Sei sulla pagina 1di 3

ROMA CITTà APERTA ROSSELLINI

oma, 1944. I tedeschi sono sulle tracce dell’ingegnere Manfredi, un comunista


della Resistenza. Fuggendo sui tetti, Manfredi riesce ad allontanarsi e a rifugiarsi
presso Pina, una vedova che sta per sposare un tipografo, Francesco, anch’egli
partigiano.

Il figlioletto di Pina, Marcello, mette in contatto Manfredi con don Pietro, parroco
di una chiesa si periferia: si tratta di consegnare una somma di denaro a un
gruppo partigiano fuori Roma e di organizzare un’azione. Intanto il maggiore
Bergman della Gestapo si serve d’una sua collaboratrice, Ingrid, per irretire
Marina (attricetta amante di Manfredi), che a Ingrid è legata perché da lei rifornita
di morfina. Un attentato allo scalo ferroviario (compiuto da un gruppo di ragazzini,
fra cui Marcello) provoca un rastrellamento nel grande casamento popolare dove
abita Pina e dove si nascondono i ricercati. Francesco è catturato, con molti altri.
Pina, disperata, corre dietro al camion che lo porta via: una raffica di mitra la fa
crollare sull’asfalto. Poco dopo, un attacco partigiano blocca la colonna e libera i
prigionieri. Francesco, Manfredi e un ufficiale tedesco disertore trovano ospitalità
presso Marina che, ormai nelle mani di Ingrid, li denuncia. Anche don Pietro è
arrestato. Sottoposto alla tortura nella sede della Gestapo, Manfredi muore, senza
aver parlato, sotto gli occhi di don Pietro, che maledice gli assassini. Nello spiazzo
di un forte, il prete è condotto alla fucilazione; muore sotto gli occhi dei ragazzi
della sua parrocchia.

Roma città aperta, capostipite del Neorealismo

“Roma città aperta è il film della ‘paura’: della paura di tutti, ma soprattutto della
mia. Anch’io ho dovuto nascondermi, anch’io sono fuggito, anch’io ho avuto amici
che sono stati catturati o uccisi. Paura vera: con trentaquattro chili di meno, forse
per fame, forse per quel terrore che in Città aperta ho descritto”: il giudizio è dello
stesso Rossellini, e basta da solo a introdurre e giustificare il perché della scelta di
questo film, in rappresentanza della grande stagione del Neorealismo. Realizzato
durante i primi mesi del ‘45, il film ritrae le macerie fisiche e morali dell’Italia
postbellica, senza che siano necessarie ricostruzioni o studi di ripresa (Cinecittà
era stata praticamente distrutta): sono i volti della gente a parlare da soli, sono le
rovine dei palazzi, delle strade invase dal polverone e dal disordine dei primi mesi
dopo la cessazione della guerra, a lasciarsi catturare dall’occhio della telecamera
che insegue le vicende dei personaggi. Con “Roma città aperta” è stato coniato il
termine di Neorealismo, non solo per le soluzioni tecniche che portarono alla
realizzazione del film, ma per il nuovo modo con cui il cinema raccontava l’uomo.
Rossellini lo realizzò in condizioni precarie, con attori non professionisti,
scegliendo attori non professionisti (anche se Anna Magnano e Aldo Fabrizi certo
non potevano definirsi dei dilettanti), usando pellicola scaduta. Ma non è stato
questo a determinare l’autenticità con la quale il film (e quelli che ad esso
seguirono in quell’atmosfera generale di più ampia portata che fu il neorealismo)
ci ha restituito l’immagine dell’Italia martoriate e lacerata dalle contraddizioni
della guerra. “Roma città aperta, il neorealismo, si è detto, - ha commentato al
proposito, Rossellini- siccome non c’erano i mezzi, allora si sono dovuti adattare ai
mezzi di cui disponevano, ed è nato il neorealismo, cioè la verità: i muri veri, la
gente vera, lo zozzo vero ecc. NO, è stata invece una scelta proprio chiarissima e
determinata, perché questo l’ho fatto, ho cercato di farlo e l’ho fatto prima di
arrivare a Roma città aperta. La verità vera è questa: che il rito del cinema si
celebrava nel tempio del teatro di posa. E il teatro di posa era nella mani del
padrone del teatro di posa, il quale per autorizzarti ti faceva pagare quello che
voleva lui. E allora siccome si stava colla smania della fotografia assoluta,ente
perfetta e il panfocus e le cose e le cosine ecc, io ho rifiutato tutto questo. La cosa
più importante per me era dire le cose che volevo dire”.

Una volontà di autenticità che, non nasce soltanto dai luoghi e dagli ambienti
realistici, dalla recitazione la meno spettacolare possibile, dall’aderenza degli attori
ai ‘tipi’ rappresentati, ma soprattutto, sulla scorta dell’analisi che del film ha fatto
Gianni Rondolino, dal fatto che la realtà pare quasi nasca sullo schermo e si
manifesti cinematograficamente nel suo farsi, dinanzi agli occhi dello spettatore.
«La realtà del film -scrive Rondolino, diventa più ‘vera’ della realtà quotidiana,
perché concentrata in una selezione di momenti privilegiati che ne riassumono la
pregnanza, senza che la selezione riduca la realtà stessa a una tipizzazione
prestabilita. Ma è probabile che tale autenticità scaturisca anche dal metodo di
lavoro del regista, scena per scena affidandosi in larga misura alle situazioni del
momento, agli umori suoi e degli attori, ai luoghi e agli ambienti, sicché le
indicazioni di sceneggiatura(...) non sono per lui che appunti, note in margine, a
un testo narrativo e drammatico che vive essenzialmente nel suo intimo. Una
simile disponibilità a estrarre dai fatti e dalle situazioni tutti gli elementi utili per
individuare dal di dentro una condizione umana e sociale, si trasferisce sullo
schermo nella straordinaria facoltà di ‘far parlare’ le immagini in termini così
concreti che non ammettono dubbi di sorta”.

Quello che per molto tempo è stato un film discusso e apprezzato soprattutto in
base alla sua ideologia resistenziale, si ritrova allora come l’espressione di
un’esigenza, umana e artistica, che parte da una posizione morale, prima ancora
che politica. Una volontà di indagine della realtà, che tra documentarismo e
dramma sappia restituire l'atmosfera , la vera atmosfera che si respirò in quel dato
momento e in quel dato periodo. Questo non vuol dire che l’analisi di Roma città
aperta debba essere confinata solo ad una specifica realtà storica e sociale: è
proprio dalla sua ‘autenticità’ infatti che il film ricava quella forza comunicativa che
sola può suggerire emozioni e riflessioni senza tempo, perché tante altre
‘resistenze’ sono state affrontate dopo la seconda guerra mondiale.

«(...)Il neorealismo -scrive ancora Rondolino- era in primo luogo un metodo di


indagine, un modo nuovo di guardare attorno a sé, di vedere io fatti e gli uomini e
le cose non come proiezione di una particolare ideologia, ma come stimolo,
semmai, a una revisione di valori, a un approfondimento di temi, a un ulteriore
indagine». conoscitiva. Almeno questo era, a grandi linee, il neorealismo
rosselliniano, come già si poteva intravedere in non poche pagine di Roma città
aperta».

Potrebbero piacerti anche