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Per una
euristica degli ordini della
modernità" di Ciro Pizzo
Sociologia
Università degli Studi Suor Orsola Benincasa
34 pag.
Introduzione
Sembra davvero aver consegnato al mondo una straordinaria profezia, Stanley Kubrick
con il suo “2001, Odissea nello spazio”. In quella profetica pellicola, sarà un computer
intelligentissimo a prendere definitivamente in mano il controllo del destino dell’uomo.
Un uomo che si muove nello spazio infinito, ma a patto di continuare a muovere
attorno a sé il suo ambiente limitato e artificiale; che riproduce, ancora una volta, le
funzioni che erano della città: con spazi organizzati per le attività proprie di
un’umanità che, ormai, ha sempre meno a che fare con il peso della fatica di prodursi
il cibo, di guadagnarsi la giornata.
Questo si immaginava Kubrick nel 1968 (anno del film e data simbolo del 900) per il
2001; il primo anno successivo ad una fatidica soglia: il 2000.
Tale soglia sembrava così carica di venature millenaristiche, che avrebbe perfino
rischiato di arrestare le macchine intelligenti al servizio dell’uomo attraverso il temuto
millenium bug (rischio di confusione da parte dei sistemi informatici molto vecchi, fra
le due cifre finali dei secoli 1900 e 2000; poiché il computer non avrebbe saputo
distinguere le differenze tra i dati attribuiti alle due epoche. In realtà gli effetti del
trapasso del millennio sono stati del tutto nulli). Mentre, contemporaneamente, si
inaugurava il pellegrinaggio dei fedeli per il giubileo della Chiesa cattolica a Roma. In
realtà il 2001 si rivelerà ancora più profetico, in quanto l’11 settembre ci è stato un
traumatico risveglio dal sogno di un mondo finalmente libero: un attacco epocale (torri
gemelle) per opera dei fondamentalisti, che si richiamano ad un mondo che sembra
non dover più essere preso in considerazione, se non con una brusca inversione dello
sguardo verso il passato.
Ed ecco tornare i toni apocalittici, di una rovina incombente di questo mondo
estremamente fragile, insicuro, fondato su un unico dio: il denaro. Un dio, che celebra
la sua liturgia, il consumo, ma che non promette alcuna eterna salvezza, che non
conosce trascendenza né radici, che è interessato solo all’immediato e che non
ammette rotonde realtà, ma solo veloci e rettilinee strade sempre sgombre, percorribili
e potenzialmente infinite.
Questo tempo sembra ad un bivio: ora consegnato ad una fosca profezia di un futuro
da eterna Odissea in uno spazio infinito; ora consegnato ad un futuro da eterna Iliade,
non però da trionfante guerriero, ma da tremante abitatore della città assediata.
Nel percorso che qui si offre, come ipotesi euristica, si cerca di delineare lo sfondo
generale di quello che si configura come una vera e propria alienazione del mondo. Si
è cercato di ricostruire alcuni dei momenti cruciali della configurazione della gerarchia
tra quelli che si definiscono “ordines” nella modernità; cioè si è passati attraverso il
momento storico degli status a quello in cui hanno assunto un grande peso gli ordines
novi, poi divenuti caratteristici della modernità e perciò definiti ordines moderni.
Nel medioevo, gli ordines hanno trovato il primo momento di pieno riconoscimento: in
quanto espliciti vettori di quel predominio dell’economia di mercato, che troverà
sempre più spazio nel contesto sociale, fino ad allora, dominato dalla nobiltà
Con la Prima Guerra Mondiale si assiste alla frattura del corso storico. Infatti, già allo
scoppio della guerra, al momento della mobilitazione, il passato prossimo appariva il
più come passato remoto, la distanza psicologica da esso si dilatava improvvisamente.
Il mondo che si era appena lasciato alle spalle era già un mondo sfocato, perduto.
L’ingresso nella guerra era l’inizio di un cammino ignoto, di un futuro dai contorni
incerti. Potremmo chiamare tutto questo, sentimento della modernità.
Naturalmente di nascite della modernità ne possiamo rintracciare tante altre, a partire
dalla canonica data del 1492, anno in cui c’è il viaggio verso le Indie di Cristoforo
Colombo, che apre il sipario sul Nuovo mondo. “Storia moderna” è un’espressione che
in Italia abbiamo recepito dall’esterno, ma che viene usata qui da noi con molta
differenza di significato rispetto al mondo anglosassone e a quello germanico. Oltre
Alpe si tende a parlare di età moderna per i secoli, che vanno dalla fine del Medioevo
(fine del 15º secolo) sino al novecento inoltrato. Si usa nei paesi anglosassoni e in
Germania distinguere una prima età moderna (sino alla rivoluzione francese) e una
tarda o seconda modernità, che ha il suo perno nell’Ottocento e si prolunga sino alla
prima guerra mondiale. In Italia il discorso è rimasto più ambiguo, anche perché nei
nostri ordinamenti degli studi è stata introdotta, dopo l’unificazione italiana, una
“Storia del Risorgimento” come materia cuscinetto tra una storia moderna, che è
arrivata sino al 1815 e una storia contemporanea, che solo a fatica entrata nel
curriculum degli studi, dopo la seconda guerra mondiale e che, generalmente,
comprende l’era fascista e arriva fino ai nostri tempi.
Il 1492 è anche l’anno in cui si completa la riconquista, compiendosi cioè l’espulsione
degli ebrei dalla Spagna e dal Portogallo, ma anche la definitiva cacciata dei
musulmani dall’Europa occidentale.
Potrebbe, dunque, essere considerata questa la data (1492) della nascita
dell’Occidente; poiché è a partire da questa data che l’Occidente comincia a far
fruttare la propria superiorità militare ed economica. Se guardiamo, invece alla storia
della filosofia, è con Cartesio che si inaugura la modernità; se, invece, alla storia
dell’arte della letteratura è con il Rinascimento; mentre, per la sociologia, si parla di
modernità al momento della Rivoluzione Politica Francese con la Rivoluzione
Industriale. Di fronte a questi molteplici inizi della modernità, bisogna, quindi,
specificare bene il perché della scelta della Grande Guerra come momento d’ingresso
pieno nella modernità. In Italia, si era sedimentata l’idea di una grande guerra come
sforzo doloroso, ma consensuale per uscire dalle minorità post-risorgimentali e
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Occorre sottolineare che la guerra è sempre stata importante per il consolidamento del
potere. Nessuno ignora che la guerra deriva dalle relazioni politiche fra i governi e i
popoli; ma si pensa che con essa venga a cessare il lavoro politico, e che subentri uno
stato di cose regolato soltanto da proprie leggi. Invece, la guerra è la continuazione
del lavoro politico, al quale si frammischiano altri mezzi.
La guerra e la politica non vanno considerate disgiuntamente, perché sono animate da
una stessa logica: la politica è la guerra continuata con altri mezzi e viceversa. La
guerra ha il ruolo di luogo, in cui si risolvono le pretese di potenza degli individui; essa
è il linguaggio delle relazioni di potere. Il compito del potere politico sembra essere il
riscrivere perpetuamente, attraverso una specie di guerra silenziosa, il rapporto di
forze nelle istituzioni, nelle diseguaglianze economiche, nel linguaggio.
Questa logica è sempre stata evidente nei rapporti internazionali ed è emersa con
estrema chiarezza proprio in età moderna, al momento in cui si è imposta la logica
dell’equilibrio delle potenze attraverso la diplomazia. “L’esistenza di un dispositivo
militare permanente è un elemento essenziale di una politica comandata dal calcolo
degli equilibri, dal mantenimento della forza attraverso la guerra, dalla possibilità o
dalla minaccia della guerra. La guerra non è un’altra faccia dell’attività degli uomini,
ma comincia ad essere l’attuazione di una serie di mezzi, che la politica ha definito e
di cui il mezzo militare rappresenta una delle dimensioni fondamentali e costitutive”.
Questo è l’aspetto della guerra rivolta verso il fuori, verso l’alterità più radicale
pensata dalla politica, il nemico.
Il significato della distinzione di amico e nemico è di indicare l’estremo grado di
intensità di un’unione o di una separazione; essa può sussistere teoricamente senza
che, nello stesso tempo, debbano venire impiegate tutte le altre distinzioni morali,
estetiche, economiche o di altro tipo. Non v’è bisogno che il nemico politico sia
moralmente cattivo o esteticamente brutto; egli non deve necessariamente
presentarsi come concorrente economico; egli è semplicemente l’altro, lo straniero.
Basta che sia esistenzialmente qualcosa d’altro e di straniero, in modo che siano
possibili con lui i conflitti, che non possono venir decisi né attraverso un sistema di
norme né mediante l’intervento di un terzo “imparziale”.
Emerge con chiarezza l’idea dell’autonomia della sfera politica, come dovrebbe
funzionare ancora oggi; autonomia che aveva trovato una prima “esposizione” in
Machiavelli, ritenuto non a caso il fondatore della scienza politica moderna. “Dovete
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Il centro città funge da polo di attrazione positiva, verso zone via via sempre più
distanti. Questo accade, soprattutto, per le città che conservano un rapporto
privilegiato con il sacro. I luoghi santi diventano i centri intorno ai quali e a partire dai
quali è possibile orientarsi nel mondo. Lo spazio religioso è il “centro”, perché è il
luogo del rituale collettivo, del totem. La prossimità al centro diventa simbolo di
rilevanza sociale.
Qui siamo nel cuore della problematica dell’ordo, dell’ordine, che determina il
posizionamento regolato dal gruppo di fronte all’occhio del capo, centro e fulcro della
società, che chiama all’ordine tutti i membri. Il potere si concentra maggiormente al
centro, via via che ci si allontana si fa sempre più debole la sua capacità di controllare
gli individui e gli spazi. L’occhio dal quale il potere guarda il mondo è rappresentato
dal palazzo, che è una caratteristica della città fin dal suo sorgere. Negli spazi urbani si
succedono i palazzi sul grande modello imperiale e papale. (Il Palatium era il colle di
Roma sul quale i Cesari edificavano le loro case. In seguito il termine passa ad indicare
i palazzi imperiali posti sul Palatino. Dalla fine del III secolo d. C., il termine indicò
qualsiasi residenza imperiale, anche fuori Roma). Quindi, si delinea la caratteristica
forma urbis della capitale cristiana, con la giustapposizione fra palazzo e cattedrale. E
così, troviamo un’Europa costellata di città sante (santificate dalla presenza di
reliquie), che venivano utilizzate anche per fini laici. La Cattedrale si specifica come:
• nodo cruciale nel complesso sistema delle strade del pellegrinaggio
• vera e propria piazza coperta e luogo di riunione per la città e la sua
regione. Infatti, grazie alle loro dimensioni, esse permettevano una
forte densità per metro quadrato, per cui vi avevano regolarmente
luogo: sfilate, ricevimenti, cavalcate, processioni, giudizi,
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La Grande Guerra
L’altro elemento di delegittimazione dell’apocalittica è rappresentato dalla
responsabilizzazione dell’uomo circa il male del mondo e la estromissione di Dio dalla
storia. Questa tendenza riguarderà la distruzione di esseri umani in maniera
pianificata, avvenuta nella Prima guerra mondiale; momento in cui, per la prima volta,
la tecnica si capovolge in terribile arma “inumana”, di fronte alla quale il singolo
individuo rimane impotente. Si manifesta, cioè, il lato oscuro dei progressi, che
avevano illuminato la bella époque.
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Si può affermare che la dinamica perversa tra produzione e distruzione, che si instaura
nella società industriale moderna, è un aspetto del sistema capitalistico. La produzione
di nuovi generi di consumo, è resa possibile, proprio dallo smaltimento rapido, cioè
dalla distruzione. E la guerra moderna è, proprio, un’immensa occasione di
smaltimento, un gigantesco rituale di spreco. Solo che nella guerra - come nel macello,
come nel campo – non vengono distrutti solo i materiali. Per prima cosa, occorre
smaltire gli esseri viventi, che per loro sfortuna sono entrati a far parte del ciclo
produttivo.
L’esercito e la guerra non sono più “scuola della Nazione” e laboratorio di igiene
sociale, ma piuttosto sede di sperimentazione per un uso intensivo del materiale
umano, non esclusi gli “scarti” e i “detriti”, la “penosa zavorra umana” e la “melma
sociale”. Anche da questo punto di vista, la guerra segna una tappa importante nel
percorso dall’esclusione all’inclusione. Se, precedentemente, l’imperativo era stato
quello di tenere fuori gli inferiori; ora, esso diventa quello di inserirli, recuperarli,
adattandone le anomalìe e valorizzandone le imperfezioni. Il campo diviene il luogo in
cui avviene la cattura dell’escluso, viene preso chi dovrebbe stare fuori. Il campo
diventa lo spazio recintato, in cui è catturata la vita di chi è escluso nell’ordinamento,
dei soggetti che non godono della piena inclusione nella cittadinanza.
Infatti, la migliore qualità del soldato, nella guerra di massa e di lunga durata, è
l’assenza di ogni qualità: l’essere rozzo, ignorante, passivo. Solo così è possibile quella
trasformazione della sua personalità, che lo rende capace di adattamento alla trincea
e all’assalto, e fa di lui un materiale altamente manipolabile, un perfetto pezzo della
macchina bellica.
La guerra rappresenta una straordinaria forma di diffusione del modello industriale.
Essa è costituita da: monotonia di compiti ripetuti; applicazione passiva a meccanismi
automatici; totale perdita di autonomia e di possibilità di auto-direzione;
frammentazione e perdita di controllo del tempo; ambientazione sonora assordante,
che inibisce la comunicazione.
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Per concludere, lo scopo assoluto dello Stato è il mantenimento del potere. Pertanto, la
nuda violenza dei mezzi di coercizione è necessaria nei riguardi dei nemici esterni e di
quelli interni. Lo Stato è quell’associazione, che rivendica il monopolio “dell’uso
legittimo della violenza”.
Città (spazio condiviso) e diritto sono entrambi in crisi, a causa dell’egemonia del
sistema economico. Lo spazio del commercio ha creato una “rifeudalizzazione” del
diritto, erodendo le garanzie dei singoli soggetti: infatti, si godono i diritti solo se si
appartiene ad un “corpo”, al quale vengono riconosciuti. Anche se, sulla Carta, questi
diritti sono pomposamente sanciti e riconosciuti.
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