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Diego Cugia

UN AMORE ALL'INFERNO

© 2005 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano


Indice
1. La tramontana
2. Un senso a questa sera
3. Un essere speciale
4. La ragazza della pioggia
5. Cronaca di un suicidio annunciato
6. Per le antiche strade
7. Un amore borghese
8. Nel nome del padre
9. Il giglio nero di Firenze
10. La stanza chiusa a chiave
11. La Madonna Addolorata
12. Un mostro perbene
«Mi sorprendeva molto che ci fosse questo contadino, il Pacciani, che avesse fatto questo lavoro di
anatomia, di macelleria raffinata; e la presenza di qualche altra — chiamiamola così — personalità,
veniva un po’ da sé.
Ora si leggono le rivelazioni.
C’è questo livello che non chiamerei alto, piuttosto, segreto. Sono sempre stato colpito dalla
presenza dell’oscuro, dell'irrisolto, da questo grumo di male non razionalizzato, non salito alla
ragione, alla coscienza, anche in un posto così civile, così celebrato per la sua bellezza, ma anche
per la sua razionalità, che è Firenze.»

MARIO LUZI, poeta. Senatore a vita della Repubblica

«Io sono ciò che voi avete voluto che fossi.»

CHARLES MANSON, assassino di Sharon Tate-Polanski

Salvami, o Dio mio, perché le acque


sono penetrate fino all’anima mia.

Salmi 68,2
1. La tramontana

In una notte senza luna, un bambino fluttua sul cuore di tenebra della Toscana, appare e scompare
levitando sopra il canneto come una statuina in processione o un piccolo principe adagiato su un
tappeto volante. Non è un miracolo, anche se Natalino custodisce un segreto che il mondo ignora e
le autorità inquirenti daranno l'impressione d'insabbiare per trent'anni. Lui sa chi è stato a
impugnare la pistola del mostro di Firenze perché sta andando a cavalluccio dell'assassino nel blu
incantato della campagna di Lastra a Signa. Non sogna più, il male l'ha svegliato. Natalino ha
scoperto il suo volto e la sua voce, tenera e beffarda come un bacio alternato a un colpo di pugnale:

… Quello che adesso vi dirò


per farvi ridere un po'
non è invenzione ma
è la verità...

A mezzanotte passata del 21 agosto 1968, il mostro ha ucciso la mamma e il suo amante
nella Giulietta Alfa Romeo bianca posteggiata fra le canne e le erbacee, poco distante dal cimitero,
poi se l'è caricato sulle spalle a piedi nudi perché le sue scarpine erano rimaste seppellite in
macchina, e lungo il sentiero gli sta cantando l'ultimo successo di Sanremo, La tramontana di
Antoine:

… Mi piaccion nere, mi piaccion bionde


mi piaccion tutte le donne al mondo
e per il pizzo di una sottana
perdo sempre la tramontana
l'ho perduta e la perderò...

Il giorno prima, all'alba, i carri armati del Patto di Varsavia hanno invaso Praga. Il Primo
ministro, Alexander Dubcek, è stato arrestato, i ribelli sognatori che avevano osato coniugare
socialismo e libertà sono stati sconfitti dal mostro di ogni politica progressista: la dittatura.
A Città del Messico, l'esercito ha sparato con i bazooka sugli studenti in rivolta. A Milano, il
7 giugno, la polizia si è scontrata con migliaia di giovani contestatori sotto la sede del Corriere della
Sera". La "battaglia di via Solferino" ha sconvolto il Paese. Blocco delle strade, lacrimogeni,
cariche della polizia, barricate, feriti. Era il Sessantotto. Nessuno si sarebbe più sentito sicuro di
tutto quello in cui aveva creduto.
Natalino queste cose non le sa. È un bambino di soli sei anni e otto mesi. Suo padre, Stefano
Mele, muratore, chiede scusa ogni volta che respira. Sua madre, Barbara Locci, l'hanno
soprannominata l'Ape Regina per la moltitudine di maschi in fiore sui quali si posa la sua famelica
sessualità. Sono così tanti gli amanti che ronzano attorno alla mamma che a Natalino vengono
presentati familiarmente come "gli zii". Il babbo li teme e li venera, presta loro denaro che non ha,
ci gioca a carte, li mette uno contro l'altro, fa con loro persino l'amore e ci beve sopra un bicchiere,
mescolando il rosso della vergogna nel rosso del vino.

… Da quando il vento mi ha sussurrato


che lei va in giro col carrarmato,
da quando ho visto che fa l'indiana
ho perduto la tramontana
l'ho perduta seguendo lei...

Quella sera il babbo si è nascosto a letto, dandosi malato. Per distrarsi, Natalino e la mamma
sono andati al cinema con l'ennesimo zio, Antonio Lo Bianco, muratore ventinovenne siciliano,
anche lui coniugato. Hanno visto Il diavolo con Alberto Sordi rappresentante di pellicce in
Scandinavia, alla scoperta della libertà sessuale dei paesi nordici.
Barbara non ha bisogno di un film per allentare i propri freni inibitori. È disposta a fare
l'amore sulla Giulietta di Antonio con il bambino a bordo. Usciti dal cinema, gli amanti si dirigono
verso il cimitero e parcheggiano l'Alfa Romeo nel canneto con i fari rivolti al torrente. Il giovane
muratore li spegne: «Hai visto, Natalino? La macchina ha chiuso gli occhi perché aveva sonno.
Dormi anche tu.» Per compiacerli, come ha imparato dal padre, Natalino si raggomitola obbediente
sul sedile posteriore, serra le palpebre, immagina di essere un bambino felice.

… E invece io son qui che soffro,


son qui che lotto tra il bene e il male
e per il filo di quella lana
ho perduto la tramontana
l'ho perduta seguendo lei...

Il mostro canta per distrarlo dagli spari e dalle grida che hanno incendiato i suoi sogni.
Quattro colpi di una Beretta calibro 22 dal lato guidatore, quattro dal finestrino del passeggero, tutti
esplosi contro il sedile reclinato dove l'Ape Regina era calata sul suo ultimo fiore. Otto flash per
immortalare la fotografia di una coppia d'amanti sospesi fra cielo e terra in un orgasmo
infinitamente rubato.
L'uomo che canta è lo stesso che ha ucciso? Un estraneo gentile o uno dei suoi zii? Era solo
o in compagnia di altri mostri? Ormai l'inconscio di Natalino si è riavvolto come una pellicola
imbrattata dal sangue materno. Sullo schermo della memoria, nelle aule giudiziarie, proietterà solo
macchie.
Alle due di notte, il bambino plana sotto un casolare sperduto nell'inferno degli adulti. La
mano dell'omicida lo posa in terra a Sant'Angelo a Lecore, a due chilometri dal corpo senza vita
della mamma, poi annunzia il suo arrivo al campanello e svanisce.
Uno sconosciuto si sveglia di soprassalto al piano di sopra, accende la luce, si affaccia sul
lampione che ritaglia una esile sagoma d'oro nella penombra di via Vingone.
«Aprimi la porta che ho sonno e il babbo ammalato a letto. Dopo mi accompagni a casa
perché c'è la mi' mamma e lo zio che sono morti in macchina.»

Tutto questo accadeva trentasei anni fa. Il bambino che ha visto il mostro di Firenze è ancora
vivo. L'ultima coppia di sedici amanti uccisi dalla Beretta calibro 22 è stata assassinata l'8 settembre
1985. Le vittime correlate sono più del doppio. Anche il mostro non era solo. Ma nessuno ha mai
scoperto chi cantò a Natalino la ninna nanna della sua infanzia negata.

… Da quando il giorno non è più giorno,


da quando il sole non è più sole,
da quando l'alba si è fatta strana
ho perduto la tramontana
l'ho perduta e la perderò.

A un paio d'ore di macchina dalla scena del delitto, ma a un'infinita distanza sociale,
Francesca inserisce nel mangiadischi La tramontana per scacciare la paura. Il problema più arduo
da risolvere in un incubo è capire quando ricomincia la realtà: per un bambino è impossibile.
Francesca è poco più grande di Natalino, una bambina di neanche otto anni dagli occhi
malinconici e la coda di cavallo. Appena sveglia, non ancora consapevole di esserlo, si è nascosta
nelle lenzuola ficcando la testa sotto la federa per spiare di nascosto fra il cuscino e il cielo. Ma il
cocchio funebre, trainato da quattro puledri col pennacchio nero, continua a fluire sulle nuvole,
plana minaccioso sui tetti e i campanili di Perugia per venire a prenderla, sobbalza come il bimbo
sulle spalle del mostro.
«Papà, aiuto, ho paura!»
Francesca abbraccia il mangiadischi rosso mandandolo a tutto volume, ma il padre non la
soccorre, la canzone dell'incubo le aumenta l'agitazione, il vento sbatte le imposte, forse è il mostro
che picchia sul vetro.
Meglio Patty Pravo:

Tu mi fai girar, tu mi fai girar


come fossi una bambola...

Il mangiadischi espelle il 45 giri con una smiagolata. «Sei matta? È l'una e mezzo di notte,
sveglierai le sorelline.» Il padre la riporta a letto a cavalluccio.
L'uomo dei suoi sogni si chiama Gianni Spagnoli, ha 47 anni, quattro figlie, al contrario del
mostro è bello come un attore. In più possiede una fabbrica di dolci: il paradiso per una bambina.
Per addormentarla, le fa assaggiare la merendina che diventerà il mito di una generazione nascente,
quella dei figli delle mamme che lavorano e non hanno più il tempo di preparare la colazione.
Francesca scarta l'invenzione con la severità del giudice che sfoglia gli atti di un processo.
Assaggia il cornetto sempre fresco ripieno di marmellata. Si addormenta indecisa su quale dei due
sia il più dolce, se il "Fruttosello Spagnoli" o il bacio della buonanotte di suo padre.
2. Un senso a questa sera

Barberino di Mugello, Hotel Dei Medici, sabato 27 novembre 2004, trentasei anni dopo.

La signora dai capelli bagnati e lo sguardo smarrito posa in terra la borsa da viaggio, poi si volta a
controllare la porta d'albergo come se la pioggia la stesse seguendo.
«Avete una singola libera per una notte?»
Il portiere finge di spuntare sul registro le camere occupate, perché l'hotel a ridosso
dell'autostrada è vuoto. Sceglie una chiave dal quadro, la porge chiedendole un documento, ma la
signora ha in braccio due enormi album di fotografie.
«Posso aiutarla?»
Lei indietreggia: «Non fa nulla». Stringe gli album al petto come fossero i figli. Riesce ad
afferrare le chiavi con la punta delle dita. «La carta d'identità è nella borsa. Salgo in camera, poi
gliela porto. Prima sarebbe possibile avere un caffè?»
Il portiere le fa strada fino al bancone del bar. Passi e sussurri nella sala deserta rivitalizzano
gli antichi colori delle tappezzerie stinte. Mi chiede se desidero un altro aperitivo. Gli rispondo di
no, sto bene così, anzi credo che seguirò il suo consiglio, proverò quel ristorante, comesichiama, il
Cosimo de Medici. Mi alzo dalla poltrona sperduta sul fondo del bar, accenno un inchino alla
sconosciuta, lui accende la radio.
Vasco Rossi sta cantando:

Voglio trovare un senso a questa sera


Anche se questa sera un senso non ce l'ha...

Il portiere alza la voce sulla musica: «Anche lei è scappata dall'autostrada come il signore?
Altro che chicchi. Questa roba ammacca le carrozzerie. Mai vista una grandinata così».
Lei posa gli album sul bancone, si passa una mano nei capelli fradici, lascia sul cuoio una
carezza di pioggia, mi guarda di sfuggita. Ha circa quarant'anni, bruna, elegante, ben fatta. La sua
bellezza è completamente illuminata dall'ombra. Una donna di una disperazione sensuale, vissuta
senza trucchi, assoluta.
Il portiere ci esamina nello specchio. Questa notte saremo i soli clienti dell'hotel. «Davvero
voi due non vi conoscete?» gli scappa detto.
Mi presento anche per toglierla dall'imbarazzo. Ascolta attenta il mio nome e cognome
senza dire nulla, tantomeno il suo. Ha una stretta di mano forte, lo sguardo assente. Qualcuno la
chiama con insistenza al cellulare. Quando risponde, riattaccano. Il portiere le serve il caffè e si
allontana di corsa: adesso il telefono che suona è quello del centralino.
Mi avvicino per scambiare due parole. Lei osserva incantata la vetrina dei dolci sciogliendo
con lentezza lo zucchero nella tazzina. Prima ancora di conoscermi sembra avermi già dimenticato.
Sceglie un cornetto di quelli confezionati.
«Cena con così poco?»
Lo ripone nella vetrina come se l'avesse rubato: «Stavo solo leggendo la busta.»
«Notizie interessanti?»
«Per me sì. La mia famiglia aveva un'azienda di dolci.»
«Tutto si spiega. Che tipo di dolci?»
«Mio padre aveva inventato un cornetto alla marmellata in busta come quello. Li produceva
qui vicino, a Sambuca Val di Pesa. Poi l'hanno copiato tutti.»
«Succede spesso anche nel mio lavoro.»
«Io lo so che lavoro fa lei. Anni fa ascoltavo un suo programma alla radio. Mi scusi se prima
non mi sono presentata, ma sono strani giorni: Francesca Spagnoli.»
Il portiere ci squadra perplesso, forse perché stiamo dandoci la mano per la seconda volta.
«Hanno chiesto di lei, signora. Se pernottava in albergo. Quando ho risposto che venivo a
chiamarla, hanno messo giù.»
«Ha detto chi era?»
«No»
«Uomo o donna?»
«Non saprei.»
«Che cosa significa?»
«Gli era una brutta voce» risponde con accento toscano.
Lei mi guarda impaurita: «Nessuno poteva sapere che ero qui». Raccoglie gli album dal
bancone. «Prima il telefono sotto controllo, ora mi seguono. Non ne posso più.» Si rivolge al
portiere: «Io salgo in camera».
«Chi la segue?» le chiedo.
Guarda dalla finestra per evitarmi o per controllare se la tempesta è cessata, in ogni caso sta
pensando di andarsene.
«Non lo so.»
I versi della canzone si sciolgono in quelli della pioggia:

… Voglio trovare un senso a questa storia


Anche se questa storia un senso non ce l'ha...
Voglio trovare un senso a questa voglia
Anche se questa voglia un senso non ce l'ha...

«Mi diceva di suo padre» insisto per non far cadere la conversazione. Trasalisce come se ne
avessi interrotta un'altra invisibile. Si siede sul bracciolo di una poltrona. Mi racconta che quella
dolciaria è una passione di famiglia. Sua bisnonna Luisa era stata l'amante di Giovanni Buitoni: uno
scandalo sentimentale ma anche l'affare più dolce del secolo. I due amanti fondarono la Perugina e
si inventarono i Baci, i famosi cioccolatini avvolti nelle parole d'amore. Accenna alla montagnola
argentata in trionfo alla cassa.
«E com'è finita?»
«Troppa dolcezza ci ha portato sfortuna. Mia bisnonna si lasciò morire giovane, di tumore.
Mio padre ha chiuso l'azienda. E io non sono molto fortunata in amore.» Non aggiunge altro, ma
continua a muovere impercettibilmente le labbra come se qualcuno, dentro di lei, l'avesse interrotta
per chiederle una spiegazione. L'accompagno. La sua coscienza si accende e si spegne in modo
simile al quadro comandi dell'ascensore: quando è assente lo sguardo s'illumina, e viceversa. Mi
attrae questo stare al mondo intermittente. Il suo buio più che la sua luce.
Le apro la porta dell'ascensore.
«Non vorrà rimettersi in viaggio?»
«Credo di sì.»
«Di notte, con questo tempo, da sola? Ma no, venga a cena con me.»
«Avrei bisogno di sfogarmi con qualcuno ma non posso.»
«Certo che può. Dobbiamo dare un senso a questa sera. Non sente la canzone?»
«La stavo ascoltando anche in macchina, è la mia preferita. Adesso devo andare.»
«Quando le nostre vite diventano troppo complicate allora è il momento di seguire la
musica.»
«Perché, anche la sua è complicata?»
«Le dico solo questo: stamattina ero uscito per andare al mare e sono finito sul tratto
appenninico.»
«Se non sono pazzi non ci piacciono!»
La signora della pioggia, adesso, è tutta illuminata.
3. Un essere speciale

Il Cosimo de Medici dista cinquanta metri dal casello e le frenate degli autotreni stridono come
gridi di gabbiani. La cucina sta per chiudere, il cameriere ha rovesciato le sedie sui tavoli per lavare
il pavimento. Ordiniamo al volo due bistecche e una bottiglia di Chianti dei colli senesi, come ci ha
consigliato il portiere di notte, il cameriere riattizza le braci e ci accomodiamo al tavolo accanto al
camino.
Francesca indossa un vestito nero, con un filo di perle e un golf bianco leggero, aperto
davanti. Uscendo dall'hotel mi aveva confessato di sentirsi imbarazzata perché è inesperta di
appuntamenti al buio, non ha mai frequentato una chat e comunque dalle sue parti non conta quello
che è vero ma quello che dice la gente, e lei ne sa qualcosa.
Avevamo camminato veloci nella notte senza luna, evitando immondizie e pozzanghere,
sotto una pioggerellina sporca, resa più gelida dalla tramontana. Un potente fascio di fari, dai
tornanti dell'autostrada, le aveva immortalato il viso, così a lei era saltato in testa che poteva
trattarsi di una macchina di conoscenti che ci avrebbero di certo scambiato per una coppia
clandestina. «In un albergo sull'autostrada come quello chi ci crede che ti ho conosciuto per caso.»
«Non siamo così famosi» l'ho rassicurata «con questo buio chi vuoi che ci veda. Non
sentiamoci colti in flagrante prima ancora di diventare amanti.» Abbiamo sorriso di questo
spropositato senso del pudore, retaggio di una rigida educazione cattolica, poi all'ingresso del
ristorante si è verificato un episodio spiacevole.
Stavano uscendo due clienti dal forte accento umbro, il più ubriaco dei due ha sbattuto
contro la porta a vetri, ha finto di togliersi il cappello facendo un salamelecco e ha detto: «Mi scusi
signora porta, veramente io volevo sbattermi la signora vera». Si sono piegati in due ridendo col
naso, gli ho dato una manata per spostarli e permettere a Francesca di entrare, poi mi sono guardato
alle spalle perché in questi casi non sai mai se spunta un cacciavite.
«Sventoliamo le bandiere della pace dai balconi» le ho detto «e non ci accorgiamo della
marea di aggressività che si sta alzando dentro di noi.»
Le racconto che poco prima, in un Autogrill, ho visto un ragazzo su un'Opel Astra nera, che
dopo essersi servito alle pompe di benzina fai da te, aveva risposto al cellulare invece di rimettere in
moto e liberare il servizio. Il cliente successivo, un tizio con la pancia da birra, si è scaraventato
fuori dalla sua Gran Cherokee ed è saltato a piedi pari sul cofano dell'Opel. Il giovane è rimasto
ipnotizzato col cellulare in pugno e gli occhi al cielo, perché nel frattempo l'altro era montato sul
tetto e lo stava ammaccando ritmicamente, come uno che salta la corda. Poi è rientrato nel suo Gran
Cherokee e si è messo a sghignazzare con moglie e bambini, finché l'Opel del ragazzo è dovuta
scappare via, derisa da tutta la fila di macchine che strombazzavano in coro.
«E tu che hai fatto?»
«Non ero tra quelli che suonavano il clacson. È sufficiente per considerarsi pacifista e di
sinistra?»
Per Francesca i nemici non sono dentro ma fuori, si chiamano terroristi e l'Occidente ha il
dovere di combatterli. Questa guerra è giusta. Lei viene da una famiglia di destra. Il padre ha
fondato il Fuan di Perugia, l'organizzazione universitaria dal motto "Vivere ardendo e non bruciarsi
mai". «Quando ti ascoltavo alla radio non ero d'accordo su mezza parola. Però i dischi erano
bellissimi.» Faccio finta di chiedere il conto e di alzarmi. Sorride e mi domanda dov'ero diretto
quando si è scatenata la tempesta di grandine.
«Ho passato la giornata da un'autostrada all'altra, in un assurdo gioco dell'oca, incapace di
decidere a quale casello uscire.»
«Sei così distratto?»
«Confuso, come tutti. Non si sa bene neanche dove trascorrere un weekend. Perciò stavo
tornando a casa; Roma. In fondo mi sono successe molte più cose in una stanza di quante me ne
siano accadute in giro per il mondo, Tu, invece, dove stavi andando?»
«In direzione opposta: Milano. La mia famiglia è di Perugia ma ormai lavoro a Milano da
quindici anni.»
«Di che ti occupi?»
«Ho una piccola società che semplifica la vita degli altri rendendo più complicata la mia.
Risolviamo le rotture di scatole dell'esistenza: pagare una bolletta, trovare un idraulico, fare la fila
per un biglietto a teatro o raccogliere i documenti per la dichiarazione dei redditi.»
«Alla gente saltano i nervi e voi intervenite. È così?»
«Coccoliamo i milanesi a pagamento.»
Continuiamo a mangiare in silenzio perché ha eluso la domanda su che cosa contengano di
tanto prezioso quegli enormi album dai quali non si è separata neanche per andare al ristorante. Ho
la sensazione di essere scomparso dalla percezione della sua esistenza, La signora della pioggia è
tornata. Lei parla con lei.
Il cameriere abbassa la saracinesca a metà, spegne le luci all'ingresso, capisco, faccio il
cenno del conto. Lo sguardo di Francesca ritorna nella mia dimensione.
«Sei sposato?»
«Separato. Due figli e un pastore tedesco. Ma lei è rimasta con me.»
«Tua moglie?»
«Il cane.»
Il suo cellulare squilla, è ancora nessuno. Ci accendiamo una sigaretta.
«E tu? Amori?»
«Avevo un compagno prima dell'estate, adesso ci siamo lasciati.»
«Mai sposata?»
«Una volta.»
«Lo vedi ancora?»
Lo sguardo precipita sugli album: «Mio marito è scomparso tanto tempo fa». Le sfioro una
mano: «Mi spiace». Si impettisce come se un generale le avesse impartito l'ordine di stare dritta: «È
accaduto nel 1985, eravamo ragazzi. E poi sono dieci ore che non parlo d'altro, giornata dura,
cambiamo discorso».
«Ma io faccio parte di una razza in via d'estinzione.»
«Sì? Quale sarebbe?»
«Sono uno degli ultimi uomini capaci di ascoltare.»
Scrolla la testa: «Mai lamentarsi, mai raccontare agli altri i propri problemi, mai lasciarsi
andare».
«Cos'è, il manuale delle giovani marmotte?»
«No, i tre principi di famiglia.»
«Sarà stato un grande amore se a vent'anni di distanza trascorri ancora intere giornate a
parlarne."
«È stato un amore infinito» mi corregge. «Ma non sono io a volerne parlare, è la Procura di
Perugia, perché la verità dovrà venire fuori a tutti i costi. Io la sto già pagando, e non sai quanto.»
«Quale verità, scusa?»
«Com'è morto Francesco.»
Suo marito — racconta — era un affermato gastroenterologo, il più giovane professore
associato d'Italia. Bello, sportivo, di ottima famiglia. Un universitario ambizioso e uno sposo
dolcissimo. Si era allontanato sul lago Trasimeno, a bordo del suo motoscafo rosso, in un assolato
pomeriggio di ottobre. Il cadavere era stato ripescato dopo cinque giorni di incessanti ricerche,
gonfio, irriconoscibile, con l'orologio al polso, la patente in tasca. Si pensò a una disgrazia,
qualcuno ipotizzò un suicidio, in ogni caso si ritenne superflua l'autopsia. Il fascicolo, a suo tempo
archiviato, era stato riaperto tre anni prima dal Pubblico Ministero Giuliano Mignini, lei si era
spontaneamente offerta di testimoniare anche se si considerava all'oscuro di tutto.
«Qual è stata la molla che ha fatto scattare l'inchiesta?»
«Un'intercettazione nel corso di un'indagine sul giro degli usurai. Una voce avrebbe
proferito una minaccia: "Quelli che non pagano li danno da mangiare ai porci. Ti faremo fare la fine
del medico scomparso nel Trasimeno".»
«Tuo marito era un giocatore?»
«No.»
«In quegli album ci sono le sue foto?»
«Allora sei proprio curioso.»
«Sì. Però se preferisci parliamo d'altro.»
«C'è tutta la nostra storia da quando eravamo bambini. Il PM ha voluto vederle.»
«Vi conoscevate da piccoli?»
«Le nostre famiglie erano amiche.»
«Quindi adesso credono che sia stato ucciso.»
Annuisce: «Ma c'è chi sostiene il contrario».
«Tu che idea ti sei fatta?»
«Ho sempre sospettato un suicidio, anche se i suoi ritenevano che fosse stato un incidente.
Ma Francesco era un ottimo nuotatore e il motoscafo era stato ritrovato in un canneto, con il motore
spento, le chiavi inserite nel quadro, il cambio in folle.»
«Adesso cosa pensi?»
«Che ho commesso un errore a fuggire da Perugia per evitare tutte le chiacchiere orrende, le
bugie velenose, i sospetti nascosti nelle occhiate della gente. Dissero che si era ucciso perché aveva
l'Aids. Perché era omosessuale. Perché avevamo debiti. Non era affatto vero. Ci amavamo ed
eravamo felici. Questa è la notizia intollerabile per la gente: la felicità degli altri. Ma ormai
Francesco era morto. Avevo solo venticinque anni e soffrivo in modo atroce. Oggi ho capito che
non si può fuggire da un dolore così. È inutile, anzi è peggio. Perché il dolore ti spia, lavora
nell'ombra, si irrobustisce nella polvere, si nasconde in una fotografia sbiadita del viaggio di nozze,
in un paio di scarpe da tennis maschili gettate in un armadio, e quando credi di essertene liberata per
sempre, nel preciso momento in cui sei più vulnerabile perché stai ricominciando a vivere, il dolore
ti ricatta, ritorna, e ti schiaccia con la stessa forza del passato e tutta l'irruenza del presente. Questo
ho provato quando è stata riaperta l'indagine: Francesco non era mai morto anche se non sarebbe
mai tornato a casa. Per me è identico. Non sto più a Perugia e nemmeno a Milano. Sono sposata alla
sua ombra. Vivo e non vivo. Fino al giorno in cui sarà scoperta la verità.»
Ha detto queste cose tutte di un fiato, con gentilezza e rabbia, ne siamo entrambi stupefatti,
lei forse più di me che non le conoscevo, perché dopo averle trattenute per vent'anni le ha rivelate a
un perfetto sconosciuto.
«Era un essere speciale» commenta mostrandomi una foto del marito il giorno delle nozze,
nella seconda pagina di un album, dopo il biglietto della partecipazione: Chiesa di Santa Maria di
Prepo. Perugia, 20 giugno 1981 ore 11.
Francesco è un trentaduenne impeccabile, in tight. Magro, alto, distinto, gli occhi azzurro-
torbido, di un'avvenenza quasi indisponente, fragile, di porcellana. Mi sembra di conoscerlo da
sempre. «Davvero un bell'uomo» le confermo, mentre lei chiude l'album e il cameriere mi porta il
resto.
Quando usciamo, il televisore appollaiato su una mensola sta trasmettendo le previsioni del
tempo: «Nelle prossime dodici ore sono previste intense manifestazioni temporalesche su Emilia-
Romagna e alta Toscana, i fenomeni saranno accompagnati da banchi di nebbia, attività elettrica e
colpi di vento.»

Siamo rientrati in albergo, l'orologio all'ingresso segnava l'una passata e il portiere si era
allungato sul divano davanti allo schermo acceso sul Televideo. Abbiamo catturato le rispettive
chiavi dal quadro attenti a non svegliarlo. Le ho chiesto se potevo offrirle qualcosa da bere nella
mia stanza, l'ascensore si è arrestato al mio piano e Francesca mi ha seguito nel corridoio in
silenzio. Ho stappato una piccola bottiglia di Veuve-Clicquot e l'ho divisa equamente in due coppe,
poi, mentre lei era in bagno, ho acceso il computer portatile sulla scrivania per mettere su della
musica, mi sono collegato a Internet e ho scaricato la posta. Erano solo spam, a parte una cartolina
animata Yahoo dei miei bambini. Mi ha fatto ridere perché era ambientata in un castello sinistro,
con pipistrelli e fattucchiere svolazzanti, e al termine di una ripida scala a chiocciola la Morte
ballava il rock.
Quando Francesca è rientrata nella stanza ci siamo abbracciati. «Devo chiederti scusa» mi
ha sussurrato, «ma non volevo fare l'amore, desideravo solo parlare con te.» Mi ha fatto tenerezza e
le ho risposto che due esseri umani, sia pure adulti e di sesso opposto, possono chiacchierare
serenamente anche se si trovano in una camera da letto di un albergo sperduto sul tratto
appenninico. Dai piccoli sussulti della sua schiena ho capito che stava piangendo e il sesso era
l'ultimo dei suoi pensieri, semmai la vergogna di piangere, quella sì, perché stava infrangendo un
comando di rigidità familiare.
«Vedi, non è tanto il dolore e la rabbia trattenuti per vent'anni, o il senso di colpa per avere
cercato di gettarmi il passato alle spalle, ma è quello che sento dire di mio marito che mi annienta.
Perché non è possibile, perché non è vero.» Si scosta da me: «Sui giornali, nei talk-show, nei salotti,
non si fa altro che sentenziare, formulare ipotesi assurde, fregandosene degli effetti devastanti di
ogni singola parola sui padri, sui fratelli, sugli amici, sulla mia stessa vita, e ogni volta che questa
storia riemerge, perché riemerge puntualmente, io vado a fondo, sempre più a fondo, si ritorce su di
me, la prima testimone, la moglie.»
All'improvviso avverto un calo di pressione e sono costretto a sedermi alla scrivania. Ho la
fronte sudata, mi guardo nello specchio, sono grigio come uno straccio.
«Che ti succede?» mi fa. «Non avevo mai visto un uomo morire in un minuto.»
Mi sforzo di sorriderle, ma la verità è che questa storia già la conoscevo. È un particolare di
un affresco immenso. Mi angoscia lo scarto fulmineo con cui l'avevo dimenticata nello stesso
momento in cui la signora della pioggia mi offriva la sua testimonianza diretta. Stiamo vivendo al
contrario. L'immaginario ha reso evanescente la realtà. Come ho potuto non accorgermi che il
romanzo "La ragazza della pioggia", iniziato a scrivere quattro anni fa e subito inghiottito nel buco
nero dei miei racconti incompiuti, era la stessa storia che ritornava indietro, dalla finestra della vita?
Nessuna esperienza umana, sia pure emblematica come la morte di questo giovane medico, ha
ormai valore — tranne la mera condoglianza — se non rientra dalla finestra della finzione. Nel
gennaio 2000 mi ero arenato davanti alla fotografia di un quotidiano dell'epoca, l'immagine
ingiallita di una venticinquenne dagli occhi smarriti, seduta su una panchina davanti al lago, in un
sabato piovoso, mentre i sommozzatori effettuavano le ricerche del marito. Adesso una notte di
pioggia me la restituiva in carne e ossa, trasformata dal dolore e dagli anni. E se fino a qualche
secondo prima lo sfogo di Francesca mi sembrava persino esagerato, adesso non capisco dove abbia
trovato il coraggio di affrontare la verità, nonostante l'ipotesi formulata dagli inquirenti, che suo
marito fosse ai vertici della setta di mandanti dei delitti del mostro di Firenze.
Clicco sul file dell'archivio dove avevo scannerizzato, nel tempo, decine di ritagli, verbali,
interrogazioni parlamentari, interviste. Mai stato un appassionato di gialli, tantomeno un cultore di
cronaca nera, ma i delitti di Firenze sono una Bibbia a rovescio, il libro di sabbia della storia
d'Italia. Scorro le pagine col mouse finché sullo schermo appare la foto di Francesco Narducci
pubblicata su "La Repubblica". Lei mi inquisisce nello specchio, mi accusa di averle teso una
trappola. «Perché non mi hai detto che lo sapevi? Ma certo, che scema, sei un giornalista!»
La prego di non trasformare una coincidenza in un equivoco. «Pensi che mi fossi appostato
nella reception dell'Hotel Dei Medici, facendo una danza della grandine con il portiere, sperando
che transitassi sull'autostrada e venissi a ripararti proprio qui?» Le spiego la causa del mio
malessere e del racconto mai nato, di cui esiste solo una mezza prefazione, datata Roma, 3 marzo
2000. Lei mi scruta diffidente: «Fammela leggere, per cortesia». Sposto lo schermo in suo favore:
«Eccola».

Dal regolamento d'onore della pista sarda al rituale alchemico di quella esoterica, la
giustizia italiana ha perso la tramontana un delitto dopo l'altro. Depistaggi, lettere anonime,
insabbiamenti, periti che pubblicano i risultati delle loro indagini in romanzi gialli, ricatti
massonici, spie prezzolate, pubblici ministeri sollevati dall'incarico. In Italia, l'ineffabile show dei
burattinai dei servizi segreti si replica a richiesta di mostri al di sopra d'ogni sospetto. Bossoli
calibro 22 spuntano nel Campo dei Miracoli, seminati come gli zecchini di Pinocchio, per far
crescere a dismisura l'albero degli indagati affinché il ramo marcio non si veda. Faldoni che si
perdono, testimoni che si trovano. Un giornalista Rai, marito della sorella di Pia Rontini,
assassinata a Vicchio di Mugello, spedisce anonimamente agli inquirenti l'asta guidamolla
dell'arma dei delitti, mentre il padre della vittima, Renzo, morirà d'infarto davanti alla Questura di
Firenze dopo aver prosciugato tutte le proprie energie e i suoi risparmi fino a vendersi casa per
tentare di comprarsi un diritto, la verità, che lo Stato gli ha mostrato e occultato cento volte, come
il baro la pallina nera nel gioco dei tre bussolotti. Suicidi che si rivelano omicidi. Italia degli
infami. Firenze uguale Ustica. I mostri con i feticci appuntati al petto come le medaglie dei
generali. Centomila indagati, nessun colpevole. Il pittore francese, il medico svizzero, lo scrittore
guardone, il ginecologo che ordinava i "lavoretti ". Mostro tu, mostro io, Dicerie, ritrattazioni, falsi
giornalistici pilotati. Il serial killer è Vinci Francesco, macché è Vinci Salvatore, no era Stefano
Mele, Tutti dentro, tutti fuori. Un delitto lava l'altro. Tutti innocenti eccetto loro: Mario Vanni, ex
postino, detto Torsolo; Giancarlo Lotti, ex manovale, detto Katanga; entrambi compagni di
merende di Piero Pacciani, l'esecutore, detto il Vampa. Così strambi e malconciati da non fare un
serial killer in tre.
L'inchiesta di Firenze è tuttora in corso. A Perugia, nel frattempo, si è aperto un nuovo
filone d'indagini. Riguarda Francesco Narducci, un giovane medico di buona famiglia annegato
nel lago Trasimeno un mese dopo l'ottavo e ultimo delitto di una coppia d'amanti: Jean Michel
Kraveichvili e Nadine Mauriot. La notte dell'8 settembre 1985, dopo aver escisso con un bisturi il
pube e il seno sinistro di Nadine, il mostro ha spedito per posta da San Piero a Sieve un lembo del
seno della vittima a Silvia Della Monica, unica donna fra i pubblici ministeri a occuparsi del caso.
Ha composto l'indirizzo con lettere ritagliate dai giornali. Dopo questa macabra lettera d'addio è
scomparso nel nulla. O nel lago. Perché a Perugia la gente mormora che il mostro sia proprio lui,
il giovane medico, suicida o suicidato.

Francesca si alza facendo rovesciare la sedia: «Siete tutti uguali, mio marito non c'entra
nulla, fino al giorno in cui un tribunale non l'avrà dimostrato».
«Sai cosa penso?»
«No e non m'interessa saperlo. Scusami, gentile signore, ma questa storia ce l'ho attaccata
alla pelle mentre tu e tutti gli altri ve la raccontate nei bar, scrivendovela sui polsini.»
«Hai ragione, e le tintorie sono furibonde. Adesso ascoltami, faccio lo scrittore per campare,
non so fare altro, e come hai visto per scrivere un racconto ne abortisco mille. La ragazza della
pioggia non era un mio personaggio, sei tu. Hai definito Francesco un essere speciale, aggiungo che
lo siete entrambi, diversi come il sole e la luna, Oggi mi confessi di essere diventata la sua ombra:
la facile deduzione è che eravate complementari. Lui è morto, tu sei viva. Qui sta il guaio: non lo
sai. Sei rigida, vivi e non vivi, ti tieni tutto dentro, sembri una statua. Ti restano quattro possibilità
di salvarti: o me, o un giudice, o uno psicanalista, o un prete. Con il giudice hai già parlato e stai
collaborando, con gli psicanalisti non ti basterebbe una vita, a suore e preti hai già consacrato
l'infanzia, io sono qui per caso e abbiamo solo poche ore prima dell'alba, una notte, questa.»
«Io non so niente. Di che cosa dovrei parlarti?»
«Di te.»
4. La ragazza della pioggia

«Va bene, non so ancora perché lo sto facendo, ma riprenderò la storia dallo stesso punto in cui tu
hai lasciato cadere la penna: la foto sbiadita della ragazza che guardava il lago, seduta su una
panchina nel piazzale della darsena di San Feliciano, il 9 o 10 ottobre 1985. Forse hai ragione,
bisogna pure che parli di me con qualcuno che non sia un pubblico ministero, un poliziotto della
squadra antimostro o un muro.
Non c'entra niente la grandine, sai, mi ero nascosta in questo hotel perché sull'autostrada mi
sembrava d'impazzire, non ce l'avrei fatta a guidare fino a Milano. Ore e ore d'interrogatori senza
essere mai completamente creduta, "Non è possibile, signora, che in quattro anni di matrimonio non
si sia accorta di nulla!" Il teorema di una moglie: non poteva non sapere. Come dargli torto? Mi stai
indagando con gli stessi occhi del Sostituto Procuratore e degli uomini del Gides, il gruppo
investigativo delitti seriali. Anche tu sei un uomo.
Sai a cosa pensava, invece, la ragazza della panchina? Al profumo del marito, un misto di
Vétiver di Guerlain e tabacco da pipa, e ai vestiti indossati il pomeriggio che mi mentì dicendo che
sarebbe tornato in ospedale: una Lacoste blu, i jeans Burberry's che gli avevo regalato e il suo
amato giubbotto di renna color cuoio. Perché era andato al lago senza confidarlo a nessuno? Che
smania aveva di uscire in barca un'ora prima del tramonto? Oltretutto si era disinteressato al
motoscafo per l'intera estate. Per quale motivo, a mezzogiorno, aveva interrotto bruscamente una
sessione d'esami al Policlinico di Monteluce? Una telefonata che lo sconvolse — dissero. Con chi
aveva preso appuntamento, con un'amante o con la morte?
No, la ragazza della pioggia non aveva un teorema in testa né un segreto indicibile, ma
profumi e paure. In una fotografia non si vedono. Non lo sentì il mitragliamento angosciante delle
pale di un elicottero dei vigili del fuoco che pattuglia l'Isola Polvese, o il vigile estenuato dalle
ricerche che esclama: "In tanti anni non ho mai visto il lago così sporco", o la battuta del
sommozzatore appena riemerso da una pozza di melma: "Lì sotto, in mezzo alle alghe, sembra di
stare all'inferno". Tu stesso non hai notato nella foto l'Honda 400 Four rossa di Francesco, targata
PG 102777, eppure era parcheggiata proprio dietro le mie spalle, all'ombra di un platano. Capisci
quello che sto cercando di dirti? Non credo, per voi maschi la storia è un'altra cosa. Formulate
un'ipotesi e le deduzioni si concatenano l'una con l'altra, in una logica che gli eventi non sempre
hanno, non per una donna innamorata, almeno.
Per quindici anni, tutte le notti, l'ho sognato. Facevo un viaggio in Sudamerica e
puntualmente lo incontravo nella folla di una strada di Caracas o in una piazzetta assolata di Bahia.
Mi veniva incontro con lo stesso abito di lino bianco che indossava la prima volta, nel parco della
villa di Prepo dei miei nonni, alla festa in cui ci conoscemmo. A quell'epoca avevo sedici anni e
mezzo, lui quasi ventotto. Nulla era cambiato. Nel sogno si fermava a salutarmi sotto l'insegna di un
negozio di coloniali, davanti a una cattedrale color carta da zucchero o in mezzo a un incrocio di
Buenos Aires interrompendo il traffico, caricava adagio la pipa, e sorvegliandomi con quella sua
espressione malinconica e insolente che mi piaceva tanto, confessava candido candido: "Ti ho fatto
uno scherzo, non ero morto". Io mi risvegliavo col cuore a precipizio, annichilita dal senso di colpa
per non averlo saputo aspettare, ignorando che fosse ancora vivo l'avevo addirittura tradito. Come
avrei potuto giustificare la mia attuale relazione con un altro? Mi avrebbe mai perdonata? Perché
sarei tornata con mio marito, senza ombra di dubbio. Da sveglia comprendevo che nessun uomo
avrebbe mai sostituito Francesco.
Scusami, mi sono persa, che ti stavo dicendo? Sì, il profumo e la paura. Il profumo è la colla
dei ricordi. Ecco perché la ragazza sulla panchina aveva in mente soprattutto l'aroma di suo marito.
E la paura che le fosse sfuggito qualcosa. Non del loro matrimonio o di qualche episodio
inquietante che l'avesse turbata — il loro amore era un lago tranquillo — semmai dei giorni
precedenti la scomparsa. Ricordo che facevo questo incessante avanti e indietro nella memoria
recitando le ultime ore come un rosario.
La sera prima di sparire nel nulla, il 7 ottobre, era tornato dall'ospedale in anticipo, saranno
state le diciotto e trenta, di solito non rincasava prima delle ventuno. Ero contenta perché una volta
tanto avremmo cenato a un'ora decente. Francesco aveva saputo che in casa con me c'era il figlio di
sedici mesi di mia sorella maggiore, così si era sbrigato per goderselo più tempo possibile.
S'illuminava a giocare con quel bambino. Devi sapere che non riuscivamo ad avere figli, nonostante
mi fossi sottoposta a ogni sorta di cura. Suo padre, Ugo, è un celebre ginecologo di Perugia e le
signore che conoscevamo andavano tutte a partorire alla clinica Liotti da lui, mia sorella compresa.
Nostro figlio, invece, non avrebbe mai visto la luce fra le mani del nonno.
Poco dopo mia sorella tornò a riprendersi il bambino e rimanemmo da soli. Quella sera mi
sentivo particolarmente stanca. Mi accoccolai sul divano bianco del salotto, con le sue gambe come
cuscino, guardando svogliatamente la televisione. Quando mi decisi ad alzarmi per andare a letto,
Francesco quasi mi supplicò: "Resta un poco con me". Non me l'aveva mai chiesto in quel modo.
Per egoismo e superficialità gli risposi di no. Più tardi mi raggiunse per rimboccarmi le coperte e
augurarmi la buonanotte. Nell'ultimo periodo stentava ad addormentarsi. Lo sentii armeggiare fino
alle tre del mattino con i cassetti scorrevoli del contenitore dove custodiva tutti i documenti, gli
scritti e le pubblicazioni. Lo studio, adiacente alla camera da letto, era il suo tempio segreto. Non
aveva concesso il lasciapassare a nessuno, neanche alla donna delle pulizie. Era proibito rovistare
nella lunga scrivania bianca, nei cassetti dell'archivio, sugli scaffali della libreria che rasentava il
soffitto. Francesco era il re del proprio disordine. Nessuno infranse mai il suo sigillo, tranne lo
straccio e l'aspirapolvere.
La mattina dell'8 ottobre mi disse di non aspettarlo per pranzo, avrebbe mangiato un panino
in ospedale. Invece, saranno state le due, tornò a casa. Gli preparai un piatto di riso integrale in
bianco, la sua passione. Dalla cucina, mettendo a posto, lo sentii discutere al telefono con i suoi, ne
fui sorpresa, li chiamava raramente. Prima la madre, poi, se ricordo bene, si fece passare il fratello
Pierluca, che pur essendo già sposato mangiava dalla mamma tutti i giorni, e la sorella Maria
Elisabetta. Suo padre, il professore, era al lavoro in clinica.
Sulla panchina del lago, quando le barche e gli elicotteri delle forze dell'ordine
perlustravano l'acqua alla ricerca del corpo, il confuso ricordo di quella lunga telefonata ai familiari,
uno per uno, si precisò in tutta la sua composta drammaticità: era stato un addio. Il perfido delle
tragedie è che se ne comprende la portata quando ormai è troppo tardi per evitarle.
Quel pomeriggio, mentre lo accompagnavo alla porta, Francesco mi aveva detto: "Torno
presto come ieri sera", ma invece del consueto, fuggevole bacetto sulle guance, mi aveva baciato
sulla bocca, appassionatamente, a lungo, come la sera del nostro primo appuntamento al lago, fra le
antiche rovine dell'isola Polvese. Non l'avrei rivisto mai più.
Sicuro che non ti sto annoiando? Neanche io sono stanca, questa storia non mi dà pace, ma
rifiutarla è peggio. Che ore sono? Un quarto alle due, c'è tempo. Scendo in camera a prendere le
sigarette, faccio in un attimo, promesso. Se il portiere si è svegliato potrei tornare su con un tè.
Buona idea, che ne dici? Perfetto. Ma se ti trovo addormentato, non ti sveglierò.»
5. Cronaca di un suicidio annunciato

Sono rimasto solo nella stanza d’angolo all’ultimo piano. La pioggia tamburella sui Vetri con il
tocco alternante di un giornalista degli anni Sessanta sui tasti di un’Olivetti Lettera 22.
Con chi aveva preso appuntamento suo marito? Sussistevano riscontri obiettivi tali da
consentire la riapertura di un’indagine archiviata come banale annegamento e ribattezzata omicidio
volontario a opera di ignoti?
Ricostruisco le ultime ore di Francesco Narducci confrontando il mio archivio custodito nel
computer con la rassegna stampa aggiornata di PressToday, verifico episodi, nomi e circostanze su
Google e svariati motori di ricerca, filtro le leggende metropolitane, mi attengo alle indiscrezioni
trapelate dai verbali dell'inchiesta, rinforzerò in seguito questo mosaico applicando i tasselli
mancanti con la testimonianza diretta di sua moglie.
Aspettando che bussi alla porta con due tazze di tè, disegno mentalmente lo story board
della trama, Ma più i riscontri confermano che si tratta di scene realmente accadute, più mi
appaiono scritte per Mia Farrow e John Cassavetes, perché i protagonisti di questa storia sembrano
essersi ispirati a un thriller del 1968: Rosemary's Baby di Roman Polanski.
Policlinico di Monteluce, Perugia. Sono le 12.30 circa di martedì 8 ottobre 1985. Francesco
è impegnato in una commissione d'esame di specializzazione in gastroenterologia. Un infermiere lo
avverte che è desiderato al telefono. Lui sospende l'esame, esce dall'aula, ritorna pochi istanti dopo
visibilmente alterato. Si rivolge al professor Morelli, si scusa, è costretto ad assentarsi per una
sopravvenuta urgenza. Il professore, gli altri medici e l'esaminando restano sconcertati, ma sanno
che Francesco non è tipo da interrompere gli esami a metà per futili motivi.
Narducci invita il più stretto dei collaboratori (uno dei due medici che, cinque giorni dopo,
lo riconosceranno nel cadavere di un annegato) a sostituirlo nelle vesti di esaminatore. Costui è un
collega massone come Ugo Narducci, il padre ginecologo di Francesco, e come il suocero, il papà
di Francesca: entrambi aderenti alla storica Loggia Bellucci. Francesco, invece, non sarebbe mai
stato iscritto a nessuna loggia. Di Pierluca, il fratello ginecologo, l'appartenenza alla massoneria
appare probabile: di tanto in tanto salutava gli amici raccontando di doversi assentare per delle
misteriose "riunioni".
Passate le consegne, il giovane gastroenterologo esce dall'aula, si affaccia nello studio,
avvisa la segretaria di spostare tutti gli esami alla mattina seguente.
Al pianoterra incrocia un collega che stava staccando e gli era corso incontro per salutarlo:
«Narducci non mi rispose e appariva pensieroso».
Il piazzale di Monteluce è un viavai di camici, visitatori, pazienti che si affacciano al
portone in pigiama e vestaglia. Sembrava un qualunque giorno feriale di primo autunno, è esplosa
una mattinata sfavillante da domenica d'agosto. L'ultimo medico che l'ha visto vivo, racconta:
«Incontrai Francesco nel piazzale del Policlinico. Considerata la bella giornata, mi chiese se volessi
accompagnarlo al lago per fare un giro in moto. Declinai l'invito perché iniziavo il turno».
Francesco temeva di presentarsi da solo a un appuntamento pericoloso? Desiderava un
testimone o semplicemente un amico fidato in riva al lago ad attenderlo? In ogni caso, guadagna a
passi svelti il parcheggio dell'ospedale dove monta sulla Citroën CX che ha lo stesso colore dei suoi
occhi e del golf di cachemire azzurro mélange acquistato dalla moglie a Londra, primo regalo da
fidanzata. Verso le 13.30 imbocca via Savonarola, parcheggia nel garage sotto casa al civico 31, non
senza aver prima spostato l'Honda rossa con la quale si è ripromesso di raggiungere San Feliciano.
Gira la chiave, entra. L'ingresso è raccolto, alla sua sinistra si apre l'elegante salotto con la veranda
e il tavolo da pranzo, un interno borghese dove argenti, mobili, libri e divani riposano accerchiati
dalle cascate di luce irrorata dalle vetrate, tanto che la silhouette di Francesca, che gli viene incontro
a salutarlo sorpresa dal cambio di programma, è un'ombra abbagliante. Qui si inserisce il suo
racconto, con il tassello mancante di un'altra telefonata che il marito fece a sua insaputa.
Intorno alle 14.00 il proprietario della darsena di San Feliciano, Peppino Trovati, riceve una
chiamata dal dottore che gli chiede se il motoscafo è agibile nonostante il fermo di mesi, «In acqua
e perfettamente funzionante» lo rassicura. «Bene, salto in moto e arrivo.» Si cambia, raggiunge la
moglie in veranda. «Vado in ospedale. Torno presto come ieri sera.» Un bacio infinito tradisce la
sua disinvolta sicurezza. Francesco è consapevole di un pericolo incombente.

L'Honda 400 si inclina sulla superstrada 75bis, districandosi nel traffico con la sapiente
leggerezza che il motociclista non riesce a imprimere ai propri pensieri, nonostante sia dotato di una
mente altrettanto fluida e scattante, truccata da una segreta e inimmaginabile esperienza. Ormai sa
che non gli sarà più consentita un'ultima accelerazione folle, né un'estrema frenata di salvezza,
ripiegare su un percorso alternativo o fingere di ritirarsi dalla gara per tentare l'ennesima
scorciatoia. Non esistono punti di fuga dall'intrigo in cui è penetrato bruciandosi tutto e tutti dietro
le spalle. Appassionato di motocross, comprende di avere ingaggiato l'ultima gara su un campo
impraticabile, un'area occulta, una palude, dove frapposte a infinite distese di sabbie mobili si
alternano salite e precipizi vertiginosi, e quando la coscienza si inerpica su quei picchi
sovrannaturali, fra due promontori inaccessibili, situati a distanza abissale, capisci che l'ultimo,
estremo salto, equivale a una condanna certa, perché puoi essere stato anche un campione, ma se
sotto hai una voragine e l'hai creata con le tue mani, volare fra le estreme e spezzate parti di te,
anche a cavallo di una Honda rossa struggente come l'infanzia, è impossibile.
Il gioco è chiuso. Per quanto genialmente sia stata condotta la partita, un maestro del suo
livello non può sottrarsi all'ultimo esercizio di stile. Se nell'incontro del lago il suo bluff dovesse
funzionare, avrà sempre il tempo di rinnegare, stracciandola, l'ammissione di una sconfitta.
Prima di deviare verso la darsena di Peppino Trovati, a Magione, l'Honda rossa si lancia
nella curva in salita che conduce alla villa di San Feliciano, irrompe nel viale di ghiaia protetto da
due filari di siepi, si arresta nel piazzale delimitato dal prato, firmando, con un profondissimo solco,
la sua brusca frenata.
Francesco attraversa la sala umida, raggiunge il piano superiore, getta un lungo sguardo
nella camera da letto dei genitori, estrae da un cassettone un foglio di carta da lettere, si siede al
tavolo della cucina, e con la medesima calligrafia delle prescrizioni mediche, confessa a suo padre
di essersi curato con un folle antidoto al veleno che gli aveva gelato l'infanzia, ne elenca i maledetti
e sperimentati ingredienti, trasparente come quando un malato di tumore allo stomaco gli chiedeva
un'intelligibile sentenza, e questa lo è, senza scusanti, assoluta. Ma se qualcuno si illude di chiudere
il cerchio e toglierlo di mezzo, questa lettera d'addio costituirà la prova che non si è suicidato,
perché non si può essere carnefici e vittime al tempo stesso, da soli, e il mondo intero saprà che il
male che l'ha avvelenato proveniva da un focolaio antico, a sua volta trasmesso e propagato dagli
adepti della setta in cui il motto Fa' ciò che vuoi si nega contraddicendosi nel patto di sangue della
segretezza. "Se il destino è segnato, anche i miei assassini subiranno una sorte simile a quella che
mi attende al lago, sotto il castello diroccato."
Questo scrisse e osservò Francesco? La carne non è carta e attribuire pensieri a un uomo
reale, anche se in procinto di morire, ha il valore, al massimo, di un verosimile esercizio letterario.
Ma il custode di fiducia dei Narducci, che sopraggiunse alla villa per consegnare la legna, sua
moglie, il figlio e altri testimoni segretati, confermano l'esistenza della lettera scritta di pugno dal
dottore, la scorsero da lontano posata contro un vetro, la scoprirono inserita nell'incavo interno della
finestra della cucina. La curiosità li attira, il riserbo li respinge, l'indecifrabilità li dissuade dal
proseguirne la lettura. Ma non accadrà a tutti. Quella lettera — forse — contiene una rivelazione
clamorosa. Sia come sia, il foglio sparirà prima della mezzanotte.

Dove si sarà cacciata la signora della pioggia? È passata mezzora. Il portiere starà ancora
dormendo, non le avrà risposto al telefono, sarà scesa al bar a prepararsi un tè con le sue mani, o
magari si starà facendo una doccia, spero soltanto che non si sia dimenticata di me, perché non
conosco neanche il numero della sua stanza e vorrei farle una montagna di domande. Questa storia è
una pietra al collo, ho già raccolto una biblioteca di Babele ma non riesco a smettere di cliccare su
Internet: vittime collaterali, verbali trafugati, riti satanici, polizia deviata, più m'informo meno mi
sembra di sapere. Una cosa, però, mi appare certa: è la cronaca di un suicidio annunciato.
Alle 15.35 Francesco raggiunge la darsena, parcheggia la moto all'ombra di un platano,
saluta Peppino Trovati che gli consiglia di non allontanarsi troppo perché il serbatoio è mezzo
vuoto. Il dottore gli assicura che si limiterà «a fare un giretto». Salta nel Grifo Plaster rosso siglato
PR3304, accende il motore da 70 cavalli, Si allontana veloce sull'acqua verde e stagnante, nello
scenario deserto e malinconico del Trasimeno in un pomeriggio fuori stagione. La prua punta verso
Muciarone, Isola Polvese, un chilometro e mezzo di traversata.
Quel martedì il sole tramontava alle 17.23. Quando il buio è già risalito a rivestire le barche
in secca, i gommoni grigi e affiancati come letti vuoti nelle camerate di collegio, le facciate
metalliche del chiosco deserto, e ancora più in alto, in collina, a spegnere uno dopo l'altro gli
immacolati sorrisi delle ville dei ricchi, Peppino Trovati, non scorgendo neanche un puntino rosso
all'orizzonte, inizia seriamente a preoccuparsi.
Alle 18.00 circa telefona al fratello del dottore, Pierluca: «Guardi che Francesco ha preso il
motoscafo ma non è ancora rientrato». In attesa d'aiuto esce in barca a cercarlo. Alle 19.30 riattracca
e telefona ai carabinieri di Castiglione del Lago che indirizzano un natante nella zona della
scomparsa.
Pierluca Narducci, nel frattempo, ha chiamato Francesca evitando d'allarmarla. «Hai idea di
dove sia mio fratello?»
«Certo, in ospedale, a pranzo mi aveva detto che sarebbe rincasato presto, forse sarà in
macchina intrappolato nel traffico.» Ma un'ora dopo, preoccupata, telefona lei stessa al reparto di
gastroenterologia, dove non l'hanno più visto dalla mattina, quindi al marito di sua sorella maggiore,
collega di Francesco: «Per caso avevate riunione all'Università?». Risposta negativa.
"Questa volta me la paga" si ripromette, gelosa. Un giorno era scomparso per quarantotto
ore filate, senza fornire spiegazioni. In quell'occasione gli aveva chiesto: «Mi hai mai tradito?».
«Non sono domande da farsi tra marito e moglie» la risposta, con una perentorietà che non
ammetteva repliche, come se la sua esuberante ignoranza di giovane donna avesse infranto un
capitolo inconfutabile della legge matrimoniale, una sorta di silenzio divino, dietro al quale il suo
sguardo inflessibile lasciava intravedere la croce che delimita il confine fra l'amore e l'indifferenza.
Alle 23.00, trascorse quasi cinque ore da quando ha raggiunto San Feliciano-Magione,
finalmente Pierluca avvisa della scomparsa la moglie di suo fratello: «È venuto al lago, ha preso la
barca e non è più tornato».
Sfoglio l'album delle nozze. Francesca li ha lasciati entrambi qui da me, abbandonati sulla
poltrona di pelle, nell'angolo fra la scrivania e il vetro della portafinestra rigato verticalmente dalla
pioggia, orizzontalmente da migliaia di riflessi saettanti sull'autostrada per Firenze.
Pierluca, più giovane del fratello di cinque anni, era già precocemente stempiato. In tight,
cravatta d'argento, gardenia all'occhiello, appare defraudato della bellezza quasi femminea di
Francesco. Un viso dai lineamenti meno sofisticati, infantile e compunto, gli occhiali dalle lenti
troppo grandi, le labbra sottili, sorriso rigido, vagamente annoiato, di circostanza.
Alle 23.45 Francesca raggiunge la darsena, convinta di essere stata tradita dal marito.
Chiede a Pierluca se Francesco è arrivato in moto da solo. Pierluca, che la stava attendendo insieme
al suocero, un altro professore dell'Università, annuisce seccato. Quando sopraggiungono i genitori
di Francesca ponendogli la stessa domanda, risponde: «Non incominciamo a infangare la memoria
di Francesco». Eppure le ricerche erano appena iniziate.
A mezzanotte e trenta del 9 ottobre, il motoscafo rosso viene ritrovato dal suocero di
Pierluca e da un pescatore. Setacciavano lo specchio d'acqua compreso fra Feliciano, Passignano,
Isola Maggiore, Isola Minore e Polvese. Il fuoribordo andava alla deriva in un canneto di
quest'ultima isola nei pressi del castello diroccato.
Francesca sale a bordo del Grifo, anche se nello scafo sono stati rinvenuti soltanto un paio di
occhiali neri, il portafoglio e un pacchetto di Merit del marito.
«Che cosa credi di trovare?» la critica Pierluca.
Il professore che ha scoperto il motoscafo fantasma si accosta al padre del disperso, Ugo:
«Ho fatto tutto come se fosse stato mio figlio».
Lei non capisce: "Tutto" cosa?
Poi fino all'alba, come Francesco, il buio.

Al piano di sotto sbatte una porta. Mi alzo, lascio aperta la mia, l'ascensore è dirimpetto,
sulla bottoniera il disco rosso lampeggiante conferma che Francesca si è finalmente decisa a
ritornare su. Quello che per una donna è un attimo per un uomo è un'eternità. Riprendo posto
davanti al computer. Ho trovato i titoli dei giornali dell'epoca nei cinque giorni delle ricerche:
"Nessuna traccia del Narducci./ Ultima 'speranza' è il rapimento". Le prime ipotesi: "Disgrazia,
suicidio o sequestro?". L'immancabile lato magico: "Il medium assicura: 'Lo sento, vive'/ Una notte
di vane ricerche". I risvolti torbidi: "Si infittisce il mistero del lago". Nell'occhiello: "Le acque,
scure e limacciose, hanno ostacolato il lavoro dei sommozzatori. Molti i punti oscuri della vicenda".
Mi colpisce una dichiarazione della madre della ragazza della pioggia, riferita ai giorni
dell'attesa: «Il padre di Francesco mi prese in disparte e mi disse che s'era messo d' accordo con il
questore per non fargli fare l'autopsia. Rimasi sorpresa, perché speravo che fosse ancora vivo, ma
lui fu sbrigativo, mi disse che non voleva vederlo tagliuzzare».
Un rombo di motore imballato, lo schianto di un vaso in frantumi. Mi affaccio in giardino:
una Micra rossa in retromarcia ha investito una delle piccole giare di guardia all'ingresso e la
fioriera di ceramica è precipitata in pezzi. Le gomme slittano sul viale schizzando fango e ghiaia.
«Si fermi, signora ha dimenticato il resto!» Il portiere sventola alle nuvole viola una
banconota, mi scopre al davanzale, allarga le braccia: «Adesso con queste cinquanta che ci fo?». Si
piega sui cocci rispondendo da solo: «Ci si ricompra la fioriera».
La Micra rossa è già oltre il cancello.
6. Per le antiche strade

In un hotel per migratori a quattro ruote, chiunque è libero di ripartire alle due e trenta del mattino
senza dover avvertire un tizio che non rivedrà più. L’unica giustificazione a questo mio
inseguimento è restituirle gli album, anche se li ho dimenticati sulla poltrona nella frenesia di
raggiungerla, così come aveva fatto Francesca pur di svignarsela senza spiegazioni.
Piove a scrosci, ho avvistato la Micra in conversione a "U" perché aveva sbagliato strada,
con questa visibilità mi sembra di nuotare sott'acqua senza maschera. L'ho sorpassata con un balzo e
due colpi di clacson mentre stava per incanalarsi nel casello del Telepass. Non ho fatto in tempo ad
aprire lo sportello, lei aveva già ingranato la retromarcia. Per un attimo ho temuto che mi avesse
scambiato per qualche balordo nottambulo, adesso temo che mi abbia proprio riconosciuto e sia
esattamente questo il motivo per cui si è avventurata sulla tortuosa strada che da San Piero a Sieve
conduce a Borgo San Lorenzo, al di là di Borgo si distende la provinciale Sagginalese, dove nel
luglio 1984, tra Dicomano e Vicchio, a "La Boschetta", Pia Rontini e Claudio Stefanacci scoprirono
l'amore con la morte. Pia aveva diciotto anni, il suo ragazzo, ventuno.
Lampeggio, suono con discrezione, tento un paio di volte di affiancarla, ma rischiamo un
incidente. La Micra rossa sbanda appena mi accosto, frena di colpo, accelera, guizza come un fuoco
fatuo nel buio, solleva grigie ali d'acqua nelle curve, procede per sei, sette chilometri, zigzagando ad
alta velocità fra dossi e pozzanghere, finché mi arrendo, rinuncio all'inseguimento, stacco il piede
dall'acceleratore e la lascio andare.
Accosto in una piazzola sterrata dietro l’ultima curva, scendo dalla mia piccola Peugeot, mi
infradicio capelli e sigaretta ma non posso rinunciare a uno spettacolo: il castello di Cafaggiolo
illuminato.
Sono nel Quattrocento.
In questi boschi i Medici andavano a caccia col falcone. Lorenzo il Magnifico si rifugiò
dopo la Congiura dei Pazzi. La sventurata Eleonora dei Medici si innamorò dello zio Cosimo I, che
per salvare le apparenze la diede in sposa al figlio Piero. Lei si vendicò passando da un letto
all’altro. Uno dei suoi amanti venne decapitato. A sacrificio compiuto, Piero la invitò qui a
Cafaggiolo dove l’aveva preceduta. La bella Eleonora vi giunse a notte alta. Quando stava per
varcare il portone del castello, il marito l'assassinò a pugnalate.
Mi sento responsabile di avere costretto Francesca lungo queste antiche strade, di notte, con
un tempo da lupi. Per un attimo mi sfiora il dubbio di essere io l'inseguito. In fondo, signora della
pioggia, chi la conosce? Procedo adagio al bivio tra Trebbio e San Piero a Sieve, dove una delle
personalità del mostro, per far scoprire l'altra, spedì a una procuratrice il frammento di seno di una
delle vittime, come da figlio a madre: "Trovami" implorava quella mollica di Pollicino in una busta
di sangue, "perché mi sono perduto."
Un quarto alle tre, ha smesso di piovere, sono avvolto da una nebbia spessa e lattiginosa,
nell'aria avverto un afrore selvatico di legna riarsa e bestiame; da queste parti, se ricordo bene,
doveva esserci il lago di Bilancino, oppure l'ho superato? Cavoli amari se la morte dovesse rivelarsi
un labirinto così intricato, mi sento come il vecchio nella nebbia dell'Amarcord di Fellini. Intravedo
due luci di posizione nella radura di quello che sembra un bosco di faggi, mi affianco col batticuore:
lei. Scendo, picchio sul vetro, abbassa il finestrino: «Mi lasci perdere? Che cosa vuoi da me? Lo
capisci che non voglio parlarti?». Mi siedo al suo fianco nella Micra rossa. Da queste parti molto
meglio litigare che rimanere da soli. Nella vaschetta portaoggetti un pacchetto di sigarette vuoto, il
posacenere stracolmo. Le offro una delle mie, l'accende, attendo che le passi. Mi chiede se
"naturalmente" avevo visto anch'io il Tg della notte. Faccio cenno di no: stavo con lei. Un'amica le
ha telefonato una notizia sconvolgente. I magistrati avrebbero le prove del coinvolgimento di
Francesco nell'ultimo dei delitti, quello di via degli Scopeti.
«Ma come fanno a dirlo?»
«Il turista francese fu colpito di striscio e riuscì a fuggire dalla tenda, correndo nel bosco.
Pacciani aveva già subito tre infarti e non avrebbe potuto inseguirlo da centometrista. Quando il
pugnalatore lo raggiunse, quel povero ragazzo si difese come poteva, a calci e pugni.»
«Sì, ma tuo marito che c'entra?»
«Secondo il telegiornale, proprio in quei giorni Francesco si fece medicare da una
dottoressa. Aveva un'ecchimosi a un occhio e un braccio fasciato. Io non ricordo la fasciatura. Era
un motociclista. Un occhio rosso, succede.» Mi chiede conferma con uno sguardo impaurito: «Non
ce la faccio più».
«Qual è la cosa che ti fa più male?"
«Nell'eventualità che Francesco fosse uno di quei mostri? Non so, è inimmaginabile.»
«E se fosse vero?»
«Certe notti non riesco a dormire. Immagino di dover testimoniare al processo di Firenze.
Mi sento indagata dagli sguardi dei genitori delle vittime. Se mi fossi accorta in tempo di qualcosa
di orribile, forse avrei potuto impedire qualcuna di queste morti, sarei andata alla polizia, ma non ho
mai sospettato niente, giuro, anzi il PM mi spiegò che Francesco era una vittima. Anche se —
aggiunse — sarebbe provata la sua partecipazione a quei festini, le orge a Villa Verde, quella dove
Pacciani, per un certo periodo, lavorò come giardiniere.»
«L'hanno ribattezzata Poggio ai Grilli. Era un ospizio, è diventato un hotel a cinque stelle.
Pacciani raccontò di averci visto entrare "certi macchinoni", auto ministeriali, o giù di lì.
Probabilmente lanciò un ricatto: "Attenti che parlo", perché si sentiva minacciato. Il 22 febbraio
1998 sembra non sia morto per cause naturali, ma che l'abbiano avvelenato.
«Non so se gli inquirenti si riferissero solo a Villa Verde o a uno di quei palazzi o casali di
Firenze e dintorni dove organizzavano questi riti satanici, forse con i feticci delle vittime.»
«A me risulta che una teste, una prostituta, raccontò di Villa "La Sfacciata" sulla collina di
Giogoli, vicino a "La Certosa". Poco fa, ricordandomene, l'ho cercata su Internet. Nel Quattrocento
la villa apparteneva alla famiglia di Amerigo Vespucci. Mentre, all'epoca dei delitti, l'avrebbe
acquistata sotto falso nome un medico tedesco detto lo svizzero, forse perché era il marito della
figlia di un senatore americano, una donna residente in Svizzera. A proposito, tuo marito portava
una catena d'oro con un medaglione?»
«Una medaglietta quadrata, sì era d'oro, liscia, senza immagini o scritte, l'aveva da sempre.
Ma che c'entra?»
«Quella teste l'ha riconosciuto nelle fotografie che le hanno mostrato i magistrati. Ha
raccontato della catena d'oro e che parlava spesso di sport acquatici. Si presentava come fotografo
di Prato. Era amico di Ulisse, detto "Uli", soprannome di Mario Robert Parker, stilista, un giovane
di colore che per un periodo alloggiò in una dépendance de "La Sfacciata". C'è chi dice che "Uli"
sia morto di Aids all'ospedale di Pisa e chi afferma si fosse suicidato in un bosco con un colpo di
pistola. In ogni caso, quando gli inquirenti cominciarono a sospettare Pacciani, lo svizzero vendette
la villa e tagliò la corda.»
«Perché, cosa succedeva in questa villa?»
«La teste riferì una storia che quattro anni fa, quando mi dedicavo giorno e notte a setacciare
notizie e segreti di questa epopea nazionale del male, mi parve un delirio. Raccontò che il medico
tedesco, insieme a un dermatologo esperto in malattie tropicali e al tuo Francesco, si interessavano
agli esperimenti di mummificazione degli antichi egizi.»
«Mummificazione?»
«Questo è niente. Lo "svizzero" avrebbe ritrovato in Egitto un papiro che descriveva, in
modo dettagliato, il procedimento che gli egizi utilizzavano per consegnare intatti i loro morti
all'eternità. Dal papiro, però, mancavano i paragrafi riguardanti il metodo per conservare gli organi
interni, le parti molli. Secondo la teste, l'escissione dei feticci dalle vittime dei "compagni di
merende" serviva a questo scopo.»
«Dovevano ripetere l'esperimento?"
«Ecco il cuore del delirio; la teste raccontò che allo svizzero era morta la figlia, una ragazza
della quale non aveva denunciato la scomparsa. Il cadavere era nascosto a "La Sfacciata". Suo padre
voleva mummificarlo.»
«Dai, è una follia.»
«Forse le avranno impapocchiato questa storia per nasconderne un'altra. Fatto sta che lei
testimoniò con certezza che la sua amica Milva Malatesta partecipava alle orge nella villa e nella
chiesa sconsacrata di San Casciano. E altre colleghe, in particolare una certa Marisa, avevano il
compito di reclutare ragazzine, da Massa, Viareggio e Perugia, anche minorenni. Lei purtroppo
specificò: "orge con bambini".»
«Pedofilia? Ma è terribile. Chi sarebbe questa Milva?»
«Un'altra vittima collaterale. Dieci anni fa la ritrovarono carbonizzata in macchina con il
figlioletto Mirko di tre anni in un bosco vicino a Barberino Val d'Elsa. Sua madre, Maria Antonietta
Sperduto, era stata violentata più volte da Pacciani e da Vanni. Il corpo del padre, Renato, era stato
rinvenuto in una stalla di sua proprietà, nel 1981, impiccato. Ma con i piedi poggiati per terra.
Mentre un altro presunto compagno d'avventure di tuo marito, un nobile dei Corsini, morì in un
enigmatico incidente di caccia. Questa storia è un cavo dell'alta tensione: chi la tocca, muore.»
«Non potremmo mantenere una distanza di sicurezza?»
«Tu sei una testimone inconsapevole.»
«Sì, ma sempre la moglie. Ci credi a questa storia degli antichi egizi?»
«Troppi cadaveri, vittime collaterali, bocche cucite. Qualcosa di vero deve esserci per forza.
Credo che i frequentatori de "La Sfacciata" avessero letto La Via della Rosa di Giuliano
Kremmerz.»
«Chi era?»
«In realtà si chiamava Ciro Formisano, era un alchimista di Portici dell'Ottocento, maestro
di filosofia ermetica di matrice neoegizia. Quelle pratiche occulte, mi fanno pensare al Corpus
Hermeticum, il vangelo dei Sacerdoti Iniziatici Templari.
«Hai mai sentito parlare dell'"Ordine della Rosa Rossa"? Ho scoperto l'esistenza di questa
setta in un libro: Gli affari riservati del mostro di Firenze.»
«Sì, i mandanti sarebbero maestri di una loggia deviata da un antico ordine, l'Ordo Rosae
Rubae et Aureae Crucis, un'organizzazione massonico-esoterica discendente dalla "Golden Dawn"
inglese. Ho anche ritrovato un libricino sul soggiorno a Cefalù di uno dei suoi padri fondatori,
Aleister Crowley. Nel 1923, visto l'andirivieni di satanisti in Sicilia, Mussolini lo espulse dal Paese.
Crowley era un eterno adolescente, perverso e un po' attempato, uno che si faceva chiamare
familiarmente "La Bestia", e nel tempio di Cefalù dipingeva sui muri il demone Babalon, come uno
mette sulla scrivania la foto della moglie.»
«Non ci credi.»
«Ai riti esoterici? Dubito dei risultati, considerata la fine di certi loro iniziati. L'alchimia
sessuale degenerata esiste da sempre. Se ne discusse anche ai tempi di Jack lo squartatore. Nel
Testamentum fraternitatis Rosae et Aurae Crucis si accenna agli elisir confezionati con parti di
cadaveri, in altri testi esoterici si allude alla magica energia sprigionata da una coppia di amanti al
culmine dell'orgasmo, "fissata" da un particolare pugnale e una pistola reduce da altri omicidi, in
notti senza luna, preferibilmente di sabato, il sabba dei maghi; energia manipolata e trasformata in
pietra filosofale. In quattro su otto dei delitti di Firenze sono stati asportati i feticci. In due solo
l'organo sessuale femminile. Negli altri due, il seno e la vagina. Potrebbe essere accaduto qualcosa
di simile a un occulto scambio di organi, corporali e spirituali. Il cliente chiede all'alchimista la
propria resurrezione, per esempio da una sessualità deviata, o la liberazione da un cancro psichico,
come un grave trauma legato alla figura materna, o entrambe. Ordina il rito e i feticci per celebrarlo:
un organo sessuale femminile nel primo caso, il seno con cui si allatta nel secondo. Il miliardo di
vecchie lire ritrovato a Pacciani costituirebbe la prova dell'avvenuto pagamento. Lui stesso dichiarò
che "quei lavoretti" glieli ordinava un giovane ginecologo.»
«Non un gastroenterologo.»
«Pacciani poteva anche confondersi, era un contadino mica un laureato. Altre prove
esoteriche sarebbero i tre cerchi magici disegnati con bacche, pelli e pietre sul terreno adiacente alla
tenda dei turisti francesi. Il tralcio di vite conficcato nella vagina di Stefania Pettini. O la piccola
piramide tronca sulla scena di un altro delitto. Ma, che io sappia, non si sono ritrovati gli elenchi
degli affiliati alla "Rosa rossa" come a Castiglion Fibocchi per la P2 di Licio Gelli. Né una loggia,
un tempio, un pentito. Manca la prova: la Beretta calibro 22 con una rosa rossa nella canna.»
«Sai che un testimone sostiene che avrei visto i feticci nel frigorifero di casa?»
«Ed è vero?»
«Ma sei pazzo? Sarei morta di paura.»
«Avresti denunciato tuo marito se avessi trovato i reperti in formalina?»
«Se avessi capito, senz'altro sì.»
Un'ombra furtiva nella nebbia, un uomo piegato o un grosso animale, attraversa la brughiera
spostandosi con un guizzo da un cespuglio all'altro. Mi prende un colpo, taccio per non spaventarla.
«L'hai visto quello?» Tenta di riavviare la macchina: «Ma che roba era?». La mano le trema
al punto da non riuscire a girare la chiave. «Sarà stato un cinghiale" mento spalancando la portiera
perché non vorrei rimanere intrappolato in questa scatola. «Torna indietro!» grida. Sguscio davanti
ai fari tremolanti per l'accensione mancata. Lancio un'occhiata cieca nella nebbia e mi ritorna in
mente mia madre quando rimaneva sola a casa. Sosteneva che la ribalta del salone le veniva
addosso: quei cespugli, uguale. Francesca slitta sul sedile di fianco, mi lascio cadere al posto di
guida, vorrei una porta blindata altro che questa. Metto in moto e penso: "Stai a vedere che le
gomme pattinano sul fango come nei film horror". Profezia autoavverante. Riporto il cambio in
folle: avevo il piede a tavoletta sull'acceleratore. Riprovo mentre Francesca si gira a guardare in
tutte le direzioni. Innesto la retromarcia ma senza la frizione non entra, gratto, pigio sul pedale
giusto ma anche sul freno, la Micra fa un balzo scavalcando la pozza in cui era immersa. Evito per
miracolo il tronco di un faggio caduto e centro in pieno una fossa colma di pietre. Francesca si
protegge mettendo le mani avanti, sbatto la nuca, la marmitta o la coppa dell'olio stride con uno
schianto, ma siamo in fuga sulla statale per Barberino e rimaniamo così, muti, fissando i banchi di
nebbia che si rarefanno correndoci incontro, senza mai guardarci, senza fiato, fino al bivio per
Bosco ai Frati. Allora Francesca trae un sospiro, accende la radio. Nick Cave sta cantando Where
the Wild Roses Grow, "Dove crescono le rose selvatiche".

L'ultimo giorno la portai dove crescono le rose selvatiche


E lei si distese sulla riva, il vento leggero soffiava come un ladro
Mentre le davo un bacio d'addio, le dissi «Tutta la bellezza deve morire»
E mi chinai e le piantai una rosa tra i denti...

«Per lo meno non ti chiamano più al telefono» le sorrido.


«L'ho staccato.»
Nel retrovisore una macchina che ci segue. Magari è un contadino con l'insonnia.
«Riguardo ai fiori e al discorso esoterico» riprende, «accadde un fatto assurdo nei giorni in
cui al lago non si trovava il corpo di Francesco. Ero nel salotto dei suoceri con i miei genitori, a
Perugia, quando suonarono alla porta. Un uomo consegnò un cesto di vimini con un fascio di fiori
secchi dai calici e le corolle decapitate; un mazzo di gambi senza testa, insomma, e uno scopetto del
bagno spezzato in due. E scappò via. Appena mio padre vide questo omaggio orrendo, gli corse
dietro. Era un tipo stralunato con l'accento di Foligno. Disse: "Mi hanno ordinato di consegnarlo".
"Chi?" "Non lo so, io non so niente." Soltanto questo e se ne andò.»
«A parte l'angoscia di ricevere un messaggio simile, qual era il significato secondo te?»
«I fiori morti, l'acqua sporca, forse un modo per dire "l'abbiamo gettato nel lago". Tu che
pensi?»
«Che gli hanno spezzato il collo. E un'altra cosa: hanno reciso l'apparato sessuale dei fiori.»
«Perché mi guardi in quel modo?»
«C'è uno che lampeggia dietro di noi.»
«Lascialo superare.»
Con la coda dell'occhio scorgo il muso di un fuoristrada dalla griglia infangata. Il
conducente mi fa cenno di abbassare il finestrino. «Tutto bene?» grida. «Di là ho chiuso per venirvi
a cercare.»
«Chi è, il nostro portiere?» chiede Francesca.
Annuisco a entrambi. «Tutto a posto, grazie, ora torniamo.» Lui mi accenna di accostare,
sorpassa e posteggia sbilenco, nella cunetta. Lei mi fa: «Hai visto la rosa rossa sul cruscotto?».
«Era il classico altarino con la Madonnina.»
«La Madonna io non l'ho vista.»
«Avrà messo la foto della moglie. Che t'importa?»
«Adesso cosa vuole?»
«Non lo so.» Scendo.
Il portiere mi chiama in disparte, diamo le spalle alla strada. «Stia attento» mi fa. «Lo dicevo
io che mi sembrava di conoscerla. Avevo visto la foto della signora su "La Nazione". Lo sa che è la
moglie di...»
«Non si permetta» lo interrompo. «E non dica stupidaggini.»
«Beato lei.» Alza le spalle e rimonta in macchina.
Lascio che si allontani prima di rimettere in moto.
Proseguiamo in silenzio. Come se ci avesse sentito, Francesca mi racconta: «Una volta, in
un ristorante sul Trasimeno, il proprietario si è rifiutato di servirmi perché, secondo lui, ero la
moglie del mostro».
«La gente è ignorante.»
«No, spietata.» Sintonizza la radio su un programma jazz. Mi sembra di riconoscere Fly me
to the Moon. In lontananza vediamo accendersi le luci del parco dell'hotel. Le indico con un cenno
la borsa da viaggio sul sedile posteriore. «Te ne vai?»
«Resto, altrimenti chi ti riaccompagna a prendere la macchina? E poi non volevi scrivere il
romanzo di questa storia?»
«Cosa ne sai che voglio scrivere un romanzo?»
«Ci pensi da quando mi hai vista entrare con gli album al bar dell'albergo.»
«Ho il sospetto contrario.»
«Che sia stata io a cercarti?» ride. «Può darsi. Non ero capace di scrivere da sola e ti ho
pedinato.»
«Davvero volevi raccontare la tua storia?»
«Sono stata zitta vent'anni. Adesso basta.»
Entriamo nella hall, non c'è nessuno, tutto spento tranne le spie rosse del centralino. Non
troviamo gli interruttori e procediamo a tentoni verso il bar. Tasto l'angolo sulla parete della sala e
accendo la luce. «Sai farla funzionare?»
Esplora la macchina da caffè: «Ci provo». Armeggia dietro il bancone, l'accende: «Un tè?».
«No. Il primo caffè del mattino.»
«Ma sono appena le tre e mezzo!» mi sgrida la signora della pioggia. Siedo nella stessa
poltrona dalla quale mi ero alzato cinque ore prima per presentarmi: «Mi racconti come vi siete
conosciuti?».
7. Un amore borghese

«Francesco lo conoscevo da sempre. Quando noi sorelle eravamo bambine papà ci diceva: "Voi
dovete frequentare i fratelli Narducci perché sono persone molto per bene".
Papà, mio tenero dittatore. Non gli garbavano i ragazzi che frequentavo. Quando rientravo a
casa, mi puntava l'indice contro: "In corso Vannucci, alle quattro, Tizio ti ha offerto una cioccolata
calda, alle cinque e tre quarti hai chiacchierato con Caio di fronte al Monte dei Paschi". Era
gelosissimo, disponeva di una rete d'informatori: Perugia è piccola. E noi eravamo quattro "Piccole
donne" come Meg, Jo, Beth e Amy, le sorelle del romanzo per signorine di Louisa Alcott che
sapevamo a memoria. Io assomigliavo a Jo, irrequieta e ribelle, ma in casa nostra non si respirava
l'aria pre-femminista di Orchard House. Perugia non è il Massachusetts. La gente ti osserva,
spettegola anche se mastichi una gomma americana. Da ragazzina entri in un bar e il gelataio
conosce i tuoi gusti prima di te. Gli chiedi: "Pistacchio" e lui ti fissa sospettoso:"Come mai? Di
solito lo prendi alla fragola".
Ti ho detto che lo conoscevo da sempre? Sì, come un mito. Non l'avevo mai visto
veramente. Francesco era inarrivabile. Mia sorella maggiore raccontava che in casa Narducci, nella
camera dei maschi, aveva intravisto una cesta ricolma di lettere e fotografie delle sue fidanzate. Lei
era amica d'infanzia della sorella. Mi diceva: "È un playboy internazionale!". Io la fissavo con
grande stupore: "Anche il fratello?". "Pierluca meno." Comunque non ci filava nessuno dei due.
Vuoi sapere dove mi è apparso la prima volta? Te l'ho detto, alla villa di Prepo dei miei
nonni, un parco meraviglioso alle porte di Perugia. Francesco indossava l'abito di lino bianco del
sogno in cui mi rivelò che era morto per scherzo. Era il 23 giugno 1977: festa dei diciott'anni di mia
sorella maggiore. Fino ad allora ero vissuta nella sua ombra. Lei, la primogenita, la figlia prediletta,
la più brava a scuola, l'estroversa. Soltanto per lei mia madre acquistava abiti nuovi, io indossavo
quelli che non le andavano più. Lei, tre sorelle in una. Lei, alle venti e trenta di quel giovedì sera, la
festeggiata, punto di convergenza e di approdo di tutti gli sguardi dei ragazzi invitati, reginetta della
festa, sempre e solo lei, meravigliosa piccola donna in bianco al centro del parco, con una fascia
rosa in vita e un'orchidea bianca appuntata nei capelli biondi. Non c'è traccia di me in quel ritratto di
gruppo, mi ero tirata in disparte, ai margini, un poco invidiosa e malinconica. Io, la bruttina, la
timida, l'introversa, quella che è brava solo in danza classica. L'eterna seconda di quattro sorelle.
Francesco, nato per diventare il primo in tutto nella vita, arrivò per ultimo. Conosceva a
perfezione l'arte di essere protagonista. La dosava con sapienza impeccabile nelle entrate e nelle
uscite. Recitava a memoria il monologo centrale strappa applausi. Quando parlavano gli altri, il suo
silenzio imperava. In qualunque situazione si dovesse imbattere, qualsiasi antagonista si trovasse a
fronteggiare, prima ancora di conoscere il canovaccio della commedia sapeva in anticipo la battuta
finale. Era la sua.
Immaginai lui e mia sorella predestinati a un amore eterno. Due perle bianche in un oceano
di abiti blu. Io, che avevo appena finito di leggere Tonio Kröger di Thomas Mann, mi sentivo tra
due mondi e in nessuno ero di casa: "Voi artisti mi chiamate borghese, e i borghesi son tentati
d'arrestarmi". Avevo sottolineato questa frase e provavo quello stesso amore, fatto di desiderio,
invidia malinconica e un pizzico di disprezzo triste "per i biondi, per quelli dagli occhi azzurri", i
felici puri: i fortunati. Quei due ragazzi dagli occhi pieni di cielo nelle cui vene circolava
un'identica, gagliarda fede in se stessi, sarebbero diventati l'alfa e l'omega della mia esistenza, i due
poli opposti in eterna contrapposizione, e io la sintesi. Perché quella sera la vita mi riservò una
lezione insperata e stupefacente: Francesco si accorse di me. I riflettori si spensero su mia sorella e
inquadrarono una sedia delle ultime file. Lui mi guardò. Io mi alzai e cominciai a esistere. Da
principio non mi parve possibile. Chi sopravvive nella penombra in cattività stenta ad abituarsi
all'essere luminoso e libero. Presi coscienza del miracolo il sabato sera di due giorni dopo, 25
giugno, alla festa per i diciott'anni di sua sorella Maria Elisabetta alla villa di San Feliciano, nel
giardino, fiorito e danzante sullo specchio oscuro del lago. Mi sentivo molto carina, indossavo un
abito rosa intenso che decantava la mia abbronzatura, avevo strappato a mamma il consenso di
mettere le scarpe con i tacchi, anche se lei osservò che non sapevo camminare da donna e sarei
sicuramente inciampata. Francesco mi venne incontro: "Come stai?". Non mi abbandono più da
quell'istante fino alla sua morte, e oltre. Avevo sedici anni e mezzo, lui quasi ventotto. Se mi chiedi
esattamente di che cosa parlammo tutta la sera, non saprei dirtelo. Era un dio e basta. Recitavo la
sua preghiera.
Ti ricordi quella canzone di Paolo Conte:

Che ora fai? È' un'ora inglese, si va,


Agguanta la mia mano e ce ne andiamo...
Tanto di noi si può fare senza
E chi vuoi che noti mai la nostra assenza?

S'intitola Fuga all'inglese, l'ho scoperta da qualche anno, mi ha subito ricordato il nostro
primo appuntamento al Tennis Club. Perché l'esordio di Francesco fu una fuga: "A Spoleto è
iniziato il Festival dei Due Mondi. C'è la mostra di Folon, e stasera danno Così fan tutte di Mozart.
Ti va?"
Avevo tre ore a disposizione prima del "coprifuoco". Papà esigeva che noi sorelle
rientrassimo a casa entro le otto di sera. Francesco mi garantì che non avrei infranto la regola. In
motocicletta notai che si ravviava continuamente i capelli nel vento, come un tic. Aveva il panico di
perderli. Mi raccontò che a quindici anni si era rapato a zero perché era ossessionato dall'idea di
diventare calvo come il padre.
La sua era una famiglia tranquilla. D'estate si trasferivano all'Elba, le sere d'inverno
giocavano a bridge. I genitori, lui mai. Detestava le carte. "Stai con qualcuna?" gli chiesi. Rispose
che era stato fidanzato con una ragazza di Foligno. Amava i viaggi, soprattutto l'America. Con i
suoi amici erano inseparabili, facevano sci nautico, windsurf e motocross. Suo fratello, invece, era
un ragazzo isolato dal carattere schivo e arrendevole. "A Pierluca bisogna fargli tutto" mi disse. "Gli
ho anche dato una mano a scrivere la tesi in ostetricia e ginecologia." Di sua madre, una ex
professoressa di liceo di Piandimeleto, un paesino in provincia di Pesaro, mi raccontò
affettuosamente che era "un'impicciona". Allungava la mancia ai figli in cambio degli ultimi
pettegolezzi sulla città. Alternava euforia a malinconia. "È molto destabilizzante" disse "vivere con
una madre così." Anni dopo mi rivelò che in passato era stata ricoverata in una clinica. Luci e
ombre di ogni famiglia borghese che non ebbero su di me la minima risonanza. Non c'era davvero
nulla di allarmante. In questi due album, per esempio... Ma sì, te la voglio proprio mostrare... Ecco,
questa foto ce la scattò sua sorella in un viale della villa del lago. Guarda: Francesco con le dita
rattrappite, gli occhi storti, il collo incassato, finge di essere un mostro e di strangolarmi.
Impressionante, giusto? Infatti il Pubblico Ministero mi ha chiesto il permesso di riprodurne una
copia. Ma quante sciocchezze di questo tipo compiono i fidanzati in ogni angolo della terra? Quanti
milioni di fotografie "sospette" ma insignificanti passano inosservate sotto gli occhi di parenti
distratti? Oggi tutto appare eclatante. I disturbi nervosi di una madre, la tesi in Ginecologia scritta
da un gastroenterologo, la fotografia rivelatrice di una mostruosità latente. "Non c'è bisogno di fare
chiasso per trovare la verità." Hai mai letto Leonardo Sinisgalli? Era un poeta ingegnere lucano, il
più famoso degli sconosciuti del Novecento. "La verità come le streghe fugge via a colpi di scopa.
Per trovarla bisogna star quasi immobili." Io forse sono stata troppo e non "quasi" immobile.
In ogni caso tornammo da Spoleto con due ore di ritardo. Seppi in seguito che mia sorella e
il suo ragazzo ci avevano pedinato. Nel corso della festa di San Feliciano lei l'aveva preso di punta:
"Francesco, finiscila di fare la corte a mia sorella. È ancora una bambina". Entrai in casa e trovai
tutti in piedi. Dissi: "Sono uscita con Francesco Narducci". Tacitai mia madre. Papà, invece, non
mutò atteggiamento. Dieci giorni di punizione senza mettere il naso fuori di casa. Al termine sarei
partita per un viaggio di studio in Inghilterra.
Francesco mi telefonava tutti i giorni a un'ora prestabilita, quando in casa non c'erano
testimoni. Era dolcissimo, mi diceva: "Non sai quanto sono dispiaciuto perché ti hanno punita per
colpa mia". Invece io ero felice perché aveva iniziato a corteggiarmi, anche se mi formicolano le
gambe quando ripenso ai chilometri che ho macinato per farmi venire a prendere il più distante
possibile dai cento occhi di mio padre.
Il giorno prima di partire per Londra strappai un permesso di libera uscita. Naturalmente gli
telefonai subito dandogli appuntamento in un bar di periferia. Andammo a San Feliciano, prima alla
villa dei suoi genitori poi al lago, sul motoscafo rosso. Non ero mai stata all'isola Polvese. Ricordo
che ci inerpicammo, mano nella mano, in cima alla collina. Sedemmo su un rudere di pietra del
monastero benedettino di San Secondo proprio dove c'è un capitello con disegnata un'anguilla.
Come dici? "L'anguilla è un antico simbolo satanico?" Può darsi. Io so soltanto che
Francesco mi carezzò capelli e mi baciò fino al batticuore. Perché mi hai chiesto se tra quelle rovine
si celebravano messe nere? Come potevi saperlo se io stessa l'ho scoperto per caso poco tempo fa?
"Banale intuito da scribacchini" dici. Voglio crederti, altrimenti dovrei mettere il punto qui.
Il giorno dopo partii per Londra. Andai ad abitare presso una famiglia in una tipica villetta
inglese dei sobborghi. Lui, se ricordo bene, era un conducente d'autobus, la moglie casalinga, con
due bambini che si erano trasferiti in un'altra cameretta per farmi posto. La mattina frequentavo i
corsi d'inglese, la sera, invece di uscire con i ragazzi conosciuti al campus, mi precipitavo a casa ad
attendere la telefonata di Francesco. Scusami, non sono una scrittrice, lasciami aggiungere che
sentendo la sua voce mi sembrava di camminare sulle nuvole.
Un pomeriggio, rientrando dal college, sulla porta di casa trovai la signora agitatissima che
mi sommerse con una cascata di parole incomprensibili. "Speak slowly, please!" l'implorai.
Compresi solo: "Mio marito non me ne ha mai regalata neanche una". Ma di che cosa stava
cianfrugliando? Mi afferrò una mano tirandomi dentro la mia cameretta. Era inondata di rose rosse,
quarantotto per l'esattezza, le contai una per una. Emanavano un profumo talmente intenso che la
notte non riuscii a dormire. Innamorarsi a sedici anni è un'apocalisse. Dopo chiamiamo amore quei
rapporti che da ragazzine ci sarebbero apparsi indifferenti.
Ritornare a Perugia fu un piccolo dramma. Avrei dovuto sostare in città giusto il tempo di
rifarmi la valigia. Il guardiano della fabbrica di mio padre aveva l'ordine di accompagnarmi subito a
Porto Ercole, dove i miei stavano trascorrendo le vacanze. Architettai tre ore di tregua. Francesco si
inventò una scusa in ospedale e uscì per venire a prendermi. Adesso cosa mi metto? Optai per un
completo gonna e camicetta bordeaux regalatomi da mamma. Ma come fare per i capelli e il trucco?
Sembrava dovessi prepararmi per il valzer del Gattopardo.
Questa volta il motoscafo rosso si arrestò dondolando al centro del lago. Francesco spense il
motore e cominciò a sbottonarmi la camicetta. Fece altrettanto con i suoi pantaloni. In preda
all'eccitazione e al puro terrore gli confessai che ero ancora vergine. Non andò oltre i baci e le
carezze. Sulla via del ritorno, in macchina, lo ringraziai per non aver insistito come chiunque altro.
Immaginai per noi un futuro felice. Anche lui mi sembrò sereno. Alla radio, Lucio Battisti cantava:
"Sì, viaggiare... Evitando le buche più dure. Senza per questo cadere nelle tue paure...".
No, non sto prendendoti in giro. Sorrido perché anche i magistrati hanno insistito parecchio
sulla sua sessualità. Mi rivolgi le stesse domande del dottor Mignini. È stato molto comprensivo su
questo punto, faceva l'impossibile per non mettermi in imbarazzo, una persona veramente adorabile.
Può sembrarti bizzarro ma è più difficile parlarne di giorno con un parente che con un estraneo a
notte fonda. Per me poi, che vado a messa la domenica, padre e giudice sono la stessa persona. Con
te sono meno imbarazzata che con chiunque altro.
La mia prima volta? Credo nell'ottobre del 1977, sì, doveva essere l'inizio dell'autunno, al
lago non faceva troppo caldo e nemmeno troppo freddo. Sebbene Francesco e le mie amiche
avessero favoleggiato su questa grande avventura di ogni giovane donna, non provai assolutamente
niente: nessuna ebbrezza, nessun fastidio, nulla. Eravamo nella camera da letto dei suoi, a San
Feliciano. Francesco entrò e uscì dal mio corpo forse troppo velocemente, senza lasciarmi
un'impressione durevole, qualcosa su cui fantasticare, un piacere tangibile o un dolore acceso, il
senso della scoperta o lo stordimento sensuale dell'abbandono. Mi sembrò come se in ufficio fosse
entrato un fornitore di materiali da risulta, un atto irrilevante al pari della sua fornitura, una visita
senza conseguenza alcuna, né personale né per il futuro dell'azienda. Ecco, mi sentivo di svolgere
una mansione, invece che a letto. Cerca d'interpretarmi profondamente: il tutto avvenne sotto le ali
della dolcezza. Mai devi darla per scontata perché la sua era memorabile. Comunque rimanemmo
entrambi molto male. Mi vergognavo, gli avevo assicurato che ero vergine, non mi avrebbe creduta.
Ero anche furiosa perché mi sentivo ingannata: dove stava tutto il piacere che mi avevano descritto?
Dal lago a casa si impiegano venti minuti di macchina. Ci sembrò da qui all'eternità. Un imbarazzo
tremendo. Lui perché con tutta la sua fama da playboy non mi aveva condotto all'orgasmo e io
perché non avevo neppure provato dolore.
Nel tempo i nostri rapporti si aggiustarono, ma non raggiunsero mai i picchi arditi del
piacere né le cadute rovinose dell'indifferenza, quando due corpi non hanno più nulla da dirsi. Di
quelle notti conservo un ricordo fragile e tenero, un poco insipido forse, ma all'epoca i nostri
rapporti mi sembrarono tranquillizzanti. Da sposata le amiche mi avevano rassicurato che quasi
tutte facevano finta di raggiungere l'orgasmo con i loro mariti e che questo era "normale". Devo
confessarti che io ho scoperto il sesso tardi, nella maturità, con il compagno che avevo quando ero
già vedova da qualche anno. Per me, allora, la straordinaria notizia era un'altra: mi ero fidanzata con
Francesco Narducci. Non ero una ragazzina qualunque di Perugia, stavo in prima pagina.
La sera mi era severamente proibito uscire. Ci incontravamo all'ora di pranzo, all'antica
pasticceria Sandri in corso Vannucci. Dopo ci fermavamo in campagna, in macchina, a
chiacchierare o fare l'amore.
So già a cosa stai pensando. Non avevate visto i manifesti con l'occhio tenebroso al centro di
un bosco e la scritta "Occhio ragazzi!, attenti al mostro"? Sbagli i tempi, caro iosotutto. Ti sto
parlando dei nostri tre anni di fidanzamento, dal 1978 al 1980, in cui non accadde un bel nulla.
L'omicidio del '68, quello di Barbara Locci e Antonio Lo Bianco, credo fosse stato da poco
collegato dagli inquirenti alla serie del mostro. In precedenza ce n'era stato uno soltanto, nel 1974, a
Sagginale, Borgo San Lorenzo. Le novantasei coltellate a Stefania Pettini. Ma la gente già non ci
pensava più. Inoltre noi ci appartavamo nella campagna di Perugia non nei boschi di Firenze.
Avresti preferito qualcosa di sensazionale? Non c'è, signor giornalista, mi spiace. Vuoi
sapere i vezzeggiativi con cui ci chiamavamo? "Topina e topino", nulla di più banale, giusto?
Eravamo una coppia tranquilla degli anni Settanta, un amore borghese, senza Bob Dylan e i Rolling
Stones. Due ragazzi di destra con la stessa aspettativa nel cuore: un matrimonio identico a quello
dei nostri genitori.
Adesso fammi qualche domanda se vuoi, però ti prego, poi saliamo in camera perché in
questa sala fa freddo.»

«Francesco aveva una pistola?»


Lei fa una smorfia ironica, mi guarda colpita dalla provocazione, risponde dopo una lunga
pausa. «Tu hai il tarlo dell'inquisitore, mi fai le stesse domande del PM, anche se — devo
ammetterlo — questa non me la sarei aspettata così presto. Sì, ne aveva una, nera, la custodiva in
macchina nel vano portaoggetti. Adesso non pretendere che io sappia se si trattasse di una Beretta
calibro 22 Long Rifle o come diavolo si chiamava l'arma dei delitti. "Signora la pistola era col
tamburo o senza?" In Procura ho sgranato gli occhi: "Che cos'è il tamburo?". In tutti i casi, qualora
il modello fosse lo stesso, sarebbe una pura coincidenza. Mio marito non c'entra con Firenze.
Quante volte te lo devo ripetere? Andare in giro armati, in quegli anni, era una consuetudine per un
professionista del nostro ambiente. La sua famiglia, come del resto la mia, stavano sulla bocca di
tutti. Ti sei dimenticato la stagione dei sequestri? Chi aveva uno studio rinomato, una fabbrica o una
villa con piscina, puoi giurarci che avesse anche una pistola. Per dimostrarti la mia trasparenza devo
aggiungere che tuttavia un risvolto strano c'è.»
«Quale?»
«Questa pistola, almeno che io sappia, non è stata mai ritrovata. La Citroën CX di Francesco
la mandò a ritirare suo padre, come la moto, e quasi tutte le sue robe, comprese lettere, fotografie,
pubblicazioni. Mi è rimasto poco o niente.»
«Hanno portato via la Citroën subito dopo che tuo marito è morto?»
«Esattamente un anno dopo. Il giorno dell'anniversario.»
«E in dodici mesi non scendesti in garage a controllare?»
«Perché? No, mai. Per me si era suicidato. Scusami, potremmo continuare su? Ho un po'
freddo.»
«Un'ultima domanda prima di salire in camera, promesso. Tu sei certa che lui era estraneo
alla catena di omicidi delle coppiette, e senza la prova della sua partecipazione, diretta o indiretta,
francamente non saprei darti torto. Non ti è mai capitato un episodio che ti abbia ingenerato, non
dico il sospetto, ma se non altro il sentore che qualcosa non andasse per il verso giusto?»
«Qualcosa di sinistro con lui, mai.»
«E dopo la sua morte?»
«Questo non lo puoi scrivere perché me l'hanno raccontato in Procura. I suoi vendettero la
villa di San Feliciano. I nuovi proprietari incaricarono una ditta di ripulire tutto. Sai come succede
nei traslochi, rimangono sempre delle cianfrusaglie, la rete sfondata di un letto, pacchi di giornali,
magari una lavastoviglie rotta. Mi raccontarono che venne ritrovata una collezione di libri gialli.
Tutte le scene raccapriccianti, con i particolari più mostruosi e orrendi, erano state sottolineate a
matita."
«Adesso dirai che la villa era frequentata da un sacco di gente.»
«Mi hai tolto la parola di bocca.»
8. Nel nome del padre

Le luci della hall erano accese, curiosamente lampeggiava anche quella dell'ascensore. Quando si è
spalancata la porta è uscito il portiere che si è guardato le scarpe e con un cenno del mento ci ha
segnalati agli altri misteriosi occupanti: «I signori di cui si stava parlando». Francesca e io stavamo
per entrare nella cabina senza neanche afferrare il concetto, lei si è scontrata col primo di due tipi in
grigio, entrambi esibivano grossi nodi di cravatte cinesi che sigillavano i colletti bianchi. Abbiamo
fatto uno scatto indietro e ho notato che mi squadravano, mentre di solito, in questi incroci notturni,
i maschi si girano a pennellare la donna. Ho seguito Francesca in cabina ma una voce alle mie
spalle ha ordinato: «Può accomodarsi, prego?». Mi sono affacciato con un'espressione perplessa. Si
erano appoggiati al bancone della reception e il primo ha insistito sbrigativo: «Dico a lei. Vuole
favorire qui?». Nel frattempo, il secondo aveva estratto dal quadro delle chiavi il mio passaporto e
lo stava sfogliando come un mazzo di carte. «Signora, lei può salire tranquillamente» ha risposto il
primo al "Che succede?" flebile di Francesca. Lei ha richiuso la porta dell'ascensore rimanendo
nella hall.
Quello col passaporto in mano snocciola il mio cognome e nome con voce nasale, chiede
conferma: «Lei è il giornalista?» Annuisco. «È qui per lavoro?» Reagisco esasperato: «Ma lei chi è?
Che volete?».
Come risposta aprono le giacche il tempo di mostrarmi le pistole. Uno la tiene all'altezza
dell'ascella sinistra, in una fondina nera, l'altro in una di cuoio beige, più in basso a destra.
Il primo spiega: «Scusi dottore, ministero dell'Interno» senza esibire alcuna tessera.
«Non sono qui per lavoro. Mi sono fermato per la grandine» rispondo. Francesca si
intromette: «È successo qualcosa in albergo?».
«Niente, signora, un normale controllo» replica il secondo gettando il mio passaporto sul
bancone. «Andiamocene» lancia un cenno al collega che si dirige verso la porta a vetri, poi si
rivolge al portiere: «Ci sentiamo».
Mi è sembrato di capire che quello li avesse chiamati non appena riconosciuta Francesca
nella foto sul giornale, per l'unica ragione che si trattava della vedova di un sospettato. Guardo il
portiere con commiserazione. Lei, in ascensore, commenta: «Quei due avevano l'accento di
Perugia».
In stanza l'abat-jour e il computer sono rimasti accesi, gli album afflosciati sulla poltrona, la
mia ventiquattrore in ordine sulla panchetta portavaligie. Esco sul balcone: uno sta facendo un giro
di ricognizione intorno alla Micra e tamburella le fiancate con le dita. L'altro, al volante di una
Lancia scura, esibisce la vuota arroganza del potere, innesta la retromarcia col motore imballato
mentre il faro girevole elettrizza di blu intermittente questo buio disperato. Francesca si è lasciata
cadere sul letto, scuote la testa con il viso nella coppa delle mani, rientro in camera, è scioccata:
«Lo capisci che significa? Da tre anni quest'inferno». Mi sforzo di minimizzare: «Non facciamoci
prendere dalle paranoie». Butto giù un sorso di champagne, anche se si è riscaldato e ha un
retrogusto di tappo. «Il portiere è un ficcanaso» aggiungo rassicurante.
«No, il portiere non c'entra niente. Nella migliore delle ipotesi non mi credono: "Una moglie
non può non accorgersi!". Ma di che, Sant'Iddio? Per me Francesco stava in ospedale fino alle nove
di sera. Non avevo neanche il coraggio di disturbarlo. In quattro anni gli avrò telefonato tre volte.»
«E nell'ipotesi peggiore?»
«Quei due non erano del ministero dell'Interno.»
«E chi sarebbero, dei servizi segreti?»
«Polizia deviata da qualche loggia occulta di Perugia o di Firenze. Gli stessi che allora
insabbiarono tutto. Ammesso e non concesso che Francesco sia stato assassinato.»
«Massoni amici del padre?»
Alza gli occhi gonfi di lacrime: «Ma falla finita! Come te lo devo dire che non lo so?».
Mi sento colpevole però non riesco a frenarmi, ho delle palpitazioni da drogato, insisto a
tormentarla, devo iniettarmi tutta questa storia. Le passo una mano nei capelli — la tenerezza di un
istante — poi siedo alla scrivania, le chiedo di raccontarmi qualcosa del suo matrimonio. «Tanto
sfogarmi fa bene, giusto?» Con un sorriso severo sottolinea il mio egoismo.
«Ci siamo sposati a Prepo, nella chiesetta privata dei miei nonni, il 20 giugno 1981. Tutto
era intimo e solenne. Il pomeriggio saremmo partiti per il viaggio di nozze in Giamaica e avrei
lasciato i miei genitori con tre sorelle ancora nubili: almeno nel matrimonio ero finalmente riuscita
ad arrivare prima. Ma papà mi abbracciò e pianse. Allora inventai mille scuse per ritardare la
partenza. Francesco si alterò, detestava ricevimenti e cerimonie, era irritato dal contrattempo e
accusò una stanchezza improvvisa. Dopopranzo svicolò dai brindisi e dalle fette di torta, si ritirò a
riposare a casa dei suoi. Tornò a prendermi un paio d'ore dopo e partimmo per la luna di miele.»
«Che tipo di coppia eravate?»
«Ci rifacevamo a un modello di coppia ideale sedimentato nel tempo, a partire dai nostri
genitori e ancora più indietro, ai padri dei padri, e lo riproducevamo all'infinito. Celebravamo un
rito a un altarino interiore. Era come se, dietro le nostre palpebre, avessero risposto "Sì" sull'altare
decine di coppie d'antenati dell'uno e dell'altro, complementari nei modi, nell'educazione ricevuta,
in tutti quei comportamenti pubblici e privati che parenti e amici si attendevano da noi: Francesco e
io da noi stessi. Era un amore e un rito collettivo. Vivevamo costellati da limiti e speranze altrui —
del nostro stesso sangue, certo — ma fino a che punto coincidenti con le nostre reali personalità?
Eravamo una coppia copiata, non saprei come meglio definirci, sì, una coppia copiata. Avrei potuto
paragonarmi a una bambolina russa, una matrioska, Le grandi erano la bisnonna, la nonna, mia
madre, da loro mi sentivo contenuta, infatti vestivo in modo inadeguato alla mia età, da signora
cinquantenne con figli già grandi, ero costruita da capo a piedi, senza un colpo d'ala colorato, un
segno. I pomeriggi giocavo a canasta, sfornavo una torta o lavoravo a maglia, e prima che mio
marito tornasse dall'ospedale, replicando l'insegnamento materno, mi chiudevo in bagno a rifarmi il
trucco.»
«Perché un uomo di dodici anni più grande, un tombeur de femmes, si sarebbe dovuto
innamorare di una ragazzina come te?»
«Perché ero ingenua, femminile e accomodante. Tre aggettivi per conquistare un uomo della
sua specie. Nella provincia italiana degli anni Settanta, in quell'ambiente ero la ragazza ideale per
costruire una famiglia.»
«O per un matrimonio di copertura.»
Lei arrossisce con un'espressione di stizza soffocata. Non mi chiede delucidazioni, cambia
argomento, racconta che il suo primo trauma fu la partenza di Francesco per Filadelfia subito dopo
sposati. Aveva vinto una borsa di studio e soggiornò dal settembre al dicembre 1981
all'International House, un residence per studenti dell'Università della Pennsylvania, da solo. Di
quel periodo ricorda tre cose: lo strappo dell'addio all'aeroporto Leonardo da Vinci e il superbo
mazzo di rose rosse che giunse il 2 ottobre dagli Stati Uniti, il giorno del suo ventunesimo
compleanno.
«E la terza?»
Prima di rispondermi sorseggia champagne senza curarsi del saporaccio di sughero. Lo
raggiunsi a Filadelfia per concludere quel soggiorno con una settimana di vacanza. Non vedevo
l'ora di fare l'amore e non avrei mai sospettato che le mestruazioni lo avrebbero disgustato. Quando
se ne accorse, infatti, raggiunse immediatamente l'orgasmo e si ritrasse, nonostante gli avessi
chiesto di rimanere ancora un poco dentro di me.»
«Viaggiava molto da solo?»
«Andava spesso negli Stati Uniti. Prima di morire, trascorse altri dieci giorni in America per
un congresso di gastroenterologia. Gli inquirenti hanno indagato anche su questo viaggio. Il collega
che divideva la stanza con lui ricorda che Francesco era molto agitato e non riusciva ad
addormentarsi.»
La signora della pioggia si alza dal letto, posa gli album sulla scrivania, sposta la poltrona
lateralmente e si siede accanto a me. Gli abbaglianti dell'autostrada le serpeggiano sulle guance,
irrorandole a tratti di guizzi irreali. Riaccende il cellulare. Distrattamente mi fa: «Che intendi per
"matrimonio di copertura"?».
Decido un affondo, anche se le sembrerò spietato: «Il 1981 è stato l'unico anno in cui il
mostro ha colpito due volte, prima e dopo il vostro matrimonio, come per l'apertura e la chiusura
dello stesso rito sacrificale: il 6 giugno due fidanzati, Carmela De Nuccio, ventunenne, e Giovanni
Foggi, in via dell'Arrigo, a Scandicci. E il 22 ottobre Stefano Baldi e Susanna Cambi,
ventiquattrenne, a Bartoline di Calenzano. In entrambi i delitti, per la prima volta, l'assassino
asportò il pube delle ragazze con tre tagli netti».
«Il 22 ottobre Francesco era a Filadelfia.»
«Lo so, all'epoca il suo nome fu depennato dall'elenco dei sospettati per questo motivo. Ma a
proposito di elenco, all'International House non tenevano quello delle entrate e delle uscite dei
clienti, in compenso esiste la testimonianza di un collega: dichiarò che Francesco aveva partecipato
a tutte le lezioni universitarie che si tenevano il lunedì e il mercoledì. Susanna Cambi fu assassinata
di giovedì, alle 23.30. L'alibi ha un buco abbastanza grande da farci passare un aereo Filadelfia-
Roma e ritorno.»
«Non è un tuo personaggio, era mio marito. Ma chi credi che fosse, un serial killer?»
«Francesca, te lo dico una volta per tutte, io credo alla sua innocenza finché non sarà
provato il contrario. Francesco era uno studioso di livello internazionale, giovanissimo esibiva un
curriculum che altri gastroenterologi se lo sognano a settant'anni, la sua competenza era
riconosciuta negli Stati Uniti, sarebbe certamente diventato un vanto di Perugia. Forse era
spocchioso e narcisista, come lo ricorda qualcuno, ma la caratteristica dei grandi uomini è di avere
caratteri orribili. Invece lui aveva una personalità complessa. Molti pazienti lo ricordano per la sua
generosità. Ma i carabinieri hanno segnalato i numeri di targa della Citroën di Francesco la
domenica notte dell'8 settembre 1985 a San Casciano Val di Pesa, nelle vicinanze della piazzola
degli Scopeti dove furono uccisi i due turisti francesi. Inoltre decine di testimoni l'avrebbero visto in
compagnia proprio di quei personaggi sospettati di essere i mandanti dei delitti: Francesco
Calamandrei, farmacista di San Casciano; Achille Sertoli, professore di dermatologia all'Università
di Firenze; Rolf Reinecke, tedesco, noto come "il medico svizzero"; Mario Robert Parker, lo stilista
di colore; e un avvocato fiorentino, un imprenditore straniero residente a San Casciano, e infine
quel mago Salvatore Indovino che celebrava le sedute spiritiche con Pacciani detto "il Vampa"
perché da giovane aveva fatto il mangiafuoco. Ma questa non è una favola, non sto raccontandoti
Pinocchio. Otto coppie di amanti barbaramente uccise chiedono da trent'anni verità e pace. Non
siamo altrettanto barbari a negargliele?»
«Facile accusare Francesco adesso che non si può più difendere.»
«Noi non siamo guardie. Siamo un uomo e una donna soli nella notte. Abbiamo fatto un
patto: quello di dire l'uno all'altra tutto quello che sappiamo. Nessuno vuole infangare nessuno.
Dostoevskij, ne I Demoni, ha scritto una definizione perfetta della verità: "Amico mio, la verità
autentica è sempre inverosimile". Proprio come questa storia. Siamo sinceri e basta, Francesca. Non
sta a noi giudicare.»
Il suo cellulare riprende a trillare, lei ha un sussulto, scruta il display, appunta un numero sul
bloc-notes dell'albergo.
«Chi era?» le domando.
«Non lo so, di solito sono telefonate anonime. Il PM mi ha chiesto di annotare tutti i numeri
sospetti e di inviarglieli per un controllo.»
«Prima che il delitto di Susanna Cambi e Stefano Baldi fosse scoperto» riprendo, «qualcuno
telefonò alla mamma di Susanna. Fai attenzione: questa povera donna aveva da poco cambiato
indirizzo, si era trasferita in casa della sorella, quindi chi conosceva quel numero era al corrente dei
loro minimi spostamenti. Lei e la figlia avevano aperto di recente un negozio a Città di Castello.
Susanna, inoltre, abitava a Prato, dove i vicini segnalarono le visite, negli ultimi tempi, di un
giovane umbro.»
«E con questo?»
«Elementi che incendiano la fantasia, tutto qui. Il telefono squillò in casa della zia di
Susanna. Una voce educata e un po' tremante chiese di parlare con la madre della ragazza. Poi
cadde la comunicazione per un guasto tecnico. Sulle linee internazionali? L'impressione degli
inquirenti è che si trattasse dell'assassino, voleva anticipare la notizia comunicandola personalmente
alla mamma della vittima. La terribile tenerezza del male: intimità, sadismo e la voluttà di farsi
riconoscere. Ma c'è dell'altro.
Un anno dopo, il 22 agosto del 1982, a Scicli di Ragusa, in un residence, viene ritrovata
Elisabetta Ciabani, ventiduenne, con un pugnale affilatissimo conficcato nel petto e svariate ferite
nelle parti intime. Il caso è archiviato come "suicidio". In seguito si scoprirà che Elisabetta,
fiorentina, abitava accanto a Susanna Cambi. Il mostro l'aveva eliminata perché era venuta a
conoscenza dei rituali alchemici della Rosa Rossa?»
«Ma lui voleva farsi scoprire o no?»
«Bella domanda. Avresti dovuto rivolgerla a tutti gli adoratori dei feticci e all'una e all'altra
delle sue coscienze.» Non voglio ferirla, ma devo precisare: «Giravano voci su tuo marito già nel
1981, e in tre posti apparentemente vicini, ma come sai meglio di me, distanti anni luce: Foligno,
Perugia e il lago Trasimeno. Sai come l'avevano soprannominato i pescatori? "La contessa del
lago"».
«Francesco? Ma queste schifezze chi te le racconta? Falla finita!»
«Sto riferendo pettegolezzi infimi, voci dal basso, dicerie. Tuttavia è una definizione
conturbante. D'altronde, se c'è una costante nelle devianze sessuali dei manovali dei crimini, da
Pacciani a Lotti, e nei presunti mandanti — penso allo stilista italoamericano della Maison Gucci,
originario del New Jersey, Bob Parker, che quella teste riferì di aver incrociato con tuo marito a "La
Sfacciata" — è l'omosessualità vissuta come un marchio infamante, quindi utilizzata come arma di
ricatto.»
«Era mio marito non un omosessuale. Abbiamo dormito nello stesso letto per cinque anni.
Almeno questo lo saprò, sì o no? Cristo santo!»
«L'omosessualità, per i seguaci di Crowley, era anche un viatico magico per il
raggiungimento di una grande opera al nero. Di riflesso ho associato quel soprannome tragico,
"Contessa", a un matrimonio di copertura per tacitare le voci. Tu eri la moglie ideale, soprattutto
nell'ipotesi di una doppia vita di Francesco.»
«Ti sbagli.»
«Va bene, posso sbagliarmi, anzi ti chiedo perdono sin d'ora. Anche perché suppongo che
Francesco fosse contemporaneamente una vittima, l'agnello intrappolato in un cerchio magico di
grado superiore, all'interno di questo rito iniziatico nel quale ciascuno dei partecipanti era bifronte,
mentre le coppie di amanti sacrificali diventavano un solo pugno di cenere. Ho anche la sensazione
che questi poveri amanti fossero selezionati e uccisi con ineffabile disprezzo sociale. Erano tutti di
estrazione modesta e la loro eliminazione avviene con la stessa noncuranza con cui i nazisti
mandavano gli zingari nelle camere a gas, un'orgia di onnipotenza indifferente. Per Pacciani e Vanni
c'è il movente supremo del denaro, il prezzo dei feticci. Ricordi uno degli indizi con cui
inchiodarono "il Vampa?" Gli inquirenti trovarono a casa sua un bigliettino con un numero di targa
e la scritta "Coppia". Assassini su commissione. Per il resto quei due sembrano agitarsi da burattini.
Sulla scena cupa soffia un alito creativo e distruttivo di portata filosofica inaccessibile al contadino
di Mercatale e ai "compagni di merende". È il compimento di un'opera di una congrega di maestri
satanisti che hanno sicuramente letto il Liber al vel Zegis di Crowley: "Io sono solo, non vi è Dio
dove io sono". Sai perché l'inconscio collettivo del mondo si è drizzato sui delitti di Firenze come le
orecchie di un daino? Abbiamo avvertito tutti la presenza del cacciatore. Forse il demonio non c'è,
ma la gente sa che se esiste è passato di qui.»
Francesca si rigira il cellulare fra le dita.
«Che ti succede?»
«Tu credi che possano compiere un'intercettazione ambientale anche se è spento?»
«Se sfili la pila, no. A meno che non contenga una microspia. Mi sembra assurdo.»
«Sarà un gesto irrazionale ma la tolgo. E tu?»
«Già spento.»
«E la pila?» La sua espressione atterrita mi strappa un sorriso. «Fatto!» Poso la pila sopra la
sua. «Così si litigano i loro segreti e ci lasciano chiacchierare in pace. A proposito: tu e lui
litigavate?»
«Anche quella era un'imitazione: un litigio copiato.»
«Che vuoi dire?"
«Non erano sfuriate spontanee, Francesco cercava un pretesto per uscire senza fornire
spiegazioni, ma questo l'ho ricostruito nel tempo.
Il motivo scatenante era sempre il solito: gli obblighi familiari. Andare a pranzo a casa dei
miei, compleanni, anniversari, visite dai parenti. All'ultimo minuto mi proponeva un'alternativa
inaccettabile: "Andiamo al lago?". Sapeva che avrei immancabilmente protestato: "Non puoi fare il
musone". Gli rinfacciavo il suo atteggiamento da superuomo, proseguire a sfogliare il giornale
senza rispondere a mio padre, per esempio, perché Francesco non partecipava mai alle
conversazioni, il suo sguardo ci filmava come una telecamera, ma la regia era lontano, da un'altra
parte.»
«E una volta trovato il pretesto?»
«Apriva la porta e usciva senza un commento, una minaccia o una bugia. Uno psicodramma
clonato cento volte. Io ci cascavo puntualmente. Ritornava parecchie ore dopo, una volta, te l'ho
detto, non si fece sentire per due giorni, e mi veniva sempre incontro con quel sorriso aperto,
irresistibile, che gli spaccava la faccia come quello del sole negli scarabocchi dei bambini. Mi
coccolava, magari si presentava con un regalo o mi raccontava un episodio buffo per farmi smettere
il broncio, in tutti i casi sapeva come farsi perdonare.»
«Ti diceva dov'era stato?»
«Mai. Un artista della fuga.»
«Tu non glielo chiedevi?»
«A un dio mica chiedi dov'è stato. Solleverebbe il sopracciglio e ti farebbe sentire una pulce.
Cosi serravo le fila facendo finta di nulla. Dovevo sembrargli superiore anch'io, la sua piccola
divinità: la moglie.»
«Con il Pubblico Ministero avete collegato le date di queste fughe con quelle dei delitti?»
«Sì, ma è quasi impossibile.»
«Non te le potevi ricordare?»
«Non è solo questo. Dal Policlinico di Monteluce è scomparso il suo fascicolo, o meglio,
non c'è rimasto quasi nulla. Era un mattone, è diventato un santino. Pagine e pagine strappate via,
svanite. Le sue entrate e le sue uscite dall'ospedale, era tutto registrato, non c'è più niente. In
questura uguale.»
«In questura?»
«Sì, il faldone con gli accertamenti sul decesso. Dovevano esserci le fotografie del cadavere
sul pontile di Sant'Arcangelo, i rilievi, i verbali, tutto trafugato. Immagino che il PM abbia dovuto
rintracciare il fotografo che fortunatamente aveva conservato il rullino di sedici anni prima.»
Apro il frigobar e spezzo in due una tavoletta di cioccolata. «Vuoi un whisky?» Lei scuote la
testa. «Ti fa male» mi rimprovera e rinuncio. «Mi hai detto che non avevate figli, vero?»
«Punto dolente. No, li desideravamo tanto. Ma non riuscivo a rimanere incinta. Con suo
padre mi sottoposi a ogni genere di controllo.»
«Il tuo ginecologo era tuo suocero?»
«Sì, lui e mio cognato Pierluca. Perché fai quella faccia? È normale avendo degli specialisti
in famiglia. Il guaio è che il desiderio di un bambino si trasformò in una Via crucis. Dapprima mi
diagnosticarono una prolattinemia: perdevo latte per un problema ormonale. Mi prescrissero due
compresse al giorno di una medicina che mi faceva svenire. Poi mio suocero scoprì che avevo
l'utero retroverso, anche se questo, di per sé, non era la causa della mia presunta sterilità. Mi
sottoposi a tutti gli esami ormonali necessari a stabilire quali fossero i miei giorni fertili. Sai che
significa? Trascorsa una settimana dal periodo mestruale dovevo andare tutti i pomeriggi nello
studio di mio cognato per un'ecografia, finché non maturavano gli ovuli. Solo a quel punto
potevamo avere un rapporto sessuale, ma ancora non bastava. Risultò che le mie tube avevano degli
spasmi, si aprivano e si chiudevano, l'unica possibilità perché la porta della vita restasse aperta era
iniettarmi del Valium. Che poesia! Te l'immagini? Prima di fare l'amore, mio marito nudo in
ginocchio sul letto, mi iniettava del Valium in vena.»
«Non sono una donna ma l'idea che la sua famiglia fosse tutta affacciata alla porta della vita,
come la chiami tu, mi dà i brividi.»
«Anche rifiutarsi era imbarazzante. "Pagami un altro ginecologo." Come glielo spiegavo?»
«Non poteva essere sterile Francesco?»
«Un giorno mi disse che si era fatto visitare a Firenze e non aveva problemi, era fertile.»
«Perché Firenze? Se lavorava in ospedale.»
«Non voleva farlo sapere a tutta Perugia.»
«Hai mai visto il referto?»
«No.»
«Nonostante tutto riuscivate a fare l'amore serenamente?»
«Troppo serenamente. A un certo punto decisi basta con le medicine, le ecografie, il Valium,
via tutto. "Tuo padre vuole a tutti costi un nipote" dissi "e anche noi desideriamo un bambino sopra
ogni altra cosa, ma non ci possiamo ridurre così, sembriamo dei replicanti." Riprendemmo a fare
l'amore scioperando da quella fredda catena di montaggio. Liberamente. Qualche tempo prima di
morire, però, Francesco subì una di quelle piccole frustrazioni che possono capitare nella storia di
ogni coppia. La visse come un dramma.»
«Un episodio d'impotenza?»
«Una cilecca, tutto qui. Invece scoppio a piangere. Naturalmente lo associai al problema
della sterilità. Gli spiegai che l'avrei amato sempre e comunque, anche se non avessimo mai avuto
figli. Ma Francesco continuava a piangere a gambe incrociate e schiena diritta, seduto sul letto
fissava un punto lontano, senza una giustificazione o un lamento, ecco lui pioveva come adesso, con
questo stesso silenzio che scivola sui vetri.»
«Forse il suo dolore non dipendeva dalla sterilità.»
«Forse.»
«Lo ricattavano minacciando di raccontarti tutto.»
«A chi?»
«A te, l'ignara moglie di un uomo perduto. La compagna della sua personalità dominante
ormai dominata da loro: la moglie del gastroenterologo di fama internazionale, del docente
universitario, del marito invidiato dalle signore bene di Perugia. Gli avranno detto: "Ti mandiamo a
casa la Marisa, la Milva, la Gabriella, a raccontare le inconfessabili virtù di un certo fotografo di
Prato specializzato in feticci"...»
«Smettila.»
«No, smettila tu! Avevano ragione i PM di Firenze. Uscendo dal ristorante mi hai detto che
non ti credevano. Chi ti trattò male? Giuttari? Canessa? Io avrei fatto di peggio, ti avrei sbattuta
dentro. Non sei credibile. Com'era possibile non accorgersi di nulla? E piantala con questa
imitazione di una nobildonna dell'Ottocento. Sembri una diva da film muto!»
Francesca afferra il posacenere di cristallo fissandomi diritto negli occhi, devia all'ultimo
istante la mano lanciandolo contro la vetrata. Il posacenere l'attraversa infrangendola in alto a
destra, precipita nell'erba del giardino, un tonfo sordo che le schegge di vetro arrotondano con un
coro squillante, disperdendosi sul pavimento. Mi alzo e l'afferro per le braccia stringendola a me.
«Sto cercando di farti reagire, lo capisci? Non era mia intenzione ferirti.»
Sento che poco a poco si distende. «Ma non dirmi che non mi credi» sussurra. «Mai più.»
Sediamo sul bordo del letto. Le domando se i suoi amici avevano mai notato qualcosa di
strano. Mi racconta che il marito di sua sorella maggiore una volta le disse: «Negli occhi di
Francesco c'è un altro che mi guarda».
«E negli ultimi giorni?»
«I nostri amici si ricordano che mio marito al mare era inquieto e assente. A me non
sembrava. Quell'agosto eravamo andati in crociera con il solito gruppo d'inseparabili, ecco,
guarda.» Sceglie un album. Mi mostra le ultime tre pagine di foto. Sei o sette coppie di giovani
abbronzati che mangiano anguria, giocano a carte, si tuffano da un panfilo nel blu dell'Elba.
Le restituisco l'album: «Lui non c'è».
Si china sulle foto: «Che dici?».
«I vostri volti ritornano tutti, del suo non c'è ombra.» È costretta ad ammetterlo dopo una
verifica, trasognata e sorpresa: «Strano che non me ne fossi mai accorta». Riponendo l'album sulla
scrivania raccoglie qualcosa dal pavimento. Posa sulla tastiera l'etichetta vergine di un floppy:
«Tieni, questa dev'esserti caduta». Ma io lavoro solo sulla memoria centrale. Utilizzo il computer
come un uomo delle caverne: «Mai usato un dischetto in vita mia». Mentre lo dico comprendo che
quei due del ministero dell'Interno devono essersi fatti aprire la stanza dal portiere e si sono riversati
il mio archivio sul floppy. Che si credevano di trovare?» esplodo. «La confessione autografa che tuo
marito era uno dei mostri di Firenze?»
Francesca alza la voce: «Hai visto cosa succede? Tu non devi neanche pensarlo, chiaro? Mio
marito si è suicidato o è stato ucciso perché voleva andare alla polizia. Adesso basta, ti
riaccompagno alla macchina perché in questo albergo non ci resto neanche un minuto di più. Prendi
la valigia, muoviti. Ti aspetto nella hall». Esce sbattendo la porta. La sento scendere le scale di
corsa. Poi un'altra porta che sbatte, la sua.

Il portiere è seduto pimpante alla reception come se fosse mezzogiorno. Mi spiega che in
famiglia, a Prato, avevano uno dei miei libri perché la figlia quindicenne mi ascoltava alla radio, un
giorno gli era capitato di sfogliarlo, così a quei due agenti aveva potuto raccontare qualcosa di più
preciso su di me.
«Le hanno fatto molte domande?» chiedo mostrando indifferenza mentre saldo il conto,
compreso quello del vetro.
«Niente di che» risponde facendo il furbo. «La signora è già in macchina» accenna
un'occhiata di fuori, stampa la ricevuta e mi dà il resto. «Che notte!» insinua con maschile
complicità.
«Ma vada all'inferno!» gli faccio uscendo.
«Vacci tu» mi gela la sua voce sommessa.
9. Il giglio nero di Firenze

La strada per Cafaggiolo è un flusso intermittente di fantasmi di nebbia, in cielo a tratti si affaccia
qualche macchiolina d'oro nel blu assediato dalle nubi. Sfrutto gli ultimi scampoli di tempo prima di
separarci, tengo acceso il computer portatile sulle ginocchia. Francesca guida rispondendo con
garbo distaccato, capisco la voglia di scaricarmi con tutta questa storia che la tormenta da vent'anni.
«Perché la ragazza della pioggia sulla panchina del lago si era intestardita sul suicidio?»
«Perché un motoscafo non è il Titanic e sul Trasimeno non ti scontri con un iceberg. Mio
suocero spiegava: "Si sarà seduto sui bordi del Grifo ed è scivolato in acqua". Perfetto. Uno ritorna
a galla, fa due bracciate e si issa a bordo. Te l'ho detto: mio marito era un nuotatore.»
«Qualcuno avanzò altre ipotesi?»
«Sì, ma questo non lo puoi scrivere. Mi riferirono la battuta dell'uomo che quindici anni
dopo sarebbe diventato l'avvocato di mio suocero: "Come, scomparso Francesco? Avete ritrovato il
passaporto? Perché se non c'è il passaporto, Francesco è scappato". Dico: come ti salta in testa?»
«Magari il progetto era fargli cambiare identità. Poi qualcosa andò storto. Tu stessa sognavi
che era fuggito in Sudamerica.»
«I miei sogni non si avverano mai. Solo gli incubi.»
Un istrice sta attraversando la strada. Francesca inquadra con gli abbaglianti la raggiera di
spine, rallenta, accosta, mi guarda: «Tre anni fa, quando a Perugia si sparse la voce che erano state
riaperte le indagini, andai a trovare uno dei più cari amici di mio marito, un gastroenterologo che
Francesco aveva in qualche modo "allevato", il suo più fedele collega che chiamerò Omissis. La
magistratura dubitava che il cadavere ripescato nel 1985 fosse stato quello di Francesco, e Omissis
era uno dei due colleghi che l'avevano riconosciuto", sul pontile di Sant'Arcangelo. Questa volta ero
determinata ad andare fino in fondo. "Posso portare il mio avvocato?" Lui mi rispose come
Bartleby, lo scrivano del famoso racconto di Melville.»
«"Preferirei di no."»
«"Preferirei di no." La prima cosa che mi colpì entrando, una gigantesca fotografia di
Francesco sulla scrivania. "Come mai la tieni qui?" Omissis rispose che quello era il suo posto da
sempre. Poi disse: "Mi ha chiamato la Procura. E a te?", Mentii: "No". Volevo strappargli qualche
segreto senza allarmarlo. Mi specificò che non aveva mai creduto all'incidente: "Tuo marito l'hanno
ammazzato dei delinquenti" ipotizzò. Gli chiesi del ritrovamento di Francesco. Tieni presente che
io, tre anni fa, ero certa che il cadavere del lago l'avesse riconosciuto Ugo, il padre. Scusa, stai lì sul
posto, che dubbi hai? Perché passi il cerino acceso a due colleghi di tuo figlio? Allora il dubbio
venne a me: "Perdonami" gli faccio, "ma com'è possibile che il padre, il fratello, tu e il tuo collega
ve ne stavate sul pontile di Sant'Arcangelo di domenica alle 7.30 di mattina e pluff! il corpo di mio
marito riemerge in quel punto preciso?" E lui: "Come, non lo sapevi? Ce l'ha detto un veggente."»
«Un veggente?»
L'istrice, dopo una spinosa parentesi di panico, è riuscito ad attraversare la strada. Francesca
si immette sulla carreggiata, la rabbia del ricordo dipinge il suo pallore di rosso come la Micra nella
nebbia. «Devi sapere che la notte del 10 o dell'11 ottobre, il terzo giorno senza notizie di Francesco,
mi telefonò suo fratello. Disse che un veggente sosteneva che mio marito era vivo, in grave
pericolo, nascosto sull'Isola Maggiore, ma per individuare il punto esatto occorreva un suo
indumento. Gli consegnai un pigiama. Omissis, che accompagnò Pierluca, mi raccontò: "Il veggente
individuò sulla cartina del lago la località detta Arginone. 'Domattina alle sette e mezza, il cadavere
riemergerà esattamente qui, tra la Polvese e Sant'Arcangelo'." Ecco perché stavamo sul molo.' Tu ci
credi?»
«Insomma. Che cos'altro ti ha detto?»
«Mi ha parlato di una suora, una sensitiva che — a suo dire — sapeva tutto sui delitti di
Firenze."
«Per caso suor Elisabetta, l'assistente spirituale di Pacciani, quella singolare religiosa che gli
custodiva i milioni in buoni postali e gli regalò Pericolo di morte, il libro evangelico degli esorcismi
per scacciare il demonio?»
«Il nome non lo disse. Specificò che la suora era una sua paziente alla quale doveva
praticare una gastroscopia. Approfittò dello stato di sonnolenza indotto dal Valium e le chiese di
Francesco. La suora rispose: "Di Narducci non si può parlare altrimenti cade il governo".»
«Bum.»
«Non ci credi?»
«Che qualche sottosegretario o ministro di questo governo all'epoca frequentasse "La
Sfacciata" o la chiesetta sconsacrata di San Casciano? In questa storia ci sono evidenze crude, reali,
provate. Non facciamo il gioco degli insabbiatori. Alla suora in trance, due schiaffetti, e facciamola
rinvenire in tribunale. Chi? Dove? Come? Quando? Tutto il resto è paranoia. A proposito di
Pacciani, invece, perché al ristorante non mi hai detto tutta la verità sulla telefonata dell'usuraio che
innescò l'inchiesta? Hai raccontato che la voce intercettata minacciò: "Quelli che non pagano li
danno da mangiare ai porci. Ti faremo fare la fine del medico scomparso nel Trasimeno".»
«Così mi è stata riferita. Perché?»
Digito "Traditori" sul portatile. Clicco "Trova" in archivio. «Perché le minacce riportate a
verbale sono ben altre, non si tratta tanto di usura quanto del tentato sequestro di un ragazzo, figlio
di una signora di Foligno, che doveva essere immolato in un rito satanico: "Tuo figlio sarà
sacrificato sulle colline del Mugello... La testa verrà sepolta nella terra di Pacciani". La minaccia
autentica e registrata — tieniti forte — è questa: "... Sarai uccisa come i traditori, Pacciani e il
grande medico, finirai come i traditori di Firenze, verrai uccisa e seppellita come Pacciani e il suo
amico, il grande professor Narducci finito nel lago strangolato. La tua vagina verrà spaccata come
le vittime di Firenze e dei traditori Pacciani e Narducci che tradirono il nome di Satana."»
Francesca fissa il castello di Cafaggiolo che ci corre incontro, gigante annebbiato,
barcollante fra gli alberi. «Perché non mi credi? Non me l'avranno riportata per intero per non
angosciarmi inutilmente.»
«Invece ti credo.»
«Tanto ormai siamo arrivati.» Curva nella radura fangosa dove avevo posteggiato la
macchina. I fari inquadrano la targa, lei manovra in modo che il muso della Micra sia pronto per
balzare sul ciglio della strada. Spegne il motore. Con la destra blocca la mia che sta ripiegando lo
schermo illuminato. «C'è altro in quel computer?»
«Niente che tu non sappia.»
«Ma io non c'ero quella mattina a Sant'Arcangelo, come te lo devo dire? Non sono entrata
nella camera ardente allestita alla villa del lago, non mi hanno permesso di rivestirlo, sono stata
tenuta fuori da tutto. Ero presente ai funerali e basta.»
«Perché ti sei fatta trattare come un'estranea?"
Lei china il capo, intreccia le mani in grembo, si morde un labbro: «Questa è stata la mia
grande colpa, ma ero imbottita di tranquillanti, mi ripetevano: "Per carità, è irriconoscibile, gonfio,
cinque giorni in fondo al lago, devi ricordartelo bellissimo com'era". E dal giorno dei funerali i
Narducci mi voltarono le spalle. Prima di lasciarci, per favore, mi spieghi che cosa accadde
domenica 13 ottobre?»
«Quattro medici, uno anziano e tre giovani, appaiono la mattina presto sul pontile ventoso di
Sant'Arcangelo, svolazzanti fantasmi. Di centoventicinque chilometri quadrati del Trasimeno hanno
scelto quel punto esatto per ritrovare Francesco grazie — mi hai raccontato — a un "veggente".
Sono suo padre Ugo, il fratello Pierluca e due amici intimi dello scomparso, uno dei quali il nostro
Omissis. Sullo sfondo, lui nega, il questore. Ma sarebbe ritratto in una fotografia. Alle 7.30 precise i
carabinieri di Castiglione, preavvertiti da un paio di pescatori che hanno segnalato il cadavere
galleggiante in località Arginone, recuperano la salma a bordo della loro pilotina per depositaria sul
pontile. C'era un sommozzatore sul fondo che la sganciò dai pesi a quell'ora precisa? Altrimenti
dammi il telefono del veggente perché è un portento. In tutti i casi, nonostante la presenza del padre
e del fratello, il riconoscimento fu effettuato sotto giuramento dai due amici "i quali, invitati a
esaminare attentamente il giacente cadavere, hanno risposto: 'Lo stesso apparteneva in vita a
Francesco Narducci'." Nessuno allerta il medico legale per l'autopsia, eppure quella domenica al
Trasimeno non mi risultano batterie di cadaveri da intervistare con le domande fredde ma
chiarificatrici che rivolgono i ferri da chirurgo ai presunti suicidi, agli annegati o agli assassinati.
Viene convocata, ma guarda un po', la dottoressa della USL del lago, il medico di guardia
insomma, come per un'allergia o un attacco di vertigini. Lei: "Constata la morte, verificatasi
verosimilmente per asfissia da annegamento". Esegue l'ispezione del corpo riemerso dal fondo del
lago e conclude: "Assenza di lesioni esterne visivamente e obiettivamente apprezzabili sul cadavere
esaminato". Diciotto anni dopo, colpo di scena: "Mi sentivo accerchiata!". Un uomo in divisa e i
familiari la indussero a compiere un esame superficiale. La dottoressa ricorda ancora quel corpo
gonfio, violaceo, la facies negroide. Aveva i vestiti letteralmente incollati alla pelle. Sulle prime
qualcuno l'aiuto a sforbiciare i lembi di stoffa, poi le fu imposta una frenetica accelerazione: ...
Dottoressa non ci sono dubbi, il cadavere è stato riconosciuto. Decesso per asfissia da annegamento.
Si sbrighi, non possiamo starcene tutta la domenica sul molo, è una famiglia importante, lo sa?
Guardi, sta arrivando un sacco di gente. Non li vede i flash dei fotografi?
Aurelio Piga, maresciallo dei carabinieri, ricorda: "Mentre la dottoressa esaminava il corpo
mormorai: 'Quelle sono lesioni'; ma qualcuno alle mie spalle mi intimò di star zitto. Mi dissero che
quella persona era il questore di Perugia."
«Appunto, come mai il questore Trio si trovava lì?
«Questo è l'asse intorno al quale ruota l'accusa. Lui si trovava lì prima ancora che i pescatori
scoprissero Francesco. Un passo falso. Primo perché i familiari sporgono la denuncia alla questura
di Perugia, non al Comando dei Carabinieri di Magione, come sarebbe ovvio, e questo servì a
giustificare il suo intervento. Secondo: l'autista del questore — sostengono gli investigatori —
avrebbe ricevuto l'ordine di recarsi a Sant'Arcangelo in un orario in cui per Trio era impossibile
sapere del ritrovamento di Francesco, a meno che non fosse un veggente pure lui. La verità
ipotizzata? Che fra tuo suocero, tuo cognato, il questore e l'allora capitano dei carabinieri, sia stato
stretto un "patto scellerato" per salvare l'onore dei Narducci. Il cadavere galleggiante era di un altro,
riconoscerlo per tuo marito, una massonica cortesia.»
«Per quale motivo?»
«Perché se uno viene strangolato la sua morte fa chiasso mentre i suicidi, a meno che non ti
chiami Marilyn Monroe, muoiono in sordina. E se vieni strangolato perché hai a che fare col mostro
di Firenze nessuno vuole essere tuo fratello, tuo padre, tua moglie.»
«Questo lo capisco bene. Ma come avrebbero fatto a sostituire il corpo?»
«Prima di tutto bisognerebbe scoprire il modo in cui si impossessarono di un altro cadavere.
Era quello di un extracomunitario all'obitorio, un poverocristo nero che non sarebbe mai stato
rivendicato da nessun parente? Oppure in questa farsa macabra l'attore che doveva interpretare il
cadavere di tuo marito è stato ucciso apposta per recitare quel ruolo? Gli inquirenti stanno
indagando, ma attenta, eravamo nel 1985. Molti di questi reati sono caduti o stanno cadendo in
prescrizione.»
«Anche l'omicidio?»
«Quello volontario no, anche se sulla prescrizione in genere i giuristi sono eternamente
divisi. Francamente assurdo. Il tempo e la lentezza della burocrazia non possono darla vinta agli
assassini. Torniamo a Sant'Arcangelo, ecco, guarda: questa è la foto in bianco e nero dei poliziotti in
borghese che trasportano via quasi di corsa la bara con l'annegato.»
«A questo punto che cosa succede?»
«Il questore monta sul carro funebre. Casomai a qualcuno fosse venuta voglia di dare una
sbirciatina all'annegato, gli passò la frenesia. Un osservatore lo riferirà vent'anni dopo, un questore a
guardia di un carro da morto gli parve bizzarro e non l'ha più dimenticato. Cinquantasettenne, amico
di lunga data di tuo suocero, anche lui affiliato a una delle diciassette logge di Perugia (ma lo sai
che avete quasi più logge che chiese?) il questore Trio dirige il corteo delle macchine, perché nel
frattempo, stando alle fotografie scomparse dal fascicolo ma recuperate da questo vecchio rullino, il
pontile si è trasformato in un bazar. Vedi? Ficcanaso, carabinieri, polizia, reporter, parenti. Un
testimone racconta che il carro funebre, diretto in città, sarebbe stato deviato all'ultimo momento o
da Maria Elisabetta, la sorella di Francesco, o dalla moglie di Pierluca, la figlia di quel professore
che aveva rinvenuto il motoscafo.»
«Il signor "Ho fatto tutto come se fosse stato mio figlio"...»
«Lei invece annuncia: "Il papà lo vuole in villa a San Feliciano!". Legittima richiesta di un
padre che desidera porgere l'estremo saluto a suo figlio, accolta al volo dal questore, che a guardia
di una bara fungeva da apripista. E nella villa di San Feliciano terminerà la prestazione della prima
ditta di onoranze funebri che depositò il cadavere "in una specie di garage". Infatti una seconda
agenzia, la Ifa-Passeri, prenderà servizio per trasportare Francesco fino alla Chiesa di Santa Maria
in Colle, a Perugia, martedì 15 ottobre, ore 10, come annunziato nel vostro necrologio pubblicato il
giorno prima: È tragicamente mancato all'affetto dei suoi cari il professor dottor Francesco Maria
Narducci. Già ma quale? Perché il corpo restituito dal lago (stando ai rilievi antropometrici
effettuati quindici anni dopo) era di un uomo di carnagione scura dalla corporatura tozza, fronte
prominente, calvo, otto centimetri più basso di Francesco, con indosso un paio di pantaloni
elasticizzati della tuta, vista la mole, e non certo un jeans 48 small. Per questo la prima ditta di
pompe funebri doveva essere sostituita per il trasporto del corpo in chiesa? Lavando e vestendo un
altro cadavere si sarebbero accorti dell'inganno? Il padre e il fratello di tuo marito negano, l'ex
questore e l'ex capitano dei carabinieri si proclamano estranei alle accuse. Allora perché tanto
mistero? Francesco era annegato per un malore o per suicidio. Succede, disgraziatamente, nelle
migliori famiglie. Qui sembra si facciano miracoli pur di nascondere una morte infamante. Lo
spiegano i "fratelli" stessi, la massoneria sana, democratica, ma un po' reticente di questo nostro
Paese in cui tra il conoscere la verità e il renderla pubblica passano minimo vent'anni. Ferdinando
Benedetti, storico e massone: "Le logge perugine sapevano che Francesco Narducci era coinvolto
nei delitti del mostro di Firenze, ma decisero di non far trapelare nulla per evitare che fossero
coinvolti tutti". E Augusto De Megni, Banco di Perugia, nonno del bambino rapito nel 1990, già al
vertice del Grande Oriente d'Italia, dichiarò al "Corriere della Sera" (per essere precisi, la giornalista
ricavò la dichiarazione dai verbali segretati): "So che Narducci andava a Firenze e che frequentava
giri poco raccomandabili".
Ogni chiesa, ogni moschea, ogni lobby, naturalmente ogni loggia, ha le sue pecore nere.
Francesco mi sembra lo stemma di una repubblica ombra: il giglio nero di Firenze.
Un appuntato dei carabinieri, infine, afferma che i pescatori rinvennero il suo corpo il giorno
9 e non il 13. Era adagiato in un tofone, una grossa rete da pesca, con le mani e i piedi legati dietro
la schiena dalla stessa corda che gli cingeva il collo, in modo che se avesse allungato le gambe si
sarebbe strozzato. Non un suicidio, ma un suicidio alla siciliana. Incaprettato.»

Rimaniamo in silenzio, seduti nel buio davanti a un cancello spalancato su un lungo viale. In
fondo al doppio filare di cipressi non un casale o una stalla, soltanto altro buio. Ci scambiamo
numeri di telefono e un bacio sulle, guance. Spengo il computer, apro lo sportello, torno alla mia
macchina.
Quando aziono il comando a distanza la Peugeot si illumina come un alberello di Natale.
Sono incapace di muovermi. La portiera nera è imbrattata da una lunga croce rovesciata rosso
sangue.
Dopo un certo tempo mi accorgo che ho ancora il braccio sollevato con in pugno il comando
a distanza puntato contro l'auto. La Micra fa retromarcia. Sento la voce tremante di Francesca alle
mie spalle: «Sali subito. Andiamocene via». Afferro la maniglia, la mano destra si impiastriccia di
vernice rossa.
«La tua macchina lasciala lì, sei pazzo? Monta sulla mia.» Spalanca lo sportello: «Vuoi
muoverti?».
Ripenso al portiere che ci aveva seguiti. Guardo ancora la lunga croce rovesciata, le
goccioline rapprese che sembrano sangue, il bosco tranquillo.
Mi affaccio al suo finestrino: «Ci mancano soltanto le risatine sataniche registrate».
«Non mi fa ridere. Sali.»
«Guarda che il carrozziere lo pago io, qui le sette sataniche non c'entrano. Sarà opera di quei
due che ci hanno fatto visita in albergo. Tentano di intimorirci, sanno che stai parlando con un
giornalista, vogliono metterci paura.»
«Per quanto mi riguarda ci sono completamente riusciti.»
Ritorniamo sulla statale in direzione dell'autostrada per Firenze. «Tu resti con me finché non
viene l'alba" mi dice svoltando al bivio del lago di Bilancino.
«Era quello che volevo. Che ore sono?»
«Le quattro e dieci.»
«Scoprirai presto che la croce rovesciata l'ho dipinta io.» Francesca si accende una sigaretta:
«Guarda che ti ho visto, stava per venirti un infarto».
Non ha torto, smanetto la radio: schiamazzi, pubblicità, canzonette, Radio Ankara, Radio
Subasio, Radio Tetouan-Marocco. Nel marasma di stazioni riconosco la Callas, poi mentre la
sintonia si precisa su quella tonalità intensa e ineguagliabile, senza una ragione consapevole, mi
viene da piangere. È l'aria di Lauretta dal Gianni Schicchi di Puccini.

O mio babbino caro,


mi piace è bello, bello;
vo' andare in Porta Rossa
a comperar l'anello!...

Dante raccontò questo episodio nella Divina Commedia. In Puccini la scena è incastonata
nella Firenze della fine del Duecento. Lauretta, figlia di Gianni Schicchi, innamorata di Rinuccio,
canta fra i parenti avidi che aspirano all'eredità di Buoso Donati. S'inginocchia davanti al padre, lo
supplica di avere pietà di lei e del suo amore, esortandolo a inventarsi qualunque cosa pur di
risolvere la situazione.

Sì, sì, ci voglio andare!


E se l'amassi indarno,
andrei sul Ponte Vecchio,
ma per buttarmi in Arno!
Mi struggo e mi tormento.
O Dio vorrei morir!
Babbo, pietà, pietà!
Babbo, pietà, pietà!...

Gianni Schicchi, il padre, sa che Buoso Donati è morto lasciando tutto ai frati, così si
sostituisce al suo cadavere, si infila nel suo stesso letto, manda a chiamare il notaio e fingendosi
moribondo gli detta un nuovo testamento.
«Che hai?» mi chiede Francesca. «Ti piace quest'opera?»
«È commovente. Mi ha ricordato Francesco e suo padre.»
10. La stanza chiusa a chiave

Sul lago di Bilancino il cielo ha ritagliato un'aureola di stelle intorno al campanile della chiesetta di
San Giovanni e lo spaccato blu di Prussia nel grigio infinito ricorda il firmamento di un presepio
napoletano. Francesca accosta la Micra alla balaustra e spegne il motore. Sotto di noi le paratoie a
ventola devo scarico di troppo pieno ruotano in fibrillazione per l'esorbitanza di pioggia caduta
nella notte. Ci sporgiamo sulle cascate. Le chiedo che cosa pensa del padre di Francesco.
«A Perugia la gente mormora che questa storia si risolverà il giorno in cui Ugo Narducci non
ci sarà più. L'autrice del libro sulla Rosa Rossa di cui ti ho parlato mi rivelò che era stato mio
suocero a iniziare il figlio a questa setta, da ragazzo, perché Francesco soffriva di problemi
sessuali.»
«Aveva le prove di questa iniziazione?»
Risponde alzando le spalle con un sorriso desolato.
Dopo una pausa sofferta mi chiede: «Tu lo ritieni possibile?».
«Se un professionista al di sopra di ogni sospetto si mostra addirittura capace di architettare
la sostituzione del cadavere di suo figlio con quello di un altro per salvare l'onore di famiglia, se
questo reato si dimostrasse vero, è fatale sospettare che nascondesse un segreto innominabile.»
«Sì ma quale?»
«Se lo sapessimo non saremmo qui. Che mi dici di Pierluca, invece? Il giorno della
scomparsa del fratello rimase per cinque ore da solo a San Feliciano. Tutto lascia pensare che sia
stato lui a trafugare la lettera di Francesco al padre. Capisco difendere la memoria del fratello, un
giovane illustre come lui, ci mancherebbe. Ma trincerarsi dietro l'ipotesi dell'incidente, nonostante
questa miriade d'indizi, mi sembra un'ostinazione sospetta. Perché non indagare fino in fondo come
stai insistendo tu?»
«Per non infangare la memoria di Francesco, così mi disse Pierluca.»
«A meno che i Narducci non siano stati a loro volta minacciati o ricattati. Era davvero figlia
di un senatore americano la moglie dello "svizzero" mummificatore? Se sì, come si chiama questo
senatore? O l'omicidio di Francesco andava occultato perché indagare sulla sua morte conduce
inevitabilmente a uno o più personaggi "politici" protetti da frange dei nostri servizi segreti? Ecco,
che altro ti disse Pierluca? Poco fa hai gettato lì una frase che non posso dimenticare: "E da quel
giorno i Narducci mi voltarono le spalle". Che intendevi?»
«Erano la mia seconda famiglia, ci volevamo bene. Tu immagina se sulla parete del salotto
di casa tua avessi da sempre I girasoli di Van Gogh, e un ladro assurdo nella notte lo sostituisse con
Il grido di Munch. Al mattino rimani inebetito. La parete è sempre quella, la cornice la stessa, il
valore ugualmente immenso, ma il soggetto è un altro, per giunta spaventoso. Mi chiesero di
restituire perfino i regali di nozze. Con mio marito avevamo acquistato la casa a metà: dovetti
ricomprarmi la sua parte. Consegnare la moto, la macchina e tutta la sua stanza. Comprese le lettere
e gli oggetti personali.»
«Nei matrimoni succede.»
«Con questo astio? No. Qui non si tratta di ingordigia degli eredi, ma di cancellazione della
mia vita dalle loro. È un ritratto di famiglia dal quale viene sforbiciata una faccia. Pierluca, al
termine di una triste resa dei conti, mi contestò: "Tu non sei una Narducci!". Alla commemorazione
funebre suo padre mi scansò con una manata e uscì dalla sala imprecando. Un mese dopo,
casualmente, incrociai la madre di fronte alla tomba: dette in escandescenze. La sorella, vedendomi
posteggiare nel centro di Perugia, quando mi allontanai prese a calci la mia macchina. Così raccontò
il fidanzato. In qualunque salotto li invitassero, mi riferivano che loro mettevano sempre le mani
avanti: "Non c'è Francesca, vero? Altrimenti non veniamo". Questo nei matrimoni visitati dalla
morte non succede.»
«A meno che, in quella lettera, Francesco non avesse scritto che lo ricattavano minacciando
di uccidere sua moglie. Lui potrebbe essersi sacrificato per salvarti la vita. Questo spiegherebbe
perché la sua famiglia ti odia.»
«Mi userebbero comunque come capro espiatorio. Perché se lo ricattavano, di qualcosa di
grave doveva essersi macchiato.»
Scendiamo lungo una parete di pietrisco e ci accoccoliamo sul ciglio del lago di Bilancino,
fantasma del Trasimeno. Da un attimo all'altro mi aspetto che sullo specchio di bronzo spunti un
Grifo rosso con al timone un ragazzo perduto che voleva eguagliare suo padre.
«Francesco ti ha mai raccontato se da bambino, di nascosto, assistette a qualche visita
ginecologica? Se avesse mai spiato suo papà con una paziente? La mamma, per esempio. Il
professor Ugo era anche il suo ginecologo? Immaginati se un bambino assistesse a una visita, coi
ferri, di un padre a una madre.»
«Come ti salta in testa? No, mai saputo.»
Il suo sguardo amico si spegne. La signora della pioggia è tornata. Sento freddo come
quando due persone si ritraggono in disparte escludendoti dai loro segreti. Penso di non avere il
diritto, né il coraggio, di confidarle il sospetto provocatomi dal suo racconto sulla sterilità. Se tutto
quel Valium in vena avesse avuto anche un altro scopo? Se il marito l'avesse iniettato per renderla
innocua? Francesca mi ha confidato che si coricava presto, la sera, mentre lui restava sveglio per
ore. E se Francesco le avesse indotto un sonno profondo, per poi allontanarsi in piena notte,
indisturbato, e raggiungere Firenze?
«A che pensi?»
Mi sento un vigliacco: «A niente».

So che di certe cose tu non vuoi neanche sentire parlare. Oltretutto non vorrei contagiarti
con le mie paranoie. Sono più vecchio, Francesca, e dubito per mestiere. Ho visto camaleonti di
ogni risma affermare l'esatto contrario di quanto sostenuto un attimo prima, uomini dai sentimenti
nobili trasfigurarsi dal giorno alla notte, perdersi per i più futili scopi. Che siamo mostri è un
concetto archiviato. Perché dovrei stupirmi di tuo marito? Nella peggiore delle ipotesi, la
compassione attraverserebbe il giudizio. Questa storia è impregnata di un dolore quasi più grave dei
sangue versato. Per te, invece, la lettura non può essere che un'altra. Non basterebbero milioni di
prove per affrancarti da un'implacabile evidenza: ti hanno scippato la giovinezza, il tuo matrimonio,
anche la nostalgia. Fai bene a barricarti. Sei viva forse perché davvero non ti sei mai accorta di
nulla. Non consapevolmente, almeno. No, non hai sbagliato a fuggire da Perugia.

«Sei proprio sicuro di non pensare a niente?»


«Pensavo al giorno del funerale. Mi racconti?»

«La chiesa era Santa Maria in Colle. Il parroco, don Pietro, tenne un'omelia struggente.
Della folla strabocchevole mi ricordo il silenzio spaventoso. Mamma mi sorreggeva, ero sotto
shock, annebbiata dai tranquillanti, lottavo per non svenire. All'ingresso avevo declinato l'invito di
mio suocero a sederci tutti sulla stessa panca. Provavo un disagio indefinibile, il presentimento della
discordia mi avvolgeva come i fumi dell'incenso. Ero la vedova, già non contavo niente. Quattro
infermiere circondarono la bara. Sembravano gendarmi. Notai che il mio cuscino di fiori era stato
relegato davanti al feretro sul quale troneggiava la composizione floreale della famiglia Narducci.
Poi un estraneo depositò un gigantesco fascio di rose rosse prive del classico nastro viola con la
firma. Chiesi chi le avesse mandate. Nessuno rispose.
Ti ho mai raccontato quando alle elementari fingevo di essere diventata miope pur di non
andare a scuola? Accusavo dolori assurdi, ai capelli, ai gomiti, me le inventavo tutte. In verità ero in
preda a una fifa tremenda per colpa di una maestra implacabile che aveva diviso la classe in due
gironi, al centro i somari e intorno gli altri, i bravi. Una volta precipitai nel girone dei somari, fu
un'esperienza traumatica, quella era un'aguzzina che se dimostravi di non aver capito la spiegazione
d'aritmetica ti sbatteva la testa contro la lavagna. Per stanare gli alunni che non avevano studiato ci
metteva uno contro l'altro, trasformandoci in delatori: quella classe divenne un covo di spie.
Finalmente un bambino si ribellò raccontando ai genitori di questa kapò e del nostro piccolo lager.
Lei fu cacciata dalla scuola e si mise in pensione. Perché te lo sto raccontando? Per ironia del
destino questa croce della mia infanzia è stata la prima a farmi le condoglianze all'uscita della
chiesa. Mi voltai dall'altra parte fingendo di non riconoscerla.
Con il corteo di automobili dei parenti stretti ci avviammo al cimitero di Perugia. La salma
di Francesco fu inumata temporaneamente in una cappella di amici di famiglia: i Servadio. Sulla
targhetta di ottone avvitata sul cofano di zinco della bara c'era scritto "9 ottobre 1985". Perché mai?
Si poteva indifferentemente indicare l'otto, il giorno della scomparsa, o il tredici, del ritrovamento.
Mio suocero mi tirò da parte. "Nello scrivere la data è stato commesso uno sbaglio" spiegò. Se è
autentica la testimonianza di quell'appuntato dei carabinieri, e se davvero Francesco era stato
ritrovato incaprettato il 9, non sarebbe uno sbaglio, ma un lapsus.
E vennero i giorni del lutto. Il dolore mio nuovo compagno, settimane indistinguibili le une
dalle altre, sai quando la vita fa un suono rotto? Mi abbrutivo davanti alla televisione. Ben presto mi
trasformai nella mia grande inquisitrice. Non riuscivo a odiare Francesco perché mi aveva lasciata
sola, no. Al contrario, riconoscevo nella sua messinscena dell'incidente un estremo riguardo: un
tranello gentile per nascondermi il suicidio nel lago. Mi torturavo: "Come hai potuto non
accorgerti? Ti sei fatta trattare da inguaribile ragazzina, Francesco sapeva che non avresti retto alla
sentenza di un tumore o di qualche altra malattia incurabile, e ha provveduto da sé, per non
rovesciarti addosso la sua croce". Ma dietro questa ombra mi insidiavano sospetti più spietati,
beffardi: "E se fosse stato completamente infelice? Se il nostro matrimonio l'avesse accerchiato
come un esercito nemico, e io stessa avessi incarnato la regina di questo assedio? Se l'unica libertà
che gli avessi concesso era darsi la morte?" No, questo vampiro non potevo essere io. E lui era
bello, intelligente, famoso. Ma allora, perché?
Mio suocero, nonostante la lastra di ghiaccio calata fra le nostre famiglie, domandò di
vedermi. Per dirti che razza di atmosfera si fosse creata, scoprii che mio padre, non fidandosi
assolutamente, ci fece seguire. Girammo sulla sua macchina senza meta. Ormai Perugia, per me, era
una città devitalizzata, niente radici o intermittenze del cuore, come gironzolare per Torino o
Detroit: una straniera in patria. Ugo mi pose domande invadenti. Com'erano stati esattamente i
nostri rapporti sessuali e se avessimo litigato per degli imperscrutabili motivi. Quando si convinse
che non ero portatrice di chissà quale mistero, ripiegò sulla solita solfa: un incidente, nient'altro che
un incidente. Era più ripetitivo di una pubblicità. Ci congedammo con la promessa di rivederci, ma
la rispettarono solo i nostri avvocati. Mi ricordo che pur di liberarmi dall'ansia dei Narducci
depositai nello studio dei miei difensori tutti i doni di nozze riconducibili alla loro famiglia: dalle
perle ai soprammobili. Non furono mai ritirati. Dopo dieci mesi di queste battaglie legali, il dottor
Omissis si offrì di farci incontrare in territorio neutro, a casa sua. Con mio suocero siglammo una
tregua notarile. Capii che il suo intento era solo di recuperare la stanza del figlio: le sue penne, le
pipe, gli scritti, l'archivio. L'offesa che ci provocano certi ricordi, invece di svelenirsi come tutto il
passato, si acuisce con il passare del tempo.

Sono le due del pomeriggio, per le tre è prevista la messa del primo anniversario di
Francesco. Mio suocero entra in casa con un cenno imbarazzato. Mi chiede di aprirgli lo studio del
figlio. L'avevo chiuso a chiave l'anno prima così come stava. Riaprendolo mi pervade l'aria fragile
della sua anima, il suo essere geniale e ironico, la sua tenerezza malinconica, e quel misto di
tabacco aromatico e Vétiver di Guerlain.
Ugo cade in ginocchio sul pavimento gridando il nome del figlio in modo disperato. Io
fuggo in salotto coprendomi le orecchie per non sentirlo.
Quindici giorni dopo ritornò con il camion dei traslochi.
Rimasta sola nel tempio del mio amore, mentre il camion portava via i suoi ricordi uccisi
una seconda volta, davanti all'alone polveroso delle cornici e ai contorni luttuosi della libreria,
pronunciai due semplici parole: "Addio Perugia". Da allora vivo e non vivo in questo limbo
geograficamente imprecisato, senza angoli o pareti, e attraverso i giorni senza punti di riferimento,
non parto e non arrivo, ma reggo, reggo senza reggermi a niente, tranne al mio lavoro e a qualche
amico sincero. Conosci un altro modo, per una donna sola, di essere quasi felice?»
11. La Madonna Addolorata

Abbiamo deciso di tirare l'alba alla zingaresca, e dopo aver vagabondato nei dintorni di Barberino,
imboccata la A1, Francesca ha proseguito sullo svincolo per Firenze-Certosa, poi ha svoltato di
nuovo sulla superstrada per Siena, dove stiamo transitando alle 4.45 di domenica 28 novembre: lo
vedo sul cruscotto, perché se non avessi il passaporto in tasca farei fatica a ricordarmi chi sono.
Neanche da bambino, quando leggevo dei pirati malesi di Salgari, mi ero smarrito altrettanto in una
storia. Lei racconta di lei e mi immedesimo in tutti i suoi personaggi. D'improvviso si interrompe:
«Quando ti sto annoiando, avvertimi».
«Felicità è passare la vita ascoltando la vita degli altri.»
«Anche una storia triste come questa?»
«Voltaire diceva che la storia non è che un quadro di delitti e sventure. Stavi raccontandomi
il tuo secondo grande amore. Adesso mi aspettavo la stangata. Allora?»
«Allora lui, ti dicevo, mi faceva sentire importante. Tredici anni dopo la morte di Francesco
avevo cominciato a rivivere al fianco di un essere speciale. Sono così rari.»
«In che periodo siamo?»
«Dicembre 1998. La mia stagione felice. Lui era un industriale e risiedeva in Umbria, io in
Lombardia, con l'incarico di direttore amministrativo al Cotonificio di Lambrate. Vivevamo
appiccicati a cinquecento chilometri l'uno dall'altra. Come avrebbe più o meno detto mia bisnonna
Luisa: in amore la lontananza accorcia le distanze fra gli amanti. Mi sentivo rinata, i nostri weekend
erano una delizia di passione e di mille attenzioni reciproche, il lavoro mi appagava, in famiglia a
Perugia tutti bene, non mi mancava nulla. Una sera, tornando a casa dal cotonificio, strofinandomi
sotto la doccia, palpai un piccolo nodulo al seno destro. Mammografia, ecografia, ago aspirato,
sentenza: tumore maligno. Da operare immediatamente. Non volevo fare la vittima, ma l'angoscia
non mi dava tregua: "Era vero quello che dei disturbi provocati dalle cure chemioterapiche si
vedeva nei film? Avrei perso tutti i capelli? E lui, più giovane di me di quattro anni, avrebbe retto la
situazione o mi avrebbe lasciata? E il lavoro? Avrei potuto continuare ad abitare da sola a Milano,
senza accanto nessuno di famiglia?"»
«Basta guardarti per incassare la risposta principale: l'operazione andò magnificamente.»
«Sì, puoi dirlo oggi, dopo l'asportazione del tumore maligno e dei linfonodi ascellari, sei
mesi di chemio "gialla", la più leggera, uno di radioterapia, e cinque anni di cure antiormonali.»
La signora della pioggia sospira, svolta allo svincolo di San Casciano Nord: «Un anno dopo
l'operazione, l'oncologa che mi aveva in cura scoprì casualmente che ero vedova. Oltretutto
ignorava di chi, e da quale storia venissi di laghi e delitti. Nonostante questo si infuriò: "Perché non
mi hai mai detto nulla? Non sai che tenersi tutto dentro favorisce l'insorgenza di tumori?"
Tu lo capisci, adesso, perché sto confessandomi con uno sconosciuto come davanti allo
specchio, vero? Ho il terrore folle che mi ritorni.»
La Micra ripiega sulla SS2. La strada è buia e poco trafficata. «Voglio sapere chi è stato il
mio primo amore, va bene? Avevo sedici anni, ne ho quarantaquattro. Voglio scoprire chi era l'uomo
con cui ho diviso il letto per cinque anni, Cristo Santo!»
«No, tu hai una paura fottuta di saperlo.»
Frena e si arresta in una piazzola desolata. «Vorrei guardarti in faccia se ti dicessero che la
tua ex moglie è una dei mandanti degli assassini di otto coppie di innamorati. Di più: che era lei la
"custode dei feticci". Perché sono arrivati a dire anche questo di Francesco.»
«Potrebbe essere vero.»
«Non lo conoscevi.» Si morde le unghie. «Non lo conoscevi» ripete.
«Hai scelto un luogo allegro per fermarti» osservo guardandomi intorno fra sacchi della
spazzatura e cartacce svolazzanti. Mi fa un sorriso di sfida: «Non c'eri mai stato?».
«No. È grave?»
"Vedi quella Madonna trafitta dalle spade? È l'Addolorata. Stamattina presto, anzi, ieri
mattina ormai, sono venuta qui prima dell'interrogatorio in Procura, per recitare una preghiera.»
«Perché qui?»
«Mi meraviglio di lei, signor giornalista. Perché è la piazzola degli Scopeti.»
«Tu sei fuori di testa» le dico scendendo dalla macchina. Come le salta in mente di
posteggiare qui a quest'ora di notte? Sul terreno i segni inequivocabili che i ragazzi di San Casciano
continuano a fare l'amore in un contesto di morte. Anche se, in effetti, sono trascorsi vent'anni e i
"compagni di merende" o sono in galera o sottoterra. Ma gli altri? Gli insospettabili? Sento che
Francesca mi ricorda qualcosa riguardo al dovere o allo stile di non essere vigliacchi. Mi ha
condotto qui per farmi rendere conto che suo marito non poteva frequentare postacci come questo.
Io sto già immaginando quella domenica 8 settembre 1985, l'ultima liturgia in nero, la messa
dell'odio.

... La vita è adesso


Nell'aria tenera di un dopocena...

Alla televisione i giganti del rock e i bambini della terra cantano We are the World per i
piccoli dell'Africa. Ma le radioline delle cantinette, dei bar e ristoranti di San Casciano rilanciano
ossessivamente la testa di serie delle playlist italiane: La vita è adesso di Claudio Baglioni. Nella
radura degli Scopeti, da qualche giorno è posteggiata una Volkswagen di fianco a una tenda
canadese blu. I mandanti e gli esecutori lo sanno.
Nadine Mauriot, trentasei anni, e Jean Michel Kraveichvili, di venticinque, hanno scelto di
accamparsi qui senza badare alla privacy, tra profilattici e polvere, a un soffio dalla strada e dai tubi
di scappamento dei camion, appena mitigati dai vecchi e grigi polmoni di questo bosco austero di
pini e querce, trasfigurato come nei quadri dell'"arte degenerata" tedesca. Giro su me stesso e mi
vengono in mente i Nudi nel bosco sulla spiaggia del pittore suicida Ernst Ludwig Kirchner, quei
volti disfatti dai trucchi, quei nudi disperati, i corpi di donna fusi con i tronchi della foresta.
E Jean Michel e Nadine facevano l'amore...

... Sei tu che hai un vento nuovo tra le braccia


mentre mi vieni incontro
e imparerai che per morire
ti basterà un tramonto
in una gioia che fa male di più
della malinconia...

Giancarlo Lotti, "il Katanga", raccontò fra mille "Non ricordo", presaghi di ritorsioni e
vendette, di avere assistito al delitto dallo stesso punto in cui mi trovo adesso. Disse che il Vanni
squarciò la tenda col coltello, mentre "il Vampa" l'apriva dal lato opposto. Nadine e Jean Michel
giacevano nudi, uno sull'altra. Lei fu ferita a morte dalla Beretta calibro 22. Lui riuscì a scappare
come un cerbiatto alla vista del cacciatore. Lotti aggiunse, forse mentendo, che il vecchio Pacciani
inseguì il venticinquenne in fuga nel bosco. L'afferrò per un braccio e gli affondò il coltello nel
collo e nella cassa toracica. A questo punto, appagato, tornò indietro a passi lenti, e si infilò sotto la
tenda dove l'attendeva Vanni "il Torsolo". I due rimasero occultati, alle prese con Nadine, per una
decina di minuti. Ricordo che quella povera donna fu ritrovata con le braccia avvinghiate al petto,
come se avesse tentato di proteggere il seno dalla mutilazione. Era ancora viva? Lotti precisò di
aver visto Pacciani sgusciare dalla tenda con in mano una specie di fagotto. Gli assassini si
inoltrarono nel bosco, dove probabilmente li attendeva il "custode dei feticci" per prendere in
consegna il pube e la mammella sinistra di Nadine.

Raggiungo Francesca, in piedi dall'altra parte della strada, assorta, sotto la Madonna
Addolorata. Sono ateo. Mi faccio il segno della croce.
12. Un mostro perbene

Le cinque e dieci, l'alba dovrebbe spuntare fra un'ora, vagabondiamo nei dintorni in macchina,
Francesca mi indica, a Sambuca Val di Pesa, la fabbrica dove suo padre produceva il "Fruttosello".
Basta questo ricordo per farci assalire da una fame frenetica, infantile. Avvistiamo un bar poco
prima della superstrada per Firenze. Cappuccino e cornetto. Mi appoggio al bancone mentre lei
scioglie lo zucchero nella tazza fumante. «Da quando si è riaperta l'inchiesta sulla morte di
Francesco, qual è stato per te il momento fatale?» Il suo sguardo attraversa perduto la vetrina dei
dolci come nel bar dell'albergo: «Sicuramente la riesumazione. Ma lasciami prima mangiare il
cornetto!»
«Almeno dimmi il più entusiasmante.»
«Quando con Francesco Crisi, il mio giovane avvocato, stringemmo il patto di perseguire la
verità fino in fondo, nonostante le reazioni violentissime che si sarebbero sicuramente sollevate.»
Il barista è simpatico però non ha capito niente.
«Che gli vò sapere» s'intrufola «i segreti delle donne?»
Lei lo compiace: «Voi maschi siete tutti così.»
Usciamo all'aperto, mi porge le chiavi: «Puoi guidare tu? Devo concentrarmi. Non mi
ricordo di aver mai parlato così tanto di me con nessuno.»
«Sei dispiaciuta?» chiedo aprendo la macchina.
«Ricordare il dolore è più doloroso della prima volta.»
Sulla superstrada rimaniamo in silenzio. Accendo la radio a basso volume per farmi
compagnia. C'è un assolo di tromba della band di Manu Chao. Dev'essere lo stesso trombettista che
suonava nei Mano Negra. La voce di Francesca mi fa trasalire. Ero certo che si fosse addormentata.
«Il 6 giugno 2002, all'Obitorio Comunale di Pavia, mi ritrovai di fronte alla bara sigillata di
mio marito. I sensi di colpa mi saltavano addosso come una muta di cani randagi. "Chi ero io per
disturbare il suo sonno?" Inoltre ero terrorizzata per quello che avremmo potuto trovare. Non tanto
la polvere, il teschio, gli ovvii risvolti macabri di una riesumazione...»
«Rilke diceva che la morte non è altro che il lato della vita non illuminato da noi...»
«Il mio spavento, infatti, si riferiva al lato oscuro della vita non a quello della morte. Il PM
Mignini, con la sua pipa da saggio, e l'avvocato Crisi mi avevano preparata a un ventaglio di
eventualità una più agghiacciante dell'altra: la bara poteva non essere abitata da nessuno; oppure
occupata da un altro; Francesco forse era ancora vivo, poteva avere cambiato nome e connotati, in
Sudamerica; oppure era morto laggiù, ma in tempi più recenti, e il suo corpo mi sarebbe apparso
quasi quello di un vivo; o infine nella bara, come sostenevano i Narducci e il loro avvocato (che
stava sbraitando "A che punto siamo arrivati?") c'era proprio il corpo abnorme ripescato nel lago
domenica 13 ottobre 1985.
Quando i necrofori cominciarono ad armeggiare con la fiamma ossidrica, il PM mi invitò a
uscire all'aria aperta. Con tutto il rispetto, dubito che esista uno scrittore capace di descrivere lo
stato d'animo di una moglie in un momento come questo. Ti dico solo che l'apertura di una bara è
come un parto a rovescio: mentre aspetti di sapere, delusione e speranza viaggiano appaiate
sull'autostrada della follia, non sai bene se è la morte che ti sta guardando o sei tu che ti permetti di
spiare nel buco della serratura dell'universo.
L'avvocato Crisi mi raggiunse nel cortile: "È lui, Francesco, perfetto, corificato, sembra una
statua di cuoio, nulla a che vedere con l'altro cadavere. Tuo marito ha ancora i capelli biondi e la
peluria sotto le ascelle. Questo non è un corpo rimasto immerso cinque giorni nell'acqua. Altrimenti,
come l'altro, avrebbe perso tutti i capelli". Chiesi: "Non potrebbe essere morto solo da qualche
anno?". "Sì, è possibile." Provai sgomento e rabbia. Non era stata solo la sua famiglia a deviarmi il
destino, forse anche Francesco mi aveva usato e gettato via. Poi mi ragguagliarono su due
particolari inquietanti. Il cadavere indossava dei vestiti in perfetto stato di conservazione. Me li
mostrarono in foto, non li riconobbi. So che mia madre aveva consegnato alla famiglia un paio di
jeans e un giubbotto di pelle, non l'abito blu come lei avrebbe desiderato. Era stato meglio così:
Francesco vestiva elegante ma sportivo. Questi indumenti, al contrario, non gli erano mai
appartenuti, mi sembrarono dozzinali. In ogni caso i pantaloni erano di taglia 48 small che l'altro
cadavere, rigonfio com'era, non avrebbe mai potuto indossare. Il risvolto più enigmatico, però, era
un altro. Sotto i pantaloni, sui fianchi e l'addome, Francesco era fasciato da un telo rettangolare, un
asciugamano ricamato a piccole spighe d'oro. Il corpo non presentava lesioni di sorta. Perché questo
inutile orpello? "Per pudore" dichiarò la famiglia, sostenendo che l'asciugamano era uno dei loro.
La pubblica accusa si domandò se quelle spighe rappresentassero simboli esoterici. So che i PM,
successivamente, contattarono Massimo Introvigne, esperto di esoterismo, perché rispondesse al
quesito se l'asciugamano, come il grembiulino massonico e il compasso, fosse un simbolo
iniziatico. Il parere è segretato. Il resto credo tu già lo sappia.»
«Sì, la perizia del professor Pierucci dimostrò che il corpo di San Feliciano e quello
riesumato erano incompatibili. E che tuo marito era stato strangolato, o manualmente o con un
laccio.»
Nella cinquantaduesima e ultima pagina della sua relazione si legge: "L'obiettivata frattura
del corno superiore sinistro (parzialmente calcificato/ossificato), che si ritiene avvenuta in vita,
rende quanto meno probabile che la causa della morte di Narducci Francesco risieda in un'asfissia
meccanica violenta prodotta da costrizione del collo (o per strozzamento manuale; ovvero mediante
laccio-strangolamento) secondo una modalità omicidiaria".
Francesca mi avverte che ho superato il casello dell'autostrada. Faccio marcia indietro.
Comincio a essere stanco pure io. «Tu lo sapevi della droga nei capelli?» mi domanda.
«No. Che droga?»
«Dai capelli sottoposti ad analisi chimica emerse una notizia per me così triste che non
riesco neppure a commentarla: Francesco assumeva dosi massicce di meperidina, un oppiaceo che
un tempo si usava in ginecologia per alleviare il dolore. Si drogava da medico, ma si drogava. In
particolare negli ultimi sei, sette mesi.» Mi fermo all'Autogrill per darmi una rinfrescata e riflettere
qualche minuto da solo. Quel cappuccino troppo dolcificato mi ha provocato sonnolenza. Non sono
esperto di droghe, ma la meperidina non dovrebbe essere un eccitante come la cocaina, bensì un
narcotico, una specie di bomba al Valium. Penso anche che i periti di parte, nominati dai Narducci,
giunsero a conclusioni opposte. L'abuso di droga potrebbe avere causato l'incidente del lago.
Quando torno in macchina, ritrovo Francesca seduta al volante. «È provato che la resistenza delle
donne è superiore a quella degli uomini.» Egoisticamente mi accomodo sulla sua femminile
sentenza, sistemo il computer sulle ginocchia anche se leggere in auto mi provoca il mal di mare.
Ma stiamo quasi per arrivare a Barberino e prima di separarci voglio capire se lei crede ciecamente
all'innocenza di suo marito, o se il suo è un mero atteggiamento di difesa. Naturalmente resta in
piedi l'ipotesi che Francesca avesse coperto i comportamenti del marito e oggi non possa smentirsi
senza essere incriminata. Ma in questi casi uno si avvarrebbe della facoltà di non rispondere (se non
sbaglio è stato l'atteggiamento del suocero), e comunque non ti vai a cacciare in un vicolo chiuso
con uno scrittore parlando a ruota libera, perché prima o poi ti prende in castagna, a meno che tu
non sia un Mozart del male, un diabolico compositore di sotterfugi e, con tutta franchezza, lei non
mi sembra il tipo. Ovviamente potrei risultare un ingenuo, essere stato usato, ma di questo passo
non si finirebbe più. «Hai letto le prime conclusioni dell'inchiesta?» le chiedo.
«No, se andassi dietro a tutte le robe che si scrivono dovrei farmi ricoverare.»
«Ma questi sono atti depositati.»
«E chi te lo dice?»
«Non starai esagerando?»
«Senti chi parla.»
Vado avanti lo stesso, ma devo ammettere che lo stratagemma architettato dagli indagati, il
padre, il fratello, il questore e il capitano dei carabinieri, sembrerebbe ridondante perfino in un
romanzo gotico. Calvino diceva che la fantasia è "un posto dove ci piove dentro". Qui dentro
grandina una realtà allucinata.
«Allora Francesca, ricapitoliamo, con la premessa che questa cattedrale d'indizi non l'ho
costruita io, ma la pubblica accusa. Il questore ordinò un'inchiesta segreta della squadra mobile sui
delitti di Firenze, quando Francesco era ancora in vita, su sollecitazione del padre, Ugo, per
appurare eventuali coinvolgimenti di suo figlio sospetto "mostro", e una volta emersa la sua
connivenza, depistò le indagini dei delitti di Firenze per salvare l'onore di famiglia dell'amico. Per
non far scoprire lo strangolamento di Francesco gli indagati si procurarono un secondo cadavere,
l'occultarono, l'immersero con pesi da sub in acqua e lo lasciarono riemergere al momento
prestabilito, dopo averlo vestito con parte degli abiti di tuo marito, il suo orologio, e avergli infilato
in tasca la sua patente di guida, ritrovata quasi in perfette condizioni, e non come una carta
maceratasi in acqua per cinque giorni. Il corteo funebre diretto a Perugia fu deviato da
Sant'Arcangelo alla villa di famiglia, dov'era stato precedentemente nascosto il cadavere di
Francesco, ritrovato incaprettato il giorno 9, sostituirono nella bara il falso con il vero, prima che la
salma, immagino, fosse esposta ai parenti nella camera ardente, e che venisse impartita la
benedizione a Santa Maria in Colle. Trafugarono le prove dei delitti delle coppiette, ovvero parti di
corpi femminili sotto alcol o formalina, reperti conservati in un immobile fiorentino affittato da tuo
marito, e ritrovati dalle stesse forze dell'ordine deviate e orchestrate dal questore. Sottrassero gli atti
d'indagine, i documenti d'intervento dei vigili del fuoco, i documenti comprovanti le sue
significative assenze dall'ospedale, e la lettera lasciata nella villa di San Feliciano, il giorno in cui
venne ucciso, nella quale Francesco confessava di essere il mostro di Firenze.»
«Aspettiamo il processo.»
«Nell'attesa, prevedendo che tu non vorrai mai più vedermi, posso farti qualche altra
domanda?»
«Fino a quando arriviamo a Cafaggiolo puoi chiedermi quello che ti pare. Poi basta con
l'inquisizione. Se ti fa piacere rivedermi mi porti al cinema. Ti propongo Fantasia di Walt Disney.»
«Guarda che anche lì c'è la scena di Topolino apprendista stregone.»
«Allora impiccati.»
«Per Fantasia e un sacchetto di popcorn mi racconti come hai saputo che la Procura aveva
riaperto le indagini?»
«Per un po' i miei sono riusciti a tenermi all'oscuro di tutto, sai, non vivendo a Perugia,
proteggermi all'inizio era facile. Poi quando le notizie rischiavano di slittare sulla prima pagina del
"Corriere della Sera", mia sorella maggiore mi ha telefonato.»
«E tu?»
«Il passato che ti prende a schiaffi. Ero risorta, il tumore guarito, sono precipitata dall'ultimo
piano. Poi ho capito che dovevo mutare atteggiamento. Se quindici anni prima ero scappata per non
volerne sapere più niente, ora dovevo attraversare l'abisso a testa alta. Andai da mio padre. Lui mi
confortò, disse: "Questa volta vai fino in fondo". Chiesi consiglio anche a un maestro massone, ora
"in sonno", vecchio amico di famiglia. Mi ripeté le parole di mio padre. Così non ho mai subito le
indagini, ho cavalcato questa lunga onda nera. Mi sono sentita fiera di me stessa, una volta tanto.»
«E la prima volta in Procura?»
«Una fifa infernale. Avevo chiesto io di incontrare il PM. Pensavo sarebbe stato un testa a
testa. Invece, quando entro in quella stanza, mi imbatto in tre omoni della Mobile che mi squadrano
dall'alto in basso. Per fortuna Mignini li ha allontanati, almeno in un primo momento. Mi ha detto:
"Signora, ero certo che lei avrebbe collaborato, ma non speravo fino a questo punto". Devi sapere
che i familiari di Francesco si opponevano strenuamente alla riesumazione della salma. Quello è
stato l'apice del panico. Da quel momento avrei dovuto fronteggiarli a viso aperto. Non dico
Montecchi e Capuleti, ma insomma. A Perugia la gente mi indicava per la strada. I giornalisti mi
bersagliavano. Non è stato divertente.»
«Di queste conversazioni con il Pubblico Ministero qual è stato l'argomento più
inquietante?»
«La brasiliana.»
«Chi sarebbe?»
«Il PM mi domandò se per caso avessi ricevuto strane telefonate dopo la scomparsa di mio
marito. Ricordai che un giorno fui contattata da una signora con l'accento americano. Mi fa: "Scusi
se la disturbo ma vorrei avere notizie di Francesco, ho chiamato la sua mamma e lei mi ha dato
questo numero". Io rimango di sasso: "Signora, mio marito è morto quattro anni fa". Lei si scusa,
racconta che telefona per conto di un'amica di Francesco, una che lavorava con lui in America e non
l'aveva più visto né sentito. Assurdo, non ti pare? Una collega si sveglia una mattina dopo quattro
anni di silenzio assoluto e improvvisamente si accorge che è passato tutto questo tempo?»
«E il PM?»
«Era particolarmente interessato. Ha voluto che mi incontrassi con i magistrati dei delitti di
Firenze, Giuttari e Canessa. Perché, con tutta evidenza, l'amica alla quale alludeva la mia misteriosa
interlocutrice straniera, era questa brasiliana.»
«Pazienta un attimo, Francesca, verifico sul computer, credo di avere inquadrato la teste alla
quale si riferiscono gli inquirenti... Eccola: Emilia A., 73 anni, nata in Brasile ma da sempre
residente in Toscana. Lei era la compagna di un avvocato amico di Francesco. Con tuo marito si
erano conosciuti all'Elba.»
«Io non lo sapevo. A farla breve, i PM di Firenze mi mostrarono la foto di questa donna su
un documento d'identità. Anche Mignini, a Perugia, mi aveva messo sotto gli occhi un album di
fotografie più voluminoso dei miei. Aveva lasciato scorrere decine di ritratti, compresi quelli dei
miei familiari, indicandomeli uno dopo l'altro, ma non avevo riconosciuto quasi nessuno, tranne
quei tristi figuri dei "compagni di merende" perché, come tutti, li avevo già visti alla televisione.»
«E la brasiliana?»
«Mai vista né conosciuta. Però questa storia che lei era l'amante dell'avvocato dell'Elba e
quando lui aveva manifestato l'intenzione di mollarla, la brasiliana l'aveva ricattato, io già la
conoscevo. E i PM di Firenze mi fanno: "No, è impossibile". Se ne ero venuta già a conoscenza
poteva avermela raccontata soltanto mio marito. Dico: "Forse l'avrò letta sui giornali...". Macché.
"Non è possibile, signora. Non è mai venuta fuori." E io proprio non riesco a ricordarmi da chi e
quando questo episodio mi è stato raccontato.»
«Infatti è un articolo di qualche giorno fa. L'avevo pescato su Internet quando eri scesa in
camera tua. Il 6 novembre 2001 questa brasiliana si presentò negli uffici del Gides a Il Magnifico, il
palazzetto degli investigatori dei delitti seriali. Raccontò che il suo amante, l'avvocato, le aveva
gettato là una frase, sconvolto: "Sono un mostro", quando i corpi dei francesi agli Scopeti non erano
stati ancora scoperti. Qualche giorno dopo lesse sui giornali che a Perugia indicavano "Francesco di
Foligno", così lo conosceva lei, come possibile mostro di Firenze, e si spaventò a morte. Tuo marito
e l'avvocato erano così intimi che la brasiliana riferì addirittura di un prestito molto personale.»
«Quale?»
«L'automobile di Francesco. Testimoniò di avere visto il suo uomo alla guida di una Citroën
tipo Pallas di colore verdino.»
«Questo io non l'ho letto.»
«Però così c'è scritto. Perché te la prendi con me?»
«Non me la prendo con te. Dico che saranno stati sfoghi di una donna tradita.»
«Sarà, Ma questa Emilia era talmente angosciata dalla sua scoperta che incaricò addirittura
un'agenzia di investigazioni per scoprire se il Narducci scomparso nel lago era lo stesso medico di
Foligno conosciuto da lei. Quando ne ebbe la certezza matematica si presentò dai procuratori di
allora.»
«E che fine fece la sua testimonianza?»
«Suppongo sia stata lasciata cadere come una foglia d'autunno. Disarmante. Perché la
brasiliana aggiunse una coincidenza mozzafiato. L'avvocato aveva un appartamento in affitto a San
Casciano.»
«E sarebbe questa la coincidenza mozzafiato?»
«No, quest'altra: l'appartamento era di proprietà della famiglia di Susanna Cambi, la ragazza
uccisa nel 1981 alle Bartoline.» La sbircio con la coda dell'occhio, è disperata. Maledizione, sono
sadico o cosa? Come se mi avesse sentito, lei mi dice, con voce fredda: «Vai avanti» fissando
l'asfalto della strada. Usciamo a Barberino di Mugello.
«Il fidanzato di Maria Elisabetta, la sorella di Francesco, ha raccontato ai PM di Perugia un
episodio singolare. Alla morte di tuo marito lui e Maria Elisabetta organizzarono una seduta con un
cartomante...»
Francesca mi interrompe bruscamente: «Tu che ne sai? Chi te l'ha dato il verbale
dell'interrogatorio?»
«Sono un giornalista professionista, ti ricordo. È in vigore una legislazione europea che
tutela la libertà di stampa. Non siamo tenuti a denunciare le fonti, semmai a divulgare la notizia, in
casi di particolare rilevanza e di pubblico interesse come questo.»
«Vai avanti, ti ascolto.»
«Questo cartomante aveva affermato, expressis verbis, che "si doveva liberare l'anima di
Francesco, implicato nei delitti del mostro". Il fidanzato della Narducci, di scatto, si era rivolto
meravigliato a guardare Maria Elisabetta, considerato il carattere calunnioso di questa insinuazione.
Ma lei, per contro, non gli era apparsa scossa come lui si sarebbe logicamente atteso, tutt'altro:
aveva celebrato quei riti suggeriti dal cartomante; bruciando di notte, nella villa di San Feliciano,
che di lì a poco sarebbe stata venduta (il motoscafo, invece, fu demolito) le essenze indicate dal
mago. Ma adesso facciamo un salto a ritroso nel tempo.
Tra l'1 e il 5 ottobre 1985, circa venti giorni dopo l'assassinio dei francesi, alla Procura di
Firenze giungono tre buste, indirizzate rispettivamente ai sostituti Fleury, Vigna e Canessa. Il
mostro, questa volta, non li omaggia con il pensiero atroce di un lembo di carne umana, ma con un
proiettile calibro 22 per ciascuno, inserito in un dito di guanto da chirurgo. Ogni busta, inoltre,
contiene un ritaglio dello stesso articolo di stampa con il titolo "Altro errore del mostro" e un
ritratto dei tre magistrati. Le buste sono identiche, le tracce di saliva di gruppo A, lo stesso di
Francesco. L'1 ottobre, a Pier Luigi Vigna, arriva anche un'altra lettera. Un "moralista" chiede agli
inquirenti di intervenire contro un certo annuncio pubblicato dal giornale delle pulci dell'Umbria,
"Cerco e trovo". L'inserzione di una donna che si fa fotografare nuda a pagamento. La lettera è
siglata con una F che, sottoposta a perizia calligrafica, è risultata identica allo svolazzo F con cui
tuo marito autografava i suoi scritti.»

Francesca accosta in una piazzola d'emergenza e inserisce i fari intermittenti. Devo avere
una faccia spaventata perché mi dice: «Non voglio accoltellarti, stai tranquillo. Sono io che vorrei
morire». Si accende una sigaretta, le tremano le mani; dopo una lunga pausa trascorsa a fissare le
auto che sfrecciano in senso contrario provocando dei piccoli spostamenti d'aria, fruga nella
borsetta, pesca una piccola busta, ne estrae un foglietto: «Una F come questa?».
Contemplo emozionato la firma autografa, lo svolazzo "Fra" in calce a un foglio senza data
del ricettario intestato al giovane professore di Clinica Medica dell'Università di Perugia:

ALLA MIA DONNA

Caro amore,
ti penso anche se ceno allo Junior; in effetti ti penso sempre. Ora (sono le 11) non vedo
l'ora di andare a dormire per sognarti; poi, sognandoti, non vedrò l'ora di alzarmi per
abbracciarti. Una donna che ha cambiato la mente di un uomo tanto da cambiare la sua vita è "la
donna".
Buongiorno amore
Fra

Le restituisco il biglietto del Signore della Pioggia. Mi ha suggestionato la parola "donna"


sottolineata due volte, quasi a marcarne il possesso di cui si sentiva insicuro, nonostante avesse
sperato davvero che lei gli potesse cambiare "la mente". Tengo questa interpretazione per me. Tutto
appare significativo con vent'anni di ritardo.
Lei spegne la radio. «Ormai ti sarai fatto un'idea di mio marito. La storia di Firenze già la
conoscevi. Sei un giornalista, mentre io meno giornali leggo meglio sto. Volevi mettermi al muro?
Be', ci sei riuscito. Ma se a te torna tutto, a me niente. Per cui ti chiedo, da donna a uomo, oserei
dire da anima ad anima, tu che cosa credi per davvero?»
«Credo — ma che valore può avere l'intuizione di un estraneo in una notte? — credo che
Francesco fosse troppo bello per essere vero, che sin da bambino suo padre gli avesse inculcato un
modello sublime da raggiungere, e quel traguardo non fosse altri che il clone del padre stesso,
meglio, l'idealizzazione più sofisticata del padre: il Narducci perfetto; e immagino che questo
bambino sia rimasto stritolato dalla camicia di forza di un modello che non gli apparteneva. Il suo
indecifrabile papà gli incuteva uno spavento ancestrale, forse perché, te l'ho detto, aveva assistito,
nell'infanzia, a una visita ginecologica, una paziente, sua mamma, chissà, ricevuta d'urgenza
eccezionalmente in casa. Per il padre, comunque, provava l'amore infinito dei vinti. Ma Francesco
era dotato di un'intelligenza fuori del comune. Riuscì magnificamente nell'impresa assegnata. Lui
solo sapeva, però, che si trattava di un'alchimia, la migliore delle riproduzioni possibili ma pur
sempre un'alchimia: era un uomo in provetta. Non poteva amare né riprodursi. Era solo come si è
soli all'inferno. Tutto quello che sublimò in alto, dovette sublimarlo in basso. Non lo dice un
demonologo, né l'estraneo che ti parla, ma un santo, San Giovanni della Croce, in una delle sue
poesie che descrivono il volo d'amore verso Dio. Un santo che più in alto saliva, più in basso
precipitava, e viceversa. Non guardarmi così, Francesca. Non sto seviziando il ricordo di tuo marito.
Angeli e demoni sono due spicchi della stessa anima. Juan de la Cruz scriveva:

... Più salivo in alto


più il mio sguardo s'offuscava
e la più aspra conquista
fu un'opera di buio.

Non conosco parole più luminose per descrivere l'Ombra.


La compassione che mi fa questo ragazzo è immensa. Un giorno, me lo auguro, dei giudici
depositeranno una sentenza che chiuderà questa epopea di sangue e di polvere, di pettegolezzi
morbosi e di paranoia, di depistaggi e d'inganni. Ma la verità più sotterranea, il significato autentico
di questa opera di buio, non la coglieremo mai. Da ultimo, quello che stanotte ho creduto di capire:
Francesco era scisso, aveva certo una doppia personalità, più marcata ma neanche troppo differente
dalle nostre singole molteplicità, però non era schizofrenico. Né un serial killer. Non aveva proprio
nulla di quegli oscuri geometri dalle facce rigorosamente qualunque che vivono con anziane madri
in casermoni grigi, ed esplodono in raptus di violenza assurda per poi afflosciarsi nel più disadorno
tran tran, fino alla scomposta deflagrazione successiva. Lui era un mostro perbene. Sì, un mostro
perbene, so che questa definizione ti offende ma non ne trovo un'altra più sincera. Temo che fosse
perfettamente cosciente dell'intrigo in cui era penetrato. Probabilmente c'era scivolato dentro per
gradi e con una progressione di ricatti che via via garantissero, agli altri, il suo silenzio. Ecco,
questo mi sembra compatibile con il giovane uomo disperato degli ultimi giorni, quello che scrive
lettere su lettere agli inquirenti per farsi ammirare e scoprire, perché se è vero che Francesco era
cosciente, era altrettanto consapevole di non condurre lui il grande gioco, non era più, ormai,
magistralmente in grado di controllare la precipitazione di quell'opera di gruppo: l'arte degenerata
risorta nei boschi di Scandicci e San Casciano. Denunciando se stesso avrebbe minato l'intera
architettura dell'opera. Quel pomeriggio sul Trasimeno gli avranno fatto balenare la speranza che
fosse autorizzato a sganciarsi con il paracadute dal volo in picchiata nell'abisso. Non ci sperò più di
tanto, ma aveva esaurito le chances. Può darsi che dovesse restituire un pegno per sciogliersi dal
patto di sangue satanico. Un Custode non può dimettersi, mai, È probabile che gli abbiano chiesto
di risarcire il suo "tradimento". Sul motoscafo rosso aveva con sé l'atroce "fagotto" cui accennava
Lotti? Forse sperò di cavarsela restituendo due chiavi dell'opera. Sia come sia, l'hanno attirato
all'Isola Polvese per ucciderlo. E da quel giorno i delitti di Firenze si spensero come un razzo
precipitato nel profondo del lago.»
«Ho capito» fa lei chinando il capo sul volante. Spegne i fari intermittenti e riaccende il
motore. «Adesso sono davvero sola.»

Alle sei e un quarto siamo tornati nella radura di Cafaggiolo. Francesca posteggia davanti al
cancello arrugginito del viale di cipressi che non conduce a nessun luogo. Scendiamo per
sgranchirci le gambe e salutarci. L'alba ha il colore della pelle di un neonato, ma il bosco di faggi
tutto intorno è ancora gelidamente azzurro e permeato dalle ombre della notte.
«Se dovessi mai pubblicare questa storia» si raccomanda, «ti prego di non scrivere che ci
siamo conosciuti in un hotel. I miei genitori sono gente all'antica.»
«Se non abbiamo fatto niente!»
«Non ha importanza. A mio padre disturberebbe la sola idea che ho chiacchierato con uno
sconosciuto in una camera d'albergo sull'autostrada.»
«Ma che stai dicendo? Scusa, non vorrei sembrarti cinico, ma una sera sì e una no siete su
tutti i telegiornali, coinvolti giocoforza in una storia che definire torbida sarebbe una cortesia, e vi
preoccupate di questa sciocchezza? Su Internet ho visto che ieri "Il Messaggero" intitolava "Festini
con Narducci e Pacciani"! Vi rendete conto o no?»
«No, renditi conto tu. Dobbiamo difenderci da tutto questo schifo. I miei sono persone d'altri
tempi.»
«E tu no?»
«Io ho già sbagliato abbastanza. Mi sono lasciata mettere i piedi in testa da tutti. Per
sopravvivere ho dovuto fare la finta tonta. A Perugia gli amici di una vita si comportano come se
non fossi mai nata. C'è gente che quando mi incrocia per strada cambia marciapiede. Ma io che
c'entro? Ora basta. Ricordatelo se e quando scriverai: qualunque verità dovesse scaturire dalle
indagini, anche la più intollerabile, sono stata io la prima che ha voluto saperla. Però non giudicare
Francesco senza prove.»
«Io racconto, dolce signora della pioggia. Giudicare è un altro mestiere.»
«Allora ciao» mi tende la mano imbarazzata.

Il saluto cominciato con una fuggevole stretta di mano si trasforma in un bacio. Uno di
quelli appassionati descritti nelle carte dei Baci Perugina che inventò sua bisnonna Luisa.
"Un bacio può essere una virgola, un punto interrogativo o un punto esclamativo. È una
fondamentale regola di lettura che ogni donna dovrebbe conoscere." (Mistinguett, in "Theatre Arts",
dicembre 1955).
Suppongo che anche un uomo dovrebbe conoscere la sacra regola. Ma descrivere un bacio
come questo è impossibile e inutile. Non credo di avere nulla da aggiungere alla sua vita, tranne la
mia, in questa ultima carezza.
Il bosco davanti a me è immenso e sinistro.
Francesca mi chiama per nome, non l'ha fatto per tutta la notte. Apro lo sportello verniciato
di odio e mi giro a guardarla. Una donna contro il cielo.
All'orizzonte il vento accelera la corsa di infiniti mazzi di nuvole, rose rosse dell'alba.
«Non mi hai raccontato nulla di te» protesta dolcemente.
«Un'altra volta.»
Questo romanzo breve è stato scritto dal 28 novembre al 31 dicembre 2004. Tutti gli avvenimenti
ricostruiti discendono da testimonianze dirette, o sono stralci pubblicamente emersi dai verbali
dell'inchiesta, o sono stati riportati dalla stampa e non espressamente smentiti. Le battute fra
virgolette sono autentiche, si riferiscono a episodi privati realmente accaduti, così come mi sono
stati raccontati da Francesca Spagnoli che ringrazio per la fiducia e il coraggio con cui si è
esposta narrandomi la propria vita senza mai tirarsi indietro, neanche di fronte alle domande più
invasive o alle tesi per lei meno condivisibili, come quelle sui rapporti tra Francesco e i mandanti
dei delitti di Firenze.
Dedico questo libro alla memoria di Renzo Rontini, padre di Pia, assassinata a Vicchio di
Mugello, un cittadino italiano morto di crepacuore per aver chiesto inutilmente allo Stato la verità
sull'omicidio della figlia. Uno Stato che, nel suo caso, ha preferito proteggere le sue ombre,
occultandole al riparo delle istituzioni, invece di assolvere ai propri doveri di giustizia. Mi riferisco
ai sepolcri imbiancati che da venti anni insabbiano le prove che potrebbero condurre alla
condanna degli amici dei loro amici. Per converso, questo libro è dedicato ai magistrati di Perugia
e di Firenze che si stanno prodigando per scoprire la verità sui padri insospettabili dei "compagni
di merende" e sul caso di Francesco Narducci, l'uomo che forse aveva una doppia vita, ma che
certamente ha avuto un doppio cadavere.
D.C.

Roma, 31 dicembre 2004

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