di GIUSEPPE ROTONDO
Secondo un diffuso modus operandi, si è soliti contrapporre tra loro i vari rappresentanti della
filosofia greca antica, senza neppure tentare di individuarne un barlume di unità. A dire il vero
tale atteggiamento non è applicato esclusivamente all’interpretazione del pensiero greco, ma
rimanda ad un più ampio e generale tentativo di ridurre la storia della filosofia a quella che
Hegel definiva “filastrocca di opinioni”: un flusso storico di concezioni erudite che si susseguono
relativisticamente una dopo l’altra, prescindendo dal contesto storico e socio-politico di
riferimento. Ciò conduce alla remissiva consapevolezza che la filosofia non abbia alcuna
pretesa di verità, poiché se non vi è un orizzonte comune ai diversi pensatori di una data epoca,
allora la storia smarrisce il suo significato. Questa specie di relativismo storiografico è
particolarmente evidente nella ricostruzione della tradizione filosofica greca prodotta dalla
corrente manualistica. La maggior parte dei manuali tende oggi a proporre una visione
caricaturale dei filosofi antichi, giustapponendoli uno dopo l’altro e operando confronti e
paragoni di ogni sorta, prescindendo però dalla cifra storica e culturale che in realtà li
accomuna. Si tende ad esempio ad ignorare che la maggior parte dei pensatori greci rifletteva
sulle varie tematiche filosofiche avendo come proprio riferimento il contesto socio-politico della
polis e più in generale della comunità politica, intesa come unico e naturale luogo di
realizzazione della felicità individuale. Il comunitarismo è infatti un elemento centrale nel
pensiero greco, che accomuna pensatori certo differenti tra loro nei contenuti, ma non nella
forma generale. E’ il caso della ubiquitaria distinzione e contrapposizione tra due dei più grandi
filosofi della tradizione occidentale: Platone e Aristotele. E’ infatti molto gettonata tra gli addetti
ai lavori, ma non solo tra essi, la tesi per cui il realismo ontologico di Aristotele sarebbe
completamente antitetico rispetto all’idealismo “bimondano” di Platone e che in maniera ancor
più radicale la contrapposizione tra idealismo e realismo sarebbe la sola veramente valida per
l’intera storia del pensiero occidentale. In questo modo, pur evidenziando una differenza non
certo secondaria, si è però indebitamente oscurata la comune matrice che caratterizza tanto la
filosofia aristotelica quanto quella platonica e più in generale tutta la filosofia antica: “Nella
frattura che si consuma con il passaggio da Platone ad Aristotele è possibile leggere un
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La filosofia aristotelica e i caratteri di un anti-capitalismo ante litteram
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elemento di continuità che permane stabilmente e che costituisce lo “sfondo comune”: si tratta
del mantenimento aristotelico dell’etica platonica incentrata sulla “virtù” come metròn in grado di
equilibrare i due poli opposti dell’illimitatamente piccolo e dell’illimitatamente grande.” [1]
Questa precisazione, oltre a rinvenire nel ricorso al metròn e alla misura il tratto saliente della
filosofia greca, ci permette di passare brevemente in rassegna i caratteri che rendono il
pensiero aristotelico non conciliato con il presente Spirito del Tempo, che potremmo
fichtianamente definire “Epoca della compiuta peccaminosità”. Si può infatti facilmente
comprendere che il principio del metròn prima menzionato, che è cardine dell’etica aristotelica,
sia incompatibile con l’odierna società capitalistica dell’illimitatezza, fondata sull’illimitata
valorizzazione economica del valore: il giusto mezzo è per Aristotele non soltanto un principio
su cui conformare la corretta azione etica superando il vizio nella virtù, ma è anche il valore
fondante della comunità politica. Per Aristotele la polis per poter correttamente funzionare deve
infatti avere una dimensione ed una popolazione media e fondarsi sul ceto che più di ogni altro
è decisivo per il benessere della comunità: la classe media. Ancora una volta la non
compatibilità di Aristotele con il nostro tempo risulta palese: oggi assistiamo infatti alla tragica
decomposizione del ceto medio a causa delle logiche di profitto di una cerchia ristretta di grandi
multinazionali ed entità finanziarie, che fondano la loro esistenza sulla valorizzazione illimitata
del capitale. L’illimitatezza diviene dunque, in antitesi allo spirito greco e aristotelico del metròn,
il fine ultimo della comunità sociale.
D’altra parte è stato lo stesso Aristotele a mettere in atto una distinzione fondamentale ancora
oggi, sia a livello filosofico che nel pensiero economico. Egli contrappose all’economia, ossia la
gestione dei beni della casa (oikos), da utilizzare per soddisfare i bisogni del nucleo famigliare,
la crematistica, ossia il mondo economico esterno a quello famigliare, caratterizzato dal “valore
di scambio” delle merci e dal commercio. Per Aristotele, e qui vi è l’elemento centrale per la
comprensione e la critica del nostro tempo, la crematistica è legittima soltanto se amministrata
in vista dell’oikos, ossia al fine di sostentare la famiglia e i suoi bisogni finiti. Se invece la
crematistica viene considerata come un fine in sé, ossia finalizzata al mero profitto economico,
essa diviene eticamente deprecabile. In questo caso infatti, lo scambio di beni finalizzato alla
valorizzazione economica innesca un circolo vizioso ed infinito che non conduce alla felicità,
che per Aristotele è ottenibile solo esercitando la virtù, che è sempre un proponimento finito.
E tra le virtù più significative vi è per Aristotele quella politica. L’uomo è infatti per Aristotele un
animale politico e comunitario: l’essenza umana, ciò che distingue l’uomo dagli altri animali sta
nella sua tendenza alla socialità e solo in un contesto socio-politico l’uomo può perseguire i suoi
fini e raggiungere la felicità. Si noterà che l’antropologia aristotelica risulta ancora una volta
contrapposta a quella del nostro tempo: l’individualismo e l’atomismo sociale caratterizzano la
nostra società di mercato, in cui l’interesse individuale dell’accrescimento economico e della
realizzazione personale si contrappongono al benessere generale e vengono racchiusi in
un’etica fortemente egoistica e competitiva.
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