera culturale) dopo la fine del periodo di transizione e
collaborazione di tutti i partiti antifascisti tra il 1945 e il 1948. Le affermazioni del Sottosegretario allo
Spettacolo democristiano Giulio Andreotti a proposito di Umberto D sono rimaste nella storia: “I
panni sporchi si lavano in casa”. Il politico lamentava che il cinema italiano proponesse
un’immagine troppo negativa della vita del paese: una posizione che non può non ricordare le
simili proteste del rampollo del Duce di fronte ad Ossessione. Mutatis mutandis, le élite politiche
sembrano sempre osteggiare la spinta dei cineasti italiani a raccontare le realtà del paese.
Ma al di là di qualsiasi sforzo di censura più o meno esplicito, questi film sopravvivono nella
memoria degli spettatori di tutto il mondo4 e rappresentano, allora come adesso, un formidabile
passaporto con cui l’Italia si afferma sullo scenario del cinema internazionale, esercitando
4
Sia Sciuscià che Ladri di biciclette vinsero degli Oscar speciali per il Miglior film straniero, prima ancora che questa
categoria fosse ufficialmente istituita.
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Indice
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Dai primi del ‘900 il cinema diventa presto il leader dello spettacolo nello spazio pubblico,
sottraendo spazio al teatro e più in generale allo spettacolo dal vivo. Il cinema è fiero della sua
tecnologia che passa dai 16 fotogrammi al secondo del cinema muto ai 24 fotogrammi al
secondo del periodo del sonoro. La televisione di fotogrammi ne trasmette 25 al secondo ma con
una tecnologia diversa dalla pellicola e dal proiettore cinematografico; una tecnologia in cui la
La televisione era già pronta ad un’ampia diffusione prima della II guerra mondiale. Essa
costituiva una risposta competitiva alla grande attrattiva del cinema sonoro, che minacciava il
successo della radio, ed era stata sviluppata all’interno degli enti e delle imprese radiofoniche di
vari paesi. Germania e Inghilterra avevano iniziato, sia pure con un numero di apparecchi molto
modesto, un servizio regolare nel 1936. Ad essi si era aggiunta più tardi la Francia.
Gli Stati Uniti avevano lanciato la televisione con gran clamore alla mostra internazionale di
New York nel 1939. Italia ed Unione Sovietica, con tecnologia tedesca, cominciano i loro
esperimenti nel 1938-39. La guerra, come è noto, frenò e poi subito arrestò la televisione. La
tecnologia andava curvata sulle sue applicazioni belliche e mancavano anche le condizioni di
intrattenimento.
L’avvento in grande stile della televisione si colloca dopo il 1945. In particolare negli Stati
Uniti, con l’Unione Sovietica il principale vincitore della Seconda guerra mondiale ma anche il più
ricco e aperto a una libera economia di mercato, tra il 1948 e il 1952 avviene il decollo della
televisione con successi e fenomeni di costume mai conosciuti prima e così originali da generare
Nel 1947 una conferenza internazionale a Atlantic City nel New Jersey (luogo emblematico
dei nuovi assetti mondiali) pianificò le frequenze su scala mondiale a tutto vantaggio dei paesi
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vincitori. Qui i delegati di 60 Paesi presenti alla Conferenza mondiale delle radiocomunicazioni
movimento.
Nel 1951 una trasmissione che sarebbe divenuta celebre, “See it now”, con Eward Murrow,
esordì presentando lo schermo diviso in due (split screen), da una parte il Ponte di Brooklyn e
Il modello americano si fonda sulla competizione tra più network, finanziate dagli investitori
pubblicitari e gratuite per lo spettatore. I tre network del panorama televisivo americano erano (in
ordine di “prima trasmissione televisiva”) NBC (1938), CBS (1941) ed ABC (1948). La pubblicità
televisiva si attivò nel 1941: la NBC trasmise il primo spot pubblicitario televisivo (riguarda gli orologi
Bulova). Ma nel gennaio 1942 le trasmissioni furono sospese per il coinvolgimento degli USA nella
guerra; solo 7000 erano comunque gli apparecchi televisivi in funzione nell'intero Paese, quasi tutti
Nell’Europa distrutta dalla guerra, le prospettive del nuovo mezzo erano diverse. Il
continente era diviso in due dagli accordi di Yalta, per alcuni considerati l'origine della Guerra
espansionismo sovietico; secondo altri analisti, politici e storici avrebbe rappresentato invece
l'ultimo momento di reale collaborazione tra le tre grandi potenze vincitrici della seconda guerra
mondiale, i cui risultati sarebbero stati vanificati soprattutto a causa di una serie di decisioni prese
da parte occidentale. Per l’Italia, inserita tra i paesi del blocco occidentale a televisione, al di là
dei poco fattivi tentativi compiuti nell’anteguerra, si presentava come un elemento della
un blocco politico-militare in cui gli Stati Uniti avevano il ruolo dei protagonisti. Questa era
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un’assoluta novità per chi aveva vissuto tra le due guerre ed era abituato a stati nazionali
La televisione aveva la possibilità di illustrare in ogni casa i vantaggi veri o presunti della
nuova situazione politica ed esibire il benessere prima ancora che fosse materialmente arrivato
nelle famiglie, anche attraverso la presentazione di esempi o storie presi dalla realtà americana o
da quanto avveniva nelle parti più avanzate di ciascun paese. In questa che è stata chiamata la
Il sistema sovietico puntava molto sui risultati che affermava di aver ottenuto nella sfera
pubblica (scienza, tecnologia, ricerca spaziale), che in televisione apparivano come goffe «opere
del regime» e non sui sentimenti e i consumi familiari, che rappresentano il vero specifico del
broadcasting.
La televisione è vista ovunque come parte di un «servizio culturale» che lo stato eroga
stabilisce gli standard. Come il telefono e la posta, la televisione – insieme alla radio – deve
Usufruire della tv diventa sempre più un diritto: per assicurarlo tutti i paesi europei
ricorreranno a un monopolio pubblico, con l’eccezione dell’Inghilterra che avrà una rete
ammessa, gli investitori faticano ad accedere a quella risorsa esigua e rara che è lo spazio
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collegamento con il broadcasting; ne hanno invece con il potere politico che fissa gli standard.
L’assenza di un rapporto con il mercato non rappresenta nella fase di sviluppo della
televisione un problema, perché c’è abbondanza di denaro. Gli investimenti iniziali della
L’alta cultura, che dominava l’università, la produzione libraria e i commenti della stampa,
la scuola, avevano necessità di essere rassicurati sulla funzione formativa della tv, ma anche sul suo
carattere divulgativo che significava, implicitamente, la sua collocazione a un livello culturale più
basso di quello che le élite culturali occupavano. I giornali volevano la sicurezza che la pubblicità
televisiva non erodesse la loro principale fonte di ricavi. Il cinema non voleva perdere troppi
spettatori: i film trasmessi in televisione dovevano essere pochi, vecchi, e messi in onda in giorni che
La scuola infine temeva la concorrenza con i modi più facili della televisione, assai attrattivi
per i bambini e i ragazzi, e voleva una programmazione educativa che fosse complementare alla
scuola e mai in concorrenza con essa. In tutti questi campi fu più o meno rapidamente trovato un
accordo. Con queste premesse comuni, anche l’offerta di programmi delle varie televisioni
Si trattava di un’offerta limitata e diretta dall’alto. Era una televisione in bianco e nero e
con un solo canale, aperto per poche ore al giorno per non ostacolare lo studio, il lavoro, il riposo.
Solo negli anni ’60 arriverà il secondo canale che obbedirà a regole di complementarità rispetto al
primo.
l’elenco dei programmi, come un’antica pergamena «raschiata e scritta di nuovo» testimonianza
Nel palinsesto, ogni serata era dedicata a un diverso genere: si pensava dunque a una
televisione di appuntamenti attesi con ansia («festiva»), che veniva accesa quando si era
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interessati a un determinato programma, non alla fruizione continua del televisore acceso come in
L’indice di ascolto, così importante per la televisione americana, non aveva alcun interesse
per i dirigenti delle tv europee. Per loro era importante soltanto valutare il «gradimento» dei
programmi, essere cioè rassicurati circa la loro qualità e la funzione svolta presso gli spettatori.
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tra anni ’50 e ‘60, ha contribuito alla crescita culturale con i programmi educativi: dagli
“sceneggiati” da opere letterarie e teatrali, a Telescuola (1958-66), a Non è mai troppo tardi (1960-
68).
soprattutto:
benessere
Nelle forme dello spettacolo e nelle immagini della società diffuse dai programmi televisivi
consumare. Fa conoscere le marche, i prodotti, spiega come usarli (ad esempio, come si fa il the)
e perché sono importanti. Ciò passa naturalmente attraverso la sorvegliata pubblicità televisiva di
indubbiamente c’è, ma esso si incarica anche di educare alla modernità. Da questo punto di
vista, il quiz è paradigmatico. E’ una trasparente metafora dell’ascesa sociale attraverso il duro
studio che separa il concorrente dalla gente comune dalla quale pur proviene.
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“La Rai, Radio Televisione italiana, inizia oggi il suo regolare servizio di trasmissioni televisive.
Torino e di Roma;
Ore 17.30 Le miserie del Signor Travet, film diretto da Mario Soldati
gennaio 1954 non esistono filmati originali, essendo una telecronaca diretta, e dieci anni dopo Ugo
Zatterin farà recitare il palinsesto di quel fatidico giorno all'annunciatrice della sede TV di Milano, la
già citata Fulvia Colombo. Il 4 giugno dello stesso anno viene nominato il primo amministratore
delegato della Rai, Filiberto Guala, ingegnere torinese, vicino alle posizioni del gruppo di Dossetti,
Fanfani e La Pira.
Se nei primi anni dall’avvento della televisione in Italia, paese ancora agricolo-comunitario,
la gente si riuniva nelle piazze, nei bar, nei cinema, nei teatri per assistere alla programmazione,
successivamente, con il boom economico (fine anni ’50), iniziò la tendenza all’acquisto del proprio
apparecchio televisivo da mettere in casa. La situazione degli abbonamenti dal 1954 al 1964 è di
seguito riportata:
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La TV è una sorta di grande orologio che scandisce, attraverso i suoi ritmi, i suoi
unificazione all’interno di un tessuto sociale che non disdegna di rivelare le sue trame, rispecchia i
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3. Il progetto pedagogico
La Rai, che il 10 aprile 1954, cambia la denominazione sociale da Radio Audizioni Italiane
orientato a educare, informare, intrattenere. La programmazione dei primi anni televisivi riguarda
soddisfare un pubblico esteso, anche non acculturato. Delle 28 ore settimanali occupate dal
servizio televisivo degli esordi, la maggior parte è dedicata ai varietà, ai giochi e ai quiz che
entrano a far parte dell’immaginario collettivo. Si tratta di programmi con una struttura
elementare, basata sul ruolo centrale del presentatore e sulla facilità dei contenuti.
L’esempio più significativo è rappresentato da Lascia o raddoppia? che nel 1955 inaugura
tipo di linguaggio che in poco tempo andrà a cambiare il lessico comune. Espressioni folcloristiche
o allocuzioni gergali come nientepopodimenoche di Mario Riva o il fiato alle trombe di Bongiorno
entrano a far parte del frasario quotidiano, che inizia in questi anni la sua repentina omologazione
È vero, come è stato da più parti sottolineato anche seguendo le considerazioni del
linguista Tullio De Mauro, che il nuovo mezzo contribuisce all’unificazione linguistica delle classi
popolari, trasformando l’italiano nella lingua nazionale. Ma tale unificazione avviene anche
trasformare alcuni aspetti della via quotidiana. Nella sua funzione di veicolo di intrattenimento, il
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non particolarmente varia. Sino alla fine degli anni Cinquanta, infatti, le ore dedicate
all’intrattenimento sono ancora poche. Esistono due fasce orarie, dalle 17,30 alle 19 con
trasmissioni dedicate ai ragazzi, e dalle 20,45 alle 23 con programmi per adulti, con l’unica fascia
mattutina domenicale per la tradizionale funzione religiosa. Lo schema giornaliero rimane fisso per
parecchio tempo, spaziando dal quiz alla serata di prosa, dallo sceneggiato alla rivista di varietà,
promuovere e diffondere quei valori morali sui quali l’Italia aveva costruito la propria identità. Valori
improntati naturalmente alla serietà, allo spirito di sacrificio, al rigore, al senso della misura, alla
morigeratezza nei comportamenti, filtrati attraverso programmi in linea con la morale corrente.
In questa direzione fondamentale è il ruolo della Democrazia Cristiana, il partito che per
primo ha intuito l’importanza della televisione ai fini politici e di consenso, che inserisce propri
uomini ai vertici della tv inaugurando una prassi che rimarrà immutata fino ai nostri giorni. I governi
cattolico-moderati, appoggiati in questa funzione dalla Chiesa, affiancano agli intenti pedagogici
intenti di persuasione politica peraltro del tutto inefficaci: da quando nasce la TV la DC perde
progressivamente consensi. A sua volta il PCI aumenta continuamente i suoi suffragi finché non è
ammesso a controllare segmenti della TV di Stato, poi inizia a perderli. La televisione occidentale
I film e gli sceneggiati, ma pure i varietà e i quiz, dovevano far immedesimare lo spettatore
in un mondo ovattato ma moralmente corretto, lontano dagli sfarzi e dagli eccessi della sempre
più criticata american way of life. Il modello americano, spregiudicato e libertino, costituisce infatti
l’ossessione dei cattolici (ma anche, pur per ragioni differenti, dei comunisti) che combattono
commuovere, ma soprattutto di incentivare e insegnare uno stile di vita consono al buon cristiano.
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Funzionali a tal proposito sono gli sceneggiati che, riproponendo romanzi ottocenteschi
celebrano i buoni sentimenti. Un esempio fu Il dottor Antonio, il primo romanzo sceneggiato del
1954, diretto da Alberto Casella, tratto dal romanzo di Giovanni Ruffini o, più tardi, Piccolo mondo
antico o ancora Umiliati e offesi sono scelti per promuovere un modello sociale improntato all’idea
dell’unità della famiglia e della purezza dei costumi. Non è un caso che vengano diffuse delle vere
e proprie «norme di autodisciplina» della Rai-tv, da utilizzare come guida per i censori per
cancellare o proibire scene o linguaggi troppo trasgressivi. Peraltro la loro effettiva circolazione e
Nella campagna per la moralizzazione dei costumi, avviata dalla DC nel dopoguerra,
rientra dunque anche l’attenzione alla televisione, il cui compito era quello di impedire quei
A lanciare i consumi arriverà poi Carosello, che dal 3 febbraio 1957 inaugura l’era della
pubblicità sotto forma di racconto. Due minuti di ministoria trasmessa subito dopo il telegiornale, in
un appuntamento che diventa parte integrante della vita degli italiani, fino a scandirne addirittura
il tempo («andare a letto dopo Carosello»). Sullo sfondo delle piazze o dei monumenti più o meno
celebri d’Italia si ambientano le scene che, con protagonisti o simboli che entrano di prepotenza
nell’immaginario nazionale, sono finalizzate a propagandare questo o quel prodotto. Una maniera
domestici con quelli consumistici ed edonistici. Tali aspettative coincidevano, infatti, con il
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da
copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).
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Anna Bisogno - Il cinema a colori
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1. I principali esperimenti
La ricerca e la sperimentazione del colore hanno accompagnato il cinema fin dalle origini
con la luce che svolge un ruolo centrale per distinguere atmosfere, oggetti, dividere gli spazi,
che è pertinente alla narrazione, e dunque l’illuminazione intradiegetica si riferisce a una luce che
entra nella narrazione e di cui lo spettatore vede la fonte. La extradiegetica invece è una luce la
cui fonte resta nascosta all’occhio dello spettatore, ma che può svolgere una funzione
determinante nella definizione figurativa dell’inquadratura. Nella luce intradiegetica le fonti di luce
fanno parte della messa in scena, cioè della storia raccontata (lucerne, candele, ecc.); in quella
extradiegetica l’illuminazione è prodotta da riflettori e superfici riflettenti collocate sul set del film,
L’utilizzo della luce si differenzia tra un genere e l’altro: il cinema comico predilige luci
diffuse, in modo che siano sempre visibili i movimenti e la mimica dei personaggi e che sia sempre
chiara la situazione. Un bon esempio è costituito dalle scansioni di luce in City Lights (1931) di
Charlie Chaplin, dove il livello di luce della notte nella scena del tentato suicidio è tenue, mentre
quello dell’incontro con la giovane fioraia - il lieto fine - è luminoso, immerso nella luce chiara del
mattino.
sottolinea. Così facendo, detta le atmosfere e genera emozioni più forti. Ne è un esempio il cinema
espressionista tedesco degli anni Dieci e Venti del Novecento, dove l’utilizzo della luce serve a
Oppure, ancora, l’utilizzo della luce può diventare addirittura la cifra che caratterizza, oltre
che un genere, un regista o una casa di produzione. È quanto accade nello studio system
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hollywoodiano. Negli anni Trenta, ad esempio, l’illuminazione dai forti contrasti caratterizza i
esperimenti, molti dei quali non portarono ai risultati sperati. Tra la fine degli anni Venti e la fine
procedimenti diversi, fino a quando ebbero inizio le prime esperienze concrete per ottenere
immagini colorate per sintesi additiva o sottrattiva a partire da due o tre colori primari (come, ad
Ancora prima della nascita del cinema, già nel 1892, ci furono dei tentativi ad opera di
Charles-Émile Reynaud, considerato un precursore del cinema d’animazione, per utilizzare il colore
per le sue pantomime luminose, proiettate al Museo Grévin di Parigi. Egli dipinse a mano ogni
singola immagine e applicò le sue tinture a pastello direttamente sulla pellicola. Ciò fece di lui il
primo realizzatore di disegni animati a colori. Dopo di lui, nel 1894, uno dei film prodotti da Thomas
Edison venne colorato anch’esso a mano, fotogramma per fotogramma. Il film in questione è
Serpentine Dance (La danza della Farfalla), un cortometraggio della durata di venti secondi circa
realizzato per il kinetoscopio, nel quale una danzatrice compie giravolte producendo effetti
deformanti. Si tratta della prima apparizione del colore applicato a una ripresa fotografica
Dopo l’invenzione dei Lumière, si svilupparono due sistemi per colorare le pellicole.
Un primo sistema consisteva nel dipingere con pennelli sottilissimi ogni singolo fotogramma,
come fece per alcuni suoi film uno dei pionieri del cinema, George Méliès. Questa tecnica
era molto onerosa ma gli effetti spettacolari garantiti. Le produzioni Pathé, Gaumont e
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L’altro sistema, più veloce e più diffuso, consisteva nel dare alla pellicola un colore uniforme
per ciascuna sequenza o inquadratura. Questo effetto si poteva ottenere applicando una
vernice colorata sul supporto della pellicola, o attraverso il viraggio, ovvero utilizzando una
Nel 1911 il britannico George Albert Smith con l’americano Charles Urban elaborò un
procedimento che produceva un effetto illusorio del colore su una pellicola in bianco e nero, il
Kinemacolor. Si trattava di un processo che proiettava una pellicola in bianco e nero dietro filtri
alternati rosso e verde. L’idea fu accolta favorevolmente ma quasi subito mostrò tutti i suoi limiti, a
cominciare dagli alti costi di installazione di specifici proiettori nelle sale cinematografiche oltre che
e nero. Le riprese venivano realizzate attraverso una pesante camera da presa, che
contemporaneamente faceva scorrere tre strati di pellicola in bianco e nero sincronizzate tra loro
e che rappresentavano le matrici di ciascun colore primario (rosso, giallo, blu). Sin dagli anni Venti,
col Technicolor si realizzarono film d’animazione, musicali, in costume, western, poiché era
evidente che l’uso del colore produceva effetti di particolare spettacolarità ed epicità. Più tardi il
Dopo il Technicolor, negli Stati Uniti nasce l’altra importante tecnica per conferire colore
alle pellicole, l’Eastmancolor, che - a tutt’oggi - risulta il procedimento più utilizzato del mondo. Fu
introdotto nel 1950 dalla Eastman Kodak e costituì una valida alternativa economica al
Technicolor: forniva un colore più reale alla pellicola cinematografica, con tinte né troppo cariche,
né troppo sbiadite. Dopo la sua introduzione, fu continuamente perfezionato negli anni successivi.
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In Italia, inizialmente, si optò per una tecnologia nazionale che risultava più economica e
aveva già dato buoni risultati nella fotografia degli anni Venti, il Ferraniacolor, che inaugura la
stagione del colore nel cinema italiano con Totò a colori (1952) per la regia di Steno. Il
procedimento tuttavia presentava un forte limite dal momento che i colori risultavano eccessivi,
troppo forti, oltre che instabili. Ne è un esempio Gran varietà (1954) con Renato Rascel, Vittorio De
Sica e Alberto Sordi i cui colori sono talmente accesi da far sembrare i protagonisti e gli ambienti
quasi irreali. Così a partire dal 1955 fu sostituito in favore dell’Eastmancolor che forniva maggiori
garanzie e risultava anche più economico. Il suo primo utilizzo in Italia fu applicato al film Pane,
amore e… (1955), con Sophia Loren e Vittorio De Sica e a seguire, con risultati addirittura superiori,
con Venezia, la luna e tu (1958) con Alberto Sordi e Marisa Allasio, dove non si registrano particolari
sbavature cromatiche.
In campo cinematografico gli anni ’60 si caratterizzeranno anche per una divisione tra chi
sostiene le pellicole in bianco e nero e chi, invece, quelle a colori; il bianco e nero fu generalmente
utilizzato per i film più impegnati, mentre il colore connotava all’inizio i film più popolari e
commerciali. Questa distinzione, che a tratti fu anche una contrapposizione, si stemperò col tempo
in una graduale generalizzazione del colore, rimanendo il bianco e nero una scelta di nicchia.
Tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta arriva il Cinemascope,
utilizzabile in egual modo sia per il bianco e nero che per il colore. Si tratta di un sistema di tecnica
di ripresa e di proiezione cinematografica, oggi non più in uso, che permette di allargare, in
orizzontale, il campo visivo attraverso particolari lenti e schermi più grandi del normale. Il sistema fu
brevettato e lanciato sul mercato negli anni Cinquanta dalla 20th Century Fox. Troviamo l’utilizzo
del Cinemascope per la prima volta ne La tunica (1953), con Richard Burton e in Italia in Giove in
doppiopetto (1955) di Daniele D'Anza, con Carlo Dapporto e Delia Scala, trasposizione
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Il Cinemascope paradossalmente rilancia il bianco e nero e gli dà nuova linfa sia negli Stati
Uniti che in Italia. Qui a titolo di esempio si possono citare due film celebri film fra i massimi risultati
fotografici italiani, entrambi del 1960: Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti (con la fotografia di
Giuseppe Rotunno) e La dolce vita di Federico Fellini (fotografia di Otello Martelli) a cui il
Cinemascope fornisce un contributo straordinario sotto il profilo stilistico e della intensità delle
immagini.
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Il bianco e nero sopravvive ancora nei film di Michelangelo Antonioni L’avventura (1960),
La notte (1961) e L’eclisse (1962), che si servirà del colore in maniera simbolica ne Il deserto rosso
(1964), dove il colore rosso fa evidentemente riferimento a quello dei sentimenti. Ma realizzare
ancora un film in bianco e nero diventa costoso, impegnativo sotto il profilo tecnico e con una
Dalla metà degli anni Sessanta quella del colore diventa una strada ineludibile. Il colore è
finalmente liberato, con le opere di Fellini, Antonioni, Godard e può esprimere tutto il suo
forma al film.
In Italia da questo momento in poi viene usato come espediente per flash back, salti
Ettore Scola (1974), con Vittorio Gassman, Nino Manfredi e Stefano Satta Flores: le scene della lotta
partigiana all’inizio sono girate in bianco e nero, mentre il resto del film è realizzato a colori.
Gli anni Settanta sono anche gli anni in cui i grandi autori del dopoguerra danno ancora
robusta testimonianza della propria presenza: si pensi a Vittorio De Sica (Il giardino dei Finzi Contini,
1971), Roberto Rossellini che – tra l’altro - inizia a sperimentare programmi storico-didattici per la
televisione, Luchino Visconti (Morte a Venezia, 1971), Federico Fellini (Amarcord, 1973),
Sono questi anche gli anni in cui giungono a maturità espressiva registi come Bernardo
Bertolucci (Ultimo tango a Parigi, 1972) e Marco Ferreri (La grande abbuffata, 1973).
Questi anni, al tempo stesso, coincidono con una fase complessa e non omogenea del
riesce ad essere competitiva nei confronti del cinema americano, dall’altro l’inizio di una crisi che
italiana subisce una battuta d’arresto. Alla florida stagione degli anni ’60 si contrappone un
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Ettore Scola con il suo C’eravamo tanto amati si assunse in qualche modo l’impegno di
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Indice
1. L’ITALIA E LA TV ........................................................................................................................................ 3
2. GLI INTELLETTUALI E IL NUOVO MEZZO ................................................................................................... 6
3. UNO STRUMENTO PEDAGOGICO E DI MASSA ...................................................................................... 9
BIBLIOGRAFIA ................................................................................................................................................. 12
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1. L’Italia e la TV
L’impatto sulla cultura, specialmente quella “alta”, il suo importante ruolo nella costruzione
culturale nel nostro Paese. Sin dalle sue origini, infatti, la televisione entra prepotentemente nelle
Gli ambiti in cui si esplica l'attività della giovane televisione italiana riflettono i bisogni e
l’obbligo del nuovo, proprio del tempo moderno, attraversando le coscienze di un Paese ancora
povero a seguito dell’esperienza tragica della Seconda guerra mondiale, ma con una forte spinta
attraverso testi scritti e stampati a quella visuale e audiovisiva, che la pittura e la fotografia
avevano inaugurato. Anche il cinema si è mosso nella stessa direzione, conferendo movimento e
distanze tra classi sociali, ma in forme, tempi, narrazioni diverse dalla televisione, che si propone
come un vedere lontano e come un mezzo che volge lo sguardo oltre la miseria di un vissuto di
povertà.
La radio, dal canto suo, aveva cercato di annullare le distanze, entrando nelle case e nella
quotidianità delle famiglie, ma non come il mezzo televisivo che invece realizzava la
Le attese circa l’evoluzione del mezzo erano molte ed erano state già anticipate sul finire
del 1953, dall’illustrazione di Walter Molino sulla copertina de “La domenica del Corriere”. In essa
compare una famiglia unita che assiste a una partita di calcio. In questa raffigurazione grafica è
rappresentata la metafora più convincente della televisione. Due sono gli elementi più
rappresentativi: il primo è l’idea che il mezzo televisivo sia capace di unire tutte le famiglie italiane,
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in perfetta linea con lo spirito del tempo, e la simultaneità dello spettacolo, l’originalità della diretta
Il 12 aprile 1952 un impianto trasmittente installato a Milano trasmette nel contesto dei
Dopo queste «prove» la televisione italiana inizia a trasmettere ufficialmente alle 14,30 del 3
gennaio 1954. In programma vi è una rubrica settimanale di interviste a famosi personaggi in arrivo
un film di Mario Soldati, un documentario sul Tiepolo, il telegiornale, una mezz’ora di curiosità
“Ancora non si può avere idea dell’importanza che assumerà, in un’epoca che mi auguro
non lontana, la diffusione su larga scala, anche in Italia, della televisione. Non sarà una rivoluzione,
che presuppone il sommovimento, ma sarà evoluzione, che è quanto dire progresso.” (C. Ridòmi,
Il cartellone dei primi anni è simile a quello della prima giornata televisiva: vanno in onda
varietà musicali, sceneggiati che fanno conoscere molti romanzi classici, inchieste che affrontano
che l’impegno dei dirigenti Rai fosse quello di promuovere la cultura tra la popolazione, tra cui
anni successivi alla seconda guerra mondiale quell’unificazione linguistica e culturale, che scuola e
istituzioni non erano riuscite a raggiungere in quasi cento anni di unificazione politica.
Nei primi anni televisivi sono poche le famiglie che si possono permettere un apparecchio
dal costo medio di 250 mila lire: tanto, se si considera che lo stipendio di un operaio si aggira in
questo periodo intorno alle venti-venticinquemila lire mensili; però sono ugualmente molti i
telespettatori che in certe serate si radunano nei bar dove è esposto un televisore, per vedere i
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Gli italiani seguono con interesse ed euforia i quiz, tanto che il giovedì molti cinematografi
Mike Bongiorno in onda dal novembre 1955 fino al 1959. La partecipazione è generale: tutti
parlano dei concorrenti e della loro memoria formidabile. La televisione dei primi anni, poiché la si
Altri quiz lasciano il segno nella storia della nascente tv, come Il Musichiere o Telematch
(1957) che si collega alle piazze della provincia dove un oggetto misterioso, il cui nome viene
Campanile sera (1959), proponendo una sfida fra un Comune del Nord e uno del Sud,
convoglia nelle rispettive piazze tutti gli abitanti, vivaci tifosi del loro paese, risoluti a farsi
immortalare dalle telecamere, pronti a biasimare o a esaltare i protagonisti locali della trasmissione
Il linguaggio televisivo è serio e austero, vengono censurate parole ritenute troppo ardite e
viene esercitato un severo controllo sull’abbigliamento, che deve essere castigato. La satira
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Nonostante il ruolo di primo piano assunto dalla televisione nei termini della costruzione
dell’identità nazionale, l’atteggiamento di una parte degli intellettuali italiani circa gli effetti sociali
del nuovo mezzo non è del tutto benevolo. A soli due giorni dall’inaugurazione della tv, il giornalista
Luigi Barzini manifesta già le prime preoccupazioni sullo sviluppo e sull’evoluzione del nuovo mezzo
In un articolo Barzini affermava: “Io pensavo con spavento, mentre tutti gli altri parlavano,
alle responsabilità di chi avesse dovuto dirigere una simile spaventosa macchina. Tra breve, senza
dubbio, l’apparecchio sarà letteralmente ovunque, dove ora sono radioriceventi, in parrocchia,
nello stabilimento di bagni, nelle trattorie, nelle case più modeste. La capacità di istruire e di
commuovere con l’immagine unita alla parola e al suono è enorme. Le possibilità di fare del bene
o del male altrettanto vaste. L’Italia sarà, in un certo senso, ridotta ad un paese solo, una immensa
piazza, il foro, dove saremo tutti e ci guarderemo tutti in faccia. Praticamente la vita culturale sarà
nelle mani di pochi uomini” (Luigi Barzini “Occhio di vetro. La prima della televisione”, articolo
Scrittori come Giorgio Bocca, Alberto Moravia, Pier Paolo Pasolini, Paolo Monelli, di fronte al
nuovo mezzo televisivo nutrono profondi sentimenti di timore. Gli intellettuali, specialmente quelli di
sinistra, concepiscono il mezzo televisivo come un nuovo livello di degradazione della cultura
comprendere il linguaggio e i contenuti del nuovo apparecchio elettronico, che diffondeva stili e
modelli di vita “americani”, in realtà viene vissuta con ostilità dalla maggior parte degli intellettuali
comunisti. Tale posizione è espressa in un articolo apparso sul quotidiano “L’Unità” del 9 gennaio
1954: “La tv sarà un privilegio riservato a pochi eletti, ma invidiarli francamente non ci sentiamo e
questo per la semplicissima ragione che abbiamo seguito i programmi che la tv italiana offre agli
abbonati. Francamente verrebbe voglia di chiamar privilegiati quelli che nella rete non sono
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Chi invece seppe cogliere i primi effetti sociali della televisione fu Italo Calvino che ne “La
televisione in risaia”, pubblicata sulla rivista “Il Contemporaneo” nel 1954, scrive:
“Da qualche mese, nella vita dei piccoli paesi della risaia vercellese, è entrato un elemento
nuovo: la televisione, e si può già dire che essa incida sul costume paesano più di quanto non
abbia fatto in tanti anni il cinema. Infatti, nei paesi dove esiste una sala cinematografica gli
spettacoli sono saltuari o limitati ai giorni festivi, e assistervi assume un carattere di eccezionalità.
Invece la televisione c’è tutte le sere,e vi si assiste in un ambiente tradizionale e tipico della vita
paesana: l’osteria; e non c’è da pagare lo spettacolo, ma solo la consumazione, che poi non è
dappertutto obbligatoria […]Mentre nella vita delle nostre città la televisione ha ancora un peso
irrilevante, nella vita paesana si può già dire che essa eserciti un’influenza sulle abitudini sociali: e,
al contrario di quanto può parere a prima vista, la sua fortuna si adatta particolarmente ad una
spostamento limitate”.
Coloro che, invece, compresero e seppero interpretare meglio le innovazioni del nuovo
apparecchio tecnologico furono i dirigenti della Rai legati al mondo cattolico. Il loro background
ideologico, legato ad alcuni correnti della Democrazia Cristiana, era in sintonia con le posizioni
espresse da Papa Pio XII che nella enciclica Miranda Prorsurs, promulgata l’8 settembre 1957,
illustrerà l’interesse della Chiesa per i mezzi di comunicazione di massa (cinema, radio, televisione),
dell'uomo; altre a migliorare le sue condizioni di vita; altre ancora, e queste più da vicino toccano
comunicare alle moltitudini, con estrema facilità, notizie, idee e insegnamenti, quali nutrimento
Tra le invenzioni riguardanti quest'ultima categoria, uno straordinario sviluppo hanno preso,
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La Chiesa ha accolto queste invenzioni, fin dall'inizio, non solo con particolare gioia, ma
anche con materna ansia e vigilante sollecitudine, volendo essa proteggere da tutti i pericoli i suoi
Sono gli anni in cui si sedimenta un rapporto fecondo tra la Rai e la classe politica italiana.
Va in questa direzione l’esperienza breve ma assai importante della dirigenza di Filiberto Guala.
Il nuovo amministratore delegato, vicino alle posizioni politiche di Amintore Fanfani, operò in
due direzioni: da una parte cercò di portare nella Rai di allora quelle capacità imprenditoriali e
manageriali di cui la nuova azienda aveva bisogno, rendendo il mezzo televisivo sempre più
autonomo dal cinema e ponendo le basi per la costruzione di una vera e propria industria
culturale; ruppe, inoltre, il decentramento dirigenziale (la Rai era quasi tutta collocata a Torino)
accentrando l’azienda a Roma. Dall’altra organizzò, sotto l’impulso di Pier Emilio Gennarini, corsi
volti a formare giovani intellettuali cattolici che sarebbero poi diventati i nuovi dirigenti e funzionari
dell’azienda pubblica. Guala inoltre investì sulla programmazione e immaginò un mezzo in grado
di costruire il tempo libero degli italiani. Tuttavia, ciò che contraddistinse la sua azione
integrale e totalizzante.
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Già nel biennio precedente il Consiglio di amministrazione Rai aveva varato un severo
rispettare in ogni suo punto. Il codice rappresentò uno scoop del giornalista Arturo Gismondi, che
ne venne in possesso e lo pubblicò con gran clamore. Non ci sono però prove effettive
pertanto, vi sono alcune parole, e ancor più temi, che per nulla al mondo devono essere tirati in
ballo: “divorzio”, “aborto”, “adulterio” e “prostituzione”, ad esempio, saranno per anni le parole
tabù della televisione pubblica nazionale. Almeno secondo il "codice" attribuito a Filiberto Guala.
Il primo notiziario televisivo, della durata di 15 minuti, diretto da Vittorio Veltroni, e trasmesso
poi ogni martedì, giovedì e sabato durante il periodo sperimentale. Dal 1954 sarà quotidiano. Il
telegiornale è ispirato al modello del cinegiornale, con una serie, quindi, di cinque o sei servizi
L’idea è quello di un modello culturale che integri le istanze della modernizzazione nel
sistema di valori della tradizione cattolica (e contrapposto all’egemonia della sinistra in campo
letterario e cinematografico).
• Primo biennio, gestione Filiberto Guala: forte impronta religiosa e moralistica della
costumi”).
Nord e Sud, ricchi e poveri, acculturati e analfabeti (nel ‘54, il 13% della popolazione
è analfabeta).
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Anna Bisogno - La paleotelevisione
• Dal 1962/63 fino al 1974, direzione Ettore Bernabei, la più lunga nella storia del
servizio televisivo pubblico. Sotto la sua direzione il Servizio Pubblico conobbe, per la
Enzo Biagi durante il suo breve impegno come direttore del Telegiornale. Il momento
dell’informazione divenne da una parte una finestra aperta sul mondo, dall’altra un
simbolo delle istituzioni. Il Telegiornale, infatti, andava in onda con un tono freddo e
governativo.
domenicale
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Tribune elettorali (1960) e politiche (1961); rotocalchi Tv: RT 1962 (Biagi), Tv7 1963 (Vecchietti); I
Viaggi del telegiornale 1958 (reportage), La donna che lavora 1959, Specchio segreto 1964 (Loy).
L’intrattenimento veniva declinato in: canzoni; quiz e giochi a premi; varietà; sport; film,
telefilm, Il Festival di Sanremo 1955, Il cantagiro 1962, Castrocaro 1964; Campanile sera 1959, Lascia
o raddoppia? 1955, Il Musichiere 1957; Un, due, tre 1954, Canzonissima 1958, Studio Uno 1961; La
domenica sportiva 1953, Processo alla tappa 1962; Giallo club 1959 (tenente Sheridan).
La cultura trovava forme nelle: opere liriche, commedie e tragedie; divulgazione culturale e
scientifica Teatro in Tv: programmi in studio o in collegamento da teatro, in diretta (dal ‘54 con
L’osteria della posta di Goldoni al ciclo di Eduardo, ecc.); Una risposta per voi 1954 (prof. Cutolo),
Le avventure della scienza 1954, Almanacco di storia, scienza e varia umanità 1963, L’Approdo
1963.
religiose (La posta di Padre Mariano 1959) - Sceneggiati dalla letteratura: il primo è Il dottor Antonio
(1954); tra i tanti altri, spiccano i registi A.G. Majano (La cittadella 1964) e Sandro Bolchi (I promessi
sposi 1967) - Corsi di istruzione: Telescuola (1958-66): corso triennale di avviamento professionale;
Non è mai troppo tardi (1960-68): corso di istruzione popolare per il recupero dell’adulto
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Lorenzo Marmo - Il genere western
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Lorenzo Marmo - Il genere western
Questa lezione è dedicata ad una disamina della genesi del genere western e delle sue
metamorfosi fino al giorno d’oggi. Prima di affrontare questa traiettoria storica, però,
americano per riflettere sui meccanismi di creazione e popolarizzazione delle varie etichette di
genere. Che cosa significa esattamente “genere”? Chi decide che un film appartiene ad un
negoziazione.
Il volume Film/genere di Rick Altman 1, pubblicato negli Stati Uniti nel 1999 e tradotto in
italiano nel 2004, ha rappresentato un punto di sintesi e insieme di radicale innovazione nell’ambito
possibili luoghi comuni sul genere, di tutte le definizioni semplificate che attribuiscono al Nome del
Genere un valore falsamente universale. Altman contesta sia la posizione di coloro che
letterari, sia le letture che fanno invece riferimento all’antropologia culturale per nobilitare lo studio
dei generi e garantire il collegamento. Al contrario, Altman propugna un’analisi del sistema dei
generi che parta dal cinema stesso, ovvero da un attento studio dei meccanismi della produzione
Il punto di partenza del discorso di Altman è il suo fortunatissimo articolo del 1984 Un
volta l’intuizione di fondo del suo lavoro, ovvero quella che ogni genere è caratterizzato
1
Rick Altman, Film/Genre (1999), trad. it. Film/Genere, Milano, Vita & Pensiero, 2004.
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per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).
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dall’incrocio tra una serie di elementi semantici con una struttura sintattica. Con il termine
vocabolario di un genere. Con il termine “struttura sintattica” si designa invece le modalità, gli
Questo discorso risulterà più chiaro tramite un esempio pratico, che trarremo naturalmente
dal nostro oggetto di studio, il western. Elementi semantici del genere western sono cavalli e
cowboy, indiani e banditi, così come aspetti più atmosferici (l’enfasi sulla materialità, il fuoco,
l’acqua, l’oro, il cuoio, la polvere, la polvere da sparo), ed anche scelte marcatamente estetiche
(l’uso frequente delle riprese dall’alto con il dolly, per esempio). La struttura sintattica dominante
del genere è invece, come sosteneva già Jim Kitses 2, quella della trasformazione del deserto in
giardino: si possono raccontare diverse fasi della conquista del West (la lotta contro i pellerossa,
contro i fuorilegge o perfino contro la madrepatria inglese) e lo si può fare per mezzo di trame
diverse (in particolare possiamo distinguere tra i western stanziali, ambientati per lo più in un luogo
sempre gli sforzi impiegati dai pionieri per guadagnare il territorio incontaminato e indomito degli
Stati Uniti alle forme del vivere civile e moderno: la trasformazione del deserto in giardino, appunto.
Il punto del discorso di Altman è che né gli elementi sintattici né la struttura semantica
bastano da soli alla creazione di un genere. La sintassi e la semantica devono trovare un intreccio
preciso l’una con l’altra per dare luogo ad un genere riconoscibile e duraturo. Altman sostiene
dunque che un insieme di film inizia a condividere una combinazione semantico-sintattica, ma che
essa rimane dapprima in forma aggettivale (ed infatti è proprio come aggettivo che il termine
“western” viene adoperato inizialmente, durante il cinema delle origini). Soltanto nel momento in
cui quell’aggettivo verrà tramutato in un sostantivo autonomo, nascerà il genere vero e proprio.
Pur tracciando un chiaro modello per la nascita e l’evoluzione dei generi Altman non vuole
certamente dare l’idea che si tratti di una dinamica sempre identica a sé stessa, o che, una volta
2
Jim Kitses, Horizons West: Anthony Mann, Budd Boetticher, Sam Peckinpah: Studies of Authorship within the
Western, Bloomington, Indiana University Press, 1969
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stabilizzatasi, l’identità di un genere rimanga fissa una volta per tutte, monoliticamente. Al
Proprio a questo scopo, Altman supera qualsiasi visione che presuma una comunicazione
diretta del significato del termine di genere tra i diversi ‘attori’ implicati nel cinema come arte
popolare, ovvero produttori, registi, distributori, critici, spettatori. Se, secondo la vulgata, i
consumatori scelgono i film in base ad una precisa indicazione di genere che viene da una fonte
sola (ovvero l’autore, o la produzione), in realtà la situazione è molto più complessa e Altman
traccia un’approfondita mappa delle diverse modalità di creazione e di fruizione dei generi. Senza
a) i produttori, nel decidere quali film mettere in cantiere, pongono costantemente in atto
b) nel pubblicizzare il film, i distributori puntano ad interessare la fetta più vasta di pubblico
c) i critici hanno una voce autonoma, che orienta la scelta spettatoriale; se la stampa
specializzata svolgeva questa funzione già all’epoca del cinema classico, l’ingresso del
categorie che influenzano la lettura contemporanea dei testi, sia di quelli odierni che di
d) anche il passaparola all’interno del pubblico ha la sua importanza, e questo è tanto più
vero al giorno d’oggi, in cui la sfera della comunicazione online facilita grandemente la
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I generi sono insomma frutto di una dinamica complessa, di un processo articolato nessuna
delle cui parti può da sola ambire a costituire effettivamente il genere. Altman supera perciò, nel
volume del 1999, la dualità del suo precedente approccio semantico-sintattico, introducendo un
terzo elemento, quello dell’analisi pragmatica. Attraverso uno studio fattuale del modo in cui le
diverse parti coinvolte nel processo hanno interagito, Altman ambisce a dare conto del continuo
crearsi e ricrearsi dei generi nella specificità dei diversi momenti storici. Solo in questo modo,
ricollegando l’evoluzione del genere alla concretezza pragmatica dei vari contesti socio-produttivi
di riferimento, è possibile inquadrare appieno i film tanto nella loro qualità di prodotti, inseriti
all’interno di un sistema estetico, che come merci, inserite all’interno delle dinamiche economiche.
Uno dei principali, se non il principale obiettivo dell’opera di Altman è dunque quello di conciliare
genere.
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2. Il periodo muto
prossimità (temporale e spaziale) che esiste tra i primi decenni del cinema e il mondo del West vero
e proprio. Il cinema nasce, com’è noto, nel 1895, e si trasferisce sulla costa occidentale degli Stati
Uniti a partire dal secondo decennio del Novecento; la conquista dei territori del Far West si era
conclusa soltanto poco prima, con la chiusura ufficiale della Frontiera nel 1890. In un certo senso,
Los Angeles, come punta più avanzata del capitalismo californiano, sembra costituirne una sorta di
prosecuzione sul piano ideale: Hollywood diventa meta di pellegrinaggio di migliaia di persone,
non più spinte dalla ricerca di terra da coltivare o di miniere d’oro, ma dal richiamo della celebrità.
Alla conquista di uno spazio concretamente fisico, si sostituisce ora il tentativo di conquistare un
D’altronde, la vicinanza storica e geografica tra il West e Hollywood non deve certo far
credere che il cinema si rifacesse direttamente alla realtà storica per raccontare l’epopea della
Frontiera. Anche se alcuni dei protagonisti di questa epopea entrarono effettivamente in contatto
con il mondo del cinema (il mitico sceriffo Wyatt Earp, al centro della sparatoria dell’OK Corral che
ha ispirato molti film3, era un frequentatore regolare dei set di Allan Dwan e John Ford negli anni
Dieci e Venti), più che da resoconti fattuali degli avvenimenti il cinema western prese in prestito a
piene mani dall’amplissima messe di materiale pre-esistenti che avevano contribuito alla nascita
del mito del West in altri ambiti creativi e artistici: dai romanzi di autori come Zane Grey, O. Henry o
Owen Wister ai racconti e fumetti pubblicati sulle riviste; dal circo di Buffalo Bill (un altro
protagonista della storia del West che ne colse presto il potenziale spettacolare), con le sue
ricostruzioni pittoresche di fatti storici alla figura di Theodore Roosevelt, il “presidente cowboy” (in
carica dal 1901 al 1909); dagli scritti storici a quelli biografici e autobiografici sul West; dalla pittura
3
Tra i vari film incentrati sulla vicenda si ricordino almeno: My Darling Clementine (Sfida infernale, J. Ford, 1946),
Gunfight at the OK Corral (Sfida all’OK Corral, J. Sturges, 1957) e Tombstone (G. Pan Cosmatos, 1993).
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spettacolare di autori come Frederick Remington e Charles Marion Russell all’eredità musicale del
West, da cui il cinema sonoro prenderà a piene mani. Tutti questi materiali fornirono importantissimi
scene di vita indiana, battute di caccia, vedute panoramiche dei parchi nazionali. Alla fine del
1903 Edison produsse The Great Train Robbery (L’assalto al treno), diretto da Edwin S. Porter, che è
generalmente riconosciuto (retrospettivamente, perché questo termine non era ancora in uso)
come il primo western. Si tratta anche di uno dei primissimi film, se non il primo, che fa un uso
significativo del montaggio per costruire la propria linea narrativa, per quanto essa fosse basilare. Il
film, girato in esterni in New Jersey, adoperando un vero treno per le scene della rapina, riscosse un
enorme successo sia negli Stati Uniti che all'estero, grazie soprattutto alla presenza di elementi
Celeberrima anche l’inquadratura del fuorilegge che spara direttamente alla macchina da presa
l’autonomia del meccanismo finzionale, interpellando direttamente gli spettatori, poteva essere
collocata liberamente (a discrezione del singolo proiezionista) all’inizio o alla fine del film. Essa
sembra sintetizzare il carattere ludico del sensazionalismo tipico del western, e mostra come la
figura del bandito si presti al tempo stesso a terrorizzare il pubblico ma anche a stabilire con esso
Il successo travolgente del film di Porter portò alla replica di questa formula, tramite strutture
narrative man a mano più sofisticate. All’epoca, come si accennava, questi film non erano ancora
chiamati western, ma Horse Operas (racconti di cavalli): i primi esempi di uso sostantivato del
termine “western” per designare un film sono databili intorno al 1910, ma tale denominazione
divenne comune una decina d’anni dopo. Nel frattempo, la popolarità di questo genere a basso
costo subì un’ulteriore impennata con il trasferimento in California, i cui scenari paesaggistici si
prestavano con agio a fare da sfondo a vicende di questo tipo, per le ovvie ragioni cui
accennavamo sopra. Al western si dedicò anche uno dei grandi ‘padri’ del cinema americano,
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Griffith, durante il suo periodo presso la Biograph Company (si vedano in particolare The massacre,
Negli stessi anni si impose la personalità di Thomas H. Ince, che creò Inceville, il più grande
studio cinematografico dell'epoca nell'area di Los Angeles. Più ancora che regista, Ince era un
direttore di produzione, ed uno dei suoi meriti maggiori fu anche quello di aver lanciato un attore
come William S. Hart. Se il primo divo/cowboy era stato Broncho Billy (e la sua figura di vagabondo
solitario aveva già fissato molti dei tratti dell’eroe western dei decenni a venire), Hart rappresentò
un’importante svolta in direzione dell’approfondimento psicologico: non più semplice veicolo del
tormentato da dubbi e problemi morali, e attraversa quasi sempre vicende di colpa e redenzione.
Altro celeberrimo eroe del western muto fu Tom Mix, i cui film fecero la fortuna della Fox Film
Corporation.
Negli anni Venti il western divenne poi un genere di maggior prestigio, grazie ad una serie di
grandi produzioni che uscivano dalla logica seriale dei film piuttosto formulaici di cui erano
spettacolari (in particolare grazie ad un uso estensivo degli esterni) che restituissero appieno il
carattere epico del genere. Si affermarono insomma produzioni costose, che costruivano racconti
corali e celebrativi delle magnifiche sorti e progressive della nazione americana: il modello fu The
Covered Wagon (I pionieri, J. Cruze, 1923), cui seguirono altre super-produzioni tra cui due dei primi
capolavori, targati Fox, di un regista che aveva esordito nel 1917 e che sarebbe presto diventato
sinonimo dell’epoca del western classico, ovvero John Ford: The Iron Horse (Il cavallo d’acciaio,
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L’avvento del sonoro, alla fine degli anni Venti, causò non pochi problemi al western, in
quanto genere basato essenzialmente sull’azione e puntava sulle riprese in esterni. Le nuove
attrezzature sonore erano ingombranti e all’aperto era molto difficile registrare colonne sonore
comprensibili. Ma il successo di film sonori come In Old Arizona (Notte di tradimento, R. Walsh e I.
Cummings, 1929), The Virginian (L’uomo della Virginia, V. Fleming, 1929), The Big Trail (Il grande
sentiero, R. Walsh, 1930) e Billy the Kid (K. Vidor, 1930) fecero presagire una buona ripresa del
western4.
La crisi del ’29 e la Grande Depressione che seguirono non rappresentarono però di certo il
contesto socio-storico migliore per gli aspetti più magniloquenti dell’immaginario western. Negli
anni Trenta, perciò, pur non mancando qualche sparuto esempio di western più spettacolare
(Cimarron, I pionieri del West, W. Ruggles, 1931; The Plainsman, La conquista del West, C. B. DeMille,
1936), furono realizzati soprattutto western di serie B, prodotti da case minori: i loro toni, anziché
epici, erano localistici e vernacolari. Per il pubblico statunitense di quegli anni il cinema
rappresentava quasi l’unica forma di evasione da una difficile realtà di povertà, e il western era
assai popolare soprattutto nelle aree di provincia dell’America profonda. In questo senso, il genere
rinegoziò il proprio intreccio semantico-sintattico per far spazio anche all’elemento musicale. Alle
esibizioni di destrezza del cowboy acrobata della vecchia Horse Opera si sostituirono le esibizioni
canore del cowboy cantante, di cui Gene Autry è il primo e più famoso esempio, seguito poi da
Roy Rogers.
Una svolta avvenne invece nel 1939, vero e proprio anno cruciale per il western classico: il
genere conobbe una rapida rivitalizzazione e fu riportato a dimensioni di prima grandezza. Il 1939 è
infatti, innanzitutto, l’anno di uscita di Stagecoach (Ombre rosse, 1939), il capolavoro di John Ford
che, pur rispettando elementi consacrati dalla tradizione, come gli inseguimenti e le sparatorie, li
4
Gli ultimi due film menzionati furono tra l’altro girati in un formato panoramico diverso dall’usuale proporzione di
4/3 (il rapporto 1.37:1 tra i lati dell’immagine), anticipando di oltre vent’anni le successive sperimentazioni di questo
tipo, che tanta parte avranno nella fortuna del western negli anni Cinquanta.
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approfondisce di uno straordinario spessore morale, sociale e psicologico. Il film lanciò anche il più
grande astro della storia del western, John Wayne: la sua prima apparizione, nel ruolo di Ringo Kid,
è sottolineata da un insistito carrello in avanti della macchina da presa, che si avvicina al suo volto
intenso. Sembra quasi che Ford già sappia di non star soltanto introducendo un personaggio
Il 1939 fu anche l’anno in cui il Technicolor offrì al western nuove possibilità espressive molto
significativi: si vedano a questo proposito Jesse James (Jess il bandito, H. King), Dodge city (Gli
avventurieri, M. Curtiz) e Drums Along the Mohawk (La più grande avventura) dello stesso Ford, tutti
usciti in quell’anno fatidico. Della nuova ricchezza cromatica beneficiarono soprattutto le riprese in
esterni, ma anche le atmosfere crepuscolari e notturne, che divennero l’occasione per raffinate
decina d’anni più tardi da Ford, che nel suo She Wore a Yellow Ribbon (I cavalieri del Nord Ovest,
1949) ambienta una sequenza nostalgica in un cimitero sullo sfondo di un tramonto mozzafiato che
In generale, il 1939 fu l’anno della ripresa del western di serie A: il successo di Union Pacific
(La via dei giganti, C. B. DeMille) rilanciò i grandi prodotti spettacolari che, in chiave romanzata ma
fortemente patriottica, ricostruivano fatti e personaggi storici. Proseguirono su questa linea film
come Northwest Mounted Police (Giubbe rosse, 1940) dello stesso DeMille, Northwest Passage
(Passaggio a Nord Ovest, K. Vidor, 1941), Western Union (Fred il ribelle, F. Lang, 1941) e They Died
with Their Boots On (La storia del generale Custer, R. Walsh, 1941).
Nel corso degli anni Quaranta, la stagione d’oro del western proseguì senza battute
celebrativa e ottimista proposta nelle ultime produzioni citate. Il genere venne infatti piegato
sempre di più in direzioni trasgressive ove non di esplicita critica sociale: con The Outlaw (Il mio
corpo ti scalderà, 1943) Howard Hughes punterà a fare dello scenario western lo sfondo per una
vicenda dai contorni fortemente erotici, e il discorso sulla forza ancestrale e annichilente delle
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passioni sarà ripreso e portato allo zenith dal celebre Duel in the Sun (Duello al sole, K. Vidor, 1946).
Al tempo stesso, il western si presta a diventare sede di riflessione per problematiche d’ordine civile,
come nel caso della condanna della pratica del linciaggio attorno a cui è costruito
l’indimenticabile The Ox-Bow Incident (Alba fatale, 1943) di William A. Wellman. Nel dopoguerra
poi, l’affermarsi pervasivo dei temi e dell’estetica del noir finisce per sconfinare anche in territorio
western, con una serie di film che mutuano dal poliziesco postbellico l’uso di un’illuminazione
personaggi (Pursued, Notte senza fine, R. Walsh, 1947; Ramrod, La donna di fuoco, A. de Toth, 1947;
Negli anni Cinquanta il western vive il suo momento in assoluto più ricco e affascinante:
assai lontano da ogni esaltazione trionfalistica degli ideali americani, il western diventa viceversa
territorio per l’espressione di problematicità profonde, che riguardano tanto la lettura del passato
la delusione nei confronti di figure paterne mitizzate sono al centro di molti western dell’epoca
(Red River, Il fiume rosso, H. Hawks, 1948; Shane, Il cavaliere della valle solitaria, G. Stevens, 1953;
Broken Lance, La lancia che uccide, E. Dmytryk, 1954; Run for Cover, All’ombra del patibolo, 1955,
che Nicholas Ray diresse nello stesso anno di Rebel Without a Cause, Gioventù bruciata, film-
Il western racconta altrettanto bene una più generalizzata crisi delle istituzioni, che
sembrano talvolta tradire i veri valori americani, prestandosi a metaforizzare la situazione assai
conflittuale legata alla caccia alle streghe anticomunista degli anni Quaranta e Cinquanta (High
Noon, Mezzogiorno di fuoco, F. Zinnemann, 1952; Silver Lode, La campana ha suonato, A. Dwan,
1954).
rispetto ai valori della comunità, che conduce spesso i protagonisti del western a diventare
personaggi individualisti e finanche crudeli. Inaspriti dalle delusioni, i vagabondi solitari tipici del
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genere diventano ora personaggi ossessivi, quasi nichilisti, e il genere si aprendosi a riflessioni amare
sull’avidità e la violenza insite nella natura umana: si pensi ad esempio ai personaggi interpretati
da James Stewart nei western diretti da Anthony Mann (Winchester 73, 1950; Bend of the River, Là
dove scende il fiume, 1952; The Naked Spur, Lo sperone nudo, 1953; The Far Country, Terra lontana,
1955; The Man from Laramie, L’uomo di Laramie, 1955). L’esempio massimo di questo discorso è
senz’altro la figura ritratta da John Wayne nel capolavoro di Ford The Searchers, Sentieri selvaggi,
1956.
Non sono d’altronde soltanto i personaggi maschili a divenire più complessi e problematici:
vengono proposte anche figure femminili molto potenti, che infrangono la consueta segregazione
dei ruoli e degli spazi riservati alle donne in questo tipo di narrazioni, prendendo in mano la pistola
e le redini dell’azione (Marlene Dietrich in Rancho Notorious, F. Lang, 1952; Joan Crawford in
Alcuni film di quest’epoca iniziano d’altronde a porsi il problema del trattamento dei nativi
americani da parte dei colonizzatori, proponendo opzioni di relazione interrazziale più concilianti e
progressiste (Broken Arrow, L’amante indiana, D. Daves, 1950). Il western di questi anni diventa
insomma uno spazio di riflessione a tutto campo sull’identità americana e le sue contraddizioni.
narrativa. La suspense, che gioca un ruolo importante nell’articolazione delle trame del genere, si
presta a riflessioni sulla natura del tempo: si vedano soprattutto il succitato High Noon e 3:10 to
Yuma, Quel treno per Yuma, D. Daves, 1957, che sperimentano il racconto in tempo reale. E se una
delle caratteristiche del genere era sempre stato il suo uso del paesaggio, con l’introduzione del
formato panoramico, a partire dal 1953, il Western diventa uno dei principali territori per
l’investigazione di limiti e potenzialità dello schermo largo. Nei lavori in Cinemascope di Anthony
Mann, di Delmer Daves (L’ultima caccia, The Last Hunt, 1956), di William Wyler (The Big Country, Il
grande paese, 1958), fino al Cinerama di How the West Was Won (La conquista del West, J. Ford, H.
Hathaway, G. Marshall, 1962) l’utilizzo degli scenari mozzafiato del continente americano darà
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piena misura di quella autentica rivoluzione della rappresentazione costituita dall’introduzione del
widescreen.
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4. La persistenza dell’immaginario
Il western entrò in una fase calante negli anni Sessanta, in concomitanza con la crisi più
complessiva del sistema hollywoodiano tutto: il genere era stato da sempre uno dei veri e propri
simboli del modo di produzione del cinema classico, quasi un suo sinonimo, e col progressivo
smantellamento del sistema delle grandi case di produzione, parimenti anche il western sembra
perdere d’importanza. Allo stesso tempo, però, se una delle cause della crisi del cinema
americano di quegli anni fu la televisione, fu proprio migrando verso quel nuovo contesto che il
western riuscì a trovare nuova linfa e rimanere rilevante. Il piccolo schermo si rivelò infatti il mezzo
ideale per la prosecuzione di quella produzione di tipo commerciale in serie che aveva
rappresentato il tessuto più sostanziale di questo genere, fin dalle sue origini. Nell’ambito televisivo,
a partire dalla metà degli anni Cinquanta, trovarono infatti ampio spazio storie avventurose di tipo
tradizionale. Si trattava di un nuovo prodotto medio che riuscì a conquistare un vasto pubblico,
soprattutto giovanile e di provincia, quelle stesse fasce che erano state le più entusiaste nei
Per quanto riguarda il grande schermo il western era comunque ben lungi dallo scomparire
del tutto: piuttosto, esso entrò in una fase crepuscolare, segnata da una ulteriore fase di
smitizzazione, non più declinata (com’era stato negli anni Cinquanta) in una direzione
Pieno di personaggi ormai anziani, stanchi e dubbiosi, il western degli anni Sessanta è imbevuto di
un'atmosfera che, se non dà più spazio all'eroismo, ha però momenti di lirismo e di elegia, come in
Ride the High Country (Sfida nell'Alta Sierra, 1962) di Sam Peckinpah e The Man Who Shot Liberty
Valance (L’uomo che uccise Liberty Valance, 1962) di Ford. Quest’ultimo riuniva due delle più
importanti star del western degli anni d’oro, che recitavano insieme per la prima volta insieme:
John Wayne e James Stewart. Il film propone una riflessione amara sulla crisi della verità e sui
5
Per una riflessione sul western televisivo, si veda anche il ruolo interpretato da Leonardo Di Caprio nell’ultimo film di
Tarantino, Once Upon a Time in Hollywood (C’era una volta a Hollywood, 2019).
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meccanismi della fama che regolavano già il mondo del West e le sue forme di mitopoiesi
(celebre la frase “tra la verità e la leggenda, stampa la leggenda!”) che sembra davvero sugellare
A partire dalla metà del decennio, il western americano dovette poi vedersela con la
concorrenza del western europeo, soprattutto quello italiano di Sergio Leone: l’effetto fu quello di
un paradossale adeguamento del cinema americano alle novità introdotte dallo Spaghetti
l’introduzione di elementi stilistici estranei alla tradizione (in primis la giustapposizione spericolata da
parte di Leone di campi lunghissimi e primissimi piani per filmare duelli e sparatorie).
Negli anni libertari della New Hollywood, il genere si prestò perciò sia ad operazioni
tradizionaliste, nostalgicamente di retroguardia (si veda True Grit, Il Grinta, H. Hathaway, 1969, che
guadagnò finalmente a John Wayne l’unico Oscar della sua carriera, ben trent’anni dopo il suo
folgorante ingresso in scena in Stagecoach) che a esperimenti molto più innovativi, come nel caso
di altri due film usciti in quello stesso 1969: Butch Cassidy and the Sundance Kid (Butch Cassidy, G.
R. Hill), la storia dell’amicizia tra due ribelli, girata in uno stile vivace e spiritoso, e recitata da due
star di primissima grandezza come Paul Newman e Robert Redford; e Easy Rider (D. Hopper),
rilettura contemporanea dell’epopea dei pionieri in direzione inversa, con due bikers che vanno
alla scoperta dell’America profonda partendo dalla California e scoprendo soprattutto un mondo
Altri grandi nomi del western degli anni Settanta furono Sam Peckinpah (The Wild Bunch, Il
mucchio selvaggio, 1969; Pat Garrett & Billy the Kid, 1973), Arthur Penn (Little Big Man, Piccolo
grande uomo, 1970) e Don Siegel (The Beguiled, La notte brava del soldato Jonathan, 1971; The
Shootist, Il pistolero, 1976), che contribuirono significativamente a tenere il genere al centro del
dibattito. D’altronde fu proprio un western il film che, col suo fragoroso fallimento al botteghino
(Heaven's gate, I cancelli del cielo, diretto da Michael Cimino nel 1980), pose di fatto fine al
Hollywood, favorendo il ritorno del potere decisionale nelle mani dei produttori.
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Da quel momento in poi, comunque, pur non tornando mai ad essere un genere
veramente dominante in termini quantitativi come lo era stato nel periodo classico, il western non
ha mai smesso di ritornare sugli schermi: da Pale rider (Il cavaliere pallido, 1985), diretto e
interpretato da Clint Eastwood a Silverado (1985) di Lawrence Kasdan, da Dances with Wolves
(Balla coi lupi, K. Costner, 1990) a Unforgiven (Gli spietati, C. Eastwood, 1992), questi ultimi entrambi
premiati con numerosi Oscar, compreso quello per il miglior film. Il western è un genere troppo
consustanziale all’identità americana e all’identità del cinema stesso, per non ricomparire
recente si segnalano le riletture del mito western proposte dai fratelli Coen (True Grit, Il Grinta,
2010), da Quentin Tarantino (Django Unchained, 2012; The Hateful Eight, 2015), da una regista
femminista come Kelly Reichardt (Meek’s Cutoff, 2010) da uno dei cineasti messicani che trionfano
ad Hollywood negli ultimi anni (Revenant, Revenant – il redivivo, A. Gonzales Iñarritu, 2015) e
perfino di un cineasta francese come Jacques Audiard (The Sisters Brothers, I fratelli Sisters, 2018).
Anche la televisione di qualità che ha caratterizzato gli ultimi decenni ha prodotto una narrazione
western assai importante (Deadwood, HBO 2004-2006). E d’altronde, una serie di film, pur
ambientati nella seconda metà del Novecento o nella contemporaneità (da Brokeback Mountain,
A. Lee, 2005 a No Country for Old Men, Non è un paese per vecchi, J. & E. Coen, 2007 fino a Hell or
High Water, D. McKenzie, 2016), riprendono e rileggono l’eredità del western e la ridiscutono in
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da
copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).
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Indice
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marcato, sin dalle sue origini, da una dimensione di dialogo transnazionale. Il termine “noir”, che in
francese significa naturalmente “nero”, è divenuto di uso corrente nella riflessione sulla storia del
cinema in relazione al cinema statunitense degli anni Quaranta e Cinquanta. I critici francesi lo
adoperarono infatti per designare alcuni dei film americani che iniziarono ad arrivare nelle sale
francesi (così come in quelle del resto d’Europa) nel 1945, dopo la fine della Seconda Guerra
Mondiale. Il primo critico a parlare di noir a proposito del cinema americano fu Nino Frank nel
19461, ma fu poi un influente libro di Raymond Borde ed Etienne Chaumeton del 1955, Panorama
Il periodo d’oro del noir viene generalmente collocato tra il 1940 ed il 1958. Tra i più
importanti film noir si possono annoverare (oltre ai molti che menzioneremo nel seguito di questa
lezione): Stranger on the Third Floor (Lo sconosciuto del terzo piano, B. Ingster, 1940); Laura
(Vertigine, O. Preminger, 1944); Gilda (C. Vidor, 1946); Kiss of Death (Il bacio della morte, H.
Hathaway, 1947); Out of the Past (Le catene della colpa, J. Tourneur, 1947); Lady from Shanghai
(La signora di Shanghai, O. Welles, 1948); Gun Crazy (La sanguinaria, J.H. Lewis, 1949), The Asphalt
Jungle (Giungla d’asfalto, J. Huston, 1950); Sunset Boulevard (Viale del tramonto, B. Wilder, 1950);
The Big Heat (Il grande caldo, F. Lang, 1953) e Killer’s Kiss (S. Kubrick, 1955).
La caratteristica comune di questi film, anche molto diversi tra di loro, è il loro focalizzarsi su
crimini e delitti. Al tempo stesso, i noir si distinguono dai semplici polizieschi e dai gialli (un termine,
quest’ultimo, che ha invece un’origine tutta italiana) perché restituiscono del mondo narrato
un’immagine più angosciosa e disturbante. Spesso protagonisti del noir sono essi stessi dei criminali,
o degli individui comuni coinvolti loro malgrado in situazioni pericolose. Ma anche quando gli eroi
1
Nino Frank, Un noveau genre “policier”: l’aventure criminelle (1946), trad. ing. A New Kind of Police Drama: The
Criminal Adventure, in Alain Silver, James Ursini, a cura di, Film Noir Reader 2, New York, Limelight, 1980, pp. 15-
19.
2
Raymond Borde, Etienne Chaumeton, Panorama du film noir américain, 1941-1953, Paris, Editions du Minuit, 1955.
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sono dei rappresentanti della legge o dei detective, in ballo non c’è mai soltanto un’investigazione
di stampo razionale per scoprire il responsabile o i responsabili di un delitto. Nel noir, si tratta anche
ad integrarsi nel tessuto sociale. Il noir è insomma un genere che racconta il lato oscuro del Sogno
Americano: lontano dalla rappresentazione conciliata della vita americana proposta dalla cultura
ufficiale, questo genere riflette sugli aspetti più oscuri della psiche individuale, ma può talvolta
proporre anche una critica piuttosto esplicita alla società nel suo complesso, concentrandosi sulla
corruzione, la violenza e l’esclusione sociale. Non a caso alcuni dei cineasti più impegnati furono
costretti a smettere di lavorare quando il paese, a partire dal 1947/48, fu pervaso dalla Caccia alle
streghe anticomunista, che perseguitava tutti coloro che con le loro ide progressiste erano
accusati di minacciare gli ideali americani: tra di essi Edward Dmytryk e Adrian Scott, regista e
produttore di Crossfire (Odio implacabile, 1947), noir che denunciava l’antisemitismo della società
americana, e Abraham Polonsky, regista di Force of Evil (Le forze del male, 1948), apologo sui mali
dell’individualismo capitalista.
La maggior parte dei noir non hanno, comunque, questo valore esplicitamente politico.
Importante punto di riferimento per questo genere sono piuttosto una serie di narrazioni letterarie,
cosiddette hard-boiled, tra i cui autori più importanti possiamo annoverare James Cain, Cornell
Woolrich, Dashiell Hammett, Raymond Chandler, Mickey Spillane. Gli ultimi tre, in particolare,
danno vita ad altrettanti personaggi di detective molto popolari: Hammett scrive di Sam Spade,
Chandler crea Philip Marlowe e Spillane racconta le gesta di Mike Hammer. Questi personaggi
The Maltese Falcon (Il mistero del falco, J. Huston, 1941); Dick Powell, ancora Bogart e Robert
E. Dmytryk, 1944), The Big Sleep (Il grande sonno, H. Hawks, 1946) e The Lady in the Lake (Una
donna nel lago, R. Montgomery, 1947); Ralph Meeker sarà Spillane in Kiss Me Deadly (Un bacio e
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La figura del detective messa in scena da questi romanzi e film è molto diversa da quella al
centro del giallo classico: a differenza di Sherlock Holmes, i detective immaginati da Chandler e gli
altri non adoperano una logica strettamente deduttiva, guardando alla scena del crimine come
dall’esterno e analizzandola con lucido distacco. I detective del noir sono piuttosto soggetti che
seduzioni, che si dipana intorno a loro. Sono personaggi che “si sporcano le mani” con il mondo
corrotto e avido che li circonda, e anzi hanno con esso un rapporto concretamente fisico, soggetti
come sono alla violenza dei personaggi malvagi e alla seduzione di quelli femminili. Più che essere
dei personaggi a tutto tondo, gli investigatori classici, raccontati da autori come Arthur Conan
Doyle e Agatha Christie, erano una sorta di personificazione dell’intelligenza investigativa, i loro
tratti ossessivi (l’attenzione ai dettagli di Holmes) e le loro caratteristiche fisiche bizzarre (la testa
“d’uovo” di Poirot, l’età avanzata di Miss Marple) un modo per trasformare la loro corporeità in un
segno della loro intelligenza fuori dal comune. Al contrario, i personaggi del noir sono uomini tra gli
uomini, dotati di una fisicità tradizionale e confusi come tutti gli altri personaggi di fronte a misteri di
difficile risoluzione.
Caratteristica fondamentale di questi film sono le strutture narrative assai complesse: si nota
un utilizzo frequentissimo di flashback, talvolta anche multipli, incastonati gli uni negli altri, al fine di
descrivere una realtà caotica e non lineare, dominata da un’ansia generalizzata e dal tormento di
un passato che è spesso sede di uno shock o di una colpa. Le strutture narrative intricatissime di film
come The Big Sleep, The Killers (I gangster, R. Siodmak, 1946) o The Killing (Rapina a mano armata,
S. Kubrick, 1956) sono tra i primi esempi di strutture autenticamente complesse del racconto,
Quando non sono detective, i protagonisti spesso sono reduci di guerra, ancora
traumatizzati dalla propria esperienza al fronte, vittime di amnesie che gli fanno dubitare della
propria stessa identità (Somewhere in the Night, Il bandito senza nome, J.L. Mankiewicz, 1946; The
Crooked Way, Incrocio pericoloso, R. Florey, 1949); o ancora possono essere uomini provati dalla
vita, dediti all’alcool e perciò inclini alla violenza (Dark Angel, Angelo nero, R.W. Neill, 1946; In a
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Lonely Place, Il diritto di uccidere, N. Ray, 1950). O ancora, possono essere cittadini
economico (Side Street, La via della morte, A. Mann, 1950), dal desiderio erotico (Pitfall, Tragedia a
La fiamma del peccato, B. Wilder, 1944). Le donne appaiono in questi film soprattutto nelle vesti di
femmes fatales, di seduttrici senza scrupoli che manipolano il protagonista maschile per i propri
scopi e lo conducono alla rovina. Il noir è insomma un genere che racconta rapporti complessi tra
personaggi maschili e femminili, all’insegna del sospetto e della crudeltà. L’immagine, assai
potente, di queste donne fatali, è stata letta come un effetto dei profondi cambiamenti nei
costumi sociali in atto negli anni Quaranta. Durante la guerra, con gli uomini al fronte, molte donne
erano state chiamate a lavorare al loro posto, ed avevano così assaporato per la prima volta
nello spazio pubblico: il ritorno alla “normalità” alla fine del conflitto non si rivelò semplice, anche
perché, come accennavamo su, gli uomini tornavano alla vita in abiti civili spesso carichi di
esperienze traumatiche, e si trovavano spiazzati da questa nuova autonomia femminile. Il noir può
perciò essere interpretato come il genere che, mettendo spessissimo la donna in un ruolo di
Non mancano comunque film che invece mettono in scena dei personaggi femminili molto
più positivi, alleati dei personaggi maschili, che li coadiuvano dalla parte del bene: una delle
coppie più famose della storia del cinema è quella formata da Humphrey Bogart e Lauren Bacall,
protagonista di film come To Have and Have Not (Acque del sud, H. Hawks, 1946), The Big Sleep e
Esistono infine anche film noir con protagoniste femminili in ruoli positivi. Si tratta spesso di
film in cui le formule del noir si intrecciano con quelle di un altro genere assai popolare in quegli
anni, quello del woman’s film. Mentre il noir ha generalmente un’ambientazione urbana, il
woman’s film dà generalmente più peso allo spazio domestico, per raccontare un tormento
femminile più esplicitamente legato all’interiorità. Tra i film che ibridano le due formule con grande
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efficacia si notano in particolare molti con protagonista Joan Crawford come Mildred Pierce (Il
romanzo di Mildred, M. Curtiz, 1945), The Damned Don’t Cry (I dannati non piangono, F.E. Feist,
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Il cinema noir non si definisce d’altronde soltanto in base ai suoi temi. Per coglierne la
specificità è altrettanto necessario riflettere sulle risorse estetiche coinvolte nella messa in scena.
Caratteristiche fondamentali del noir dal punto di vista stilistico sono le seguenti:
Profondità di campo
Mentre il cinema precedente, degli anni Trenta (ma in generale il cinema classico più
convenzionale) mira a creare un racconto per immagini che sia soprattutto armonioso, ordinato e
facilmente interpretabile, lo stile noir si sostanzia invece di immagini potentemente evocative. Il suo
fine non è la chiarezza o la trasparenza, ma una messa in scena carica di pathos, che traduca in
L’illuminazione contrastata del noir, così come l’utilizzo di angolazioni usuali (inquadrature
dall’alto, dal basso, oblique, palesemente sbilanciate) è stata spesso collegata agli stilemi
sulla deformazione della messa in scena per trasmettere un senso di angoscia. In film dell’epoca
del muto come Das Kabinett des Doktor Caligari (Il gabinetto del Dottor Caligari, R. Wiene, 1920) o
Nosferatu (F.W. Murnau, 1922), lo stile disegna un mondo orrorifico abitato dal male e attraversato
da soggetti spesso in preda a deliri allucinatori e malattie mentali. Il collegamento con il noir
americano è tutt’altro che peregrino: Hollywood negli anni Quaranta è popolata di moltissimi
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tedeschi (registi, sceneggiatori, scenografi, direttori della fotografia ecc.) fuggiti dalla Germania
all’avvento di Hitler.
Anche al di là del modello espressionista, il noir lavora su una messa in scena molto
atmosferica, nella doppia accezione di questo termine: ovvero, sia nel senso della creazione,
tramite le luci, le ombre ed altri accorgimenti visivi, di una sensazione di tensione e minaccia, sia
più letteralmente tramite un uso di fenomeni atmosferici come la nebbia e la pioggia a fini
espressivi.
Una delle grandi innovazioni del cinema americano degli anni Quaranta è poi la profondità
di campo: tutti gli oggetti, i corpi e gli spazi presenti davanti all’obbiettivo vengono messi a fuoco,
per dare la sensazione di un campo visivo ricco e frastagliato, da cui il personaggio è schiacciato
claustrofobicamente. Anche se non è solo una caratteristica del noir, ma di tutto il cinema
americano di quegli anni (fondamentale, nella storia della profondità di campo, è ad esempio un
capolavoro come Citizen Kane, Quarto potere, O. Welles, 1941), di sicuro nel noir questa risorsa
l’uso di molte inquadrature lunghe, che sfociano talvolta in veri e propri piani sequenza3: si vedano
ad esempio in film celebri come Rope (Nodo alla gola 1948), di Hitchcock, girato tutto in
lunghissimi piani sequenza, e Touch of Evil (L’infernale Quinlan, O. Welles, 1958) col suo celebre
Lo stile marcato del noir, la sua descrizione di un mondo onirico e angosciato non è però in
contrasto (come potrebbe apparire di primo acchito) con una attenzione alle riprese in esterni
reali. A partire soprattutto dal 1947 si diffonde la pratica di girare on location, sia grazie
maggior capacità di filmare in notturna) sia per l’influenza dell’estetica del neorealismo italiano. La
dimensione di resa soggettiva del mondo, tramite una messa in scena fortemente atmosferica, e
3
Dicesi piano sequenza una sequenza che si articola tutta in un’unica inquadratura, senza che ci sia mai uno stacco di
montaggio.
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quello della sua resa oggettiva, tramite immagini del tessuto urbano fotografato nella sua
A volte l’angoscia e la tensione sono ancora più sconvolgenti proprio perché l’ambientazione è
Nel complesso, possiamo dire che col noir la fotografia soppianta il teatro come riferimento
iconografico privilegiato del cinema. A fare da modello alla messa in scena cinematografica non
è più l’impianto statico del dialogo teatrale, su uno sfondo dipinto, ma la vividezza del paesaggio
architettonico e naturale ripreso dal vero. Il fotografo più comunemente associato al noir è il
newyorchese Weegee: il titolo di un suo libro di grandissimo successo, Naked City (1945), verrà
preso in prestito da un film altrettanto celebre (La città nuda, J. Dassin, 1948), e poi anche da una
serie tv (1958-1963), una tra le prime a trasferire il serbatoio delle narrazioni noir nel contesto della
Questo rapporto con la fotografia non significa che non si possa rintracciare una vicinanza
tra l’immaginario visuale del noir e la pittura di Edward Hopper, vista la comune messa in scena di
spazi urbani marcati dalla solitudine. Col passare del tempo, poi, lo stile del noir è diventato una
vera e propria iconografia, che ritroviamo oggi in prodotti commerciali di ogni genere, dalla moda
alla pubblicità.
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Da una parte, i noir appartengono alla cultura popolare, all’immaginazione pulp, basata
sull’aspetto scandaloso del sesso e della violenza. Non a caso, all’epoca negli Stati Uniti essi
venivano designati non come noir (il termine francese non si era ancora diffuso oltreoceano) ma in
modo più generico come crime melodramas o blood melodramas (melodrammi del crimine o di
sangue).
D’altra parte, le narrazioni a tinte forti dei noir veicolano anche delle riflessioni sulla
condizione umana (specialmente, ma non solo, da un punto di vista maschile) nel contesto della
modernità metropolitana. L’immagine del mondo che ne emerge è quella di un universo caotico e
spesso disperato, in cui i soggetti sono intrappolati e/o smarriti e privi di punti di riferimento. In tal
modo, questi film partecipano delle riflessioni della cultura alta sulla crisi del soggetto e sulla
Gli anni Quaranta in America sono gli anni della Pop-psychoanalysis, ovvero della
diffusione, anche a livello divulgativo, delle teorie di Sigmund Freud (morto a Londra nel 1938).
Concetti come quello del complesso edipico o della paura di castrazione, e i discorsi relativi al
funzionamento dell’inconscio e del mondo onirico compaiono spesso nei film dell’epoca, in modo
sia implicito che esplicito. I flashback che spesso strutturano le intricate trame del noir sono spesso
espressione di una ricerca da parte del soggetto di una verità interiore: tramite l’autoracconto si
cerca di scoprire qualcosa su sé stessi, mettere ordine negli eventi che sono avvenuti e magari
scoprire il segreto inconscio che è alla loro base. Un esempio tra i più espliciti è quello di
Spellbound (Io ti salverò, 1945), di Hitchcock, in cui la psicoanalista interpretata da Ingrid Bergman
aiuta il collega e paziente Gregory Peck a ricordare il trauma infantile che lo tormenta. Per il film fu
realizzata anche una complessa sequenza onirica, a cui collaborò anche un artista celebre come
Salvador Dalì, il che rende chiari i legami del noir con il movimento surrealista degli anni Venti.
La soggettività messa in scena dal noir è d’altronde una soggettività pienamente fisica, e
questo genere cerca di utilizzare i mezzi stilistici del cinema per trasmettere tutta la gamma
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percettiva del soggetto. Spesso questi film lavorano per mettere in scena una visione soggettiva
deformata dalla paura, dall’allucinazione o da stati di alterazione dovuti all’alcool o alle droghe.
Particolarmente significativa da questo punto di vista una sequenza di Murder, My Sweet in cui
Philip Marlowe si risveglia dopo essere stato drogato da un gangster malvagio e il suo stato di
Questo tentativo di restituire al pubblico il punto di vista del protagonista, di far coincidere i
due sguardi dello spettatore e del personaggio viene portato alle sue conseguenze più estreme da
due film del 1947. Robert Montgomery gira The Lady in the Lake, un film straordinario perché girato
aderisce esattamente allo sguardo di un personaggio, e dunque qui per tutta la durata del film noi
spettatori sposiamo il punto di vista del detective protagonista, e lo vediamo in faccia solo se
questi si guarda allo specchio. Questo espediente in realtà funziona solo parzialmente, perché a
noi spettatori viene in questo modo a mancare l’ancoraggio al corpo di un personaggio visibile
sullo schermo. Sentiamo insomma la mancanza di una figura antropomorfica, con cui identificarci,
e non ci basta di poter aderire alla sua prospettiva, che rimane comunque filtrato dalla macchina
da presa. Meno radicale ma molto più riuscito è un altro film dello stesso anno, Dark Passage, con
Humphrey Bogart e Lauren Bacall, che pure sfrutta moltissimo la soggettiva in tutta la prima parte,
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4. La dimensione transnazionale
Come accennavamo, una caratteristica peculiare della storia del concetto di noir è che,
mentre questa terminologia si affermava in Francia ed in Europa più in generale, i registi, gli attori e
i membri della crew che concretamente realizzavano i film così designati, negli Stati Uniti, non
sapevano di star girando dei film noir. Oltreoceano questi prodotti erano designati, come abbiamo
detto, come blood melodramas e il termine noir non diventerà di uso comune presso la critica,
l’industria e il pubblico americani prima degli anni Settanta, quindi molto dopo la fine del periodo
Tutto questo ci indica con molta chiarezza come il concetto di genere cinematografico, il
nome che noi adoperiamo per raggruppare un certo numero di film intorno ad un’etichetta, non
sia affatto un’operazione neutra, che è possibile dare per scontata. Al contrario, parlare di genere
richiede un punto di vista interpretativo, che può avere una forte influenza per la strutturazione dei
I critici francesi, sempre molto attenti alla produzione culturale straniera, ed in particolare a
quella del popolo che li aveva da poco liberati dall’occupazione nazista, hanno insomma svolto
una funzione di grande importanza ed hanno avuto grande influenza per individuare e dare
prestigio ad un genere di film che non sempre erano considerati tra i più importanti e prestigiosi
nella loro patria d’origine. Infatti, anche se alcuni noir erano in effetti delle produzioni di un certo
peso, ed ottennero alcune candidature all’Oscar (Double Indemnity, Mildred Pierce, The Killers,
Crossfire), molti film di questo genere sono film a basso budget, realizzati con pochi soldi ma con
Alcuni tra i noir oggi più celebri (l’esempio migliore è forse Detour, E.G. Ulmer, 1945) non
furono prodotti dalle case di produzione principali, o comunque non erano considerati film di serie
A. Nonostante si possa dire che questi sono i film dell’epoca più visti e amati ancora oggi, in origine
si trattava di prodotti di serie B e non prestigiosi. L’idea che la mancanza di denaro aguzzi
l’ingegno creativo e faccia sì che si trovino delle soluzioni espressive innovative è una delle
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traiettorie essenziali della storia del cinema. E infatti il noir di serie B sarà un modello per i cineasti
rivoluzionari della Nouvelle Vague francese degli anni Sessanta: Jean-Luc Godard dedicherà
simbolicamente il suo À bout de souffle (Fino all’ultimo respiro, 1960) alla Monogram Pictures, uno
degli studi minori della cosiddetta Poverty Row di Hollywood che aveva prodotto piccoli classici
come When Strangers Marry (Notte d’angoscia, W. Castle, 1944) o Decoy (Inganno, J. Bernhard,
1946).
La storia del noir ci racconta perciò sin dall’inizio della circolazione delle idee a livello
transnazionale, e ci mostra come il cinema e gli audiovisivi siano stati cruciali, nella storia del
Novecento, per la negoziazione del rapporto tra paesi diversi e nella creazione di un immaginario
D’altronde, una delle tendenze principali della riflessione sul noir degli ultimi anni è stata
proprio quella di indagarlo non soltanto come un fenomeno americano ma come un insieme di
forme narrative e stilistiche dalla portata autenticamente globale. Per capire questo discorso
occorre tornare ancora una volta in Francia, poiché in effetti, il termine “noir” era già stato
adoperato dalla critica d’Oltralpe, prima che per i film americani degli anni Quaranta, per alcuni
film nazionali del decennio precedente, già marcati da un’attenzione a vicende criminose, alla
vita dei bassifondi e al tormento esistenziale. Tra i titoli più rilevanti: La bête humaine (L’angelo del
male, J. Renoir, 1938), Le quai des brumes (Il porto delle nebbie, M. Carné, 1938) e Le jour se lève
(Alba tragica, M. Carné, 1939) e La rue sans nom (P. Chenal, 1934), probabilmente il primo film ad
essere designato in questo modo. Questi film, marcati da un’atmosfera nebbiosa molto suggestiva,
si prestano sia ad un romanticismo esasperato che ad una visione cruda del crimine e della
violenza. Questi film appartengono ad un filone più comunemente designato come “realismo
poetico”: un movimento molto importante nel contesto del cinema francese dell’epoca,
caratterizzato, come dice l’etichetta stessa, da un’attenzione alla realtà sociale più dura, trattata
però con un notevole afflato lirico. In alcuni casi, come ad esempio in Le jour sé leve, questi film
adoperano degli espedienti narrativi, come il flashback, che saranno poi fondamentali anche nel
noir americano.
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Se ricostruiamo la fitta rete intertestuale che si dipana a partire da uno dei noir francesi più
comunemente menzionati, Le dernier tournant (P. Chenal, 1939), possiamo avere piena misura
romanzo americano (The Postman Always Rings Twice, di James M. Cain), che verrà poi portato
sullo schermo anche negli Stati Uniti col medesimo titolo (Il postino suona sempre due volte, T.
Garnett, 1946). Non prima però di essere stato adattato anche in Italia, da parte di Luchino
Ossessione è considerato a sua volta uno dei primi film del neorealismo italiano, ovvero quel
movimento di profondo rinnovamento del nostro cinema nazionale che scaturì dalla fine della
dittatura fascista. Tanto in Francia quanto in Italia, dunque, la storia del noir si intreccia (pur senza
sovrapporsi del tutto) a film altrimenti designati per il loro rapporto con la realtà (realismo poetico,
neorealismo). Dunque, anche se il noir ci sembra a prima vista molto lontano, con le sue ombre e
la sua enfasi sulla soggettività angosciata, dalla dimensione dell’oggettività realista, in verità i due
registri narrativi (quello oggettivo e quello soggettivo) sono tutt’altro che antitetici, e possono
Di fatto, si può dire che il cinema francese abbia anticipato alcuni aspetti del noir
americano proprio tramite l’attenzione agli spazi del margine, descrivendone senza fronzoli
l’intreccio tra sesso e violenza che li caratterizzava. E parimenti, nel cinema italiano, la narrazione
cinema neorealista vero e proprio (film come Roma città aperta, R. Rossellini, 1945 o Ladri di
biciclette, V. De Sica, 1948) avrebbe poi affrontato in termini più rigorosamente realistici, che non
hanno nulla a che vedere col noir. Ossessione è la storia della insopprimibile passione erotica ed
adulterina tra due reietti, Gino e Giovanna, che trovano l’uno nell’altra un po’ di quella felicità che
il mondo gli ha finora negato. I due complottano perciò di uccidere il marito di lei per essere liberi
di vivere il proprio amore. Questa vicenda di una passione smodata, fortemente fisica, che anima i
personaggi portandoli fino al delitto, senza che essi siano dei personaggi aberranti, ma
dipingendoli sostanzialmente come vittime della società, era davvero molto lontana
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dall’immagine del paese che il regime fascista aveva fino ad allora imposto sugli schermi.
Famosamente Vittorio Mussolini, figlio del Duce, andò via da un’anteprima del film nell’estate del
1943 sbattendo la porta e gridando “Questa non è l’Italia!”: il regime di suo padre sarebbe però
crollato di lì a qualche settimana, ed una rappresentazione molto più onesta della società italiana
si sarebbe affermata.
La storia del noir è dunque una storia complessa ed autenticamente transnazionale (si
possono trovare esempi di film associabili a questo genere anche nel cinema inglese, giapponese,
messicano ecc.). Il genere d’altronde non si esaurisce affatto nella sua fase classica, nel contesto
del dopoguerra: ne ritroviamo invece traccia, spesso etichettato come neo-noir, nelle filmografie
di autori celebri come Jean-Pierre Melville, François Truffaut (Tirez sur le pianiste, Tirate sul pianista,
1961 ma anche La marriée etait en noir, La sposa in nero, 1968), Roman Polanski (Chinatown, 1974),
Robert Altman (The Long Goodbye, Il lungo addio, 1975) Martin Scorsese (Taxi Driver, 1976), i fratelli
Coen (da Blood Simple, 1984 a The Man Who Wasn’t There, L’uomo che non c’era, 2001), David
Lynch (da Blue Velvet, Velluto blu, 1986 a Mulholland Drive, 2001), Quentin Tarantino (Reservoir
Dogs, Le iene, 1992), Christopher Nolan (Memento, 2001), David Fincher (Gone Girl, 2014), Paul
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da
copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).
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1. Origini e apprendistato
Luchino Visconti nasce a Milano il 2 novembre 1903. Figlio di Giuseppe Visconti, duca di
industriali farmaceutici. Il contesto altolocato in cui si forma lo indirizza ad una cultura cosmopolita,
artistica nel cinema e nel teatro giunge piuttosto tardi, proprio in quanto inconsueta per una
L’apprendistato sul set è di altissimo livello. In direzione opposta rispetto a quella di una
cultura italiana che, alla metà degli anni Trenta, si rinchiude sempre di più all’interno dei propri
confini, in accordo con la politica autarchica del regime fascista, Visconti parte per la Francia per
aiutare il grande regista transalpino Jean Renoir sui set di Partie de campagne (La scampagnata,
girato nel 1936 ma uscito solo dieci anni dopo) e Les bas-fonds (Verso la vita, 1936). Il modello del
cinema di Renoir, e più in generale del realismo poetico francese degli anni Trenta, rimarrà sempre
Dopo un breve soggiorno a Hollywood, Visconti rientra in Italia nel 1939 a causa della morte
della madre, e si trasferisce a Roma. Comincia, invitato di nuovo da Jean Renoir, a lavorare ad
l’inizio della Seconda Guerra Mondiale, però, il regista francese è costretto a lasciare il set, e anche
Visconti abbandona il progetto (il film uscirà nel 1941, per la regia di Carl Koch).
rivista «Cinema», tra cui Michelangelo Antonioni, Giuseppe De Santis, Carlo Lizzani, Gianni Puccini e
Massimo Mida. Entrare a far parte di questo gruppo non significa soltanto, per Visconti, il contatto
con la frangia più illuminata e innovativa della riflessione dell’epoca sul medium cinematografico:
grazie agli intellettuali di «Cinema», il nobiluomo milanese si avvicina anche alle idee del Partito
Comunista, allora ancora illegale. La rivista infatti, pur diretta da Vittorio Mussolini, figlio del Duce,
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era sede di una fronda culturale non indifferente nei confronti del regime fascista. Al Partito
Comunista Italiano Visconti rimarrà d’altronde legato fino alla morte, pur con rapporti alterni e non
sempre di adesione piena (anche a causa dell’omosessualità dichiarata più o meno apertamente
dal regista).
senso più ampio della società) italiana, sostenendo la necessità di abbandonare gli schemi triti e
stucchevoli della commedia dei telefoni bianchi tipica degli anni Trenta (ambientazioni lussuose,
personaggi stereotipati e frivoli) a favore di racconti più realistici, incentrati sui drammi quotidiani
della gente comune. Il modello del nuovo cinema italiano, secondo De Santis e gli altri, doveva
essere la letteratura verista di Verga 1. Ciò si traduceva, in concreto, in una maggiore attenzione ai
dialetti e, soprattutto, alla dimensione del paesaggio: l’unico modo di capire a fondo caratteri,
bisogni e potenzialità del popolo italiano era di vederlo concretamente calato nel proprio
contesto, e il cinema doveva farsi carico di questa missione ritraendo le classi subalterne nel
proprio ambiente quotidiano. Molti aspetti dolorosi e controversi del vissuto degli italiani erano stati
troppo a lungo occultati dalla retorica trionfalistica e ipocrita del regime, e dovevano ora essere
Il primo film che applicherà pienamente gli elementi di questa poetica – che diverrà presto
nota con il nome di neorealismo – sarà appunto il film d’esordio di Luchino Visconti, Ossessione
(1943).
1
Cfr. Giuseppe De Santis, Per un paesaggio italiano, in «Cinema», VI, 116, 25 aprile 1941, pp. 292-293, ora in P.
Noto, F. Pitassio, Il cinema neorealista, Bologna, ArchetipoLibri, 2010, pp. 73-75; Giuseppe De Santis, Mario Alicata,
Verità e poesia; Verga e il cinema italiano, in «Cinema», VI, 127, 10 ottobre 1941, pp. 216-217, ora in P. Noto, F.
Pitassio, Il cinema neorealista, cit., pp. 76-79.
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2. Visconti e il neorealismo
Ossessione (1943) è l’adattamento del romanzo dello scrittore americano James M. Cain
The Postman Always Rings Twice (1934), che era già stato portato sullo schermo in Francia nel 1939
(Le dernier tournant, P. Chenal, 1939) e lo sarà presto anche ad Hollywood (The Postman Always
Rings Twice, Il postino suona sempre due volte, T. Garnett, 1946). Nel caso del film italiano si tratta di
un adattamento inconfessato, perché Visconti non deteneva i diritti del racconto e anche perché
in quel momento i due paesi erano in guerra2. Ma in barba alle restrizioni legate al conflitto, il film si
colloca, com’è evidente dai rapporti intertestuali appena delineati, in una dimensione di dialogo
transnazionale tra generi e registri diversi, conciliando l’attenzione a personaggi emarginati legata
all’estetica del neorealismo con elementi del cinema di genere, in particolare il noir. Ossessione è
infatti la storia di un adulterio, che conduce la coppia di protagonisti (Massimo Girotti e Clara
Calamai) al delitto. Il punto è che i due sono presentati in modo empatico: anche se si macchiano
di un crimine, uccidendo il marito di lei, essi sono vittime più che carnefici, intrappolati come sono
negli ingranaggi di una società gretta e ingiusta. Il film presta una grande attenzione tanto ai corpi,
assai sensuali, dei protagonisti (un erotismo per l’epoca senz’altro inusitato) che al corpo del
paesaggio: lo scenario delle paludi del Po è quasi un terzo personaggio, la sua imperturbabile
orizzontalità un perfetto correlato della sensazione di smarrimento esistenziale dei due protagonisti
e del destino opprimente a cui essi non potranno in alcun modo sfuggire. Puntuale giungerà infatti
accompagna alla grande enfasi riservata ai visi, ai corpi e alle interpretazioni degli attori. Pochi
mesi dopo l’uscita del film, Visconti firmerà un saggio breve ma profondamente rivelatore della sua
concezione del medium in cui aveva appena esordito, intitolato Cinema antropomorfico3. In
2
Il film avrà per questa ragione enormi problemi distributivi all’estero, e rimarrà invisibile negli Stati Uniti per molti
anni, a differenza degli altri capolavori del neorealismo.
3
Luchino Visconti, Cinema antropomorfico, in «Cinema», VIII, 173/174, 25 settembre-25 ottobre 1943, pp. 108-109,
ora in Paolo Noto, Francesco Pitassio, Il cinema neorealista, Bologna, ArchetipoLibri, 2010, pp. 84-85.
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questo scritto, Visconti si fa appunto portavoce di una nuova attenzione alla figura umana,
segnalando il bisogno di spogliare gli attori di mestiere dei loro tecnicismi e delle loro affettazioni,
per ritrovare la verità umana nelle loro performance. Per questo, egli anticipa già l’idea, ancora
non esplorata nel concreto, di affidarsi ad interpreti non professionisti, presi dalla strada, che sarà
presto una delle caratteristiche principali del neorealismo suo e di altri cineasti.
Questa attenzione quasi ossessiva verso il volto la si ritrova anche nel progetto assai
peculiare a cui Visconti partecipò verso la fine della guerra, ovvero il documentario collettivo
Giorni di gloria, co-diretto con Mario Serandrei, Giuseppe De Santis e Marcello Pagliero4: incaricato
di filmare i processi dell’Alta corte di giustizia per le sanzioni contro il fascismo, Visconti è presente in
aula nel momento in cui viene condannato a morte Pietro Caruso, ex questore di Roma ed
efferato collaboratore dei nazisti. Fissando intensamente la sua macchina da presa sul volto di
Caruso, mentre questi apprende di essere destinato alla fucilazione, il regista sembra quasi tentare
in tutti i modi di scorgere la verità umana dietro la maschera dell’efferato criminale di guerra, di
rintracciare una dimensione di pathos dietro la facciata di un uomo che non ebbe mai a pentirsi
dei crimini commessi. Siamo di fronte al primo (il più disturbante) dei ritratti di uomini a contatto con
la Storia e con il Male, che Visconti osserverà da vicino (come vedremo) soprattutto nella seconda
D’altronde, è bene chiarirlo, non si può certo accusare Visconti di simpatie fasciste,
considerando che era stato egli stesso parte della Resistenza ed era poi rimasto vittima delle
persecuzioni nazifasciste. Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, Visconti aveva infatti collaborato
con i GAP (Gruppi di Azione Patriottica) assumendo il nome di battaglia di Alfredo. La sua casa
romana era divenuta un punto di incontro e rifugio per molti membri della Resistenza attivi in città,
tra cui il comunista sardo Sisinnio Mocci, ufficialmente assunto come maggiordomo ma in realtà
impegnato nella lotta clandestina contro l’occupazione nazifascista: Mocci sarà arrestato nella
4
Il film è disponibile al seguente indirizzo: https://vimeo.com/303284185.
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Catturato egli stesso nell’aprile del 1944 e imprigionato a Roma per alcuni giorni
dalla temibile Banda Koch, Visconti si era salvato dalla fucilazione grazie all’intervento dell’amica
attrice Maria Denis, che aveva interceduto per lui presso la polizia fascista. Quando, a guerra finita,
Pietro Koch, il capo della formazione da cui il regista era stato fatto prigioniero, fu processato, la
testimonianza del regista ebbe forte peso, e il procedimento si concluse con la condanna a morte
per il noto fascista. In Giorni di gloria Visconti filma anche l’esecuzione di Koch, avvenuta a Forte
Dopo la guerra, il neorealismo viscontiano prosegue ancora nella medesima ricerca di una
verità dei volti, volgendosi stavolta, come anticipavamo, alle classi popolari, agli attori non
professionisti. Con La terra trema (1948), Visconti mette in scena un adattamento contemporaneo
dei Malavoglia di Verga. L’impresa, partita come un documentario elettorale del Partito
comunista, sarebbe dovuta articolarsi in un “episodio del mare” (il film effettivamente realizzato),
un “episodio della solfara” e un “episodio della terra” che, intersecati fra loro assieme a un più
breve “episodio della città”, descrivessero in montaggio alternato altrettante situazioni di scontro
sociale. Anche se questo ambizioso progetto non andrà in porto, il film rimane comunque l’opera
più autenticamente neorealista di Visconti. Il discorso di ribellione rispetto alle ingiustizie delle
strutture sociali, che in Ossessione si articolava ancora tutto all’interno della vicenda privata,
segnala in particolare, oltre che per l’uso del paesaggio e degli attori non professionisti, per lo
sperimentalismo linguistico legato alla contrapposizione tra una voce narrante in perfetto italiano e
artificiale, reso più aulico ad hoc, rispetto al parlato corrente, così il film stesso, lungi da essere
semplicemente un’immersione nella realtà dei pescatori d’Aci Trezza nel dopoguerra, è piuttosto
una riconfigurazione del loro mondo, atta a sottolineare la ritualità ieratica, gli arcaismi imperituri e
finanche mitici di questo stile di vita. Il film concilia perciò la concretezza dell’analisi socio-storica
delle condizioni di povertà e oppressione con un lavoro molto forte di formalizzazione, che
raggiunge risultati estetici molto alti. La messa in scena evoca quasi, nella sua propensione per la
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staticità della posa, dei tableaux vivants, ma bilancia sempre questa tendenza con la
consapevolezza della necessità del movimento, anche nel senso concretamente politico della
mobilitazione per la lotta di classe. Il film rende insomma evidente come il neorealismo di Visconti
non si proponga mai come mera registrazione del reale, ma sempre come una sua rielaborazione,
per esaltarne tanto gli aspetti evocativi e melodrammatici, quanto, di pari passo, il portato politico.
L’ultimo film della trilogia neorealista di Visconti, Bellissima (1951), esplicita in modo
chiarissimo la diffidenza di Visconti rispetto ad ogni concezione ingenua (e dunque vuota) del
neorealismo come “cinema della realtà”. Il film è infatti un crudele apologo sull’ossessione
dell’industria cinematografica dell’epoca per la spontaneità degli attori bambini. Visconti rimane
in territorio neorealista proprio tramite una messa alla berlina del neorealismo stesso (tra gli
sceneggiatori c’è d’altronde il massimo teorico del neorealismo, Cesare Zavattini), nonché della
propria personale ossessione per l’autenticità del volto, di cui parlavamo sopra. Con la storia della
popolana romana Maddalena (Anna Magnani), che vuole a tutti i costi trasformare la sua
figlioletta in un’attrice bambina, il regista mostra il tramonto dell'utopia del cinema come
spettacolo e di profitto. E Anna Magnani è protagonista anche dell’episodio viscontiano del film
collettivo Siamo donne (1953), in cui si rievoca, con grande brio, il mondo dell’avanspettacolo
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Proprio in teatro (ma quello d’autore, non il varietà) si era nel frattempo distinto Visconti,
esordendo nella regia di prosa nel 1945 (Parenti terribili di Jean Cocteau) e nella lirica nove anni
dopo, dirigendo Maria Callas nella Vestale di Gaspare Spontini. Oltre alle 18 cinematografiche,
Visconti firmerà nel complesso anche 45 regie di prosa, 21 regie liriche e 3 coreografiche,
affermandosi come “il massimo uomo di spettacolo italiano del primo trentennio postbellico”5.
dell’immaginario viscontiano trovò esplicitazione anche sullo schermo. Senso (1954) si apre infatti
proprio su una messa in scena, al teatro La Fenice di Venezia nel 1866, del Trovatore di Verdi e il
modello operistico rimane poi un riferimento costante per tutte le opzioni narrative e stilistiche
proposte nel corso del film. Il film è scandito in macro-episodi che assomigliano a veri e propri atti
teatrali, e grande importanza assume anche l’impiego della musica di Anton Bruckner. La messa in
scena sontuosa (costumi, scenografie, la fotografia a colori con cui Visconti si confronta per la
prima volta) non mancò di destare un certo sdegno, presso la stampa dell’epoca, che accusò
Visconti di aver abbandonato il neorealismo e con esso la dimensione analitica della realtà
sociale.
essa, è tutt’altro che privo di implicazioni politiche. Ispirato a una novella di Camillo Boito,
ampiamente rimaneggiata, Senso racconta della passione nutrita dalla contessa Livia Serpieri (una
intensissima Alida Valli) per il tenente austriaco Franz Mahler (Farley Granger), passione che
condurrà la donna al tradimento verso i patrioti italiani impegnati nella lotta risorgimentale (fra cui il
cugino marchese Ussoni, Massimo Girotti) i cui fondi la donna consegna a Mahler perché,
progressivamente interesse nella causa patriottica, e sta proprio in questa traiettoria la dimensione
5
Lino Miccichè, Luchino Visconti, in “Enciclopedia del Cinema”, Treccani, 2004, disponibile al seguente indirizzo:
http://www.treccani.it/enciclopedia/luchino-visconti_%28Enciclopedia-del-Cinema%29/.
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di riflessione politica del film: la contessa Serpieri e il suo tradimento sono simbolici del Risorgimento
come rivoluzione mancata, segnalano la difficoltà, una volta fatta l’Italia, a “fare gli italiani” (per
appartenenza alla comunità nazionale che vada oltre il semplice e meschino interesse per i propri
fatti personali.
Certo, lo stesso Visconti, nell’elaborazione del film, compie una sorta di ‘tradimento’ della
dimensione più dottrinaria del proprio discorso ideologico: il regista finisce infatti per ricalibrare le
proprie intenzioni originarie, dedicando meno spazio del previsto alla ricostruzione della battaglia
risorgimentale di Custoza. La sequenza che ne rimane, pur visivamente splendida, ispirata com’è
alla pittura dei Macchiaioli), risulta come un corpo estraneo rispetto al nodo passionale del film:
non è infatti nella corretta ma fredda illustrazione delle dinamiche socio-storiche che risiede
davvero l’interesse del regista, che si identifica piuttosto con i personaggi che stanno dalla parte
disfatta.
Anche con il film successivo, Visconti prosegue nella revisione di ogni semplicistica idea di
fonte letteraria è una delle vere costanti del cinema viscontiano) ed è l’occasione per il regista di
mettere in scena un racconto che egli stesso definisce “neointimistico”, in aperta polemica con i
fautori di una ortodossia neorealista. Il film è ambientato a Livorno ma, con supremo rifiuto degli
ideali del rinnovamento cinematografico del dopoguerra, Visconti decide di ricostruire lo spazio
urbano totalmente in studio, e senza alcuna pretesa di realismo in senso stretto: opta piuttosto per
del cinema francese degli anni Trenta in cui il regista aveva mosso i suoi primi passi, e vivacizzata
Con Rocco e i suoi fratelli, del 1960, Visconti sembra invece tornare ad un’attenzione più
stringente alla realtà sociale a lui contemporanea: il film è infatti suddiviso in cinque macro-capitoli,
uno per ciascuno dei fratelli di una famiglia lucana emigrata a Milano. Seguendo le diverse
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traiettorie di inclusione ed esclusione sociale affrontate da Rocco, Simone, Ciro e gli altri, il film è
rimasto nella storia del cinema italiano come una delle più importanti riflessioni sulle dinamiche
della migrazione interna e del lavoro industriale negli anni del boom economico. Se il film è una
pietra miliare lo si deve anche al perfetto equilibrio che in esso trovano le diverse matrici
dell’ispirazione viscontiana, che abbiamo delineato finora: da una parte, l’analisi sociale
influenzata dal materialismo storico di stampo marxista e dalle idee di Gramsci, dall’altra la carica
narrativa ed estetica dell’immaginario melodrammatico, mobilitato qui in tutta la sua forza proprio
per raccontare al meglio i costi esistenziali del processo di modernizzazione. D’altronde il film, pur
essendo ufficialmente tratto da una raccolta di racconti sulla borgata milanese scritti da Giovanni
Testori (Il ponte della Ghisolfa), trae parimenti ispirazione dal modello della tetralogia di Thomas
Mann dedicata a Giuseppe e i suoi fratelli, che riprendeva a sua volta il racconto biblico della
Genesi. Si vede bene insomma come, pur rimanendo legato alla dimensione contestuale degli
anni Sessanta, Visconti è capace di conciliare con essa riflessioni di portata più ampia sulla
condizione umana.
Il film è tra l’altro marcato, così come tutta la produzione viscontiana, da uno sguardo
esplicitamente omosessuale: l’attrazione per il corpo maschile, per quanto ovviamente non
sottolineato esplicitamente dalla critica dell’epoca, è elemento evidente e strutturante della sua
impostazione registica. Questo è vero sin dall’esordio con Ossessione, ma tale discorso trova in
Rocco e i suoi fratelli una declinazione particolarmente efficace, perché contribuisce a caricare di
pathos i corpi dei protagonisti proletari, impegnati in uno scontro melodrammatico tra i propri
L’elemento dell’eros è presente in modo meno esplicito nel film successivo, Il Gattopardo
(1963), che però è accomunato al lavoro precedente dalla sovrapposizione tra tematica storico-
politica e ritratto esistenziale di portato pressoché filosofico. Questo capolavoro viscontiano, tratto
dalla novella di Giuseppe Tomasi di Lampedusa uscita qualche anno prima, ha di nuovo, come
Senso, un’ambientazione risorgimentale. La riflessione del regista si concentra, sul piano politico, sul
trasformismo delle classi dirigenti e sull’arrivismo della nuova borghesia proprietaria, che hanno
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segnato sin dall’inizio il sorgere del nuovo regno d’Italia. Il concomitante tramonto dell’aristocrazia
è personificato nel film dal personaggio del Principe Fabrizio, magistralmente interpretato da Burt
permette al regista di articolare non solo una disamina storica ma anche una riflessione di respiro
più ampio che concerne l’intreccio tra bellezza e decadenza, vitalità e crepuscolo: Don Fabrizio è
una figura consapevole del proprio anacronismo, ed in questo già anticipa l’inaugurarsi di
un’ultima fase finale dell’ispirazione viscontiana, tutta incentrata su uomini che si guardano
lucidamente morire.
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Lorenzo Marmo - Il cinema di Luchino Visconti
4. L’ultimo Visconti
consacrazione in patria arriva, tardiva, con il Leone d’Oro al Festival di Venezia per il film
successivo, Vaghe stelle dell’orsa (1965)6. Il film ruota intorno a due fratelli, Sandra e Gianni
(Claudia Cardinale e Jean Sorel), alle prese con un passato pieno di ombre ed un presente
legato alle vicende degli ebrei italiani durante la Seconda Guerra Mondiale, conservando dunque
un legame con la realtà storico-sociale. Nel complesso però il film appartiene decisamente
all’ultima fase della produzione viscontiana proprio perché prevale la vena soggettiva, che si
articola intorno ai tropi del trauma, della sconfitta, del destino e della morte.
Il film successivo, un adattamento dello Straniero (1967) di Albert Camus è una delle
operazioni meno fortunate di Visconti, che dovette anche scontrarsi con le pretese della vedova
dello scrittore. Ma la crisi d’ispirazione viene brillantemente superata col film successivo, La caduta
degli Dei (1969), ambiziosa saga familiare ambientata nella Germania nazista, che si potrebbe dire
costituisca il primo capitolo di una sorta di “trilogia tedesca”, tutta all’insegna dell’eccesso stilistico,
Nel successivo Morte a Venezia (1971), ispirato alla celeberrima novella di Thomas Mann
(1911), ma fortemente influenzato anche dalle opere successive dello scrittore tedesco, in primis Il
Dottor Faustus (1942), Visconti esplicita la componente omosessuale della propria ispirazione,
volgendola però in direzione funerea. Il giovane Tadzio (Björn Andrésen), di cui si innamora il
protagonista Aschenbach (Dirk Bogarde), è una sorta di angelo della morte, “più simbolo di
6
Prima di allora aveva ottenuto soltanto il Leone d’argento per Senso nel 1954.
7
Lino Miccichè, Luchino Visconti, in “Enciclopedia del Cinema”, cit.
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Lorenzo Marmo - Il cinema di Luchino Visconti
Il terzo capitolo della trilogia tedesca è invece, Ludwig (1973), biopic sui generis di Re
Ludovico II di Baviera, figura estrema di sovrano esteta della seconda metà dell’Ottocento, che
perse il nume della ragione. Il film serve a Visconti per portare alle estreme conseguenze la sua
sperimentazione con la dilatazione temporale (la lunga durata caratterizza molti dei suoi lavori sin
da La terra trema): Ludwig è infatti un film-fiume, monumentale, strabordante e kitsch quanto il suo
dell’intreccio tra l’arte e la vita (e dell’idea di fare della propria vita un’opera d’arte).
Gli ultimi film di Visconti proseguono in questa riflessione esistenziale sulla creatività, la
memoria e l’approssimarsi della fine. Gruppo di famiglia in un interno (1974), i cui Burt Lancaster,
già Gattopardo, torna a lavorare con Visconti per interpretare un professore avanti con l’età che
vive tranquillo nel proprio appartamento-museo, almeno finché le complesse vicende dei suoi
vicini di casa non giungono a disturbarne la quiete esistenziale. Il film è tutto girato in interni, come
suggerisce già il titolo: per un regista che aveva esordito con il neorealismo ed il suo uso innovativo
Anche l’ultimo film di Visconti, L’innocente (1976), tratto dall’omonimo romanzo di Gabriele
D’Annunzio, propone il leitmotiv di tutta l'opera viscontiana: il crollo di un mondo, di una società e
di un'epoca, visto attraverso la sconfitta di uno o più individui che ne rappresentano la classe
egemone.
Il film d’altronde uscirà postumo: afflitto da problemi di salute già dal 1972 (era stato colpito
da ictus al termine delle riprese di Ludwig), Visconti si spegne a Roma il 17 marzo 1976, senza aver
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Lorenzo Marmo - Alfred Hitchcock
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Lorenzo Marmo - Alfred Hitchcock
maestro del brivido perdura anche a quarant’anni di distanza dalla sua morte, ed i suoi film sono
considerati tra i massimi capolavori dell’arte cinematografica del Novecento. La chiave del
successo di Hitchcock sta nella capacità di articolare intrecci formidabili carichi di tensione,
conciliando l’armonia stilistica e narrativa del cinema classico (un cinema pieno, avvolgente, che
cattura la fantasia dello spettatore catapultandolo nel mondo diegetico con forza mitopoietica) e
lo sperimentalismo spericolato del cinema moderno (un cinema più intellettuale, autoriflessivo, che
tramite ardite scelte stilistiche mette lo spettatore a parte del processo costruttivo della macchina
finzionale). Non a caso Gilles Deleuze ha definito Hitchcock “l’ultimo dei classici e il primo dei
moderni”1, proprio ad indicare il collocarsi della lunga carriera hitchcockiana, durata oltre
cinquant’anni, sul crinale tra la logica dell’intrattenimento puro e la spinta alla riflessione. Una
riflessione, finanche filosofica, sull’identità, sul desiderio, sullo sguardo, e su come tutti questi
Campione di ironia, oltre che di suspense, Hitchcock fu capace di creare una cifra stilistica
inconfondibile, basata su un controllo assoluto del processo creativo: arrivava infatti sul set del tutto
pronto a girare, avendo già immaginato ogni movimento di macchina e ogni dettaglio della
messa in scena tramite degli storyboard (aveva d’altronde studiato brevemente disegno
all’Università di Londra negli anni della formazione). Questa idea di Hitchcock come un vero e
proprio demiurgo, che poteva disporre a piacimento dei propri spettatori, facendoli spaventare,
eccitare o divertire, fu coltivata attivamente dal regista stesso, che gestì sapientemente la propria
immagine pubblica: la sua silhouette pingue divenne un vero e proprio marchio di fabbrica, in
particolare a partire dal suo impegno nella serie televisiva Alfred Hitchcock Presents (Alfred
Hitchcock presenta, 1955-1962) di cui egli introduceva tutti gli episodi con un breve prologo in cui
faceva interpellava direttamente il pubblico e faceva mostra del suo proverbiale gusto per l’orrore
1
Gilles Deleuze, Cinema 1. L’immagine-movimento (1983), Milano, Ubulibri, 1984.
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copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).
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e soprattutto del suo humor tipicamente inglese. D’altronde, questa dimensione di complicità
esplicita con il pubblico era già stato anticipato dalla divertente abitudine di fare una
comparsata, muta e fugace, in ciascuno dei propri film, invitando lo spettatore affezionato a stare
attento a ogni dettaglio della messa in scena, delle inquadrature e dei movimenti di macchina per
Anche senza questa piccolo gioco autoriale, comunque, la ‘firma’ di Hitchcock sarebbe in
ogni caso presente ovunque nella sua filmografia, perché l’impronta del suo stile è davvero
indelebile ed inconfondibile (ed è stata anche molto imitata). Esso si caratterizza appunto per la
capacità di giostrare con assoluta maestria le dimensioni della sorpresa e della suspense. Mentre la
sorpresa si verifica, com’è ovvio, quando rimaniamo sbalorditi perché sullo schermo accade
qualche cosa d’inaspettato, la suspense invece implica un discorso un po’ più complesso, relativo
ad un’accuratissima gestione del posizionamento del pubblico. Nel caso della struttura a suspense,
infatti, lo spettatore viene collocato in una posizione intermedia tra il sapere assoluto di cui è
capace di instillare in egli/ella una forma di ansia e di attesa assolutamente peculiare. Questo
discorso è valido sia a livello macro (in relazione alla struttura complessiva del materiale narrativo)
sia a livello micro, ovvero in senso strettamente visivo (Hitchcock sceglie accuratamente in ogni
scena cosa inquadrare con la macchina da presa e cosa lasciare invece fuori campo, e talvolta
lo spazio non visualizzato si configura per l’esperienza dello spettatore come un altrove
Hitchcock attua così anche una riflessione sui meccanismi della visione e della percezione.
La sua opera si segnala anche per alcuni movimenti di macchina che sono rimasti
spettatore. Si pensi al carrello in avanti nel finale di Young and Innocent (Giovane e innocente,
1937) o a quello che va a stringere sulla chiave all’inizio della sequenza della festa in Notorious
(Notorius – l’amante perduta, 1946): entrambi costituiscono delle vere e proprie concretizzazioni
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del desiderio di conoscere e guardare che fonda la nostra esperienza sia cinematografica che più
ampiamente esistenziale.
Spesso, d’altronde, il motore dell’intrigo, ciò che mette in marcia la narrazione, non è che
un pretesto (che Hitchcock chiamava col nome, anch’esso del tutto pretestuoso, di MacGuffin),
mentre ciò che interessa davvero al regista è appunto la gestione della situazione di angoscia, di
L’importanza del cinema di Hitchcock non venne inizialmente colta dalla critica: forse
proprio a causa di un’incapacità di cogliere la profondità delle implicazioni sottese alla sua opera,
che appariva ad occhi poco attenti come mera produzione di genere. Hitchcock soffrì insomma il
pregiudizio negativo nutrito rispetto agli stilemi del thriller e del giallo, considerati, specie negli Stati
Uniti (meno nel Regno Unito, da cui egli proveniva e dove aveva incominciato la propria carriera),
dei generi minori, puramente di cassetta e lontani dalla ricerca artistica più seria. Fu soltanto negli
anni Cinquanta e Sessanta che, grazie soprattutto al lavoro interpretativo dei critici/cineasti
francesi dei “Cahiers du cinéma” e della Nouvelle Vague (anzitutto François Truffaut, Claude
Chabrol ed Éric Rohmer2) che Hitchcock iniziò ad affermarsi come vero e proprio modello di
Autore cinematografico, per essere poi riconosciuto anche presso la sua patria d’adozione, gli Stati
2
Éric Rohmer, Claude Chabrol, Hitchcock (1957), a cura di Antonio Costa, Venezia, Marsilio, 1996; François Truffaut,
Il cinema secondo Hitchcock (1966), Parma-Lucca, Pratiche, 1977.
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2. Il periodo inglese
Nato a Londra il 13 agosto 1899 da genitori cattolici, Hitchcock iniziò a lavorare in campo
cinematografico intorno al 1920, realizzando bozzetti preparatori delle scene, nonché titoli e
intertitoli, presso gli studi londinesi di Islington. Il suo primo film, Number Thirteen, iniziato nel 1922,
rimarrà però incompiuto per mancanza di finanziamenti (ed è oggi considerato perduto). Il suo
periodo di apprendistato più importante doveva, d’altronde, ancora arrivare: nel 1924, grazie ad
un accordo tra Michael Balcon della Gainsborough Pictures e il produttore tedesco Erich Pommer,
si recò a Berlino per un praticantato presso gli studi dell’importantissima casa di produzione UFA.
L’incontro con la realtà cinematografica tedesca, ed in particolare con un regista come Friedrich
Wilhelm Murnau, segnò fortemente il giovane aspirante regista, specialmente per quanto riguarda
il controllo finanche maniacale dei dettagli della messa in scena e lo sperimentalismo dei
movimenti della macchina da presa, di cui Murnau era maestro riconosciuto. I film che Hitchcock
realizzò in seguito mostrano già gli effetti positivi di questo incontro: si tratta di due co-produzioni
anglo-tedesche, The Pleasure Garden (Il labirinto delle passioni, 1925) e The Lodger (Il pensionante,
1927). In particolare quest’ultimo film (che riprende il celebre caso del serial killer Jack lo
squartatore) rappresenta la prima, chiara prova del talento hitchcockiano: vi appare già la figura
già evidente la capacità di creare atmosfere pervase dal dubbio e dall’ossessione. Il film è, al
tempo stesso, una terrificante riflessione sui meccanismi della violenza di massa (è rimasta celebre
L’ispirazione di cui Hitchcock dà prova in questo film è già in piena consonanza con le fasi
più mature della sua carriera, ed essa colpisce a maggior ragione se si considera che non tutti i
numerosi film girati nel periodo immediatamente successivo proseguono in questa linea di ricerca
già così sicura di sé. Tra i titoli che meritano di essere menzionati ci sono però i seguenti:
Blackmail (Ricatto, 1929): girato muto, venne poi sonorizzato e finì per essere il primo film
sonoro inglese in assoluto. Vi compaiono già alcuni elementi essenziali della poetica
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hitchcockiana, dalla protagonista femminile bionda (qui Anny Ondra) alla scena di climax
della tensione ambientata in un luogo famoso e affollato (in questo caso il British Museum),
consapevole della situazione di pericolo ma è immerso in una folla ignara di ciò che sta
accadendo), sia a riflettere sullo spazio pubblico e sul ruolo delle istituzioni e dei monumenti
Murder! (Omicidio, 1930): storia di suspense ambientata nel mondo del teatro, in cui
compare già il tema del travestitismo e dell’ambiguità sessuale che avrà un ruolo
importante molto più avanti nella carriera di Hitchcock, con Psycho (Psyco, 1960).
Rich and Strange (Ricco e strano, 1932): una delle poche opere hitchcockiane che si
collocano al di fuori del genere thriller, proponendo piuttosto un apologo assai originale su
un matrimonio che viene messo in crisi da una ricchezza improvvisa. D’altronde, il discorso
sulla coppia, sul processo di conoscenza dei desideri propri e reciproci, sarà uno dei grandi
temi del cinema di Hitchcock, sempre intento a riflettere sul confronto tra identità maschile
partire pressappoco dalla metà degli anni Trenta, con film come The Man Who Knew Too Much
(L’uomo che sapeva troppo, 1934), su una coppia di turisti inglesi in Svizzera il cui figlioletto viene
rapito, e The 39 Steps (Il club dei trentanove, 1935), in cui la figura dell’innocente perseguitato
viene declinata insieme a quella della coppia in fuga, in una commistione di suspense e humor
Altri titoli assai notevoli di questo periodo sono Sabotage (Sabotaggio, 1936), Young and
Innocent (Giovane e innocente, 1937) e The Lady Vanishes (La signora scompare, 1938), tutti film
incentrati su protagoniste femminili che, pur diverse le une dalle altre, si dimostrano fortemente
3
Si pensi, a questo proposito, al finale presso la Statua della Libertà in Saboteur (Sabotatori, 1942) o alla scena presso
il Palazzo delle Nazioni Unite in North by Northwest (Intrigo internazionale, 1959).
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intraprendenti e volitive: l’attenzione del regista per figure femminili complesse sarà in effetti
carismatico delle eroine hitchcockiane, pur rimanendo centrali nel cinema del regista, subiranno
notevoli metamorfosi qualitative col passare del tempo: i rapporti tra i sessi diventeranno sempre
meno lineari e complici, e parimenti la capacità dei personaggi femminili di prendere in mano le
redini della narrazione dovrà scontrarsi con una crescente tortuosità esistenziale, nell’arco della
La sequela di successi inanellata da Hitchcock, ormai ben affermato nel panorama del
cinema inglese, attirò infatti l’attenzione di Hollywood: messo sotto contratto dal produttore David
O. Selznick, il regista salpa per l’America, insieme alla moglie e alla figlia, nell’estate del 1939, poco
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3. Il trasferimento a Hollywood
Il periodo statunitense della carriera di Hitchcock si aprì con Rebecca (Rebecca, la prima
successo, vincendo l’Oscar per il miglior film dell’anno4. Il film appartiene al genere del
melodramma gotico, e come molti prodotti di questo genere, si concentra su una protagonista
femminile e sulla sua difficoltà di intendersi con uno sposo tenebroso e umorale. Rebecca, così
come il successivo Suspicion (Il sospetto, 1941), con cui condivide l’intensa protagonista Joan
Fontaine (Oscar per il film del 1941), sembra proporre un’equazione tra matrimonio e pericolo.
L’atmosfera di angoscia che caratterizza il rapporto coniugale è condensata meglio che mai nella
celeberrima sequenza, appartenente al secondo film, in cui il marito (interpretato da Cary Grant,
alla prima di molte collaborazioni con Hitchcock) porta alla moglie malata un bicchiere di latte
che ella sospetta sia avvelenato: per far risaltare il biancore inquietante del liquido Hitchcock
ingegnosamente mise nel bicchiere una lampadina. Sono proprio queste trovate molto creative
siano o meno degli assassini, si può d’altronde dire che il tema della colpa, vera o presunta, sia
davvero uno dei fili rossi più importanti della carriera di Hitchcock. L’indagine di questo tema può
assumere connotazioni esplicitamente freudiane, incrociando l’estetica del noir, in un film come
Spellbound (Io ti salverò, 1945), in cui Ingrid Bergman interpreta una psicoanalista che cerca di
scoprire il trauma infantile del collega di cui è innamorata (Gregory Peck) che potrebbe essere un
omicida inconsapevole5. O ancora il tema della colpa può essere anche ricondotto alla matrice
cattolica della formazione di Hitchcock (I Confess, Io confesso, 1953, con Montgomery Clift nel
ruolo di un sacerdote afflitto dal segreto confessionale). Altri film riflettono invece sullo scambio e la
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Il film non vinse però l’Oscar per la migliore regia, che andò invece a John Ford per The Grapes of Wrath (Furore):
visto che il premio per il miglior film è assegnato al produttore e non al regista, Hitchcock non vinse mai un Oscar in
una categoria competitiva.
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Il film risulta piuttosto meccanico nell’utilizzo delle teorie di Freud, ma è rimasto famoso per la sequenza onirica, a
cui collaborò Salvador Dalì.
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confusione tra colpevolezza e innocenza (Strangers on a Train, L’altro uomo, 1951; ma anche The
Wrong Man, Il ladro, 1956, il più austero dei film di Hitchcock, in cui un errore giudiziario innesca una
investe anche quelli femminili: da The Paradine Case (Il caso Paradine, 1947) con Alida Valli
accusata di uxoricidio, a Under Capricorn (Il peccato di Lady Considine, 1949), fino a Marnie
(1964), che rappresenta un ritorno alle tematiche psicanalitiche nell’ultima fase della carriera.
Anche Notorious rientra in qualche modo in questo filone, seppur in modo del tutto
peculiare: Ingrid Bergman vi interpreta la figlia di un criminale nazista che, per espiare le colpe
paterne, diventa una spia al servizio degli americani, sposando uno dei vecchi complici di suo
padre e riproponendo dunque la struttura del matrimonio come trappola mortale. Nell’intreccio
della dimensione thriller con una storia d’amore struggente, il film costituisce senz’altro uno dei
Il tema del sospetto lancinante che una persona cara sia malvagia, viene esacerbato in un
film come Shadow of a Doubt (L’ombra del dubbio, 1943), in cui i due personaggi non sono più
legati romanticamente, ma imparentati. La giovane Charlie (Teresa Wright) nutre per lo zio Charlie
(Joseph Cotten), da cui ella stessa prende il nome, una fortissima ammirazione, in cui l’amore filiale
sconfina in affinità elettiva e dunque in identificazione. Il film ruota intorno alla scoperta che l’uomo
è un assassino seriale: anziché relegare il Male nella debita distanza dell’alterità, Hitchcock fa qui
del personaggio negativo una figura affascinante, cui non solo la protagonista ma anche lo
spettatore stesso non può che allinearsi, almeno fino ad un certo punto della vicenda.
Un altro tipo di identificazione con i cattivi emerge invece in modo molto netto in un film del
1948, Rope (Nodo alla gola): il film si svolge tutto all’interno dell’appartamento di una giovane
coppia di omosessuali newyorchesi (John Dall e Farley Granger), i quali, nella primissima scena del
film, uccidono un loro compagno di studi e ne nascondono il corpo in una cassapanca. Su di essa
poi, come nulla fosse, imbandiscono un cocktail party a cui sono invitati parenti e amici del morto.
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Lorenzo Marmo - Alfred Hitchcock
La vicenda è girata da Hitchcock con la tecnica particolare di una catena di lunghi piani-
sequenza, ciascuno della durata di dieci minuti, in modo da creare per lo spettatore un’esperienza
fortemente immersiva. C’è chiaramente, in questo film, una consonanza tra l’impresa ardita degli
assassini (la loro è una sfida superomistica a tutte le convenzioni etiche e giudiziarie) e l’impresa
ardita di Hitchcock (che articola la propria messa in scena con un virtuosismo allora inusitato,
sfidando le convenzioni linguistiche ed estetiche del cinema classico). In effetti gli assassini, proprio
come Hitchcock, sono dei registi che cercano di manipolare lo spazio e la narrazione: e lo
morale dei personaggi da una parte, ma partecipando del loro gioco demiurgico dall’altra.
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Lorenzo Marmo - Alfred Hitchcock
Pur non essendo forse uno dei risultati più compiuti dell’opera hitchcockiana, Rope è in ogni
caso un film cardine, grazie appunto alla sua sperimentazione con lo spazio chiuso e anche con il
Il discorso dello spazio chiuso, già presente nella claustrofobica ambientazione ferroviaria di
The Lady Vanishes, e in Lifeboat (Prigionieri dell’oceano, 1944, riflessione geopolitica interamente
ambientata sulla scialuppa di salvataggio di una nave affondata durante la Seconda Guerra
Mondiale), trova poi una summa in Dial M for Murder (Delitto perfetto, 1954). Il film costituì uno dei
primi esperimenti di cinema in 3D, una tecnologia che garantisce allo spettatore un’immersione
ancora più radicale nell’ambiente unico del set (anche qui un salotto borghese), dando forte
risalto agli oggetti (le forbici del violentissimo delitto) e ai corpi. Il pubblico si trova come
catapultato su un palcoscenico: sia Rope che Dial M for Murder hanno origini teatrali, e la regia
movimentata e sapiente di Hitchcock fa sì che nessuno dei suoi film soffra della benché minima
hitchcockiano, Rear Window (La finestra sul cortile, 1954): qui però l’appartamento del
protagonista, più che funzionare come un palcoscenico o un set di cui bisogna orchestrare la
regia, sembra allegorizzare un altro spazio, ovvero quello della sala. Il protagonista James Stewart,
immobilizzato su una sedia a rotelle per un incidente, passa il tempo a osservare i propri vicini dalla
finestra, proprio come uno spettatore che guarda avidamente lo schermo cinematografico, e
finisce per sospettare la macchinazione di un delitto. Il film articola così una riflessione superlativa
sullo sguardo e sul desiderio di guardare (in termini psicoanalitici: il voyeurismo) e la dimensione
metacinematografica che caratterizza l’intera opera hitchcockiana raggiunge qui la sua forma
più esplicita.
Accanto a queste riflessioni sullo spazio unico, sull’interno claustrofobico come metafora
delle dinamiche spettacolari del cinema e del teatro, il cinema di Hitchcock è attraversato,
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viceversa, anche da un impiego assai significativo del paesaggio. Si pensi, per citare solo uno di
molti esempi, al particolare uso di San Francisco in Vertigo (La donna che visse due volte, 1958): i
panorami collinosi della città, con le sue discese vertiginose, diventa il correlato spaziale perfetto
per le forme ossessive che animano la mente del protagonista, un ex poliziotto catturato in un
labirinto di inganni, doppi e simulacri. Lo spazio urbano della città californiana contribuisce qui in
modo assolutamente peculiare alla costruzione di un’atmosfera voyeuristica, esso diviene a tutti gli
effetti un paesaggio del desiderio. A questo stesso fine è adoperato anche il colore: la
sperimentazione cromatica, specie con il filtro verde, che Hitchcock attua in questo film è
fondamentale all’articolazione di quella che è forse la punta più esplicitamente filosofica del suo
cinema.
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Non a caso per il film successivo, Psycho (Psyco, 1960) Hitchcock torna invece al bianco e
nero. Il film prosegue la riflessione sul voyeurismo e sull’ambiguità sessuale, e per farlo infrange
molte regole del racconto classico, facendo morire la protagonista a metà del film e cercando,
nella celebre scena della doccia e in altri passaggi, una modalità di coinvolgimento con lo
schermo ancora più viscerale delle forme immersive sperimentate finora. La ricerca di un thrill
puramente fisico, vicino a quello tipico del genere horror, fa del film un anticipatore delle forme del
dello spettatore.
La qualità di svolta epocale di questo film non può dunque essere sottovalutata, e lo stesso
può dirsi per The Birds (Gli uccelli, 1963). In questo film, famosamente incentrato sulla rivolta dei
pennuti in una cittadina californiana, Hitchcock preferisce non fornire alcuna spiegazione per
l’improvviso scatenarsi della violenza: se ne potrebbe proporre una lettura filosofica, psicoanalitica,
proprio a lasciare aperto l’interrogativo, per riflettere sulla minaccia e sulla paura nella loro forma
(Torn Curtain, Il sipario strappato, 1966; Topaz, 1969), ma il Maestro torna poi in piena forma per i
suoi ultimi due film. Frenzy (1972) è ancora una volta la storia di un assassino seriale ma il regista,
essendo venuto ormai meno il codice di censura, può finalmente affrontare i temi dell’eros e della
violenza con tutta la crudezza che si meritano. Ciò che ne emerge è uno sguardo disincantato
sulla natura umana e sui rapporti tra i sessi, un sugello amaro a proposito delle problematiche che
hanno attraversato la sua intera carriera. L’ultimo film, Family Plot (Complotto di famiglia, 1976), si
conclude però su una nota più allegra, mischiando ancora una volta thriller e commedia e
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ricordandoci perciò l’importanza della componente dello humor nella produzione hitchcockiana 6.
Dopo qualche anno di inattività, Alfred Hitchcock muore a Hollywood il 29 aprile 1980.
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A questo proposito si veda l’intreccio tra thriller e commedia sofisticata di To Catch a Thief (Caccia al ladro, 1955),
ma anche una cinica commedia nera come The Trouble with Harry (La congiura degli innocenti, 1955).
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Anna Bisogno - La via americana della TV italiana
Indice
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Anna Bisogno - La via americana della TV italiana
1. L’America in casa
Le mode e gli stili di vita provenienti dagli Usa sembravano appagare il diffuso desiderio di
In realtà però non ci si può riferire all’americanizzazione come ad una fase di mutamento
CASA
La storia d’Italia è fatta di frammentazioni regionali, di una tardiva unificazione, di una lenta
diffusione della lingua nazionale. L'integrazione fra i due livelli in senso nazionalpopolare è sempre
stato un punto dolente, come affermò Antonio Gramsci nei suoi "Quaderni del carcere".
I nuovi beni comunicano nuovi valori: la televisione è il simbolo dell’uscita da una comunità
nuovo appartamento è il luogo dove creare una nuova domesticità per la famiglia nucleare,
un’intimità prima sconosciuta, una nuova gerarchia di spazi. I beni materiali rappresentano la
negazione di un passato di miseria e la realizzazione del sogno italiano (E. Scarpellini, 2008)
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Anna Bisogno - La via americana della TV italiana
Negli anni Cinquanta l’improvviso insorgere di un nuovo modello di consumo individuale, sul
modello americano, si dimostra di difficile conciliazione sia con la visione cattolica del mondo che
con quella comunista. Si assiste ad una fuga di massa dalle campagne in virtù di un’attrazione
verso la moderna cultura urbana e alla diffusione di una nuova cultura basata sul disimpegno e
sulla secolarizzazione.
attraverso 3 vie:
TELEVISIONE: the American way of television. Sergio Pugliese, che nel 1953 ebbe
Mike Bongiorno. E’ lui, infatti, che compare il primo giorno della tv italiana subito dopo
personalità importanti di passaggio dall’Italia e molto vicino alla sua cifra stilistica di
mediatore fra culture diverse; la prima rubrica della tv. Sarà lui a lanciare nel 1955 il quiz
che sarà la vera “killer application” della tv italiana per la crescita esponenziale degli
abbonati e del successo, nonché il più forte anello di congiunzione con i palinsesti
CINEMA: con Hollywood che diventa fabbrica di sogni attraverso il cinema di genere e
lo star system e con la città di Roma che diventa meta delle major americane, scalo
dei divi e delle dive, e Cinecittà set cinematografico privilegiato per le grandi
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L’avvento della televisione in Italia è generalmente ascritto, con varie sfumature, alla
cultura cattolica italiana nelle sue componenti modernizzanti, con intenti pedagogici. Tuttavia, nel
novembre 1955, quando le trasmissioni televisive ufficiali sono iniziate da un anno e mezzo e le
famiglie abbonate sono appena 150 mila1, sarà il quiz Lascia o raddoppia? a rivoluzionare i
consumi culturali e le abitudini degli italiani – le cronache e i transiti intermediali sono fin troppo noti
esibita come marca distintiva del servizio pubblico televisivo: educare, informare, intrattenere, in
rigoroso ordine di apparizione. Da qui partirà una rapida impennata dei consumi televisivi che
porterà gli abbonamenti privati ben sopra il milione in soli tre anni.
un omologo francese, Quitte o double? La Rai ne comprò i diritti per l’Italia, perché quelli del
come vallette-assistenti, prima Maria Giovannini che, per le troppe papere e indecisioni, fu
sostituita da Edy Campagnoli, che divenne subito una beniamina del grande pubblico.
momento della scoperta della Tv e, al tempo stesso, il momento in cui la tv scopre l’Italia», ha
in maniera veritiera e, insieme, empatica. Questo afferma anche Sergio Pugliese, direttore centrale
dei programmi televisivi, nel 1958: «I giochi a quiz hanno semplicemente scoperto e rivelato il
dramma intimo, le verità celate di piccoli uomini della strada a milioni di altri uomini della strada».
Per la televisione l’uomo comune è il soggetto migliore. La struttura seriale della tv e la sua
1Gli abbonamenti ad uso privato sono 147.516 nel 1955. Rai, Gli abbonamenti alla radio e alla televisione, Roma
1982, p. 217.
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Nel giugno 1955 The $64.000 Question viene lanciato dalla CBS con un immediato,
grandissimo successo. Uno dei primi eroi del programma CBS è Gino Prato, un emigrato italiano.
Era partito nel 1922 da Ne Ligure, nel Levante genovese, per cercare fortuna a New York, dove
aveva imparato a fare il lustrascarpe e il calzolaio. Come si comprende siamo già nella leggenda,
La sua passione era la musica: la sera dopo il lavoro girava per i locali dell'East River con il
suo organetto e cantava in cambio di qualche spicciolo. Ascoltava le opere liriche sul
grammofono di un vicino di casa; conosceva a memoria decine di libretti. Una storia da talentuoso
everyman, vera o artefatta che sia, che appare come il primo atto di ogni commedia, o tragedia,
americana.
Una leggenda metropolitana racconta che per il suo bel canto fu notato da un dirigente
della Cbs, ma lui stesso, in un'intervista del 7 settembre 1955 a "La settimana Incom", disse: "La mia
figlia ha scritto la lettera mia per chiamarmi. Mi hanno fatto l'intervista prima di andare alla
televisione, e poi mi hanno detto 'tu sei l'uomo che vogliamo!'" Poi la svolta, con la partecipazione
alla trasmissione: è il secondo atto. Puntata dopo puntata, Prato arriva fino al gradino dei 32.000
dollari, a un passo dal traguardo massimo. Qui però un colpo di scena: il gran rifiuto, dopo aver
letto in diretta, prima in italiano e poi in inglese, un telegramma giunto dall’Italia: «Fermati». Era il
consiglio dell’anziano padre, e Prato ubbidì. Al termine della puntata, tra riflettori e flash, dichiarò
che il suo maggior desiderio era quello di rivedere, dopo 33 anni, il suo vecchio padre
laborioso immigrante, l’obbedienza al padre, l’attaccamento alla famiglia, la saggezza del suo
gesto - per il quale si scomoda, per un paragone, la tragedia greca - varcano i confini della
trasmissione, per approdare in altri programmi (il Perry Como Show della NBC) e circolare
ampiamente sui news magazines (Fortune e Newsweek tra gli altri), prodotti mediali mainstream in
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da
copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).
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un’America ancora fiduciosa nella sua televisione, non ancora scossa dagli scandali del 1958 che
fotografico (27 immagini) dell’agosto 1955, erroneamente etichettato come «Joe DiMaggio in
Italia», ma dedicato in realtà al viaggio in Italia di Gino Prato, avvenuto durante una ricerca
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DiMaggio fu solo uno dei personaggi che Prato incontrò in Italia: una vera e propria tournée
che anticipò di fatto, probabilmente in senso promozionale, il lancio di Lascia o raddoppia? tre
mesi dopo, evidenziando anche il legame della trasmissione con gli Stati Uniti, paese moderno per
italiano, che ha fatto fortuna nel Bronx e sui teleschermi americani, diventa così testimonial, non
meno di Mike Bongiorno, di questo legame e di questa spola attraverso fra Stati Uniti e Italia.
fotografiche come quello di un divo del cinema: uno di quegli Arrivi e partenze con cui Mike
Bongiorno aveva iniziato la sua collaborazione con la Rai il giorno stesso dell’inaugurazione dei
programmi2. Anche il set della sua passeggiata per le strade di Roma, a via Veneto in particolar
modo, rimanda al nesso fra lo showbiz americano e il nostro paese. Qui il musicofilo Prato, davanti
agli obiettivi della troupe CBS che aveva organizzato il viaggio di Prato in Italia, e alle Rolleiflex dei
marito di Marylin Monroe, poi l’ambasciatrice americana Clare Boothe Luce in uno dei caffè che si
allineano lungo la via. Clare è moglie del fondatore ed editore di Time, Henry Luce, inquieta
L’incontro con l’ambasciatrice conferisce un tono più ufficiale al viaggio di Gino Prato.
Nella foto, si intravede sul tavolino una copia del magazine americano Newsweek in cui The
$64.000 Question è la storia di copertina; anzi, è proprio questo il dettaglio che ci ha permesso di
identificare la vicenda che qui stiamo esponendo. Prato sarà poi ricevuto da Papa Pio XII e da
Arturo Toscanini, altro pendolare sulla rotta Italia-Stati Uniti, che lo invita ad assistere ad un’opera
alla Scala.
2La rubrica Arrivi e partenze, presentata da Mike insieme ad Armando Pizzo, esordisce alle 14.30 del 3 gennaio
1954. La regia è di Antonello Falqui, che sarà il principale regista dell’intrattenimento Rai. Cfr. A. Grasso, Storia
della televisione italiana, op. cit., pp. 20 e 27.
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Esaurita la parte formale del viaggio, pur indispensabile per la sua legittimazione, si può
dare spazio alle vicende dell’uomo comune, a cui il quiz ha consentito di mostrare ad altre
persone comuni i risvolti emozionali e patemici della sua vita. Come in un road movie, la comitiva
Dopo 33 anni l’emigrante arriva al suo paese natale, Ne, un minuscolo borgo arrampicato
piazza tra il ronzio delle macchine da presa e gli scatti dei fotografi; si riconosce il parroco.
flashback, il “gran rifiuto”: i familiari italiani che ascoltano alla radio il loro congiunto che annunzia
di accontentarsi dei 32.000 dollari senza «raddoppiare» fino a 64.000, seguendo i consigli del padre
giunti telegraficamente dall’Italia. Ovviamente un tableau vivant in cui si mettono in scena parenti,
raccolti intorno all’anziano patriarca ad ascoltare alla radio il “gran rifiuto” del figlio alla TV
americana. Infine, l’acme della vicenda: l’abbraccio con il padre, anziano, commosso, forse non
microfono della Radio (allora medium mainstream in Italia), destinato a documentare e a rendere
duraturo l’attimo fuggente dell’abbraccio. Con il ritorno a casa dell’eroe, l’emozione è completa.
La metafora non potrebbe essere più chiara: i sonanti gettoni d’oro attraversano le
cronache; la TV è ancora assistita dalla radio, dai magazine, dai cinegiornali4. E’una intermedialità
di convenienza, subìta, presto travolta dal successo del medium televisivo, che mette insieme il
ricongiungimento armonioso dei padri con i figli (la vecchia Europa e la nuova America), nel segno
di un intrattenimento che - lungi da essere mero divertimento - coltiva il lato patemico delle
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vicende umane. Inutile aggiungere che - nell’approssimarsi dell’inizio di Lascia o raddoppia? - tutto
La Settimana Incom
Un passo indietro. Nel 1938 Sandro Pallavicini fonda la Incom, casa di produzione di
cortometraggi, che, impossibilitata a infrangere il monopolio dell’Istituto Luce nei cinegiornali, fino
fortemente propagandistici.
Nel 1946 è tutto cambiato: il Notiziario Luce Nuova non sembra in grado di liberarsi del suo
ingombrante passato e così nasce la Settimana Incom, più al passo con i tempi in cui la gente,
prima del film in programmazione, a cui si affianca una rivista settimanale illustrata che ha lo stesso
nome. Un appuntamento seguitissimo, unica fonte di informazione per chi non leggeva i giornali,
Dieci minuti di cronaca leggera e attualità. Con le notizie lette da una voce stentorea,
squillante e sempre ottimista. Perché l'Italia in ricostruzione aveva bisogno di tante dosi di ottimismo
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Indice
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maestro del brivido perdura anche a quarant’anni di distanza dalla sua morte, ed i suoi film sono
considerati tra i massimi capolavori dell’arte cinematografica del Novecento. La chiave del
successo di Hitchcock sta nella capacità di articolare intrecci formidabili carichi di tensione,
conciliando l’armonia stilistica e narrativa del cinema classico (un cinema pieno, avvolgente, che
cattura la fantasia dello spettatore catapultandolo nel mondo diegetico con forza mitopoietica) e
lo sperimentalismo spericolato del cinema moderno (un cinema più intellettuale, autoriflessivo, che
tramite ardite scelte stilistiche mette lo spettatore a parte del processo costruttivo della macchina
finzionale). Non a caso Gilles Deleuze ha definito Hitchcock “l’ultimo dei classici e il primo dei
moderni”1, proprio ad indicare il collocarsi della lunga carriera hitchcockiana, durata oltre
cinquant’anni, sul crinale tra la logica dell’intrattenimento puro e la spinta alla riflessione. Una
riflessione, finanche filosofica, sull’identità, sul desiderio, sullo sguardo, e su come tutti questi
Campione di ironia, oltre che di suspense, Hitchcock fu capace di creare una cifra stilistica
inconfondibile, basata su un controllo assoluto del processo creativo: arrivava infatti sul set del tutto
pronto a girare, avendo già immaginato ogni movimento di macchina e ogni dettaglio della
messa in scena tramite degli storyboard (aveva d’altronde studiato brevemente disegno
all’Università di Londra negli anni della formazione). Questa idea di Hitchcock come un vero e
proprio demiurgo, che poteva disporre a piacimento dei propri spettatori, facendoli spaventare,
eccitare o divertire, fu coltivata attivamente dal regista stesso, che gestì sapientemente la propria
immagine pubblica: la sua silhouette pingue divenne un vero e proprio marchio di fabbrica, in
particolare a partire dal suo impegno nella serie televisiva Alfred Hitchcock Presents (Alfred
Hitchcock presenta, 1955-1962) di cui egli introduceva tutti gli episodi con un breve prologo in cui
faceva interpellava direttamente il pubblico e faceva mostra del suo proverbiale gusto per l’orrore
1
Gilles Deleuze, Cinema 1. L’immagine-movimento (1983), Milano, Ubulibri, 1984.
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e soprattutto del suo humor tipicamente inglese. D’altronde, questa dimensione di complicità
esplicita con il pubblico era già stato anticipato dalla divertente abitudine di fare una
comparsata, muta e fugace, in ciascuno dei propri film, invitando lo spettatore affezionato a stare
attento a ogni dettaglio della messa in scena, delle inquadrature e dei movimenti di macchina per
Anche senza questa piccolo gioco autoriale, comunque, la ‘firma’ di Hitchcock sarebbe in
ogni caso presente ovunque nella sua filmografia, perché l’impronta del suo stile è davvero
indelebile ed inconfondibile (ed è stata anche molto imitata). Esso si caratterizza appunto per la
capacità di giostrare con assoluta maestria le dimensioni della sorpresa e della suspense. Mentre la
sorpresa si verifica, com’è ovvio, quando rimaniamo sbalorditi perché sullo schermo accade
qualche cosa d’inaspettato, la suspense invece implica un discorso un po’ più complesso, relativo
ad un’accuratissima gestione del posizionamento del pubblico. Nel caso della struttura a suspense,
infatti, lo spettatore viene collocato in una posizione intermedia tra il sapere assoluto di cui è
capace di instillare in egli/ella una forma di ansia e di attesa assolutamente peculiare. Questo
discorso è valido sia a livello macro (in relazione alla struttura complessiva del materiale narrativo)
sia a livello micro, ovvero in senso strettamente visivo (Hitchcock sceglie accuratamente in ogni
scena cosa inquadrare con la macchina da presa e cosa lasciare invece fuori campo, e talvolta
lo spazio non visualizzato si configura per l’esperienza dello spettatore come un altrove
Hitchcock attua così anche una riflessione sui meccanismi della visione e della percezione.
La sua opera si segnala anche per alcuni movimenti di macchina che sono rimasti
spettatore. Si pensi al carrello in avanti nel finale di Young and Innocent (Giovane e innocente,
1937) o a quello che va a stringere sulla chiave all’inizio della sequenza della festa in Notorious
(Notorius – l’amante perduta, 1946): entrambi costituiscono delle vere e proprie concretizzazioni
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del desiderio di conoscere e guardare che fonda la nostra esperienza sia cinematografica che più
ampiamente esistenziale.
Spesso, d’altronde, il motore dell’intrigo, ciò che mette in marcia la narrazione, non è che
un pretesto (che Hitchcock chiamava col nome, anch’esso del tutto pretestuoso, di MacGuffin),
mentre ciò che interessa davvero al regista è appunto la gestione della situazione di angoscia, di
L’importanza del cinema di Hitchcock non venne inizialmente colta dalla critica: forse
proprio a causa di un’incapacità di cogliere la profondità delle implicazioni sottese alla sua opera,
che appariva ad occhi poco attenti come mera produzione di genere. Hitchcock soffrì insomma il
pregiudizio negativo nutrito rispetto agli stilemi del thriller e del giallo, considerati, specie negli Stati
Uniti (meno nel Regno Unito, da cui egli proveniva e dove aveva incominciato la propria carriera),
dei generi minori, puramente di cassetta e lontani dalla ricerca artistica più seria. Fu soltanto negli
anni Cinquanta e Sessanta che, grazie soprattutto al lavoro interpretativo dei critici/cineasti
francesi dei “Cahiers du cinéma” e della Nouvelle Vague (anzitutto François Truffaut, Claude
Chabrol ed Éric Rohmer2) che Hitchcock iniziò ad affermarsi come vero e proprio modello di
Autore cinematografico, per essere poi riconosciuto anche presso la sua patria d’adozione, gli Stati
2
Éric Rohmer, Claude Chabrol, Hitchcock (1957), a cura di Antonio Costa, Venezia, Marsilio, 1996; François Truffaut,
Il cinema secondo Hitchcock (1966), Parma-Lucca, Pratiche, 1977.
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2. Il periodo inglese
Nato a Londra il 13 agosto 1899 da genitori cattolici, Hitchcock iniziò a lavorare in campo
cinematografico intorno al 1920, realizzando bozzetti preparatori delle scene, nonché titoli e
intertitoli, presso gli studi londinesi di Islington. Il suo primo film, Number Thirteen, iniziato nel 1922,
rimarrà però incompiuto per mancanza di finanziamenti (ed è oggi considerato perduto). Il suo
periodo di apprendistato più importante doveva, d’altronde, ancora arrivare: nel 1924, grazie ad
un accordo tra Michael Balcon della Gainsborough Pictures e il produttore tedesco Erich Pommer,
si recò a Berlino per un praticantato presso gli studi dell’importantissima casa di produzione UFA.
L’incontro con la realtà cinematografica tedesca, ed in particolare con un regista come Friedrich
Wilhelm Murnau, segnò fortemente il giovane aspirante regista, specialmente per quanto riguarda
il controllo finanche maniacale dei dettagli della messa in scena e lo sperimentalismo dei
movimenti della macchina da presa, di cui Murnau era maestro riconosciuto. I film che Hitchcock
realizzò in seguito mostrano già gli effetti positivi di questo incontro: si tratta di due co-produzioni
anglo-tedesche, The Pleasure Garden (Il labirinto delle passioni, 1925) e The Lodger (Il pensionante,
1927). In particolare quest’ultimo film (che riprende il celebre caso del serial killer Jack lo
squartatore) rappresenta la prima, chiara prova del talento hitchcockiano: vi appare già la figura
già evidente la capacità di creare atmosfere pervase dal dubbio e dall’ossessione. Il film è, al
tempo stesso, una terrificante riflessione sui meccanismi della violenza di massa (è rimasta celebre
L’ispirazione di cui Hitchcock dà prova in questo film è già in piena consonanza con le fasi
più mature della sua carriera, ed essa colpisce a maggior ragione se si considera che non tutti i
numerosi film girati nel periodo immediatamente successivo proseguono in questa linea di ricerca
già così sicura di sé. Tra i titoli che meritano di essere menzionati ci sono però i seguenti:
Blackmail (Ricatto, 1929): girato muto, venne poi sonorizzato e finì per essere il primo film
sonoro inglese in assoluto. Vi compaiono già alcuni elementi essenziali della poetica
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hitchcockiana, dalla protagonista femminile bionda (qui Anny Ondra) alla scena di climax
della tensione ambientata in un luogo famoso e affollato (in questo caso il British Museum),
consapevole della situazione di pericolo ma è immerso in una folla ignara di ciò che sta
accadendo), sia a riflettere sullo spazio pubblico e sul ruolo delle istituzioni e dei monumenti
Murder! (Omicidio, 1930): storia di suspense ambientata nel mondo del teatro, in cui
compare già il tema del travestitismo e dell’ambiguità sessuale che avrà un ruolo
importante molto più avanti nella carriera di Hitchcock, con Psycho (Psyco, 1960).
Rich and Strange (Ricco e strano, 1932): una delle poche opere hitchcockiane che si
collocano al di fuori del genere thriller, proponendo piuttosto un apologo assai originale su
un matrimonio che viene messo in crisi da una ricchezza improvvisa. D’altronde, il discorso
sulla coppia, sul processo di conoscenza dei desideri propri e reciproci, sarà uno dei grandi
temi del cinema di Hitchcock, sempre intento a riflettere sul confronto tra identità maschile
partire pressappoco dalla metà degli anni Trenta, con film come The Man Who Knew Too Much
(L’uomo che sapeva troppo, 1934), su una coppia di turisti inglesi in Svizzera il cui figlioletto viene
rapito, e The 39 Steps (Il club dei trentanove, 1935), in cui la figura dell’innocente perseguitato
viene declinata insieme a quella della coppia in fuga, in una commistione di suspense e humor
Altri titoli assai notevoli di questo periodo sono Sabotage (Sabotaggio, 1936), Young and
Innocent (Giovane e innocente, 1937) e The Lady Vanishes (La signora scompare, 1938), tutti film
incentrati su protagoniste femminili che, pur diverse le une dalle altre, si dimostrano fortemente
3
Si pensi, a questo proposito, al finale presso la Statua della Libertà in Saboteur (Sabotatori, 1942) o alla scena presso
il Palazzo delle Nazioni Unite in North by Northwest (Intrigo internazionale, 1959).
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intraprendenti e volitive: l’attenzione del regista per figure femminili complesse sarà in effetti
carismatico delle eroine hitchcockiane, pur rimanendo centrali nel cinema del regista, subiranno
notevoli metamorfosi qualitative col passare del tempo: i rapporti tra i sessi diventeranno sempre
meno lineari e complici, e parimenti la capacità dei personaggi femminili di prendere in mano le
redini della narrazione dovrà scontrarsi con una crescente tortuosità esistenziale, nell’arco della
La sequela di successi inanellata da Hitchcock, ormai ben affermato nel panorama del
cinema inglese, attirò infatti l’attenzione di Hollywood: messo sotto contratto dal produttore David
O. Selznick, il regista salpa per l’America, insieme alla moglie e alla figlia, nell’estate del 1939, poco
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3. Il trasferimento a Hollywood
Il periodo statunitense della carriera di Hitchcock si aprì con Rebecca (Rebecca, la prima
successo, vincendo l’Oscar per il miglior film dell’anno4. Il film appartiene al genere del
melodramma gotico, e come molti prodotti di questo genere, si concentra su una protagonista
femminile e sulla sua difficoltà di intendersi con uno sposo tenebroso e umorale. Rebecca, così
come il successivo Suspicion (Il sospetto, 1941), con cui condivide l’intensa protagonista Joan
Fontaine (Oscar per il film del 1941), sembra proporre un’equazione tra matrimonio e pericolo.
L’atmosfera di angoscia che caratterizza il rapporto coniugale è condensata meglio che mai nella
celeberrima sequenza, appartenente al secondo film, in cui il marito (interpretato da Cary Grant,
alla prima di molte collaborazioni con Hitchcock) porta alla moglie malata un bicchiere di latte
che ella sospetta sia avvelenato: per far risaltare il biancore inquietante del liquido Hitchcock
ingegnosamente mise nel bicchiere una lampadina. Sono proprio queste trovate molto creative
siano o meno degli assassini, si può d’altronde dire che il tema della colpa, vera o presunta, sia
davvero uno dei fili rossi più importanti della carriera di Hitchcock. L’indagine di questo tema può
assumere connotazioni esplicitamente freudiane, incrociando l’estetica del noir, in un film come
Spellbound (Io ti salverò, 1945), in cui Ingrid Bergman interpreta una psicoanalista che cerca di
scoprire il trauma infantile del collega di cui è innamorata (Gregory Peck) che potrebbe essere un
omicida inconsapevole5. O ancora il tema della colpa può essere anche ricondotto alla matrice
cattolica della formazione di Hitchcock (I Confess, Io confesso, 1953, con Montgomery Clift nel
ruolo di un sacerdote afflitto dal segreto confessionale). Altri film riflettono invece sullo scambio e la
4
Il film non vinse però l’Oscar per la migliore regia, che andò invece a John Ford per The Grapes of Wrath (Furore):
visto che il premio per il miglior film è assegnato al produttore e non al regista, Hitchcock non vinse mai un Oscar in
una categoria competitiva.
5
Il film risulta piuttosto meccanico nell’utilizzo delle teorie di Freud, ma è rimasto famoso per la sequenza onirica, a
cui collaborò Salvador Dalì.
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confusione tra colpevolezza e innocenza (Strangers on a Train, L’altro uomo, 1951; ma anche The
Wrong Man, Il ladro, 1956, il più austero dei film di Hitchcock, in cui un errore giudiziario innesca una
investe anche quelli femminili: da The Paradine Case (Il caso Paradine, 1947) con Alida Valli
accusata di uxoricidio, a Under Capricorn (Il peccato di Lady Considine, 1949), fino a Marnie
(1964), che rappresenta un ritorno alle tematiche psicanalitiche nell’ultima fase della carriera.
Anche Notorious rientra in qualche modo in questo filone, seppur in modo del tutto
peculiare: Ingrid Bergman vi interpreta la figlia di un criminale nazista che, per espiare le colpe
paterne, diventa una spia al servizio degli americani, sposando uno dei vecchi complici di suo
padre e riproponendo dunque la struttura del matrimonio come trappola mortale. Nell’intreccio
della dimensione thriller con una storia d’amore struggente, il film costituisce senz’altro uno dei
Il tema del sospetto lancinante che una persona cara sia malvagia, viene esacerbato in un
film come Shadow of a Doubt (L’ombra del dubbio, 1943), in cui i due personaggi non sono più
legati romanticamente, ma imparentati. La giovane Charlie (Teresa Wright) nutre per lo zio Charlie
(Joseph Cotten), da cui ella stessa prende il nome, una fortissima ammirazione, in cui l’amore filiale
sconfina in affinità elettiva e dunque in identificazione. Il film ruota intorno alla scoperta che l’uomo
è un assassino seriale: anziché relegare il Male nella debita distanza dell’alterità, Hitchcock fa qui
del personaggio negativo una figura affascinante, cui non solo la protagonista ma anche lo
spettatore stesso non può che allinearsi, almeno fino ad un certo punto della vicenda.
Un altro tipo di identificazione con i cattivi emerge invece in modo molto netto in un film del
1948, Rope (Nodo alla gola): il film si svolge tutto all’interno dell’appartamento di una giovane
coppia di omosessuali newyorchesi (John Dall e Farley Granger), i quali, nella primissima scena del
film, uccidono un loro compagno di studi e ne nascondono il corpo in una cassapanca. Su di essa
poi, come nulla fosse, imbandiscono un cocktail party a cui sono invitati parenti e amici del morto.
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La vicenda è girata da Hitchcock con la tecnica particolare di una catena di lunghi piani-
sequenza, ciascuno della durata di dieci minuti, in modo da creare per lo spettatore un’esperienza
fortemente immersiva. C’è chiaramente, in questo film, una consonanza tra l’impresa ardita degli
assassini (la loro è una sfida superomistica a tutte le convenzioni etiche e giudiziarie) e l’impresa
ardita di Hitchcock (che articola la propria messa in scena con un virtuosismo allora inusitato,
sfidando le convenzioni linguistiche ed estetiche del cinema classico). In effetti gli assassini, proprio
come Hitchcock, sono dei registi che cercano di manipolare lo spazio e la narrazione: e lo
morale dei personaggi da una parte, ma partecipando del loro gioco demiurgico dall’altra.
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Pur non essendo forse uno dei risultati più compiuti dell’opera hitchcockiana, Rope è in ogni
caso un film cardine, grazie appunto alla sua sperimentazione con lo spazio chiuso e anche con il
Il discorso dello spazio chiuso, già presente nella claustrofobica ambientazione ferroviaria di
The Lady Vanishes, e in Lifeboat (Prigionieri dell’oceano, 1944, riflessione geopolitica interamente
ambientata sulla scialuppa di salvataggio di una nave affondata durante la Seconda Guerra
Mondiale), trova poi una summa in Dial M for Murder (Delitto perfetto, 1954). Il film costituì uno dei
primi esperimenti di cinema in 3D, una tecnologia che garantisce allo spettatore un’immersione
ancora più radicale nell’ambiente unico del set (anche qui un salotto borghese), dando forte
risalto agli oggetti (le forbici del violentissimo delitto) e ai corpi. Il pubblico si trova come
catapultato su un palcoscenico: sia Rope che Dial M for Murder hanno origini teatrali, e la regia
movimentata e sapiente di Hitchcock fa sì che nessuno dei suoi film soffra della benché minima
hitchcockiano, Rear Window (La finestra sul cortile, 1954): qui però l’appartamento del
protagonista, più che funzionare come un palcoscenico o un set di cui bisogna orchestrare la
regia, sembra allegorizzare un altro spazio, ovvero quello della sala. Il protagonista James Stewart,
immobilizzato su una sedia a rotelle per un incidente, passa il tempo a osservare i propri vicini dalla
finestra, proprio come uno spettatore che guarda avidamente lo schermo cinematografico, e
finisce per sospettare la macchinazione di un delitto. Il film articola così una riflessione superlativa
sullo sguardo e sul desiderio di guardare (in termini psicoanalitici: il voyeurismo) e la dimensione
metacinematografica che caratterizza l’intera opera hitchcockiana raggiunge qui la sua forma
più esplicita.
Accanto a queste riflessioni sullo spazio unico, sull’interno claustrofobico come metafora
delle dinamiche spettacolari del cinema e del teatro, il cinema di Hitchcock è attraversato,
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viceversa, anche da un impiego assai significativo del paesaggio. Si pensi, per citare solo uno di
molti esempi, al particolare uso di San Francisco in Vertigo (La donna che visse due volte, 1958): i
panorami collinosi della città, con le sue discese vertiginose, diventa il correlato spaziale perfetto
per le forme ossessive che animano la mente del protagonista, un ex poliziotto catturato in un
labirinto di inganni, doppi e simulacri. Lo spazio urbano della città californiana contribuisce qui in
modo assolutamente peculiare alla costruzione di un’atmosfera voyeuristica, esso diviene a tutti gli
effetti un paesaggio del desiderio. A questo stesso fine è adoperato anche il colore: la
sperimentazione cromatica, specie con il filtro verde, che Hitchcock attua in questo film è
fondamentale all’articolazione di quella che è forse la punta più esplicitamente filosofica del suo
cinema.
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Non a caso per il film successivo, Psycho (Psyco, 1960) Hitchcock torna invece al bianco e
nero. Il film prosegue la riflessione sul voyeurismo e sull’ambiguità sessuale, e per farlo infrange
molte regole del racconto classico, facendo morire la protagonista a metà del film e cercando,
nella celebre scena della doccia e in altri passaggi, una modalità di coinvolgimento con lo
schermo ancora più viscerale delle forme immersive sperimentate finora. La ricerca di un thrill
puramente fisico, vicino a quello tipico del genere horror, fa del film un anticipatore delle forme del
dello spettatore.
La qualità di svolta epocale di questo film non può dunque essere sottovalutata, e lo stesso
può dirsi per The Birds (Gli uccelli, 1963). In questo film, famosamente incentrato sulla rivolta dei
pennuti in una cittadina californiana, Hitchcock preferisce non fornire alcuna spiegazione per
l’improvviso scatenarsi della violenza: se ne potrebbe proporre una lettura filosofica, psicoanalitica,
proprio a lasciare aperto l’interrogativo, per riflettere sulla minaccia e sulla paura nella loro forma
(Torn Curtain, Il sipario strappato, 1966; Topaz, 1969), ma il Maestro torna poi in piena forma per i
suoi ultimi due film. Frenzy (1972) è ancora una volta la storia di un assassino seriale ma il regista,
essendo venuto ormai meno il codice di censura, può finalmente affrontare i temi dell’eros e della
violenza con tutta la crudezza che si meritano. Ciò che ne emerge è uno sguardo disincantato
sulla natura umana e sui rapporti tra i sessi, un sugello amaro a proposito delle problematiche che
hanno attraversato la sua intera carriera. L’ultimo film, Family Plot (Complotto di famiglia, 1976), si
conclude però su una nota più allegra, mischiando ancora una volta thriller e commedia e
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copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).
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ricordandoci perciò l’importanza della componente dello humor nella produzione hitchcockiana 6.
Dopo qualche anno di inattività, Alfred Hitchcock muore a Hollywood il 29 aprile 1980.
6
A questo proposito si veda l’intreccio tra thriller e commedia sofisticata di To Catch a Thief (Caccia al ladro, 1955),
ma anche una cinica commedia nera come The Trouble with Harry (La congiura degli innocenti, 1955).
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Lorenzo Marmo - La Nouvelle Vague francese
Indice
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Lorenzo Marmo - La Nouvelle Vague francese
L’espressione “Nouvelle Vague” si riferisce ad un momento molto particolare della storia del
cinema francese, tra la fine degli anni Cinquanta e gli inizi degli anni Sessanta: un momento di
cambiamento profondo, uno shock sismico all’intero sistema creativo e produttivo d’Oltralpe che
ha finito per costituire uno dei grandi punti di svolta nella storia dell’immaginario cinematografico
Nouvelle Vague significa letteralmente “nuova onda”: il termine apparve per la prima volta
sul settimanale francese «L’Express» il 3 ottobre 1957, in un’inchiesta sui costumi dei giovani francesi
a firma di Françoise Giroud, e venne poi ripreso da Pierre Billard nel febbraio 1958 sulla
rivista «Cinéma 58». Dopo aver designato le modalità di comportamento di una nuova
riferimento ai nuovi film distribuiti a partire dal 1958 e in particolare a quelli presentati al Festival di
Cannes dell’anno successivo, tutti firmati da giovani registi esordienti. Questo spostamento verso
nuovi cineasti una certa trascuratezza nella messa a punto artistica di un film, senza capire che essi
sopperiscono all’inesperienza pratica con una conoscenza profonda della storia del cinema e con
indifferente: nel corso della stagione 1958/59 l’espressione diventa un’etichetta commercialmente
appetibile, e viene adoperata dagli operatori dell’industria culturale in modo anche piuttosto
siccome gli esordienti alla regia del cinema francese, nell’arco di tempo che va dal 1958 al 1962,
sono ben 162, molti di essi non partecipano davvero di un’innovazione del linguaggio
cinematografico, e includerli nel novero della Nouvelle Vague sarebbe essenzialmente un errore.
In modo piuttosto provocatorio, nel numero dei «Cahiers» che, alla fine del 1962, tenta un primo
bilancio complessivo del fenomeno, François Truffaut (uno degli esponenti indiscussi del
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tra loro gli esponenti della Nouvelle Vague era la passione per i biliardini elettrici1!
Vague può e deve essere identificato innanzitutto negli autori che si erano formati, nel corso degli
anni Cinquanta, alla scuola critica celeberrima rivista (ancora oggi attiva) dei «Cahiers du
cinéma». Segnatamente, si tratta di: Claude Chabrol, Jean-Luc Godard, Éric Rohmer, Jacques
Langlois e Georges Franju) venivano proiettati film di grandi cineasti statunitensi ed europei, spesso
largamente incompresi dalla critica (Jean Renoir, Jean Vigo, Roberto Rossellini, Jacques Becker,
Josef von Sternberg), o sminuiti meri esecutori della macchina organizzativa hollywoodiana
Le opinioni precise che questi giovani critici vennero a formarsi negli anni della loro intensa
collaborare con i «Cahiers», sotto l’egida dell’importante critico dell’epoca André Bazin (ancora
oggi considerato uno dei massimi teorici del cinema). Gli articoli apparsi negli anni sulla rivista
finirono per divenire una sorta di manifesto del movimento che sarebbe nato alla fine del
opposizione alla rivista più tradizionale, «Positif». La linea dei «Cahiers» era soprattutto quella di
propugnare la cosiddetta “Politica degli Autori”. Con questa espressione si intende indicare una
concezione del medium cinematografico in cui si accorda nuova centralità alla figura registica, il
cui apporto è considerato più importante di quelli del produttore, dei divi e del comparto tecnico
e artistico della troupe. All’Autore viene infatti riconosciuta una visione creativa a tutto tondo, una
capacità di plasmare appieno la realizzazione del film. Non tutti i registi, beninteso, sono Autori:
secondo questa prospettiva, si guadagna questo onore soltanto un cineasta che (come quelli
1
«Cahiers du cinéma», n. 138, dicembre 196.
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venerati dai giovani critici che menzionavamo pocanzi) utilizzi consapevolmente il mezzo
cinematografico per comunicare con lo spettatore non soltanto attraverso la scelta del tema e
della trama, ma tramite determinate scelte stilistiche capaci di delineare nel loro insieme una
visione del mondo e del mezzo cinematografico. Un Autore deve fare del film un’opera
intensamente personale (il che non significa affatto autobiografica), la sua firma deve essere
immediatamente riconoscibile all’occhio attento dell’esperto sin dai primi fotogrammi di una
pellicola.
I “giovani turchi” dei «Cahiers» propugnano perciò una vera e propria rivoluzione del
cinema francese, muovendo battaglia alla concezione tradizionale che aveva fino ad allora
dominato il panorama nazionale. Truffaut, Godard e gli altri si scagliano conto quello che
svecchiamento generazionale.
Il cinema francese del dopoguerra era stato caratterizzato da una grande continuità
riguardo alle regole di realizzazione industriale dei film e riguardo alle vie d'accesso a questa
professione: nel periodo tra la Liberazione e il 1958 il numero di nuovi registi si limitò ogni anno a
qualche nome sparuto. Questo cinema veniva ora accusato dai nuovi critici che sarebbero presto
accademica di una messa in scena corretta ma priva di guizzi. Fu in particolare il giovane Truffaut
ad attaccare con notevole vis polemica in un suo articolo del 1954 intitolato “Una certa tendenza
del cinema francese”2. La tradizione del “cinema di qualità” tanto vituperata dalle nuove leve del
cinema francese si basava su tre principi essenziali: il primato di una sceneggiatura molto salda; la
realizzazione delle riprese all'interno degli studi con una folta équipe tecnica; e il ricorso ad attori
esperti e popolari che il pubblico ritrovava in ogni film (da Jean Gabin a Martine Carol, a Danielle
Darrieux). Tra i cineasti più importanti di questo status quo c’erano Claude Autant-Lara, Marcel
Carné, André Cayatte, René Clair, René Clement, Henri-Georges Clouzot e Julien Duvivier. Alcuni,
come Carné e Duvivier, erano stati autori di film indimenticabili prima della Seconda Guerra
2
F. Truffaut, Une certaine tendence du cinéma français, in «Cahiers du cinéma», n. 31, gennaio 1954.
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Mondiale, altri, come Clement, avevano realizzato film riuscitissimi anche dopo (Jeux interdits,
Giochi proibiti, 1952), ma erano accusati dai critici dei «Cahiers» di essersi poi arroccati nella
Oltre a questi elementi di lotta culturale, non manca però, nella ribellione che darà luogo
alla Nouvelle Vague, anche un elemento politico rilevante. Alla fine degli anni
cinquanta la Francia vive infatti una profonda crisi politica, legata alla Guerra d’Algeria (1954-
1962). Spesso si dice che i movimenti di rinnovamento cinematografico radicale nascono dai
momenti di smarrimento identitario attraversati dal Paese nel suo complesso. Il neorealismo italiano
è un ottimo esempio di questo, avendo esso un rapporto assai stretto con la caduta della dittatura
dopoguerra. In Francia, il dopoguerra non era stato parimenti traumatico: alla fine del conflitto, la
Francia sentiva (o voleva sentire) di appartenere pienamente alla parte dei vincitori. Questa
narrazione non lasciava spazio per l’autoanalisi, e dunque i tempi non erano favorevoli per un
significativamente, proprio nel bel mezzo della Guerra d’Algeria, nel momento cioè in cui i cittadini
francesi illuminati sono costretti a prendere coscienza dello status della Francia come brutale forza
d’occupazione coloniale.
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Godard, Truffaut e gli altri critici e cineasti della nuova generazione, si possono comunque
Jean-Pierre Melville (noto in seguito soprattutto per una serie di celeberrimi polizieschi e noir)
aveva esordito nel 1947 con Le silence de la mer (Il silenzio del mare), basandosi su metodi
decisamente inconsueti che prefiguravano quelli propri della Nouvelle Vague: disponendo di un
budget molto ridotto, ricorse a una équipe limitata e ad attori sconosciuti e realizzò le riprese in
scenari naturali. Il suo film venne distribuito solo nel 1949 e riscosse un buon successo, dimostrando
così un fatto nuovo, ossia la possibilità di una produzione totalmente indipendente, non soggetta a
obblighi di natura commerciale e alle limitazioni imposte dal corporativismo dei sindacati di
categoria.
Altri precursori furono Roger Leenhardt (Les dernières vacances, 1948), Alexandre Astruc
(anch’egli importante critico e autore, nel 1955, di Les mauvaises rencontres) e, in un certa misura,
Roger Vadim: il suo esordio del 1956, Et Dieu créa la femme, Piace a troppi, riscosse un notevole
successo internazionale anche grazie alla sua star Brigitte Bardot, e fu salutato da Truffaut come
opera che mostrava un’immagine completamente rinnovata della figura femminile nel cinema,
Vague, ovvero Agnès Varda. Giovane fotografa, Varda realizzò il primo lungometraggio nel 1956:
alternano a scene di finzione fitte di dialoghi, interpretate da due attori di teatro (Philippe Noiret e
Silvia Monfort). Varda proseguirà la propria carriera firmando uno dei massimi capolavori della
Nouvelle Vague, ovvero Cléo de 5 à 7 (Cleo dalle 5 alle 7, 1962) e continuando poi a lavorare
infaticabilmente fino alla sua morte avvenuta recentemente: da Le bonheur (Il verde prato
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dell’amore, 1965) a Sans toit ni lois (Senza tetto né legge, 1985), fino a Visages Villages (2017, con
JR) il suo percorso creativo ha lasciato un’impronta molto significativa nella storia del cinema, non
solo francese.
Varda potrebbe essere in effetti considerata, più che un’anticipatrice, la vera e propria
prima regista della Nouvelle Vague. Il termine però, come abbiamo detto, non addivenne all’uso
prima del 1959, con l’esordio nella regia, a scaglioni, di tutti i membri del gruppo dei «Cahiers du
Cinéma». Durante la loro attività di critici, Chabrol, Truffaut, Godard, Rivette e Rohmer avevano
soltanto a partire dal 1958. Fu specificamente nei primi sei mesi del 1959 che s'impose sugli schermi
cinematografici francesi l’idea di una Nouvelle Vague. I primi due film di Chabrol furono presentati
in alcune delle più esclusive sale degli Champs Elysées: Le beau Serge nel febbraio e Les cousins (I
cugini) nel marzo di quell’anno. Questi due film riscossero un grande successo di pubblico,
particolarmente rilevante nel caso di Les cousins, e il Festival di Cannes del 1959 fu il festival della
Nouvelle Vague. La Francia vi fu rappresentata da Orfeu negro (Orfeo negro), il primo film di
Marcel Camus, che ottenne la Palma d'oro, e da Les 400 coups (I quattrocento colpi) di Truffaut
premiato per la migliore regia. Ma anche Hiroshima, mon amour di Alain Resnais, tratto dal famoso
romanzo di Marguerite Duras (sceneggiatrice del film), presentato fuori concorso, conobbe nel
italiana e tedesca, e riscosse un successo commerciale poco prima impensabile per un film così
provocatorio e per una scrittura d’avanguardia tanto lontana dalle abitudini del grande pubblico.
Anche Resnais proveniva dalla palestra del cortometraggio e, pur non appartenendo al gruppo
stretto dei «Cahiers», è senz’alto l’autore esterno ad esso più vicino alla sua poetica e visione del
mondo. Nell’estate del 1960 uscì poi À bout de souffle (Fino all'ultimo respiro) di Godard, mentre
Rivette proseguì la realizzazione di Paris nous appartient (Parigi ci appartiene) che aveva interrotto
nel 1958 per motivi finanziari e che uscì nel 1961. Nel 1962 esordì anche Rohmer con Le signe du lion
(Il segno del leone). Il movimento si era così affermato e per due o tre stagioni alcune decine di
giovani artisti tentarono di penetrare nella breccia che esso aveva aperto: altri nomi che si devono
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ricordare sono dunque quelli di Jacques Rozier (Adieu Philippine, Desideri nel sole, 1963), Jacques
Demy (Lola, Lola – donna di vita 1961; Les parapluies de Cherbourg, 1964; Les demoiselle de
Rochefort, Josephine, 1967), Jean-Pierre Mocky (Les dragueurs, 1959; Un couple, 1960).
Accanto ai nomi della Nouvelle Vague vera e propria, vanno d’altronde menzionati anche
quelli di molti altri cineasti che, pur non essendo completamente assimilabili al movimento firmano
film che rivelano alcune caratteristiche comuni a quelli prodotti dalla scuola della Nouvelle Vague,
pur non appartenendo essi alla scuola dei «Cahiers» in senso stretto. Si possono dunque fare i nomi
di Jacques Doniol-Valcroze (Les surmenés, 1958), Louis Malle (Ascenseur pour l’echafaud,
Ascensore per il patibolo, 1958; Les amants, 1958; Zazie dans le métro, Zazie nel metrò, 1960).
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3. Lo stile
I film della Nouvelle Vague sono caratterizzati da una serie di caratteristiche comuni, che
1. I cineasti realizzano film molto personali, spesso scritti dal regista stesso e legati alla su
esperienza personale. Anche se questo non è sempre vero alla lettera (À bout de souffle di
Godard fu scritto da Truffaut), si tratta comunque di un vissuto generazionale condiviso: questi sono
film intrisi perciò dello spirito del tempo e dell’atmosfera alternativa della vita urbana giovanile che
andava affermandosi in quegli anni. Parte del fascino che essi esercitano su di noi sta proprio nel
fatto che rappresentano una tra l prime rese cinematografiche di uno stile di vita che possiamo
2. I film sono spesso autoprodotti, o comunque realizzati con budget poco costosi, finanziati
al di fuori dei circuiti consueti delle grandi società di produzione e distribuzione, sempre restie nel
dare fiducia ad autori che non avevano affrontato un lungo periodo di apprendistato come
3. Lo scopo cinematografico della Nouvelle Vague era catturare “lo splendore del vero”,
secondo una fortunata espressione di Godard. A tale fine venivano eliminati, nella realizzazione
delle pellicole, molti dei sofisticati artifici del cinema tradizionale: si rifiuta l’utilizzo di ambienti
ricreati in studio e di complesse scenografie, preferendo, sia per le scene in esterni che in interni,
luoghi e spazi reali (talvolta gli appartamenti dei registi stessi, o di loro conoscenti); si cerca di
sfruttare il più possibile l’illuminazione naturale e non vengono utilizzate attrezzature costose; si
preferisce l’impiego della macchina da presa a mano, e la troupe tecnica è essenziale, così da
favorire un clima intimo e amicale. Anche per quanto riguarda il sonoro, esso viene registrato in
presa diretta anziché essere post-sincronizzati (a differenza di quanto avveniva per i film di un
4. Si utilizzano attori poco noti, a volte addirittura amici del regista, e se ne favorisce
l’improvvisazione. Ciò non toglie, naturalmente, che la Nouvelle Vague utilizzi anche divi già famosi
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(si pensi a Jeanne Moreau in Jules et Jim, F. Truffaut, 1962), e che alcuni dei suoi attori siano poi
divenuti celeberrimi proprio in seguito al successo dei film del movimento, trasformandosi in divi a
tutti gli effetti: Jean-Paul Belmondo, Anna Karina e Jean-Pierre Léaud sono solo alcuni dei nomi che
5. Nonostante quello della Nouvelle Vague sia un cinema caratterizzato da una spinta
all’indagine della realtà, tale spinta non esaurisce minimamente la dimensione stilistica di questo
propone una libertà narrativa ed estetica assolutamente radicale. Ciò è evidente soprattutto in
relazione al montaggio (o all’assenza dello stesso). In questo senso l’autore più innovativo è senza
dubbio Jean-Luc Godard, che in À bout de souffle, così come nei suoi film successivi, utilizza una
serie di espedienti del tutto dirompenti, puntando alla distruzione delle regole della composizione
classica. Il linguaggio classico era basato su inquadrature armoniche che si succedono l’una
all’altra senza attirare l’attenzione su sé stesse, al solo fine di orientare lo spettatore nello spazio
diegetico ed immergerlo nel mondo finzionale. Al contrario, Godard, autore moderno per
eccellenza, recupera alcune invenzioni della Scuola sovietica del montaggio degli anni Venti, e le
radicalizza: egli opta per dei salti di montaggio palesemente e provocatoriamente sbagliati, che
sottolineino lo stacco tra un’inquadratura e l’altra, anziché nasconderlo (jump cuts); o viceversa,
lunghissime e molte complesse, ove non direttamente tramite piani sequenza, dando in questo
modo allo spettatore il senso di un’immersione nello spazio e nel tempo del film. Questi esperimenti
si relazionano poi al materiale narrativo in modo del tutto peculiare e contro-intuitivo: scene
cruciali, in cui accadono molte cose, sono sintetizzate in poche inquadrature sconnesse, con salti
ingiustificati da un quadro all’altro; viceversa momenti di stasi, in cui non accade nulla, sono
restituiti integralmente, senza stacchi, nella loro qualità di tempi morti. Nel complesso, Godard
porta avanti una profonda riflessione sul tempo cinematografico (come sosteneva anche il
celebre filosofo Gilles Deleuze nei suoi libri sul cinema). Una riflessione che viene portata alle
estreme conseguenze da un altro cineasta, Chris Marker, che girerà nel 1962 un mediometraggio
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di fantascienza distopica, La Jetée (che ispirerà poi il film 12 Monkeys, L'esercito delle 12 scimmie, T.
Gilliam, 1996) che consiste unicamente nella successione di immagini statiche, palesando così la
base fotografica del medium cinematografico. Nel complesso, dunque, alla spinta realistica di
scoperta del mondo dei fenomeni, si accompagna nella Nouvelle Vague una spinta autoriflessiva,
metalinguistica, che non dà mai per scontata la possibilità del medium di restituire la realtà e si
domanda sempre invece quale sia il ruolo del dispositivo cinematografico nell’influenzare e creare
6. Il cinema della Nouvelle Vague deve moltissimo all’immaginario del cinema precedente
che, come abbiamo visto, era stato fondamentale nella formazione dei suoi cineasti. Più in
generale, la Nouvelle Vague è una corrente attraversata da un forte citazionismo per i materiali
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Anche se i film della Nouvelle Vague riscossero grande successo in Francia solo per due o
tre stagioni, essi tuttavia suscitarono attenzione a livello internazionale, cosa che era accaduta solo
a pochi altri film francesi degli anni Cinquanta. À bout de souffle, Hiroshima, mon amour e Les 400
coups divennero opere di riferimento per i giovani cineasti inglesi, cechi, polacchi, brasiliani,
al solo esempio della Nouvelle Vague sarebbe semplicistico, ma gli aspiranti cineasti di tutto il
mondo trovarono in Tirez sur le pianiste (Tirate sul pianista, F. Truffaut 1961), in Vivre sa vie (Questa è
la mia vita, J.-L- Godard, 1962), in L’année dernière à Marienbad (L’anno scorso a Marienbad, A.
Resnais, 1961), i modelli di un cinema diverso, di un’ambizione intellettuale molto lontana da quella
che aveva animato i tradizionali prodotti destinati all'esportazione, e seppero trarre da essi una
straordinaria energia creativa, anche in situazioni molto difficili come quelle della Polonia e del
Brasile.
Tra i movimenti di cinema giovane e indipendente sorti negli anni Sessanta vanno perciò
menzionati: il Free Cinema inglese (Lindsay Anderson, Tony Richardson, Karel Reisz, John
Schlesinger), la scuola di Praga o Nová vlna (Miloš Forman, Věra Chytilová, Jan Němec), il cinema
ungherese di Miklós Jancsó e Judith Elek, quello polacco di Jerzy Skolimowski e Roman Polanski,
quello tedesco di Volker Schlöndorff, Werner Herzog, Rainer Werner Fassbinder e Wim Wenders
(Neuer Deutscher Film), quello jugoslavo di Dušan Makavejev, senza dimenticare lo straordinario e
Negli Stati Uniti, l’influenza della Nouvelle Vague si può rintracciare nel cinema
straordinariamente personale ed innovativo di John Cassavetes: il suo Shadows (Ombre, 1960), non
fu meno innovatore di À bout de souffle, soprattutto per quanto riguarda l'uso della macchina da
presa. Ma la Nouvelle Vague influenzò anche registi che lavoravano già da tempo (in Lilith, Lilith –
la dea dell’amore, 1964, Robert Rossen adotta i principi stilistici di Godard per mettere in scena la
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percezione alterata dalla malattia mentale) e soprattutto fu punto di riferimento esplicito per il
cinema fortemente innovativo della New Hollywood (Arthur Penn, Robert Altman, Francis Ford
Anche in Italia, infine, si ebbe nei primi anni Sessanta un profluvio di esordi assai significativi
simile a quello francese. Pur essendo la compagine italiana meno compatta da un punto di vista di
poetica e stilistica rispetto alla francese, si usò ed usa comunque l’espressione “Nouvelle Vague
italiana” per parlare dei primi film di grandi autori quali Pier Paolo Pasolini, Bernardo Bertolucci,
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Lorenzo Marmo - Pietro Germi attraverso i generi
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Lorenzo Marmo - Pietro Germi attraverso i generi
Nato a Genova il 14 settembre 1914, e morto a Roma il 5 dicembre 1974, Pietro Germi non
interesse costante per l’indagine – e spesso una sferzante critica – dei costumi nazionali. Il regista
investiva infatti il cinema, per sua stessa ammissione, di un ruolo cruciale nell’articolazione
dell’identità collettiva degli italiani, e perciò si è sempre mosso alla ricerca di una forma
cinematografica che permettesse al popolo italiano di conoscere sé stesso e facesse uscire «tutti
noi italiani da quello stato di puerile immaturità psicologica cui spesso ci abbandoniamo,
L’aspetto radicalmente originale e non conformista della concezione di Germi sta nel fatto
che egli riteneva che, per riuscire a parlare al pubblico e creare un cinema autenticamente
nazionale, non occorresse aderire ad alcuna formula realistica. Nonostante infatti, nel passo citato
sopra, il regista evochi esplicitamente il termine «realtà», il percorso di Germi si segnala innanzitutto
per la sua estraneità rispetto alla corrente principale del neorealismo, che pure andava per la
maggiore al momento del suo esordio negli anni Quaranta. Piuttosto, Germi contava sul modello
del cinema francese e americano di genere, in cui ritrovava opzioni stilistiche marcate, capaci di
catturare la fantasia degli spettatori e, coinvolgendoli, farli pensare. Il lavoro di regia di Germi
cerca insomma, come scrive Francesco Pitassio, una forma espressiva che risponda direttamente
alle necessità del racconto cinematografico, «anziché alle pretese di una gerarchia estetica
1
Pietro Germi, In difesa del cinema italiano, in «Rinascita», 3, marzo 1949, ora in Orio Calidron, Pietro Germi, la
frontiera e la legge, Bulzoni, Roma 2004, pp. 27-29, p. 27. Su questo tema cfr. Luca Malavasi, Il cinema è
indispensabile agli italiani, in Id., Emiliano Morreale (a cura di), Il cinema di Pietro Germi, Centro Sperimentale di
Cinematografia/Edizioni Sabinae, Roma 2016, pp. 15-22.
2
Francesco Pitassio, Giovani di poche speranze. Pietro Germi nel secondo dopoguerra, in L. Malavasi, E. Morreale (a
cura di), Il cinema di Pietro Germi, cit., pp. 72-82, p. 75.
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Lorenzo Marmo - Pietro Germi attraverso i generi
Mentre il cinema italiano dell’epoca andava sempre di più in direzione di una rarefazione
del racconto, mimetica rispetto ai ritmi del fluire dell’esistenza, Germi volle sempre affidarsi a
sceneggiature di ferro, che garantissero un ritmo narrativo serrato. Egli riteneva infatti che i codici
del film di genere fossero tutt’altro che incompatibili con una capacità di acuta osservazione della
realtà sociale. Al contrario: liberandosi di ogni imbarazzo rispetto all’opzione della narrazione forte
meccanismi di identificazione e desiderio: mobilitazione al di fuori della quale ogni riflessione sul
Il cineasta genovese riteneva insomma che per fare un cinema autenticamente italiano
bisognasse rifarsi, senza che questo risultasse paradossale, ai modelli delle cinematografie straniere.
In questo modo egli dimostrò di nutrire, specie nella prima parte della sua carriera,
un’immaginazione autenticamente cosmopolita. Il suo cinema è perciò assai adatto a riflettere sul
cinema italiano del secondo dopoguerra in una prospettiva transnazionale. La fase postbellica
costituisce, naturalmente, un momento del tutto cruciale per la definizione dell’identità del nostro
cinema. La qualità fondativa del neorealismo, il mito che esso è diventato, rischiano però di
occupare tutto il campo visivo e di oscurare una comprensione più profonda delle dinamiche in
atto. È importante invece ricordare come sia proprio all’interno di una complessa rete di influenze
reciproche tra diverse cinematografie nazionali che si esercitò in modo più fertile l’immaginazione
di registi come Giuseppe De Santis, Alberto Lattuada, Luchino Visconti e, appunto, Germi.
D’altronde anche quando, a metà degli anni Cinquanta, Germi tenderà ad abbandonare
il riferimento esplicito al modello hollywoodiano, il suo cinema rimarrà profondamente radical nella
logica del genere. Affronteremo perciò la sua produzione seguendo il succedersi dei diversi generi
che dominano l’immaginario dell’autore nelle diverse fasi della sua creatività: il noir prima, il
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da
copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).
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Iscrittosi nel 1931 all’Istituto nautico di Genova, Germi non completò gli studi. Tra il 1933 e il
cinematografiche. Deciso a lavorare nel mondo del cinema, inviò un soggetto cinematografico
alla preselezione dei Gruppi universitari fascisti (GUF) di Genova per l’ammissione al Centro
Germi, iscritto ufficialmente nel 1938 al corso per attori, frequentò anche quello di regia. Esordì di lì
Ancora prima che egli venisse accettato come allievo del CSC e si trasferisse a Roma, un
suo breve soggetto (una mezza paginetta) che fu pubblicato sulla rivista «Cinema» nel 1937. Il
soggetto è intitolato Piano regolatore3 e racconta di Alfredo e Angelina, «due giovani del popolo».
I ragazzi abitano entrambi con le rispettive famiglie in un edificio della città vecchia
(presumibilmente Genova, naturalmente) «e il loro amore sembra quasi incrostato a quei muri che
li hanno visti nascere», perché «gli affetti [sono] espressi e specificati dallo stesso ambiente». Poi
arriva però il Piano Regolatore che cambia il volto della città, l’antico quartiere viene smantellato
e sfollato, e i due ragazzi vengono separati perché le loro famiglie vanno a vivere in zone diverse. È
così che «l’amore strappato all’ambiente che lo generò, sbiadisce» finché Alfredo e Angelina si
lasciano, e ognuno troverà un nuovo amore nel proprio nuovo contesto di vita.
Questo racconto, semplice ma assai efficace, testimonia come Germi nutrisse un interesse
precipuo per il rapporto tra individuo e spazio urbano, inteso non soltanto in quanto generico
contesto ambientale tipico della modernità ma come paesaggio dotato di una propria specificità
storica e antropologica. I primi film che egli realizzò, dopo gli anni travagliati e incerti della guerra,
possono essere letti proprio tramite il filtro della rappresentazione dello spazio urbano. In essi si può
3
Id., La borsa dei soggetti. Piano regolatore, in «Cinema», 25 febbraio 1937, ora in O. Caldiron, Pietro Germi, cit., p.
83.
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rintracciare il progressivo cristallizzarsi di un interesse precipuo, da parte di Germi, non solo per la
città in generale ed in astratto, ma per lo spazio urbano di Roma, la sua città d’adozione, in
concreto. Il filtro dello spazio urbano permette inoltre di investigare le differenze e le somiglianze tra
l’immaginario del regista, fortemente influenzato, come abbiamo detto, dal cinema straniero e
dalle strutture dei generi, e il neorealismo, che pure trovava parte fondante della propria
innovazione nel confronto della macchina da presa con i luoghi ripresi dal vero.
Nei suoi primi film, Germi opta per una messa in scena stilizzata di stampo decisamente noir.
La sua pellicola d’esordio, Il testimone, uscita nel 1946, ottenne il Nastro d'argento per il miglior
soggetto. Anche se si apre con il monologo di una voce narrante che s’interroga sulle tensioni che
silenziosamente attraversano lo spazio sociale della città, il film costruisce in realtà soprattutto
un’investigazione della psiche del singolo e sul tema della colpa individuale, fortemente debitrice
del modello del Delitto e castigo dostoevskijano e di altri grandi classici della letteratura europea
Otto-Novecentesca. Per buona parte del film gli spettatori non sanno infatti se il protagonista sia o
meno un assassino, e il film propone perciò un’appassionante riflessione sul rapporto tra crimine,
evidentemente piuttosto distante, non occupandosi dei problemi della cronaca recente né
facendo alcuno sforzo per calare la vicenda nella realtà contestuale postbellica. Lo stile registico
di Germi, nel connubio tra riprese en plein air e stilizzazione noir, cerca un equilibrio che superi un
approccio strettamente referenziale, senza però perdere di vista la possibilità espressiva concessa
dagli esterni reali. Il riferimento principale smbra essere quello dei film francesi degli anni Trenta, i
noir appartenenti al cosiddetto realismo poetico di registi quali Marcel Carné o Jean Renoir. Pur
non lesinando inquadrature di Roma dal vero, il film si preoccupa però di non nominare mai la città
esplicitamente. Nei dialoghi ricorrono poi numerose indicazioni topografiche (Salita delle Fontane,
Via dell’Opera, Via del Colle), nessuna delle quali esiste a Roma: si tratta piuttosto di indirizzi di
Genova, la città natale di Germi (da cui tra l’altro proviene esplicitamente anche il protagonista
del film). Quest’ambiguità sulla collocazione geografica del film non mancò di mandare in
confusione qualche recensore dell’epoca, che pensò il film fosse girato a Torino. Più che
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rappresentare un ambiente storicamente specifico, i luoghi reali vengono adoperati nel film per la
loro qualità evocativa, facendone spazi per il riverbero delle sensazioni ed emozioni dei
personaggi.
Il secondo dei noir di Germi, Gioventù perduta (1948), tratta il tema dello smarrimento etico
della gioventù appena uscita dal trauma della guerra: protagonista è un rampollo della borghesia
intellettuale capitolina che, annoiato e desideroso di una vita di lusso, si risolve a rapinare
nottetempo, con alcuni complici, le casse dell’Università La Sapienza (dove tra l’altro il padre è
professore di sociologia). Il film prosegue dunque la riflessione sulla mascolinità ed il crimine del film
riconoscibile i paesaggi di Roma: dalla città universitaria (la cui architettura modernista diviene
simbolo dei mali connessi all’impianto educativo fascista) al Teatro di Marcello, fino alle rive del
Tevere e dell’Aniene. Rispetto all’ispirazione francese del lavoro d’esordio, Germi si avvicina ora più
espressiva delle inquadrature. La messa in scena carica di stampo noir permette a Germi di
esprimere concetti e sensazioni in termini puramente visivi e sonori, in modo da restituire l’angoscia
Dopo aver diretto altri film (vedi prossimo paragrafo), Germi tornò al noir nel 1951,
completando una sorta di trilogia. La città si difende (1951) è la storia della rapina alle casse dello
Stadio di Roma da parte di un gruppo di quattro disperati, ridotti alla criminalità soltanto a causa
delle disperate condizioni economiche in cui versano. tentata da un gruppo di falliti perseguitati
poi dal destino. La disperazione dei protagonisti avvicina in effetti, in alcuni passaggi, il film alle
atmosfere neorealiste. Al tempo stesso, modello essenziale rimane quello del noir americano:
Germi sembra guardare soprattutto ad un film come Naked City (La città nuda, 1948), il cui regista
Jules Dassin si era d’altronde esplicitamente ispirato a Rossellini e al neorealismo per il suo film. Il film
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vede bene dunque come le influenze tra le cinematografie ai due lati dell’Atlantico siano
reciproche ed anche alquanto intricate. Con La città si difende, il regista amplia ulteriormente la
dimensione della sua indagine sull’identità urbana, giungendo ad una dimensione corale. Nessuno
forte per lo spettatore, perché non ne viene raccontata una traiettoria di presa di coscienza ma
mancanza di un’identificazione forte con i personaggi, è con la città stessa a divenire il centro
della nostra attenzione di spettatori. Il film, ancor più che ragionare sulla colpa individuale (come Il
testimone) o sulle difficoltà socioeconomiche della società postbellica (come Gioventù perduta),
diventa una riflessione sullo spazio urbano, sull’attività del raccontarlo e sulla possibilità di
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Nel frattempo, Germi aveva sperimentato l’incontro con un altro genere, il western, ed un
altro spazio, la Sicilia: In nome della legge (1949), adattato insieme a Federico Fellini e Tullio Pinelli
dal romanzo Piccola pretura di G.G. Lo Schiavo, racconta della dura difesa della legalità da parte
di un integerrimo pretore inviato in Sicilia dal nord. Prima di iniziare le riprese, Germi non aveva mai
messo piede sull’isola, che invece diventerà, come vedremo, uno degli scenari fondamentali della
fase più matura della sua produzione. Nonostante si proponga una visione forse troppo conciliante
nei confronti del giustizialismo della mafia rurale, il film è assai efficace nel traslare gli stilemi del
western (con un particolare riferimento al cinema di John Ford) nell’arido e grandioso paesaggio
siciliano. Germi opta per un registro autenticamente epico, e costruisce un’opera che anticipa in
modo assai significativo il filone del film politico, d’impegno civile, che caratterizzerà fortemente il
cinema italiano degli anni Sessanta e Settanta grazie a cineasti come Francesco Rosi, Elio Petri e
Damiano Damiani.
brigante di Tacca del Lupo (1953): qui, oltre all’ibridazione tra il genere cinematografico straniero e
il paesaggio italiano (la Basilicata, in questo caso), si aggiunge anche la dimensione storica,
Ancora più complesso dal punto di vista del genere è poi uno dei film meglio conosciuti di
Germi, Il cammino della speranza (1950). Si tratta del racconto corale dell’odissea di gruppo di
diseredati, zolfatari siciliani rimasti senza lavoro, che, incompresi e raggirati, cercano di raggiungere
con le loro famiglie il confine per emigrare in Francia. La formula del road movie tiene insieme
generi diversi (dal western al noir al film sociale), e il registro di fondo è ancora una volta quello
epico-melodrammatico. Fortemente simbolico, a questo proposito, il contrasto tra l’inizio del film,
tutto all’insegna della stasi e dell’oscurità (i protagonisti sono inamovibili nel buio ventre della
miniera siciliana, perché risolti allo sciopero) e il finale del tutto inverso (i personaggi si muovono,
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nonostante tutti gli impedimenti, sull’immensa distesa innevata della frontiera italo-francese, di
Dopo due film non particolarmente significativi, La presidentessa (1952), farsa tutta
strutturata attorno alla bellezza di Silvana Pampanini, e Gelosia (1953), dal romanzo Il marchese di
Roccaverdina di Luigi Capuana, di cui appaiono esasperati i toni melodrammatici, Germi rimase in
silenzio per quasi due anni. Questa inattività fu evidentemente dovuta ad una seria crisi creativa,
Con l’aiuto dello sceneggiatore Alfredo Giannetti, che divenne uno dei suoi più stretti
collaboratori, Germi individuò nelle strutture del melodramma la tipologia narrativa più consona in
quel periodo alle sue esigenze espressive. Si tratta però, beninteso, di un tipo di melodramma
molto diverso da quello cui abbiamo accennato in relazione a Il cammino della speranza o
Gelosia. I film che Germi realizzò con Giannetti, Il ferroviere (1956) e L’uomo di paglia (1958) non
hanno infatti nulla di epico, nessuna tinta forte, alcun sensazionalismo. Si tratta piuttosto di
melodrammi intimisti, di film crepuscolari che si incentrano, cosa inusitata per l’epoca, sulla
dimensione privata di famiglie della classe operaia. La vicenda di Il ferroviere delinea il destino
amaro del protagonista, che vede sconvolti nella famiglia e nel lavoro tutti i valori in cui crede, di
fronte all’avanzare degli stili di vita moderni legati al benessere del boom economico. L’uomo di
paglia è invece la storia di un tradimento coniugale e delle sue banali quanto dolorose
conseguenze. Questi melodrammi malinconici sono insomma non solo l’occasione per un
ripensamento della figura registica e delle sue modalità d’ispirazione creativa, ma anche per una
disamina della figura del pater familias, colta in tutta la sua fallibilità e la sua crisi, ma guardata
ciononostante con empatia. Che Germi fosse coinvolto emotivamente in prima persona nella
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realizzazione di questi progetti lo dimostra il fatto che volle interpretare egli stesso il protagonista
perché osava descrivere la vita di esponenti del proletariato i cui principali problemi non erano la
lotta di classe ma preoccupazioni di natura personale, più vicine al (presunto) stato d’animo della
borghesia.
Rispedendo al mittente queste ultime critiche ideologiche, Germi sembrò invece registrare
gli appunti relativi all’eccesso di patetismo. I suoi film successivi adottarono infatti un registro ben
diverso, marcato soprattutto da uno sguardo ironico. Un maledetto imbroglio (1959) nacque dalla
scommessa di ricavare una sceneggiatura plausibile da un libro difficile e particolarissimo, per stile
e per linguaggio, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, di Carlo Emilio Gadda, uno dei pochi
esempi di autentico sperimentalismo letterario di quegli anni. Germi e i suoi sceneggiatori (Ennio De
Concini e Giannetti) vinsero la scommessa di trasformare la caotica struttura del romanzo (il cui
giallo rimaneva privo di soluzione) in una vicenda credibile, senza snaturare del tutto il senso
dell’opera di Gadda. Il regista si riavvicinò così al genere noir, girando però stavolta tutto il film in
interni (proprio a rimarcare, forse, la propria lontananza dalle prime fasi della propria creatività).
Scelse inoltre, ancora una volta, di assumere egli stesso il ruolo del protagonista, il sardonico
direzione di uno stile secco ed efficace, Germi riuscì a far proprio il senso di vuoto e di disillusione
del romanzo. Il film tendeva d’altronde, in alcuni momenti, anche verso la farsa, aprendo così le
porte all’ultima, fertilissima stagione della carriera di Germi, che divenne autore di punta della
commedia all’italiana.
4
Nel corso della propria carriera Germi fu anche, saltuariamente, attore in film di altri registi. Tra di essi: Fuga in
Francia (M. Soldati, 1948), Il rossetto (1960) e Il sicario (1961), ambedue di D. Damiani, Jovanka e le altre (M. Ritt,
1960), La viaccia (M. Bolognini, 1961).
5
In effetti la figura dell’investigatore sardonico era già stata abbozzata in Contro la legge (F. Calzavara, 1950), ultimo
soggetto di Germi che egli non aveva diretto personalmente.
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Lorenzo Marmo - Pietro Germi attraverso i generi
Di pari passo con l’arco evolutivo del cinema di Germi, con le sue metamorfosi attraverso i
generi, si trasforma anche il modo in cui il regista guarda alla società italiana e ai suoi costumi:
sempre molto critico, l’autore sembra passare da un moralismo intransigente ad uno sguardo
progressivamente sempre più caustico. Per essere più precisi, la vibrante dimensione etica del
primo Germi, che stava al fondo della visione epico-melodrammatica dei noir e dei western, si
muta dapprima in una melanconia intimista con i melodrammi e poi, con Un maledetto imbroglio,
diventa sferzante critica sociale. Con la commedia all’italiana la carica corrosivamente della
scrittura e della regia di Germi si avvantaggerà anche delle strutture del grottesco, che diventano
internazionale (ottenne il premio Oscar per la miglior sceneggiatura originale e la nomination per la
migliore regia). Originariamente pensato come film drammatico, è la storia del barone siculo Fefè
Cefalù (Marcello Mastroianni in una delle vette interpretative della sua carriera) il quale,
innamorato della giovane cugina (Stefania Sandrelli al suo esordio), decide di compiere il delitto
perfetto: infatti induce la moglie (Daniela Rocca) al tradimento e poi la uccide per motivi d'onore,
assicurandosi così una pressoché certa impunità, in base all'art. 587 dell'allora vigente codice
penale italiano. La genialità satirica del regista consiste “nel dipingere, nel modo più comico e con
profonde, un quadro così globalmente amaro in cui niente e nessuno sono oramai degni di
pietà”6.
Nel successivo Sedotta e abbandonata (1964), scritto con Age & Scarpelli e Luciano
Vincenzoni, si accentua ancora di più il registro grottesco, in direzione di un barocchismo del tutto
ispirato. Anche questo secondo film di ambientazione siciliana si fonda sulla logica potenzialmente
6
Alessandra Cimmino, Pietro Germi, in “Enciclopedia del Cinema”, Treccani, 2003, disponibile al seguente indirizzo:
http://www.treccani.it/enciclopedia/pietro-germi_%28Enciclopedia-del-Cinema%29/.
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mondo che intrappola il soggetto in un rapporto con la comunità dai risvolti semplicemente
angoscianti. Lo stile di Germi è ricchissimo: le inquadrature stracolme di oggetti sono assai vivide
nella resa della materialità del paesaggio e della fisicità dei corpi, e partecipano integralmente al
senso di esasperazione nevrotica dell’atmosfera. Se il primo approccio alla Sicilia era stato
all’insegna dell’epica melodrammatica, come abbiamo visto, anche ora che lo sguardo si volge
alla commedia, siamo sempre di fronte alla stessa messa in scena carica, alla stessa superfetazione
Punta massima della produzione commedica di Germi è però Signore & signori (1966), nato
da un’idea dello sceneggiatore trevigiano Vincenzoni ed infatti non più ambientato in Sicilia ma in
Veneto. Anche questo film ripropone una visione amarissima della relazione tra individuo e società.
Unico caso in cui la ferrea unità della sceneggiatura di Germi cede a una suddivisione interna per
episodi, il film descrive con uniforme ferocia il perbenismo ipocrita della borghesia cattolica della
provincia. Al di là delle apparenze di benessere e civiltà legate anche alla moderna società dei
consumi, anche qui a dominare davvero l’agire umano sono le stesse pulsioni primitive, tribali e
oscurantiste che si erano trovate in Sicilia nei due film precedenti. Con questo film Germi vinse la
Palma d’oro al Festival di Cannes, ad ex-aequo col francese Un homme, une femme (Un uomo,
Negli anni successivi il lavoro del regista appare più convincente nel proseguire la sua
cinica disamina dell’istituzione matrimoniale (L’immorale, 1967, storia di un uomo che non sa
scegliere fra le tre donne della sua vita e le tre famiglie che si è creato con ciascuna di loro;
Alfredo Alfredo, 1972, con Dustin Hoffman alle prese con un vero e proprio inferno coniugale, in un
racconto parimenti vivace e amaro). Meno ispirati gli elogi alla vita agreste (come in Serafino,
1968, fiaba ecologica in cui pure il regista si confronta tardivamente – ma positivamente – con il
colore, e consente ad Adriano Celentano di prodursi in una delle sue interpretazioni migliori: il film
fu di fatto un grande successo) o dei valori di una volta (Le castagne sono buone, 1970,
improbabile elogio dei buoni sentimenti con protagonista Gianni Morandi). Di fatto, sembrano
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rischiare di venir meno la tensione stilistica delle sue opere precedenti ed il loro tono graffiante,
forse anche a causa delle difficoltà di Germi ad intercettare le dinamiche della società dopo la
L’ultimo soggetto scritto da Germi fu quello di Amici miei, sul tema dell’amicizia maschile
(vista nelle sue forme più ludiche e goliardiche) come barriera contro la solitudine e la vecchiaia.
Già molto malato, non poté girare personalmente il film, che fu poi realizzato, famosamente, da
Mario Monicelli nel 1975. Esso costituisce in ogni caso una conclusione singolare ma perfetta per il
percorso di Germi: l’autore dimostra qui un inedito atteggiamento partecipativo verso la ribalderia
del gruppo di protagonisti, le cui ‘zingarate’ diventano un rifugio essenziale dalle insoddisfazioni del
quotidiano. Abdicando almeno in parte a quel senso insopprimibile della Legge che pure era stato
un vero e proprio filo rosso della sua carriera, Germi sembra ora favorire un atteggiamento
beffardo, che riesce a farsi gioco anche della morte, quando essa arriva, puntuale, nel finale.
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Lorenzo Marmo - Il cinema moderno di Michelangelo Antonioni
Indice
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Lorenzo Marmo - Il cinema moderno di Michelangelo Antonioni
Durante studi in economia e commercio all’Università di Bologna, animò un gruppo teatrale, fondò
un circolo letterario con Lanfranco Caretti e Giorgio Bassani (altro grande intellettuale ferrarese,
poi autore, tra gli altri, del celebre romanzo Il giardino dei Finzi Contini) e si avvicinò al cinema
collaborando come critico al «Corriere padano». Nel 1939 si trasferì a Roma, dove frequentò per
alcuni mesi il Centro Sperimentale di Cinematografia ed entrò nella redazione della rivista
«Cinema», in quel momento sede del più vivace dibattito intellettuale sul cinema italiano e sulle
direzioni da intraprendere per il suo rinnovamento (tra i suoi collaboratori Giuseppe De Santis,
Massimo Mida, Gianni Puccini, Cesare Zavattini, Luchino Visconti, Carlo Lizzani).
Le prime esperienze concrete col cinema, sul versante creativo, Antonioni le ebbe prima
collaborando alla sceneggiatura di uno dei film bellici di Roberto Rossellini, Un pilota ritorna (1942)
e poi recandosi in Francia per lavorare come aiuto regista di Marcel Carné per Les visiteurs du soir
(L’amore e il diavolo, 1942), proprio come aveva fatto prima di lui Luchino Visconti con Jean
Tornato in Italia, realizzò nel 1943 un breve documentario nella sua terra d'origine, Gente del
Po1. Il film traeva spunto da uno degli scritti che Antonioni aveva pubblicato su «Cinema», Per un
film sul fiume Po2: il cortometraggio viene considerato, assieme a Ossessione di Visconti (1943), il
primo esempio di cinema neorealista, ma la guerra impedirà la conclusione del montaggio fino al
1947. Gente del Po condivide d’altronde con Ossessione la medesima ambientazione padana:
laddove il film viscontiano è un melodramma noir incentrato su un amore adulterino che conduce
al delitto, l’opera prima di Antonioni è invece un’esplorazione documentaria della vita lungo le rive
del fiume. Il regista ferrarese va insomma dritto al nocciolo di quella spinta alla riscoperta di spazi e
ambienti autentici che caratterizza tutto il neorealismo, senza inizialmente sentire il bisogno di
1
Il film è disponibile qui: https://www.youtube.com/watch?v=ixccmJ5j_oY.
2
Michelangelo Antonioni, Per un film sul fiume Po, in «Cinema», n. 68, 25 aprile 1939 ora in Id., Sul cinema,
Venezia, Marsilio, 2004, pp. 77-80
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costruirvi attorno una storia di finzione. E d’altronde anche in seguito, come vedremo, il paesaggio
De Santis, 1947; Lo sceicco bianco, F. Fellini, 1952) e girò altri cortometraggi documentari, tra cui
N.U. – Nettezza Urbana (1948), L’amorosa menzogna (1949) e Sette canne, un vestito (1949),
destarono frattanto l’attenzione della critica. Gli argomenti su cui si incentrano queste opere sono
assai diversi – la routine dei netturbini il primo, il mondo dei fotoromanzi il secondo, l’intero processo
produttivo di una fabbrica friulana di rayon il terzo – ma nel complesso si può dire che Antonioni
dimostri un forte interesse per la realtà del lavoro, in tutte le sue diverse manifestazioni, e al tempo
stesso per i meccanismi della finzione, per i retroscena della macchina dell’immaginario. Questi
cortometraggi anticipano inoltre alcune delle principali caratteristiche del cinema successivo di
Antonioni, ovvero il desiderio di rottura con la narrazione armonica e lineare del cinema classico,
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Antonioni dimostra dunque sin dall’inizio una rimarchevole chiarezza d’intenti, orientando
subito il suo cinema in una direzione del tutto peculiare e personale che rimarrà la sua cifra stilistica
di fondo. Anche il suo primo lungometraggio, infatti, opta per uno smantellamento parziale della
narrazione classica. La vicenda di Cronaca di un amore (1950) suona infatti, sulla carta, come una
perfetta trama noir, essendo il racconto del riaccendersi della passione tra due ex amanti che
decidono di uccidere il marito di lei. Ma anziché dipanarsi verso una, pur tortuosa, conclusione, la
dei personaggi, nonché da un destino beffardo che sottrae loro ogni possibilità di azione concreta.
Il riverbero di una simile vicenda adulterina e criminosa che aveva già visto protagonisti i due
personaggi in passato, durante gli anni della guerra, complica ulteriormente la linearità della
trama. È vero che i personaggi del genere noir devono spesso scontrarsi con un mondo ostile e
claustrofobico, in cui non è facile orientarsi e agire, ma lo smarrimento dei protagonisti di Cronaca
di un amore ha qualcosa di nettamente più radicale, esso è di segno diverso, perché non sfocia
tanto nell’angoscia quanto in una sensazione abulica di sconfitta esistenziale e di rinuncia alla
possibilità di avere un qualsivoglia impatto sul mondo. Il film prende insomma le formule del noir e
le svuota dall’interno. Al tempo stesso, Antonioni si distanzia anche dall’estetica neorealista, che
all’epoca dominava l’immaginario e il dibattito critico in Italia. La scelta di ambientare il suo film
nel mondo dell’alta borghesia industriale lombarda è sintomatica del desiderio di prendere le
distanze dall’attenzione univoca verso il proletariato e le classi subalterne che aveva caratterizzato
il neorealismo. Nonostante il film sia rimasto celebre per alcuni indimenticabili piani sequenza con
cui Antonioni pedina i propri personaggi secondo i dettami dell’estetica realistica di Zavattini,
l’intento di fondo di questa figura stilistica viene nettamente mutato: non è l’adesione mimetica al
mondo dei fenomeni quello che interessa il regista ferrarese, quanto piuttosto la restituzione di una
dimensione esistenziale di vuoto, scontento e sospetto. Come Gente del Po, anche Cronaca di un
amore può essere letto in una dinamica di rapporto intertestuale con Ossessione di Visconti (in
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copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).
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questo caso molto più profonda e intenzionale): i due film condividono la struttura noir di partenza
(la vicenda adulterina che si intreccia al crimine) e finanche lo stesso protagonista maschile,
Massimo Girotti. Con il noir di Visconti si era aperto il neorealismo, e tocca ora al noir di Antonioni
chiuderlo. È interessante notare come le strutture del genere noir aiutino il cinema italiano ad
avvicinarsi all’estetica neorealista, con Visconti, e come siano sempre queste medesime strutture a
inaugurando una stagione che possiamo definire, come vedremo più avanti, come cinema
moderno.
Antonioni fa seguito a questo esordio folgorante con un film assai interessante, ma forse
meno risolto, e comunque non altrettanto apprezzato dal pubblico. I vinti (1953) è un film in tre
episodi, ciascuno ambientato in una diversa nazione europea (la Francia, l’Italia, l’Inghilterra) e
che investiga la dimensione pervasiva della delinquenza giovanile. I tre episodi sono assai disuguali
nei risultati e patiscono qualche incertezza da parte dell’autore e dei produttori (in particolare,
l’episodio italiano doveva avere un intreccio in cui si connetteva esplicitamente l’azione criminosa
del protagonista a una motivazione di matrice neofascista, ma questo aspetto fu censurato, dopo
continua a sperimentare con l’immaginario noir e anticipa, nel terzo episodio, il tema di un delitto
che ha luogo in un parco londinese, proprio come accadrà anche in uno dei suoi capolavori della
La signora senza camelie, ancora del 1953, è invece uno straordinario melodramma sui
L’amorosa menzogna). Antonioni ritrova la Lucia Bosè già protagonista di Cronaca di un amore,
affidandole lo struggente ritratto di una reginetta di bellezza (come Bosè stessa era stata) che
diventa attrice e vorrebbe essere presa sul serio come tale, ma deve scontrarsi con un mondo
opportunistico che si ostina a volerne solo mercificare il corpo. Si tratta della prima di una lunga
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Sempre al mondo femminile è dedicato Le amiche (1955), tratto dal romanzo di Cesare
Pavese Tra donne sole e ambientato nel mondo della borghesia torinese. Questo ambiente sociale
è descritto tramite gli occhi di una nuova arrivata, Clelia (Eleonora Rossi Drago), ed il risultato è uno
studio psicologico di inusitata crudezza, che non fa sconti a nessuno. Antonioni va qui in una
direzione diversa rispetto a tutto il suo cinema successivo, riservando meno attenzione agli spazi
esterni, allo scenario urbano, e concentrandosi piuttosto su una serie di scene corali per lo più in
Antonioni ritorna infatti alla sua Pianura Padana, e le rive paludose del Po diventano ora un
correlato spaziale perfetto dello stato mentale pienamente depressivo del protagonista Aldo
(Steve Cochran). Questi è un operaio che viene lasciato dalla propria compagna e, preso dalla
disperazione, abbandona il lavoro e si mette a vagabondare per la Bassa Padana insieme alla
figlioletta. La fotografia del film (di Gianni Di Venanzo), più che in bianco e nero, è tutta articolata
su una scala di grigi che, oltre a restituire l’effettiva atmosfera nebbiosa del luogo, traducono la
piattezza esistenziale, il torpore e il senso di sconfitta da cui il protagonista non riesce a ridestarsi. In
questo film Antonioni recupera in pieno l’interesse per il mondo del lavoro industriale che aveva
caratterizzato già alcuni dei suoi cortometraggi documentari: Aldo è però un proletario il cui
profondo disagio non può incanalarsi nelle forme consuete della lotta di classe (rivendicazione di
diritti, di aumenti salariali ecc.), perché ha un’origine esistenziale più profonda. Questo non significa
che il suo malessere non sia legato alla società industriale che avanza (l’Italia entrava negli anni
del boom): il paesaggio periferico del film è costellato dalle architetture e dai simboli di un
progresso (fabbriche, pompe di benzina, cantieri) che pure sembra lontano anni luce dal vissuto
sembra dire Antonioni, proprio perché l’uomo ha perduto un rapporto più armonico col paesaggio
incontri, tutti provvisori, con diverse figure femminili, diventa un girare a vuoto profondamente
doloroso, che non potrà che concludersi male. Antonioni usa il tempo in modo del tutto peculiare,
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indugiando su alcuni episodi, anche grazie ad una spiccata propensione per il piano sequenza, ed
operando viceversa ellissi significative. Il risultato di tutto questo è che nella seconda metà del film
risulta piuttosto difficile, per lo spettatore, capire quanto tempo sia effettivamente passato nel
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3. La tetralogia dell’incomunicabilità
Il cinema di Antonioni giunge a questo punto alla sua piena maturazione, con la cosiddetta
rosso (1964). Si tratta di quattro film accomunati da una medesima ricerca stilistica e tematica,
estetica ed esistenziale, con cui il regista ottiene la consacrazione definitiva presso la critica e il
pubblico. Interprete di tutti e quattro i film è Monica Vitti, in quegli anni compagna e musa del
regista, che diventa con questi film una delle principali attrici drammatiche italiane (saprà in
delle regole del cinema classico. Ciò avviene a tutti i livelli della messa in scena, ovvero in relazione
sia alla struttura narrativa, che all’articolazione del montaggio e alla configurazione della singola
inquadratura.
A livello della struttura narrativa vediamo infatti la sostituzione del principio di causa-effetto
film di suspense e rivoltarla su sé stessa, già intravista in Cronaca di un amore, viene portata alle sue
estreme conseguenze: Guido Fink conierà a tal proposito la fortunata espressione di “giallo alla
rovescia”3. Il film sembra infatti organizzare la propria vicenda intorno alla misteriosa scomparsa del
personaggio di Anna (Lea Massari), di cui il compagno e la migliore amica (Gabriele Ferzetti e
Monica Vitti) si mettono subito alla ricerca. Ma non solo la scomparsa di Anna durante una gita in
barca insieme agli amici sfida radicalmente ogni comprensione logica (è davvero come se ella
fosse svanita nel nulla), ma il film stesso finisce per deragliare, e più che raccontare l’indagine su
Anna descrive il progressivo e problematico emergere di un sentimento tra i due personaggi che
provano a rintracciarla.
A livello del montaggio invece, esso non è adoperato per far orientare agevolmente lo
spettatore nella diegesi, sforzandosi cioè, come avveniva nel cinema classico, di rendere chiaro,
3
Guido Fink, Antonioni e il giallo alla rovescia, in «Cinema nuovo», anno XII, n. 162, 1963, pp. 100-106.
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pensi alla lunga sequenza della ricerca di Anna in L’avventura, dove l’isolotto di Lisca Bianca
panoramico permette al regista di costruire delle inquadrature decentrate, in cui ci siano più poli
d’attenzione anziché una struttura armonica ed ordinata. Se nel cinema classico la misura su cui si
calibrava l’intera rappresentazione era la figura umana, ora invece l’uomo ha evidentemente
perduto la sua centralità, e il paesaggio smette di essere un semplice sfondo, uno specchio o un
riverbero per i sentimenti e le sensazioni dei personaggi. Al contrario, il mondo assume una sua
loro marginalità e insignificanza. Fin dall’inizio della carriera di Antonioni, d’altronde, non si contano
gli indugi della macchina da presa prima e dopo che il personaggio ha abbandonato
l’inquadratura.
vale sia per i paesaggi siciliani dell’Avventura che per gli spazi urbani dei due film successivi: le
passeggiate milanesi di Jeanne Moreau in La notte servono a raccontare una profonda crisi di
coppia, mentre gli spazi dell’EUR di Roma in L’eclisse, che sembrano fantascientifici pur essendo
reali, sono lo scenario perfetto per sancire la profonda discrasia del rapporto tra umanità e
ambiente circostante. I due amanti del film (Alain Delon e Monica Vitti), la cui relazione è ormai ad
un’impasse, si daranno appuntamento, nel finale del film, ad un incrocio del quartiere nel
indugerà ciononostante tra strade e palazzine (mentre si accendono le luci al neon), in quella che
è forse la punta più metafisica della produzione di Antonioni (il regista ha più volte dichiarato di
essere tentato dal cinema totalmente astratto, senza mai decidersi però a sperimentarlo
concretamente).
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L’ultimo film della tetralogia, Il deserto rosso (1964), segna una svolta nella carriera di
Antonioni grazie all’utilizzo del colore. Il film approfondisce il discorso sul capitalismo industriale che
abbiamo visto attraversare la carriera antonioniana sin dagli anni Quaranta attraverso una
sperimentazione cromatica straordinaria: verdi, grigi, gialli, rossi compaiono sullo schermo al di là di
ogni rigorosa plausibilità. Quello che interessa all’autore non è d’altronde la verosimiglianza, ma
l’indagine del disagio della protagonista, che si muove tra spazi sconnessi e detriti industriali nel
I film della tetralogia si concentrano dunque sulla cosiddetta “malattia dei sentimenti”, sulla
difficoltà di comprendere e comunicare il proprio sentire, a fronte dell’irriducibile alterità dei propri
interlocutori, anche se con essi si intrattiene una relazione amorosa. Al centro di questo discorso
sull’incomunicabilità e l’alienazione c’è la figura di Monica Vitti, ‘pedinata’ da Antonioni con una
macchina da presa che, più che descriverne le azioni, vuole coglierne gesti, movimenti ed
espressioni minime, in una sorta di coreografia che sembra avere più a che fare con lo studio della
fisicità del personaggio che non con la penetrazione della sua verità psichica, che rimane rimossa,
insondabile.
Il cinema di Antonioni è così un cinema che si spinge a investigare le tessiture del reale e
del vissuto umano, non per coglierne una visione unitaria e chiara, ma al contrario incontrandosi
con la difficoltà a trarne un senso, a trasformare la molteplice materia del mondo e dell’individuo
in una storia con un inizio, uno sviluppo e una fine. La spinta all’indagine è essenziale, per il cinema
interroga sull’atto stesso del proprio guardare, della propria percezione. Se nel cinema classico
l’atto del guardare non era problematizzato, il moderno si caratterizza viceversa per la sua
continua domanda sul funzionamento del medium, per la sua dimensione fortemente
autoriflessiva. Proprio per questo il cinema di Antonioni è eminentemente moderno. È proprio nella
presa, e di una istanza metacinematogafica che trasforma quella spinta in un oggetto di riflessione
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Antonioni aveva ormai raggiunto fama internazionale, e firmò un contratto con la Metro
Goldwyn Mayer per tre film in lingua inglese. Il primo è Blow-up, liberamente adattato da un
racconto di Julio Cortázar e ambientato nella Swinging London degli anni Sessanta. Il film è ancora
una volta un giallo potenziale, la cui struttura finisce però letteralmente per sgranarsi di pari passo
con gli ingrandimenti dell’immagine fotografica su cui si basa il mistero. In questo caso, infatti, il
rovesciamento della trama di suspense non serve più alla disamina di una crisi esistenziale, ma è
bensì l’occasione per una riflessione esplicita sui temi del vedere e del conoscere. Blow-up è
dunque un film autenticamente teorico, un saggio sul concetto e sul problema dello sguardo, e in
quanto tale è considerato una vera e propria pietra miliare della storia del cinema. La vicenda si
incentra sulla figura di un fotografo (David Hemmings), che si divide tra servizi di moda e reportage
‘neorealisti’, ma tratta i suoi soggetti, che essi siano modelle o clochard, sempre con lo stesso
distacco, come se fossero oggetti. Durante una passeggiata in un parco, il protagonista (nel film
non se ne dice mai il nome, ma nella sceneggiatura veniva chiamato Thomas, nome da sempre
connotato, sin da San Tommaso, dall’urgenza di vedere per poter credere) si imbatte nelle
effusioni di una coppia adulterina, alla quale ruba alcuni scatti. Sviluppando le immagini si renderà
conto di aver fotografato, forse, molto più di quanto non si fosse reso conto, scorgendo
nell’ingrandimento delle proprie foto le tracce di un revolver che emerge dai cespugli e, più avanti
nella sequenza di immagini, di un cadavere. Il film sembra dunque supportare l’idea della
fotografia come strumento efficace per una documentazione della realtà autenticamente
rivelatrice: questo medesimo schema narrativo era ad esempio al centro di un film come Call
Northside 777 (Chiamate Nord 777, H. Hathaway, 1948), un noir in cui grazie a questa tecnica si
Antonioni invece i tentativi del protagonista di arrivare a scoprire una verità concreta e tangibile
per mezzo dell’immagine vengono alla fine frustrati, nonostante ad un certo punto egli rinvenga il
cadavere in questione: anziché chiamare la polizia, Thomas si fa distrarre dalla confusione della
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movida londinese, e la mattina dopo il cadavere è scomparso, e al giovane non resta che iniziare
ad unirsi ad un gruppo di mimi sopraggiunti intanto sulla scena, e iniziare a giocare a tennis con
una pallina immaginaria. Il film richiede evidentemente una lettura allegorica, va interpretato
tangibile. Al contrario, anziché illuderci di poter catturare il vero (con gli occhi o con i dispositivi
commistione con il falso, con le nostre proiezioni e desideri. Il finale ludico del film, con la partita di
tennis, sembra suggerire la necessità di abituarsi per l’appunto a giocare consapevolmente con
l’intreccio tra mondo reale e il registro della nostra fantasia soggettiva. Proprio tale intreccio è in
effetti, sembra dire Antonioni, il registro principale della nostra esperienza ed il fondamento vero e
proprio della nostra identità. Non a caso, nell’ultima inquadratura, è il protagonista stesso a
scomparire, lasciando tutto lo spazio dell’immagine al prato verde del parco: ancora una volta
un’immagine che smentisce ogni illusorio antropocentrismo incentrato su una concezione realistica
Nel 1970 Antonioni realizzò poi negli Stati Uniti Zabriskie Point, uno dei film simbolo della
stagione post-sessantottina. Il film racconta della storia d’amore tra due giovani ribelli, che
fuggono dalle imposizioni della società capitalistica: sono rimaste celebri due scene, molto
significative in relazione al clima dell’epoca. Nella prima, i due giovani fanno l’amore nella Death
Valley (la Valle della Morte nel deserto californiano che era stata anche scenario di tanti film
western) e magicamente l’intera distesa desertica si riempie di altre coppie intente a fare sesso. In
questa scena assistiamo insomma ad una vera e propria inversione del discorso portato avanti
finora dal regista, in cui lo spazio sembrava svuotarsi di persone, per dare piena misura della
solitudine abulica della modernità. Qui invece, la forza erotica della ribellione giovanile riesce
4
Blow-up è un film che ha segnato profondamente la storia del cinema, ispirando tutta una serie di ulteriori riflessioni
sul vedere (Profondo rosso, D. Argento, 1975, con la celebre scena dell’omicidio; Blade Runner, R. Scott, 1982, con la
sequenza dell’ingrandimento computerizzato; finanche le prime stagioni di Stranger Things, Netflix 2016-, con i
dettagli del mondo del Sottosopra nascosti prima in uno scatto fotografico e poi, nella seconda stagione, nel nastro di
una videocassetta), ma anche sulla dimensione uditiva del nostro rapporto con il mondo (The Conversation, La
conversazione, F. F. Coppola, 1974; Blow Out, B. De Palma, 1981).
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addirittura a riempire, per quanto soltanto allegoricamente, uno spazio deserto ed anzi marcato
sin dal nome come mortifero. D’altronde non si può dire che eros trionfi del tutto su thanatos nel
film, perché la sequenza finale riprende a varie velocità, e da ben diciassette punti di vista diversi,
l’esplosione di una villa di Frank Lloyd Wright, (un capolavoro dell’architettura già usato da Alfred
Hitchcock in North by Northwest, Intrigo internazionale, 1959) e di altri simboli del benessere
Antonioni diresse poi Jack Nicholson in Professione: reporter (1975), ancora una volta un
giallo impossibile il cui protagonista è un giornalista televisivo, immerso in una storia ambientata in
Africa e in Spagna e incentrata sui temi dell’ambiguità del reale e dello sdoppiamento
dell’identità. Memorabile anche qui la scena finale, un piano sequenza di sette minuti
tecnicamente davvero prodigioso (la macchina da presa attraversa letteralmente una grata!). Il
piano sequenza ha qui “lo scopo contrario rispetto a quello ricercato dalla stessa figura di stile
nell’Antonioni dei primi anni: non si tratta più di inseguire i personaggi, di pedinarli costantemente,
parentesi estatica di Zabriskie Point, della rottura di ogni rapporto armonico tra la percezione
mistero di Oberwald (1980), e tornò ancora al cinema con Identificazione di una donna (1982),
che riprende i temi della creatività e tematizza esplicitamente lo spostamento della ricerca
d’ispirazione dal volto di un’attrice musa (come lo era stata Monica Vitti per Antonioni) alla vera e
propria fonte originaria di ogni immagine, ed anzi della vita stessa: il sole, su un’insistita immagine
A partire dalla metà degli anni Ottanta gravi problemi di salute (nel 1985 un ictus lo lascia
semiparalizzato e privo di parola) costrinsero Antonioni ad interrompere per molto tempo l’attività.
5
Altiero Scicchitano, Michelangelo Antonioni, in “Enciclopedia del Cinema”, Treccani, 2003, disponibile al seguente
indirizzo: http://www.treccani.it/enciclopedia/michelangelo-antonioni_%28Enciclopedia-del-Cinema%29/.
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Almeno fino al 1995, quando grazie all’aiuto dell’amico cineasta tedesco Wim Wenders, riuscì a
realizzare un film a episodi, Al di là delle nuvole, tratto da alcuni racconti presenti nella sua
raccolta Quel bowling sul Tevere (1983). E ancora nel 2004, il suo cortometraggio Il filo pericoloso
delle cose, tratto da un altro racconto del libro Quel bowling sul Tevere, è stato inserito assieme ad
altri due episodi firmati da Wong Kar Wai e Steven Soderbergh, nel film Eros.
Vincitore, nell’arco del tempo, del Leone d’Oro a Venezia (per Deserto rosso) e della Palma
d’Oro a Cannes (per Blow-up), Antonioni venne insignito anche di un Oscar alla carriera nel 1995.
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L’impegno a denunciare i mali della società ha costituito una delle caratteristiche del
cinema italiano dall’epoca del neorealismo. Quest’ultimo movimento però, collocando il proprio
punto di vista in una posizione di prossimità a quella della povera gente, è più intento a costruire
una critica dell’ineguaglianza delle strutture di classe che non una vera e propria disamina del
funzionamento politico della società. In altre parole, i film neorealisti hanno senza dubbio un
portato politico notevole, ma esso risiede nell’istanza cronachistica con cui si vuole raccontare la
vita dei soggetti subalterni, collocati spesso ai margini della città e sicuramente lontano dalle
stanze del potere. Proprio per questo, il neorealismo non si occupa di una disamina diretta del
Certo, l’adesione neorealista al mondo ripreso dal vero, girando il più possibile in esterni
reali, con luce naturale e interpreti non professionisti, costituisce di per sé una presa di posizione
forte. E infatti il cinema di De Sica, Zavattini, Rossellini e gli altri non mancò di scatenare le ire della
dell’Italia, più positiva, nel momento in cui il paese si avviava verso la ricostruzione postbellica e,
esplicitamente politico perché non fa della politica il proprio argomento di discussione specifico, il
proprio tema. Ciò sarebbe d’altronde stato impossibile, nel clima dell’epoca: le ferite relative al
fascismo erano ancora troppo fresche perché si potesse davvero condurre una disamina
spassionata delle logiche che avevano governato l’Italia durante il ventennio, e delle rotture e
continuità che si potevano rilevare con la situazione del dopoguerra. Lo spettro del fascismo
aleggiava inevitabilmente sul cinema del dopoguerra, ma esso veniva raramente evocato in
modo diretto: per lo più, ai mali del fascismo si alludeva tramite riferimenti obliqui nel dialogo o
tramite l’utilizzo, in chiave tutta negativa, dell’architettura di regime (si veda l’uso dell’EUR in Roma
città aperta, Rossellini, 1945; dei ponti di Roma nord in Ladri di biciclette, De Sica, 1948 o della Città
universitaria in Gioventù perduta, P. Germi, 1948). Fa eccezione a questo proposito, una trilogia di
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commedie dirette da Luigi Zampa (Anni difficili, 1948; Anni facili, 1953 e Anni ruggenti, 1962) con cui
il regista compì una sferzante satira della corruzione e del trasformismo politico italiano prima e
Solo con gli anni Sessanta si assistette, però, ad un cambiamento significativo, legato
evidentemente sia al sopraggiungere della sufficiente distanza temporale dagli anni del fascismo,
che ad alcune metamorfosi socioculturali più ampie, i cui effetti toccano poi anche gli assetti
politici veri e propri (nel dicembre 1963 si varò il primo governo di centro-sinistra, cui partecipa cioè
anche il Partito Socialista assieme alla Democrazia cristiana). Se gli anni Cinquanta erano ancora
caratterizzati da un assordante silenzio per quello che riguarda gli aspetti più dolenti delle politiche
fasciste, in primis la persecuzione degli ebrei e le leggi razziali, col nuovo decennio il dibattito sulla
memoria poté finalmente accendersi, e vennero realizzati numerosi film che guardano indietro ai
fatti di quindici/vent’anni prima proponendone analisi assai acute: Il generale della Rovere (1959)
ed Era notte a Roma (1960) di un veterano come Roberto Rossellini, La lunga notte del ’43 (F.
Vancini, 1960), Il gobbo (C. Lizzani, 1960), Tiro al piccione (G. Montaldo, 1961), Le quattro giornate
di Napoli (N. Loy, 1962), Tutti a casa (1960) e La ragazza di Bube (1963), entrambi di Luigi
Comencini.
Al tempo stesso, si inaugurò un filone di riflessione esplicita sui meccanismi del potere, che
costituirà una tendenza molto importante del cinema italiano soprattutto a partire dalla fine del
decennio1. Di fatto, con la progressiva politicizzazione della società italiana, si formò un pubblico di
Registi come Francesco Rosi, Elio Petri e Damiano Damiani, di cui parleremo in dettaglio più avanti,
ma anche Giuseppe Ferrara (Il sasso in bocca, 1970) e Marco Bellocchio (Sbatti il mostro in prima
pagina, 1972), approfittando del fatto che le maglie della censura si erano significativamente
allentate, realizzarono film direttamente ispirati all’attualità politica, che prendevano apertamente
1
In questi stessi anni, anche la commedia partecipa all’italiana, naturalmente, di una disamina spietata e corrosiva del
malcostume italico negli anni del boom: si pensi ad esempio a film come Il medico della mutua (1968), del veterano
Zampa, o Una vita difficile (1960), I Mostri (1963) e In nome del popolo italiano (1971), tutti diretti da Dino Risi.
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edilizia, il ruolo della stampa nella formazione dell’opinione pubblica. Furono anche rivisitati altri
momenti della storia italiana in chiave fortemente critica: si pensi alle ricostruzioni storiche di
Giuliano Montaldo (Sacco e Vanzetti, 1970 e Giordano Bruno, 1973) e Florestano Vancini (Bronte
cronaca di un massacro, 1972 e Il delitto Matteotti, 1973). Gli sceneggiatori che più fortemente
plasmarono questa stagione furono Franco Solinas e Ugo Pirro, mentre l’attore simbolo del cinema
politico, quello che più d’ogni altro seppe incarnare sia il volto grottesco del potere che quello
delle classi subalterne, fu Gian Maria Volontè, interprete di grandissima intensità e versatilità noto
dell’opinione pubblica le pesanti contraddizioni con cui doveva confrontarsi l’ancor giovane
Repubblica italiana. Non si trattava però, beninteso, di un cinema che cercava un intervento
diretto nell’agone politico, nel senso che questo tipo di produzione, pur trasmettendo in modo
chiaro il proprio punto di vista e pur portando in modo inequivoco la propria critica alla società
italiana, non aderiva dichiaratamente alla prospettiva di una parte politica precisa, di un partito o
di un movimento specifico. In questo senso, il cinema politico va distinto da quello che possiamo
definire più strettamente come cinema militante. Questa espressione fu coniata in riferimento ai
movimenti cinematografici esplicitamente legati alle rivolte politiche della fine degli anni Sessanta,
e connota anche il cinema realizzato in relazione alle lotte di indipendenza dei Paesi del Sud del
e non si giova, di solito, dei consueti circuiti distributivi nelle sale. Il movimento di rivolta sociale che
caratterizzò il Maggio francese, nel 1968, fu, ad esempio, fortemente sentito e partecipato da un
cineasta come Jean-Luc Godard, che girò, insieme al Gruppo Dziga Vertov (un collettivo il cui altro
membro fondamentale, oltre a Godard, era Jean-Pierre Gorin), una serie di film militanti tra cui si
annoverano anche le coproduzioni franco-italiane Lotte in Italia (1971) e Crepa padrone, tutto va
2
Su questo si veda: Sergio Di Giorgi, Cinema politico, in “Enciclopedia del Cinema”, Treccani, 2004, disponibile al
seguente indirizzo: http://www.treccani.it/enciclopedia/cinema-politico_%28Enciclopedia-del-Cinema%29/.
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Lorenzo Marmo - Il cinema politico italiano
bene (1972). In Italia, invece, un cineasta autenticamente militante fu Ugo Gregoretti, che realizzò
due preziose pellicole documentarie, Apollon: una fabbrica occupata (1969) e Il contratto (1970),
con cui cercava un intervento politico diretto nella lotta per il miglioramento della condizione
operaia.
Il tentativo, sia nel caso del cinema militante che in quello del cinema più ampiamente
politico, è quello di rendere coerenti la forma e il contenuto: si cerca cioè un nuovo modo di
guardare alla società, al di fuori dalla versione della Storia ufficiale, e dunque di pari passo si
politico che quello militante sono insomma attraversati da una tensione che è sia politica che
cinema politico rimane un prodotto di finzione, pur ibridando spesso, nel caso in cui sia basato su
una vicenda realmente accaduta, la ricostruzione recitata dei fatti con interviste e materiali di
repertorio3.
Il filone politico ha di fatto due punti di riferimento, due tipi di cinema a cui guardare come
modelli. Da una parte, c’è il neorealismo, con la sua spinta cronachistica, da cui discende la
Dall’altra parte, c’è il cinema di indagine sociale hollywoodiano, con il suo stile visivo decisamente
marcato (da All the King’s Men, Tutti gli uomini del re, R. Rossen, 1949 a Deadline USA, L’ultima
minaccia, R. Brooks, 1952, dal cinema di Frank Capra a quello di Elia Kazan, fino alle punte più
3
Un discorso a parte, all’interno del cinema politico, lo meriterebbe Gillo Pontecorvo, i cui film sono caratterizzati sia
da una propensione per la spettacolarizzazione delle dinamiche socio-storiche messe in atto (criticatissimo in questo
senso fu Kapò, 1960, accusato di trasformare la sofferenza dei lager nazisti nella fonte di un sentimentalismo osceno)
ma anche da uno sperimentalismo intensissimo e da un’intenzione politica molto netta e lucida: si veda ad esempio il
bellissimo La battaglia di Algeri (1966), dedicato alla guerra di liberazione algerina, un film per molti aspetti assai
vicino ai prodotti del cinema militante vero e proprio.
4
Naturalmente, pur essendo il neorealismo e il cinema hollywoodiano le esperienze che ebbero influenza più diretta sul
cinema politico, parimenti occorre menzionare anche l’esempio di tanti altri momenti e movimenti della storia del
cinema che erano stati animati da precisi intenti ideologici ed avevano avuto la capacità di un proporre un intervento
autenticamente politico sull’immaginario: dalla grande tradizione documentaria internazionale all’avanguardia sovietica
di Ejzenštejn, fino al realismo poetico francese. La grande ondata di innovazione internazionale degli anni Sessanta – la
Nouvelle Vague, innanzitutto, ma anche il Free Cinema inglese, le cinematografie ceca e polacca ecc. – stavano
proseguendo su questa linea, con cui il cinema politico e militante è evidentemente in comunicazione.
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da
copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).
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politicizzate del cinema noir). Questa modalità di intensificazione della messa in scena è spinta
talvolta fino al registro del grottesco: è il caso soprattutto di Elio Petri, il cui cinema fu infatti spesso
attaccato perché troppo spettacolare, troppo incline ad indulgere nella comicità (per quanto
sempre caustica) e nel barocchismo. Di fatto, anziché aderire ad istanze strettamente realiste, il
cinema politico opta per uno stile forte, perché non concepisce il coinvolgimento degli spettatori
tramite strategie narrative e formali finanche spettacolari come antitetico alla riflessione
d’impegno civile.
Il genere perse vigore dopo la metà degli anni Settanta, di pari passo con l’affievolirsi della
spinta alla contestazione che aveva animato per un decennio la realtà italiana. Gli anni Ottanta
segnano infatti, sul piano sociale, un ripiegamento sul privato e la parziale rinuncia al fervore
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2. Francesco Rosi
punto di vista cronologico, gli altri autori del filone. Il regista napoletano esordì nel lungometraggio
nel 1958, con La sfida, resoconto dell’ascesa e caduta di un piccolo trafficante che riesce farsi
strada nelle strutture della camorra partenopea. Rosi mostra già perfetta padronanza dello stile,
mischiando la lezione del neorealismo (l’utilizzo di molti attori non professionisti; la propensione al
piano sequenza; una grande sensibilità per gli ambienti ripresi dal vero e antropologicamente
esatti) con quella del cinema noir americano (Thieves’ Highway, Il corsaro della strada, J. Dassin,
1949) e di Elia Kazan (soprattutto On the Waterfront, Fronte del porto, 1954). Questa capacità di
fondere uno stile potente con l’analisi lucida dei meccanismi economici e di sfruttamento della
malavita la ritroviamo anche nell’opera successiva, I magliari (1959), incentrata sul fenomeno
Fu però con Salvatore Giuliano (1962) che Rosi divenne un autore di punta del cinema
nazionale, perfezionando un proprio metodo personale assai originale, che consisteva nel proporre
una sorta di documentario ricostruito sul modello del giornalismo di denuncia, senza tuttavia
rinunciare a personaggi di forte rilievo narrativo. Il film ruota intorno alla figura – realmente esistita,
possibili rapporti tra mafia e politica nell’Italia degli anni Quaranta. Rosi sceglie di dare pochissimo
spazio sullo schermo all’uomo che pure dà titolo al film (evocato per lo più in absentia), optando
invece per una ricostruzione chirurgica del complesso nodo politico-economico di cui si
film è rimasta un modello per il cinema d’inchiesta, perché riesce a connettere in modo assai
Una maggiore linearità caratterizza invece la struttura di Le mani sulla città (1963), film
sull’intreccio fra politica e speculazione edilizia nella Napoli dell’epoca. Rosi prende nuovamente
in prestito parte dell’estetica del noir (fotografia chiaroscurata, musica jazz) e struttura tutto il film
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intorno all’alternanza tra riprese dello spazio urbano dall’alto (simbolo dei poteri che controllano
nascostamente la vita metropolitana), la riproduzione del territorio di Napoli tramite mappe (la
cartografia è qui mostrata nella sua alleanza con gli interessi del capitale più bieco) e l’esperienza
della città dal basso (il livello strada a cui accedono le persone comuni, che il potere manipola
con le proprie oscure macchinazioni). Nel magma degli intrighi messi in scena con implacabile
precisione dal film emergono quattro figure di rilievo: il costruttore edile Edoardo Nottola (Rod
Steiger), il mellifluo Maglione (Guido Alberti) e il grande tessitore De Angeli (Salvo Randone), cui si
oppone, dalla parte dei ‘buoni’, il consigliere De Vita, interpretato da Carlo Fermariello, vero
Dopo essersi dedicato a pellicole di genere e tono diversi, Rosi torna al cinema politico
negli anni Settanta: con Il caso Mattei (1972) analizza nuovamente, come in Salvatore Giuliano, un
incidente aereo dieci anni prima. Del film precedente, Rosi riprende la frantumazione di una
cronologia ordinata e gli stilemi da reportage televisivo. Questa volta però la figura di Mattei è il
centro nevralgico della narrazione: le sue battaglie e le sue sfide, cui Rosi guarda con
veramente efficace nel descrivere il rapporto tra dinamiche economiche, interventismo statale,
politiche coloniali, ingerenze americane e corruzione che hanno segnato lo sviluppo industriale del
nostro paese.
La stessa tecnica viene ripresa anche nella prima parte di Lucky Luciano (1973), biografia
del mafioso italoamericano (interpretato ancora da Volonté) che si rifugiò in Italia nell’immediato
dopoguerra e morì a Napoli nel 1962. Alle lotte interne alla mafia è dedicato anche Cadaveri
eccellenti (1976), tratto da Il contesto di Leonardo Sciascia, l’autore letterario italiano più spesso
oggetto di adattamenti da parte del filone del cinema politico italiano, di cui può essere
considerato un forte ispiratore, pur nell’ambito di un medium diverso. Rosi fu altresì autore anche di
una bella pellicola antimilitarista sulla Grande Guerra, Uomini contro (1970), dal memoriale di Emilio
Lussu Un anno sull’altipiano e, quando la stagione del cinema politico era ormai sostanzialmente
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passata, propose prestigiosi adattamenti delle opere di Carlo Levi (Cristo si è fermato a Eboli, 1979),
Gabriel García-Márquez (Cronaca di una morte annunciata, 1987) e Primo Levi (La tregua, 1997).
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3. Elio Petri
Petri, nato nel 1929, era figlio della Roma periferica e operaia e manifestò fin da
giovanissimo un forte interesse sia per il cinema che per la politica. Impegnato a partire
occuparsi di cinema lavorando nei primi cineclub, e poi come critico su «l’Unità» e «Gioventù
nuova».
Dopo aver esordito come sceneggiatore collaborando con Giuseppe De Santis (Roma ore
11, 1952, e Un marito per Anna Zaccheo, 1953) e Carlo Lizzani (Il gobbo), mosse i primi passi nella
regia con film di genere diverso: il giallo psicologico (L’assassino, 1961), un ritratto individuale
intimista ma tutt’altro che privo di valenze sociopolitiche (I giorni contati, 1962), la commedia
amara (Il maestro di Vigevano, 1963), la fantascienza distopica in chiave brillante (La decima
vittima, 1965). Trovò poi la propria cifra stilistica più personale adattando uno dei più importanti
romanzi di Sciascia, A ciascuno il suo (1967), in cui una descrizione ambientale appassionante
costruisce una puntuale denuncia della vischiosa ragnatela che lega mafia e potere. Il film segnò
l’inizio di due collaborazioni fondamentali, quella con Gian Maria Volonté e quella con lo
sceneggiatore Ugo Pirro, la cui capacità di penetrazione critica nel tessuto sociale risultò da quel
Fu poi nel 1970, con il celeberrimo Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, che
Petri e Pirro raggiunsero i risultati più alti della propria collaborazione. In questo autentico
capolavoro, il rapporto tra l’individuo e le istituzioni del potere viene esaminato tramite le strutture
del thriller, la dimensione psicoanalitica e i toni del grottesco, del ridicolo, dell’iperrealismo. Volonté
Morricone è parimenti essenziale a creare l’atmosfera di vibrante tensione che permea tutto il film.
L’intensità delle opzioni formali per cui opta Petri, il cui stile è autenticamente febbrile in più
d’altronde sembra quasi preveggente, per il modo in cui esplica in maniera chiarissima, ma mai
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didascalica, gli elementi che saranno in gioco nell’Italia degli anni di piombo, col conflitto tra
ribellione studentesca e strutture repressive della società e l’emergere della lotta armata. Il film fu
realizzato prima dell’avvio di quella stagione, prima dell’inizio della strategia della tensione, prima
cioè della strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969. Ma uscendo nelle sale un mese dopo di
quei tragici eventi, rischiò di incorrere nella censura perché sembrava toccare dei nervi davvero
troppo scoperti in quel passaggio assai difficile della Storia nazionale. L’enorme successo di
pubblico che lo accolse condusse invece Petri fino al Gran premio speciale della giuria al Festival
piccolo film militante, Tre ipotesi sulla morte di Giuseppe Pinelli (1970), ricostruzione polemica degli
accadimenti che avevano portato alla morte del ferroviere anarchico Pinelli, precipitato da una
finestra della questura di Milano la notte del 15 dicembre 1969, durante le indagini circa le
invece la Palma d’Oro a Cannes: il film, ancora una volta interpretato dal magnetico Volonté,
mette in scena le drammatiche condizioni psicofisiche cui erano ridotti gli operai industriali
dell’epoca. Adottando nuovamente uno stile carico, espressionista, rabbioso e talvolta surreale,
Petri conferma la natura radicalmente anticonformista del suo lavoro, l’aperto furore contro le
Incisive anche le opere successive: in La proprietà non è più un furto (1973), con Ugo
Tognazzi, lo humor nero si mischia ad una forma di straniamento d’ispirazione brechtiana, cui
commerciale. Petri tornò allora al mondo letterario di Sciascia con Todo modo (1976),
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Tra i suoi ultimi lavori, prima della prematura scomparsa nel 1982, il film per la televisione Le
mani sporche (1977), adattamento da Jean-Paul Sartre, e Le buone notizie (1979), apologo sul
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poliziesco, è già evidente, pur in maniera più indiretta, nell’opera di Rosi, ed emerge con ulteriore
chiarezza nell’opera di Petri. Ci sono poi altri autori che lavorano in modo più esplicito e sistematico
in questa direzione. A parte il caso sparuto di La banda Casaroli (1962), con cui Florestano Vancini
porta sullo schermo le vicende di un gruppo di banditi bolognesi animati anche da rigurgiti
superomistici fascistoidi, è soprattutto Carlo Lizzani, dopo la metà degli anni Sessanta, a realizzare
film che si collochino a cavallo tra le convenzioni del film di genere e il discorso di denuncia
sociopolitica. Veterano da sempre molto impegnato a sinistra, Lizzani dirige Svegliati e uccidi (1966)
e Banditi a Milano (1968), due interessantissime disamine di recenti eventi criminosi realmente
accaduti, realizzate con un sicuro piglio spettacolare che include anche l’utilizzo di inserti
documentari. Non a caso il primo film era già, come i successivi lavori di Petri, sceneggiato da Ugo
Pirro e musicato da Ennio Morricone, mentre il secondo ha tra i protagonisti l’ubiquo Gian Maria
Volonté.
frequentò molti generi diversi (la commedia, l’horror), e con Quien sabe? (1966) diresse uno dei
western all’italiana più esplicitamente declinati nella direzione della denuncia sociale 5. Il nome di
Damiani è però rimasto legato a una serie di interessantissime disamine della società italiana
tramite il filtro del giallo (Il rossetto, 1960; Il sicario, 1961) e poi del thriller: Il giorno della civetta
(1968), adattamento da Sciascia, fu tra i film inaugurali del filone politico, e il regista vi dimostra una
tendenza epica assente nei film degli altri autori, facendo del proprio protagonista Franco Nero un
incorruttibile giustiziere metropolitano. La propensione per un gusto spettacolare non toglie nulla,
d’altronde, alla carica del film, e lo stesso può dirsi per la sua ricca produzione successiva, che
torna spesso ad affrontare la piaga della mafia: da La moglie più bella (1970) a Confessione di un
5
Tra gli altri western all’italiana dalle chiare implicazioni politiche: Faccia a faccia (S. Sollima, 1967) e Requiescant
(1967), del succitato Carlo Lizzani.
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(1975) a Un uomo in ginocchio (1979), da Pizza connection (1985) a Il sole buio (1990). Damiani
troverà enorme successo in ambito televisivo con La piovra, serie ancora di argomento mafioso, di
cui dirige la prima di ben dieci stagioni nel 1984. Ma se l’impeto strettamente politico rischia di
smarrirsi in alcuni di questi lavori più tardivi e più formulaici, importante rimane il contributo di
Damiani alla messa in racconto degli anni di piombo, con un film come Io ho paura (1977), tesa e
assai convincente disamina del terrorismo di destra e di sinistra dalla prospettiva di un uomo
Il momento a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta è viceversa anche il momento in cui
viene a svilupparsi il genere del “poliziottesco”, con film anche rimarchevoli come La polizia
ringrazia (Steno, 1972) e La polizia incrimina la legge assolve (E. G. Castellari, 1973). Col termine
“poliziottesco” si designa una specifica variante del poliziesco, di matrice italiana, che sfrutta le
medesime tensioni che attraversano lo spazio sociale italiano al centro anche del cinema politico,
alle figure di integerrimi commissari di polizia disposti a tutto pur di combattere il dilagare senza
controllo della malavita sul territorio. Questa risposta sintomatica della società alle profonde
tensioni degli anni di piombo rappresenta in un certo senso l’inverso esatto del cinema politico di
cui abbiamo parlato fin ora. Se questo ambiva a mettere sempre in dubbio le strutture del potere,
spettro, glorificando la violenza giustizialista, spesso efferata e di certo oltre i confini della legge, dei
rappresentanti stessi dell’ordine: è soprattutto il caso di Roma violenta (F. Martinelli, 1975) e Napoli
violenta (U. Lenzi, 1976), entrambi incentrati sulla figura del commissario Betti interpretato da
Maurizio Merli, ma anche di Milano odia: la polizia non può sparare (U. Lenzi, 1974)
Alcuni di questi film sono comunque diventati, a ragion veduta, dei cult: in particolare la
produzione di Fernando Di Leo (Milano calibro 9, 1972; La mala ordina, 1972; Il boss, 1973; I padroni
della città, 1976) ha esercitato grande influenza su un cineasta come Quentin Tarantino e ha
dunque lasciato, proprio come il cinema politico, una traccia significativa nella storia del cinema.
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Indice
1 LE ORIGINI E I LIMITI................................................................................................................................. 3
2 IL BENESSERE A PORTATA DI SCHERMO ................................................................................................. 7
3 L’ARTE DEI CREATORI ............................................................................................................................. 10
4 SI CHIUDE IL SIPARIO ............................................................................................................................. 12
BIBLIOGRAFIA ................................................................................................................................................. 14
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1 Le origini e i limiti
Il 3 febbraio 1957 la televisione italiana iniziò a trasmettere la pubblicità, solo all’interno della
trasmissione Carosello. Il successo fu immediato. Gli italiani furono sedotti dall’originale connubio di
Quella sera, alle 20:50, andò in onda il primo spot in assoluto fu quello della Shell in cui
Giovanni Canestrini, giornalista automobilistico e presidente dell’ACI, dava consigli sulla sicurezza
stradale.
Carosello nasce per la pressione delle industrie che nel dopoguerra ripresero a produrre in
grande e volevano un vettore di pubblicità più immediato di quelli in uso, e pure per l’interesse
economico dell’azienda RAI che già dopo tre anni aveva debiti per 2 miliardi.
Nasce perché il pubblico stava crescendo, sia numericamente che da un punto di vista
limitato, in un medium domestico di massa. Quando nasce Carosello la RAI conta 5494 dipendenti,
trasmette 2000 ore di TV l’anno: è già una grande azienda anche se non fa ancora notizia sui
giornali.
Ci vollero però le dimissioni del direttore RAI Gian Battista Vicentini, già presidente
dell’Azione Cattolica e soprattutto dell’Amministratore Delegato Alberto Guala, due cattolici dalle
idee piuttosto restrittive e intransigenti, contrari alla pubblicità in televisione perché già sostenuta
dall’abbonamento. Del resto anche in altri stati come GB, e Scandinavia le leggi non
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Per far dimettere Guala, che era stato messo a capo della neonata Rai per la sua integrità
morale che però alla fine era divenuta un freno per l’azienda, fu posto in pratica quella che passò
come la “congiura dei mutandoni”. Fu quando, saputo per vie traverse che Papa Pio XII avrebbe
guardato la televisione una data sera, un funzionario, poco prima dell'inizio dello spettacolo in
diretta, ordinò alle ballerine di indossare delle calzamaglie di colore chiaro, in modo da farle
apparire praticamente a gambe nude, anche grazie al bianco e nero di bassa definizione
dell'epoca.
Guala cerco di riparare e raccomandò che nelle puntate successive le ballerine si rimettessero le
ballerine di indossare mutandoni chiusi fino alle caviglie. L'indomani tutta la stampa laica sparò
contro la RAI che prendeva ordini dal Vaticano e Guala, messo alla berlina, rassegnò le dimissioni il
I nuovi dirigenti, Antonio Carrelli, presidente, Rodolfo Arata direttore generale e Marcello
Rodinò amministratore delegato, aprirono finalmente l’azienda alla pubblicità. Decisione che
scatenò la dura opposizione della lobby della carta stampata che vedeva nella Televisione una
spietata concorrente.
Il primo Carosello, oltre la Shell, vide le réclame de: L’Oreal, con Mike Bongiorno; Singer con
Mario Carotenuto e Cynar con Carlo Campanini che, nel tempo, sarà sostituito dal mitico Ernesto
Calindri.
La sigla musicale era una tarantella napoletana di Raffaele Gervasio e fu scelta solo la
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poi con località italiane: uno scorcio veneziano, Piazza del Campo a Siena, Borgo S. Lucia a Napoli
Carosello era una ventata di leggerezza nei programmi pesanti di allora: basti oppure al
Fu un traino per la TV che dopo il suo inizio in un solo anno raddoppierà gli abbonati,
C’erano delle regole precise e inderogabili, a partire dalla durata di ogni scenetta che
doveva essere di 2’15”, dei quali 30” precisi di pubblicità vera e propria, il così detto codino, che
andava quasi sempre dopo lo sketch. All’inizio gli spot erano 4 poi nel ’60, divennero 5.
La norma più singolare e assurda era che ogni scenetta doveva andare in onda
tassativamente una sola volta, vincolo piuttosto costoso per le aziende e così i pubblicitari, per
contenere le spese, si ingegnarono a creare personaggi e temi sempre similari. Ne uscirono delle
specie di raccontini a puntate che in molti casi sapevano attirare e condizionare gli spettatori.
Per regola gli spot dovevano essere in bianco e nero e continuarono ad esserlo anche
Erano vietate le pubblicità di biancheria femminile con l’eccezione delle calze di nylon e in
questo campo sono rimaste famose le Gemelle Kessler, che assieme a Don Lurio, ballavano in
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Era vietato anche usare parole troppo esplicite verso il comune senso del pudore. Fra le
pubblicità contestate ci fu quella del Caffè Paulista, della Lavazza, ideato dal grafico Armando
Testa per via delle frasi “non si vede un cactus” e “caballero che pistola”. Ma il divieto di usare
certi termini era imposto a tutta la TV. Non si potevano pronunciare ad esempio parole come
“seno” anche nel modo di dire “in seno a”, vietata anche “incinta” ma usare in dolce attesa,
“parto” ma lieto evento, e tutti quei termini che facevano pensare al peccato esattamente come
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Carosello ebbe un progetto pilota, una sorta di protocarosello, con diversi siparietti realizzati
a Torino, Milano e Roma. Il più famoso è “La pianola magica” del 1955, un cortometraggio di 25
minuti, in cui un giovane Paolo Ferrari suona con una pianola degli intermezzi per alcune scenette
interpretate da alcuni attori i che pubblicizzano prodotti di fantasia. È, di fatto, ciò che sarebbe
L’idea iniziale era di leggere annunci statici come alla radio ma ci si rese conto che le
potenziali visive di coinvolgimento della TV potevano essere sfruttate in maniera migliore e con
maggiori effetti, si pensò quindi a brevi sketch e così nacque Carosello che significa ‘parata’. Il
nome lo diede Marcello Severati, direttore della Sacis, la società che insieme alla SIPRA che
fin lì in uso e, per la sua dinamicità, era più convincente di quella piatta di giornali e radio. Bisogna
ricordare che la società italiana negli anni ’50 era ancora molto legata all’ agricoltura e non
particolarmente istruita, quindi più semplice da condizionare. Infatti in origine la funzione della
pubblicità era quella di presentare i prodotti sul mercato ma ben presto ne suggerì e ne condizionò
gli stili di vita e i sentimenti, fattori questi, comuni però a tutta la TV. Carosello un poco per volta
Non solo. Carosello scandiva la fine della giornata: “A letto dopo Carosello” era un
imperativo categorico, un ordine che non ammetteva deroghe per milioni di bambini tra la fine
degli anni ’50 e la metà degli anni ’70. Sulle note della sigla finale mestamente si andava a
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usanze, come la maniera di fare il caffè, passando dalle vecchie brodaglie autarchiche alla
miscela e ci fu il boom delle caffettiere napoletane e poi della moka che è un’invenzione italiana.
La pubblicità strizzava l’occhio alle donne, ancora legate ad un cliché arcaico, più facili ad
essere attratte e indirizzate verso quel mondo migliore che vedevano negli sketch e che in qualche
modo le gratificava. Seguendo i consigli interessati delle réclame si iniziò così a comprare un
determinato prodotto a scatola chiusa perché l’articolo scelto voleva dire qualità e fiducia.
Ci fu soprattutto un enorme fiorire di prodotti di pulizia e detergenti per la casa, più pratici,
salubrità e bisognava fare la scorta per non rischiare di rimanere senza nei momenti meno adatti.
dei frigoriferi.
Poi fu la volta delle lavatrici perché lavare richiedeva tempo e fatica. Si passò dalle scatole
agli scatoloni poi ai fustini e ai fustoni sempre più convenienti, ricchi di sempre nuovi additivi, e
pazienza se fiumi e laghi si inquineranno riempiendosi di schiume. Fu solo verso la fine dell’epopea
Una fra le pubblicità più cliccate era senz’altro Calimero, pupazzo inventato per la Mira
Lanza dai fratelli Pagot, che poi, caso unico, ebbe una vita sua anche in altri contesti. Su Calimero
c’è un singolare aneddoto connesso a quando i suoi ideatori pensavano di poterlo esportare negli
Stati Uniti ma furono dissuasi dato che, in quella realtà, un pulcino disprezzato da tutti perché è uno
‘sporco nero’ e che diviene buono e fortunato perché diventa ‘bianco’, chissà quali conflitti sociali
avrebbe scatenato.
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Anna Bisogno - Carosello e l’Italia dei consumi
Caso a parte è stato Topo Gigio primo pupazzo animato creato nel ’59 da Maria Perego,
divenuto famoso di suo e che fu chiamato a fare Carosello nel ’60, per la Pavesini. I bambini, ben
presto, con la loro capacità di influenzare i genitori e soprattutto le mamme, divennero il pubblico
privilegiato dai pubblicitari che cominciarono a riempire le loro piccole teste di specifiche e
prodotto.
Un’altra branca che fece tendenza fu quella dei paramedicinali come digestivi, purghe,
analgesici, colliri, bende, fasce elastiche e, soprattutto dentifrici e spazzolini, già da tempo una
mania negli Usa, perché avrebbero fatto risparmiare soldi dal dentista e perché avere i denti di un
bianco spento non era affascinante. Per non dimenticare le cicche da masticare che davano un
alito profumato. Cosmetici e profumi fino ad allora prerogativa di un’élite decadente, divennero
Importanti furono i Caroselli per promuovere i pannolini per neonati, più pratici ed igienici,
poi i cibi per bimbi: farine lattee, omogeneizzati, deglutinati, e merendine che misero in pensione le
merende con i panini imbottiti casalinghi. Subdolamente, tutti i prodotti, prima venivano presentati
come novità indispensabili, poi con capacità sempre superiori di fascino, digeribilità ed eleganza.
Le auto invece erano poco pubblicizzate forse perché il monopolio era molto forte e non
c’era grande bisogno di reclamizzare un prodotto che cresceva in vendite già di forza sua. Si deve
dire però che le macchine apparivano negli spot di molti altri prodotti come pneumatici, oli,
benzine, autoradio, accessori specifici, e soprattutto come immagine di uno status symbol.
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da
copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).
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I Caroselli spesso erano veri e propri piccoli capolavori, delle vere gemme artistiche create
Moltissimi furono gli attori, le attrici e i cantanti che lavorarono in Carosello, dai più famosi
che tutti riconoscevano, a quelli meno conosciuti e non pochi sono i casi di personaggi divenuti
popolari per uno scketch, come Franco Cerri, grande musicista, ma per la massa “l’uomo in
prodotto reclamizzato, ma poteva anche essere un modo per divenire famosi. La più eclatante fu
Virna Lisi divenuta celebre per la pubblicità della Chlorodont, e il passaporto per la notorietà gliela
diede sicuramente quella bocca sensuale spesso in primo piano, con la quale poteva dire quello
che voleva.
Molti erano gli artisti che si legavano per anni allo stesso prodotto cosicché ogni Carosello
diventava una breve puntata di una telenovela e gli attori, che ora la gente vedeva tutti i giorni,
diventavano famigliari, quasi come amici. Alberto Lionello e Lauretta Masiero reclamizzando in
sposarono e si separarono. Erano così famosi insieme che furono chiamati a presentare
Praticamente tutti gli attori famosi dell’epoca hanno fatto Carosello, che era talmente
prestigioso da attirare 'big' stranieri come Frank Sinatra, Jerry Lewis, Jayne Mansfield e molti altri.
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Non lavorarono mai invece la Magnani e Mastroianni la prima perché non lo riteneva
Per i pubblicitari non era tanto importante cosa avveniva nella vicenda, quanto la
ripetitività finale che, come un tormentone, infilava nella testa della gente il nome del prodotto
con un slogan sempre uguale ma accattivante. Le avventure dell’eroe del momento non erano
così importanti, potevano anche essere dimenticate, il nome del prodotto no. E in effetti nella
gente c’era un certo gusto e compiacimento nel ripetete “ullallà è una cuccagna son prodotti
Alemagna” oppure “Ho un debole per l’uomo in Lebole” o ancora “Miguel soy mi”.
Oltre agli slogan tormentone, c’erano le musichette allettanti, come “Voglio la caramella
che mi piace tanto e che fa du du dudu Doufur” fra le più famose, e quella notissima della Colussi:
“Di Gioele amici siam ed insieme a lui cantiam W W gli indiscussi di Perugia Biscolussi”.
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4 Si chiude il sipario
Ai Festival di Cannes-Venezia sulla pubblicità, sorto dal 1954, tutti i paesi si presentavano
con filmati brevi a colori e impeccabili sul piano formale, gli italiani con filmati lunghi, in bianco e
nero divertenti ma solo per i connazionali, perché legati alla realtà nazionale.
Divenne con il tempo un vincolo per il mondo aziendale e insufficiente rispetto alle
cresciute esigenze; la RAI fu costretta a ridurre i tempi delle scenette e ad aggiungere altri spazi
Fu una manna per pubblicitari, disegnatori e soprattutto per il mondo del cinema. Venne calcolato
che nel ’76, l’ultimo anno che fu in programmazione, il 57% della produzione cinematografica
Il 14 aprile 1976 il presidente della Rai, Beniamino Finocchiaro, scrisse una lettera riservata
per informare la Commissione parlamentare di vigilanza di aver preso la decisione di far cessare le
La decisione fu resa nota ai giornali il 20 luglio successivo, e provocò subito una serie di
reazioni negative su tutta la stampa italiana. Il “Corriere della Sera” scisse di “fine prematura”, “La
Stampa” di “persuasori stanchi”, “Il Tempo” di “una lacrima sul video”. Ugo Gregoretti, parlò di
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“grave er- 7 rore”. Poche le voci contrarie tra cui “L’Unità” che prese atto con soddisfazione della
morte di un “modello di pedagogia negativa” e Ferdinando Camon che sul “Il Giorno” concluse
l’articolo commentando: “Carosello scompare: meglio così”. Comunisti e i cattolici, si sa, sono
Carosello era andato in onda 7261 volte con pochissime sospensioni: per il Venerdì santo e il
giorno dei morti, la morte di Papa Pio XII nel ‘58, quella di Papa Giovanni XXIII nel ‘62, l’uccisione di
John Kennedy nel ‘63, e di suo fratello Bob nel ‘68, la strage di Piazza Fontana nel ‘69, e per il primo
uomo sulla luna nel ‘71 perché era una diretta improrogabile. Dopo aver regalato agli italiani quasi
quarantamila pezzi, che qualcuno ha calcolato in oltre 2.500 km di pellicola, dopo aver segnato
indelebilmente i venti anni del più straordinario sviluppo economico, tecnologico, sociale e
L’ultima puntata andò in onda il 1° gennaio 1977 e vide le pubblicità di Bassani Ticino,
Amaro Ramazzotti, Tè Ati, Maglieria Dual Blu e Stock per conto della quale, Raffaella Carrà diede
Carosello fu un fenomeno solamente italiano che non trovò uguali in nessuna emittente del
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Anna Bisogno - TV anni ‘60
Indice
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1 Un quadro d’insieme
Gli anni ’60 sono per il nostro Paese un momento di grande trasformazione politica e sociale
che chiude un’epoca durata quindici anni. Il centrismo è ormai un’esperienza politica che sarà
superata dal centro sinistra con la partecipazione del Partito socialista al governo. Un esperimento
passaggi. Nel luglio del 1960 la Corte Costituzionale aveva sollecitato il governo ad aprire le porte
della RAI “a chi era interessato ad avvalersene per la diffusione del pensiero nei diversi modi del
suo manifestarsi”, ponendo così – di fatto – la questione del pluralismo del servizio pubblico
L’11 ottobre del 1960 venne inaugurata Tribuna Elettorale, condotta dal giornalista Giovanni
Granzotto, in vista delle elezioni amministrative, che nella prima puntata ospitò il Ministro
dell'Interno Mario Scelba. Il programma anticipò il progetto più compiuto, andato in onda il 26
aprile 1961, della Tribuna Politica. Le tribune introdussero nell’offerta televisiva la politica come
format, una vetrina nuova in cui vedere gli uomini politici più da vicino, sentirli rispondere alle
In un Paese che stava uscendo dai limiti di un dopoguerra faticoso, avvicinare gli italiani
alla politica era un dovere sociale, non solo per allentare la tensione ideologica e attenuare lo
che nel mondo cattolico rappresentò la figura innovatrice di Giovanni XXIII che con il Concilio
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In questo scenario così variegato il gruppo dirigente della televisione si dedicò con
intelligenza alla mediazione delle spinte che provenivano dalle diverse forze sociali e politiche del
Paese. L’egemonia sul mezzo televisivo della Democrazia Cristiana si mantenne, con Fanfani che
pilotò alla direzione generale della RAI, nel gennaio del 1961, un suo uomo di fiducia, Ettore
Bernabei.
ricostruzione nella consapevolezza di essere solo un segno delle cose perché la realtà è altro. Di
questa realtà essa fornisce una interpretazione attraverso codici e linguaggi specifici del mezzo,
che rispecchiano i fenomeni ma non li sostituiscono: i romanzi non vengono sostituiti dai
teleromanzi, la politica non è quella che si vede esclusivamente in tv. E’ una televisione con regole
definite come quella di avere orari precisi, ad esempio di notte non andava in onda nessun
programma. La notte del 1967 in cui il pugile Nino Benvenuti disputò la finale mondiale dei pesi
possibile seguire l’incontro solo via radio. Questa regola cadrà in occasione dell’incontro di
calcio Italia-Germania 4 a 3 del 1970. La televisione cerca il suo pubblico ma più che ascoltata
cerca di essere bene accetta, e l’indice di gradimento è uno dei criteri a cui fare riferimento.
Nel 1960 la televisione era già arrivata in 56 paesi: 24 in Europa, fra cui l’Italia, 3 in America
del Nord, 9 in America Centrale, 7 in America del Sud, Prima del 1965, gran parte degli Stati
europei disponeva anche di un secondo canale che in Italia inizierà le trasmissioni regolari il 4
novembre 1961.
La notte del 20 luglio 1969 la televisione dimostra tutta la sua potenza trasmettendo in
diretta lo sbarco di Neil Armstrong sulla luna, i giornali ci arriveranno solo 36 ore dopo. Sono gli anni
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della lunga marcia della televisione per conquistare il primato dell’informazione che aumenta in
particolare:
divulgando le immagini di una società orientata all’ottimismo e alla ricerca del benessere
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2 Pedagogica e popolare
Nel 1958 per la prima volta si decide di organizzare un corso di avviamento professionale
per studenti residenti in località prive di scuole. Nel 1960 nasce Non è mai troppo tardi con l’intento
di rispondere alla funzione educativa del mezzo e di ridurre l’alto tasso di analfabetismo.
Nello stesso anno negli Stati Uniti per la prima volta si affrontano, in quattro successivi
dibattiti televisivi i due candidati alla presidenza: John Kennedy e Richard Nixon. Nixon, esausto per
il faticoso tour elettorale, si presentò con la barba non fatta e il vestito non particolarmente curato.
Kennedy, aitante, rilassato, perfettamente vestito, ebbe il risultato migliore presso il pubblico e
Nel 1961 nasce in Italia il secondo canale. La giornata tv dura quasi 11 ore. Dal 1954 al 1961
la quota di programmazione culturale sale dal 21% al 48,8% (stabile quella informativa: 30%). Col
termine “cultura” s’intende in tv la fiction di tipo teatrale: prosa, lirica, originali tv, racconti e
romanzi sceneggiati (assai pochi i film, i telefilm, i cartoni, anche perché i produttori non vogliono
concedere alla tv i diritti di trasmissione). Molti anche i classici letterari trasmessi: Delitto e castigo,
Orgoglio e pregiudizio, L’idiota, Umiliati e offesi, Piccolo mondo antico. La lirica non è un genere
potuto fare di più. I film sono sempre introdotti da una breve presentazione; i titoli non sono mai
recenti e non sempre di grande interesse. (nel 1959 si ridurranno a 86 titoli in tutto).
Ciò che rende la tv molto popolare è l’intrattenimento. Nelle forme dello spettacolo e nelle
immagini della società emerge chiaro il riferimento al modello culturale americano rielaborato
secondo la sensibilità italiana compatibilmente con le istanze educative e moralistiche mai sopite.
Un varietà di successo Un due tre, trasmesso il 19 gennaio del 1954 e condotto dai comici Ugo
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Tognazzi e Raimondo Vianello; sarà cancellato dal palinsesto per una innocente parodia del
Presidente della Repubblica Gronchi. Tognazzi e Vianello furono estromessi dai programmi della
Rai.
Nel 1961 la trasmissione più seguita resta sempre il tg (70% degli utenti): per il pubblico meno
colto e non orientato politicamente le notizie date dai telegiornali possono apparire come più
attendibili di quelle fornite dai quotidiani, perché questa parte del pubblico percepiva le immagini
come vere. Sul piano politico la gestione della Rai è democristiana; la cultura di tendenza è quella
umanistica; lo slogan principale è: "I partiti hanno i giornali, il governo ha la Rai". Fino al 1960 i
leader dell’opposizione in televisione sono ripresi il meno possibile e non parlano. Gli sport più
Nel 1961, a livello nazionale, il settore economico trainante è quello industriale (38%), poi vi
è il terziario (32%), infine l’agricoltura (30%). I consumi privati tra il 1951 e il 1960 crescono del 65%. Il
La nascita del Secondo Programma Nazionale nel ’61 cambiò la fisionomia dell’offerta
onda, si sviluppano i sistemi di registrazione, per cui il prodotto può essere riproposto,
conservato e venduto;
sul primo canale il punto di riferimento culturale privilegiato era stato il teatro; sul
cerca dei registi per la realizzazione degli spot di Carosello e per sceneggiati televisivi);
sul secondo canale le trasmissioni iniziano e finiscano con mezz’ora di ritardo rispetto al
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Nel 1962, per la prima volta, la tv italiana si può collegare in diretta, via satellite, con
l’America. Nascono anche le coproduzioni con paesi stranieri. Le ore di trasmissione diventano 12
(gli spot 17 minuti al giorno). Fino al 1968 la situazione non cambierà di molto. Gli abbonati sono 8,2
milioni, ma le persone che dichiarano di vedere la tv sono più del doppio. Per la prima volta
Dal 1962 al 1968 lo spettacolo resta fermo al 25%, la cultura scende dal 45% al 36% e
l’informazione sale dal 29% al 39%. I programmi più graditi sono gli sceneggiati, tra questi I Promessi
Sposi (1967, regia di Sandro Bolchi) e La Freccia Nera (1968, regia di Anton Giulio Majano). Il varietà
diventa sempre più raffinato con Studio Uno (1961). Specchio segreto (1964), è la prima candid
camera all’italiana firmata da Nanni Loy. Nel 1968 si cerca di portare il cabaret nel varietà, ma
dopo la performance trasgressiva di Dario Fo vi si rinuncia. Sul piano sportivo fino al 1968 si
trasmette solo in differita, ma con le Olimpiadi del Messico inizia la diretta intercontinentale. Nel
giro d’Italia compaiono per la prima volta le telecamere montate sulle motociclette che seguono
la corsa.
svecchiano culturalmente, ma la Rai migliora solo sul piano tecnico-professionale. Questo limite
della Rai dipende dalla sua posizione monopolista garantita dallo Stato.
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lezione pedagogica certamente, ma anche mediatica, tenuta dal maestro Alberto Manzi che è
stato un grande protagonista della TV italiana degli anni ’60, insegnando a leggere e scrivere agli
italiani ancora analfabeti. Una trasmissione fortunata che consente, narra una leggenda, a più di
un milione di persone l’accesso alla licenza elementare. In realtà i dati effettivi sui risultati della
trasmissione sono scarsi; certo costituiva un’icona rassicurante, per la classe politica e per il
Nelle immagini in bianco e nero si vedono nonnine sdentate capaci di scrivere finalmente il
proprio nome, persone che imparano a leggere un giornale, uomini che prendono in mano un
contratto e lo fanno loro. Alberto Manzi con il gesso carezza una lavagna, coinvolge il pubblico da
casa facendolo sentire uno di quegli alunni presenti lì davanti, nella classe.
Non è mai troppo tardi va in onda il 15 novembre del 1960 come programma di
educazione popolare a cura del Ministero della Pubblica Istruzione e proseguirà fino al 1968. Le
puntate, di mezz’ora ciascuna, vengono trasmesso dal lunedì al venerdì nella fascia preserale sul
Programma Nazionale (dal 1967 sul Secondo Programma). Dopo la sigla dal motivetto leggero
scandita da una danza delle lettere dell’alfabeto, appariva il volto rassicurante e la figura paterna
di Alberto Manzi che insegnava “a leggere, scrivere e far di conto” con una grande capacità
didattica.
Alcuni anni prima, nel 1958, era già stato avviato un progetto pilota, durato fino ‘66,
chiamato Telescuola, che consentiva il completamento del ciclo di istruzione obbligatoria a quegli
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Il suo pubblico era prevalentemente analfabeta. Nelle varie puntate della trasmissione, a
un certo punto, arrivano anche gli allievi e le allieve, molti dei quali adulti e anziani.
Manzi riesce a essere sempre rispettoso, non paternalista nei toni, non supponente nei modi.
Non solo chiama tutti amici, ma usa un linguaggio sempre accessibile senza renderlo esplicito in
modo didascalico.
Infine, Manzi usa un altro elemento di grandissima efficacia comunicativa, anche questo
della realtà quotidiana. Le lettere scritte sulla lavagna diventano così elementi con i quali si decifra
il mondo circostante. Manzi chiede ai suoi allievi di osservarle ovunque, di leggerle e riconoscerle
sui giornali, di guardarsi attorno. Non rimane su un piano teorico, astratto, ma rende
Alberto Manzi lanciò una sfida educativa appassionata ed entusiasmante che diventò
epica, anche nei numeri. Nella prima edizione, si affermò, 35.000 persone avevano ottenuto la
licenza elementare.
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Lorenzo Marmo - Stanley Kubrick
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Lorenzo Marmo - Stanley Kubrick
1. Genio e meticolosità
Stanley Kubrick nacque a New York, in una famiglia di origine ebraica, il 26 luglio 1928. È
unanimemente considerato uno dei più grandi registi della storia del cinema, un autore visionario
la cui opera sfugge ad ogni semplice etichetta. Il suo percorso creativo lo porta infatti ad una
originalità assoluta, frutto non di una superficiale voglia di stupire, ma di un desiderio profondo di
sperimentare. Kubrick fu inventore e innovatore sia dal punto di vista narrativo che stilistico, ed
anche prettamente tecnologico, riuscendo sempre a trovare un punto di equilibrio tra il gusto
avanguardistico e le necessità spettacolari. L’intensità della sua messa in scena, pur scaturendo da
una ricerca personale sulle forme del senso, ha saputo parimenti intercettare i gusti e la fantasia
del pubblico, installandosi saldamente nell’immaginario collettivo della seconda metà del
Novecento.
Oltre che regista, Kubrick è stato talvolta anche direttore della fotografia, montatore,
scenografo e creatore di effetti speciali per i suoi stessi film: un artista completo, noto per il suo
desiderio di controllo maniacale di ogni dettaglio della messa in scena. La precisione del suo
ricerca estetica che colloca il cinema in correlazione con le altre arti. In particolare la pittura
(come sarà evidente soprattutto in Barry Lyndon, 1975, che cita continuamente i quadri del
suo cinema maturo: dalla We’ll Meet Again di Dr. Strangelove alle opere di Strauss e Lygeti di 2001:
A Space Odissey (2001: Odissea nello spazio, 1968), da Singin’ in the Rain in Clockwork Orange
(Arancia meccanica, 1971) alle ballate irlandesi di Barry Lyndon, Kubrick dimostra una capacità di
impiegare con uguale efficacia melodie classiche e canzoni del repertorio pop, intrecciandole a
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Questo approccio è inoltre necessario anche ad una disamina rigorosa, dettagliata e quasi
scientifica della situazione storica e delle atmosfere correlate al materiale narrativo. La gestione
meticolosa dello spazio si accompagna ad una temporalità rallentata, con inquadrature spesso
prolungate, che favorisce una posizione riflessiva e autoriflessiva da parte dello spettatore, senza
per questo che la messa in scena perda alcuna forza. Con Kubrick, si percepisce sempre la
potenzialità che il cinema, anziché essere soltanto un medium per il racconto di una storia o per il
coinvolgimento appassionato dello spettatore, possa essere uno strumento per la creazione di un
mondo intero, e, al tempo stesso, per l’elaborazione di una riflessione e di un pensiero su quel
“Tutta la sua opera, che si è ispirata a cineasti differenti come Charlie Chaplin, Sergej M.
Ejzenštejn e Max Ophuls, prendendo dal primo il senso della comicità, dal secondo
metalinguaggio, può essere letta come una riflessione storico-culturale sul mondo occidentale,
realizzata attraverso storie esasperate e metaforiche nelle quali vengono in luce le contraddizioni
dell'uomo contemporaneo”1.
contrario i risvolti autoritari, aggressivi e violenti. Per farlo, ha preso spesso spunto da romanzi e
racconti di autori anche celebri (Nabokov, Schnitzler, Thackeray), ed ha toccato molti generi
diversi (dal noir al peplum, dal film di guerra all’horror, dalla fantascienza alla satira), apportando
innovazioni significative e durature al loro interno (si pensi a 2001, vero spartiacque nella storia della
fantascienza).
1
Sandro Bernardi, Stanley Kubrick, in “Enciclopedia del Cinema”, Treccani, 2003, disponibile al seguente indirizzo:
http://www.treccani.it/enciclopedia/stanley-kubrick_%28Enciclopedia-del-Cinema%29/
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Lorenzo Marmo - Stanley Kubrick
Cresciuto nel quartiere newyorchese del Bronx, Kubrick si appassionò alla fotografia sin
dall’infanzia: a soli 17 anni vende alla rivista «Look» una sua fotografia, rimasta famosa perché
cattura perfettamente il senso di sconforto che attraversò gli Stati Uniti il giorno della morte del
dalle prime pagine recanti la triste notizia, è sintomatica dell’umore pervasivo del Paese. Il giovane
Kubrick iniziò presto a collaborare in modo più sistematico con la rivista, praticando un genere
fotografico che potremmo definire come Street Photography. Nonostante esso sia caratterizzato,
in teoria, dalla capacità del fotografo di cogliere l’attimo in cui un evento sta avvenendo
spontaneamente e fissarlo sulla pellicola, la rivista «Look» era invece caratterizzata da un accurato
lavoro di preparazione di ogni servizio: la spontaneità dello scatto era perciò solo apparente, e al
contrario l’esempio di questa metodicità influenzerà il giovane fotografo per tutto il resto della sua
carriera.
Per «Look» fotografa anche modelle e divi emergenti (rimangono alcuni splendidi scatti di
Montgomery Clift), ma uno dei suoi servizi di maggior successo è quello dedicato nel 1949 ad
un’intera giornata nella vita del pugile Walter Cartier, in attesa di un incontro di boxe serale. E
questo reportage finirà per rappresentare il trampolino di lancio con cui Kubrick passerà
dall’immagine fissa a quella in movimento. Il servizio viene trasformato infatti anche in un film, il
cortometraggio Day of the Fight (1949), che mostra con ancor maggiore esattezza il rapporto
simbiotico tra Cartier e il suo fratello gemello. Il documentario successivo, finanziato dall’importante
casa di produzione RKO, fu invece Flying Padre (1951): anch’esso seguiva il format dello sguardo
sulla giornata di un personaggio specifico, in questo caso un prete del Nuovo Messico che
entrambi i lavori, alcune scelte stilistiche (l’uso insistito del campo-controcampo in Day of the Fight,
l’inserimento di molti primi piani in Flying Padre) mostrano chiaramente il desiderio di Kubrick di
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cronachistica da cinegiornale in favore di uno stile più narrativo, più complesso ed espressivo.
Kubrick avrà occasione di sperimentare tale stile nel suo primo lungometraggio, Fear and
Desire (Paura e desiderio, 1953). Con questo progetto, risicatissimo quanto al budget ma molto
ambizioso nelle implicazioni filosofiche, Kubrick costruisce il primo dei suoi molti film antimilitaristi,
da un eccessivo autocompiacimento.
Il lavoro successivo, Killer's kiss (Il bacio dell'assassino, 1955) costituisce invece senza meno il
suo primo lavoro autenticamente ispirato. Suggestivo ritratto noir di due solitudini urbane che si
incontrano (protagonisti sono un pugile fallito e una ballerina vessata dal suo datore di lavoro), il
film non punta tanto sulla trama quanto su una rievocazione d’ambiente assolutamente potente.
Kubrick riprende infatti le atmosfere newyorchesi che aveva tanto efficacemente catturato con la
propria macchina fotografica, e si concentra su una New York marginale, filmata con secchezza
eppure fonte di grande fascinazione. La scena finale del film si svolge poi in un magazzino di
manichini, in cui il protagonista lotta col cattivo circondato da una gran quantità di corpi, teste,
braccia e gambe di cartapesta. Il motivo del doppio perturbante del corpo umano si
accompagna poi a quello del doppio perturbante dell’immagine stessa, perché Kubrick decide di
rendere una sequenza onirica del personaggio maschile stampandola in negativo (ed invertendo
Dopo il buon riscontro di questo primo noir, Kubrick ne gira un altro, ma in condizioni
nettamente diverse: The Killing (Rapina a mano armata, 1956) non è più una produzione del tutto
indipendente, ma il primo frutto della società che l’autore aveva fondato insieme a James B.
Harris. Il film sarebbe stato poi distribuito dalla United Artists. Alla New York decadente del film
precedente si sostituisce ora l’assolata – ma parimenti potente – Los Angeles. E The Killing sembra
trarre ispirazione dalla struttura dispersa della città californiana per costruire un gioco narrativo
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copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).
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davvero complesso (la base è un romanzo dell’importante autore noir Jim Thompson, anche
cronologico degli eventi. La maestria con cui è costruito questo meccanismo a orologeria funziona
di fatto come forma di fascinazione a sé stante rispetto alla trama, e così anche questo film come
il precedente raggiunge è dotato di una forte componente autoriflessiva, che ne fa, di fatto, un
“meta-noir”.
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3. La malattia dell’Occidente
Con il film successivo, Paths of Glory (Orizzonti di gloria, 1957), Kubrick si volge nuovamente
verso il genere bellico, che si rivelerà una delle costanti della sua carriera. Il film è una vibrante
denuncia della violenta noncuranza con cui le classi dirigenti europee mandarono a morire quelle
subalterne durante la Prima Guerra Mondiale, e da tale una disamina impietosa della cinica
ipocrisia e del vero e proprio sadismo dei generali francesi emerge un messaggio pacifista
potentissimo. Lo stile contribuisce grandemente all’efficacia della pellicola: dal lungo piano
sequenza con cui Kubrick immerge lo spettatore nello stretto ma interminabile corridoio della
trincea, all’ultima, bellissima, scena, in cui i soldati si dimenticano per un attimo degli orrori cui
hanno assistito e dell’odio che dovrebbero provare per il nemico, per unirsi invece al commovente
canto di una ragazza tedesca (interpretata da Suzanne Christian, poi terza ed ultima moglie del
regista).
Il protagonista di Paths of Glory, Kirk Douglas, era un divo molto affermato e risolutamente
impegnato in cause progressiste: il suo personaggio di colonnello buono è l’unica figura positiva
all’interno delle alte gerarchie militari. È proprio su insistenza di Douglas (anche produttore) che
Kubrick verrà chiamato a dirigere il kolossal di ambientazione romana Spartacus (1960), dopo il
litigio con il regista inizialmente previsto, Anthony Mann. Il film è generalmente considerato uno dei
momenti meno interessanti della carriera dell’autore, proprio per la sua natura di film su
commissione, dunque meno personale, ma con questo lavoro Kubrick si guadagna la fama di
regista serio e affidabile, che gli consentirà in seguito di avere carta bianca per i propri progetti più
idiosincratici e ambiziosi. Inoltre, la maestria con cui sono gestite le scene di massa conferma la
capacità di Kubrick di riflettere tematicamente e visivamente sulla guerra. In questo caso, il regista,
tramite la nota vicenda dello schiavo Spartaco, costruisce un racconto epico sulla necessità della
Le opere successive vedono Kubrick muoversi sempre più risolutamente lungo traiettorie
tutt’affatto personali. Decide infatti di adattare il famoso e assai controverso romanzo di Vladimir
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Nabokov, Lolita (1962), incentrato sul rapporto morboso tra un uomo di mezza età, il professor
Humbert Humbert (James Mason) e la sua figliastra adolescente (Sue Lyon), con cui inizia una
relazione pseudo-incestuosa e dai contorni pedofili. Il film, che è sceneggiato da Nabokov stesso, è
una cruda disamina dell’ipocrisia della classe media americana: mischiando registro satirico,
punte grottesche e dimensione drammatica, il film riflette sull’erotizzazione dilagante nella società
del consumo, ed incorse naturalmente in diversi guai con la censura, pur mancando
Il film successivo sembra esplicitare il legame tra i temi della guerra e del sesso che Kubrick
aveva affrontato nei suoi ultimi film: Dr. Strangelove: or How I Learned to Stop Worrying and Love
the Bomb (Il dottor Stranamore, ovvero: come imparai a non preoccuparmi e ad amare la bomba,
1964) riprende infatti il tema dell’irresponsabilità delle classi dirigenti (non solo militari, ma anche
stesso, tutti i personaggi del film sono animati da una fisicità eccessiva, come a denunciare
l’incapacità di integrare pensiero e corpo nella cultura occidentale: non a caso il generale Ripper
(Sterling Hayden), che impazzisce e si convince che l’unico modo di difendere l’America dai
Sovietici è quello di iniziare per primi un attacco nucleare, asserisce che i nemici si stiano infiltrando
subdolamente nelle menti degli uomini americani tramite l’inquinamento dell’acqua, che provoca
l’infiacchimento dei preziosi fluidi corporei della mascolinità statunitense. Kubrick prende insomma
grottesca, costruendo una parodia delle dinamiche della geopolitica globale ancora oggi
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Con 2001: A Space Odissey, del 1968, Kubrick entra definitivamente nell’empireo dei grandi
Autori della storia del cinema. La sua carriera proseguirà con film diversissimi gli uni dagli altri, sia
per genere che per ambientazione e tematiche, eppure accomunati dalla innegabile forza
registica di Kubrick, dal suo stile visivo che si consolida in direzione di una messa in scena
lavorazione dei film, cosicché passano sempre svariati anni tra un prodotto e l’altro: d’altronde,
ognuno dei film del regista è atteso spasmodicamente e accolto trionfalmente dalla critica e dagli
spettatori. Il regista sceglie nel frattempo di trasferirsi a Londra, dove conduce una vita appartata
ma sempre attentissima agli eventi storico-culturali, così da continuare ad illustrare con grande
2001 è una narrazione fantascientifica che imprime una svolta profondissima a questo
ansie culturali sintomatiche della Guerra Fredda, la fantascienza diviene qui, sull’onda di alcuni
pregevoli esempi letterari (il film è l’adattamento di alcuni racconti di Arthur C. Clarke), lo scenario
per una riflessione assai più consapevole (appassionante ma anche criptica) sul rapporto tra uomo
Dullea è volutamente freddo e distante. Molte sequenze sono passate alla storia: dalle scene
iniziali, con la danza delle scimmie intorno al monolite nero, fino al segmento sperimentale inserito
nella parte finale per descrivere l’arrivo sul pianeta sconosciuto. Il film riesce a conciliare una
spettacolarità mozzafiato (è girato nel formato panoramico 70mm Super-Panavision) con una
ricerca visiva autenticamente sperimentale. Anziché puntare sulla struttura narrativa e sulla
esperienziale, che passa sia attraverso una fotografia strepitosa (è la seconda volta che il regista si
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Lorenzo Marmo - Stanley Kubrick
confronta col colore, dopo Spartacus, ma qui ne fa un uso ben più personale) che l’uso della
musica. E le domande che il film fa emergere in questo modo a proposito del Tempo e dello Spazio
hanno l’autentica portata del pensiero filosofico che si interroga sui fondamenti stessi dell’umanità.
Nel parimenti celeberrimo A Clockwork Orange, del 1971, Kubrick immagina, sulla scorta di
un romanzo di Anthony Burgess, una sconvolgente satira ambientata in futuro prossimo distopico.
Dopo i tempi rallentati e la solennità di 2001, si ritrova qui sia la narrazione ritmata che il tono
caustico della messa in scena che avevano caratterizzato Dr. Strangelove. Al tempo stesso, la
riflessione sulla violenza e sulla frustrazione sessuale che pervadono la società non è mai gratuita.
Nei suoi film Kubrick sfugge sempre, d’altronde, alla tentazione di ergersi a giudice rispetto ai
meccanismi umani rappresentati, esprimendo una morale. Anche in questo caso, l’idea che
l’aggressività sia il vero fondamento dei rapporti interpersonali è espressa con tale pervasività da
non lasciare spazio all’illusione che si possano operare distinzioni durature tra bontà e malvagità.
Anziché al futuro, il progetto successivo, Barry Lyndon, si volge al passato della società
occidentale: tratto da un romanzo di William M. Thackeray, il film esamina una storia di ascesa e
caduta sociale nel Settecento inglese. Nel ricostruire le atmosfere della sua patria d’adozione,
Kubrick raggiunge un’ulteriore vetta della propria creatività. La messa in scena, tanto
sociali (l’arrivismo del protagonista di origini umili, la decadenza dell’aristocrazia superba e ridicola
da cui egli vuole farsi accettare) trabocca di riferimenti al patrimonio della cultura letteraria,
pittorica, musicale, teatrale e storica dell’epoca. Anche in questo film i tempi straordinariamente
lunghi trasformano il film in una serie di tableaux vivants di abbacinante bellezza, e la narrazione è
lasciata alla voce fuori campo di un narratore invisibile, il che contribuisce a collocare lo spettatore
a una distanza siderale dalla scena. Rimasto nella storia del cinema, oltre alla ricchezza
scenografica e alla melanconia della colonna sonora, l’uso della luce: l’utilizzo di un particolare
obiettivo Zeiss Planar (originariamente prodotto per la NASA), consente infatti al regista di indulgere
nella sua precisione maniacale portandola a risultati davvero significanti. Kubrick, infatti, gira tutti
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Lorenzo Marmo - Stanley Kubrick
gli interni notturni alla sola luce delle candele, replicando così con assoluta esattezza l’atmosfera
Assai rimarchevole, da un punto di vista tecnologico, è anche l’utilizzo della steadicam2 nel
lavoro seguente, The Shining (Shining, 1980). Il film, tratto da un romanzo di Stephen King, è un
horror interamente ambientato in un grande albergo isolato durante la bassa stagione: lo abitano
soltanto uno scrittore in crisi (Jack Nicholson), la moglie di lui (Shelley Duvall) e il figlioletto. La
macchina da presa duttile e mobile serve al regista per perlustrare gli inquietantissimi corridoi
dell’hotel, così come il labirinto che si trova nel suo giardino. Questi spazi diventano così i luoghi per
padre di famiglia, impazzito, cerca di uccidere tutta la propria famiglia. Il contesto onirico e
inquietante, la qualità visionaria della messa in scena e l’interpretazione del cast, garantiscono al
film un successo di pubblico, oltre che di critica, contribuendo a cementare la fama di Kubrick.
Con Full Metal Jacket (1987) Kubrick torna un’ultima volta a mettere in scena l’inumanità
assoluta della macchina bellica, descrivendo stavolta il processo di addestramento dei soldati e
poi il loro incontro con l’effettiva realtà della guerra del Vietnam. Il ritratto della violenza dei ranghi
più alti dell’esercito e dell’infantilismo dei marines semplici conduce alla messa in scena allucinata
e allucinante di una realtà esistenziale in cui l’omicidio è cosa quotidiana e parte integrante della
normalità della vita. Lo stile di Kubrick, come sempre freddo e distaccato, serve qui a mostrare la
profonda dualità dell’uomo, sempre diviso tra Bene e Male: non nel senso dell’articolazione di un
dilemma etico insolubile tra diverse spinte dell’interiorità, ma nel senso di una pervasiva
L’ultimo film di Kubrick sarà poi Eyes Wide Shut (1999), riflessione sull’istituzione matrimoniale
interpretato dalla celebre coppia composta da Tom Cruise e Nicole Kidman (che divorzieranno di
lì a poco), e uscito solo dopo la morte del regista, avvenuta il 7 marzo 1999. Ispirandosi alla celebre
novella di inizio Novecento di Arthur Schnitzler, Doppio sogno, ma riambientando la vicenda nella
2
La steadicam è un supporto meccanico su cui si può montare la macchina da presa, e che va poi allacciato al corpo
dell’operatore. Esso garantisce una grande fluidità di ripresa, ma anche un’immagine molto più stabile rispetto a quella
delle consuete riprese con la macchina a mano. Cfr. https://it.wikipedia.org/wiki/Steadicam
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Lorenzo Marmo - Stanley Kubrick
New York contemporanea, il regista torna alla prima fonte d’ispirazione in assoluto per le sue
immagini, la Grande Mela. Questa volta però le strade sono interamente ricostruite presso gli studi
londinesi della Pinewood, e la loro perlustrazione non ha più il sapore di un reportage di Street
Photography, né l’aria melanconica, realista e insieme onirica della metropoli solitaria di Killer’s Kiss.
Manhattan si presenta sempre, ed anzi ancor di più, come uno spazio dal potenziale onirico,
associato all’immaginario della notte come luogo dell’incontro con gli istinti, i desideri e le fantasie
una chiara dicotomia tra interno ed esterno, tra conscio e inconscio. A Kubrick non interessano
tanto, com’era invece per Schnitzler, le pulsioni profonde che si nascondono dietro la facciata
che quelle stesse pulsioni non sono che forme della meschinità e della miseria esistenziale. Ancora
una volta, Kubrick utilizza tutti gli strumenti alti della cultura occidentale, non per costruirne un
monumento idealizzante, ma per analizzare e demolire l’immagine che essa crea di sé stessa.
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Anna Bisogno - La radio nell’età della TV
Indice
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Anna Bisogno - La radio nell’età della TV
1 Continuità e innovazione
In linea con il progetto socializzante attuato dalla televisione, la radio del dopoguerra
programmazione che esprimeva i valori di un Paese in rapida trasformazione. Questa fase si apre
all’insegna di “una radio per tutti”, del bisogno diffuso di evasione, del desiderio di una vita
migliore. La radio contribuirà ad avviare: “quel processo di modernizzazione nel campo dei gusti e
dei consumi di massa, di quella rivoluzione del costume che ha dominato la società di quest’
ultimo cinquantennio” (Isola 1995), che si era aperto con l’arrivo degli americani durante la guerra.
È importante i sottolineare due aspetti della radiofonia italiana: mentre la televisione nasce
il 3 gennaio 1954, la radio italiana compiva il suo trentesimo anno; riparati i danni della guerra agli
impianti tecnici, l’azienda era in buona salute con più di 5 milioni di abbonati, oltre 11mila ore di
La radio del dopoguerra ha saputo esprimere orientamenti sociali diffusi e farsi volano della
industria culturale:
- dispensando premi;
- formando registi, attori, conduttori, cantanti che si sarebbero affermati anche altri
ambiti dello spettacolo. Tra gli esempi più significativi: Federico Fellini, Alberto Sordi,
Con l’avvento della televisione inizia per la radio una perdurante crisi, in cui rapidamente
perde il suo ruolo di strumento principale dell’intrattenimento domestico. La rinascita avverrà dalla
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basso costo; la radio si sposta nelle aree più private dell’abitazione (camera da letto,
Lo sviluppo di una “cultura giovanile” che ha nella musica rock una forte fonte di
la radio italiana riorganizza il palinsesto anche in funzione del nuovo pubblico giovanile e
Vittorio Zivelli conduceva già nel 1953 sul Secondo Programma Il Discobolo da cui
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Cosa può contrapporre la radio alla novità e all’impatto spettacolare della TV? Anzitutto
l’abitudine all’ascolto. Trent’anni di attività alle spalle permettono infatti alla radio di contare su un
pubblico affezionato che apprezza nelle trasmissioni radiofoniche in primo luogo la musica leggera
e programmi di svago generale (che interessano soprattutto casalinghe, operai, agricoltori) e poi
gli aggiornamenti sui fatti del mondo, i temi della politica e della società (che riguardano un
Di fronte all’onda dei grandi cambiamenti introdotti dagli anni Sessanta nell’ambito dei
consumi culturali di massa, in Italia e nel resto dei paesi dell’Europa occidentale, la radio
sperimenta nuove formule, senza per questo perdere la sua cifra distintiva: una radio diversa che si
funzioni mentre ascolta e che ha bisogni diversi, spinge la RAI a caratterizzare i tre programmi per
riunisce i generi ricreativi punta a spettacoli giornalieri di prosa e varietà impaginati da una
Per rimanere al passo con i tempi, la radio avvertì la necessità di descrivere in modo più
diretto l’emergere della cultura giovanile, che andava intrecciandosi sempre di più con i nuovi
movimenti sociali e politici che avevano creato maggiore possibilità e condizioni per consumare
cultura rispetto alle generazioni precedenti. In questo contesto la musica ricoprì un ruolo
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Anna Bisogno - La radio nell’età della TV
anglosassone. Stava nascendo “l’attenzione a una nuova soggettività, a una più pronunciata
autonomia, che rivalutava la coscienza e il ruolo dei singoli e la loro possibile azione” (Monteleone,
1992) e di cui la radio sarebbe diventato spazio e voce in un nuovo patto di comunicazione con il
In conseguenza di ciò:
verificò, quindi, «un cambiamento del ruolo della radio che si trasforma da
protagonista del tempo libero a colonna sonora, ininterrotto rumore di fondo della
giornata che troverà la sua massima diffusione nella filodiffusione e negli apparecchi
espansione.
dischi venduti nel 1958 agli oltre 30 milioni del 1964. La novità tecnologica giunse
comunque dall’estero con la diffusione dei nuovi lettori portatili, più economici e
45 giri.
La svolta per la radio avvenne comunque con la diffusione del transistor: l’apparecchio
accorti che essa poteva seguirci ovunque, che doveva accompagnare, come sostiene Renzo
Arbore, che della radio moderna è stato protagonista e innovatore. Insieme a Gianni
Boncompagni, a partire dalla metà degli anni Sessanta con Bandiera Gialla (Secondo Programma,
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1965), dedicato alle novità della musica internazionale, e poi con Alto gradimento nel 1970, Arbore
aveva iniziato a smontare il modo ingessato di fare radio tipico del servizio pubblico proponendo,
Mentre la radio dimostrava anche in questo grande vitalità, la televisione essere meno
privata, in aperta contrapposizione ai monopoli pubblici vigenti nella maggioranza dei paesi.
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3 Alto Gradimento
A partire dalla metà degli anni Sessanta la RAI lanciò una serie di trasmissioni che sono
entrate nelle abitudini di ascolto per il successo della formula. Tra queste, Chiamate Roma 3131
(che nel 1969 utilizzò per la prima volta il telefono nel rapporto diretto con il pubblico); da Bandiera
La crescente importanza riconosciuta alla musica non pregiudicò però il parlato all’interno
delle trasmissioni che, anzi, diedero l’avvio a un’intelligente operazione di dissacrazione linguistica,
sperimentata per la prima volta proprio da Renzo Arbore e Gianni Boncompagni in Bandiera
Alto Gradimento rappresentò l’apice della crisi che aveva investito fino a quel momento il
sistema radiofonico tradizionale ma anche la risposta più adeguata a una istanza di innovazione.
La prima puntata andò in onda sul Secondo Programma, in diretta, il 7 luglio 1970, dalle 12:30 alle
13:30. Il successo fu immediato con ascolti di 2,4 milioni a puntata e con picchi di 3,5 milioni.
avrebbe costituito la cifra inconfondibile delle radio private), e su una serie di trovate linguistiche
che diventarono subito dei tormentoni nonsense che entrarono subito a far parte del linguaggio
Come ricorda lo stesso Renzo Arbore, il programma nacque per protesta contro le
atmosfere del Sessantotto che avevano politicizzavano un po’ tutto. Erano anni di grandi
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Arbore e Boncompagni erano una fucina inarrestabile di slogan («Patroclo!», «Li pecuri!»), o
il teorema di Pitagora recitato per intero etc.) che si diffusero rapidamente tra i giovani. Come
pure i personaggi interpretati da Mario Marenco (il Colonnello Buttiglione, il Comandante Ray,
Professor Aristogitone) o da Giorgio Bracardi (Max Vinella, Scarpantibus, Patroclo). Nel programma
vennero lanciati anche i cosiddetti stacchetti, siparietti goliardici e sonori lanciati nel corso della
Questo modo di fare radio permise allo spettatore di diventare parte attiva dello
spettacolo: gli fu finalmente concesso, infatti, di far sentire la propria voce ed esprimere
un’opinione, in pubblico, sugli argomenti più disparati anche grazie dell’utilizzo in pianta stabile del
telefono, già introdotto per la prima volta da Chiamate Roma 3131 qualche anno prima (1969).
L’altro elemento innovativo del programma era rappresentato dallo sguardo verso
l’american way che, però, restò tale. Alto Gradimento non rappresentò un momento di
discontinuità del tutto alternativo alla radio istituzionale, quanto piuttosto un tentativo della stessa
di rinnovarsi dal suo interno soprattutto nelle modalità comunicative e dii interazione con il
pubblico.
Il coinvolgimento degli ascoltatori nella realizzazione del programma sarà, infatti, tra le
eredità più grandi che quel modo di fare radio lascerà alle emittenti private. Facendo particolare
riferimento all’esperienza delle radio libere, Franco Monteleone ha osservato come “quella
straordinaria trasmissione diventerà il modello di quasi tutte le radio libere apparse nel corso del
decennio. Senza Alto Gradimento è impossibile capire nella sua totalità il fenomeno dell’emittenza
privata, del suo linguaggio iterativo e afasico, del suo ascolto epidermico e trasversale. Più che
nella televisione, è stato nella radio che la pratica dell’imitazione si è esercitata da parte delle
radio libere, con una singolare mescolanza di competitività invidiosa e di spocchiosa distruttività”.
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Anna Bisogno - La radio nell’età della TV
considerate in modo analogo “di rottura”. Tra queste, si distinse Per voi giovani (1966), ideata – tra
gli altri – da Maurizio Costanzo, dedicata alla musica rock e pop e a tutti i temi di interesse
giovanile alla cui conduzione si alternarono da Arbore a Caterina Caselli, Carlo Massarini, Mario
Luzzatto Fegiz.
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Anna Bisogno - Il cinema del boom economico
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Anna Bisogno - Il cinema del boom economico
Dopo gli anni del Neorealismo, che sono anche quelli più difficili in cui le ferite della guerra
sono ancora aperte, gran parte del pubblico chiede al cinema italiano intrattenimento e svago ed
anche un consumo leggero e rapido, capace tuttavia di mantenere la presa sulla realtà, di
rappresentare storie verosimili e di raccontare in modo ravvicinato gli italiani con la loro voglia di
riscatto e di benessere.
Il cinema italiano degli anni ’60 è intrecciato con i cambiamenti storici che hanno
modificato profondamente il nostro Paese dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Tra questi,
l’esaurimento del centrismo (i governi retti dalla Democrazia cristiana con l’apporto di partiti
maggioranza di governo, distaccandolo in parte dal Partito comunista. Si diffondono nuovi stili di
Piemonte, Liguria) per coinvolgere il Veneto e l’Emilia, la Toscana e le Marche ma anche nuovi poli
al Nord, dalle campagne alle grandi città. Crescono così i consumi di massa, l’agricoltura perde la
sua centralità nel sistema economico e cede addetti all’industria e al terziario. Alla trasformazione
delle preesistenti classi sociali si accompagnano la nuova concezione del tempo libero, mentre
anche la sfera intima, la morale sessuale, i rapporti fa i sessi iniziano a modificarsi, sia pure con
miglioramento diffuso del tenore di vita e un aumento dei consumi, il possesso dell’apparecchio
televisivo e di una automobile diventano i simboli più rappresentativi di questo nuovo benessere
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Anna Bisogno - Il cinema del boom economico
spirito di questo decennio dipingendo i tratti che definiscono i nuovi caratteri degli italiani e
apre, con minore potenza rispetto al Neorealismo, ma con pennellate di ironia e di umorismo, una
sorta di “Nouvelle Vague” italiana, una “nuova ondata” paragonabile quella che si aprì alla fine
degli anni Cinquanta in Francia rinnovando i modelli estetici della parte migliore del suo cinema;
anche se in Italia con diverse forme espressive e minore compattezza. All’epoca non c’è stato, in
Italia, un dibattito e una scuola paragonabili a ciò che sono stati in Francia i Cahiers du Cinema
In questa fase si affacciarono alla regia una schiera di autori, spesso già attivi in altri ruoli nel
mondo del cinema, destinati a diventare un punto di riferimento in Italia come all’estero. Tra il 1960
e il 1964 sono tanti e diversi gli autori esordienti. Tra essi: nel 1960 Mario Bava (La maschera del
demonio), Damiano Damiani (Il rossetto), Luciano Salce (Le pillole di Ercole), Florestano Vancini (La
lunga notte del ’43), Ermanno Olmi (Il tempo si è fermato). Nel 1961 Sergio Leone (Il colosso di
Rodi), Giuliano Montaldo (Tiro al piccione), Pier Paolo Pasolini (Accattone), Elio Petri (L’assassino),
Ugo Tognazzi (Il mantenuto); nel 1962, Ugo Gregoretti (I nuovi angeli), Paolo e Vittorio Taviani (Un
uomo da bruciare). Nel 1963 Tinto Brass (Chi lavora è perduto) e Lina Wertmuller (I basilischi). Nel
Nel passaggio dagli anni’50 ai ’60 si collocano inoltre da pellicole come Poveri ma belli
(1957) di Dino Risi e I soliti ignoti (1958) di Mario Monicelli, con Vittorio Gassman, Marcello
Mastroianni e Renato Salvatori. Gli anni ’60 sono inaugurati da produzioni assai significative come
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Anna Bisogno - Il cinema del boom economico
Nel cinema italiano degli anni ’60 è particolarmente evidente una diversificazione dei
generi che parte da una rivisitazione di quelli classici e tradizionali, con l’obiettivo di rispondere alle
esigenze di un pubblico più vario e urbanizzato, per alcuni aspetti più colto. Così, dalla fine degli
anni ’50 fino alla prima metà degli anni ’70 si assiste ad una ampia diversificazione del cinema di
genere: il western, la commedia, il cinema politico, il thriller-horror, l’erotico, solo per citarne alcuni,
A parte il caso della commedia italiana, che sarà oggetto di una trattazione apposita, lo
Spaghetti western è l’esempio più vasto quantitativamente e più duraturo di film di genere nella
storia del cinema italiano. Il termine nacque negli Stati Uniti per indicare una versione povera dei
grandi western come quelli di John Ford (che sceglieva spesso come protagonista John Wayne) e
Howard Hawks. Lo Spaghetti western nasceva in un contesto storico e culturale molto diverso da
quello in cui erano stati realizzati e prodotti i film del western americano e segnava un
che culmina in gesti brutali con lo scopo di mantenere alta l'attenzione del pubblico, da un uso
retorico della camera da presa che mirava a dilatare il tempo, dai duelli e le uccisioni preceduti
da solenni attacchi di tromba. Una enfatizzazione del machismo e degli stilemi mediterranei
Tra i registi italiani che si sono dedicati a questo genere Damiano Damiani, Sergio Corbucci,
Duccio Tessari. Un caso a parte è quello di Sergio Leone che, dopo gli esordi nel western di
fondazione, realizzerà Per qualche dollaro in più (1965), Il Buono, il brutto, il cattivo (1966), C’era
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copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).
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una volta il West (1968), Giù la testa (1971) e nel 1984 il testamentario C’era una volta in America.
Leone mette in scena eroi molto diversi da quelli classici dei migliori registi americani: quelli di
Leone sono antieroi dalle personalità complesse, astuti e spesso senza scrupoli.
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3 La commedia all’italiana
appieno la realtà del suo tempo attraverso l’ironia e la satira di costume. È un genere che trae le
sue origini dalla multiforme tradizione teatrale italiana (che attinge alla commedia dell’arte), la cui
influenza rimane rilevante sulla tipologia dei personaggi e i loro rituali di comportamento, dagli
intermezzi comici del varietà popolare, da certa commedia borghese del periodo fascista, che
ironizzava lievemente su alcune debolezze del sistema, dalla commedia dialettale italiana, che si
radica a sua volta nella tradizione popolare più che letteraria. La definizione di commedia
all’italiana può forse ricondursi a un film di Pietro Germi del 1961, Divorzio all’italiana, con Marcello
Mastroianni.
molte varianti di oltre quindici anni di commedia cinematografica. Varianti talora molto diverse fra
loro sia per la sensibilità degli autori, che per i temi affrontati.
grottesco, sempre molto coinvolgente per il pubblico, di indagare la realtà del tempo e in
particolare il contrasto fra i mutamenti, spesso dirompenti, e il permanere di arcaismi nei rapporti
sociali e nelle relazioni interpersonali. Per questo la commedia si sceglie un particolare bersaglio, la
borghesia rampante, gioiosa e avida, rumorosa ma inventiva, che declina l’eterna arte di
dell’epoca con i caratteri della commedia dell’arte. C’è un sorriso piuttosto che la ricerca delle
radici dei problemi, o l’indicazione degli eventuali responsabili, che comporterebbe implicazioni
politiche non desiderate. Si enunciano i temi con tocco lieve, e poi ci si allontana da essi per
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passare ad altri: per questo la struttura a episodi, talora brevissimi (ad esempio ne I mostri di Dino
Risi, 1963), si presta particolarmente a questo “mordi e fuggi”, che peraltro sarà il titolo di un’altra
Anticipazioni della commedia all’italiana sono rintracciabili già nei primi anni ’50 in film
come La famiglia Passaguai (regia di Aldo Fabrizi, 1951) e soprattutto con il fortunato Pane, amore
e fantasia (Luigi Comencini,1953) e i suoi sequel, con Vittorio De Sica e Gina Lollobrigida. Tuttavia il
contesto è assai diverso, caratterizzato da condizioni di vita ancora modestissime e, nel caso di
Comencini, addirittura arcaiche: prive di quella corale pulsione verso il benessere che
Non stupisce che il finale sia spesso diverso dall’happy ending; acre, amaro, sospeso. Quasi
che il regista si incaricasse di dirci che i danni prodotti dai comportamenti che ha appena
descritto si faranno sentire più tardi. Tuttavia non si ferma a pensare a quei problemi, corre a fare
un altro film. Gli attori più amati (Sordi, Tognazzi, Gassman, Lollobrigida, Loren…) erano molto
Il fondale su cui si animano le vicende della commedia si dipana fra l’avvento del centro-
sinistra, la morte di Papa Pio XII e l’elezione di Papa Giovanni XXIII, le imprese spaziali, la coesistenza
pacifica alternata alla guerra fredda. Intanto si affermano nuovi mezzi di comunicazione di massa
e nuovi dispositivi (la TV, il mangiadischi [giradischi portatile], il flipper, il juke-box) che aprono la
L’avvento del centrosinistra porterà con sé anche un attenuarsi della censura: i socialisti
punteranno molto sul Ministero dello spettacolo, di recente istituzione. L’allargamento delle maglie
su ciò che era considerato lecito presentare al pubblico, insieme all’autorevolezza e al successo di
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mercato della commedia all’italiana, consolidano il ruolo sociale dei registi e la loro posizione nel
mondo intellettuale dell’epoca. Fra gli esempi Dino Risi, forse l’esponente più significativo della
commedia all’italiana cui si deve Una vita difficile (1961) e Il Sorpasso (1962), Mario Monicelli (I soliti
ignoti, 1960; l’Armata Brancaleone, 1966; Amici miei, 1975); Luigi Comencini (Infanzia, vocazione e
Gli attori che dominano la scena cinematografica del periodo sono Alberto Sordi, Vittorio
Gassman, Ugo Tognazzi e Nino Manfredi, con Marcello Mastroianni spesso impegnato in produzioni
internazionali.
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4 Il sorpasso
Il sorpasso (1962) è la pellicola più nota di Dino Risi, divenuta un simbolo dell’Italia che
cambia e che si rimette in moto e in corsa anche materialmente. Gli anni sono quelli della
Protagonisti di quello che può essere considerato il primo road movie all’italiana sono
Vittorio Gassman, che interpreta il personaggio di Bruno Cortona: un italiano che si arrangia, che
ostenta un livello di vita che non ha, pervaso da un vitalismo che lo conduce da un’avventura
all’altra. Jean-Louis Trintignant è il timido e pensoso studente di legge Roberto Mariani che si trova
quasi per caso nel ruolo di compagno di viaggio sulla Lancia Aurelia B24 di Cortona lche corre da
Roma verso la Versilia, che non raggiungerà mai, lungo la Via Aurelia appena allargata per
diventare una “superstrada”: una compensazione per le città costiere della Toscana escluse
dall’Autostrada del Sole, che il ministro dei lavori pubblici Giuseppe Togni, toscano anche lui, non
poteva ignorare. Nel cast anche Catherine Spaak, che sarà Lilli, la figlia di Bruno.
Proprio a bordo dell’auto, la mattina di Ferragosto del 1962, si snoderà gran parte del film.
Al volante c’è Bruno Cortona alla ricerca di un pacchetto di sigarette e soprattutto qualcuno con
cui trascorrere quel giorno finché, all’improvviso e puro caso, adocchia affacciato alla finestra del
suo appartamento, Roberto. Lo studente si lascerà convincere lasciare i libri a casa e a seguirlo
suo modo un documento storico e sociale prezioso che rappresenta le varie classi dell’Italia
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incarnata dagli zii di Roberto e dal cugino Alfredo che esalta la nuova classe imprenditoriale
dell’uomo che si è fatto da solo. Nel film è presente anche un ampio ventaglio di variegata
umanità che Bruno e Roberto incontrano durante i loro spostamenti. Dino Risi riesce a trovare un
significato o, per meglio dire, i più significati che la via Aurelia assume. Non solo una strada che
collega Roma al confine francese, ma un’idea di evasione, una sorta di vetrina dei nuovi simboli
del benessere e della nuova tendenza ad accumulare, comprare, per poi esibire e così certificare
di non essere più poveri o come prima. Il film infatti passa in rassegna frigoriferi, televisioni, telefoni a
La via Aurelia però è anche la rappresentazione scenica di una nazione che si avvia
velocemente alla fine del sogno, di quel benessere consideratore collettivo, generalizzato,
duraturo. Il salto nel vuoto che alla fine del film compirà la Lancia indica proprio questa disillusione.
Anche la vita spezzata di Roberto e il pericolo scampato di Bruno sono un altro messaggio
simbolico-narrativo che rimanda alle due identità dell’Italia, giunta a un bivio della propria storia.
La prima, quella legata ai princìpi, sarà sedotta e morirà, nella fine di un sogno, lasciando campo
libero alla seconda Italia, quella furbesca, individualista e amorale. “Si chiamava Roberto, il
cognome non lo so, l’ho conosciuto ieri mattina”, dirà Bruno al milite della Stradale accorso sul
luogo dell’incidente.
“Quando tutti hanno finito di comprare tutto, eccoci qui, eccoci nella profonda
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Indice
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Federico Fellini è uno dei grandi maestri del cinema italiano e tra i registi italiani più
apprezzati all’estero per la cifra stilistica dei suoi film e il suo modo originale di concepire l’opera
cinematografica.
Film come La dolce vita, 8½ e Amarcord sono una parte significativa del patrimonio
cinematografico e della identità italiana. Film come Amarcord, I Vitelloni sono diventati modi di
dire, rappresentazioni della realtà entrati nel linguaggio comune. I film di Fellini sono parte
integrante dell’immaginario collettivo (un esempio è la scena del bagno nella fontana di Trevi
di Anita Ekberg ne La dolce vita) e opere cinematografiche uniche in cui il labile confine tra realtà
Dopo aver svolto attività giornalistica e radiofonica, ed aver collaborato come disegnatore
per la rivista satirica Marc’Aurelio, Fellini inizia a collaborare alla sceneggiatura di due capolavori
del cinema neorealista, Roma città aperta (1945) e Paisà (1946), entrambi di Roberto Rossellini.
Negli anni successivi collaborerà, tra gli altri, con Lattuada e Germi.
L’esordio avviene in co-regia con Albero Lattuada ne Luci del varietà (1950), film che
racconta il mondo dell’avanspettacolo, un tema che sarà ricorrente nel cinema felliniano e ne
anticipa motivi stilistici. Il debutto vero e proprio può considerarsi Lo sceicco Bianco (1952), con un
soggetto scritto in collaborazione con Michelangelo Antonioni, in cui Fellini p inaugura, infatti, uno
stile nuovo, umoristico, da alcuni considerato l’espressione di un realismo magico. Con I vitelloni
(1953) Fellini ottiene il primo grande successo di pubblico, raccontando le storie di un gruppo di
amici che rievocano ricordi dell’adolescenza del regista romagnolo; ma è con con La
strada (1954) che Fellini si fa apprezzare da un pubblico internazionale. In questo film, che
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racconta le vicende di due artisti di strada, protagonista è Giulietta Masina, compagna di vita del
Tra i due film prima citati si colloca Il bidone (1955), storia di tre imbroglioni, Augusto, Picasso
e Roberto, specializzati in truffe ai danni di poveri contadini. In questo film che riprende tratti del
cinematografia felliniana.
Attraverso la galleria dei suoi personaggi il regista racconta l’Italia e le contraddizioni del
suo tempo. Un esempio è rappresentato da I Vitelloni, giovani sfaccendati della provincia che
passano la loro giornata nell'ozio, tra bar, gioco, passeggiate, amori inutili e progetti vani, in una
Rimini che ritengono troppo esigua per loro ma che quasi nessuno riuscirà ad abbandonare.
sospensione tra il suo sogno di affermarsi come scrittore impegnato, l’ammirazione per Steiner,
l’intellettuale di successo che però si suiciderà, e l’ambiente giornalistico scandalistico in cui vive.
infantile, egoista fino poi a scontrarsi con le crisi di coscienze tra quello che sono e il dover essere.
- Il buffo, il grottesco, il circo. Sono modalità con cui Fellini si accosta ai paradossi
dolce vita (1960), la discesa agli inferi in Fellini Satirycon (1969) o la sfilata di “moda
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ecclesiastica” in Roma (1972), film in cui Fellini racconta una Roma grottesca, vista
dei suoi film risulta evidente come queste classi sociali siano rappresentate come
nella babele sociale. Le donne si mostrano più forti e resistenti degli uomini e Fellini
le idealizza e le ama.
Fellini ha ricevuto l’Oscar per ben cinque volte: al miglior film straniero nel 1956 con La
strada, nel 1957 con Le notti di Cabiria, nel 1963 con 8½ e nel 1974 con Amarcord. Nel 1993 gli è
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2 La dolce vita
La dolce vita (1960) è il film con cui Fellini abbandona definitivamente gli schemi narrativi
tradizionali e descrive senza remore la decadenza morale di una certa élite sociale tra gli anni ’50
e ’60 in un affresco corale che contraddice lo stesso titolo. La vita in quegli anni gli appare
nei panni di Marcello Rubini giornalista con l’ambizione da scrittore e frequentatore, ma in un ruolo
subalterno, dell’alta società romana; Anita Ekberg, la bionda attrice Sylvia la cui scena nella
fontana di Trevi (“Marcello come here”) fece di lei una icona; Alain Cluny ovvero Steiner, per
Le musiche del film sono composte da Nino Rota che con Fellini aveva un sodalizio artistico
La dolce vita ha una trama complessa (tre ore esatte), fondata sull’intreccio di una serie di
episodi, ognuno dei quali mostra da una diversa angolazione il protagonista e l’ambiente in cui si
muove.
Il film si apre con l’immagine di un Cristo di gesso trasportato in elicottero nel cielo di Roma
(qualcosa del genere era accaduto in un pellegrinaggio delle Acli in Piazza San Pietro) e si chiude
in una spiaggia indeterminata, che potrebbe essere Fregene, davanti al mare, dove i pescatori
hanno portato a riva la carcassa di un pesce mostruoso, morto: forse un riferimento a uno
scandalo dell’epoca: il caso di Wilma Montesi, trovata morta sul litorale, dopo un festino,
anch’esso rievocato nel film. Marcello cerca di scrivere chissà quale articolo o progetto di
sceneggiatura e una giovane adolescente, dagli occhi innocenti, tenta invano di parlargli, perché
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le sue parole non gli arrivano. In mezzo, tanti episodi, a volte tragici a volte grotteschi: i “paparazzi”
(il nome viene dal fotografo che compare nel film) di una via Veneto ricostruita in studio a
Cinecittà, la brulla campagna romana in cui accadono “miracoli”, le orge notturne nelle case al
mare dei nuovi ricchi, i palazzi dell’aristocrazia nera, le serate intellettuali, i locali notturni. Quando
uscì nelle sale il film incontrò un enorme successo di pubblico (citato in Divorzio all'italiana di Pietro
Germi e Nuovo Cinema Paradiso di Giuseppe Tornatore). Le proteste che suscitò in gran parte del
mondo cattolico, con piccole significative eccezioni, sicuramente giovarono alla popolarità del
film che molti spettatori dell’epoca considerarono, senza averlo ancora visto, spregiudicato e
piccante.
Fellini rielabora più volte la sceneggiatura (scritta con Ennio Flaiano, Tullio Pinelli e Brunello
Rondi), che subisce più modifiche in corso d’opera, arricchendola del suo sguardo visionario da
cui poi deriveranno particolari scelte stilistiche, come gli stacchi improvvisi, l’uso della dissolvenza
incrociata nelle scene notturne e l’impiego dei trasparenti, in un bianco e nero che conferisce a
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3 8½
Dopo aver girato Le tentazioni del dott. Antonio, episodio del film collettivo Boccaccio ‘70,
Fellini si prende una pausa pensando al suo successivo film da voler realizzare. L’idea di 8½ (1963)
nasce proprio ispirandosi alla sua vicenda biografica e alle difficoltà di realizzare un nuovo film.
L’intuizione sarà proprio questa: fare un film su un regista che non sa che film fare.
8½ è il grande racconto che il cinema fa di sè stesso, delle sue infinite possibilità, della sua
capacità evocativa. Ma è anche un’opera che racchiude l’esperienza di Fellini, la sua arte, i suoi
dubbi, le sue ossessioni. La controfigura del maestro è lasciata a Marcello Mastroianni nella parte di
Guido, regista famoso ma in crisi di ispirazione, che preso dall’angoscia di non riuscire a realizzare il
proprio film, si rifugia alle terme. Qui viene raggiunto dalla moglie Luisa (Anouk Aimée), ormai
consumata da un matrimonio inesistente, e incontra una serie di donne bellissime tra cui Claudia
(Claudia Cardinale). Il contrappunto musicale del film è affidato, ancora una volta, a Nino Rota.
è ancor più frammentato rispetto ai film precedenti. La logica e l’ordine abdicano in favore del
caos e del sospeso che vengono magnificamente resi da un esercizio artistico e da una maestria
In 8½ Fellini parla di sé stesso e dei suoi pensieri attraverso temi chiave come il rapporto con
la sua infanzia, quello con Dio e la religione, quello con l’universo femminile, il suo mestiere d’arte e
affrontati molti degli elementi che la fondano: ansia, insoddisfazione, turbamenti, ricerca della
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Anna Bisogno - Il cinema di Federico Fellini
Guido, isolato da tutto, è l’emblema di questo vortice dove il solo incontro con Claudia (Claudia
Cardinale) rappresenta un’immagine di speranza che illumina il suo grigiore. Lei appare nel
momento in cui Guido capisce che l’unica possibile soluzione al caos è l’accettazione di ciò che
all’abbandono. Fellini sembra indicare che la ragione serve a poco o a nulla. Essa non può darci
tutte le risposte che cerchiamo né alleviare i dubbi che attanagliano l’esistenza. Trovare più
risposte crea soltanto più domande. Ed è così che nella poetica felliniana la condizione del delirio,
della confusione, della sospensione dei sensi è l’unica in cui l’uomo può essere veramente sé
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Anna Bisogno - Il cinema secondo Pier Paolo Pasolini
confini e dell’identità delle classi sociali, la nuova distribuzione del tempo libero, la maturazione di
una nuova coscienza politica, il mutamento nei comportamenti sessuali e abitudini collettive e la
migrazione di massa dal Sud ai centri industriali del Nord trovano nel cinema un terreno
Nel 1960 il cinema, come un sensibile sismografo, registra la nascita di questi fenomeni e si
assume il compito di rappresentare queste transizioni sociali, culturali e politiche e i relativi strappi
col passato.
Tra i nomi che hanno raccontato questa delicata e travagliata fase del Paese vi sono
Ermanno Olmi, Marco Ferreri, Luchino Visconti, i fratelli Paolo e Vittorio Taviani, Florestano Vancini,
Damiano Damiani, Scola, Liliana Cavani a cui si aggiungono nel corso del decennio Marco
Alcuni tra gli esordienti degli anni Sessanta hanno già fatto parte del mondo del cinema
come sceneggiatori o gli sceneggiatori e gli aiuto registi. Anche Pier Paolo Pasolini ha collaborato
a sceneggiature, non sempre creditato, ed è stato anche attore ne Il gobbo di Carlo Lizzani (1960);
ma è soprattutto uno scrittore e poeta che decide di usare la macchina da presa nello stesso
Pasolini infatti si avvicina al cinema dapprima collaborando con Giorgio Bassani alla
sceneggiatura de La donna del fiume (1955), diretto da Mario Soldati e interpretato da Sofia Loren.
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Anna Bisogno - Il cinema secondo Pier Paolo Pasolini
Un’esperienza determinante per un intellettuale impegnato nella continua ricerca di nuovi modelli
Sulla sua formazione incidono i film di Chaplin, Dreyer, Ejzenstein ma è soprattutto dalla
pittura che deriva la sua folgorazione figurativa, in particolare da Masaccio e Piero della
Francesca.
Nel 1955 Pasolini aveva pubblicato il romanzo Ragazzi di vita, libro-manifesto in cui è chiara
quale Roma lo scrittore sceglie di narrare: non quella del centro e dei monumenti, della borghesia
e del boom economico, che si materializza proprio a metà degli anni Cinquanta, ma quella dei
margini e delle borgate: degli esclusi dalla storia, anche quella narrata dal Partito Comunista
Italiano, che si focalizza sulla classe operaia senza legittimare un mondo di esclusi e di
Il desiderio di narrare Roma, la sua bellezza e il suo sfacelo, la sua gente e il suo pullulare
pervade tutta la sua opera, fino all’anno della sua tragica fine, avvenuta vent’anni dopo, nel 1975.
Tutta la sua opera ha il segno della sfida, della lotta orgogliosa contro un mondo che lo rifiuta.
Quando esce Accattone (1961), che segna il suo esordio da regista, è evidente la
permeabilità tra la pagina e lo schermo. Pasolini sembra non avvertire traumi nella transazione dal
romanzo al cinema. La macchina da presa è per lui un dispositivo di scrittura per immagini e
dialoghi.
Il suo secondo film Mamma Roma (1962) ha come protagonista Anna Magnani che
interpreta una ex prostituta che si è rifatta una vita aprendo un banco di frutta e verdura. I suoi
sogni piccolo-borghesi di riscatto vengono infranti dal ritorno del suo antico protettore (Franco
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Anna Bisogno - Il cinema secondo Pier Paolo Pasolini
diverso è l’impianto stilistico in cui si fa strada in modo prepotente il rapporto di Pasolini con la
madre.
Nel 1963 esce il folgorante film breve La ricotta che fa parte del film a episodi RoGoPaG
(dai nomi dei registi Roberto Rossellini, Jean-Luc Godard, Pier Paolo Pasolini, Ugo Gregoretti). Orson
Welles è un regista marxista disincantato che guida con distacco una troupe cinematografica fin
troppo disinvolta, chiamata a realizzare un film sulla Passione di Cristo. Un film intrinsecamente
religioso, che fu al centro di una grottesca vicenda giudiziaria che dispose il sequestro dell’opera e
per Pasolini una condanna a 4 mesi di reclusione con la condizionale per “vilipendio alla religione
l’espressione più autentica della sua poetica cinematografica e il frutto di una profonda
meditazione. Il film è una nuova espressione dell’ampiezza della sua cultura figurativa, una
esplicita identificazione di sé con la figura del Cristo che come lui lotta per raggiungere una verità
margini, rifiutato, povero. Un elemento, questo, accentuato dagli attori i cui volti rappresentano
con rudezza la sofferenza dei palestinesi e, per contrasto, i farisei appaiono rappresentati come
esponenti della borghesia per rappresentare. Nel film ambientato nell’Italia rurale degli anni
Sessanta (tra l’Alto Lazio, la Campania, la Puglia e la Lucania), Cristo non è rappresentato come
figlio di Dio ma come uomo fra gli uomini, portavoce dei più deboli. Tant’è che Pasolini non
sceglierà per il ruolo di Gesù un attore professionista ma uno studente spagnolo di 19 anni, mente
affiderà, con una trasparente allegoria, il ruolo della Vergine Maria alla propria madre.
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Sono anni in cui la Chiesa Cattolica, col Concilio Vaticano II, grazie all’opera di Papa
Giovanni XXIII, si avvia ad una fase di rinnovamento e di apertura. Proprio al Pontefice Pasolini
dedica Il vangelo secondo Matteo, a lui che nell’enciclica Pacem in terris si rivolgeva a "tutti gli
uomini di buona volontà", e che prendeva atto delle novità dirompenti del mondo moderno (cui
sino ad allora il mondo cattolico era stato estraneo e diffidente): l'ascesa dei popoli del "Terzo
mondo", come allora si diceva, l'importanza delle classi lavoratrici, il nuovo ruolo della donna.
Uccellacci e uccellini (1966) segna il passaggio di Pasolini ad un cinema che lui chiama
della realtà. La ricerca visiva che in questo film è chiara ed evidente, mettendo su un altro piano
ogni forma letteraria, che era particolarmente evidente nelle opere precedenti. Il film, oltre a
costituire un chiaro apologo ideologico, è finemente ironico. A questa vena ironica e surreale
contribuisce la presenza di Totò, che il regista sceglierà anche per La Terra vista dalla
luna (episodio de Le streghe, 1967) e Che cosa sono le nuvole? (in Capriccio all’italiana, 1968).
Pasolini sceglie come coprotagonista, al fianco di Totò, Ninetto Davoli con cui inizia un lungo
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Anna Bisogno - Il cinema secondo Pier Paolo Pasolini
Pier Paolo Pasolini sperimenta in modo del tutto originale quello che lui stesso definirà
cinema di poesia che elabora attraverso le immagini il patrimonio simbolico e culturale di una
Pasolini realizzerà tutto questo, paradossalmente, proprio perché egli si ritiene estraneo al
mondo del cinema e implicitamente sostiene di non conoscerne convenzioni e paradigmi (pur
particolarissimo, che prende le mosse da una matrice neorealista per poi superarla con un modello
artistico nel quale confluiscono raffinate soluzioni linguistiche e specifiche citazioni pittoriche,
specie dagli autori del Rinascimento e del Manierismo italiano (Masaccio e Piero della Francesca,
ma anche Pontormo e Rosso Fiorentino). La novità introdotta da Pasolini è stata, dunque, quella di
aver applicato al cinema la metrica della poesia al posto di quella della prosa fino ad allora
impiegata. A connotare lo stile del suo cinema, da lui definito cinema di poesia, sono l’impiego
della macchina a mano, le riprese in esterni con luce naturale, il ricorso a lunghi piani sequenza, e
soprattutto un utilizzo nuovo delle giunte nel montaggio fondato sulla nozione del ritmema, che
definisce in un ordine più complesso di significati (anche in funzione psicologica) il carattere spazio-
Roma, esempi di un cinema dove poetici non sono i contenuti ma lo stile che rende alta anche
una materia “bassa”, e la eleva ad una dimensione sacrale (si veda, ad esempio, il giovane
di Mamma Roma legato su un letto in prigione, raffigurato come il Cristo morto del Mantegna). Di
cinema di poesia sono intessuti anche i successivi La ricotta e Il vangelo secondo Matteo e la
produzione successiva che si apre a contaminazioni con gli stilemi della “nouvelle vague” e al
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ricorso all’apologo morale con Teorema (1968) e Porcile (1969). Negli anni tra La Ricotta e Medea,
interpretata da Maria Callas, Pasolini dilata al massimo la sua forza visionaria che gioca su tutti i
livelli stilistici, da quelli bassi e comici a quelli elevati della tragedia. Con Edipo Re (1967), cerca di
portare al livello della coscienza il linguaggio dei sogni per dare corpo alle sue ossessioni.
La “trilogia della vita” (Decameron, I racconti di Canterbury e I fiore delle Mille e una notte)
religiosi che ripropone il motivo del rapporto tra il soggetto del racconto e il suo desiderio di
annullamento. L’ultima fase della sua produzione sarà caratterizzata dal “cinema della crudeltà”
Pasolini ha lasciato un cinema poetico-critico fonte di ispirazione per molti autori successivi,
lascito artistico risiede ancora l’attualità della sua opera da regista nelle sue diverse manifestazioni
poetiche.
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3 Politica e utopia
Pasolini è interessato soprattutto interessato a una riflessione generale sul presente, come
infelicemente accoppiato dal produttore un altro montaggio, di tutt’altro segno e ben diverso
valore, di Giovanni Guareschi. Comizi d’amore (1964) è un reportage sui costumi sessuali dell’Italia
che un po’ cambia, un po’ rimane sempre la stessa, realizzato per la Rai che però si guardò bene
dal mandarlo in onda. Uccellacci e uccellini (1966) mette in discussione in chiave satirica i facili
ottimismi suscitati dal boom economico, le piccole e grandi miserie della società e della cultura
italiana del tempo. Gli scenari verso i quali paiono avviarsi le nazioni industrializzate, pronte a
sacrificare ogni idea di sacro in nome del capitale sono adombrati in Teorema (1968)
e Porcile (1969).
été, il documentario dell’antropologo Jean Rouch e del sociologo Edgar Morin che indagano sulla
sincerità della gente comune davanti all’obiettivo, passa in rassegna, attraverso un film d’inchiesta
atipico, l’immagine di vizi, tabù e nevrosi degli italiani attorno alla questione sessuale, intervistando
L’osservazione e la riflessione politica della realtà, oltre che al cinema, è affidata anche alle
sue collaborazioni giornalistiche. In particolare tra il 1973 e il 1975, pubblica sul Corriere della
Sera, Tempo illustrato, Il Mondo, Nuova generazione e Paese Sera articoli nei quali scrive di aborto,
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Pasolini tentava sperimentazioni di vario tipo. Nell’ultimo periodo della sua carriera egli
segue il filo di una sua personale utopia ma propone anche una delle più lucide e appassionate
riflessioni sul mezzo filmico. Egli si interroga a lungo sulle ragioni della propria passione per questa
nuova arte e sui presupposti delle sue scelte stilistiche. In alcuni saggi di straordinaria influenza, egli
riprende le riflessioni dei formalisti russi sulla differenza strutturale fra poeticità e poesia e le fa
interagire con alcuni assunti di Kracauer e Bazin sull’essenza realistica del mezzo audiovisivo.
Per lui il cinema, in quanto artista, è il naturale approdo di una ricerca di autenticità e
strumento per immergersi “nel sordo caos delle cose” ed esprimersi attraverso i corpi e gli oggetti,
allo stesso livello della realtà, ma è anche ricerca nel tentativo di individuare il corrispettivo
cinematografico del verso letterario, trovandolo in una figura stilistica da lui denominata
In due saggi del 1967, intitolati rispettivamente Osservazioni sul piano-sequenza e Essere è
naturale? Pasolini adotta il cinema come elemento privilegiato per porre le basi di una nuova
filosofia profondamente esistenzialista, adatta a cogliere l’essenza del presente, anticipando così
le riflessioni di alcuni dei maggiori filosofi contemporanei, primo fra tutti Gilles Deleuze.
Pasolini morì tragicamente nella notte tra l’1 e il 2 novembre del 1975, all’Idroscalo di Ostia
travolto dalla sua stessa auto, guidata dal “ragazzo di vita” Pino Pelosi, che lo uccise.
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Anna Bisogno - La radio che ascolta
Indice
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Parlare della radio e della radiofonia in Italia negli anni ’70 significa parlare di un medium
che ha affrontato una lunga crisi quando non è stato più lo strumento principale
dell’intrattenimento domestico, scalzato dalla tv. Adesso, superata la crisi, vive una nuova florida
stagione. L’introduzione del transistor, a partire dagli anni ’60, trasforma l’apparecchio radio in un
oggetto tascabile, mobile e a basso costo. La radio si sposta nelle aree più private dell’abitazione,
nei luoghi di lavoro e del tempo libero, mentre per la prima volta nell’età moderna assistiamo della
identificazione è nella musica rock, diffusa dagli Usa in Europa. La radio italiana riorganizza il
palinsesto anche in funzione del nuovo pubblico giovanile e introduce programmi musicali e di
Intanto il Paese sta entrando negli “anni di piombo” e della “strategia della tensione”: una
espressione coniata dal settimanale inglese The Observer, all’indomani dell’attentato di piazza
Fontana. Il 12 dicembre 1969, infatti, una bomba devasterà il salone della Banca nazionale
incerta; il sistema dell’informazione sarà messo a dura prova, e i media si dividono fra i tra i fautori
della pista anarchica, che all’inizio sembra prevalere, e quelli che accusano il terrorismo di destra,
Si avvicinano le prime elezioni per la formazione dei consigli regionali a statuto ordinario (7-8
giugno 1970); il Parlamento approva nel maggio 1970 lo Statuto dei lavoratori; compaiono i primi
volantini delle Brigate Rosse. La benzina super costa 160 lire al litro; lo stipendio mensile di un
operaio della FIAT supera di poco le 100.000 lire; il giornale quotidiano costa 70 lire, spedire una
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Al cinema nel 1970 c’è Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto diretto da Elio
Petri, interpretato da Gian Maria Volonté e Florinda Bolkan, L’uccello dalle piume di cristallo di
Dario Argento, Il Conformista di Bernardo Bertolucci e Lo chiamavano Trinità con Bud Spencer e
Terence Hill. La TV manda in onda Rischiatutto (5 febbraio 1970), condotto da Mike Bongiorno. I
primi tentativi di televisione privata anche attraverso la TV via cavo (CATV, Community Access
Television) avviano timidamente - tra limiti legislativi e difficoltà tecniche e finanziarie – il processo
dimensione sociale che incalza, realizzando una revisione del suo assetto strutturale e della sua
impostazione culturale. Con l’avvento del transistor prima e grazie al completamento dell’intera
rete telefonica in teleselezione poi, la radio nell’era dell’opulenza televisiva si era trasformata in
una voce amica e compagna di ascolto. Mentre la televisione consolida l’idea di palinsesto come
sintesi strategica e organizzativa tra domanda e offerta, la radio insegue i suoi nuovi ascoltatori,
La radio realizzò uno significativo compromesso tra la rigidità della struttura tecnica, che la
collocava ancora tra i media unidirezionali, e una nuova dimensione più personalizzata,
individuale, e dunque tendenzialmente più democratica. Per mezzo del telefono la radio si dota di
un canale di ritorno, dialoga con gli ascoltatori, inverte la direzione del messaggio, crea una
geografia del vissuto intrisa di casi personali, confessioni intime, appelli, momenti leggeri. In quegli
anni, il rapporto che si stabilì tra la radio e il pubblico fu basato essenzialmente su una
più rapida e la musica acquisì maggiore spazio e importanza all’interno dei palinsesti. Si verificò
quindi un cambiamento del ruolo del mezzo, che da protagonista del tempo libero si trasforma in
colonna sonora, rumore di fondo della giornata, amplificato dalla filodiffusione e dagli apparecchi
portatili.
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Nel 1966 il direttore dei programmi radiofonici Rai, Leone Piccioni, diede vita ad una riforma
della radiofonia pubblica che rappresenta un vero e proprio rinnovamento di modelli, di formati,
palinsesti e programmi. Furono ideate e prodotte trasmissioni destinate a creare nuove abitudini di
ascolto presso un pubblico che oramai era televisivo, che distingueva i diversi generi ma era
disposto a rinnovare il suo rapporto con la radio, se essa dimostrava di aver superato gli schemi più
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Vari programmi della radio sono degni di nota non solo per il successo che ebbero al
momento, ma anche perché antesignani di vari generi radiofonici ancora oggi in uso. Da Bandiera
gialla (1965) a Per voi giovani e Gran Varietà (1966), a Hit parade e Il Gambero di Enzo Tortora
(1967) iniziò un’intelligente operazione di dissacrazione linguistica, sperimentata per la prima volta
proprio da Renzo Arbore e Gianni Boncompagni e portata al definitivo compimento dagli stessi
nacque Chiamate Roma 3131. Il 7 gennaio 1969 alle 10.40, in uno studio di via Asiago in Roma,
Federica Taddei, Gianni Boncompagni e Franco Moccagatta annunciavano dai microfoni del
Secondo Programma l'inizio di una nuova era radiofonica, quella in cui grazie al telefono
l'ascoltatore assumeva un ruolo attivo. Chiamate Roma 3131 infatti rappresentò un termometro
significativo dei cambiamenti nel costume degli italiani: con il telefono la radio sembrava
acquistare la possibilità di un feedback in tempo reale. Ogni giorno per tre ore i conduttori
avevano il compito di affrontare le richieste più disparate che inizialmente riguardavano pareri di
tipo medico-scientifico e, in una seconda fase, prevedevano racconti, storie, confessioni a voce
Per la prima volta la radio sembrava diventare una voce amica, uno strumento culturale e
di comunicazione presso la quale cercare conforto; certo non la soluzione ai propri problemi, ma
un punto di riferimento rassicurante. I dati parlavano di una notevole risposta del pubblico: una
media di tre milioni di ascoltatori e 500 chiamate al giorno, anche perché il telefono durante gli
anni Sessanta era arrivato anche agli quegli strati sociali che prima ne erano esclusi. La possibilità di
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telefonate che dimostravano la capacità nativa della radio di stabilire un ponte tra sfera pubblica
e sfera intima. Il pubblico la sente vicina, come se parlasse solo a ciascuno, anche se in ascolto
sono in tanti. Così radio e telefono, da sempre separati, realizzano una innovativa esperienza di
convergenza mediale; quando si incontra con le telefonate in diretta, la lingua della radio muta e
ne cambia l’anima. Già l’aveva notato Bertolt Brecht proiettando sulla radio le sue tesi sul teatro
didattico: “Potrebbe essere per la vita pubblica il più grandioso mezzo di comunicazione che si
possa immaginare, uno straordinario sistema di canali, cioè potrebbe esserlo se fosse in grado non
solo di trasmettere ma anche di ricevere, non solo di far sentire qualcosa all’ ascoltatore ma anche
di farlo parlare, non di isolarlo ma di metterlo in relazione con gli altri. La radio dovrebbe
Con Chiamate Roma 3131 le persone comuni iniziano a parlare in radio, attraverso le
telefonate che vengono filtrate dalla redazione: si chiede all’ ascoltatore cosa intende dire, poi lo
Dietro i tre conduttori c'era una squadra di esperti: psicologi, sociologi, medici, avvocati,
architetti, scrittori e personalità varie, compresi i personaggi dello spettacolo. Gianni Boncompagni
scelse come sigla un brano fusion abbastanza sconosciuto del 1967, Alligator bogaloo eseguito da
Lou Donaldson e la sua band (nella quale spiccava, tra gli altri, un giovane George Benson alla
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ricorrenza di alcuni temi: la moglie che si lamenta del marito, il marito della moglie, del traffico e
del lavoro, la vecchina della solitudine, i figli dei genitori, le casalinghe dei prezzi degli alimenti e
detersivi oppure della difficoltà di un figlio down, o con particolari disabilità intellettive o
malformazioni.
responsabilità di confronti telefonici con i diretti interessati. Il primo ciclo di Chiamate Roma 3131
Dal 1972 al 1975 la conduzione fu affidata a Luca Liguori e Paolo Cavallina, con la messa in
onda del programma spostata al pomeriggio, dalle 17:30 alle 19:30. Ciò permetteva al
programma, che nelle precedenti edizioni aveva un pubblico quasi esclusivamente femminile e
casalingo, di essere ascoltato da una fascia più larga di utenti, che lavorano nelle fabbriche e
negli uffici, o quelli che insegnano e studiano. Inoltre nella stessa fascia oraria che era stata di
Chiamate Roma 3131 prese il via una nuova trasmissione condotta da Guglielmo Zucconi e
Maurizio Costanzo, Dalla vostra parte, con gli ascoltatori che potevano intervenire chiamando
proprio il numero 3131. Tutto ciò suscitò numerose e legittime polemiche. Si viaggia anche per
l'Italia per seguire da vicino i problemi locali. Fra le novità anche una serie di trasferimenti come
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Sono le ultime battute di questo ciclo. Il programma sembra aver fatto il suo tempo:
mutamenti interni all'azienda e nella società impongono cambiamenti e nella primavera del 1975
viene resa operativa la legge di riforma della Rai che stabilisce principi e normative in materia di
Nel giugno dello stesso anno Chiamate Roma 3131 viene sospesa sine die e non per motivi
di basso ascolto. In effetti qualcosa era cambiato rispetto alle prime edizioni, ad un certo punto si
era scesi nel patetico, nella lacrima troppo facile, con telefonate di radioascoltatori che si
sfogavano. Questo tipo di trasmissione fu oggetto della parodia di Giorgio Gaber e di Ombretta
Colli con il brano musicale Papà Radio (1970) nel quale la Colli interpretava varie donne che
Antonia mi sente? Signora, la sento avvilita, signora stia su con la vita, è sempre azzurro il cielo è
sempre in fiore il melo.” I molteplici transiti su altri media, tv compresa, insieme agli ottimi ascolti
Il successivo arrivo delle radio private, tutte basate su telefonate in diretta e dediche, farà il
resto. Da questo momento il programma cambia più volte pelle: dal 1976 al 1979 il 3131 si orienta
problemi della donna nella realtà di quel periodo. Nasce così Sala F. Nel 1979 va in onda Radiodue
3131 con due edizioni giornaliere: una mattutina (9:30 -11,30) e l'altra pomeridiana (15:00 – 16:30)
con la formula del rotocalco, in cui la soluzione al problema è spesso affidata all’improvvisazione.
rete. Non si trattò soltanto di un nuovo capitolo del 3131, ma di una svolta del programma, che si
avvalse anche dell'ausilio dello Studio Mobile, un pulmino attrezzato in grado di trasmettere da
ogni luogo d’Italia. La radio si fa così in ogni luogo, e l’ascoltatore può intervenire anche dalle
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piazze con Gianluca Nicoletti “microfono viaggiante”. In questa fase nasce anche l'edizione della
sera Radiodue 3131 notte, uno spazio nel quale le telefonate col pubblico richiesero un approccio
diverso. Il dialogo acquistò maggiore intensità comunicativa, favorita dall’ora tarda, più vicina ai
toni sommessi della confidenza e del racconto personale. Non più una variazione del 3131 del
mattino, ma una trasmissione autonoma, con l’obiettivo era quello di ricuperare il privato, riscoprire
sensibilità e sentimenti; di ritrovare un linguaggio depurato da retorica e ipocrisia, che non chiede
Infine, dal 1995 al 2001 gli esperimenti con Radio Zorro 3131 (condotto da Oliviero
Beha), 3131 Fatti e Sentimenti, 3131 Chat, 3131 Costume e Società (con Pierluigi Diaco) e Chiamate
Torino 3131. Ma la radio pubblica detiene ormai una quota minoritaria dell’ascolt0.
Con Chiamate Roma 3131 la radio negli anni ’70 confermò la sua grande vitalità. Grazie
alla sua privatezza e personalità è diventata un oggetto d’uso quotidiano, che è anche la
proiezione di simboli e stati d’animo relazionali. Sentire la radio non è più una necessità, ma una
scelta precisa fra molteplici offerte informative e di intrattenimento; uno spazio al confine tra
pubblico e privato.
La radio si conferma una efficace interfaccia comunicativa tra sfera pubblica e sfera
privata, personale e mobile, all’interno di una dotazione mediale ormai molto raffinata e ampia.
L’ibridazione avanzata fra radio e telefono prima, e tra radio e Internet poi, non è soltanto
dovuta ad affinità tecnica, ma all’antico bisogno umano di voler dire qualcosa – anche se non si
ha sempre qualcosa di preciso da dire – e di essere connessi a qualcun altro. La radio riconfigura i
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1 Il rinascimento cinematografico
Alla fine degli anni Sessanta il panorama complessivo dell’industria del cinema americano
muta fortemente rispetto all’epoca d’oro dello studio system. Le grandi case cinematografiche
piccole compagnie, spesso legate al nome di un attore o di un regista. Allo stesso modo si è
sempre avuto come referente principale la famiglia. Ora, invece, gli spettatori sono
Già negli anni Cinquanta il cinema americano aveva cercato il rapporto con questo nuovo
pubblico, realizzando prodotti ad hoc in relazione con le tendenze giovanili del momento (ad
esempio la fortunata serie di film con Elvis Presley). Il processo si intensifica nel decennio successivo,
provocando l’abbandono del Codice Hays (il cosiddetto Production Code, dal nome del suo
estensore, che dagli anni ’30 agli anni ’60 ha rappresentato le linee guida per il rispetto della
morale nei film, in pratica il più rigido sistema di autocensura che Hollywood abbia mai avuto) il cui
puritanesimo non si conciliava più con i gusti della generazione degli anni Sessanta.
Questo profondo cambiamento del cinema statunitense deve essere anche correlato alla
progressiva riduzione del pubblico nelle sale cinematografiche, parallela alla diffusione della
televisione particolarmente nella forma preferita dalla classe media, la pay tv in abbonamento via
Film a basso costo, ricambio generazionale degli spettatori, una nuova leva di registi usciti
quasi tutti dall’Università e un riorientamento dei generi (horror e fantascienza) e delle storie
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connesse ai fenomeni giovanile del momento (ad esempio, il rock and roll) furono le traiettorie con
Tra il 1967 e il 1969 escono tre film che riscuotono grande attenzione e vengono subito
considerati altrettanti “manifesti” di una nuova generazione: Il laureato (The graduate, 1967) di
Mike Nichols, Gangster Story (Bonnie and Clyde, 1967) di Arthur Penn, Easy Rider (1969) di Dennis
Hopper. In questi tre film è possibile reperire molte delle caratteristiche di fondo della New
Hollywood. Sia Nichols che Penn e Hopper raccontano storie connesse in qualche modo al clima
quale dopo il conseguimento della laurea non sa bene cosa fare nella vita. Inizia una relazione
nevrotica con una donna più anziana di lui, ma poi finirà per innamorarsi della figlia. Il film colpì il
pubblico soprattutto per la franchezza con cui tratta i temi connessi alla sfera sessuale e per la
scelta di una colonna sonora, di Simon & Garfunkel, vicina alle controculture musicali dell'epoca.
Gangster Story rilegge la vicenda di Bonnie e Clyde, leggendari banditi degli anni Trenta,
alla luce dei nuovi fermenti che pervadono l’Americana contemporanea: i due rapinatori di
banche durante la Grande Depressione diventano giovani ribelli in lotta e contrapposizione con
Un’attenzione particolare merita Easy rider che racconta il viaggio di due hippies (Dennis
Hopper e Peter Fonda) da Los Angeles alla Louisiana a bordo delle loro motociclette modificate,
con la forcella anteriore allungata – i “chopper” – in cui il motociclista non ha bisogno di curvarsi
sul manubrio ma procede in posizione eretta. I due, legati al traffico delle droghe di cui sono
naturalmente anche consumatori, dopo molte avventure finiranno uccisi, presi a fucilate sparate
da un camioncino di agricoltori razzisti del profondo Sud. La rottura stilistica è qui assai più forte
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rispetto a Il Laureato e Gangster Story. Il successo di Easy Rider fu la prova provata dell'esistenza di
Riprese esterne, pellicola fotografica bruciata, budget risicato, attori giovani e poco noti o
sconosciuti (Jack Nicholson), distribuzione fuori dai normali circuiti fanno di Easy Rider il film che
segnala un superamento delle regole formali, narrative e ideologiche tipiche del cinema classico.
Le figure che puntellano le sceneggiature dei film della New Hollywood sono dotate di una
propensione all’azione (che spesso ha esiti autodistruttivi, sia in Gangster Story che in Easy Rider),
che i film europei non hanno in egual misura. Dustin Hoffman ne Il laureato, dopo un periodo di
accidia e di ozio poi prende la decisione forte di scappare con la ragazza che ama, portandola
una prospettiva ideologica che si confronta le istanze radicali della società americana. I film di
questa fase si comprendono se correlati ai movimenti che attraversano l’America tra la fine dei ‘60
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2 Nuove generazioni
Se da un lato il cinema della New Hollywood si allineò al carattere contestativo del suo
pubblico (ad esempio, Fragole e sangue di Stuart Hagmann del 1970), dall’altro lato esso rivisitava
in chiave politica alcuni generi di grande popolarità. Su tutti, il genere western. In questo ambito, la
figura di spicco è quella di Sam Peckinpah che attraverso Il Mucchio Selvaggio (The Wild Bunch,
1969), rappresenta in modo molto crudo e violento il processo di civilizzazione del west, l’epopea
Anche altri autori della New Hollywood frequentarono questo genere. Film come Piccolo
grande uomo (Little big man, 1970) di Arthur Penn, Doc di Frank Perry (1971), Corvo Rosso non avrai
il mio scalpo (Jeremiah Johnson, 1972) di Sidney Pollack, Buffalo Bill e gli indiani (Buffalo Bill and the
Indians or Sitting Bull’s History Lesson, 1976) di Robert Altman ribaltano l'impostazione retorica che
aveva fino ad allora presieduto alla descrizione dei pellerossa e delle guerre indiane.
L’ultimo grande western della New Hollywood è I cancelli del cielo (Heaven’s Gate, 1980) di
Michael Cimino. Un western grandioso e particolare, dove il conflitto per la colonizzazione del
territorio non è con gli indiani, ma con gli immigrati europei: siamo nel 1870. Maltrattato dalla
film incompreso. Michael Cimino aveva realizzato due anni prima il complesso, contestato e
bellissimo Il cacciatore (The deer Hunter, 1978) dedicato alla guerra del Vietnam e premiato con
cinque Oscar.
Maturava intanto una nuova generazione. Francis Ford Coppola, John Milius, Monte
Hellman, Peter Bogdanovich, George Lucas, Steven Spielberg, furono solo alcuni di quelli che
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Coppola, dopo lo strepitoso successo de Il Padrino (The Godfather, 1972) e Il Padrino parte
II (The Godfather Part II, 1974), si pone l’ambizioso obiettivo di essere un regista produttore che non
realizza soltanto i propri film sostiene anche il lavoro di altri cineasti come George Lucas e Wim
Apocalypse Now (1979), probabilmente il miglior film che ha affrontato il tema della guerra del
Vietnam, rielaborandolo alla luce della grande letteratura. Il film è ispirato al romanzo Cuore di
All’opposto del gruppo di registi cosiddetto “californiano” figurano Woody Allen e Martin
Scorsese, autori newyorkesi per eccellenza con un retaggio del tutto diverso e una visione della
primo si consacrerà nella New Hollywood con Io e Annie (Annie Hall, 1977), con protagonista Diane
Keaton, che gli varrà quattro Premi Oscar, il secondo con Taxi Driver (1976) interpretato da Robert
De Niro che ebbe una candidatura agli Oscar per il miglior attore protagonista.
estrazione televisiva. Da John Frankenheimer a Sydney Pollack, da Elliot Silverstein agli stessi Sam
Peckinpah e Robert Altman, che si erano formati dirigendo fiction per il piccolo schermo, arrivò
una ventata nuova sulla scena cinematografica: non tanto dal punto di vista formale, quanto in
relazione all'economia delle riprese, al ritmo di lavoro veloce a cui la televisione li aveva abituati.
Dal punto di vista finanziario un regista con esperienze televisive rappresentava una opportunità
per i produttori hollywoodiani poiché il loro background costituiva una garanzia di efficienza
organizzativa e dunque lasciava sperare in un rispetto del budget; previsione peraltro non sempre
risultata esatta.
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da
copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).
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3 La rivoluzione digitale
L’introduzione delle tecnologie digitali nel cinema aprì una ulteriore nuova fase nella New
Hollywood di cui George Lucas, uno dei giovani autori, rappresentò l’esponente più importante.
Guerre Stellari (Star Wars, 1977) sarebbe stato non soltanto il suo grande successo personale ma
Nel 1975 Lucas presentò alla 20th Century Fox il progetto per un film di fantascienza, Star
Wars appunto, che in prima battuta i dirigenti della major non accolsero con grande entusiasmo
per le complessità realizzative che un soggetto così visionario presentava. Lucas alla fine la spuntò,
La difficoltà vera del regista era l’inesistenza di supporti tecnologici capaci di realizzare il
film esattamente come lo aveva immaginato in una fase nella quale i grandi studios avevano
rinunciato alle sezioni dedicate ai trucchi cinematografici. Così decise di chiedere a Douglas
Trumbull, tra i più importanti realizzatori di effetti speciali del cinema americano, attivo in alcuni dei
più importanti film del genere come 2001 Odissea nello spazio (1968), Incontri ravvicinati del terzo
tipo (1977), Start Trek (1979), Blade Runner (1982). Trumbull dirottò Lucas sul suo giovane assistente,
John Dykstra che, insieme ad un gruppo di ingegneri ed informatici, sperimentò l’interfaccia che
stesso movimento di macchina per un numero imprecisato di volte con assoluta precisione. Così
facendo, generava l’illusione del volo spaziale attraverso il controllo computerizzato dei movimenti
della macchina da presa. Il Computer Motion Control può essere considerato il primo effetto
speciale digitale.
Da quel gruppo di ricercatori nacque, su iniziativa di Lucas, la Industrial Light & Magic (ILM),
società specializzata in effetti speciali, sussidiaria della Lucasfilm, che divenne il laboratorio
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privilegiato dei film fantascientifici che proprio Lucas, con Steven Spielberg, aveva contribuito a
lanciare e sviluppare.
Star Wars (Guerre Stellari) venne distribuito nelle sale a partire dal 25 maggio 1977 ed è il
primo film della fortunata saga cinematografica fantascientifica di Guerre stellari ideata da Lucas
articolata in tre trilogie che condividono solo parzialmente i propri protagonisti (nel cast spiccano
L’ambientazione è quella di una galassia immaginaria (“Tanto tempo fa, in una galassia
lontana lontana…”) dove va in scena l’eterna lotta tra il bene e il male, in cui si contrappongono
gli schieramenti dei Jedi e dei Sith in cui gli esseri umani interagiscono con robot, droidi e specie
aliene. La saga narra le avventure dello Jedi Luke Skywalker e del suo maestro Obi-Wan Kenobi,
impegnati nella lotta contro il Lato Oscuro della Forza a fianco dell'Alleanza Ribelle, guidata
La prima saga (The Skywalker saga), la trilogia originale distribuita dal 1977 al 1983, è
composta da Una nuova speranza, L'Impero colpisce ancora e Il ritorno dello Jedi; la seconda, è
dei cloni, La vendetta dei Sith; l’ultima trilogia, che è invece un sequel, è costituita da Il risveglio
della forza, Gli ultimi Jedi, L’ascesa di Skywalker. Star Wars è il film dal maggior incasso nella storia
del cinema , superiore a quello de Lo squalo (1975) e di E.T. l'extra-terrestre (1982) di Steven
Spielberg.
attenua, nelle nuove condizioni segnate dall’avvento del digitale, la sua funzione primaria di
rilanciare una cinematografia in profonda crisi, il turnover di registi, sceneggiatori, attori, direttori
della fotografia.
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Indice
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George Lucas esordisce nel periodo della New Hollywood (1967-1980). La sua carriera si
sviluppa però su traiettorie innovative e la sua opera sarà di fatto centrale (naturalmente insieme a
quella di altri cineasti, in primis Steven Spielberg) per il superamento della New Hollywood stessa e
per la trasformazione a largo raggio degli assetti produttivi e distributivi del cinema statunitense e
globale.
studioso di cinema che persegue una poetica molto personale, proprio come gli autori innovativi
che, a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta, svecchiano, anzi si può dire rivoluzionano, i
vecchi schemi della cinematografia americana (Mike Nichols, Arthur Penn, Francis Ford Coppola,
Martin Scorsese): in questo periodo la figura del produttore è nettamente subordinata alla visione
del regista, vero autore del film cui ne viene accordato il controllo.
D’altra parte, il franchise di Star Wars che porta Lucas alla fama mondiale inaugura una
nuova fase della storia del cinema, in cui il potere dei produttori è nuovamente centrale, perché si
punta molto sulla realizzazione di film ad alto budget, fortemente spettacolari, generalmente
Lucas aiuterà dunque, paradossalmente, a sottrarre potere agli autori stessi, a favore di produttori
pensato soprattutto per il pubblico giovanile. Un pubblico che viene introdotto all’interno di universi
narrativi ampi ed articolati, che si espandono su contesti mediali diversi (il cinema è spesso la
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2. Gli esordi
Nato a Modesto, in California, nel 1944, Lucas studia alla University of California,
frequentando i corsi di cinema e diplomandosi nel 1966. Dopo aver realizzato alcuni cortometraggi
sperimentali durante gli anni universitari, l’incontro con Francis Ford Coppola gli permette di
esordire nella regia di lungometraggio con il film THX 1138 (L’uomo che fuggì dal futuro, 1971),
un’allegoria fantascientifica legata all’immaginario distopico di autori come George Orwell o Ray
Bradbury, adattamento di uno dei suoi cortometraggi di studente. Il film, prodotto dalla American
Zoetrope, la casa di produzione di Coppola, non ebbe molti riscontri. Lucas si rivolse allora ad un
genere del tutto diverso, dipingendo con American Graffiti (1973) un’elegia post-adolescenziale
profonda e mai banale, ambientata nel 1962, da cui emergeva tutta la dolente nostalgia per
l’innocenza perduta della generazione che nel frattempo aveva vissuto la Guerra in Vietnam. Il film
ottenne un enorme successo e 5 candidature all’Oscar (comprese quelle per il miglior film e la
migliore regia), consacrando Lucas come uno dei talenti della sua generazione. Ciò diede al
giovane cineasta un ampio margine di credibilità, presso i produttori, per la realizzazione del suo
film successivo, un progetto a cui teneva moltissimo, e che si era andato modificando nel tempo.
avventure dell’eroe dei fumetti Flash Gordon, ma non riuscì ad accaparrarsene gli esosi diritti: in
ogni caso è proprio da una delle versioni cinematografiche delle avventure di Flash realizzate a
basso budget negli anni Quaranta (Flash Gordon Conquers the Universe, F. Beebe, R. Taylor, 1940)
che derivano gli iconici titoli di testa di Star Wars, a scorrimento all’indietro verso l’infinito.
Lucas decise a quel punto di creare un proprio universo narrativo autonomo, incentrato su
un guerriero galattico chiamato Anikin Starkiller, un nome che si evolverà poi fino a diventare Luke
Skywalker (mentre Anakin sarà il nome del padre di Luke, una figura molto importante nella storia).
La saga di Skywalker avrà, come tutti sappiamo, un impatto fortissimo sull’immaginario collettivo e
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Questo genere aveva in effetti avuto uno sviluppo fortissimo negli anni Cinquanta,
soprattutto grazie a produzioni come War of the Worlds (La guerra dei mondi, G. Pal, 1953),
Forbidden Planet (Il pianeta proibito, F.M. Wilcox, 1956) o Invasion of the Body Snatchers
(L’invasione degli ultracorpi, D. Siegel, 1956), che utilizzavano i conflitti tra umani ed alieni per
allegorizzare le profonde ansie legate ai blocchi contrapposti della Guerra Fredda, gli USA e l’URSS.
A partire dalla fine degli anni Sessanta, il panorama del genere era stato profondamente
modificato da alcuni film d’impostazione fortemente autoriale, che avevano spostato la riflessione
insita nel genere su un piano più consapevole, arrivando ad una dimensione autenticamente
filosofica sulla natura umana (2001: A Space Odissey, 2001: Odissea nello spazio, S. Kubrick, 1968;
Solaris, A. Tarkovsky, 1972), anche sulla scorta di importanti romanzi del genere. A questo filone
Lucas, ed il celebre Close Encounters of the Third Kind (Incontri ravvicinati del terzo tipo, S.
Spielberg, 1977). Il primo Star Wars (Guerre stellari), uscito in quello stesso 1977, apporterà invece al
genere una svolta in una direzione diversa: Lucas riporterà infatti la fantascienza nel regno
porre degli interrogativi di ampia portata sul rapporto tra Bene e Male.
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3. Un film duale
Oltre che alle avventure di Flash Gordon (o anche a quelle di un altro fantascientifico eroe
di fumetti, film, radio e tv come Buck Rogers), Star Wars può essere ricollegato ad un parterre di
riferimenti intertestuali davvero ampio, che riguarda sia il cinema popolare che quello più
autoriale. Se la figura del droide C3PO sembra provenire da Metropolis (F. Lang, 1926) ma anche
da The Wizard of Oz (Il mago di Oz, 1939), la scena dell’attacco all’astronave Death Star (in italiano
Morte Nera) somiglia molto ad una sequenza del film bellico inglese The Dam Busters (I guastatori
delle dighe, M. Anderson, 1955), mentre finale del film di Lucas, con la premiazione degli eroi,
ricorda da vicino Die Nibelungen (I Nibelunghi, 1924), adattamento della saga wagneriana
realizzato ancora da Fritz Lang. Molti poi i parallelismi tematici e strutturali con almeno due film del
maestro giapponese Akira Kurosawa, Kakushi toride no san akunin (La fortezza nascosta, 1958) e
altri) fa del film un esempio assai calzante di quella dimensione che Fredric Jameson 1 ha definito
preesistente.
Star Wars si colloca d’altronde a metà tra tradizione e innovazione anche dal punto di vista
dello stile. Si tratta cioè di un film in cui si alternano una dimensione narrativa più tradizionale e una
Secondo Laurent Jullier2, Star Wars è un esempio di cinema postmoderno non soltanto in
quanto pastiche citazionista, ma grazie alla sua qualità di “film-concerto”, ovvero di film che
1
Fredric Jameson, Postmodernism, or, the Cultural Logic of Late Capitalism (1991), trad. it. Postmodernismo, ovvero
La logica culturale del tardo capitalismo, Roma, Fazi, 2007.
2
Laurent Jullier, L'écran post-moderne: un cinéma de l’allusion et du feu d’artifice (1997) trad. it. Il cinema
postmoderno, Torino, Kaplan, 2006.
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investe lo spettatore con un vero e proprio bagno di sensazioni non soltanto visive ma anche
uditive. Il pubblico si trova insomma calato in un’esperienza intensiva e immersiva, che coinvolge
l’interezza della sua sfera sensoriale, non soltanto lo sguardo (a questo discorso si aggiungerà un
ulteriore tassello con la diffusione del dolby surround nei primi anni Ottanta). La visione, dunque, più
che come forma di conoscenza, si configura come strumento per un’iperstimolazione quasi
allucinatoria. Il film non cerca di stabilire con il pubblico una semplice comunicazione, ma propone
invece una fusione tra spettatore e schermo. L’esperienza autenticamente pirotecnica che si
vuole dunque garantire allo spettatore è più simile, secondo Jullier, a quella dell’avventore di un
qualità radicalmente spettacolare del cinema delle origini, caratterizzato soprattutto dalle forme di
quella che Christian Metz aveva definito “identificazione primaria”3: nel cinema dei primissimi anni,
quando ancora non venivano raccontate storie appassionanti, il pubblico era attratto dal nuovo
medium di per sé stesso, per la sua inebriante novità. E dunque gli spettatori si identificavano non
con i personaggi della storia (che per l’appunto non c’era ancora), ma con lo sguardo stesso della
macchina da presa, con la sua insopprimibile curiosità visionaria, con l’istanza prima che mette in
moto lo spettacolo.
Molto più fortemente che nel cinema delle origini, però, nel postmoderno, grazie allo
sviluppo tecnologico (ad esempio la louma, una gru snodata con telecomando a distanza), la
di fuori dell’umano. Gli effetti speciali della saga di Star Wars furono realizzati dalla compagnia
fondata appositamente da Lucas, la Industrial Light & Magic, attivissima ancora oggi.
Naturalmente, l’innovazione di Star Wars non nasce dal nulla: anche dopo il cinema delle
origini, c’erano stati alcuni momenti ed alcuni specifici autori della storia del cinema che avevano
fatto della mobilità della macchina da presa un elemento fondante del proprio stile: il cinema
3
Christian Metz, Le signifiant imaginaire: psychanalyse et cinéma (1977), tr. it. Cinema e psicanalisi: il significante
immaginario, Marsilio, Venezia 1980.
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profondamente visionario di alcuni cineasti degli anni Venti (da Friedrich Wilhelm Murnau ad Abel
Gance) aveva trovato uno scoglio nell’arrivo del sonoro, che scoraggiava la mobilità della
macchina da presa rendendola difficoltosa. Ma cineasti come Max Ophüls, Alfred Hitchcock e
Stanley Kubrick avevano continuato a sperimentare in maniera assai significativa in questo senso. E
dalla metà degli anni Sessanta in poi si era assistito ad una tendenza crescente verso il montaggio
tentativo i cui modelli erano da rintracciarsi tanto nel cinema d’autore europeo (la Nouvelle
Vague, o un cineasta italiano come Bernardo Bertolucci) quanto nel film di genere (si vedano
thrillers come Bullitt, S. Yates, 1968 o Chinatown, 1974, non a caso diretto da un cineasta europeo
In Star Wars, questa modalità di energizzazione della messa in scena è presente già nei
succitati titoli di testa: il movimento in avanti molto particolare che essi descrivono è ottenuto
dando l’impressione che le parole siano collocate su una sorta di tapis roulant che le porta verso il
fondo, con l’effetto accentuato dal grandangolo. E questa modalità di presentazione del
paratesto (i titoli di testa) costituisce una traslazione concretamente fisica dell’idea che il film ci
Dopo le scene inziali, tale modalità immersiva riappare in modo assai significativo
soprattutto in altri due momenti del film. Innanzitutto, nelle scene in cui l’astronave dei protagonisti,
spaziotemporali. In questa sequenza, pur breve, comprendiamo come il film voglia trasportarci
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Questo discorso giunge poi al massimo grado con l’uso insistito del travelling nella lunga
sequenza della battaglia finale4. Il travelling è infatti la figura chiave di questa tonalità intensiva
della messa in scena: si tratta di un vertiginoso movimento di macchina in avanti, che viene
adoperato proprio per consentire allo spettatore di partecipare al brivido della velocità. Le
astronavi compiono le loro evoluzioni tra pareti assai vicine dai rilievi complicati, e non in uno
spazio interstellare vuoto dove le stelle sono lontane: perciò tutti i punti luminosi dello schermo sono
all’interno della trama stessa del film, con il discorso sulla Forza, l’energia imperscrutabile che dà ai
D’altra parte, va anche detto che gli elementi energetici non possono predominare
completamente in un film, perché ciò renderebbe impossibile per gli spettatori seguire lo svolgersi
della storia. Solo un film d’avanguardia, un film insomma che non ha una vera e propria
narrazione, può essere costituito dal susseguirsi di sole immagini esplosivamente intensificate. In Star
fondamentale. Mentre l’inizio e il prefinale del film sono fortemente spettacolari e immersivi, nel
resto del film Lucas cerca di coinvolgere il pubblico in modo meno funambolico e più tradizionale,
tramite il dipanarsi dell’intreccio. Nei segmenti più narrativi, anche lo stile di ripresa è meno
innovativo e più classico: l’inquadratura è centrata sui personaggi, i movimenti di macchina sono
con i protagonisti (quella che Christian Metz chiamava “identificazione secondaria” 5). Il film
insomma – e come esso la maggior parte del cinema hollywoodiano contemporaneo, a cui ha
4
Si veda qui la scena: https://www.youtube.com/watch?v=AA_D__HMuFw.
5
C. Metz, op. cit.
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La figura di Luke è naturalmente quella su cui si incentra più che mai la dimensione
narrativa del film. Con la sua entrata in scena il film mostra sempre di più il suo debito nei confronti
camuffato. D’altronde, come Rick Altman spiega benissimo nel suo Film/Genere6, le evoluzioni dei
generi cinematografici passano precisamente per queste ibridazioni, per questo processo secondo
cui un genere magari in decadenza trova nuova linfa impadronendosi degli elementi della sintassi
o della semantica di un altro genere. I film di fantascienza possono essere letti in molti casi come
una trasposizione degli elementi chiave del western nello spazio, che diventa ‘l’ultima frontiera’. La
fantascienza usa elementi semantici diversi (le astronavi sostituiscono gli uomini a cavallo o la
ferrovia) ma alcuni nessi sintattici sono gli stessi. Lo spazio galattico, come già la frontiera
americana, diventa un luogo di azione ed anche di libertà. Il mito del West viene qui riproposto nel
suo autentico valore epico, anziché decostruito e criticato come avveniva in molto cinema della
New Hollywood.
riferimento sembra essere in particolare al capolavoro di John Ford, Sentieri selvaggi (The
Searchers, 1956). Quando Luke torna alla fattoria degli zii, per trovarla incendiata, Lucas costruisce
una citazione diretta, inquadratura per inquadratura 7. Ma si tratta di un discorso che va molto più
a fondo di così. La vicenda di Luke ripercorre infatti anche le tappe della traiettoria edipica
caratteristica del cinema classico ed in particolare del western, tutta incentrata sulla problematica
dell’identificazione e del conflitto con le figure paterne: Luke è inizialmente in contrasto con lo zio
che lo ha adottato da piccolo e che agisce da censore alle aspirazioni avventurose del giovane,
ricoprendo perciò il ruolo della figura d’autorità con cui è impossibile identificarsi. Grazie alla
scoperta di un altro padre putativo, stavolta alleato, nella figura del Maestro Jedi, Obi-Wan
Kenobi, Luke può poi accedere alla maturazione. Un processo che gli consentirà infine di scoprire
l’identità del proprio vero padre, che non è morto come egli credeva. Questo “romanzo familiare”,
6
Rick Altman, Film/Genre (1999), trad. it. Film/Genere, Milano, Vita & Pensiero, 2004.
7
Si veda qui la scena del film di Ford: http://www.youtube.com/watch?v=f7x-rzLoeUA e qui invece quella del film di
Lucas: https://www.youtube.com/watch?v=BTKHZN8c2L8.
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per usare un termine freudiano, avvicina la saga di Star Wars sia alle narrazioni del cinema classico
che agli schemi molto più antichi del mito (abbiamo d’altronde già evocato Edipo), della fiaba,
dell’epica omerica (da cui si riprende per esempio l’inizio in medias res), nonché delle opere
shakespeariane.
Star Wars, come singolo film e come saga nel suo complesso, è insomma fortemente legato
alle strutture del racconto eroico di formazione: The Hero with a Thousand Faces (L’eroe dai mille
volti, 1949) di Joseph Campbell è uno studio che analizza la traiettoria tipica dell’eroe, ed era, non
a caso, proprio il libro che Lucas stava leggendo durante il suo tortuoso processo di scrittura del
film.
scissione tra due figure eroiche maschili: da una parte, l’Official Hero, l’eroe ufficiale rappresentato
da Luke Skywalker; dall’altra l’Outlaw Hero, il fuorilegge ribaldo Han Solo interpretato da Harrison
Ford, che diventerà una star di primissima grandezza proprio grazie alla saga. Se Luke Skywalker è
l’eletto, l’eroe predestinato, calato e finanche intrappolato in una lotta edipica tra Bene e Male,
Han Solo è una figura più moderna, che col suo atteggiamento inizialmente strafottente (sembra
pensare solo ai propri interessi finché non si converte alla causa della Resistenza) sembra ricordare
molti personaggi interpretati da Humphrey Bogart in una serie di classici come Casablanca (M.
Curtiz, 1943). Una divisione, questa tra le due figure eroiche, che conferma ulteriormente lo statuto
del film e della saga di Star Wars come opere profondamente duali, in equilibrio perfetto tra la
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investendo Hollywood alla fine degli anni Settanta. Si assisteva in quel momento ad un
cambiamento dello zoccolo duro del pubblico: il profilo demografico mutava verso una
generazione meno sensibile agli elementi di contestazione degli anni Sessanta, spostandosi dagli
spettatori politicizzati e cinefili di alcuni anni prima a un pubblico più giovane e più conservatore
Con la fine della New Hollywood e l’affermarsi dell’epoca dei blockbuster (produzioni
spettacolari ad alto budget) inaugurato dalla saga di Star Wars, si assiste al riemergere in ambito
straniere. Parallelamente cresce il potere contrattuale delle star e si creano importanti meccanismi
sistema dei blockbuster vedrà perfino, nel corso degli anni Novanta, un sorpasso storico, in termini
di profitto economico: la fonte principale di guadagno non saranno più i biglietti venduti per la
visione in sala, e nemmeno gli introiti ricavati dall’home video (con le videocassette,
commercializzate a partire dal 1975/76, per la prima volta il cinema si può vedere in casa
autonomamente dalla trasmissione di un film in tv) bensì i gadget relativi ai personaggi amati dal
pubblico.
Per dare un’idea dell’ampiezza del franchise di Star Wars basti dire che esso si sostanzia di:
alcuni film cosiddetti standalone (storie autoconclusive, ma inserite nella stessa galassia
narrativa): Rogue One: A Star Wars Story (2016); Solo: A Star Wars Story (2018);
una serie televisiva live action, tutt’ora in corso: The Mandalorian 2019-, protagonista di
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ovvero di un vero e proprio ecosistema narrativo del tutto serializzato e ‘spalmato’ su diverse
piattaforme mediali.
Star Wars fa naturalmente da apripista a tante altre trilogie, a tanti altri franchise, da
Indiana Jones a Ritorno al futuro, per arrivare alla situazione odierna: la logica del franchise è la
precedenti, avendo acquisito, tra il 2006 ed oggi, la Pixar (2006), la Marvel (2009), la Lucasfilm
(2012) e la 21st Century Fox (2017). Tramite la sua espansione tentacolare che le sta consentendo
di divenire proprietaria di molti degli ecosistemi narrativi di maggior successo presso il pubblico, la
Disney sembra decisa a colonizzare definitivamente la fantasia degli spettatori a livello globale.
Bisogna però tenere conto del fatto che, al di là di ogni tentativo di controllo dall’alto degli
ecosistemi immaginari contemporanei, questi producono sempre anche forme della creatività dal
basso, stimolando la fantasia dei fan e portandoli ad aggiungere storie di propria invenzione alla
messe di discorsi narrativi già esistenti. L’esperienza del fandom è un fenomeno importante di
riappropriazione e riscrittura degli universi narrativi transmediali da parte dei fruitori. Non si tratta
d’altronde di una pratica che si esplica solo tramite la scrittura di racconti (o tramite la creazione
di avventure nell’ambito di giochi di ruolo): oltre che per mezzo della parola, il fandom può
esprimersi anche tramite la riconfigurazione effettiva del materiale audiovisivo, con la realizzazione
di video che possono assurgere allo status di veri e propri saggi. Questi videosaggi enfatizzano
elementi già presenti nei film, per collegarli spesso alle dinamiche socio-politiche attuali. Si pensi ad
8
Henry Jenkins, Convergence Culture: Where Old and New media Collide (2006), trad. it. Cultura
convergente, Milano, Apogeo, 2007.
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Lorenzo Marmo - La galassia Star Wars
diventata, negli ultimi anni, un simbolo delle manifestazioni contro il Presidente Trump ed è qui fatta
oggetto di omaggio e celebrazione (anche perché l’attrice che la interpretava, Carrie Fisher, è
scomparsa prematuramente). Le forme del fandom si riappropriano così del materiale narrativo
dei mondi immaginari, collocandosi in perfetto bilico tra una dimensione ludica ed una modalità
riflessiva.
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Anna Bisogno - Alle radici della tv popolare (1961-1974)
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Anna Bisogno - Alle radici della tv popolare (1961-1974)
1. I rapidi progressi
All’inizio degli anni Sessanta la televisione aveva acquisito una posizione centrale nella
società italiana e nella vita quotidiana degli italiani. Il sistema politico, sempre a dominanza
centriste non garantivano più quell’essere “un partito di centro che guarda a sinistra” come
intendeva essere, nella lezione degasperiana, la Dc. Occorreva dunque aprire al Partito socialista
italiano, spezzando – o almeno indebolendo – il legame che lo legava al Partito comunista, sia
pure raffreddato dopo la crisi dello stalinismo e l’insurrezione ungherese del 1956.
Nelle lunghe trattative che precedettero il varo del primo centrosinistra (1963) i socialisti
furono molto attenti al settore dello spettacolo, del cinema e della televisione e ai temi della
censura. Chiesero e ottennero incarichi in televisione per il loro personale, nel momento in cui si
apriva il Secondo canale televisivo con il relativo Telegiornale (1961) e in cui giungevano in Italia
importanti novità tecnologiche come più agili riprese in esterni, i collegamenti satellitari
transatlantici, e l’Ampex. Cos’era l’Ampex? Era la marca del primo registratore videomagnetico
diretta. In Italia fu utilizzato all’inizio solo per i telegiornali. La visione preventiva dei servizi più
delicati davanti ai dirigenti dei vari partiti diveniva una pratica abituale. Con la convenzione del 7
febbraio 1963 la Rai estende la rete in modo da raggiungere tutti i capoluoghi di provincia fino a
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copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).
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controllo sull’azienda e di guidarne la modernizzazione senza mai rompere con i nuovi arrivati, i
vertici espressi dal Partito socialista, con il quale realizzò un riuscito progetto di cooptazione
subalterna.
progressivamente nel paese quando era totalmente bandito dalla televisione di Stato; il suo
declino inarrestabile è coinciso con l’ingresso nel potere televisivo. La televisione ispira piuttosto stili
di superamento graduale e cauto di alcuni confini che in precedenza erano assolutamente rigidi.
Del resto la parola-chiave della politica italiana negli anni di avvio del centro-sinistra era
“apertura”.
Era un modello capace di tener conto non solo delle esigenze dei partiti che costituivano i
gli editori di riferimento della Rai, ma all’interno delle culture, delle tecnologie, delle forme
produttive proprie del mezzo. Si realizzava così un processo di osmosi, accuratamente mediata, tra
televisione e quadro politico che rappresenta una caratteristica di tutto il sistema italiano.
Bernabei rimase a capo della Rai dal 1961 al 1974 e numerosi furono gli interventi che, nel
progressista. Una vera mamma Rai che, nell’assolvere pienamente il ruolo di emittente statale,
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sua direzione il Servizio Pubblico conobbe, per la prima volta, il palinsesto, il secondo canale e
momento dell’informazione con il Telegiornale che da una parte è una finestra aperta sul mondo e
dall’altra simbolo delle istituzioni. Ma non solo. Il telegiornale in quegli anni divenne la costellazione
centrale di una galassia di approfondimenti e rubriche, a partire dal primo rotocalco televisivo a
cadenza quindicinale RT – Rotocalco televisivo (1962) realizzato da Enzo Biagi durante il suo breve
impegno come direttore del Telegiornale ,oppure lo speciale del telegiornale dei primi mesi del ’63
Il momento dell’informazione divenne da una parte una finestra aperta sul mondo,
dall’altra un simbolo delle istituzioni. Il Tg1, infatti, andava in onda con un tono freddo e
istituzionale, proprio per evidenziare la sua funzione di amplificatore del messaggio governativo.
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3. L’intrattenimento popolare
Con l’introduzione del secondo canale Bernabei attivò una politica di complementarietà
tra le due programmazioni. La sua Rai fu una realtà conscia del proprio ruolo e della propria
identità. Nacquero in quegli anni i telequiz, Non è mai troppo tardi con il maestro Alberto Manzi,
l’intrattenimento culturale dei grandi sceneggiati di argomento storico. Con lui esplose la potenza
del mezzo televisivo, destinata a perdurare con ampio consenso popolare fino agli anni ’70
storia italiana degli anni ’60 con l’Italia del miracolo economico che trovò nel piccolo schermo
della modernizzazione del Paese negli anni del boom, pur mantenendo esplicitamente un ferreo
di Canzonissima (1962) rei di avere messo in evidenza la gravità degli infortuni sul lavoro. per uno
sketch su un costruttore edile che se ne infischiava delle norme antinfortunistiche. Quel caso non fu
né l’unico, né il primo; vi erano stati dei precedenti con Ugo Tognazzi, Raimondo Vianello, Enzo
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4. Canzoni e canzonette
profondamente radicata nei consumi nazionali degli italiani già alla fine dell’Ottocento: la musica
leggera.
La canzone era al centro di molti programmi televisivi già dagli anni Cinquanta, dal
Musichiere, fondato sul meccanismo d’importazione americana della gara per indovinare un
appunto Canzonissima in quanto legata per lungo tempo a una gara tra canzoni, a volte nuove e
a volte classiche, ma comunque orecchiabili e dal forte appeal sul pubblico; dai programmi
pomeridiani fatti di esibizioni canore di professionisti, al gran varietà Studio Uno, presentato da
Mina, e costruito in buona parte intorno alle sue interpretazioni, ai suoi incontri con altri cantanti,
alle coreografie che rendevano ancor più suggestivi i motivi musicali. Ed è sempre la musica a
La musica leggera si prestava bene a una televisione che stava diventando il mezzo di
comunicazione di massa degli italiani sia dal punto di vista della programmazione che di
Tra i più seguiti e amati dal pubblico italiano, Studio Uno è l’esempio migliore
dell‘intrattenimento della televisione in bianco e nero degli anni sessanta Sin dalla prima puntata,
in onda il 21 ottobre 1961, il pubblico mostrò immediatamente di gradire questo varietà che
prendeva il nome dello Studio Uno di via Teulada, soprattutto grazie allo stile innovativo con cui
viene concepito dagli autori Antonello Falqui e Guido Sacerdote: scenografie semplicissime
costituite da ampi spazi con arredi essenziali, movimenti e cambi di scena a vista, grazie anche
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inclusi telecamere e microfoni a giraffa; il tutto concepito non solo per favorire la partecipazione
degli ospiti d'onore e la spettacolarizzazione di numerosi balletti, ma anche per dare l’impressione
agli spettatori da casa di trovarsi in studio. Le gemelle Kessler caratterizzarono fin da subito il varietà
Studio Uno. Furono tanti e diversi i personaggi che entrarono nell’immaginario familiare del
pubblico a cominciare da Don Lurio, ideatore delle coreografie e della prima sigla Da-da-Umpa,
Fu Mina (Anna Maria Mazzini) la protagonista assoluta del varietà: ma anche una spigliata
padrona di casa che rivela doti di conduzione, oltre quelle indubbie e validissime di cantante, che
dà vita a divertenti e memorabili duetti con numerosi ospiti del calibro di Totò, Nino Manfredi, Ugo
Tognazzi, Rossano Brazzi, Amedeo Nazzari, Vittorio De Sica, Marcello Mastroianni, Enrico Maria
Salerno, Peppino De Filippo, Vittorio Gassman e Alberto Sordi. Poco dopo però fu costretta ad
formalmente sposato con l'attrice Renata Monteduro. La Rai puntò allora su una ragazzina che
stava divenendo famosa grazie alla vittoria al festival degli sconosciuti di Ariccia, promosso da
Nel 1974 Mina ritornò al varietà con Carrà Milleluci condotto insieme a Raffaella Carrà
La canzone aveva già richiamato il pubblico negli spettacoli della prima tv italiana,
programmati nel tardo pomeriggio, messi in onda con semplici scenografie ma nel 1958 il varietà
Canzonissima si rivela da subito un ottimo connubio tra gara canora e rivista, seguendo l’idea di
musicale italiana.
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Dal 1963 al 1967 la trasmissione continua assumendo nuovi format e nuovi titoli, Gran
Premio, Napoli contro tutti, La prova del nove, Scala reale e Partitissima, per ritornare al titolo
originario di Canzonissima soltanto nel 1968 con l'edizione che vede protagonisti Mina, Walter
Chiari e Paolo Panelli. L'edizione del 1970 diventa famosa per la conduzione di Corrado, in coppia
con Raffaella Carrà e per la sigla del programma, cantata dalla stessa conduttrice, Ma che
musica maestro. La coppia viene confermata anche per l'edizione successiva del programma; il
ballo Tuca Tuca di Raffaella Carrà sarà considerato per l’epoca scandaloso. Sarà ancora la Carrà,
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scelta di opere che vanno dal teatro classico al rinascimento italiano, dal secolo d’oro spagnolo,
Nel 1962 si raggiunge il massimo punto di presenza del teatro riprodotto con 151 spettacoli
programmati tra primo e secondo canale; a fin dall’inizio dei programmi l’estrazione teatrale (e
non cinematografica) del personale RAI nelle scelte produttive e nell’impostazione degli spettacoli.
Nella seconda metà degli anni ’60, la tv-teatro mette in scena temi di attualità o di
ricostruzione storica trascurando testi di più stretta origine teatrale. Il modello teatrale si converte
allo sceneggiato, che vuole stemperare il contrasto dramma/racconto e lo trasforma in una forma
più vicina al gusto di un pubblico popolare. Lo sceneggiato italiano è lontano dalle soap opera
Nel 1964 va in onda per la prima volta sul secondo canale Rai il Mastro Don Gesualdo per la
regia di Giacomo Vaccari: è questo il primo “film a puntate” della televisione italiana. Da questo
momento in poi le strade dello sceneggiato si divisero, da una parte il tele-romanzo si ispirerà al
grande filone della letteratura ottocentesca, dall’altro gli sceneggiati-filmati adotteranno i modelli
produttivi del cinema italiano ed europeo. Lo sceneggiato, quindi piuttosto che essere
Il telefilm americano, ma anche europeo, non è più il favorito del pubblico ma il prima
posto è occupato dal grande film popolare e dal film d’autore. Un nuovo ciclo della storia della
televisione si apre tra il 1968 e il 1969 ed è da questo momento che la televisione ha una fisionomia
sempre più produttiva con caratteristiche specifiche e le dimensioni del fenomeno accrebbero
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notevolmente: nel 1965 la Rai produsse 9 telefilm italiani contro 142 americani (si ricordano
Prosegue così la stagione letteraria dello sceneggiato con altri grandi successi: La figlia del
Oblomov, Il Conte di Montecristo, La fiera della vanità, I Promessi Sposi (Paola Pitagora nei panni di
Lucia e Nino Castelnuovo in quelli di Renzo) diretti da Sandro Bolchi nel 1967 con un cast di
altissimo pregio.
Oltre a Bolchi, l’altro grande padre degli sceneggiati italiani fu Anton Giulio Majano che, tra
le tante, diresse per la tv opere come Delitto e Castigo (1963), La Cittadella (1964), David
Copperfield (1965), La freccia nera (1968) e attori come Alberto Lupo e Virna Lisi.
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Anna Bisogno - Verso la fine del monopolio
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1. La “strenua difesa”
La modernizzazione della società ebbe conseguenti riflessi anche sul sistema radio-televisivo
pubblico italiano che, a partire dalla metà degli anni Sessanta, si mobilitò per una strenua difesa
del monopolio della Rai, e dunque di un collegamento diretto tra le istituzioni politiche e
Costituzionale fu più volte chiamata ad esprimersi sulla legittimità dei primi tentativi di affermazione
avvenne con la sentenza del 59/1960 che non accolse il dubbio di legittimità avanzato dalla
società “Il Tempo TV”, che nel 1956 chiese al Ministero delle Poste e Telecomunicazioni l’assenso
per la realizzazione di un servizio di radiodiffusione televisiva da attuare in Toscana, nel Lazio e nella
Campania, provvedendo alla costruzione di impianti trasmittenti, studi di ripresa e ponti radio e di
utilizzare frequenze altre (UHF) per non interferire con quelle preesistenti stazioni radiotelevisive
Un altro tentativo di messa in discussione del monopolio pubblico arrivò dalla Provincia
autonoma di Bolzano che rivendicava la possibilità di realizzare programmi radio televisivi locali,
iniziava a rivelarsi inadeguato per effetto di una serie di trasformazioni che stavano attraversando
l’intero continente europeo. La prima trasformazione riguarda i gusti del pubblico, le sue attese, il
suo rapporto con i consumi culturali; la seconda attiene alle innovazioni tecnologiche in tutti i
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campi dell’elettronica che moltiplicano i canali di diffusione e di utilizzazione dei segnali televisivi.
L’idea di una radiotelevisione pubblica fondata prevalentemente su una funzione culturale entra
Il dibattito sul sistema radiotelevisivo subì una notevole accelerazione solo dopo due
storiche sentenze della Corte costituzionale del 1974. Viene dichiarata costituzionalmente
ammette l’esercizio anche da parte di soggetti privati (sent. 225/1974). La Corte si preoccupò di
precisare i requisiti minimi indispensabili che dovevano consentire all' emittenza pubblica di
esplicare il proprio compito, indicando una sorta di decalogo al quale la Rai doveva conformarsi
assicurando un rigoroso pluralismo interno, per consentire l'espressione delle varie formazioni
culturali presenti nella società. A tale scopo la Corte chiedeva anzitutto che la Rai venisse sottratta
riserva dello Stato alla installazione e all’esercizio di reti locali di televisioni via cavo dal momento
che non sussisteva un serio rischio di monopolio. La Corte di fatto apriva alla televisione via cavo in
ambito locale.
Le due sentenze impressero un ritmo più veloce al Parlamento nell’approvare una riforma
della Rai, che era in discussione da anni. Essa fu costituita dalla legge n. 103 del 1975 che spostò in
gran parte il controllo sulla radiotelevisione dal Governo al Parlamento, attraverso la Commissione
di vigilanza sulla Rai, istituendo un terzo canale televisivo e potenziando le sedi regionali a cui era
Se la legge di riforma aveva rafforzato la posizione della Rai come concessionaria del
Servizio pubblico radiotelevisivo, la sentenza n. 202 del 1976 della Corte costituzionale aprirà di
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fatto un mercato e uno spazio per la televisione e la radio privata. Essa era autorizzata in ambito
locale, tenuto fermo il monopolio del servizio pubblico essenziale e il preminente interesse generale
provincia? Una regione? Al quesito, non proprio irrilevante, avrebbe dovuto rispondere il
legislatore, cioè il Parlamento. Questa determinazione dell'’ambito locale non fu mai effettuata
con il chiaro intento di favorire la crescita delle emittenti e creare una situazione di fatto da cui non
si potesse più tornare indietro. Chiudere una emittente, con un proprio pubblico di spettatori, con
una testata giornalistica, con una presenza rilevante in una citta o un territorio sarebbe risultato
Il pluralismo sarebbe stato dunque assicurato non dalla costituzione interna del servizio
emittenti.
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Tra gli anni Settanta e Ottanta le principali questioni che scandirono la discussione
sull’apertura a soggetti privati del sistema radiotelevisivo italiano erano la libertà d’espressione e il
pluralismo dell’informazione. In un articolo apparso nel gennaio del 1972 su L’Espresso, il direttore
Eugenio Scalfari, poi fondatore del quotidiano La Repubblica, impostava in modo nuovo la
questione della “libertà d’antenna”. Egli sosteneva, infatti, che la libertà di antenna avrebbe fatto
nascere nel giro di pochi anni così tante nuove emittenti da spostare il dibattito sulla televisione
dalla critica della gestione del monopolio al pluralismo dell’informazione. Una voce solitaria allora,
che mostrava di aver colto le trasformazioni avviate dalla nascita di Telebiella, una emittente che
rappresentò probabilmente la prima emittente televisiva privata registrata nel 1971 presso il
tribunale come “giornale periodico a mezzo video”; le sue trasmissioni furono inaugurate a partire
dal 1972.
cui, all’inizio del decennio successivo, sarebbe emerso un nuovo sistema dei media in cui la
Di questo periodo è possibile distinguere tre fasi: la prima, dal 1976 al 1979, vede la veloce
proliferazione delle radio e delle televisioni private a carattere locale; la seconda, dal 1980 al 1984
che ha assorbito le televisioni degli editori Rusconi e Mondadori, diventa il principale gruppo
privato, con tre canali e una dimensione di impresa paragonabile a quella della Rai, egemone nel
Il ministro delle Poste Vittorino Colombo definì “cento fiori” le emittenti private,
sottintendendo che era era necessario lasciarli sbocciare. Le emittenti nascevano per le ragioni più
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maggior parte delle emittenti televisive erano sorte per iniziativa di piccoli imprenditori che
volevano sfruttare il mercato pubblicitario locale fino a quel momento sottoutilizzato, attraverso
A ciò si aggiunge che le tv private adottarono subito la trasmissione a colori, mentre la RAI
lo farà solo nel 1977; un po’ per una diatriba tra la scelta del sistema francese SECAM e quello
tedesco PAL, un po’ perché la tv a colori era considerata un consumo frivolo rispetto alle politiche
di una parte della politica di gestire e regolare l’emergere di un nuovo sistema dei media
arroccandosi a difesa del monopolio, mentre altre forze politiche premevano per la costituzione di
un sistema misto di fatto. Inoltre essa partecipa a un profondo, e spesso inavvertito, cambiamento
dei quadri mentali diffusi. Possiamo citare il nuovo ruolo dei consumi, stimolati da un aumento
senza precedenti della pubblicità televisiva; oppure il ridefinirsi della geografia dei media lungo le
stesse linee che sembrava percorrere la nuova organizzazione dello sviluppo industriale; o ancora,
infine, al nuovo protagonismo del sistema televisivo, con forme inedite di partecipazione e
cui si era fondata la rottura del monopolio televisivo. La “libertà d’antenna”, che a metà degli anni
comunicazione, sarebbe diventata, un decennio più tardi, una delle forme con cui si difendeva un
nuovo “diritto all’intrattenimento”: segnale che quel processo che Giovanni Gozzini ha definito di
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3. La tv via cavo
In principio fu il cavo. Per provare a ricostruire i molteplici percorsi che portano alla nascita
delle televisioni commerciali è necessario infatti occorre partire proprio dalla sperimentazione delle
televisioni via cavo che, nella prima metà degli anni Settanta, incarnavano il modello di una
Tutto ebbe inizio negli anni ’70 con la già citata piemontese piemontese Telebiella –
nascerà la futura Canale 5) che trasmetteva da Milano 2, un complesso edilizio costruito da Silvio
Le immagini televisive possono essere trasmesse non soltanto via etere, ovvero per mezzo
delle onde ma anche grazie attraverso un cavo coassiale, con un collegamento di tipo telefonico
capace di trasformare una quantità di informazione assai superiore (dell'ordine di varie decine di
La tv via cavo funziona con tre elementi: il canale, la rete cablata e il televisore.
Sul piano teorico essa appariva uno strumento ideale per creare un nuovo rapporto spazio-
temporale tra il mezzo e il telespettatore perché mentre la televisione via etere è limitata dal flusso
di informazioni che partono dal vertice e arrivano alla base, la televisione via cavo è aperta al
flusso di informazioni che utilizza il procedimento inverso, che parte dalla base e arriva al vertice.
Molte delle televisioni via cavo nate fra il 1974 e il 1975 muovevano da questi presupposti: si
pensi ad esempio agli esperimenti di televisione “di quartiere” che volevano fare informazione
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Anna Bisogno - Verso la fine del monopolio
Le televisioni via cavo riflettono l’immagine delle paladine della libertà d’informazione: si
pensi ancora a Telebiella e al conflitto con il Ministero delle Poste e Telecomunicazioni che
avrebbe portato alla sentenza della Corte costituzionale n. 226/1974. E non è un caso che una
delle associazioni fra tv via cavo si chiamerà proprio Rete A 21, con riferimento all’articolo della
credibilità della Rai era stata notevolmente ridimensionata durante la campagna per il referendum
sul divorzio che aveva mostrato, da un lato, la propensione del servizio pubblico alla
A maggio del 1973 venne organizzato a Venezia il primo convegno delle tv via cavo e
nell’agosto dell’anno successivo Tele Libera Firenze salì agli onori della cronaca per essere stata,
probabilmente, la prima rete locale a trasmettere via etere, e in poco più di un anno, ben prima
A molti, ma non alle tv via cavo, sfuggi un articolo della legge di riforma Rai del 1975 che
consentiva la trasmissione via cavo purché “monocanale” (art. 24) e con limitazioni territoriali
strette (non più di 150 mila abitanti) che rendevano la televisione via cavo impossibile.
Il passaggio dal cavo all’etere, sperimentato in forma illegale nel 1975, diventerà
inarrestabile dopo la sentenza n. 202/1976 della Corte costituzionale e nel giro di pochi mesi
mostrerà che all’evoluzione tecnologica si accompagnavano anche cambiamenti più profondi: “Il
Iniziava così a delinearsi l’idea di una nuova televisione che accantonava l’idea di
un’informazione libera in favore di un modello industriale più definito ed efficiente e che sarebbe
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Anna Bisogno - Verso la fine del monopolio
stato ribattezzato “network all’italiana”: si trattava dell’evoluzione di una forma di “consorzio” a cui
avevano già pensato nel 1975 le televisioni via cavo per abbattere i costi e della quale si può
Tuttavia, il primo vero “network” sarebbe stato costituito dal circuito Elefante TV (1979) dei
fratelli Marcucci, nella cui syndication c’erano, tra le altre, l’emittente lombarda Telenord (che già
nel 1978 riceveva con ponti radio gran parte delle sue trasmissioni), Telesud Napoli, Teledue di
Torino.
Un tale cambiamento di modello industriale non era dettato solo da esigenze economiche
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Anna Bisogno - Riforme e transizioni
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Anna Bisogno - Riforme e transizioni
1. Cambio di rotta
Il dibattito politico e culturale intorno al sistema radiotelevisivo italiano a metà degli anni ’70
un’altra forma di attività televisiva che non fosse la Rai. La legge di riforma (L. 103/1075), approvata
verso il Parlamento. La legge si mosse sostanzialmente in un’ottica di garanzia che consentì a tutti i
radiotelevisivo.
Le determinazioni più importanti della legge n. 103 possono essere di seguito riassunte:
- passaggio del controllo del Servizio pubblico e della società concessionaria dal Governo
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Anna Bisogno - Riforme e transizioni
Con il passaggio del servizio pubblico dal controllo del governo a quello parlamentare, si
estende il processo poi ribattezzato genericamente lottizzazione, termine coniato nel 1974 dal
giornalista Alberto Ronchey, ovvero la spartizione dei canali radiotelevisivi della Rai e dei posti di
responsabilità su base politica; tale sistema era stato prima esercitato fra le correnti della
fu allargato al partito comunista. Le due reti televisive precedenti erano da sempre la prima
nell’orbita della Democrazia Cristiana, la seconda del Partito Socialista. Con la creazione della
terza rete (essenzialmente regionale), sia la rete che la testata furono dirette da personale
comunista. Solo nel 1987 la terza rete passò nella sfera di influenza del Partito Comunista e divenne
una rete nazionale. La cosiddetta zebratura inoltre permetteva di bilanciare una rete assegnata
Tra gli effetti positivi vi fu il nuovo rapporto tra le reti, non più di complementarietà ma di
concorrenza intellettuale, che portò a una marcata contrapposizione fra stili e pubblici di
riferimento. Questa nuova dimensione culturale e politica della Rai fu innovatrice nei primi anni -
anche se poi questa spinta fu abbandonata sotto la pressione della concorrenza delle televisioni
l’1febbraio 1977. Probabilmente ciò permise agli autori televisivi maggiore libertà progettuale,
creativa e una serie di opportunità tecniche innovative, che portarono ad una maggiore
spettacolarizzazione. Un esempio è l’affermazione di un nuovo genere, il talk show, che avrà come
sono in bianco e nero, intelligenti e austeri come Bontà loro di Maurizio Costanzo (1976), il primo
una serie di programmi innovativi nella formula e nel linguaggio, tra questi Odeon. Tutto quanto fa
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Anna Bisogno - Riforme e transizioni
spettacolo (1976), L'altra domenica (1976), Non stop (1977), Portobello (1977) condotto da Enzo
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Anna Bisogno - Riforme e transizioni
ballo, centri commerciali; il periodo 1976-1980 fu l’era del localismo più accentuato. La dimensione
riconoscibilità da parte delle comunità anche grazie al trasferimento di divi, personaggi del mondo
dello spettacolo ed ex volti della Rai coinvolti ed economicamente gratificati dalla nuova
Su tutti, il caso di Telemilano la cui società e il cui marchio furono rilevati da Silvio Berlusconi
nel 1975. Nel ’78, grazie ad un ripetitore istallato sul grattacielo Pirelli di Milano, Telemilano inizia le
trasmissioni regolari con il nuovo nome di Telemilano 58, che fu l’antesignana di Canale 5.
Alla fine del decennio emersero gruppi nazionali, in particolare quelli legati agli editori
Rizzoli (PIN, Prima rete indipendente), Rusconi (Italia 1), Mondadori (Retequattro), e agli imprenditori
Callisto Tanzi (EuroTv) e Silvio Berlusconi (Canale 5). Nel 1984 la Fininvest di Silvio Berlusconi era
ormai un network a tre reti e il suo fatturato pubblicitario superava quello della Sipra, la
Le televisioni locali (se ne contavano circa 400 nel 1978) erano spesso espressione di
elettrodomestici ed elettrotecnici che volevano utilizzare l’onda della grande distribuzione e forme
Nella loro offerta tanti game show con ampio uso del telefono (sempre con il numero in
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copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).
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telegiornali della Rai che doveva affrontare per la prima volta nella sua storia un problema di
identità. L’emittenza privata che soltanto metteva in discussione il suo ruolo pedagogico ed
educativo ma anche la sua funzione politica e la sua offerta culturale affidata alla terza rete -
invero con modesti risultati di ascolto – che inizia le sue trasmissioni regolari nel 1979.
Siamo all’inizio della cosiddetta guerra dell’audience che porterà il servizio pubblico
televisivo italiano a una competizione sempre più esasperata sia al suo interno che all’esterno, con
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La Riforma del 1975 generò concorrenza interna alla Rai che indurrà le tre reti a una
riorganizzazione dei palinsesti distinta e concorrenziale, oltre che a investire su format in grado di
essere più plurali, innovativi, d’evasione. Alcuni generi scompaiono quasi del tutto (la prosa), altri
Il palinsesto, finora caratterizzato da netta suddivisione tra i generi, rigidità delle collocazioni
strategico per calibrare domanda e offerta (Monteleone 2003). I primi esempi di questa tendenza
sono il programma contenitore e il talk show, destinati a diventare capisaldi della neotelevisione,
come Domenica in e L’altra domenica, per il primo e Bontà loro per il secondo di cui si
approfondirà.
Come è facile intuire dalla definizione, il contenitore è un programma di lunga durata al cui
interno si succedono momenti diversi, anche non dello stesso genere: tra spettacolo e
anche alle fasce mattutine e pomeridiane dei giorni feriali e contribuirà ad affermare un uso della
televisione quale accompagnamento leggero nella giornata e nella vita degli italiani.
una idea di Corrado Mantoni che del programma fu anche autore e conduttore per i primi tre anni
prima di lasciare il testimone a Pippo Baudo. Sei ore di diretta con giochi, quiz, canzoni, telefilm e la
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rubrica più popolare della televisione italiana e l’appuntamento più atteso per gli appassionati di
L’altra domenica (Rete 2, 1976-79). Per la prima volta il pubblico può entrare in diretta
comunicazione con la televisione. Basta fare un numero di telefono per prendere la linea. La prima
edizione, condotta da Renzo Arbore e Maurizio Barendson, si fondò sul connubio varietà e sport
per poi trasformarsi in puro spettacolo, tra gag varie, finti collegamenti internazionali, interazione
con il pubblico che affonda le radici nell’esperienza radiofonica di Alto gradimento. Tra i
personaggi cult del programma l’improbabile critico cinematografico Roberto Benigni, il cugino
americano Andy Luotto, i cartoni animati di Maurizio Nichetti e Guido Manuli, le stelle e strisce delle
Il talk show è uno spettacolo che si fonda sulla parola, sulla conversazione, sul confronto tra
opinioni. Il genere è dii provenienza americana e nella sua versione italiana ha inizialmente
puntato sul racconto del privato e della gente comune (Bontà loro) per poi successivamente
economica (Maastricht Italia), sportiva (Il processo del lunedì). Il conduttore ha un ruolo centrale
nel gestire la conversazione e nel dare forma, ritmo e tono al programma con il pubblico in studio,
spesso partecipante, che evoca il pubblico a casa e una messa in scena casalinga e familiare
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Indice
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1. Televisione e modernità
La TV pubblica italiana a metà degli anni '70 è lo specchio di un Paese sospeso tra la
radicalità degli anni Sessanta e l'edonismo degli anni Ottanta e come una potente macchina di
produzione culturale e di identità. Durante questo decennio la RAI rielabora il suo ruolo
spettacolarizzazione che anticipa i tipici racconti della televisione commerciale nel successivo
decennio.
L’entertainment è una delle chiavi interpretative della modernità e delle forme estetiche
che la accompagnano, di cui il cinema è stato il primo vettore (e la sede formativa). Possiamo
“Entertainment è la parola che oggi comunemente usiamo per definire l’intrattenimento nei suoi
spettacoli, riti e mode culturali e anche nella sua dimensione industriale e produttiva.” (E. Menduni,
Entertainment, 2013, p. 7)
questi anni è un’area importante per l’evoluzione del linguaggio, della sperimentazione e delle
soluzioni tecniche. Sono state le esigenze di questo genere a introdurre l’impiego di tutta una serie
di artifici sofisticati, di tecniche ed espedienti registici, dal play back ai più raffinati effetti speciali.
Nati all’interno dei programmi leggeri, si sono poi estesi molti altri generi della comunicazione
televisiva. Gli anni Settanta rappresentano da questo punto di vista una officina di produzioni
innovative collocate in fasce di palinsesto che tradizionalmente erano solo sfiiorate da questo
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L’altra novità, forse la più importante, è legata al pubblico. Se nella televisione tradizionale
esistevano programmi dedicati a speciali componenti del pubblico (es. “la tv degli agricoltori”),
contemporaneamente i gusti e gli interessi più vari di un pubblico composito che si comincia a
programma del 1969 condotto da Renzo Arbore, Speciale per Voi, che miscela gli argomenti più
eterogenei presi dal mondo della moda, del costume diretto a un pubblico giovanile ma con la
Qualche anno dopo, nel 1976, è Roberto Benigni ad affermare sul secondo canale il
genere della comicità demenziale con Onda libera, dove interpreta il personaggio dialettale di
In questa fase dunque si dà vita a un nuovo modello di spettacolo leggero basato su una
partecipazione del pubblico in studio, liberandolo dall’obbligo della presenza muta con applausi a
cabaret e gli conferisce qualche tonalità underground. Vengono alla ribalta attori e personaggi
nuovi, molti dei quali avevano una comune matrice cabarettistica ed erano slegati dalla
tradizione del teatro italiano nella sua componente leggera (la rivista, il varietà). Si affermano così
in questa fase figure che diventeranno popolarissime nel varietà televisivo (e nel cinema): Cochi
Ponzoni e Renato Pozzetto, o Paolo Villaggio, che debuttarono in Quelli della domenica (1968),
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2. A colori
Il 1977 per la televisione italiana è un anno particolarmente significativo: l’1 febbraio iniziano
anche sulla Rai le trasmissioni a colori (già molte tv private l’avevano fatto) dopo una lunga fase
definitiva “sperimentale”, ma che serviva in realtà perché la politica non aveva ancora deciso se il
colore era compatibile con le politiche di “austerità” allora in voga, e quale standard si doveva
scegliere. Questo ritardo si rivelò un errore gravissimo soprattutto sul piano economico, perché
massacrò l’industria italiana dei televisori. Tutti aspettavano il colore per cambiare l’apparecchio e,
quando esso finalmente arrivò i televisori erano ormai tutti tedeschi, olandesi o giapponesi.
Ci vorrà ancora un po’ di tempo per e colorare d’azzurro lo storico segnale orario delle 20.
Era ancora in bianco e nero “Furia, cavallo del West”, primo esperimento di telefilm Usa nello
spazio pre-telegiornale ma era decisamente giallo il becco del pappagallo del mercatino di Enzo
Il dibattito sulla scelta dello standard rimandava in realtà alla scelta da parte dell'Italia a
quale area dell'Europa agganciarsi: se quella più sociale della Francia (standard Secam) o quella
siderurgica ed economicamente più forte della Germania (sistema PAL). Un dibattito, lungo,
controverso e a tratti surreale. Il PAL (Phase Alternation Line) sarà adottato dalla maggior parte dei
Paesi, Italia compresa. Il SECAM (Sistème Electronique Couleur Avec Memoire) sarà invece usato in
In Italia la Democrazia Cristiana con Amintore Fanfani spingeva per il sistema francese
mentre Ettore Bernabei, direttore generale della Rai e suo uomo di fiducia, era convinto della
superiorità del PAL. Una delle tante leggende, non tutte veritiere, attorno alla televisione racconta
che per ovviare all’impasse Bernabei sarebbe ricorso a una idea ingegnosa: in occasione delle
Olimpiadi di Monaco (1972) fece allestire nel salone più importante della sede Rai due file di
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televisori, una che trasmetteva in PAL e l’altra in SECAM. La differenza fu evidente e la Rai si orientò
sul PAL.
Tuttavia perché la televisione a colori diventasse realtà bisognerà attendere altri cinque
anni perché l’introduzione fu osteggiata da Ugo La Malfa, segretario del Partito Repubblicano, e
dal Pci – insieme alla Cgil - che consideravano la televisione a colori un lusso che gli italiani non si
potevano permettere: una visione arcaica sia dell’economia che dei gusti degli italiani. Queste
incertezze portarono comunque al fallimento dell’industria elettronica italiana, come abbiamo già
accennato: nessuno comprava più televisori in bianco e nero ma non poteva ancora vendere
televisori a colori.
Uno dei generi che beneficiarono della introduzione del colore fu lo sport: le maglie dei
rinnovato appeal. Parallelamente alla tv a colori, nel ’77 nelle case degli italiani si diffuse il
telecomando, già in commercio da due anni: venduto in dotazione con i nuovi apparecchi, dava
La Rai iniziò le prove tecniche del colore al mattino, con una serie di immagini statiche a
Nel 1976 fu la volta delle Olimpiadi di Montreal e dei “Quaderni neri del Tg2”, primo
programma parzialmente a colori, un mix di riprese a colori in studio e filmati d’archivio in bianco e
nero.
Domenica In.
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introducendo via via la nota del colore tanto atteso. Le sigle di inizio e fine trasmissioni erano
colorate. Anche le italiche vedute dell’Intervallo ricevettero una nota di vivo colore, prima di
Il vecchio monoscopio (l'immagine fissa messa in onda per verificare la qualità tecnica
della trasmissione) rigorosamente in bianco e nero sparì definitivamente e poco per volta il colore
si estese anche alle pubblicità (dal gennaio 1978) e a tutti gli altri programmi, da quelli di
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3. Portobello
televisive. Ancora oggi è possibile trovare tracce di Portobello in vari programmi odierni, dai quiz ai
reality, e in generale quando la gente comune è resa protagonista Qui, forse, sta il vero segreto del
successo che per anni ha accompagnato la trasmissione: l’idea di partire dall’umanità del
pubblico, per creare un appuntamento che raccontasse l’Italia, magari con un pizzico di
buonismo, giustificato dai tempi bui di allora e dalla voglia di distrazione e leggerezza. Scriveva il
giornalista Luca Goldoni sul “Corriere della Sera” nel 1977: “Trasmissioni come Portobello ci
mostrano, in fondo, quella che è ormai definita l’altra Italia. L’altra Italia siamo un po’ tutti noi che -
nonostante le P38, i sequestri, i piani eversivi, le rapine, le evasioni, i conflitti a fuoco, gli attentati
alle istituzioni o alle arterie femorali dei giornalisti - riusciamo nella sfera privata a vivere quasi
Le rubriche del programma, scritte dallo stesso conduttore e anchorman Enzo Tortora (un
interprete eterodosso del giornalismo), hanno ispirato più o meno direttamente molte trasmissioni
degli anni successivi, da Chi l’ha visto a Carramba che sorpresa, da Il gioco delle coppie a
invenzioni, dalle più utili alle più curiose; come una eBay ante litteram essa proponeva un
marketplace in cui era possibile vendere e scambiare oggetti insoliti o rivoluzionari. C’era un
centralino, anzi un "Centralone", con tanto di cabine per gli inserzionisti in cui esordiscono
personaggi come Paola Ferrari, Susanna Messaggio, Federica Panicucci e soprattutto Renée
Longarini, già attrice con Fellini e Germi. Il Centralone era esibito come un arredo della trasmissione
e regolava l’ingresso e l’uscita dei vari numeri e del relativo pubblico. Ma era possibile anche
cercare persone scomparse (rubrica "Dove sei"?), ritrovare amici o amori perduti, e persino trovare
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Il programma sembrava uscito dalle pagine locali dei quotidiani di provincia: esprimeva
un’Italia operosa, creativa, a volte geniale. Enzo Tortora, con la sua bonaria ironia, si muoveva
divertito nel mercatino del venerdì, tra le belle centraliniste e le mille invenzioni che arrivavano da
ogni parte d’Italia. In ogni puntata venivano infatti presentati degli inventori con le loro invenzioni
un po’ bizzarre (il cono antisgocciolo, la scheda elettorale circolare, le biciclette pazze e la sveglia
che buttava la persona giù dal letto sono alcune di quelle idee).
Quella che è entrata nella storia della televisione è senza dubbio la vicenda di un anonimo
e fino ad allora sconosciuto guidatore di autobus di Milano: “Io sottoscritto Piero D. studioso di
come far sparire la nebbia nella valle Padana, per sempre!”. L’idea era quella di spianare il monte
Enzo Tortora insieme alla sorella Anna e al pubblicitario Angelo Citterio crearono la prima
piazza televisiva tra retorica, passione, lacrime, esibizionismo, verità: tutti ingredienti della tv
popolare e che sono gli stessi che scandiscono i successi dei programmi di oggi.
Tuttavia, nonostante questa sua funzione seminale rispetto alla neotelevisione e alla
numerosa prole (non tutta legittima) che la trasmissione ha avuto, Portobello non è stato
meticciato che da esso ha generato i programmi che andranno a costituire la “tv realtà” prima e
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Anna Bisogno - La neotelevisione
Indice
1. LE ORIGINI............................................................................................................................................... 3
2. C’ERA UNA VOLTA LA PALEOTELEVISIONE ............................................................................................ 7
3. LE FASI DELLA NEOTELEVISIONE ............................................................................................................. 9
BIBLIOGRAFIA................................................................................................................................................ 11
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1. Le origini
Nel 1983 Umberto Eco in un articolo per “L’Espresso” coniava un termine che avrà fortuna,
“neotelevisione”. Essa nasce, secondo Eco, “con la moltiplicazione dei canali, con la
della concorrenza, un effetto combinato – per esprimerlo in termini propri della situazione italiana -
Per la verità Eco parla ancora di una “neo Tv indipendente” locale e provinciale, che
orologiaio di Piacenza, mentre un presentatore di Piacenza fa battute grasse sulle tette di una
signora di Piacenza che accetta tutto per essere vista da quelli di Piacenza mentre vince una
pentola a pressione.” Questa televisione provinciale e paesana non sarebbe durata a lungo, Eco
però aveva colto benissimo che il tempo televisivo era cambiato definitivamente. “La televisione
americana, per cui il tempo è denaro, imposta tutti i suoi programmi sul ritmo, un ritmo di tipo jazz.
La Neo Tv italiana mescola materiale americano a materiale nostrano (o di paesi del Terzo Mondo,
come la telenovela brasiliana) che hanno un ritmo arcaico. Così il tempo della Neo Tv è un tempo
spettatore può imprimere il proprio ritmo selezionando istericamente col telecomando. Avete già
due volte la stessa notizia, e mai quella che state attendendo. O a introdurre una torta in faccia
nel momento in cui la vecchia mamma muore. Oppure a spezzare la gimkana di Starsky e Hutch
con un lento dialogo tra Marco Polo e un bonzo. Così ciascuno si crea il suo ritmo e si vede la
televisione come quando si ascolta una musica comprimendoci le mani sulle orecchie, e
decidiamo noi cosa debbono diventare la Quinta di Beethoven o la Bella Gigugin. La nostra serata
televisiva non racconta più storie complete. È tutta un ‘prossimamente’. Il sogno delle avanguardie
storiche.”
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- per ragioni sociali: la radiotelevisione di stato è una gabbia troppo stretta per l’evoluzione
del costume;
- per ragioni economiche: adesso in Europa c’è mercato sufficiente per la pubblicità
televisiva; la grande distribuzione preme per poter diffondere rapidamente in tutto il paese i nuovi
prodotti)
La selezione frenetica sul telecomando si sarebbe presto chiamata “zapping”. Prima che il
convergevano nell’indicare un aumento nella possibilità di scelta, cioè del potere, dello
spettatore.
deve sostanzialmente venire a patti con lui, prendendo atto che il suo potere non è assoluto. Si
tratta insomma di stabilire un progressivo “patto comunicativo” tra l’emittente e ogni singolo
elemento del pubblico. Naturalmente ogni proposta di patto è in concorrenza con ciò che gli altri
Raymond Williams, uno studioso britannico di letteratura che era anche critico televisivo per
il settimanale della BBC, durante un viaggio in America arrivò alla conclusione che nella televisione
delimitati, composti in un laborioso dosaggio tra generi che tutti concorrevano all’elevazione dello
spettatore, ma piuttosto un flusso continuo di brevi sequenze, e questo flusso era l’essenza
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partita alla tv", l’entrare in sempre nuovi programmi, la difficoltà a spegnere l’apparecchio.
totalmente diverso da ciò che era solito vedere. “Quando ci trasferimmo a Dublino, per un mese
guardai la televisione inglese con la stessa perplessità e con lo stesso stupore e frustrazione. Non
valeva molto la pena di guardare la televisione. I programmi, invece che ad orari prevedibili,
venivano mandati in onda a caso. Le serie sembravano durare solo poche settimane, e proprio
dal palinsesto. Il telegiornale andava in onda nel bel mezzo della serata, né prima, né dopo. La
programmazione o la scaletta delle trasmissioni aveva poi le sue peculiarità; un film in prima serata,
seguito dalla produzione inglese In Search of the Wild Asparagus, quindi una situation comedy e
Adesso questi d