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LE PIEVI

In Mugello e nella Romagna toscana l’architettura romanica, che si sviluppa come altrove tra lo
scorcio dell’XI ed i primi decenni del XIII secolo, presenta caratteri che la accomunano al più vasto
panorama del contado fiorentino e non si esprime in modi propri ed omogenei almeno secondo il
giudizio che emerge dallo studio degli edifici pervenuti1. Un’analisi più accurata dei soggetti
evidenzia come all’interno del territorio in esame fossero presenti un’articolazione ed una varietà
stilistica e culturale che meritano un’accurata analisi di approfondimento.
Come è stato evidenziato nel capitolo precedente, la pieve costituisce senza dubbio la tipologia
architettonica più significativa nell’ambito del contado fiorentino, ed il Mugello non costituisce
un’eccezione. Perciò lo studio dei reperti architettonici di età romanica sul nostro territorio non può
che prendere le mosse dall’esame delle chiese battesimali che ancora oggi lo costellano e che ci
sono giunte con buona parte delle strutture medievali nonostante i frequenti terremoti e le
trasformazioni apportate nel corso dei secoli.
I documenti e diverse fonti attestano l’esistenza di pievi già dal V secolo ma, come ha recentemente
osservato il Tigler2, non è corretto ritenere ipso facto che queste citazioni corrispondano sempre e
comunque alla data di edificazione delle chiese, né tanto meno che quei documenti si riferiscano
alle pievi medievali superstiti che noi oggi possiamo osservare. Comunque i riferimenti
documentari dei secoli IX-X sono certamente relativi agli edifici plebani preesistenti a quelli
costruiti poi in età romanica.
Ben poco è rimasto delle pievi altomedievali che, in genere, hanno preceduto la fase costruttiva
romanica dei secoli XI-XIII e la cui esistenza è attestata, oltre che dalle già ricordate citazioni
documentarie, anche da rinvenimenti archeologici e resti lapidei.
Le fondamenta della pieve altomedievale di Sant’Agata di Mugello sono state rinvenute in
occasione dei restauri effettuati negli anni Sessanta del Novecento3 e le tracce del suo perimetro
sono ancora parzialmente visibili sul pavimento della chiesa. Questo ed altri ritrovamenti analoghi4
hanno dimostrato che le pievi risalenti presumibilmente a un periodo compreso tra il IX e tutto il X
secolo5 consistevano in modesti edifici, caratterizzati da una semplice pianta ad aula conclusa da
una piccola abside semicircolare. Del periodo altomedievale ci sono giunti anche alcuni frammenti
di decorazioni scultoree. Si tratta anzitutto di due lastre lapidee - forse parte di un pluteo - pertinenti
alla pieve altomedievale di San Lorenzo a Borgo, quindi di un piccolo capitello pseudoionico
ritrovato e conservato nella pieve di Santa Felicita a Faltona. Si tratta di due preziosi resti già
facenti parte della decorazione degli edifici che hanno preceduto la ricostruzione romanica del XII
secolo6. A questi si potranno forse unire i due frammenti erratici ed inediti conservati nella chiesa di
Santo Stefano a Grezzano, la cui provenienza è sconosciuta, ma che potremmo probabilmente
assegnare alla precedente chiesa medievale.
La costruzione di più vaste e imponenti strutture plebane, nel contado fiorentino come altrove, ha
avuto inizio in corrispondenza e quale conseguenza di quel fenomeno macrostorico che fu costituito
dalla rinascita della società occidentale dopo l’anno Mille. Nel contesto di un generale
miglioramento delle condizioni economico-sociali, di un incremento demografico considerevole e
di una rinascita dei commerci, prese avvio un progressivo fervore costruttivo volto a rendere più
ampie e armoniche le chiese. Da questa intensa attività edilizia scaturisce la nota osservazione di
Rodolfo il Glabro, non priva di accenti di compiaciuta meraviglia, secondo il quale “Era come una
gara tra un popolo e l’altro; si sarebbe creduto che il mondo, scuotendosi di dosso i vecchi cenci, si
rivestisse dappertutto della bianca veste di nuove chiese”7. Naturalmente non si deve pensare che
questo fenomeno abbia investito contemporaneamente e velocemente tutta l’Europa: si è piuttosto
trattato di un’attività che si è dipanata nel corso del tempo e che, nelle singole realtà locali fu
condizionata dalle specifiche situazioni economiche, politiche, sociali e religiose. Nel territorio
della diocesi di Firenze, e quindi anche nel Mugello, la ricostruzione delle pievi è assegnata ad un
periodo che va dalla metà dell’XI alla prima metà del XIII secolo8 e la fase più antica è
genericamente definita ‘protoromanica’9. Comunque, pur individuando alcune parti della pieve di
Fagna come riferibile proprio al periodo protoromanico, è possibile ipotizzare che la maggior parte
delle strutture romaniche pervenuteci risalga al periodo compreso tra il terzo decennio del XII ed i
primi anni del XIII secolo. Infatti, come abbiamo messo in evidenza nel capitolo precedente, si può
pensare che solo dopo la conquista di Fiesole da parte dei fiorentini e la probabile annessione del
territorio mugellano alla diocesi di Firenze (1125), i vescovi della città del Giglio abbiano potuto e
voluto avviare una campagna di rinnovamento degli ormai vetusti edifici sacri. Ciò pure con
l’intento di affermare concretamente la propria giurisdizione pastorale sul territorio recentemente
acquisito. Questo sarà stato possibile anche grazie ad una nuova e consistente disponibilità di
risorse finanziarie, conseguenza del decollo economico della città che, come abbiamo visto,
secondo l’ipotesi del Faini10 si verifica solo nei primi decenni del XII secolo. Inoltre, sono questi gli
anni in cui si assiste ad un nuovo e notevole impulso economico e demografico anche nel contado,
testimoniato anche dalla ripresa del disboscamento per recuperare superfici atte alla coltivazione11.
Detta ipotesi cronologica tra l’altro può accordarsi con l’opinione del Tigler12, che ritiene di
posticipare proprio ai decenni intorno alla metà del XII secolo la fioritura del ‘romanico fiorentino’.
Questa intensa attività edilizia a carattere religioso, destinata a ridisegnare l’intero panorama
architettonico del territorio in esame, si esaurirà nel corso del XIII secolo in corrispondenza di una
nuova crisi economica delle campagne13, anche se ragioni di ordine stilistico inducono a ritenere che
tutto si fosse ormai compiuto tra la fine del XII secolo e gli albori del successivo.
Se la cronologia delle pievi mugellane è, in qualche modo, ampiamente circoscrivibile con una certa
attendibilità, meno facile appare stabilire con ragionevole certezza sia una più precisa datazione dei
singoli edifici che la loro successione all’interno dell’arco di tempo appena definito. Data la scarsità
di elementi documentari e di riferimenti cronologici certi (che pure, in qualche misura esistono), in
genere per stabilire la datazione di queste chiese ci si affida a metodi quali l’analisi del paramento
murario o dei caratteri delle strutture di sostegno interne14, ma anche alle ipotesi di datazione di
alcune suppellettili presenti.

Ad un primo sommario esame, anche nel Mugello come nel resto del contado fiorentino, le pievi
romaniche adottano prevalentemente la pianta basilicale a tre navate, qui però esclusivamente
monoabsidata e senza transetto15.
I sostegni sono costituiti da pilastri, generalmente a sezione rettangolare ma talvolta anche circolare
o, in alcuni rari casi, da colonne. Rare le pievi ad aula generalmente appartate e talvolta poste su
rilievi impervi: Santa Reparata a Pimonte, San Martino a Viminiccio e forse di San Michele a
Montecuccoli15bis.
Il numero delle campate in cui si sviluppa il corpo delle chiese plebane è variabile15ter, sia in
relazione alle dimensioni degli edifici che al periodo di costruzione: si va da un minimo di due,
presenti nella redazione originaria della pieve di San Cresci in Valcava, alle quattro delle pievi di
Sant’Agata (anche se in entrambi i casi queste hanno un’ampiezza particolare) e San Giovanni
Maggiore, alle cinque della pieve di San Pietro a San Piero a Sieve, alle sei della pieve di Faltona e
di San Cassiano in Padule, per passare alle sette campate di Santa Maria a Fagna, San Giovanni in
Petrojo e Dicomano, per finire al considerevole numero di dieci campate presenti nella grande pieve
borghigiana, la più vasta del contado fiorentino.
Il tipo di copertura preferito è quello a capriate lignee in vista, mentre l’uso della volta è limitato
alle rare e piccole cripte: la più ampia è quella della pieve di Misileo, posta al confine con le diocesi
di Imola e di Faenza. Questo ambiente ipogeo, che probabilmente si estendeva in larghezza quanto
la pieve sovrastante, era articolato in sette navatelle triabsidate con volte sostenute da colonnine
concluse da capitelli con pulvino di origine ravennate. Recentemente15quater, è stato ipotizzato di
riconoscere nella cripta di Misileo un criptoportico dell’VIII secolo, affermazione che necessita di
ulteriori studi e scavi archeologici. Un piccolo sacello ipogeo si trova anche nella pieve di San
Cassiano in Padule. In ambito monastico, appare accertata l’esistenza di una piccola cripta nella
modesta costruzione della badia a Bovino, mentre la presenza di una cripta è ipotizzabile pure nella
badia vallombrosana di San Paolo a Razzuolo. Secondo uno studio di qualche anno fa15quinquies, lo
sviluppo planimetrico di questi edifici sarebbe riconducibile ad un modulo generato sulla figura di
base del doppio quadrato, modulo che probabilmente sembrava portare in sé una forte componente
proporzionale, in quanto la larghezza risulta più o meno il doppio della lunghezza.
Rara è la presenza della decorazione scultorea sia all’esterno che all’interno delle chiese; nel primo
caso limitata agli architravi (pievi di Sant’Agata e Cornacchiaia) o ai peducci di archetti pensili
(pieve di Faltona), nel secondo ai capitelli dei sostegni (pievi di Petrojo e di Borgo San Lorenzo) o
nelle suppellettili intarsiate (pievi di San Giovanni Maggiore, Faltona, Fagna, e Sant’Agata).
La struttura muraria è poco articolata e si preferiscono le pareti levigate che mettono in evidenza sia
l’armonia e l’accuratezza del paramento murario che la semplice razionalità della struttura
architettonica. Questa sensibilità geometrica, poco incline ad accettare elementi decorativi e figurati
dallo spiccato plasticismo, e il gusto per l’articolazione dei volumi rimangono le note determinanti
di tutta l’architettura romanica del contado fiorentino, tanto che gli influssi ‘lombardi’ risultano
circoscritti e comunque costantemente stemperati e limitati a pochi elementi del lessico
architettonico (fornici, lesene e archetti pensili). Si tratta, secondo Moretti-Stopani16, della tendenza
ad unire la tradizione paleocristiana con elementi desunti dall’architettura romanica del nord Italia.
Questa resistenza del contado fiorentino nell’accettare in modo limitato a certe parti della struttura
le novità dell’architettura lombarda, o comunque nel negare un’interpretazione decorativa di
carattere plastico dell’architettura, non può spiegarsi soltanto con l’influsso del modello della
cattedrale di Santa Reparata, che pure avrà senza dubbio avuto un ruolo determinante. Lo Stopani
osserva che tali caratteri si comprendono e si spiegano facendo riferimento alla costante tendenza
dell’architettura di una larga parte della Toscana alla geometria, intesa questa come definizione
della spazialità, rapporto con la realtà basato sulla razionalità e sulla chiarezza. Ma si tratterà anche
di una “fedeltà alla tradizione romano-bizantina”16bis, della quale la città del Giglio annoverava
rilevanti esempi quali che chiese dei Santi Apostoli e San Pier Scheraggio, nonché la chiesa
abbaziale di San Miniato al Monte. Non si può comunque, vista la peculiarità del ‘romanico
fiorentino’, escludere che altri fattori siano intervenuti, fattori che, forse, hanno a che vedere con le
vicende storiche e religiose della Firenze dei secoli XI-XIII. Ci riferiamo soprattutto alla presenza
nell’area fiorentina, fin dagli inizi dell’XI secolo, di una forte corrente religiosa che mirava a
combattere la corruzione del clero ed a ricondurre la vita della Chiesa nella linea della purezza e
della povertà originarie.
Si può generalmente ritenere che le pievi più antiche, riferibili alla già segnalata fase
protoromanica, siano costruite con piccole ed irregolari bozze e conci ricavati da pietre di cava
sistemate in altrettanto irregolare filaretto. Inoltrandoci nel XII secolo i paramenti murari si fanno
sempre più accurati e composti quasi esclusivamente da conci che si presentano sempre più grandi e
levigati, sistemati in ricorsi sempre più omogenei e regolari17.
Analoghe considerazioni sono valide anche per quel che riguarda l’aspetto delle monofore: negli
edifici più antichi le finestre a monofora (in numero sempre ridotto nelle piccole chiese suffraganee,
che talvolta prendono luce solo dall’apertura sovrastante la porta d’ingresso), quasi sempre a doppio
sguancio, hanno l’archivolto composto da più conci. A partire circa dalla metà del XII secolo
furono realizzate monofore che utilizzano un archivolto monolitico con l’estradosso diritto.
L’evoluzione di questo motivo giunge a produrre le ampie aperture non strombate (ma con
l’archivolto necessariamente in più pezzi, data la loro ampiezza), della sopraelevazione della navata
centrale della pieve di San Lorenzo a Borgo, che richiamano quelle delle più antiche basiliche
ravennati.
Come avviene in tutto il contado fiorentino, anche nel Mugello le pievi edificate tra la fine dell’XI
ed i primi del XII secolo mostrano caratteri che ne evidenziano gli influssi padani18, anche se
recentemente il Tigler19 ha attenuato la portata di tali influssi, ritenendo che quegli elementi
architettonici appartengano in realtà al linguaggio romanico diffuso in buona parte d’Europa. Pur
potendo concordare sulla necessità di una maggiore prudenza, almeno per quanto riguarda la zona
del Mugello, rimane più plausibile che, in considerazione della posizione geografica, questo lessico
sia pervenuto dall’Italia padana non foss’altro che per un’evidente contiguità geografica, facilitata
anche dalla nota presenza di percorsi stradali di collegamento. In tal senso, crediamo, si deve
intendere il riconoscimento degli influssi ‘lombardi’ nell’architettura sacra del contado fiorentino.
Più difficile, effettivamente, appare l’attribuzione diretta di questi edifici a maestranze lombarde,
piuttosto che a magistri locali che si erano aggiornati sulle esperienze architettoniche
‘internazionali’, che si svolgevano sia in Padania che in altre aree dell’Europa.

La pieve di Santa Maria a Fagna, presso Scarperia, è stata in genere riferita all’attività di maestranze
oltrappenniniche dell’XI secolo (i cosiddetti maestri commacini)19bis. Essa è dotata di un’abside
semicircolare coronata da una serie di semplici e tozzi fornici sormontati da archetti pensili, come
nel contado fiorentino si riscontrano, strettamente analoghi, nell’abside della pieve di Sant’Appiano
in Valdelsa, datata variamente tra il IX e l’inizio dell’XI secolo. Queste nicchiette richiamano da
vicino quelle delle chiese milanesi dei secoli X-XI (Sant’Eustorgio, San Calimero, San Vincenzo in
Prato) e quelli della chiesa brianzola dei Santi Pietro e Paolo ad Agliate, tutti ugualmente tozzi ma
spartiti da lesene20. L’abside della pieve di Fagna costituisce uno degli esempi più semplici tra
quelle dotate di fornici di coronamento, in quanto non sono presenti le lesene che spartiscono la
parete, come avviene, invece, in quelle delle pievi di Sant’Appiano, di San Pancrazio e San Lazzaro
a Lucardo. Il paramento murario dell’abside di Fagna è costituito da materiale eterogeneo, con
prevalenza di semplici bozze di pietra di cava sistemate secondo ricorsi piuttosto irregolari e
disomogenei. Un’apparecchiatura muraria del genere, cioè piuttosto ‘primitiva’, induce a
considerare questa parte dell’edificio come la più antica testimonianza protoromanica del Mugello
ancora esistente, ed è vagamente databile attorno alla metà dell’XI secolo.
L’interno della pieve di Fagna invece, con sviluppo a tre navate divise da pilastri, è stato totalmente
rimaneggiato nel corso dei secoli. Esso mostrava, fino a qualche anno fa un pilastro al quale era
stato tolto lo strato d’intonaco (fig. ), i cui caratteri non risultano in sintonia con una datazione
riferibile all’XI secolo, mostrandosi del tipo più semplice, privo di base e di coronamento, come, ad
esempio, si riscontrano, in ambito fiorentino, nelle pievi di San Donnino a Villamagna,
Sant’Alessandro a Giogoli e San Pietro a Ripoli, tutte databili, più o meno, attorno alla metà del XII
secolo. Considerato anche lo sviluppo icnografico della pieve di Fagna, che ha ben sette campate -
fatto assolutamente estraneo alle pievi del contado fiorentino costruite prima della fine dell’XI
secolo si può così ragionevolmente ipotizzare che l’abside dell’XI secolo sia rimasta l’unica parte
conservata nel contesto di una ricostruzione avvenuta attorno alla metà del XII, ricostruzione al
termine della quale furono realizzate anche suppellettili con intarsio marmoreo riferibili, appunto, ai
primi due decenni della seconda metà del XII secolo.

Anche la pieve di San Giovanni Maggiore appartiene forse al gruppo di edifici costruiti ad opera di
costruttori comunque influenzati da cultura architettonica padana20bis. Purtroppo le vicende storiche
e costruttive dell’edificio rendono attualmente illeggibile la struttura romanica delle navate; tuttavia
resta ancora almeno una parte del paramento murario antico costituito da ricorsi composti da
elementi eterogenei quali bozze e conci di pietra di cava accapezzati irregolarmente, con un taglio
disomogeneo e con filaretti di varie dimensioni, ma con un andamento più lineare rispetto a Fagna
che rappresenta un probabile indizio di una datazione più tarda e già collocabile tra la fine dell’XI e
i primi anni del secolo XII. A San Giovanni Maggiore risalta in modo particolare la presenza dello
splendido e singolare campanile poligonale, forse unico indizio ben conservato superstite della
cultura padana espressa dalla chiesa. Esso rappresenta un’evoluzione del modello più antico delle
torri campanarie ravennati a sezione cilindrica20, passato probabilmente attraverso la mediazione di
esempi quali il campanile ottagonale della chiesa di Santa Maria ad Nives (o Santa Maria Vecchia)
a Faenza, datato genericamente tra X e XI secolo21, ma che trova interessanti riscontri anche nel
poco più tardo campanile della Badia a Settimo22, a ovest di Firenze, e in un gruppo di campanili
umbri23.
È probabile che questi edifici siano stati costruiti da maestranze settentrionali giunte nel Mugello
percorrendo uno dei vari tracciati stradali che lo collegavano con l’oltrappennino, ovvero da
costruttori locali in grado di parlare il linguaggio romanico dal momento che presentano, sia pure
non in maniera eclatante, modi ed elementi atti ad articolare la massa muraria, a scandirla
ritmicamente e a dotarla di suggestivi contrasti di luce ed ombra, secondo, appunto, i dettami della
cultura romanica.

Anche la pieve di Santa Felicita a Faltona - che con San Giovanni Maggiore condivide la
collocazione sul percorso della via Faentina è forse quella meglio conservata fra tutte le pievi
romaniche del Mugello e mostra una persistenza di contatti col mondo padano a causa della
presenza, nell’abside, del motivo lombardo della loggetta sormontata da esili archetti pensili con
decorazione scolpita, elemento singolare non solo per il Mugello ma per l’intero contado di Firenze.
La pieve presenta uno sviluppo planimetrico a tre navate che si distendono su sei campate divise da
pilastri quadrangolari privi di base ma forniti di cornice modanata in corrispondenza dell’imposta
dell’arco. L’intero edificio appare però più tardo ed elaborato non solo rispetto a quello
protoromanico di Fagna, ma anche alla pieve di San Giovanni Maggiore. Esso trova un riscontro
piuttosto puntuale con la più articolata abside dell’abbazia di San Michele a Nonantola, con quelle
della collegiata di Santa Maria a Castell’Arquato, nel piacentino, e della chiesa di San Siro a
Cemmo in Lombardia. Per rimanere nella zona intorno a Firenze, una struttura analoga ma molto
più precoce si trova nell’abside della pieve di San Leonardo ad Artimino, in diocesi di Pistoia24 e, in
ambito pre-romanico, nella pieve di Sant’Appiano in Valdelsa25. Ma nel complesso gli influssi
lombardi esercitati sull’architettura fiorentina tra la fine dell’XI e la prima metà del XII secolo
furono di lieve entità, come già osservò il Ragghianti26, tanto che nel corso di quest’ultimo secolo
vanno sempre più rarefacendosi, fino a scomparire quasi del tutto27, lasciando il posto alla più tipica
architettura di gusto locale. Per queste e le successive considerazioni la pieve di Faltona è databile
pienamente nella prima metà del XII secolo, cronologia confortata anche dal carattere del
paramento murario, ancora piuttosto irregolare specie in facciata, perché composto da filaretti
disomogenei costituiti sia da piccole bozze che da conci - in arenaria e alberese - di dimensioni
piccole e medie, scalpellati piuttosto regolarmente. Un terminus ante quem circa il completamente
dell’edificio è dato dalla data 1157 che si leggeva sul suo fonte battesimale. Ma l’esecuzioni di
suppellettili non può essere vincolata strettamente alla conclusione di un edificio e il confronto della
tipologia del paramento murario con quello di edifici databili, come vedremo, in piena seconda
metà del XII secolo, come ad esempio le pievi di Padule e Borgo San Lorenzo, induce a collocare la
pieve di Faltona ancora nella prima della metà del XII secolo.

Gli influssi padani, che in ogni caso non hanno mai attecchito compiutamente nel Mugello e, più in
generale, nell’area della diocesi fiorentina, ricompariranno sul volgere del XII secolo - stavolta
attraverso la mediazione delle grandi pievi del Casentino e del Valdarno Superiore - nelle pievi di
San Lorenzo a Borgo, San Cassiano in Padule (quest’ultima quasi del tutto ricostruita dopo il sisma
del 1919), e San Giovanni in Petrojo. Si tratta di edifici sono caratterizzati dalla presenza, totale o
parziale, di sostegni circolari. La pieve di Borgo costituisce l’unico edificio mugellano che presenta
colonne monolitiche sormontate da capitelli scolpiti che richiamano, pur con motivi diversi e più
classici, le chiese del Valdarno Superiore e del Casentino. Nella pieve di Padule le immagini
documentarie ci testimoniano una situazione analoga a Borgo, mentre a Petrojo troviamo pilastri a
sezione circolare composti da conci di pietra sormontati da esili capitelli scolpiti.
La presenza dei sostegni a sezione circolare, siano essi colonne che pilastri, è un elemento piuttosto
raro nel territorio extra-urbano della diocesi di Firenze, e risultano invece molto più diffusi in
territorio fiesolano in ossequio all’architettura della cattedrale di San Romolo. Oltre alle tre pievi
citate sono, infatti, da segnalare soltanto la pieve di San Severo a Legri, che presenta colonne
monolitiche, e quella di Sant’Appiano in Valdelsa, dove la fila destra dei sostegni fu ricostruita nel
1171 con pilastri a sezione circolare in laterizio in seguito a un crollo che coinvolse quasi tutta la
parte meridionale della chiesa.
Questa rarità dei sostegni a sezione circolare, almeno nel territorio di contado nella diocesi di
Firenze, dovrà forse da imputarsi all’influsso del modello della cattedrale fiorentina di Santa
Reparata29 che, secondo le ricostruzioni più attendibili aveva, nella sua versione dell’XI secolo,
pianta basilicale a tre navate spartite da pilastri quadrangolari30.

La pieve di San Lorenzo a Borgo presenta l’abside internamente ‘ricassata’, alla lombarda, e
colonne con entasi concluse da capitelli che rifiutano ostinatamente di offrirsi a soggetti figurati
preferendo ripetere lo schema classico del capitello composito di evidente ispirazione classica.
Questi possono essere avvicinati a quelli analoghi delle pievi di Romena, databili intorno al 1152, a
quelli più arcaici della pieve di Gropina ed a quelli della pieve di Cascia: tutti edifici del Casentino
e del Valdarno riferiti all’attività di maestranze settentrionali operanti nella seconda metà del XII
secolo ed oltre32. Se nella fila di arcate di sinistra i nove sostegni che suddividono le dieci campate
sono tutti costituiti da colonne, quella meridionale presenta sette pilastri rettangolari e due colonne
sui quali scaricano archi a tutto sesto in laterizio, frutto, probabilmente, di un’ampia campagna di
restauro avvenuta nella seconda metà del XIII secolo (cfr. scheda relativa). Anche la bella ed
accurata sistemazione del paramento murario in grandi conci di arenaria in macigno del Monte
Senario - malgrado gli interventi di restauro del XX secolo - ed il carattere monumentale e
basilicale accentuano le affinità tra questi edifici e la pieve borghigiana. Non è improbabile che una
maestranza attiva nei cantieri casentinesi e valdarnesi si sia spinta dunque anche nel cuore del
Mugello per edificare la più vasta chiesa plebana del contado fiorentino33, nella quale tuttavia, forse
per una precisa volontà dei committenti, non ebbe la possibilità di esprimere tutta la sbrigliata
fantasia figurativa mostrata nei capitelli delle suddette chiese.
Di notevole interesse risulta anche l’austero ed inconsueto campanile in laterizio, che deve la sua
originalità al fatto di poggiare direttamente sull’abside semicircolare della pieve e di scaricare tutto
il peso del suo lato più largo sul grande arco trionfale. Il campanile borghigiano risale con tutta
probabilità al 1263 (data incisa sopra il capitello di una bifora), e rappresenta un’importante
testimonianza del momento di trapasso dal romanico al gotico, mantenendo del primo la solida e
compatta muratura e del secondo lo slancio verticale e i caratteri dei capitelli delle sue bifore,
composte di archi ormai ogivali. Si tratta dell’opera di un attardato artefice di probabile formazione
oltreappeninica, partecipe della ormai lontana tradizione dei campanili poligonali padani.
La pieve di San Cassiano in Padule, ormai non più direttamente valutabile nel suo complesso poiché
quasi completamente crollata per il sisma del 1919, pur conservando la tribuna originaria, era
caratterizzata una ripartizione in tre navate con uno sviluppo su sei campate, sorrette da solide
colonne monolitiche con entasi34 nella fila sinistra e da robusti pilastri quadrangolari con cornice di
coronamento sul lato opposto, secondo un impianto asimmetrico che richiama quanto si riscontra
nella pieve di Borgo San Lorenzo. Quest’ultima dunque potrebbe essere frutto del risultato di un
rifacimento ispirato probabilmente proprio dall’inconsueta soluzione elaborata a Padule, dal
momento che l’architettura di questa pieve si mostra come complessivamente più omogeneae
realizzata in un lasso di tempo più ristretto rispetto a quella di Borgo. Il paramento murario della
tribuna di San Cassiano, composto da grandi conci di pietra arenaria accuratamente e regolarmente
scalpellata, conferma il rimando di questa fase costruttiva dell’architettura romanica in Mugello alle
tecniche di costruzione che si riscontrano in Casentino e nel Valdarno Superiore.
A queste due pievi si associa per la presenza di pilastri a sezione circolare anche l’interessante -
anche se assai rimaneggiata - pieve di San Giovanni in Petrojo28. Tuttavia, forse, per quest’ultimo
edificio si potranno svolgere alcune osservazioni. La muratura risulta eseguita con conci di pietra di
dimensioni medie e al contrario di quanto avviene a Borgo San Lorenzo, San Cassiano in Padule e
nelle pievi casentino-valdarnesi. Anche i sostegni interni a sezione circolare sono costituiti da
pilastri e non da colonne monolitiche, pilastri composti da piccoli conci in alberese. I capitelli reca-
no, inoltre, semplici ma interessanti decorazioni a rilievo poco accentuato, quasi graffito,
raffiguranti nastri intrecciati e volute di gusto prettamente altomedievale, ma certamente eseguiti
più tardi. Si tratta di motivi dal tono fortemente arcaizzante, ma diffusi ampiamente anche in epoca
romanica e che ritroveremo nelle pievi di Sant’Agata e di San Giovanni a Cornacchiaia e che
rimandano al repertorio decorativo di maestranze padane ritardatarie31. Ma forse la tipologia dei
capitelli, a parallelepipedo scantonato, decorati da semplici ed arcaizzanti motivi di gusto
altomedievale e dalla ripresa in forme fortemente stilizzate del capitello ionico, sembra richiamare
esempi (sia pure più elaborati) riscontrabili soprattutto in Lunigiana, come nelle pievi di Santo
Stefano a Sorano di Filattiera, di San Paolo a Vendaso, ma anche nella pieve di San Giovanni
Battista a Sant’Ansano in Greti, sul Montalbano ed in diocesi di Pistoia31. Tra l’altro anche queste
pievi presentano sostegni come San Giovanni in Petrojo. Queste considerazioni ci portano a
ipotizzare che la pieve mugellana possa derivare da un attardato filone culturale che dalla Lunigiana
sia giunto nel Mugello attraverso la diocesi di Pistoia (nel cui territorio si trova la pieve di Greti),
magari attraverso il valico di Valibona che collegava Prato (cioè la diocesi di Pistoia) col Mugello.
Queste tre importanti chiese mugellane possono essere collocate nella seconda metà inoltrata del
XII secolo, le prime due per i contatti con le grandi pievi casentinesi, quella di Petrojo per le
tangenze con quelle di Sant’Agata e Cornacchiaia (la prima riconducibile al terzo quarto del
secolo).

Il gruppo più cospicuo delle pievi mugellane appare comun que scevro da influssi
padani e caratterizzato da una estrema povertà decorativa, dalla mancanza di
articolazione dei volumi delle pareti e dalla presenza di massicci pilastri
quadrangolari come sostegni, secondo uno schema che , come detto, sembra trovare il
proprio prototipo nella cattedrale fiorentina di Sa nta Reparata.
L’architettura di queste pievi, come hanno chiarito a loro tempo Moretti-Stopani35, è il frutto di un
incontro tra la tradizione architettonica lombarda, della quale presentano una debole eco variabile
da soggetto a soggetto, con l’eredità della cultura paleocristiana dalla quale derivano, ad esempio, la
pianta di tipo basilicale priva di transetto e la copertura a capriate lignee. Piuttosto raro risulta
invece l’impiego nell’architettura delle pievi della struttura planimetrica ad aula, più diffusa altrove
nel contado fiorentino (ad esempio nelle valdelsane pievi di San Giovanni Battista a Monterappoli,
Sant’Ippolito e Biagio a Castelfiorentino, ecc.) e che ritroviamo con certezza soltanto nelle pievi di
Santa Reparata a Pimonte e San Martino a Viminiccio.
Per quanto è possibile capire dalle strutture scampate alle distruzioni ed alle modifiche, una delle
più antiche pievi di questo gruppo potrebbe essere quella di San Pietro a San Piero a Sieve che, pur
avendo perduto la zona absidale originaria, mantiene buona parte delle sue strutture più antiche e
l’intero paramento murario esterno. Dotata di un prospetto a quattro spioventi e pareti laterali sulle
quali si aprono delle monofore piuttosto ben conservate, la pieve di San Pietro presenta l’interno -
diviso in tre navate e sviluppato su sei campate - completamente intonacato e rimaneggiato. I
sostegni si presentano oggi come massicci e tozzi pilastri quadrangolari coperti dalla intonacatura.
Indizi di una datazione relativamente più vicina all’inizio che non alla metà del XII secolo della
chiesa sono costituiti dal paramento murario composto da piccoli conci e bozze accostate in filaretti
disomogenei, dagli archivolti delle monofore delle navate composti di più elementi, nonché dalle
dimensioni limitate e dai tozzi e massicci pilastri dell’interno, attualmente privi di base e cornice di
coronamento.
Un’altra pieve mugellana probabilmente facente parte della stessa tipologia , ma che
mostra evidenti segni di un pressoché totale rifacimento che ren de illeggibili le
strutture romaniche, è da ritenere quella di Santa Maria a Dicomano. Del periodo
romanico questa pieve conserva ancora la massiccia torre - probabilmente una
fortificazione adibita successivamente a campanile - a pianta quadrata che presenta, in
parte, regolari pietre scalpellate 3 7 . Riguardo al resto dell’edificio dobbiamo rilevare
che, tranne nella struttura di alcuni sostegni consistenti in semplici pilastri
rettangolari e nella soprastante attaccatura delle arcate , il resto dell’edificio presenta
un paramento che, pur essendo composto da irregolari bozze di cava , non mostra
traccia del filaretto romanico originale. Oltretutto, dopo il rovinoso terremoto del
1542, la ricostruzione dell’edificio comportò un’inversione dell’ orientamento
dell’edificio spostando il presbiterio a ovest. Da notare come l’apparecchiatura
muraria sia strettamente analoga a quella delle pareti esterne e delle navate
dell’abbazia di San Godenzo.
Per la forma dei pilastri e l’attaccatura delle arcate, oltre che per le dimensioni della
pianta e delle sue proporzioni, la pieve di Dicomano fu probabilmente costruita
attorno alla metà del XII secolo, benché ad alcuni sia sembrata più tarda 3 6 .

Degna di attenzione è quindi la pieve di San Cresci in Valcava, dovuta all’opera di maestranze
locali, la quale presenta analogie, specie nella inconsueta struttura della facciata, con alcune altre
pievi del contado fiorentino come quelle di San Giovanni Battista a Remole e San Bartolomeo a
Pomino, ma anche con quelle di Polenta e di San Cesario sul Panaro nel modenese37bis. L’edificio,
ampiamente rinnovato nel corso di un restauro degli anni ’30 del XX secolo che ha cancellato gran
parte delle strutture originarie, in primo luogo i quattro spioventi che seguivano l’andamento della
spazialità interna, presenta un’articolazione a tre navate monoabsidate, costituite da due sole ampie
campate, similmente a quanto avviene nella più antica pieve di San Severo a Legri. Tra tutte le pievi
del Mugello, quella di San Cresci in Valcava ha una storia tra le più ricche e rappresenta uno degli
edifici più semplici ed austeri, privo com’è di qualsiasi connotato decorativo.

Nel panorama dell’architettura romanica in Mugello, assume particolare rilievo un gruppo di tre
pievi che presentano caratteri ben distinti, quella di San Giovanni Battista Decollato a Cornacchiaia,
quella di Sant’Agata di Mugello e forse quella di San Gavino Adimari. Queste chiese plebane,
assieme a quella di San Martino a Lobaco (quest’ultima in territorio della diocesi di Fiesole),
presentano (o presentavano) caratteristiche costruttive e stilistiche comuni, tanto da far ipotizzare la
loro appartenenza alla stessa maestranza di costruttori38, forse in contatto con la cultura
architettonica e decorativa padana38 bis. Tra l’altro queste pievi sembrano proprio disporsi lungo una
medesima direttrice stradale, che può essere stata anche un veicolo di trasmissione di influssi
culturali, oltre che la strada di passaggio di maestranze di costruttori39. Al gruppo di queste pievi è
probabilmente da unire anche quella di San Gavino Adimari42 che, almeno all’esterno, sembra
ripetere fedelmente l’impianto di Sant’Agata.
L’elemento che accomuna tutte queste pievi (ma il caso di San Gavino appare dubbio), è
rappresentato dalla originale e inconsueta soluzione scelta per sostenere la copertura attraverso la
realizzazione dei sostegni interni, costituiti da alti pilastri a sezione circolare che si innalzano (o si
innalzavano) a sorreggere direttamente la travatura lignea del tetto a spioventi, senza la presenza di
archi. Gli edifici, tutti con facciata a capanna articolati in tre navate, assumono all’interno un
aspetto di unità spaziale che richiama la tipologia delle Hallenkirchen (chiese a sala), molto più
diffusa in area germanica40.
La pieve di Sant’Agata è quella dove sono più facilmente leggibili i caratteri originari. Eretta poco
dopo la metà del XII secolo e comunque prima del 117541, l’edificio presenta un’ampia facciata a
capanna, ed è articolato al suo interno in una grande aula il cui tetto a capriate lignee in vista è
sostenuto direttamente da sei alti pilastri circolari, tre per lato. Il paramento murario originale è
costituito da piccoli conci, in alberese con inserzioni in serpentino, disposti in un filaretto regolare,
ma di diverse dimensioni e composizione a seconda delle varie parti della muratura. Il portale di
ingresso che si apre in facciata reca un architrave con scolpito a leggero rilievo il motivo decorativo
del nastro intrecciato, che come abbiamo già osservato, pur richiamando esempi altomedievali, deve
essere ricondotto all’attività di lapicidi operanti nella seconda metà del XII secolo e di probabile
formazione padana41bis Nell’edizione del 1994 ci eravamo spinti ad ipotizzare, sulla scorta di quanto
opinato dal Salmi, che la sistemazione ideata per la copertura di questa pieve fosse in qualche modo
il frutto di una soluzione di ripiego che giustificasse l’aspetto gotico dei sostegni intermedi. Questa
ipotesi, non condivisa dal Tigler42, ci appare da tempo effettivamente poco plausibile, e non solo per
le ragioni addotte dallo studioso, ma anche per il fatto che non teneva nel debito conto la
circostanza che questa soluzione appare il frutto di un vero e proprio progetto unitario, fra l’altro
attuato in diversi edifici e che lo slancio verticale dei sostegni intermedi (che ha fatto pensare ad un
intervento più tardo), si riscontra ancora oggi nella vicina pieve di Cornacchiaia. Risulta pertanto
difficile ritenere che vicende così particolari, come quelle ipotizzate per la chiesa santagatese,
possano essersi verificate anche per la pieve di Cornacchiaia. Non sarà forse lontano dal vero
l’opinione della Brunori Cianti43, secondo la quale la soluzione elaborata nelle chiese di Sant’Agata,
Cornacchiaia e Lobaco è il frutto di un progetto che mirava a realizzare una struttura più adatta di
quelle consuete a resistere in un territorio ad alto rischio sismico, perché relativamente più
‘elastica’.

Anche la pieve di Cornacchiaia, malgrado i rifacimenti successivi, mantiene un buon grado di


lettura dell’impianto originario, se si esclude, come già detto, la perdita della parte absidale. La
costruzione, realizzata per lo più con grossi conci in pietra serena ben lavorati ed accuratamente
sistemati in un filaretto regolare, richiama le pievi di San Lorenzo a Borgo, Montecuccoli e San
Cassiano in Padule. Tra le caratteristiche peculiari che la collegano al ‘gruppo’ nel quale la si
colloca troviamo un portale di accesso in facciata con architrave e stipiti decorati con lo stesso
motivo del nastro intrecciato che si vede a Sant’Agata. In più, nello spessore degli stipiti, nel punto
di congiunzione con l’architrave, si trovano due capitelli a foglie. Sul lato settentrionale, invece, un
secondo portale, ora tamponato, reca tracce di un capitello a foglie, analogo a quello della facciata,
ed una lunetta decorata con una croce incisa e affiancata da animali, sempre incisi. La scalpellatura,
evidentemente eseguita per far aderire l’intonaco in una fase di intervento successiva, ha con tutta
probabilità eliminato quello che doveva essere il consueto motivo dei nastri intrecciati. Il prospetto,
che si presentava in origine con facciata a capanna, è ora ridotto a quattro spioventi, mentre
all’interno, inglobati in pilastri ottocenteschi, sono ancora oggi perfettamente visibili gli slanciati
sostegni a sezione circolare su cui si impostava in origine la copertura a capriate lignee. Inoltre, in
entrambe le pievi si trovano dei motivi bicromi a scacchi (a losanga nella pieve santagatese, a
triangolo in quella di Cornacchiaia), che possono essere considerati quali marchi distintivi della
maestranza dei costruttori e che sono state, in maniera plausibile, accostate all’apparato decorativo
bicromo presente nel complesso bolognese di Santo Stefano44. Quello che differenzia la pieve di
Sant’Agata da quella di Cornacchiaia è una maggiore disponibilità di quest’ultima ad accogliere
elementi decorativi, riscontrabili non solo nei portali - quello che si apriva verso nord presenta una
lunetta con incisa una croce affiancata da animali, anch’essi incisi - ma anche nei semipilastri della
controfacciata che recano, caso quasi unico nella diocesi di Firenze, due capitelli figurati con
scolpiti motivi zoomorfi e forse anche dei cherubini45. Per i due capitelli sono stati proposti
confronti con quelli della pieve chiantigiana di Santa Maria Novella46, ritenuti per l’appunto opera
di lapicidi di formazione lombarda47. Nessuna informazione è reperibile circa la tribuna e la relativa
abside di queste pievi, essendo state entrambe rimaneggiate e demolite nel corso dei secoli. Tuttavia
guardando alla tribuna e alla relativa abside superstite della pieve di Lobaco, è possibile
immaginare che appartenessero ad una tipologia di strutture volumetriche con abside semicircolare
senza decorazioni.

La pieve di San Gavino Adimari, posta lungo la strada che porta al passo della Futa e che era a capo
del plebato del Mugello che annoverava il maggior numero di suffraganee, ci appare oggi
notevolmente rimaneggiata. Sta di fatto che la sua ampia facciata a capanna, che presenta un
paramento murario composto da conci di alberese e serpentino disposti in regolare filaretto,
sottolinea una evidente parentela con quella di Sant’Agata. Purtroppo i raffronti si fermano qui
perché l’interno è stato completamente rimaneggiato nel XVIII secolo e i pilastri quadrangolari,
sulla base di un sondaggio effettuato in passato, sembrerebbero risalire a quel periodo; il che non
esclude che ve ne fossero altri più antichi dei quali è stata perduta la traccia. Inoltre, la tribuna,
costituita da una scarsella sulla quale si imposta il campanile, è con tutta probabilità il risultato di un
intervento risalente ai secoli XIII-XIV. Alla luce dei pochi dati disponibili, la pieve di San Gavino
può essere accostata solo in via ipotetica a quella di Sant’Agata e assegnata all’attività di
maestranze di formazione padana del terzo quarto del XII secolo.

Anche l’appartata pieve di San Martino a Viminiccio (o Scopeto), è caratterizzata da una scarsella
quadrangolare in luogo della consueta abside semicircolare. Il contado fiorentino conserva altri
esempi di analoga articolazione planimetrica, come la canonica di San Michele Arcangelo a
Castiglioni e la chiesa di San Giorgio a Montalbino47bis. In quest’ultimo caso si tratta di un edificio
dalla difficile collocazione cronologica, che sarà comunque da indicare tra il XII ed il XIII secolo 48,
per il quale non sarà stato forse estraneo un primo timido influsso delle novità dell’arte gotica49.

LE CHIESE SUFFRAGANEE

Le piccole chiese suffraganee del Mugello presentano caratteri più omogenei rispetto alle altre
tipologie di edifici ecclesiali. Esse sono tutte strutturate con una sola aula absidata, con poche
aperture e con paramento murario, in genere, molto regolare per il fatto che furono realizzate
prevalentemente dalla metà del XII secolo in poi, sulla spinta della crescita demografica che
necessitò la realizzazione di edifici che supplissero - anche se solo per alcune funzioni - al ruolo
svolto delle pievi.
Nessuna di queste chiese appare dotata di decorazione scultorea e, ancora una volta, prevale il
desiderio di esaltare la semplice, razionale struttura geometrica dell’edificio e del suo paramento
murario. Questa tipologia di edifici è molto diffusa nell’intero territorio fiorentino.
Nel Mugello la sola chiesa di San Niccolò a Migneto mostra un timido e controllato tentativo di
articolazione del paramento murario con due strette lesene collocate, peraltro, in posizione laterale,
abbastanza defilata e nascosta. La chiesa di Spugnole, invece, possedeva tre monofore che si
aprivano nell’abside semicircolare: caso praticamente unico nella nostra zona.
Alcune di queste chiese sono edificate con materiale accapezzato, altre, invece, appaiono realizzate
con maggiore accuratezza. Appartengono al primo gruppo, ad esempio, le chiese di San Lorenzo a
Santa Croce, Santa Lucia a Monti, San Niccolò a Torricella; al secondo quelle di Santa Maria a
Fabbrica, Sant’Andrea a Vezzano, San Romolo a Bivigliano, Santa Maria a Spugnole, San Niccolò
a Latera, Santa Maria a Montefloscoli, San Michele a Lezzano.
In definitiva, “tutte queste costruzioni presentano, è vero, un interesse marginale per la storia
dell’arte. Tuttavia (...) esse testimoniano l’esistenza di numerosi maestri dotati di un vivo senso
estetico. Pensiamo pertanto che la loro conoscenza sia importante per la piena comprensione del
fenomeno dell’architettura romanica religiosa, della quale esse costituiscono un po’ il tessuto
connettivo”50.
I MONASTERI

Anche le chiese monastiche che conservano ancora parti romaniche mostrano caratteri
sensibilmente eterogenei tra di loro, spiegabili con l’appartenenza a ordini diversi.
A dispetto della sua importanza storica, l’unico edificio abbaziale benedettino presente sul territorio
mugellano non mostra resti della sua struttura medievale: si tratta della badia benedettina di San
Bartolomeo al Buonsollazzo, fondata, secondo la tradizione, dal marchese Ugo di Toscana, e che fu
completamente ricostruita dal Foggini agli inizi del Settecento (1705-1709)51. Se si esclude la
vicina, imponente abbazia di San Godenzo, ma già sorta in territorio della diocesi fiesolana,
nessun’altra presenza benedettina si trova nel Mugello.
Diverso è il caso dei due più importanti ordini benedettini riformati sorti proprio in Toscana nell’XI
secolo: quello di Camaldoli e quello di Vallombrosa.
Il monastero camaldolese di San Pietro a Luco, una delle più importanti strutture monastiche
femminili appartenenti a quell’ordine religioso, fondato nel 108552, ha subito numerose
modificazioni nel corso dei secoli, che ne hanno quasi completamente cancellato le strutture
medievali. Ilaria Taddei, pur in assenza di valide testimonianze edilizie, ma utilizzando la fotografia
realizzata al paramento murario della facciata, costituito da piccoli conci di pietra accuratamente
sistemati in regolare filaretto, che sembra richiamare quello della badia di Razzuolo, propone una
ricostruzione della facies originaria dell’edificio53. La studiosa ritiene che la chiesa medievale
avesse la facciata a capanna meno alta di un terzo rispetto a quella attuale, che all’interno fosse
significativamente più corta, a navata unica e abside semicircolare. La chiesa, già dotata di
campanile non doveva presentare finestre lungo i fianchi.

Ancora più diffusa la presenza in questa area della diocesi fiorentina delle fondazioni monastiche
vallombrosane. Anzi, si tratta di due delle più importanti, in quanto fondate direttamente da San
Giovanni Gualberto subito dopo l’abbazia madre di Vallombrosa: il monastero di San Paolo a
Razzuolo e quello di San Pietro a Moscheta. Purtroppo solo nella chiesa del primo insediamento,
pur notevolmente rimaneggiata e diminuita, sopravvivono testimonianze romaniche, mentre la badia
di Moscheta risale quasi completamente ad una ricostruzione del XIV secolo. Comunque,
dall’analisi degli elementi superstiti, è possibile affermare che queste erano assolutamente in
sintonia con lo spirito delle altre fondazioni dell’ordine: pianta a croce latina, poche aperture per
l’ingresso della luce, assoluta austerità di linee e probabile presenza di una cripta, della quale si
sono ormai perdute le tracce.
L’edificio di Razzuolo, notevolmente alterato nel corso dei secoli e pressoché totalmente privato
della parte absidale, è riferibile cronologicamente tra la fine dell’XI e gli inizi del XII secolo.
La semplice badia di Santa Maria a Bovino, edificata con i caratteri di una chiesa suffraganea
(anche se in possesso di una piccola cripta), fa parte di un gruppo di chiese monastiche con caratteri
omogenei, abbastanza diffuse nella zona di Firenze in analogia con San Martino a Maiano, Santa
Maria a Gualdo e Santa Maria a Pietrafitta 54.

Per lo più a pianta quadrangolare e quasi privi di aperture, i campanili assumono uno spiccato senso
di solidità e di possanza, di un’impronta quasi di fortificazione. Caratteri diversi sono presenti,
invece, nelle due interessanti torri campanarie a pianta poligonale - di cui abbiamo già parlato -
delle pievi di San Giovanni Maggiore e di San Lorenzo a Borgo, opera di maestranze settentrionali,
rispettivamente della fine dell’XI-inizio XII secolo e del 1263 circa, quest’ultimo quale estrema
realizzazione del romanico mugellano già ampiamente influenzato dalle novità dell’arte gotica.
Le chiese romaniche del bacino della Sieve, rifiutando ogni tipo di decorazione e di
articolazione delle masse murarie, nella loro semplice ed austera linearità,
concentrano dunque tutto l’impegno decorativo nella levigatezza delle pietre, nella
loro regolarità o nei toni di colore dei materiali da costruzione.
Nel Mugello, finché l’architettura e la rara scultora furono strettamente unite ed opera degli stessi
maestri, o di distinti artefici operanti nell’ambito della stessa maestranza, la decorazione scultorea
appare semplificata, ridotta o ritardataria, riproponendo motivi fortemente arcaizzanti, come i nastri
intrecciati.
Ogni interesse è riposto tra le linee rette delle pareti e quelle curve delle lunette, delle arcate e delle
absidi. La scultura, di conseguenza, è impossibilitata a divenire protagonista (assieme
all’architettura), ad assumere formulazioni originali, ad esprimersi in modi compiuti e maturi.
Solo l’intervento di maestranze specializzate nella produzione di suppellettili e capaci di concepire
la decorazione scultorea come svincolata dall’architettura, determinerà l’evoluzione della scultura
stessa verso forme veramente originali ed alte.
Malgrado che la decorazione delle suppellettili appaia più ricca, preziosa, elaborata e virtuosistica
rispetto all’architettura delle chiese che la custodiscono, lo spirito di razionale, geometrica e limpida
fantasia, appare lo stesso (almeno per le prime opere come i pulpiti di San Giovanni Maggiore e
Fagna ed il fonte battesimale di Faltona). Non a caso il Decker parla di nobilissima bellezza a
proposito dell’architettura, con una definizione che può benissimo adattarsi alle varie suppellettili
marmoree delle chiese mugellane55.
La comunanza di spirito di questa architettura con la scultura dei pulpiti, fonti battesimali, recinti
presbiteriali, è dovuta essenzialmente alle loro comuni origini, da ricercarsi nell’arte classica56.

I MATERIALI DA COSTRUZIONE

Il Salmi sostiene che alla varietà dei materiali da costruzione è imputabile l’eterogeneità
dell’architettura romanica in Mugello57; un’indagine più approfondita ha permesso di verificare
come la varietà dei materiali da costruzione influisca direttamente sull’aspetto e sul carattere degli
edifici sacri che questi compongono.
Nel Mugello occidentale, approssimativamente fino a San Piero a Sieve, predomina l’uso
dell’alberese, che viene utilizzato per lo più in piccoli conci allineati in un filaretto piuttosto
regolare. In questa parte del Mugello la sola chiesa di San Niccolò a Migneto è edificata con grandi
e regolari conci di macigno. Spesso la presenza, di piccole inserzioni di serpentino ed altro
materiale permette di giocare sui contrasti chiaroscurali e sulle tonalità di colore della pietra.
Le chiese romaniche della parte più orientale del Mugello presentano una maggiore varietà della
pietra da costruzione: anche se il tipo preferito appare il macigno tagliato in grandi conci ben
levigati, squadrati e composti in altrettanto regolare filaretto (pievi di San Lorenzo a Borgo San
Lorenzo, San Cassiano in Padule, chiesa di Santa Maria a Fabbrica), è possibile rintracciare anche
edifici costruiti con pietra di cava accapezzata (pievi di Santa Maria a Fagna, San Giovanni
Maggiore, chiesa di San Michele a Ronta, ecc.), pietra serena (badia di San Paolo a Razzuolo e
chiesa di Santa Maria a Montefloscoli) e pietraforte, alberese ed arenaria (pieve di Faltona e chiesa
di Latera).
In ogni caso, l’accento cade solo raramente sugli effetti di colore, ma più generalmente
sull’ordinata, semplice, essenziale levigatezza del paramento murario o sulla sua rustica solidità nei
casi in cui appare composto con pietra di cava. In più si esprime l’esigenza di una netta
delimitazione dei contorni, tesa a sottolineare la natura di solido geometrico dell’edificio, che non
possiede più soltanto uno spazio interno, ma anche una fisionomia esterna58.
Nel complesso l’alberese ed il macigno nel Mugello rappresentano i materiali da costruzione
dominanti, mentre risulta completamente assente l’uso del laterizio, ad eccezione degli interventi,
peraltro molto avanzati nel tempo, nelle arcate e nel campanile della pieve di Borgo San Lorenzo,
ormai in pieno XIII secolo. La diffusione dell’uso di questi materiali è spiegabile con la loro facile
reperibilità in loco, condizione indispensabile in epoca medievale per la scelta del materiale da
costruzione59. La diversità dei materiale ha sì, come dice il Salmi, tolto omogeneità e specificità
all’architettura romanica del Mugello, ma non ne ha inficiato l’unità del senso estetico ed artistico,
riscontrabile nella semplice, pura, a volte rude, razionalità di questi edifici.
Un’ultima osservazione relativa alla dibattuta questione circa dell’impiego dell’intonaco
nell’architettura romanica60. Certamente l’immagine che abbiamo delle chiese romaniche è legata
all’uso della pietra in vista e conseguentemente ad un aspetto generalmente grigio e monocromatico
e ciò è, almeno in parte, dovuto al fatto che i numerosi e non sempre accorti restauri realizzati in
passato, erano volti a ridare agli edifici un aspetto corrispondente all’immagine ideale che se ne
aveva (vedi il caso quasi paradigmatico del restauro-ricostruzione della pieve di San Cresci in
Valcava), di un’architettura austera e povera. Se quindi le chiese romaniche potevano essere
intonacate (del resto, per restare in territorio mugellano, la pieve di Borgo San Lorenzo è ancora
oggi parzialmente intonacata all’interno), tuttavia appare poco comprensibile che gli edifici sacri
fossero costruiti con murature accurate e regolari, magari con l’inserto di elementi con funzione
certamente decorativa o simbolica (è il caso, ad esempio, le strisce di serpentino verde visibili nella
pieve di Sant’Agata), destinate poi ad essere nascoste sotto uno strato di intonaco ed negare “il
godimento estetico di tante chiese toscane, il cui maggior pregio sta proprio negli accostamenti
cromatici fra le pietre e nella cura dell’apparecchiatura, destinata a rimanere in vista”61. In altri
casi, specie dove la prevista copertura con l’intonaco consentiva ai costruttori una cura minore
dell’apparato murario (vedi ad esempio la muratura irregolare visibile all’interno della chiesa di San
Niccolò a Migneto), sembra più probabile la presenta della copertura ad intonaco.
NOTE
1
Non è difficile ripercorrere le tappe della fortuna critica dell’architettura romanica in Mugello. Il primo contributo fu
offerto dal Salmi (Salmi M.,“Architettura romanica in Mugello”, in Bollettino d’Arte, VIII, 1914, pp. 115-140) nel
1914: il suo studio ebbe il merito di inaugurare la non lunga serie di lavori sull’argomento e di cercare di instaurare un
metodo rigoroso e non basato sulle eccessive approssimazioni degli storici locali. È lo stesso Salmi a ritornare
brevemente nel 1928 (Salmi M., Architettura Romanica in Toscana, Milano-Roma, 1928) e nel 1958 (Salmi M., Chiese
romaniche della campagna toscana, Milano, 1958), sull’architettura romanica in Mugello, inserendola però nel più
ampio panorama dell’architettura romanica toscana. Da allora, si sono succeduti diversi lavori, tra i quali quello di
Moretti-Stopani (Moretti I.- Stopani R., Architettura romanica religiosa nel contado fiorentino, Firenze, 1974) e
successivamente quello di Italo Moretti (Moretti I., “L’architettura: dalle pievi alle ‘case da signore’” in Le antiche
Leghe di Diacceto, Monteloro e Rignano, Firenze, 1988, pp. 323-362), hanno cercato di definire il percorso ed i
caratteri dell’architettura romanica del bacino della Sieve, inserita nel contesto di quella del contado fiorentino.
Metodologicamente questi studi non si discostano nella sostanza, dall’esempio del Salmi (attenzione al tipo di
paramento murario, ai materiali da costruzione, all’icnografia ecc.), Stopani R., “La storia del Mugello attraverso le
testimonianze architettoniche ed urbanistiche”, in AA.VV., Evoluzione storica del territorio del Mugello: insediamenti,
viabilità, agricoltura, (Ciclo di conferenze, Borgo San Lorenzo 1981), Firenze, s.d., pp. 1-10, E. Mandelli, M. Rossi,
Percorsi religiosi nel Mugello. Pievi e pivieri, Firenze, 1998, raggiungendo risultati apprezzabili. Molti altri contributi,
talvolta di notevole significato, sono stati mirati a singoli edifici (Niccoli R., “La chiesa romanica di San Cresci in
Valcava”, in Atti del II congresso di storia dell’architettura, (Assisi 1937), Roma, 1939, pp. 127-138; Negri D., Chiese
romaniche in Toscana, Pistoia, 1978; Moretti I.- Stopani R., La Toscana (serie Italia Romanica), Milano, 1982, fino al
recente, notevole contributo del Tigler (Tigler G., Toscana romanica, Milano, 2006) . (Per un panorama più completo si
rimanda alla bibliografia generale).
2
Tigler G., op. cit., p. 17.
3
AA.VV. Catalogo della mostra dei monumenti restaurati dal 1944 al 1968, Firenze, 1968, p. 75; Moretti I.-Stopani R.,
op. cit., 1974, p. 30, nota 3; Moretti I.-Stopani R., op. cit., 1982, p. 342.
4
Resti delle chiese altomedievali sono stati rinvenuti anche all’interno delle pievi di San Martino a San Gervasio a
Lobaco, San Pietro a Romena, San Pietro in Bossolo, San Martino a Vado, Santa Maria a Stia (cfr. Moretti I.-Stopani
R., op. cit., 1974, p. 30, nota 3).
5
La Brunori, (Brunori Cianti L., Sant’Agata di Mugello e la sua Pieve, Borgo San Lorenzo, 1997, p. 32), preferisce
datare il piccolo edificio sacro al periodo paleocristiano (secc. IV-V).
6
Altri frammenti di scultura altomedievale, presumibilmente provenienti soprattutto da amboni o plutei, nella zona di
Firenze si trovano nelle pievi di San Leolino in Panzano, San Pietro a Ripoli, San Pietro a Romena, nelle canoniche di
Sant’Agata ad Arfoli, Santa Maria a Sammontana, nella chiesa di Santa Maria a Falgano e nel monastero di San Ellero
(Moretti I.-Stopani R., op. cit., 1974, p. 30).
7
Rodolfo il Glabro, Storie, III.4 (citazione ripresa da I. Moretti, R. Stopani, op. cit., p. 29).
8
Moretti I.-Stopani R., op. cit., 1974, p. 32; I. Moretti, R. Stopani, op. cit., 1982, p. 26; M. Frati, Chiese romaniche
della campagna fiorentina, Empoli, 1997, p. 21.
9
Frati M., op. cit., p. 21.
10
Cfr. nota , p.
11
Bellandi F., Dalla foresta al podere. Storia sociale del bosco dalla preistoria ad oggi in Mugello Alto Mugello e Val
di Sieve, Firenze, 2007, p. 15.
12
Tigler G., op. cit., pp. 11, 20-21.
13
Moretti I.-Stopani R., op. cit, 1974, p. 32.
14
Questo metodo non appare scevro da possibili equivoci e fraintendimenti, come sottolineato anche dallo Stocchi
(Stocchi C., L’Emilia Romagna - serie Italia Romanica - Milano, 1984, p. 19), ma rimane uno dei pochi attendibili per
lo studio di questi edifici. Nell’ambito delle pievi del contado fiorentino opera di maestranze locali, è questo il metodo
adottato da I. Moretti, R. Stopani, op. cit. 1974, p. 64.
15
La predominanza dell’uso nelle chiese della campagna Toscana dello schema basilicale più semplice, privo di
transetto e con tetto a capriate, sulla scia di una tradizione architettonica secondo la quale in tutta Italia si perpetuò la
tradizione paleocristiana, è stato sottolineato anche dal Kubach (Kubach H.E., Architettura romanica, Milano, 1972, pp.
125, 188). Precedentemente, il Salmi (op. cit., 1926, pp. 31-32, nota 6) notava che lo schema paleocristiano adottato da
queste chiese toscane non è quello delle più antiche basiliche romane del IV secolo (San Pietro, Santa Maria Maggiore),
ma quelle del secolo successivo (San Paolo fuori le mura, Santa Sabina), nelle quali, per effetto di influssi orientali,
avvengono alcuni mutamenti: scompare il transetto e le colonne sono collegate non più da architrave ma da archi a tutto
sesto. D’altra parte, lo schema monoabsidato rimane costante, così come l’impiego della copertura a capriate lignee.
Bisogna, però, sottolineare come questo schema icnografico e costruttivo sia stato adottato anche nelle grandi basiliche
ravennati (San Giovanni Evangelista, non più esistente, San Apollinare in Classe e San Apollinare Nuovo), circostanza
che non può far escludere un qualche loro influsso sugli edifici del territorio fiorentino, confinante, come noto, con le
terre dell’Esarcato bizantino di Romagna.
15bis
Moretti I., (op. cit., 2000, p. 26) ipotizza, tuttavia in maniera dubitativa che anche la pieve di San Gavino potesse
avere in origine impianto ad aula conclusa da scarsella.
15ter
L’indagine è stata svolta in M. Rossi, Il confronto del costruito, in Percorsi religiosi nel Mugello. Pievi e pivieri,
Firenze, 1998, p. 167.
15quater
Prati F., Salviamo la Pieve di Misileo, in “Il filo”, a. XXI, n. 11, 2007, p. 15.
15quinquies
Rossi F., Il confronto del costruito (op. cit.), p. 167.
16
Stopani R., L’architettura romanica, (corso per animatori di gruppo e pubbliche relazioni); Il contado fiorentino
(storia, architettura, paesaggio), Firenze, 1972 (testo dattiloscritto), pp. 6-7.
16bis
I. Moretti, R. Stopani, Italia romanica. La Toscana, Milano, 1982, p. 30.
17
A questo metodo si attengono il Salmi (op. cit., 1914) e Moretti I.-Stopani R. (op. cit., 1974).
18
Moretti I.-Stopani R., op. cit., 1974, p. 43; M. Frati, op. cit., 1997, p. 25; S. Rinaldi, A. Favini, A. Naldi, op. cit., p.
62.
19
Salvini R.-Von Borsig T., Toskana, München, 1973, p. 17.
19bis
questa l’opinione espressa anche negli studi più recenti: I. Moretti, R. Stopani, op. cit., 1974, pp. 36, 36 nota 7; I.
Moretti in Il Mugello, la Valdisieve e la Romagna fiorentina (collana I luoghi della fede), Milano-Firenze, 2000, p. 24
(in questa occasione, il Moretti, pur non fornendo riferimenti cronologici precisi, assegna la pieve al periodo
protoromantico). Il Redi (F. Redi, Chiese medievali del pistoiese, Cinisello Balsamo, 1991, pp. 47, 59, 59 nota 11) si
limita a segnalare la derivazione dalle chiese lombardo ravennati del motivo a fornici presente anche nella pieve di san
Leonardo ad Artimino.
20
Ha tuttavia ragione il Tigler (op. cit., pp. 298-299), quando ricorda che tali elementi architettonici, effettivamente di
origine milanese, ebbero una notevole diffusione.
20 bis
Esprime, sia pure dubitativamente questa opinione anche I. Moretti (op. cit., 2000, p. 24).
21
Faenza. Guida alla città, Faenza, 1992, p. 136. Il Pardi (Pardi R., Monumenti medioevali umbri, Perugia, 1975, p.
186), data il campanile faentino intorno al Mille.
22
Il Frati collega la costruzione (o ricostruzione) del campanile alla iscrizione datata 1210 leggibile su una lapide
murata nel basamento della torre campanaria (M. Frati, op. cit., 1997, p. 230).
23
Si tratta di un gruppo di campanili riferibili all’XI secolo tra cui quello del duomo di Amelia, quello dell’abbazia dei
Santi Severo e Martirio a Orvieto e quello dell’abbazia di Montecorona, vicino a Umbertide, la cui origine sembra
collegabile con le torri urbiche romane, come quelle ancora esistenti di Spello (Pardi, op. cit., pp. 186-187).
24
Morozzi G., “Le chiese romaniche del Monte Albano”, in Il Romanico pistoiese nei suoi rapporti con l’arte romanica
dell’Occidente, (Atti del Convegno, Pistoia, 1964), Pistoia, 1966, p. 40. Recentemente il Redi (Redi F., Chiese
medievali del Pistoiese, Pistoia, 1991, pp. 47-59, data la pieve di Artimino all’XI secolo ed avvicina la sua decorazione
absidale a quella della pieve di Fagna. Guido Tigler (op. cit., 2006, p. 299), dubitando dei caratteri ‘lombardi’ della
pieve, ne assegna la costruzione al secondo quarto dell’XI secolo.
25
Moretti-Stopani, op. cit., 1982, pp. 301-304, datano l’abside e la parte più antica della chiesa ai secoli X-XI.
26
Ragghianti C.L., “L’architettura in Italia alla fine del secolo XI”, in Quintavalle A.C., La cattedrale di Modena,
Modena, 1964, p. IV.
27
Stopani R., “La storia del Mugello attraverso le testimonianze architettoniche ed urbanistiche”, in Evoluzione
storica del territorio del Mugello: insediamenti, viabilità, agricoltura, Firenze, 1981, p. 7. È stata osservata la solenne
ed austera classicità di questo tipo di architettura, che richiama da vicino le basiliche paleocristiane romane e ravennati;
vedi: Moretti I.-Stopani R., op. cit., 1974, p. 43; Decker H., L’art roman en Italie, Paris, 1958, p. 21; Moretti I.-Stopani
R., op. cit., 1982, p. 30.
28
questa pieve è stata quasi del tutto demolita dal sisma del giugno 1919. Le tre pievi sono considerate appartenere ad
uno stesso gruppo anche da I. Moretti, op. cit., 2000, pp. 24-25.
29
Moretti I.-Stopani R., op. cit., 1974, p. 176 e nota 6; G. Tigler, op. cit., 2006, p. 299 (sia pure limitatamente ai
territori della Val d’Elsa e della Val di Pesa).
30
Rinaldi S., Favoni A., Naldi A., op. cit., pp. 81-83.
31
Salvini R., Il duomo di Modena e il romanico nel modenese, Modena, 1966, p. 212.
32
Gli studi più recenti tendono a sottovalutare l’apporto delle maestranze lombarde nell’ambito dei cantieri delle pievi
casentinesi e valdarnesi (Angelelli W., Gandolfo, Pomarici F., La scultura delle pievi. Capitelli medievali in Casentino
e Valdarno, Roma, 2003).
33
Moretti I.-Stopani R.,, op. cit., 1974, pp. 86, 95; G. Tigler, op. cit., 2006, p. 304.
34
Moretti I.-Stopani R., op. cit., 1974, pp. 86-95, nota 20. Il Salmi, (op. cit., s.d., p. 7), nota in San Cassiano in Padule la
presenza di una certa “gravità settentrionale”. Un’accurata descrizione dell’aspetto della pieve, prima del terremoto del
1919, si deve al Salmi (op. cit., 1914, pp. 126-131), che nota elementi di derivazione lombarda e rintraccia resti della
chiesa precedente, alla quale risalirebbe la piccola cripta, riedificata nel XII secolo inoltrato. E’ interessante notare
come, sempre secondo il Salmi, la facciata della pieve era dotata sul lato sinistro, di un pannello in marmo bianco e
verde di Prato, secondo l’uso del romanico fiorentino e che richiamava analoghe decorazioni visibili, ad esempio, nella
facciata di San Miniato al Monte o nella pieve poi collegiata di Sant’Andrea a Empoli. Si può pensare che, ad un certo
momento, si sia voluta decorare la facciata della chiesa, ma che questa impresa, di non semplice realizzazione e di non
lieve costo, sia rimasta interrotta.
35
Moretti I.-Stopani R., op. cit., 1974, pp. 43-44.
36
Il Salmi (op. cit., 1914, pp. 134-135, nota 1), che vide la pieve prima dei restauri, la data al XIV secolo.
37
Secondo la tradizione, la torre sarebbe parte di un edificio romano (F. Niccolai, op. cit., 1914, p.
37bis
L’aspetto originario della chiesa di San Cesario fu ricostruito dal Salvini, op. cit., pp. 186-194.
38
Moretti I.-Stopani R., op. cit., 1974, p. 64; Moretti I.-Stopani R., op. cit., 1982, p. 342; Stopani R., op. cit., s.d., p. 14;
Brunori Cianti L., op. cit., 1997, p. 33 (la studiosa segnala che caratteri analoghi nei sostegni sono presenti anche nella
pieve di Santa Maria ad Lamulas, nei pressi di Arcidosso); Tigler G., op. cit., 2006, p. 294. M. Rossi (Il confronto del
costruito, in Mandelli E., Rossi M., Percorsi religiosi nel Mugello. Pievi e pivieri, Firenze, 1998, p. 167), ipotizza che
una soluzione simile fosse presente nella pieve di San Martino a Scopeto, oggi ampiamente rimaneggiata.
38bis
La provenienza emiliana degli autori delle componenti decorative delle due pievi di Sant’Agata e Cornacchiaia fu
ipotizzata da Moretti I.- Stopani R., (op. cit., 1974, p. 64, nota 13). Possibili influssi culturali tra l’area bolognese e
quella fiorentina attraverso la strada che doveva collegare queste pievi sono ventilati anche dal Tigler (op. cit., p. 294),
che in quel notevole studio mi è parso sempre molto prudente nel riconoscere nell’architettura romanica toscana
ascendenze dirette di tipo lombardo-padano.
39
La pieve conserva i resti di un ambone datato 1175.
40
Tigler G., op. cit., 2006, p. 294.
Stopani, op. cit., s.d., pp. 14-16.
41
La pieve di San Gavino, completamente rimaneggiata al suo interno nel XVIII secolo, mostra una facciata a capanna
del tutto simile a quella della chiesa di Sant’Agata ed è edificata con materiali analoghi, mentre differisce nella tribuna,
probabilmente edificata nella seconda metà del XIII secolo.
41bis
La provenienza emiliana degli autori delle componenti decorative a nastri intrecciati delle due pievi di Sant’Agata e
Cornacchiaia fu ipotizzata da I. Moretti, R. Stopani, op. cit., 1974, p. 64, nota 13.
42
Tigler G., op. cit., 2006, pp. 294-295. Nell’edizione del 1994 scrivevo: “Poiché è assai improbabile che la pieve di
Sant’Agata fosse originariamente priva di sostegni e poiché appare accertato che le attuali colonne risalgano ad un
periodo sensibilmente successivo a quello di costruzione del resto dell’edificio, si deve ritenere che essa abbia avuto fin
dall’origine un sistema di sostegno del tetto; un sistema che, se vogliamo attribuirne uno comune alle tre pievi già
ricordate, sarà probabilmente stato analogo a quello attuale, realizzato in epoca gotica. I resti di quei primitivi
sostegni possono forse essere riconosciuti nelle parti inferiori delle due colonne più prossime al presbiterio. In seguito,
probabilmente nel XIII secolo inoltrato, la pieve di Sant’Agata ebbe poi rinnovati i sostegni per un motivo che ci
sfugge, realizzando quelli attuali con il riutilizzo di alcune parti dei precedenti, come nel caso delle basi delle colonne
più vicine al presbiterio” (pp. 51-52).
43
Brunori Cianti L., in Scarperia. storia, arte, artigianato, Firenze, 1990, p. 47.
44
Tigler G., op. cit., 2006, p. 294. Per il complesso di Santo Stefano a Bologna cfr. S. Stocchi, Italia romanica. Emilia
Romagna, Milano, 1984, pp. 301-337. In effetti, per quanto a mia conoscenza, il motivo bicromo della scacchiera (o di
una sua parte) è assente nel repertorio decorativo del cosiddetto ‘romanico fiorentino’, mentre si riscontra proprio
nell’apparato murario del complesso bolognese di Santo Stefano.
45
Purtroppo le precarie condizioni di conservazione dei semicapitelli, oltretutto parzialmente nascosti alla vista dal
pilastro di sostegno aggiunto in epoca successiva, rendono non poco difficoltoso il loro studio.
46
Galletti S., scheda ministeriale OA, n. 0900070528, 1976.
47
Moretti I.-Stopani R, op. cit., 1974, p. 95.
47 bis
le due chiese sono state studiate dal Frati (M. Frati, op. cit., pp. 132-134, 200).
48
sembrano riferirla al XII secolo I. Moretti - R. Stopani, op. cit. 1974, p. 68, nota 14.
49
Moretti I.-Stopani R, Chiese gotiche del contado fiorentino, Firenze, 1969.
50
Moretti I.-Stopani R., op. cit., 1974, p. 155.
51
Spinelli R., Giovan Battista Foggini, Firenze, 2003, pp. 231-242.
52
Sulle vicende storico artistiche del monastero di San Pietro a Luco vedi “Le contesse di Luco”. Il monastero
camaldolese femminile di San Pietro a Luco di Mugello: La storia, la fabbrica, l’arte, Bergamo, 2003.
53
Taddei I., in “Le contesse di Luco”.., op. cit., pp. 104-105; vedi anche: Dezzi Bardeschi M., Il monumento e il suo
doppio, Firenze, 1981.
54
Moretti I.-Stopani R., op. cit., 1974, p. 134.
55
Decker H., op. cit., p. 21.
56
Sull’origine classica dell’architettura toscana vedi: Venturi A., Storia dell’arte italiana (L’arte romanica), v. III,
Milano, 1904, p. 618; Toesca P., Il Medioevo, v. II, Torino, 1927, p. 805. Sull’origine classica della scultura romanica
toscana vedi: Antony E.W., Early Florentine Architecture and Decoration, Cambridge, 1927, passim; Toesca P., op.
cit., p. 805; Salmi M., La scultura romanica in Toscana, Firenze, 1928, p. 50.
57
Salmi M., op. cit., 1914, p. 115.
58
Concetto espresso in: Baracchini C. - Caleca A. - Filieri M.T., “Architettura e scultura medievali nelle diocesi di
Lucca: criteri e metodi”, in Romanico padano, romanico europeo (Atti del Convegno, 1977), Modena-Parma, s.d., pp.
291-292.
59
Moretti I.-Stopani R., op. cit., 1974, p. 157; Sanpaolesi P., “Alcuni edifici romanici in cotto in Toscana”, in Atti del II
Convegno nazionale di storia dell’architettura (Assisi, 1937), Roma, 1939, p. 128.
60
Sulla questione cfr. A. Peroni, Le cattedrali del Medievo erano bianche?, in “In ricordo di Cesare Angelini. Studi di
letteratura e filologia”, Milano, 1979, pp. 9-22; A. Peroni, Osservazioni sul rivestimento nell’architettura del Medioevo:
paramento, intonaco, affresco e ceramica, in “Atti del XII convegno internazionale della ceramica”, Albisola, 1979, pp.
7-19; Marrucchi G., Chiese medievali della Maremma grossetana, Empoli, 1998, p. 66. Interessanti anche le
osservazioni del Tigler (G. Tigler, op. cit., pp. 22-23), che sembra proporre, in merito, una posizione di equilibrio.
61
Tigler G., op. cit., p. 23.

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