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RACCONTO ITALIANO, 2007

Lo zio Marcello, Gianni Biondillo

Io sono uno che si ricorda poco della sua infanzia e adolescenza. Non ho la mistica
della memoria, mi dimentico pure che cosa ho mangiato ieri, figuriamoci le cose
accadute cinque lustri fa! Però questa non riesco proprio a dimenticarla, ce l'ho come
scolpita nella mente. Ve la racconto: eravamo per strada, in prossimità del cortile
ultra popolare dove abitava (e abita tuttora) mio zio. Eravamo io, mio cugino, mio
padre, qualche altro parente (famiglia numerosa ecc. ecc.). E mio zio Marcello. Che
a un certo punto mi dice: - Gianni, fammi un piacere, vammi a prendere il portafogli
che ho dimenticato sul comodino. - Cioè, a dir la verità non so se mi disse proprio
così. Non so, ad esempio, se me lo chiese "per piacere". Ma la cosa in sé non ha
davvero importanza. Sta di fatto che ero impicciato con la chitarra, se volevo fare in
fretta mica potevo correre a casa sua tenendola in mano! Marco era pronto a fare la
strada insieme a me quindi decisi di affidare la chitarra a mio zio. Me lo ricordo
ancora. Gli do in mano la chitarra. Io avevo quattordici anni, lui quarantaquattro.
Gli dò la chitarra, insomma. E inizio a correre, Marco dietro di me. Perché corro?
Perché ho quattordici anni e a quell'età tutto si fa di corsa. Non so perché ma, in
corsa, giro la testa verso il gruppetto di parenti (famiglia numerosa, popolare,
meridionale ecc.): vedo mio zio che imbraccia la chitarra, sfottente, come un rocker
di periferia. Lo vedo per due secondi al massimo, anzi, no, non lo vedo, lo fotografo:
il suo sorriso ironico, la chitarra tenuta malamente, la cinghia lasca, i parenti che
ridono. Poi giro di nuovo la faccia e continuo la mia corsa. Sto per entrare nel portone
quando sento un rumore sgraziato, un tonfo, un rimbombo, un riverbero. Non mi
giro, sono oltre il cancello.
Cinque minuti dopo torno col portafogli in mano. Glielo dò. Mio zio mi restituisce
la chitarra. La mia chitarra nuova nuova, una Eko acustica, con le corde di metallo,
bellissima.
Rotta.
L'incollatura superiore della cassa sembra una bocca semiaperta. Ammutolisco.
Mio zio si scusa più per dovere che per sentito rammarico. Ho le lacrime agli occhi.
Ma faccio di tutto per non piangere, non fa bene alla mia aria da artista maledetto.
Non so per quanto tempo ho suonato con quella ex bella chitarra. Ho dovuto
aspettare anni prima di mettere su un gruzzoletto per potermene comprare una
nuova. La mia adolescenza, in fondo, è stata così: una chitarra rotta, con la quale io
mi illudevo di comporre capolavori immortali.
Non si è mai scusato davvero mio zio. Non gli molceva il core1 la vista di quel
ragazzino che suonava a casa sua, con suo figlio, una chitarra rotta da lui, non lo

1
Non gli molceva il core: non gli si inteneriva il cuore. Citazione tratta dalla poesia A Silvia di Giacomo
Leopardi.
inteneriva, non gli veniva voglia di comprargliene un'altra, non aveva senso di colpa
alcuno. Era accaduto. Non l'aveva fatto apposta, questo bastava alla sua coscienza.
Ecco, direte, con un precedente così non c'è molto da aggiungere. Chi suona può
immaginare come mi sono sentito per anni. Chi ha avuto fra le mani uno strumento
sa quanto si possa odiare una persona per una cosa del genere. Niente te lo può far
odiare di più.
No.
Mio zio Marcello è un tipo speciale. Se deve farsi odiare, ma odiare davvero, da
qualcuno, può farlo non una volta sola nella vita, ma addirittura due!
La cosa accade due anni dopo, nel 1982. L'anno del Mundial! [...]
E tutti sappiamo, in fondo, qual è la vera partita, la madre di tutte le partite di quel
Mondiale di calcio.
Italia-Brasile 3-2. Già.
Tutti.
(Scusate, mi fermo un attimo, sono commosso ho gli occhi umidi, voi non potete
capire….) Riprendiamo. [...]
Questo: mio zio Marcello, il primo pomeriggio, mi aveva chiesto di dargli una mano
(ahia.... iniziate a capire dove vado a parare, vero?). C’era da fare un carico di
pomodori. Mio zio faceva l'ambulante di ortofrutta. Io, d'estate, finita la scuola,
spesso gli davo una mano nei mercati. Non mi pagava, però mi permetteva di
vendere i miei limoni. Me li comprava lui ai mercati generali (aveva un occhio
straordinario, non sbagliava mai un carico di frutta) e io facevo il mio business in giro
con lui. [...]
Comunque: quel giorno, quello della madre di tutte le partite, c'era da fare un
carico di pomodori. Avremmo fatto in fretta, in frettissima. Carico, scarico al
magazzino. […] Milano era frenetica. Tutti avevano da andare a casa, il traffico era
nervoso.
Carichiamo e scarichiamo. Facciamo in fretta, continuo a ripetermi, come se mi
stessi inoculando un tranquillante.
All'inizio neppure ci pensavo a guardare l'ora. Ero certo della parola data da mio
zio, no, anzi, ero sicurissimo che a lui per primo interessava non perdersi la partita
del secolo. Facemmo il carico con una certa cura (è faticoso caricare un camion di
casse di pomodori: ci sono delle regole geometrico-compositive che devono essere
rispettate).
Solo in quel momento controllai l'ora sul cruscotto del camion. Era tardi, ma non
tardissimo. Uscimmo col camion dall'orto e imboccammo la strada asfaltata. Non
c'era nessuno. [...]
-Aspetta, Gianni, già che ci siamo, faccio un servizio prima di andare a casa, una
cosa veloce, non preoccuparti... - Sventurato fu il suo passeggero…
Non voglio andare oltre. Non voglio raccontarvi di quando mi resi conto che
l'orologio del cruscotto era rotto, non voglio farvi rivivere la mia angoscia quando
compresi che la partita era già iniziata, non voglio dirvi del nervoso che montava
dentro di me, che mi faceva pulsare le orecchie arrossate di sangue, non voglio
ossessionarvi con il boato che accese la città tutta, con l'urlo collettivo che fece
tremare le case, l'unisono che significava solo che il primo gol, di chiunque fosse stato
quel gol, era stato fatto, che l'Italia o perdeva o vinceva, e io, io, me tapino, me
meschino, me sventurato, io non lo sapevo!
Perché mio zio lo fece? Perché all'improvviso dimenticò la promessa fattami?
Perché a lui stesso cadde l'interesse per quella partita? Questa cosa io non l'ho mai
saputa, questa cosa se la porterà con sé nella tomba, io mai oserò chiederglielo. So
solo che quel giorno, quel pomeriggio di un giorno da cani, io lo imploravo di
muoversi, di tornare a casa, che la partita era iniziata da tempo, che qualcuno aveva
pure segnato.
Poi si fermò in un bar per un caffè. Mi catapultai dentro.
Tutti gli astanti erano incollati davanti al piccolo televisore appeso: come va? Chi
vince? Che cosa succede? Come stanno giocando?
Non riuscii a vedere una sola immagine, dietro il muro umano che copriva la visuale
dello schermo.
- Andiamo, Gianni? Ci muoviamo? - Non potevamo restare lì? Non potevamo
condividere la gioia, la sofferenza? Che bisogno c'era di avventurarci in quella
assolata città morta?
Uscimmo. Tempo di salire nel camion, di ripartire ed ecco un altro boato. Un altro
goal. Bastava aspettare un minuto di più nel bar, un minuto solo e sarei stato fratello
a qualcuno. Invece giravo nel deserto dell'anima, nel vuoto pneumatico dell'essere,
nel nulla urbano, con il più crudele dei traghettatori. Che non si scompose un attimo:
già che c'era voleva approfittare della città vuota per fare un'altra cosa. E poi un'altra.
E un'altra ancora. - Poi giuro che andiamo a casa, ti vedi il secondo tempo - Che ne
sapeva se eravamo al primo, al secondo tempo, al dodicesimo tempo? [...]
Mio zio abitava (e abita tuttora) al settimo piano. Mai ascensore fu più lento a
salire. Ma infine a casa ci arrivammo davvero. Spalancai la porta, mi precipitai in
soggiorno, dove decine di persone (famiglia numerosa la mia, popolare, meridionale
ecc.) sembravano un unico corpo collettivo. Entrai nel soggiorno e proprio in
quell'istante senti il fischio, e la voce del telecronista che diceva: - è finita, è finita.
Italia batte il Brasile 3 a 2 -. Marco mi vide entrare e con entusiasmo, con generosità,
mi abbracciò continuando a ripetere: - è stata meravigliosa, la più bella partita che
ho mai visto. L'Italia ha giocato in un modo, in un modo. –
Volevo piangere. Forse piansi. Adesso, solo a pensarci, mi viene da piangere. [...]
La mia adolescenza questa è stata: una chitarra rotta e un rito collettivo mancato.
Tirando le somme una adolescenza davvero pessima. Ma, in fondo, oggi lo posso
dire, non cresciamo davvero con le vittorie, non sono le medaglie che ci appuntiamo
al petto che ci fortificano. Sono le sconfitte. Le umiliazioni. Le frustrazioni. E le rivolte.
Sembra, a rileggermi, che dovrei quasi ringraziarlo mio zio Marcello. Sembra. Ma non
esageriamo, però…

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