Camilla Stecca
Introduzione p. 3
Capitolo 1.
Takamasa p. 11
Bibliografia p. 20
2
INTRODUZIONE
3
Capitolo 1
L’attuale zona dei Giardini, intesa come l’area tra il rio di Sant’Anna e la punta di Sant’Antonio,
inizia ad essere modificata grazie ad un decreto napoleonico datato 7 Dicembre 1807.
Al tempo, questo spazio ospitava edifici storici come la chiesa e il convento di Sant’Antonio Abate,
dove la posa della prima pietra risaliva al 1346 e alla cui fabbrica, nel corso dei secoli, vi aveva
lavorato un grande artista come Sansovino, il quale si occupò della realizzazione dell’arcone
d’ingresso alla cappella della famiglia Lombardo. Tale struttura fu poi utilizzata come arco trionfale
al termine del viale dei futuri Giardini sul rio di San Giuseppe nel 1822 1.
L’area dei futuri Giardini di Castello era inoltre occupato da altri edifici ecclesiastici come le
chiese di San Domenico e San Nicolò di Bari, oltre a giardini ed orti. La zona viene adibita a
«passeggiata pubblica con viali e giardino» 2 e si inseriva «in un più generale progetto per Venezia
articolantesi in tutta una serie d’iniziative e provvedimenti determinati dalla volontà di potenziare
la funzione portuale della città»3.
Il progetto commissionato a Gian Antonio Selva, il quale molto probabilmente risentì dell’influenza
di concezioni illuministiche, prevedeva la realizzazione di un piazzale di ingresso al giardino tramite
l’interramento del primo tratto del rio di Castello. L’architetto veneziano decide di strutturare il
giardino secondo uno schema all’italiana progettando di inserirvi numerose zone di svago e
divertimento (come un edificio per i bagni salsi sul lato del Bacino di San Marco, una scuderia, un
belvedere, un ristorante e altre attività commerciali) 4.
L’edificio a cui il Selva dedicò maggiore attenzione fu il tempietto rotondo e monoptero (situato
sulla collina artificiale della Motta di Sant’Antonio), il quale conteneva una statua di Canova ed era
circondato da un boschetto di sempreverdi 5. Il successivo intervento del vice-re principe Eugenio
portò all’eliminazione di tutti gli edifici, ad eccezione di un piccolo stabile sulla Motta.
1
GIANDOMENICO ROMANELLI, Ottant’anni di architettura ed allestimenti alla Biennale di Venezia, Venezia, La
Biennale di Venezia: Archivio storico delle arti contemporanee, 1976, p. 40.
2
MARGHERITA AZZI VISENTINI, ITALO ZANNIER, ROSARIO ASSUNTO, Il Giardino Veneto. Storia e conservazione,
Milano, Electa, 1988, pp. 62.
3
G. ROMANELLI, Ottant’anni di architettura ed allestimenti alla Biennale di Venezia, cit., p. 20.
4
GIANDOMENICO ROMANELLI, Venezia Ottocento. Materiali per una storia architettonica ed urbanistica della città
nel secolo XIX, Roma, Officina Edizioni, 1977, pp. 24-36.
5
G. ROMANELLI, Ottant’anni di architettura ed allestimenti alla Biennale di Venezia, cit., p. 20.
4
Nel corso del tempo, la frequentazione dei Giardini dell’isola di Castello comincia ad
occupare uno spazio rilevante nella quotidianità dei veneziani, delle classi più popolari in
particolare, meno di quelle nobili, e comincia ad essere utilizzato per ospitare manifestazioni e
spettacoli. Nel 1886 l’area fu infatti designata come sede dell’Esposizione Artistica Nazionale,
madre dell’attuale Biennale, che impose una complessiva riorganizzazione del progetto di Selva,
scompaginandolo definitivamente (attraverso la realizzazione di recinti e frazionamenti). La
manifestazione si svolse in una struttura in legno sviluppata lungo la riva sul Bacino di San Marco
progettata dall’ingegnere in capo municipale del tempo, Enrico Trevisinato. L’edificio temporaneo
realizzato dall’ingegnere municipale, oltre a dover cercare di danneggiare il meno possibile le
piante del giardino, richiedeva un vasto numero di pareti per esporre le opere e la creazione di
«strutture di servizio di cui i giardini erano privi dalla loro fondazione» 6. Le decorazioni dell’edificio
furono realizzate dal giovane architetto Raimondo D’Aronco, che negli anni seguenti si consacrò
come uno dei più importanti esponenti liberty. Il risultato fu un edificio fortemente scenografico il
quale si stagliava lungo la riva del bacino di San Marco fino alla punta di Sant’Antonio. 7
La prima edizione della Biennale risale al 1895 e venne organizzata dall’allora sindaco di Venezia
Riccardo Selvatico, che ne sarà presidente per quell’anno, e da un ristretto gruppo di personaggi
come il filosofo Giovanni Bordiga, Antonio Fradaletto, storico segretario delle prime undici
edizioni, e Filippo Grimani, futuro sindaco della città. La prima selezione degli artisti fu eseguita da
una commissione veneziana di cui facevano parte Bartolomeo Bezzi, Marius De Maria, Emilio
Marsili, Giuseppe Minio ed Augusto Sezanne (da notare come fossero tutti pittori) 8.
La realizzazione della struttura adibita all’esposizione delle opere viene affidata ad Enrico
Trevisinato, a cui si richiede che questa sia permanente e costituita da «Diciassette sale,
inframezzate da cortili e disposte attorno al salone e alla cupolata sala ottagonale; di queste undici
sono riservate per l’esposizione mentre le altre sono adibite a uffici e servizi per il pubblico»9.
6
Ibid., p. 25.
7
Ibid.
8
ENZO DI MARTINO, La Biennale di Venezia 1895-1995. Cento anni di arte e cultura, Milano, Mondadori, 1995, p.14.
9
MARCO MULAZZANI, I Padiglioni della Biennale di Venezia, Milano, Mondadori Electa, 2004, p. 21.
5
Per la costruzione di questo edificio fu abbattuta nel 1894 la cavallerizza di Tommaso Meduna e
sfruttata la preesistenza del Palazzo dei Concerti, realizzato per l’esposizione nel 1887. La facciata
viene invece realizzata in stucco e gesso da Marius De Maria, a partire da un repertorio classico,
progettando un pronao ionico tetrastilo affiancato da due propilei a doppia colonna. Già a partire
dalla prima edizione si stabilì che la struttura dovesse contenere centocinquanta opere italiane,
centocinquanta opere straniere e cinquanta selezionate dalla commissione 10.
Nel 1914 Daniele Donghi realizza «un progetto di maggiore importanza per desiderio del
prof. Fradaletto»11 per la facciata. L’ingegnere milanese ha il doppio merito, come sostiene
Mulazzani, di affermare ancora una volta tutto il suo eclettismo attraverso la progettazione di una
«scenografia tridimensionale di gran vena celebrativa» 12 e l’abilità di realizzare un progetto per
l’intera facciata senza limitarsi alla sezione centrale 13. Nel 1932 la struttura verrà invece rinominata
“Padiglione Italia” dopo l’intervento di Duilio Torres 14. Da ricordare inoltre, gli interventi di Carlo
Scarpa risalenti al 1948 e al 1952, al fine di aumentare la funzionalità della struttura attraverso la
progettazione di un giardino per l’esposizione delle sculture ed un passaggio attraverso la scaletta.
Un’altra modifica di notevole rilevanza alla struttura espositiva è quella che viene definita
“progetto Passarelli”, realizzata nel 1957 e presentata da un gruppo di architetti italiani di cui
facevano parte Fausto, Lucio e Vincenzo Passerelli, Hilda Selem, Stanislao Alessandri, Paolo
Cercato e Paolo Volpato15. Il progetto «si mantiene nell’area occupata dalla costruzione
proponendo un impianto stereometrico composto da quattro corpi di fabbrica perimetrali, con gli
ambienti espostivi in due ordini di gallerie sovrapposte e sfalsate, attorno ad una bassa ed
articolata piastra che accoglie il nucleo dei servizi richiesti dal bando»16.
La prima Biennale viene inaugurata il 30 Aprile 1895, in presenza di Umberto I e Margherita
di Savoia, e si rivela un successo clamoroso; venne infatti documentata la vendita di quasi un terzo
delle opere esposte «tanto che subito dopo venne deciso di elargire una cospicua somma in
beneficenza»17.
Sin dalla sua primissima edizione, la Biennale di Venezia si identifica come luogo libero ed
artisticamente indipendente, proiettando Venezia in un nuovo capitolo della sua storia artistica e
10
Ibid., pp. 21-25.
11
Ibid., p.23.
12
Ibid.
13
Ibid., pp. 23- 25.
14
Ibid., p.24.
15
Ibid., p. 25.
16
Ibid.
17
E. DI MARTINO, La Biennale di Venezia 1895-1995. Cento anni di arte e cultura, cit., p. 18.
6
culturale. Con oltre 224 mila partecipanti nel 1895, 265 mila nel 1897, oltre i 309 mila nel 1899 e
con una crescita continua del numero e della fama delle opere esposte, soprattutto straniere, dal
1907 inizia la costruzione dei padiglioni nazionali 18. Secondo Enzo Di Martino:
Il merito di Fradaletto è stato quello, incredibilmente preveggente, di aver intuito che una rassegna internazionale
d’arte a Venezia avrebbe avuto fortuna e sarebbe durata nel tempo. Ed è sua, non a caso, anche l’idea geniale e
bizantina dei padiglioni stranieri, secondo la quale ogni paese doveva costruire a proprie spese, rimanendone
proprietario, l’edificio dove avrebbero esposto i propri artisti, provvedendo alla manutenzione dei locali, contribuendo
così di fatto, anche economicamente, alla vita della Biennale 19.
I padiglioni si dimostrarono soprattutto una valida alternativa ai grandi palazzi contenitori dei
salons e alle strutture espositive classiche. Ovviamente la realizzazione di questi edifici cancellò
definitivamente «il nitore cartesiano voluto dal Selva» 20, riducendo la zona all’area verde più vasta
della città e perdendo quasi del tutto l’impronta dell’impostazione originaria del progetto. Come
sostiene anche Romanelli, nonostante l’iniziale volontà di costruire i nuovi padiglioni con un
criterio ordinatore lungo i due assi principali dei giardini, in seguito «l’infittirsi degli stessi ha fatto
sì che la distribuzione ne risulti caotica e senza senso e più vicina alla banalità di una fiera
campionaria che alla razionalità di un organismo espositivo moderno e funzionale»21.
Romanelli fa notare come tali processi abbiano inciso in maniera quasi impercettibile sullo
sviluppo architettonico della città stessa, questo a sottolineare la totale apparente estraneità di
Venezia ai mutamenti e alle rivoluzioni portate dalla Biennale in laguna. L’Esposizione
Internazionale d’Arte porta da più di un secolo un costante vento di cambiamento «senza
contaminare la prosaicità della vita di una città e dei suoi ancor più prosaici abitanti e senza, tanto
meno, esserne contaminati»22.
I primi edifici ad essere realizzati nel 1907 sono il padiglione Belga e il ristorante progettato
dall’architetto Raffaele Mainella lungo le direttrici riconducibili al padiglione centrale. I lavori del
cantiere della Biennale proseguono nel 1909 con la realizzazione del padiglione Ungherese e di
quelli Austriaco ed Inglese, situati nelle zone più marginali dei giardini, verso il bacino di San
Marco. La costruzione prosegue negli anni seguenti con la realizzazione dei padiglioni Francese e
18
Ibid., pp. 15-18.
19
Ibid., p. 27.
20
Ibid., p. 28.
21
G. ROMANELLI, Venezia Ottocento. Materiali per una storia architettonica ed urbanistica della città nel secolo XIX .,
cit., p. 36.
22
Ibid.
7
Svedese nel 1912 e quello Russo nel 1914 . Nel periodo del dopoguerra si ha la realizzazione del
padiglione Spagnolo nel 1922 e di quelli Cecoslovacco e statunitense nel 1926 e 1930. Con la
costruzione del padiglione Danese nel 1932 si chiude invece la fase iniziale di urbanizzazione dei
giardini che ancora seguiva, anche se in minima parte, le direttrici principali dei due viali realizzati
da Selva23.
L’analisi di questi primi padiglioni ci porta ad osservare come il forte nazionalismo di quegli
anni caratterizzasse tutte le strutture, cariche di temi e motivi tradizionali dei vari paesi.
Un’importante innovazione nelle strutture espositive veneziane si evidenzia invece nel fatto che,
per la prima volta in questo genere di manifestazioni, la struttura e l’identità dei padiglioni
nazionali vengono completate grazie alla presenza di opere esposte al loro interno, saggiando così
l’annullamento del confine tra arti pure ed arti applicate 24. Infatti grandi architetti come Hoffmann
e Scarpa hanno prodotto ambienti e soluzioni all’interno delle quali «opere, quadri, sculture,
oggetti da esporre divengono elementi per la costruzione dell’architettura» 25.
La costruzione delle sedi espositive nazionali prosegue con il padiglione Tedesco e Greco ,
tra gli ’30 e ‘40 del Novecento, ancora molto influenzati dai temi nazionalistici. Negli stessi anni
vengono anche realizzati alcuni padiglioni nella zona dei giardini al di là del canale di Sant’Elena tra
cui quello delle arti decorative veneziane, che tenta di creare nella stretta lingua di terra «una
quinta architettonica di sfondo al nuovo giardino, costituita da un emiciclo centrale al quale si
affiancano due padiglioni per lato»26 ad opera di Brenno Del Giudice. In questo periodo, e
soprattutto dopo la seconda Guerra Mondiale, si nota come la caotica edificazione di questi
padiglioni prosegua lo smantellamento del progetto selviano e la trasformazione dei giardini in
una sorta di enorme struttura espositiva, le cui stanze sono costituite dai padiglioni, mentre il tetto
dalle fronde degli alberi ed i corridoi da larghi viali.
Un’altra interessante innovazione viene apportata nel 1934 dal padiglione Austriaco,
realizzato da Josef Hoffmann, uno dei protagonisti della Secession viennese. Colui che «superando
il decorativismo libertyario»27 si identifica come uno dei primi architetti prerazionalisti europei,
annullando la concezione di un salone centrale come nodo della struttura espositiva e
sostituendovi una galleria, il cui compito è quello di dividere le due grandi sale che si sviluppano
simmetricamente costituendo i poli dello spazio espositivo. Il valore artistico ed architettonico di
23
M. MULAZZANI, I Padiglioni della Biennale di Venezia, cit., pp. 7-12.
24
E. DI MARTINO, La Biennale di Venezia 1895-1995. Cento anni di arte e cultura, cit., pp. 15-18.
25
M. MULAZZANI, I Padiglioni della Biennale di Venezia, cit., p. 14.
26
Ibid, pp. 73-75.
27
G. ROMANELLI, Ottant’anni di architettura ed allestimenti alla Biennale di Venezia, cit., p. 30.
8
questo edificio, sia a livello estetico che funzionale, è chiaramente evidente in queste parole di
Romanelli, con le quali egli sottolinea come «gli intenti di funzionalità che han presieduto alle
scelte operate dal maestro viennese son venuti rivelando, da una Biennale all’altra, la loro
versatile natura e le loro pressochè illimitate possibilità»28.
Nel 1952 Svizzera ed Israele realizzano il proprio edificio, seguite nel 1956 dal Giappone.
Nello stesso anno Carlo Scarpa realizza il padiglione del Venezuela che viene disegnato con «il
tema dei due blocchi congiunti e separati da una cesura al centro» 29, caro ad Hoffmann e
contemporaneamente sfruttato anche da Gerrit T. Rietveld nel padiglione olandese. Scarpa
caratterizza inoltre il suo intervento ai Giardini, con la creazione di un cortile interno che «si
insinua nella fessura dei corpi maggiori» 30 all’interno del padiglione Italia, generatasi dal loro
allineamento sfalsato, donando un effetto di stacco e respiro al progetto finale. La struttura
realizzata da Rietveld nel 1954 consiste nella ricostruzione di un padiglione svedese acquistato
dall’Olanda nel 1914 e progettato da Ferdinand Boberg. La peculiarità dell’architettura di Rietveld
risiede nella già citata pianta a due blocchi e nella fessura che li divide, finemente decorata con
dettagli di design31. La semplicità e la consequenzialità del linguaggio architettonico del progettista
olandese mantengono inalterato il senso e le potenzialità di questa struttura anche decine di anni
dopo. Già nel 1958 viene definito da Bruno Zevi come uno dei padiglioni «più piacevoli e limpidi
del complesso dei giardini»32.
Carlo Scarpa progetta nel 1950 la Galleria del Libro d’Arte, una struttura in legno con pianta
allungata ed un andamento asimmetrico nei pressi del padiglione Italia, con cui si confronterà dal
1955 quello che avrebbe dovuto essere un provvisorio padiglione finlandese di Alvar Aalto,
anch’esso realizzato in legno. La costruzione temporanea in legno di Alvar Aalto fu in seguito
mantenuta e nel 1962 fu costruito il padiglione dei Paesi Scandinavi su idea di Sverre Fehn,
architetto norvegese. Il progetto volle tutelare gli alberi presenti all’interno dell’area dedicata alla
costruzione, creando «un traliccio di lastre di cemento armato» 33 andando a formare una tettoia
su uno spazio di 400 metri quadri con solo un appoggio nell’angolo più esterno. Nonostante le
innumerevoli critiche ricevute, sia per quanto riguarda le dimensioni imponenti sia per la tecnica di
realizzazione, il padiglione risulta degno di nota in quanto spazio espositivo modulare, la cui
28
Ibid.
29
Ibid., p.31
30
Ibid., p. 33.
31
Ibid., p. 35.
32
Ibid.
33
Ibid., p. 37.
9
assenza di muri perimetrali e il reticolo di lastre in cemento sul soffitto permette il diffondersi di
una luce che riempie totalmente l’ambiente attraverso una soluzione mai vista prima.
Il Brasile invece realizza la propria struttura nel 1964 nella stretta lingua di terra oltre il
canale, di fronte al padiglione di Del Giudice, rovinandone completamente la fruizione dalla
prospettiva del ponte, unica via d’accesso rimasta a quella parte di Giardini.
L’Australia debutta all’interno dei Giardini solo nel 1987 con Phil Cox, lungo le rive del
canale di Sant’Elena e dietro alla Cecoslovacchia, con una struttura in acciaio coperta di pannelli,
formulata in un unico spazio espositivo organizzato su due piani sfasati con una copertura che
presenta un andamento morbido e curvo, dirigendosi come un onda verso il rio.
L’ultimo padiglione ad essere realizzato in ordine di tempo è stato quello della Corea del
Sud nel 1996. Sopraelevata su una piccola collina artificiale tra i padiglioni di Germania e
Giappone, la struttura si sviluppa creando una serie di piani, presentando uno sbilanciamento
soprattutto sul lato del bacino di San Marco, di cui gode una visuale splendida vista la posizione
dominante34.
34
M. MULAZZANI, I Padiglioni della Biennale di Venezia, cit., p. 14.
10
Capitolo 2
In questo secondo capitolo, come si evince dal titolo, dopo una panoramica delle prime
partecipazioni del Giappone alla Biennale mi concentrerò sul Padiglione Giapponese e le
dinamiche collegate alla sua costruzione e al suo sviluppo negli anni successivi.
La storia della Biennale di Venezia si incrocia con quella giapponese a partire dall’edizione
del 1897. La seconda partecipazione risale al 1924, con l’intervento di nove artisti i cui elaborati
consistevano in acquerelli e silografie colorate. Le opere giapponesi furono esposte nella sala
numero quarantuno e la mostra fu coordinata da Adolfo Sarcoli, un concertista e compositore
senese che tra i primi riuscì ad affermarsi nel paese del Sol Levante. La successiva partecipazione
risale al 1928 con la presentazione di tre dipinti di Tsuguji Fujita all’interno della mostra dell’Ecole
de Paris35.
Nel 1931 si inizia a parlare della possibilità di realizzare un padiglione del Giappone ma il
proposito si interrompe per la mancanza di fondi da parte del Ministero dell’Istruzione
giapponese. Nel corso degli anni seguenti il Giappone parteciperà all’edizione del 1934 con un
dipinto ad olio di Yasuo Koniyoshi, esposto nel padiglione americano e nuovamente nel 1940 con
un’opera del medesimo artista, inserito tra una serie di piccole opere ad olio e ad acquerello
(dimensioni imposte dalla difficoltà di spostare grandi opere in periodo di guerra). Dal testo di
Harumi emerge inoltre come sia proprio in questo periodo, sotto il regime di Mussolini, che fu
creato e rafforzato il sistema dei padiglioni nazionali e dell’assegnazione di premi e riconoscimenti
da parte di una giuria internazionale36.
Tra il 1938 e il 1942 si presenta per il Giappone la possibilità di acquistare il padiglione
austriaco. Inizialmente l’idea di ristrutturare il padiglione risultò molto allettante per il Giappone,
visti i costi nettamente inferiori che avrebbe richiesto un intervento del genere rispetto alla
costruzione di una struttura ex novo. In quegli anni gli artisti austriaci esponevano insieme a quelli
tedeschi nel padiglione della Germania a causa dell’Anschluss, avvenuta nel 1938. Probabilmente
l’affare non si concluse, inizialmente a causa della grave crisi economica che investì il Giappone a
35
HARUMI MIWA, The Venice Biennale: 40 Years of Japanese Participation, Tokyo, The Japan Foundation and The
Mainici Newspaper, 1995, pp. 21-25.
36
Ibidem.
11
partire dal 1929, poi per la guerra sino-giapponese del 1937 ed infine per lo scoppio del Secondo
Conflitto Mondiale nel 1942 (che bloccò lo svolgimento l’Esposizione lagunare dal 1942 al 1948) 37.
Nella prima edizione del dopoguerra la Biennale riconsegnò agli Austriaci il proprio
padiglione. A partire dal 1952 vi fu una intensa trattativa tra le autorità del governo giapponese e
Rodolfo Palucchini, segretario della Biennale dal 1948 al 1957. Nel maggio 1954 una commissione
giapponese pianificava la costruzione del padiglione nel lotto tra quello russo e svizzero che però a
causa dei tentennamenti nipponici venne assegnato al Venezuela38. Nell’agosto dello stesso anno
emerge l’intenzione di Yoshikazu Kanakura, addetto culturale presso l’ambasciata con sede a
Roma, di acquistare lo spazio tra il padiglione tedesco e quello russo. L’area scelta da Yoshizaku
era l’ultima disponibile in quella parte dei giardini e il Ministero degli affari esteri giapponese
stanziò tre milioni di yen, cifra comunque che si rivelò insufficiente al fine di concludere la
trattativa. 39
Dal testo di Mulazzani si evince come ‹‹La possibilità di costruire il padiglione giapponese
acquista concretezza solo nel 1955, grazie ad una donazione di Shojiro Ishibashi, mecenate e
direttore della galleria d’arte moderna Bridgestone di Tokyo›› 40.
Nel corso della realizzazione della struttura, Yoshizaka Takamasa si scontra ancora una
volta con il problematico rapporto tra l’arte contemporanea e quella tradizionale in Giappone, la
cui importanza gli era stata sottolineata dalla commissione che presiedeva la costruzione del
padiglione. Il futuro allievo di Le Corbusier, termina il proprio percorso accademico nel 1941 alla
Waseda University di Tokyo (dove diventa professore dal 1950), e nello stesso anno viene invitato
a lavorare a Parigi presso lo studio di Le Corbusier. Rimanendo profondamente influenzato dal
maestro svizzero, finirà col fare propri molti degli insegnamenti di quest’ultimo nella progettazione
delle opere realizzate nel corso degli anni ’50 ( tra cui il padiglione per la Biennale) 41.
Nel periodo successivo alla realizzazione del museo nazionale d’arte Occidentale di Tokyo,
completato nel 1959, si allontana dalle lezioni apprese a Parigi adottando un linguaggio più
sperimentale, come emerge nella progettazione del municipio di Gozu nel 1959 (fig. 1) , una
«sorta di celebrazione di una tecnologia più adatta a grandi opere infrastrutturali››42.
37
E. DI MARTINO, La Biennale di Venezia 1895-1995. Cento anni di arte e cultura, cit., p. 40.
38
H. MIWA, The Venice Biennale: 40 Years of Japanese Participation, cit., pp. 21-25.
39
M.MULAZZANI, I Padiglioni della Biennale di Venezia, cit., p. 100.
40
Ibid.
41
Ibid.
42
Ibid, p. 101
12
Nel 1965 inaugura invece l’Atelier U (fig. 2), uno studio di progettazione con la
caratteristica di gestire incarichi di planning, realizzando «insediamenti rurali, scuole, centri civici e
commerciali»43. Dopo essersi dedicato ad una profonda divulgazione dell’opera di Le Corbusier
attraverso la traduzione in giapponese dei testi più rilevanti, arriva a caratterizzare le sue creazioni
più mature con la personale teoria definita della «forma esistente». Tale approccio teorico
tradotto in inglese come Discontinuos unity viene definito come «Discont, as it became known,
described a state in which each costituent part is given the maximum individual expression
consistence in the coherence of a whole››44.
Yoshizaka realizza vari disegni per la progettazione dell’edificio nei quali emerge con
forza l’influenza di Le Corbusier. Il primo progetto ne è la prova, infatti l’architetto progetta un
edificio costituito da un corpo unico, il quale viene definito da Mulazzani come «una sorta di
organica caverna partita interamente da pannelli mobili»45. La modularità conferita alla struttura
grazie all’uso delle fusuma, le tipiche pareti giapponesi scorrevoli, permette un’estrema flessibilità
per quanto riguarda l’allestimento delle opere e la possibilità di riadattare gli spazi a seconda delle
tipologie delle stesse. Il secondo progetto, in cui compare comunque la forte influenza
lecorbuseriana, e la zona adibita vengono cosi presentati ‹‹Il terreno era un piccolo colle con
bellissimi alberi, da non abbattere; il padiglione doveva avere 80 metri di muro per i quadri, ed una
flessibilità adatta ad esposizioni future, ed una ambientazione giapponese›› 46.
Come già anticipato, il Giappone decise di costruire il proprio padiglione nazionale nello
spazio situato tra quello Russo e quello Tedesco. La posizione scelta impone che nel progetto
venga inclusa un’apertura nel soffitto al centro della sala, affinchè da questa possa filtrare la luce
che arrivi ad illuminare lo spazio preposto alle sculture al piano inferiore, creando «un’ideale
congiunzione tra cielo e terra attraverso la costruzione» 47. I setti, oltre a sostenere la struttura,
conferiscono anche una spartizione e un ritmo al padiglione (fig. 3,4) il cui pavimento è decorato
con fasce di marmo bianco e nero. Queste caratteristiche in realtà saranno fortemente criticate, in
quanto la creazione di aree buie rischia di distrarre inevitabilmente lo spettatore. La struttura
viene inoltre realizzata in cemento armato lasciato grezzo con i muri imbiancati a calce (fig. 5) ed
una vela in calcestruzzo a copertura dell’ingresso (fig. 4) avrebbe dovuto essere un ulteriore
omaggio da parte dell’architetto giapponese in memoria del maestro svizzero, che però non venne
43
Ibid.
44
KEVIN NUTE, Place, time, and being in Japanese architecture, London, Psycology Press, 2004, p. 109.
45
M.MULAZZANI, I Padiglioni della Biennale di Venezia, cit., p. 100.
46
Ibid.
47
Ibid., p. 101.
13
mai realizzata ma solo inserita nel progetto iniziale48. All’esterno della struttura Yoshizaka
evidenzia le nervature della struttura lungo i lati facendo «sfoggio di un certo brutalismo
strutturalista (anche se con effetti alla fin fine decorativi) »49 e viene inoltre realizzata una scala
sospesa a ponte per l’ingresso sopra ad un piccolo specchio d’acqua 50. Come emerge dal testo di
Mulazzani, la zona inferiore, preposta all’esposizione delle sculture viene ricoperta con del ghiaino
bianco e di fronte all’ingresso viene posto un giardino giapponese (fig. 4, 5), che nel corso degli
anni non è stato però mantenuto51.
Il lavoro realizzato da Yoshizaka trova conferma nelle parole di Ichiro Hariu, critico d’arte
nipponico che curò l’esposizione Giapponese alla Biennale di Venezia del 1968 e che afferma ‹‹The
bold, simple volumes of the steel frame architecture have a definitely Japanese character without
pandering to simple stereotypes of Japanese taste››52.
Il nuovo padiglione giapponese riscosse un parere positivo da parte della critica e con la sua
costruzione ha inizio la partecipazione ufficiale del Giappone alla Biennale. Già nell’edizione del
1956, come a premiare il Giappone per il nuovo spazio espositivo edificato, Shiko Munataka vinse
il primo premio per le stampe esposte con un opera caratterizzata da ‹‹his wild expressiveness in a
screen format attracted attention, but his prize was partly meant to congratulate the Japanese on
the completion of their pavillon››53.
Dal 1958 la mostra nipponica alla kermesse lagunare fu curata da Shuzo Tachiguki che
presentò alcune opere in stile occidentale ed altre in stile giapponese; si trattava di alcuni
hakubyoga, ovvero «monocrome ink paintings characterized by expressive black line on a white
ground»54 e delle sculture. Un importante cambiamento dal punto di vista espositivo per il
padiglione Giapponese avvenne nel 1960 quando fu adottato un sistema per cui il curatore,
quell’anno Soichi Tominaga, veniva selezionato per primo ed a questo veniva dato il compito di
selezionare gli artisti senza passare quindi attraverso una commissione nazionale 55. Dal 1962 la
mostra fu curata da Atsuo Imazumi e iniziarono a notarsi dei miglioramenti e delle selezioni molto
più in linea con i gusti internazionali, come sottolinea Miwa ‹‹observers in Japan became better
able to under stand the International context and artist began to respond to it more effectively››56.
48
Ibid.
49
G. ROMANELLI, Ottant’anni di architettura ed allestimenti alla Biennale di Venezia, cit., p. 50.
50
Ibid.
51
M.MULAZZANI, I Padiglioni della Biennale di Venezia, cit., p. 100.
52
H. MIWA, The Venice Biennale: 40 Years of Japanese Participation, cit., p.33.
53
Ibid., p.6.
54
Ibid., p. 10.
55
Ibid, p.12.
56
Ibid.
14
Per l’edizione del 1982, il Giappone, prendendo ispirazione dal sistema organizzativo del
padiglione della Gran Bretagna basato su un iniziale selezione regionale degli artisti a cui segue
una seconda selezione ad opera del curatore, cercò di dare una panoramica più ampia possibile
dell’arte contemporanea nipponica. Questa nuova modalità di selezione degli artisti ricevette già
dal 1986 molte critiche positive da parte del pubblico. In conclusione a questo capitolo di
presentazione dell’operato giapponese alla Biennale di Venezia vorrei citare le parole del critico
d’arte Yusuke Nakahara che, dopo aver sottolineato come sia la partecipazione stessa ad un
evento di questo tipo a dover motivare la sua promozione e non la preoccupazione economica,
sottolineando inoltre quella che secondo lui costituisce la problematica maggiore delle
partecipazioni nipponiche all’esposizione lagunare cioè la mancanza di comunicazione tra i
curatori che si susseguono; egli afferma infatti che ‹‹The biggest problem with Japan’s
partecipation is that commissioners traditionaly made a report at the end of each Biennale but
never really handed down their experience to their successors. Perhaps a meeting of ex-
commissioners should be convened to discuss a desirable format of partecipation›› 57.
57
Ibid., p. 26.
15
APPENDICE ICONOGRAFICA – OPERE CITATE
16
17
3 Takamasa Yoshizaka, Studi per il padiglione giapponese, 1956, Archivio ASAC Venezia.
18
4 Takamasa Yoshizaka, Studi per il padiglione giapponese, 1956, Archivio ASAC Venezia.
19
5 Takamasa Yoshizaka, Progetto per il padiglione giapponese, Archivio ASAC Venezia.
20
BIBLIOGRAFIA
- MIWA, HARUMI, The Venice Biennale: 40 Years of Japanese Participation, Tokyo, The
Japan Foundation and The Mainici Newspaper, 1995.
- NUTE, KEVIN, Place, time, and being in Japanese architecture, London, Psycology Press,
2004.
21