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STORIA DEL CAPITALISMO

DAL RINASCIMENTO ALLA NEW ECONOMY

«L’errore più grave consiste […] nel sostenere che il capitalismo è un “sistema economico” e basta, mentre esso si
nutre dell’ordine sociale». Dunque non si tratta di uno studio meramente economico, ma
soprattutto di una riflessione sull’impatto dell’economia sulla società.

La lunga marcia del capitalismo comincia con gli scricchiolii nel sistema feudale, da attribuire
ad una ripresa del commercio e alla affermazione di realtà comunali e nazionali, e dunque di
una prima razionalizzazione delle ricchezze accumulate.

Le prime tappe furono la conquista ed il saccheggio delle Americhe e l’affermazione della


borghesia calvinista. Dopo le grandi scoperte geografiche di Cristoforo Colombo e Magellano,
la Spagna godette a lungo delle ricchezze dategli dall’America, anche se questo enorme
afflusso d’oro e d’argento tuttavia scatenò una spirale inflattiva e notevoli disordini finanziari.

È questo il motivo per cui vi fu il dilemma del rapporto tra la quantità di metalli preziosi e
l’andamento dei prezzi reali. Alcuni suggerirono di mitigare la situazione con politiche
economiche protezionistiche, che non furono comunque adeguate; altri proposero una nuova
formula: produrre di più e ridurre le importazioni.

In ambito politico, il declino spagnolo è segnato dalla Guerra dei Trent’anni, che fanno
spazio a nuove potenze nascenti: la Francia, l’Olanda e l’Inghilterra.

Il XVIII secolo, registra progressi negli scambi, nella produzione e, di conseguenza, un


aumento dei prezzi e della popolazione.

Dal punto di vista geopolitico assistiamo ad un rafforzamento del capitalismo coloniale,


mercantile e manifatturiero in Inghilterra. Altrove permane uno stato di mercantilismo che non
riesce ad evolvere a causa delle rivalità tra le grandi potenze europee.

La presenza inglese in America del Nord, spazzata via la concorrenza europea, si spinge ad
ovest, e decreta una lunga serie di battaglie con gli indiani nativi Cherokee. Pitt (Primo
ministro Britannico) continuerà la propria azione di governo esercitando pressioni sempre
maggiori sulle libertà commerciali delle colonie, portando prima al boicottaggio e poi alla
famosa rivolta di Boston.

La rivolta dei neonati Stati Uniti d’America (1776) non può che ricevere la solidarietà, ma
soprattutto il sostegno militare di francesi, spagnoli e olandesi che coglieranno l’occasione per
indebolire l’egemonia inglese.

L’Inghilterra, nonostante le crescenti tensioni coloniali, dalla nascita della Banca d’Inghilterra e
di altre banche, le potenzialità degli scambi quintuplicarono, ed il PIL quadruplicò.

Gli Enclosures Acts scacciano contadini poveri da terreni su cui vengono applicati metodi di


coltivazione più moderni; si da il via ad una nuova forma di produzione: la fabbrica; e la
nascita della classe operaia.

Cantillon, Hume e Smith sottolinearono come la politica liberale potesse mettere in moto una
mano invisibile, capace di dare ricchezza a tutti.

Gli anni tra il 1790 ed il 1815 corrodono, naturalmente, le vecchie logiche e la classe nobile.
Citando Godwin e Malthus, l'autore mette a confronto due interpretazioni significativamente
distanti: il primo denuncia la disuguaglianza, che conduce il lavoratore a subire uno
sfruttamento sproporzionato; il secondo punta il dito contro i costumi sessuali della classe
proletaria. Comincia, ad ogni modo, una riflessione profonda sulla condizione armonica o
conflittuale delle due nuove classi: capitalisti ed operai.

Il capitalismo, in quanto fenomeno di nicchia, viene applicato nei settori di punta delle nazioni
maggiormente sviluppate. La concentrazione della produzione industriale, in crescita evidente,
è netta.

La prima grande manifestazione delle crisi di fu il periodo che va dal 1873 al 1895, la
cosiddetta Prima Grande Depressione. Essa si diffuse in tutta Europa e negli Stati Uniti a
seguito del crollo di settori di punta delle nazioni più ricche.

L’evoluzione di cui erano state protagoniste le macchine e la tecnologia non aveva ancora
trovato uno steady state (“soffitto”), ma un’ulteriore spinta in avanti fu data dall’applicazione
della scienza nel campo dell’organizzazione del lavoro.
Nuove tecniche, come la catena di montaggio, diedero all’operaio mansioni precise, movimenti
coordinati in un sistema elaborato per ridurre al massimo tempi morti, sprechi,
approssimazione.

Sorgono poi molti colossi industriali e finanziari.

Tra le banche Deutsche Bank, Dresdner Bank e Diskonto Bank dominano la scena tedesca,
mentre da una parte Morgan e dall’altra Rockefeller gestiscono la First National Bank e la
National City Bank negli States.

Lenin scrive in quegli anni “L’imperialismo, stadio supremo del capitalismo” per descrivere una
situazione di proprietà dove il capitale finanziario mira alla gestione di aree economiche quanto
più vaste possibili, e sfrutta la propria posizione dominante nel contesto nazionale.

Il secondo decennio del nuovo secolo è pregno dell’imprevedibilità e della ciclicità tipica del
capitalismo, che ha ormai preso piede. Molte monete troveranno la convertibilità intorno agli
anni ’30.

A tali spinte nazionalistiche seguì una scossa finanziaria di proporzioni inedite, i giorni del crollo
della borsa di New York (24-29 ottobre 1929), con immaginabili effetti sull’occupazione e sulla
vita di milioni di persone.

Il successivo periodo, compreso tra il 1945 ed il 1978, diede ancora una volta l’espressione
concreta di questa fenice autodistruttiva, ma pronta a rinascere più forte di prima, si assiste
infatti ad una nuova spinta in avanti del capitalismo, stavolta davvero su scala mondiale. Gli
Stati Uniti godono ora di una supremazia economica.

In ambito finanziario, gli accordi di Bretton Woods (1944) consacrano il dollaro come nuova


valuta di riferimento, mentre la sterlina viene detronizzata. Nel settore industriale gli USA
producono il 33% delle ricchezze mondiali, controllano militarmente zone strategiche, e per
giunta hanno un’enorme peso politico sui paesi europei.

Il mondo collettivista, secondo il volere di Stalin, attua uno sforzo di industrializzazione che
consente all’URSS di aumentare del 71% la produzione industriale.

Discorso a sé va riservato ai processi di decolonizzazione, per la definizione di un terzo


mondo che rivendica la propria libertà: “dall’amministrazione e dallo sfruttamento. Una libertà
comunque condizionata dalla disparità incolmabile con i paesi dei primi due mondi.
I ritmi di crescita di entrambi i blocchi sono dovuti ad uno sforzo extra richiesto alla classe
lavoratrice, che in cambio di un’intensificazione del lavoro, riceve ricompense. Tali progressi
danno ottimismo ai maggiori economisti.

Il boom americano comincia a scemare con l’avvicinarsi degli anni Settanta: le eccedenze
produttive diminuiscono inversamente proporzionali alla competitività europea e giapponese, e
la Guerra in Vietnam grava sensibilmente sulla bilancia dei pagamenti USA.

Nel 1973, proprio la mancanza di una valuta dominante, determina un disordine dei sistemi
monetari.

Beaud prosegue il suo saggio con un’analisi della gerarchia imperialista, classificando i paesi
come imperialismi dominanti, di sostegno, paesi d’appoggio e altri paesi. Ognuno di questi
“gradi” ha requisiti geopolitici ed economici da rispettare in un quadro dinamico, ma che
ribadisce sempre la centralità degli Stati Uniti (“Un centro multipolare”). L’urbanizzazione e
gli investimenti nelle periferie segnala una volontà di sfruttare appieno le possibilità della forza
lavoro mondiale, fino a giungere all’emergere dei più grandi bacini di forza-lavoro presenti sul
pianeta, l’India e la Cina. Le interazioni asimmetriche delle potenze, che intrecciano
investimenti, guerre e uomini nelle realtà più disparate del globo, comunque, danno un’idea
del fatto che i rapporti potrebbero invertirsi.

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