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No Reply

Milano

Collana Velvet

Progetto grafico
Blacks

Foto di copertina
e nel libro: No Reply/Archivio Fiorucci

Impaginazione
SAL

Prima edizione Settembre 2015


ISBN

stampato presso
Fotolito Graphicolor snc
Città di Castello (PG)
per No Reply srl

www.noreply.it

Copyright 2015 Luca Pollini


49
:

RIBELLI
IN DISCOTECA
QUANDO LA DISCOMUSIC CAMBIÒ IL MONDO

DI
LUCA POLLINI

CONTRIBUTI DI
ALAN SORRENTI
CLAUDIO CECCHETTO
LA BIONDA
GAZEBO
CHRISTINA MOSER (KRISMA)
RIGHEIRA
SIMONA ZANINI (MARTINELLI)
ROBERTO TURATTI

5
Ai miei amici,
ai quali devo molto

Grazie di cuore a tutti.


«La discoteca è il luogo nel quale
si rende trasparente il
desiderio di fuggire da se stessi,
e coprire il proprio
vuoto individuale
mediante esperienze
di alienazione collettiva».
don Giannino Piana,
teologo moralista

«Abbiamo negozi pieni


di musica cilena, Inti Illimani
e roba del genere.
Ora non sappiamo cosa farcene».
Commesso delle Messaggerie
Musicali di Milano, 1978
10 9
Indice :

INTRODUZIONE
15 UN MELTING POP FUORI CONTROLLO

IA PARTE
IN AMERICA
21 IL CALDO WEEKEND ALLO STONEWALL INN
29 LA MELA È MARCIA
35 DISCO SAVE THE CITY
45 ARRIVA IL “FOUR-ON-THE-FLOOR”
61 RIVOLUZIONE TRA LUSTRINI E PAILLETTES
77 PERCHÉ LA PISTA È DEMOCRATICA
87 SCOPPIA LA FEBBRE E CONTAGIA ANCHE IL ROCK
101 STUDIO 54, LA GOMORRA DI NEW YORK
111 LA DISCO SI TINGE DI BIANCO E COMINCIA IL DECLINO

IIA PARTE
ARRIVA L’ITALO DISCO
123 BALLARE È DI DESTRA O DI SINISTRA?
133 ITALIANS DO IT BETTER

IIIA PARTE
IO C’ERO
145 ALAN SORRENTI INCROCIANDO IL SOLE
149 CLAUDIO CECCHETTO CACCIATORI DEL NUOVO
152 CARMELO LA BIONDA SIAMO DEI TARANTELLARI
156 GAZEBO CI SENTIVAMO UNDERGROUND.
FORSE LO ERAVAMO DAVVERO
159 CHRISTINA MOSER IO COME LA CALLAS

: 11
163 JOHNSON RIGHEIRA UN COLPO DI GENIO MADE IN ITALY
167 SIMONA ZANINI LA RIVINCITA DELLE CENERENTOLE
170 ROBERTO TURATTI SOTTO I CESSI, I SUCCESSI

IVA PARTE
DISCO & STARS
177 PLAYLIST
195 THE BEST DISCO IN TOWN

204 BIBLIOGRAFIA

206 INDICE DEI NOMI


14 9
:

UN MELTIN POP FUORI CONTROLLO

C Cos’è stata l’era della discomusic? Un’epoca di


annebbiamento collettivo o il periodo in cui si è
consumata una segreta e profonda rivoluzione? Se
si scava a fondo nella storia recente degli Stati
Uniti viene alla luce che, oltre al glamour, il
ritmo, le luci, la disco dance, genere musicale
quasi sempre disprezzato, è stata fondamentale
per l’emancipazione di donne, afroamericani,
omosessuali e altre minoranze. La disco è stata un
melting pop sociale, che ha reso possibile a una
massa umana - polimorfa, polirazziale e polises-
suale - di affermare i diritti in uno spazio fuori
portata della Chiesa, dello Stato, della famiglia.
Una massa che appena varcata la soglia della di-
scoteca riesce a sbarazzarsi dei vincoli imposti

: 15
dalle istituzioni: un luogo democratico, dove pro-
tagoniste sono le persone che ballano e, non la
rockstar.
Le serate in discoteca hanno messo in pratica
quello che il movimento hippie predicava a metà
degli anni Sessanta per un mondo migliore: dalle
Comuni di San Francisco si trasferiscono nei club
e nelle discoteche di New York comunione (nella
pista da ballo) e trasversalità (del pubblico).
All’interno dei locali è un po’ come essere a
Woodstock: tutte le razze, le religioni, le sessuali-
tà, i ceti sociali si riuniscono alla notte in una
sorta di messa pagana. Si può tranquillamente af-
fermare, quindi, che sulla pista da ballo si è fatta
“politica”: è lì, infatti che si è parlato di libertà, di
individualismo, di anticonformismo.
Una politica di sinistra? Probabilmente sì.
La discomusic riesce a diffondere messaggi socia-
li conquistando in pochi anni i mercati musicali di
tutto il mondo senza l’ausilio - soprattutto nei primi
tempi - di alcuna promozione su giornali, radio e tv,
ma solo esclusivamente grazie al lavoro di abili pro-
duttori, interpretazioni magistrali di artisti e geniali
intuizioni dei dj. E il messaggio di liberazione e di
emancipazione comincia a diffondersi con il succes-
so e le vendite dei dischi

16 9
La discomusic - e tutto ciò che le gravita attorno -
arriva in Europa proprio mentre negli Stati Uniti il
fenomeno sta scemando. Gli intellettuali italiani la
definiscono subito «multinazionale del rimbecilli-
mento di massa» senza riuscire a scorgere la doppia
vita che scorre sotto la pista da ballo: il proletario, di
giorno operaio, di notte ballerino (come il personag-
gio di Toni Manero ne La febbre del sabato sera). Le
discoteche italiane sono affollate da una generazione
che non ne può più della violenza, delle bombe, delle
sprangate, delle cariche e delle manifestazioni. Ma
anche dei cantautori impegnati, dei profughi cileni,
delle canzoni di lotta. Un’inversione di rotta decisa
verso il disimpegno e la voglia di spensieratezza, do-
vuta al troppo impegno del decennio precedente,
che le stesse organizzazioni extraparlamentari di si-
nistra - pochi anni prima monopoliste delle ideolo-
gie e del tempo libero dei giovani - non sanno com-
prendere. Finisce l’utopia che si poteva costruire un
mondo migliore e si fugge dalla politica.
Abbandonati circoli, case occupate, sezioni di
partito, bar, dopolavori, le discoteche si rivelano il
nuovo ritrovo del giovane proletariato e rappresen-
tano il segnale dell’inizio degli Ottanta, un decennio
da molti definito “inutile” ma che rovescia la vita di
tutti. Sono gli anni di “plastica”, dell’edonismo popo-

: 17
lare, del contagio affettivo e della Milano da Bere,
ma soprattutto gli anni dov’è cominciata l’avverar-
si della profezia di Andy Wahrol: «Nel futuro
ognuno sarà famoso per 15 minuti». Sulle piste da
ballo abbiamo visto solo l’inizio. Il presente è an-
cora faticoso, ma alla sera in discoteca si è con-
vinti che domani non può che essere migliore.
Perché il lavoro c’era e i soldi pure.
L’unica colpa che si può imputare ai ragazzi
degli anni Ottanta è quella di aver pensato che il
peggio era passato. Superficiali? No, forse poco
lungimiranti.

Luca Pollini

18 9
Ia PARTE

IN AMERICA

: 19
Esibizione di Madonna allo Studio 54 di New York in occasione
della festa per i 15 anni del marchio Fiorucci nel 1983.

20 9
:

IL CALDO WEEKEND ALLO STONEWALL INN

È È la storia che lo dice: da sempre musica e protesta


vanno a braccetto. Da sempre il mondo musicale si trova
in sintonia con gli avvenimenti esterni e si avvicina alla
realtà sociale. E così che la canzone, da prodotto di moda
e di largo consumo diventa, in molti casi, uno dei più alti
canali di espressione di un’intera generazione. È stato così
per la musica jazz e per il blues, o per la musica folk che
negli Stati Uniti ha accompagnato le marce sui diritti ci-
vili negli anni Cinquanta. È successo anche al rock negli
anni Sessanta, che ha visto Woodstock il palcoscenico
principale per la protesta contro la guerra in Vietnam.
Poi è arrivata la disco.
Sono gli anni Settanta, un decennio che la coscienza
sembra aver dimenticato. L’America, che sta vivendo una

: 21
delle crisi petrolifere più dure, è lacerata dal Vietnam e
ancora ferita dalle lotte razziali, ha bisogno di cambiare
passo, di nuovi investimenti e spinte culturali, e anche di
una ventata di ottimismo.
In questo scenario sono inevitabili i mutamenti socia-
li, legati non solo al nuovo ruolo delle minoranze, alla ri-
cerca di una liberazione sessuale e ai mutamenti nell’uso
del tempo libero (non solo sport), ma anche all’evoluzio-
ne della cultura musicale degli afroamericani. E così che,
all’improvviso, nei primi anni Settanta oltre centomila
newyorchesi si trovano incredibilmente attratti a passa-
re il loro sabato sera sotto le luci di una pista da ballo,
muovendosi a ritmi mai sentiti prima. Tanto che a un
certo punto il Rolling Stone, la rivista mensile di musica
considerata da tutti una sorta di bibbia del rock, è co-
stretto a riconoscere questo nuovo sound come genere a
se stante. Fino al 1973 le parole “disco”, “discomusic” o
“discoteca” quasi non esistono: la gente non dice «stase-
ra vado in discoteca» ma «vado alla festa, al club sulla
53esima, al party». La disco - intesa come parola che in-
dica un “movimento” di giovani - nasce nel 1974, quan-
do il New York Magazine scrive la parola a caratteri cubi-
tali in copertina sotto una fotografia della pista del Loft ,
club di New York tra i locali più di tendenza del periodo,
affollata di gente - giovani e maturi, uomini e donne,
bianchi e neri - vestita coloratissima, elegante, casual,

22 9
stravagante mentre balla. È dal quel momento che il ter-
mine “disco” inizia a essere utilizzato sia per identificare
un genere musicale sia per un luogo di divertimento
dove ballare. E non sono pochi quelli tra gli addetti ai la-
vori che restano sorpresi, perché fino a quel giorno “la
musica disco” era semplicemente uno dei tanti modi per
suonare rhythm & blues. Ma a restare sorpresi saranno
politici, sociologi, giornalisti, massmediologi, professori
universitari, studiosi del costume: nessuno di loro, infat-
ti, si sarebbe mai aspettato le battaglie sociali che emer-
gono seguendo il tempo in 4/4.
Un passo indietro. Nel 1969, nonostante le conversa-
zioni e le conquiste dei primi movimenti giovanili, la si-
tuazione per gli omosessuali americani è particolarmen-
te difficile. Le irruzioni della polizia nei locali gay, e i
conseguenti arresti, sono all’ordine del giorno. Per i gay
l’assedio è continuo, l’identità di tutti i presenti al mo-
mento di una retata delle forze dell’ordine “contro il reato
dell’omosessualità” viene pubblicata sui quotidiani locali
e per le forze dell’ordine ogni pretesto è buono per proce-
dere a un arresto per «pubblica indecenza». I poliziotti si
fanno scappare ladri e assassini, mafiosi e riciclatori di
denaro, ma sono molto attivi e attenti sul fronte omoses-
suale, tanto che sono soliti usare l’adescamento, fingendo
loro di essere gay, per spingere le persone ad infrangere la
legge e, quindi, procedere all’arresto. Sempre nel 1969 è

: 23
pubblicato il Manuale diagnostico e statistico redatto
dall’Associazione americana di psichiatria che definisce
l’omosessualità come una malattia mentale. Non esiste
ancora nessun movimento organizzato di diritti per gli
omosessuali, proprio mentre la questione dei diritti civi-
li (per i neri, per le donne, per i poveri, per tutte le mi-
noranze in genere) negli Stati Uniti e in molte altre parti
del mondo ha raggiunto la massima importanza.
Nonostante tutto a New York i locali gay sono comunque
numerosi, soprattutto nel quartiere Greenwich Village,
anche se alla maggior parte di essi hanno revocato la li-
cenza per la vendita degli alcolici proprio a causa delle
frequentazioni omosessuali. Lo Stonewall Inn, in
Cristopher Street, è sicuramente uno dei locali più famo-
si, ed è gestito dalla mafia newyorkese che ha fiutato nella
clientela omosessuale un lauto guadagno, e che spesso ri-
esce a contenere i danni delle retate e a continuare a ven-
dere alcolici con qualche bustarella. È sempre affollato,
soprattutto nei fine settimana, la clientela è varia: ci sono
drag queen, giovani, uomini d’affari, artisti, impiegati,
professionisti. Poco prima di mezzanotte di venerdì 27
giugno 1969 sei agenti irrompono nel locale, rompendo a
colpi di manganello tutto ciò che si poteva rompere e mi-
nacciando gli avventori. Circa duecento clienti sono
identificati e fatti uscire uno a uno mentre tre travestiti
sono fermati (la legge impone infatti che sia illegale in-

24 9
dossare meno di tre capi di vestiario «adatti al proprio ge-
nere»): per la polizia tutto sembra procedere nella
norma, un po’ di botte e qualche arresto. Questa volta,
però, qualcuno reagisce. Non era mai successo prima di
allora. La miccia si accende quando Sylvia Riveira, una
transgender di origini sudamericane, lancia una bottiglia
contro un’agente colpendolo in testa. Attimi di panico,
nessuno se lo aspettava. Però il gesto della Riveira sembra
aver infuso coraggio a tutti. Una coppia di lesbiche – una
di loro sudamericana - oppone resistenza all’arresto mor-
dendo la mano di un agente. A questo punto la folla di
clientela invece di disperdersi per non farsi riconoscere e
identificare si riunisce davanti al locale attacca la polizia
con un fitto lancio di pietre, bottiglie, pezzi di legno; i bi-
doni dell’immondizia e alcune auto vengono dati alle
fiamme e i poliziotti sono costretti a barricarsi – ironia
della sorte – proprio all’interno del locale chiamando rin-
forzi. Il giorno dopo i giornali riportano la notizia, sotto-
lineando che tredici persone sono state arrestate, il loca-
le chiuso per motivi di ordine pubblico, ma anche che tre
agenti vengono ricoverati in ospedale perché feriti. Nelle
serate successive, quelle di sabato e domenica, il neonato
movimento omosessuale si fortifica e s’ingrandisce e or-
ganizza tre manifestazioni sempre davanti allo Stonewall
Inn, dove si registrano altri scontri con le forze dell’ordi-
ne. Per la prima volta gli omosessuali utilizzano il termi-

: 25
ne gay nelle proprie rivendicazioni e non chiedono più
solo di «essere lasciati in pace», ma rivendicano parità di
diritti. Gli scontri, una sorpresa per tutti, dimostrano che
la comunità omosessuale è diventata movimento, deciso
a combattere e a rifiutare il ruolo canonico di vittime.

26 9
: 27
28 9
:

LA MELA È MARCIA

N New York all’inizio degli anni Settanta è sinonimo di


tutto ciò che in America non funziona. Il ritratto perfet-
to è quello tracciato da Martin Scorsese in Taxi Driver;
ma anche nei film Il braccio violento della legge; Il giusti-
ziere della notte oppure Un uomo da marciapiede. La città
è ridotta a un pericoloso livello di degradazione morale e
spirituale, dove la corruzione dilaga e i suoi abitanti sono
alla mercé della malavita, quest’ultima spesso protetta da
un’alleanza tra politica e polizia. Come se non bastasse,
l’inquinamento è alle stelle, il traffico caotico e i servizi
sociali continuano a diminuire. E i giovani che si erano
illusi dietro i sogni del flower power hanno avuto un bru-
sco risveglio: le marce per i diritti civili si sono trasfor-
mate in “disordini razziali”; le proteste antimilitariste in

: 29
“barricate”. Di colpo il popolo di Woodstock è invec-
chiato, s’è trovato spiazzato dalla nuova politica america-
na di stampo identitario e da gruppi in difesa dei soli in-
teressi privati. E anche il rock ha voltato le spalle: invece
delle comuni di San Francisco e dei raduni spirituali,
quelli per la pace e contro il Vietnam, le rockstar comin-
ciano a frequentare sempre più assiduamente manager,
che fanno firmare loro contratti milionari facendole di-
ventare ufficialmente ricche.
Ma per capire quando è cominciato il declino di New
York bisogna tornare al 1965, quando le leggi sulle quote
dei flussi migratori – che di fatto avevano filtrato l’in-
gresso negli Stati Uniti di chiunque arrivasse dall’Europa
– vengono ammorbidite, permettendo l’ingresso di mi-
lioni di immigrati provenienti da ogni dove. La maggio-
ranza di quelli che si fermano a New York sono nullate-
nenti o lavoratori non specializzati, e il loro arrivo coin-
cide con il declino delle industrie manifatturiere che fino
ad allora avevano dato un lavoro certo al ceto proletario.
La città in pochi mesi diventa irriconoscibile, anche per-
ché inizia l’esodo dei residenti dal centro verso i sobbor-
ghi. La “fuga dei bianchi”, sommata alla recessione, porta
a una forte riduzione del gettito fiscale in un momento in
cui l’amministrazione cittadina – per far fronte ai nuovi
bisogni – è costretta ad aumentare le spese. Vengono in-
vece tagliati i servizi e l’amministrazione comunale bloc-

30 9
ca gli investimenti per le infrastrutture; i dipendenti non
vengono pagati e così cominciano gli scioperi. I primi a
incrociare le braccia sono i netturbini, lo fanno d’estate e
– dopo pochi giorni – la città si trasforma in un enorme
immondezzaio dove per l’odore è impossibile cammina-
re, il contagio di malattie è altissimo e – come se non ba-
stasse – le strade sono prese d’assalto da milioni di topi.
A questo si aggiunga che dal 1966 al 1973 il tasso di omi-
cidi aumenta del 173 per cento, le rapine del 129, gli stu-
pri del 112. La polizia è pressoché inesistente. All’interno
del dipartimento non sono rari gli agenti che per poche
centinaia di dollari spacciano eroina, passano informa-
zioni alla mafia, vendono armi. La città versa in uno stato
di abbandono totale, le metropolitane sono terra di con-
quista per rapinatori e criminali, i negozi abbassano le
pesanti saracinesche prima del tramonto, perché al buio
non c’è nessun cliente che si avventura per le strade. Si ha
paura persino salire in ascensore, e la porta di casa ha al-
meno tre serrature.
Ha inizio così una campagna di disinvestimento da parte
dei proprietari degli immobili concentrata nello sforzo di
abbattere il sistema di equo canone per aumentare il cano-
ne d’affitto. Con la “fuga dei bianchi” verso le estreme peri-
ferie, i proprietari – piuttosto che accettare i prezzi calmie-
rati imposti dalle istituzioni a favore degli inquilini a basso
reddito – rifiutano di pagare le tasse e danno fuoco alle loro

: 31
immobili, palazzi e appartamenti, distruggendo interi isola-
ti, quartieri e zone della città. Una delle aree più devastate è
il South Bronx, dalla parte opposta di Manhattan, che è let-
teralmente abbandonata e in pochi mesi diventa il regno di
spacciatori, tossicodipendenti e gang di strada trasforman-
dosi in una sorta di terra di nessuno. Una terra dove di-
ciannovemila giovani formano oltre trecento bande – tra le
più attive i Black Spades, i Savage Skulls, i Roman Kings, i
Javelin e i Seven Crown. Molte di queste, però, decimate a
causa di troppe morti per overdose, incominciano una
sorta di repulisti e attaccano gli spacciatori.
In questo clima di tutti contro tutti, i cittadini hanno
paura: si chiudono in casa, si ritrovano in chiesa o al pala-
sport a seguire una partita di basket, riscoprono i “valori”
patriottici e il nazionalismo, si mettono sull’attenti quando
sale la bandiera a stelle e strisce. New York è una pentola in
ebollizione, pronta a scoppiare da un momento all’altro. E il
momento arriva l’8 maggio 1970, quando un gruppo di
circa 200 lavoratori edili armati di piedi di porco, vanghe e
martelli, si scagliano contro il raduno di un migliaio di stu-
denti riuniti davanti al municipio per protestare contro la
morte – avvenuta pochi giorni prima – di quattro giovani
per mano della Guardia Nazionale durante una manifesta-
zione pacifista alla Ken State University in Ohio. Gridando
slogan come «Fino in fondo con gli Usa!» gli operai - con el-
metti, stivaletti e attrezzi da lavoro - aggrediscono i manife-

32 9
stanti, accompagnati dagli applausi dei dirigenti in giacca e
cravatta, la middle class. È la prima di decine di manifesta-
zioni pro-Nixon, chiamate anche “rivolta degli elmetti”. Il
culmine si raggiunge pochi giorni più tardi, il 20 maggio,
con una marcia a cui partecipano centomila lavoratori. E
non è una manifestazione a favore della guerra, ma piutto-
sto un modo per “unirsi” per fare massa e protestare contro
una città abbandonata: nel 1970 il 30 per cento della mano-
dopera si trova improvvisamente senza lavoro a causa dei
tagli in bilancio, dell’interruzione delle opere pubbliche e
dello stop all’edilizia privata dovuto alla situazione in cui si
trova New York.
A dicembre del 1973 la rivista Time nomina Uomo e
Donna dell’Anno «L’americano medio», proprio quegli
americani di vecchio stampo che non consumano droghe
(hashish o Lsd); amano stare in famiglia e fare il barbecue
con gli amici; non bruciano la cartolina di chiamata alle
armi in Vietnam e attaccano sull’auto un adesivo con
scritto «Rispetta l’America». Sono loro la Working Class,
sono bianchi, immigrati europei o ebrei, dipendenti sta-
tali o impiegati, hanno come unico credo il lavoro e il
Paese e non sopportano gli hippie, i freakettoni e tutti
quelli che manifestano, scioperano, protestano. Ed è a
loro che si rivolge il presidente Richard Nixon durante il
messaggio alla nazione di fine anno, o il sindaco John
Lindsay, quando deve chiedere fiducia.

: 33
34 9
:

DISCO SAVE THE CITY

N New York è una città sull’orlo del baratro tra inflazio-


ne vertiginosa, uso sfrenato di cocaina, cittadini che fug-
gono, istituzioni corrotte e malavita che regna indistur-
bata. In passato le rivoluzioni hanno sfruttato proprio
momenti del genere per istigare le masse alla rivolta ar-
mata. A New York, però, invece delle armi entra in gioco
la musica, perché l’incubatrice di una nuova rivoluzione
culturale diventano i locali notturni. Proprio nel mo-
mento in cui si sta per toccare il fondo – della moralità,
ma anche del vivere civile - artisti e musicisti danno vita
a una fioritura di attività creative con l’intento di riap-
propriarsi della città. Sulla scena irrompe il “loft jazz”,
una sorta di movimento creato da musicisti di free jazz
che si riuniscono spontaneamente in loft abbandonati in

: 35
città a suonare, gratuitamente, davanti a un pubblico ete-
rogeneo, fatto non solo di cultori del jazz, ma anche da la-
voratori, disoccupati, studenti, bianchi e neri. I primi loft
“attivi” sono lo Studio We, l’Ali’s Alley e lo Studio Rivbea,
locali ampi e in zone centrali, che un gruppo di una deci-
na di artisti rilevano per pochi dollari (i proprietari sta-
vano per bruciarli per incassare almeno i soldi dell’assi-
curazione), dove si suona questo nuovo sound che gli
stessi musicisti battezzano “estatico”.
Nei locali, dopo che il gruppo ospite termina la sua esi-
bizione, si attacca un giradischi – a volte anche due - e
vengono suonati quasi esclusivamente dischi di gruppi
afroamericani, sconosciuti ai più. La musica è molto rit-
mata e negli arrangiamenti le percussioni la fanno da pa-
drone. È così che “ritmo e insoddisfazione” s’incontrano,
e non si lasceranno per parecchio tempo. Non solo per-
ché ballando si combatte la tristezza e la malinconia, ma
anche perché in quel preciso momento nei loft di New
York ad ascoltare musica “estatica” e ballare a ritmo delle
percussioni africane si uniscono le minoranze, quelli che
sono sempre dovuti restare nascosti, emarginati. I gay, le
lesbiche, i neri, i latinos, gli italoamericani. È qui che s’in-
contrano, nei loft abbandonati, locali poveri e spogli ma
dove tutti possono entrare, perché nessuno è sgradito. E
tutti, infatti, li frequentano, anche per un motivo pretta-
mente economico: entrare in questi locali costa molto

36 9
meno che andare ai concerti e ti diverti molto di più per-
chè quando inizia a suonare il giradischi tutti ballano,
anche chi non lo sa fare, chi non sa andare a tempo, chi
non l’ha mai fatto. Qui nessuno si vergogna, nessuno
deve dimostrare qualcosa. Con il passare della notte la
folla si dimena quasi in uno stato di trance, una danza
senza soste, la musica è incalzante e continua. E la voglia
di rinascere, di far valere i propri diritti, è alta. Quello
della “spensieratezza notturna-momentanea” è un aspet-
to fondamentale per sopravvivere a New York.
A dare un forte contributo al proliferare di questi loft-
club è stata sicuramente anche la vicenda dello Stonewall
al Greenwich Village, dopo la ribellione in tutti gli Stati
Uniti sono cominciate le prime manifestazioni per il mo-
vimento gay. Sia i media, sia l’opinione pubblica si am-
morbidiscono nei confronti degli omosessuali, che pos-
sono così da quel momento in avanti dar sfogo alla loro
mentalità edonistica, che li accompagnerà per tutto il de-
cennio successivo. Ottenuto quindi il diritto di poter bal-
lare tra persone dello stesso sesso in atteggiamento inti-
mo senza doversi più preoccupare dell’intervento della
polizia, il terreno per l’avvento e l’esplosione della disco-
music è pronto. Il Sanctuary, aperto nel 1970, è certa-
mente tra i locali più frequentati: alla consolle si alterna-
no i deejay Francis Grasso, Steve D’Acquisto e Michael
Cappello, tre giovani italo americano, dichiaratamente

: 37
gay. In pochi mesi aprono i battenti anche l’Ice Town, in
pieno centro a Manhattan e altri locali concentrati nella
zona di Fire Island, spiaggia già da tempo frequentata dai
gay e immortalata nella canzone di Paul Jabara dal titolo
Pleasure Island.
A sdoganare il nuovo genere musicale nei Club è cer-
tamente la comunità gay newyorchese. Finiti gli anni bui
delle lotte e delle contestazioni giovanili, anche in una
metropoli così malmessa e degradata come New York sta
iniziando un nuovo periodo all’insegna della voglia di di-
vertirsi in maniera spensierata, di sentirsi sempre giova-
ni, di fare sesso liberamente e di sperimentare nuove dro-
ghe. All’inizio il fenomeno non è di grande portata, ma
piuttosto di nicchia, quindi dalla gente comune è tollera-
to o, tutt’al più, guardato con un certo distacco. I proble-
mi cominciano a nascere quando anche le donne, gli ete-
rosessuali e i bianchi iniziano a frequentare questi locali.
Questo nuovo tipo di club e di musica, infatti, ci mette
ben poco a far tendenza e a uscire dal proprio ambito
gay-oriented. I locali etero, col terrore di perdere pubbli-
co, iniziano ad aprire le loro porte agli omosessuali, alcu-
ni club sono disposti a pagare pur di avere un paio di
drag queen scatenarsi sulle loro piste da ballo. Ma sono
ancora i locali per gay a dettar legge e a indicare qual è la
tendenza del momento. Fuori dagli ingressi cominciano
a ritrovarsi sempre più modelle e attrici in cerca di visibi-

38 9
lità, cosa che ineluttabilmente finisce per attirare l’atten-
zione di uomini eterosessuali, i quali, sotto la copertura
della moda glam, cominciano a travestirsi e atteggiarsi da
gay per potervi accedere senza troppi problemi. Dopo i
primi contrasti, si arriva a un equilibrio tale e a una reci-
proca tolleranza che permette sia ai locali gay, sia a quel-
li etero di prosperare, tanto che a un certo punto non esi-
ste più la distinzione. Ma, oltre al pubblico, a rendere i
club veramente unici e “nuovi” è la musica e il modo in
cui i deejay la propongono.
È solo all’interno di questi nuovi locali che si ha la con-
ferma di come il “fenomeno disco”, e per fenomeno s’in-
tende la musica e tutto quello che ci gravita attorno, abbia
avuto un ruolo di primo piano nel nuovo sviluppo degli
Stati Uniti. L’America, ferita dalle guerre, lacerata dalle
lotte razziali, minacciata dalla guerra fredda, sotto shock
per gli assassinii di uomini politici, mai come in questo
momento ha bisogno d’investimenti e di un clima di otti-
mismo. In questo quadro s’inseriscono i tanti mutamenti
sociali - il ruolo delle minoranze, la liberazione sessuale,
un nuovo modo di concepire la quotidianità, l’uso del
tempo libero – tutti fortemente legati all’evoluzione della
cultura musicale. Arriva una musica che non chiede altro
che “leggerezza dell’essere”, senza implicazioni sociali e
complicazioni intellettuali, il cui unico fine è quello di
istigare il ballo in maniera totale, senza soste, stimolando

: 39
– là dove è possibile – la componente sessuale. E per sti-
molarla a dovere, oltre a una musica martellante e ritma-
ta, c’è bisogno di una voce sensuale.
È il 1973 quando Barry White, cantante con una voce
baritonale bollente e sensuale, in grado di emozionare
chiunque quando sussurra parole come sesso e amore,
nonché compositore, arrangiatore e direttore d’orchestra,
dopo aver frequentato etichette indipendenti, pubblica il
suo primo album. Il disco contiene il brano I’m Gonna
Love You Just a Little More Baby, che è uno dei primissi-
mi successi nei “loft” newyorkesi. Qualcuno lo battezza
“sophistisoul”, non potendo immaginare che White sarà
uno degli artefici dell’estetica sonora della primitiva mu-
sica disco. Intanto i “loft jazz” si vanno lentamente tra-
sformando in veri e propri locali notturni. Tra i più affol-
lati e di tendenza c’è il Loft (non poteva che chiamarsi
così) aperto da David Mancuso il giorno di San
Valentino, nel quartiere di Chelsea, all’angolo tra
Broadway e Bleecker Street. Il dj italoamericano trasfor-
ma il locale dove in realtà vive in un clubbing, investen-
do una gran quantità di denaro in un potentissimo sound
system, acquistando dischi d’importazione e organizzan-
do la sparizione dello scarno arredamento (armadio,
letto, cucina) dietro un gigantesco paravento coloratissi-
mo. In poco tempo in città si sparge la voce del fantasti-
co impianto del Loft e, soprattutto, della musica che, gra-

40 9
zie all’abilità di Mancuso con i piatti, non s’interrompe
mai. Ogni sabato sera, e per soli 3 dollari, si organizza
una festa. Benché frequentato prevalentemente da gay, al
Loft tutti ci vanno soprattutto per ballare, non per cerca-
re compagnie occasionali. Quello di Mancuso diventa
così il locale più liberale dal punto di vista dell’integra-
zione sociale e in pista c’è sempre una folta presenza di
pubblico femminile e eterosessuale. Mancuso diventa su-
bito influente: piace la sua musica, piacciono le sue se-
quenze e piace soprattutto l’ambiente e l’atmosfera del
suo locale che, in un certo senso, è quello che i movi-
menti giovanili di protesta degli anni Sessanta cercavano,
cioè il piacere di stare insieme senza discriminazioni,
ascoltando musica.
La discomusic esiste e comincia ad avere estimatori,
anche se c’è qualcuno che non vuole accorgersene: è
Billboard, il settimanale di musica più diffuso e autorevo-
le di tutti gli Stati Uniti. E se un disco, un genere musica-
le, un artista non è citato da Billboard - dove la sua clas-
sifica detta legge - significa che non esiste, anche se il Loft
e i suoi clienti dimostrano il contrario. Il locale di
Mancuso pensano subito anche quelli che saranno gli im-
mediati benefici sociali della disco revolution: ambiente
moderno, clientela sessualmente mista, interraziale, in-
formale e trasversale. Dopo il Loft, a SoHo apre il The
Gallery. A gestirlo è Nicky Siano, ex dj - appena sedicen-

: 41
ne - proprio del Loft. Il locale se l’è costruito su misura
perché lui, insieme alla musica, vuole controllare l’atmo-
sfera e così dalla sua consolle oltre al suono gestisce
anche tutte le luci della stanza (da quelle sulla pista da
ballo a quelle del bar e dei tavolini), l’aria condizionata,
gli effetti speciali. Insomma, può fare quello che vuole e
rendere tutto molto psichedelico. Anche la pista del
Gallery è frequentati da tutti, professionisti e operai, stu-
denti e manager, insegnanti e sportivi, modelli e com-
messi.
Loft, Gallery e gli altri locali aperti pochi mesi dopo
sulle cenere dei vecchi “loft jazz” come l’Arthur, Le Club,
The Saint, Paradise Garage o il Cheetah, si possono defi-
nire le prime discoteche moderne, luoghi cioè dove è
possibile ballare. Il nome “discoteca”, però ha radici ben
più antiche e ben lontane dall’America. Negli anni Trenta
in Germania, ad Amburgo, un gruppo di ragazzi amanti
del jazz, di ceto sociale medio-alto, si fanno chiamare
Swing Kids. Poiché il jazz è nato dagli afroamericani, e
gran parte delle etichette discografiche dell’epoca sono di
proprietà di imprenditori ebrei, per i nazisti è una be-
stemmia ascoltare o suonare quella musica. E così, nel
1941, apre un club chiamato La Discoteque, dove i ragaz-
zi Swing Kids suonano dischi jazz con il semplice scopo
di fare ballare la gente.
Ora a New York i nuovi locali, spesso situati in fabbri-

42 9
che e magazzini abbandonati, stanno recuperando gli
spazi industriali morti, sostituendo la produzione di
merce con quelle delle illusioni; sorte di “fabbriche di
sogni” che combinano la nostalgia e la stravaganza con
atteggiamenti di menefreghismo verso le rigide istituzio-
ni. E tra la gente irrompe una sorta di edonismo misto a
voglia di esibizionismo.

: 43
44 9
:

ARRIVA IL “FOUR-ON-THE-FLOOR”

N Nel 1972 la Buddha Record, piccola etichetta di New


York fondata da Neil Bogart, produce un 45 giri che è de-
stinato a cambiare la storia: Zing Went The Strings Of My
Heart, cover di una canzone portata al successo da Judy
Garland, suonata da un giovane gruppo di colore, i
Trammps di Philadelphia. Ai dj e ai frequentatori dei
Club sono bastati quei 3 minuti per capire che qualcosa
stava cambiando: Earl Young, il batterista del gruppo, usa
un tempo che fino ad allora non si era mai sentito. Il
tempo, che a tutti fa muovere le gambe automaticamente,
è stato subito battezzato “four-on-the-floor”. Da quel
giorno il tempo inventato da Young ha iniziato a cambia-
to il modo non solo di suonare un certo tipo di musica,
ma di viverla. Il “four-on-the-floor” s’impone rapida-

: 45
mente: tra le prime a cavalcare la novità c’è la Motown di
Detroit - storica etichetta soul – dove tutti i nuovi album
contengono almeno un paio di brani con il 4/4 o “cassa in
4”. Tutto questo accade mentre Young, ignaro della sua ri-
voluzione, è sempre costretto a fare il turnista in sala d’in-
cisione per gli artisti “top” della Philadelphia
International, casa discografica fondata nel 1971 e guida-
ta da Kenny Gamble - ex cantante - e Leon Huff - ex pia-
nista - che grazie alle loro produzioni avevano inventato
un sound inconfondibile, il Philly Sound, cugino del
funk più soft, che usa molto gli archi con basso e ha la
batteria sempre bene in evidenza. E’ successo tutto l’anno
prima quando Young e Stanley Wade, il bassista dei
Trammps, sono chiamati in sala per registrare il nuovo
album di Harold Melvin, uno dei nomi di punta della
Philadelphia. Durante una sessione di registrazione del
brano The Love In Lost, Young si lascia andare e, senza
leggere lo spartito, comincia a battere sulla cassa il tempo
in 4, e Wade gli va dietro. Il ritmo trascinante e la varietà
di accenti e soluzioni percussive finiscono per esaltare
l’intero brano che termina dopo la bellezza di 6 minuti e
24 secondi. Un’eternità per allora. Black & Blue, l’album
di Harold Melvin, è presentato alla convention estiva
della CBS – distributore della Philadelphia International
- e The Love In Lost , a detta di tutti i presenti , è il brano
- soul? funk? Nessuno sa ancora definire il genere - più

46 9
esaltante mai registrato negli ultimi 10 anni. È pubblica-
to su 45 giri in versione ridotta di 3 minuti e 35 secondi
ma i dj richiedono immediatamente una stampa della
long version e sono subito accontentati: quella cassa bat-
tente e che accompagna come un metronomo i diversi
ritmi dei piatti riempivano la pista in un attimo e co-
stringe a ballare chiunque.
L’era della discomusic è ufficialmente iniziata dal mo-
mento in cui è stato usato il “four-on-the-floor”, e Earl
Young viene riconosciuto come il responsabile dell’esteti-
ca ritmica.

La grande battaglia contro il rock


Locali, deejay, musicisti, discografici: c’è chi crede che
a coordinare tutti questi protagonisti ci sia stata una
mente rivoluzionaria, che abbia avuto un disegno preciso
prima di creare il nuovo “movimento”, un gruppo che
aveva come scopo l’affermazione dei diritti, l’emancipa-
zione delle minoranze. Per la cronaca, ancora oggi, nes-
suno è riuscito a individuare le eventuali “menti”.
Se si prova a pensare a cos’era il mondo prima dell’av-
vento della discomusic raffrontandolo alla libertà di cui
godiamo oggi – che ovviamente diamo per scontata -
viene subito da immaginare quali e quante battaglie e
scontri sono stati fatti per conquistare queste aperture
verso i nuovi costumi. Va ricordato che i primi anni

: 47
Settanta sono un periodo di crisi economica, post indu-
strializzazione, di guerra; dove sono attivi i movimenti
femministi, l’affermazione dei diritti e si ha la sensazione
che tutti stiano facendo progressi. Tutti, tranne i figli dei
fiori, rimasti delusi e sconvolti per com’è finito il loro mo-
vimento, sconfitto a colpi di spranghe, arresti, morti al
fronte e di abuso di Lsd.
New York sta tornando a vivere grazie alle discoteche,
locali ormai accettati dall’opinione pubblica e non più
considerati frequentati esclusivamente da una cultura
sub-urbana fino ad allora trascurata, cioè omosessuali,
neri, italoamericani, ispanici e donne di colore amiche
dei gay. Il fascino della discoteca si diffonde rapidamente
e conquista immediatamente la gente invischiata nella
rete di disperazione e solitudine della Grande Mela, tanto
che si calcola che – a metà degli anni Settanta - siano
oltre centomila i newyorkesi che scacciano la malinconia
su una pista da ballo ogni sabato sera. Il concetto di dis-
comusic è quindi passato, e viene accolto e accettato non
solo anche dalla maggioranza della clientela e dei consu-
matori di musica; perchè lo stesso Rolling Stone -
Billboard si mostra ancora diffidente - sottolinea il fatto
che sarebbe ormai da considerare un genere a se stante, e
ben distinto dal soul e dal r’n’b.
Ma per far sì che la disco iniziasse a fare presa sulla
gente è stato necessario “licenziare” dagli stessi locali not-

48 9
turni il rock, musica che in quel preciso momento non ha
niente in comune con la voglia di rinascita e di emanci-
pazione che cova al loro interno. Per prima cosa, i gesto-
ri smantellano i piccoli palcoscenici dove si esibiscono le
band rock, togliendo le sedie per ricavare, o allargare, le
piste da ballo.
E mentre il verbo della disco si diffonde, il ruolo del dj
– ormai una vera figura professionale del divertimento
notturno - acquista importanza: riescono con il solo au-
silio della musica e delle luci a manipolare la folla, esal-
tarla, tranquillizzarla ed esaltarla ancora. Ma non basta:
iniziano a imporre mode, possono trasformare un can-
tante da sconosciuto a star internazionale. Da loro, in-
somma, dipendono le fortune non solo del locale, ma
dell’industria discografica. Ed è grazie a loro se la disco
esce dall’ombra e arriva al grande pubblico. E in un mo-
mento in cui il mercato discografico in crisi, dove le
rockstar sono strafatte di droga e dove è in atto una sorta
di crisi creativa, può essere solo manna dal cielo.

Gloria Gaynor apre la strada


È il 1974 quando Never Can Say Goodbye di Gloria
Gaynor entra in classifica, e ci riesce solo grazie all’esclu-
siva programmazione dei locali. Essendo considerati an-
cora di nicchia, infatti, i brani disco non vengono spinti
dalle case discografiche. Così la Gaynor entra in classifi-

: 49
ca senza aver goduto di pubblicità sui giornali e riviste
del settore, senza una riga di recensione, senza essere mai
stata ospite in tv e senza che il brano venga trasmesso in
radio una volta, anche perché le emittenti FM trasmetto-
no quasi esclusivamente musica rock, con qualche con-
cessione al country e al folk. Della cosa si accorge final-
mente anche Billboard, tanto che nell’editoriale il diretto-
re scrive: «Qualcuno deve spiegare come può un disco
vendere 20 mila copie in una settimana nella sola città di
New York senza che nessuna radio lo passi?». Così, ob-
torto collo, le radio si trovano obbligate a suonarla, ini-
ziando a smantellare la fortezza per proteggere il rock co-
struita da radio, stampa e discografici.
Un rock che alla fine degli anni Sessanta suggella il suo
ciclo con una serie di avvenimenti negativi: dallo sciogli-
mento dei Beatles alle morti di Janis Joplin, Jimi Hendrix
e Jim Morrisson, ai primi incidenti nei raduni rock. Ma a
dargli una spallata è soprattutto la consapevolezza che il
tempo della grande illusione, cioè di quella voglia di
cambiare il mondo con le canzoni intervallate da slogan
come “peace & love”, è finito. Ed è finito male. E dalle sue
ceneri ha cominciato a prendere spazio – e consensi – la
discomusic che, come scrive Francesco Cataldo Verrina
nel libro Disco Music «a differenza del rock, non si mani-
festa come una conventio ad excludendum, ma riesce a
raccogliere al suo interno diverse entità sociali, culturali

50 9
e sonore. È così che la disco riesce a dare voce agli esclu-
si dal “rock bianco”, a quelli che non hanno o non sono ri-
usciti a intraprendere l’american way of life, che da sem-
pre preferisce l’uomo Wasp ed eterosessuale».
Il successo di Never Can Say Goodbye è seguito imme-
diatamente da Soul Makossa di Manu Dibango, artista del
Camerun totalmente sconosciuto in America. Il brano
non è una novità, è stato inciso nel 1972, ma quando i dj
lo suonano la gente scatta come una molla e inizia a bal-
lare entusiasta; e lo richiede in continuazione per tutta la
sera. I giorni dopo i negozi di dischi di New York sono
presi d’assalto da gente che cerca di acquistare il disco, ma
non lo trova perché Soul Makossa è una produzione afri-
cana e non è distribuito da nessuna etichetta statuniten-
se. Poi si sparge la voce che c’è un piccolissimo negozio a
Brooklyn – non ha nemmeno una vetrina sulla strada
perché è in un sotterraneo - che importa album
dall’Africa e dai Caraibi e che ne ha alcune copie. Per
giorni, fuori dalla porta, c’è la coda; e c’è persino chi ne
acquista 2 o 3 copie. E anche in questo caso, poche setti-
mane più tardi, Billboard s’è dovuto piegare all’evidenza:
Soul Makossa entra in classifica. Gloria Gaynor e Manu
Dibango sono riusciti a fare una breccia, da cui passano
anche i BT Express con Do It Till You’re Satisfied e altri il-
lustri sconosciuti per le masse ma conosciuti – e soprat-
tutto ballati – dai frequentatori dei clubbing di New York.

: 51
Va ricordato che all’epoca sul Billboard le classifiche r’n’b
sono pubblicate nelle ultime pagine della rivista. A fian-
co della Hot 100, con i brani in salita e in discesa, c’è
anche una classifica rhythm and blues che si chiama
“Classifica di musica razziale” e riguarda soprattutto
quella afroamericana. È difficile quindi per un artista di
colore competere con la musica pop di allora, anche per-
ché in redazione prima di ascoltare la canzone - e deci-
dere in quale classifica segnalare il brano - guardano il
colore della pelle di chi la canta. Gli artisti neri, quindi,
sono relegati in un sentiero già tracciato. E invece sia la
Gaynor sia Dibango riescono a uscire dal “ghetto” e a
piazzarsi nella classifica “che conta”. Ma c’è un altro aspet-
to che bisogna evidenziare: grazie questi dischi, quelli
suonati nei club e proposti dai dj, si comincia a delineare
la convergenza tra musica black e pop, che solo con gli
album di Michael Jackson diventerà definitiva. Ora, ad
accorgersi dei dj e della loro influenza, sono le case dis-
cografiche, specialmente gli agenti addetti alla promozio-
ne, che cominciano ad allacciare i rapporti.

Dalla spazzatura al top


La svolta avviene nel 1973, dopo una visita di Nicky
Siano a Billy Smith, promoter della Twenty Century Fox,
negli uffici della casa discografica. Mentre Smith gli illu-
stra le novità, ovviamente quasi tutte di musica rock tran-

52 9
ne qualcosa di pop, a Siano cade l’occhio sul pavimento
dove – tra scatole e cartacce – ci sono una cinquantina di
33 giri impolverati. Il dj del Gallery è colpito da una co-
pertina con una foto di tre donne di colore con un’accon-
ciatura afro. Il suo primo pensiero è che è un’immagine
kitch, e che una foto così starebbe bene appesa dietro al
bancone del bar del suo locale. A quel punto, incuriosito,
Siano chiede a Smith qualche informazione di più su
quell’album. «Lo ignoro – risponde senza mentire l’agen-
te della Twenty Century Fox - comunque quelli sono
album che sto buttando via. Li vuoi?». Siano prende solo
quello con le tre ragazze in copertina. È il primo LP delle
Love Unlimited, il gruppo di vocalist prodotto da Barry
White, e la canzone che apre l’album è Love’s Theme.
Siano inizia suonarlo tutte le sere, gli altri dj della città lo
seguono e - poche settimane dopo - è primo nella classi-
fica pop di Billboard. Anche in questo caso il successo è
dovuto esclusivamente alla programmazione nei club,
visto che l’album vende oltre 50 mila copie prima ancora
che la canzone venga trasmessa dalle radio. Era un disco
che stavano buttando via, i dj l’hanno fatto diventare una
hit mondiale: gli album Rhapsody in White e Love’s
Theme vendono tre milioni di copie solo negli Stati Uniti,
facendo decollare definitivamente la carriera di Barry
White. Una carriera lastricata d’oro: tra il 1973 e il 1979
White ha già all’attivo sedici album, otto a suo nome,

: 53
quattro con le Love Unlimited e altri quattro con la Love
Unlimited Orchestra.
Da quel momento in poi Billboard si accorge che non
può più ignorare il fenomeno ed è costretta ad aprire la
porta alla discomusic. E dopo Barry White l’onore della
classifica tocca a Rock The Boat degli Hues Corporation,
Kung Fu Fighting di Carl Douglas, Rock Your Baby di
George McCrea che, prima di passare una sola volta alla
radio, vendono oltre 100 mila copie.
L’onore delle armi alla discomusic è stato riconosciuto
dalla stampa (Rolling Stone e Billboard su tutti), dai dis-
cografici, ma non ancora dalle radio: anche se sta ven-
dendo migliaia di dischi se sta salvando l’industria musi-
cale e del divertimento, se sta diventando un fenomeno
di costume ancora nessuna emittente da spazio alla disco,
nonostante sia ormai acclarato che il motore principale
delle vendite della musica non è più la radio, come è stato
per il rock, ma le discoteche. Infatti, oltre a meriti di
emancipazione sociale, il nuovo genere musicale ha
anche meriti economici: il colorato circo della discomu-
sic da linfa e ossigeno all’industria discografica mondia-
le, che nei primi anni Settanta è sull’orlo del precipizio.
Non si sono mai più venduti tanti dischi quanti se ne
vendono tra il 1974 e il 1980, questo grazie al fatto che la
musica nera, con tutte le sue componenti culturali e mu-
sicali tipiche della cultura afro-americana, si è trasferita a

54 9
“combattere” sotto le insegne della disco, sottolineando
una sorta di stato di grazia e benessere per l’industria dis-
cografica che torna ai fasti della prima metà degli anni
Sessanta.
Fino alla metà dei Settanta la radio è ancora il mezzo
più importante, tanto che è florido un giro di bustarelle ai
dj radiofonici perché suonino certi dischi, e nemmeno
troppo celato. Ora, però, le cose sono cambiate: club e di-
scoteche sono autonomi, suonano pezzi che vogliono, ri-
fiutando buste o spinte; pezzi che improvvisamente sca-
lano le classifiche senza che le radio conoscano nemme-
no il titolo. Tutto a un tratto c’è un altro mercato, su cui i
discografici non hanno alcun controllo, e sono stati co-
stretti a scendere a patti e a stare al gioco; ci si accorge che
radio e case discografiche non sono più fondamentali per
il successo di un brano, ora ci sono dj e club e bisogna
passare da lì. Poco tempo dopo le radio rock di tutti gli
Stati Uniti cominciano ad arrendersi. Ma non solo: la
disco le costringe anche a rivoluzionare i format radiofo-
nici, viene trasmessa meno pubblicità per non interrom-
pere le canzoni che, a differenza del rock, sono molto più
lunghe. La prima radio a rompere il monopolio del rock
è la WABC, che inizia a passare qualche brano disco nel-
l’autunno del 1974. Poi, sulla scia della rapida crescita dei
locali notturni, è la volta della WPIX-FM, stazione di
New York, che a novembre lancia “Disco 102”, program-

: 55
ma che trasmette esclusivamente discomusic in onda
tutti i sabato sera dalle 20 a mezzanotte. E anche il sound
proposto dagli artisti Motown e Philadelphia
International, che fino a quel momento spopolano nelle
classifiche r’n’b, sta segnando il passo, tanto che i produt-
tori corrono ai ripari infittendo le ritmiche e alleggeren-
do i testi.
Visto che il mondo della musica è un business, e più
che l’arte spesso comandano i soldi, alcune grandi eti-
chette discografiche cominciano a pensare a come scari-
care il rock con le sue star ormai strafatte e sempre più vi-
ziate per scendere in pista e ballare insieme a questi nuovi
artisti, tutti di colore, spesso illustri sconosciuti che ini-
ziano però a rimpinguare le casse quasi vuote dell’indu-
stria discografica. Ora per i manager e i produttori sco-
prire se un disco è valido è facile: se la pista è piena quan-
do si suona il pezzo, significa che c’è del buono, che si può
investire sull’artista e sulla promozione; se invece tutti
stanno seduti allora si può tranquillamente buttare, il
pezzo non funzionerà mai ed è inutile sprecare anche un
solo dollaro. E poi non c’è problema di copiare, perché il
tempo con “la cassa in 4” aiuta e fa sembrare i brani un
po’ tutti uguali, quindi si studia come replicare la hit del
momento. Ci si accorge che le copertine dei dischi e l’im-
magine sono diventate fondamentali, poi – in ordine di
importanza - la voce e gli arrangiamenti, quindi il testo.

56 9
Per ultima la musica che è tutta nel tempo della grancas-
sa della batteria, boom, boom, boom, boom – pausa –
boom, boom, boom, boom – pausa; e così via.
Ormai è sufficiente che sulla copertina sia stampata in
bella evidenza la parola «Disco» che l’album vende alme-
no 250 mila copie a scatola chiusa, senza nemmeno che
la gente l’abbia mai ascoltato.

The Hustle annuncia l’assalto ai mercati


Nel 1975, dopo le dimissioni del presidente Nixon a
causa dello scandalo Watergate, l’America è nelle mani di
Gerald Ford; mani che definire “salde” può sembrare
quasi un insulto. Però, va detto che l’aria che si comincia
a respirare negli Stati Uniti è un po’ meno pesante: il con-
flitto in Vietnam è in via di definizione, la conquista dello
Spazio in una fase di stallo; e i soldi risparmiati per que-
ste due voci vengono dirottati sulle riforme dello stato so-
ciale. Il momento difficile degli Stati Uniti sta per finire e
dopo anni di crisi economica le metropoli riprendono a
vivere. New York non sembra più una mela marcia ab-
bandonata da tutti, anzi in città c’è chi ha voglia di rialza-
re la testa e di divertirsi. E nelle discoteche c’è una canzo-
ne – e un ballo – che spopola: è The Hustle di Van McCoy,
una musica che annuncia con qualche mese d’anticipo
l’assalto della disco sui mercati di tutto il mondo, il pezzo
che determina la deflagrazione della “bomba danzerec-

: 57
cia” sul pianeta, che allarga il pubblico dei ballerini. Il
merito è di David Todd, guarda caso un dj, che un gior-
no racconta a Van McCoy di strani balletti e bizzarri mo-
vimenti che fanno i ragazzi dell’Adam’s Apple, un club
frequentato da latini, caraibici e ispano americani aperto
nell’East Side di New York. The Hustle nasce e si sviluppa
nei ghetti della città: a importarla negli States sembra sia
stata proprio la cultura criminale, in particolare quella
dei Savage Skull, una gang famosa nel quartiere East Side
per le sue azioni particolarmente violente. Il ballo riesce
a farsi strada tra i locali latini dei della periferia che
McCoy frequenta apposta per conoscere il fenomeno:
guardando i ballerini prende nota dei movimenti e, ap-
pena giunto a casa, elabora un ritmo che faciliti la se-
quenza di quei passi e battezzando il tutto - canzone e
balletto - The Hustle. In pochissimo tempo scoppia l’
“Hustle-mania”, il ballo da New York si diffonde in tutti
gli Stati Uniti. L’Hustle non è altro che “ballare insieme,
mano nella mano”, una sorta di rock’n’roll lento, cadenza-
to, elegante, caraibico, una miscela di salsa e merengue
che, nel tempo, si è diversificata in decine di forme diver-
se, il Lucky-Hustle, Slow-Hustle, Hustle-Rock Stady
Crew; tutte versioni - compresa quella originale - parec-
chio distanti dalla discomusic. Il brano, che non è certo
da inserire tra i capolavori della musica del Novecento,
riesce comunque ad ampliare il pubblico e i consumatori

58 9
della disco e delle discoteche, trovando estimatori e bal-
lerini anche tra i simpatizzanti repubblicani, gente quan-
to mai lontana dal popolo che anima le notti sulle piste da
ballo. Ma non solo, è anche sostenuto dagli intellettuali
perché rappresenta una sorta di «ritorno ai valori conser-
vatori»: si balla con un partner, ci si deve impegnare,
pensare e comunicare con lui «una sorta di ritorno alle
usanze di un tempo», ignorando non solo la provenienza
ma anche le origini del nome. La parola, che significa
«scuotere», è usata nei bassifondi cubani per indicare
borseggiatori, truffatori e prostitute.

: 59
60 9
:

RIVOLUZIONE TRA LUSTRINI E PAILLETTES

A Alla musica disco va comunque il merito di essere una


sorta di colonna sonora del divertimento omnicomprensi-
vo, capace di includere tutti, regolari, irregolari, diversi e
normali, belli e brutti, ricchi e poveri, neri e visi pallidi, e di
riuscire a raggiungere quell’obiettivo che il rock ha clamo-
rosamente fallito, cioè creare una sorta di fenomeno di co-
stume ecumenico, universalmente riconosciuto e apprezza-
to, senza divisioni di ceto, di razza, di sesso. Un successo al
quale hanno contribuito tutti, non solo cantanti e musicisti,
ma anche dj, case discografiche, personale dei locali e, ov-
viamente, il pubblico.
A metà degli anni Settanta la crescita della vita notturna
è esplosiva: ormai in tutti i locali c’è un buon impianto hi-fi
con almeno un paio di giradischi e, sopra il portone d’ac-
cesso, un’insegna coloratissima con la scritta “Discoteque”.

: 61
Così come in passato è accaduto per il twist e il rock’-
n’roll, anche la discomusic nasce in un ambiente segnato
da una crisi economica e con le cicatrici di una lunga
guerra, questa volta quella del Vietnam; come se la gente
si rifugiasse sempre nel ballo per dimenticare o non voler
ammettere un momento difficile. Si affolla la pista da
ballo per dimenticare la realtà. E nel 1973 a New York,
quando s’inaugura il World Trade Center, salutato come
rinascita della città, si contano almeno 500 locali. Alcuni
sono nuovi, nati sulla scia del successo del Loft e del
Gallery, altri sono semplicemente delle ex sale da ballo
alle quali è stato cambiato un po’ l’arredamento, dipinte le
pareti con colori accesi e modificate le luci. La forte cre-
scita è dovuta anche al fatto che i locali notturni stanno
trasformandosi in attività estremamente redditizie.
Il successo e la popolarità delle discoteche comincia a
far credere i sociologi che forse, in questi bui anni
Settanta, può nascere qualcosa buono, una nuova forma
di intrattenimento trasversale che porta la gente fuori
casa alla sera con il solo scopo di divertirsi, evadere e co-
noscere altra gente. Sembra quasi che la discomusic trag-
ga energia dallo squallore della città, che - una volta en-
trato nel locale - lo trasformi in bellezza.
Passato il boom della “novità Loft”, tra il 1974 e il 1975
Le Jardin, al 110 della 43a West, diventa il club di riferi-
mento: l’ambiente unisce al meglio il fascino da Belle

62 9
Époque dei locali vip e lo sfrenato abbandono che lambi-
sce la trasgressione. L’arredamento è curatissimo e il
sound system d’avanguardia, la clientela una miscela di
gay dediti a ogni tipo di pratica sessuale, di glamour delle
celebrità (Truman Capote, Diana Ross, David Bowie solo
per citarne alcuni) e pin-up e modelle della Factory di
Andy Wahrol che regala al locale un’atmosfera unica. È il
primo club “misto” di New York e la sua combinazione di
gay + moda + etero trendy contribuisce a creare il mito
delle discoteche e a sdoganarle al resto del mondo.
Il messaggio dell’ambiente che gravita intorno alla
disco è molto più forte di quanto si possa immaginare,
tanto che non sono in pochi quelli che sostengono che le
discoteche abbiano avuto una rilevanza sociale, che gra-
zie a loro si sia compiuta una sorta di rivoluzione cultu-
rale. Paillettes, lustrini e movimenti all’apparenza casuali
sarebbero stati alla base di un piano segreto: il vero scopo
della diffusione della discomusic, dietro alla sua masche-
ra di apparente futilità, sarebbe stato l’emancipazione di
massa di gay, lesbiche, neri, donne e - in parte - anche
degli italoamericani, da un mondo dominato dalla ditta-
tura del rock, conservatore e bianco. A cominciare dalla
dj culture: il tipico disk jockey della discoteca di New
York degli anni Settanta è giovane, di origine italiane e
gay. E poi gli artisti: all’inizio le star della musica disco,
uomini o donne, sono tutte di colore. Ma la vera rivolu-

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zione, che per qualcuno è anarchia, la si vive all’interno
dei locali dove si è liberi di fare ciò che si vuole, bere, dro-
garsi, fare sesso con chiunque. Così per uscire dal ghetto
le minoranze si trovano in mondo di edonismo, musica e
lustrini, lontani anni luce dal trasandato e truce virilismo
del rock; un mondo dove tutto è possibile, per prima cosa
il riscatto sociale. E a individuare attraverso la discomu-
sic un viatico verso la libertà sono soprattutto gli omo-
sessuali, in particolare quelli di colore: non essendo loro
permesso di manifestarsi in pubblico, trovano nelle di-
scoteche uno spazio libero e democratico, senza delimi-
tazione di posti, di prima o seconda fila, ma una sorta di
“eden” votato ai piaceri del corpo, dove potersi muovere,
incontrarsi, conoscersi, piacersi, toccarsi fino all’amples-
so finale; grazie anche alla musica che si sta ascoltando e
che infiamma i sensi abbattendo tutti i freni inibitori. A
New York, all’inizio del decennio, essere gay costituisce
un fattore di primaria importanza nell’esperienza disco,
tanto che perfino gli eterosessuali cominciano ad atteg-
giarsi e travestirsi da gay: muscoli, pelli curate, capelli
pettinati: secondo i dettami del look gay del momento. E
poi tutti sono pronti a spogliarsi: in pista fa un caldo tre-
mendo e in un paio d’ore i locali si trasformano in saune.
Nei locali vengono mixati uno dopo l’altro brani come
What Can I Do For You? delle Labelle – una canzone pa-
cifista tardo hippie («La gente vuole cose vere… La gente

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vuole la sincerità/E niente di più/La gente ha bisogno di
felicità come la terra ha bisogno della pioggia/Abbiamo
bisogno di pioggia/abbiamo bisogno della luce/abbiamo
bisogno di amore/È impossibile vivere senza amore» e
ancora: «Abbiamo bisogno di pace/ non di guerra/Io so
che non è troppo tardi per l’amore») con Love Is The
Message dei MFSB («L’amore è il messaggio che vi canto/
il messaggio che vi porto/è il messaggio per una canzo-
ne»), una sorta di mantra dal sapore quasi funky-jazz.
Questi sono i primi e fondamentali messaggi che tra-
smette la pista da ballo a una generazione figlia delle lotte
per i diritti civili, per l’emancipazione delle donne, man-
data al massacro in Vietnam, delusa dal fallimento della
rivoluzione degli hippie. Una generazione che - forse -
non cerca soltanto “piacere ed evasione”, ma anche una
sua strada e una sua cultura senza cadere nell’ingannevo-
le messaggio di chi li ha preceduti. E sono proprio loro,
gli ex giovani degli anni Sessanta, che non riuscendo a
comprendere questo nuovo movimento cercano di sco-
raggiarli: «è tutto inutile – si legge sulle pagine culturali -
perché i movimenti degli anni Sessanta hanno già fatto
tutto». «Piacere ed evasione? A vederli nei locali - scrive
un giornalista di New York dopo un sopralluogo in que-
sti “nuovi” locali - sembrano tutt’altro che felici. Tra di
loro non scambiano una parola ma solo sguardi, aspetta-
no la canzone giusta per ballare e lasciarsi andare e, con

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occhi semichiusi e bocca aperta, assumere stupefacenti».
Nonostante i movimenti giovanili precedenti, soprat-
tutto quelli beat e hippie, avessero indicato nelle droghe e
nel loro incontrollato uso la causa del loro fallimento,
anche nella disco girano parecchie sostanze stupefacenti:
dalle leggere come hashish e marjuana, a quelle più forti
come la cocaina. La circolazione di droga non etichetta il
locale come malfamato, anzi.
La preferita è il nitrito di amile, il “popper”, da assu-
mere direttamente sulla pista da ballo (sniffando o inge-
rendo il liquido) senza smettere di muoversi. Il popper è
diventato una sorta di terzo partner nel sesso occasiona-
le: è venduta in una piccola boccetta di vetro, la sostanza
è estremamente volatile e appena aperta la bottiglietta
evapora in pochi secondi; causa un fortissimo aumento
di pressione e una conseguente vasodilatazione, che
porta a un aumento dell’eccitazione e colpi di calore. In
sostanza favorisce la penetrazione anale (rilassa i musco-
li) e l’erezione (vasodilatatore). Nell’ambiente gira anche
parecchia cocaina, diffusa per lo più tra artisti, modelli,
dj e discografici.
La leggenda narra che all’epoca alla Casablanca (l’eti-
chetta leader nel genere discomusic, quella che ha sotto
contratto Donna Summer, Giorgio Moroder, Alec R.
Costandinos, Village People e altri big) a una certa ora le
segretarie passavano tra gli uffici con un carrello da te

66 9
dove, allineate sopra il cabaret, c’erano strisce di cocaina
e a fianco tutto il necessario per consumarla. E dipen-
denti e artisti se ne servivano liberamente.

La Fist Lady tiene a battesimo l’Eurodisco


Il 31 dicembre 1948 nasce a Boston LaDonna Adrian
Gaines. Famiglia modesta, in mezzo a sei fratelli,
LaDonna ha la passione per il canto e frequenta il coro
della parrocchia del suo quartiere di Mission Hill.
Quando ha circa 10 anni, il parroco le chiede di fare il
pezzo solista durante la messa: al termine il pubblico di
fedeli resta ammutolito e all’applauso fragoroso che segue
si unisce anche il parroco. La piccola capisce che cantare
le piace. Inizia così a studiare e a 19 anni si trasferisce a
New York. Prende parte alle audizioni per il musical
Hair: non ottiene la parte nel cast principale ma le viene
proposto di seguire una seconda produzione dello show
che si sta spostando in Europa, in Germania. La giovane
Donna (il La se l’è già tolto) vola a Monaco, città che le
piace al punto di decidere di rimanerci anche dopo la fine
delle rappresentazioni dello spettacolo. Nel 1973 sposa
l’attore austriaco Helmut Sommer, dal quale ha la prima
figlia, Mimi, lo stesso anno. Il matrimonio si rivela subi-
to un disastro e va a rotoli l’anno dopo. Così Donna, che
per vivere deve continuare a cantare, non potendo man-

: 67
tenere né badare alla piccola Mimi decide di affidarla ai
nonni, a Boston. Un giorno, durante una pausa in sala di
registrazione dove lei è ingaggiata per fare la corista,
s’imbatte in un musicista italiano e in un inglese che ri-
esce a scrivere testi per canzoni in una manciata di mi-
nuti: si chiamano Giorgio Moroder e Pete Bellotte. I due
capiscono subito le enormi potenzialità di Donna, ha una
splendida voce, un fisico eccezionale e il nome perfetto:
Donna Summer. «Sommer - ribatte lei». «No, Summer è
meglio». La collaborazione tra il terzetto inizia nel 1974
con un singolo, Lady Of The Night, pubblicato solo in
Olanda e Germania. Poi una mattina Donna, facendo la
prova microfono, canta, anzi sussurra: «Ohh… Love To
Love You, Baby...». Moroder e Bellotte incrociano gli
sguardi e restano in silenzio. Nel giro di una notte
Moroder scrive la musica, Bellotte completa il testo di
quella che - nelle sue intenzioni - doveva essere la rispo-
sta inglese a Je t’aime... moi non plus. Quando Donna ar-
riva in studio il giorno dopo e le viene proposto di can-
tare quella nuova canzone non ne vuole sapere: è sguaia-
ta, volgare e lei non è il tipo giusto per interpretarla. Si
arriva a un compromesso: si prova a incidere solo un
demo (un disco campione, una “prova”) per le case dis-
cografiche. Così, con le luci spente e girata di spalle per
la vergogna, Donna si immedesima in una donna nuda
su un letto e al microfono geme e sussurra fino a simula-

68 9
re un orgasmo. Come promesso viene inciso solo un sin-
golo di 3 minuti scarsi e stampato in poche decine di
copie che iniziano a girare per le case discografiche. Una
copia arriva sulla scrivania di Neil Bogart, direttore di
una piccola etichetta di Los Angeles, la Casablanca
Records, fondata nel 1973 e già l’anno dopo quasi sull’or-
lo del fallimento. Bogart fa ascoltare la canzone a un
gruppo di suoi amici durante una festa a casa sua e la leg-
genda narra che Love To Love (questo è il primo titolo
scelto per la canzone) sia stato suonato centinaia di volte,
consecutivamente.
Il giorno dopo Bogart telefona a Moroder e gli annun-
cia che il disco lo pubblica, a una condizione però: la can-
zone deve durare almeno 20 minuti. Donna Summer è ri-
luttante, però Moroder riesce ancora a convincerla. Si ab-
bassano nuovamente le luci in studio, il microfono è lon-
tano da sguardi indiscreti e lei è di spalle: così si registra-
no i 16 minuti e 48 secondi di Love To Love You Baby - e
con essi una delle pietre miliari della discografia più
spinta e libertina che ha scalato le hit di tutto il mondo.
La risposta a Jane Birkin di Je t’aime... moi non plus è ar-
rivata con gli interessi. Nonostante il successo Donna
Summer cade in depressione: dopo anni di dura gavetta,
sacrifici, un divorzio e una figlia che non vede quasi mai,
il successo arriva per un pezzo che lei non voleva canta-
re, quello dove - stando al conto di un giornalista della

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Bbc - in sedici minuti simula la bellezza di 23 orgasmi. La
versione lunga esce dai club di New York verso i locali
gay di Miami e inizia a diffondersi in tutto il Paese: è così
che Love To Love You Baby inizia ad avere successo. Ed è
così che la Casablanca si salva dal fallimento e Bogart co-
mincia a credere che con la discomusic si possono gua-
dagnare un sacco di soldi.
Il testo della canzone scritta da Pete Bellotte, non è
certo di quelli “impegnati”, eppure tra il pubblico delle di-
scoteche - e non solo quello - spopola.

Love to Love You Baby

Amo amarti, baby


Quando sei così vicino a me
Non c’è altro posto in cui vorrei essere

Amo amarti, baby


Fammelo ancora e ancora
Mi fai girare la testa

Amo amarti, baby


Appoggia la testa qui vicino a me
Calma la mia mente e liberami, liberami

Amo amarti, baby

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Quando sei così vicino a me
Non c’è altro posto in cui vorrei essere

Amo amarti, baby


Fammelo ancora e ancora
Mi fai girare la testa
Amo amarti, baby

Questo ripetuto per oltre un quarto d’ora.

Passano otto mesi appena, e l’accoppiata Moroder &


Bellotte ha già pronto il seguito. Nonostante le titubanze della
cantante, la Casablanca insiste nel calcare l’immagine da fata-
lona sexy e battere il ferro - dell’amore - finché è caldo. A Love
Trilogy esce nel 1976: è un concept album fatto apposta per
essere suonato in camera da letto. Il lato A è nuovamente oc-
cupato da un’unica traccia di quasi 18 minuti, Try Me, I Know
We Can Make It che, pur infarcito di coretti e incastri d’archi
non ha proprio lo stesso appeal rispetto alla suite del disco
precedente. L’album vende abbastanza bene, ma non produ-
ce nessun singolo di successo. Visto col senno di poi, è un
disco certamente importante ai tempi per aiutare a cementa-
re l’immagine della First Lady Of Love agli occhi del pubbli-
co, ma allo stesso tempo ha la responsabilità di averla fatta
pesare alla sua interprete. Una mattina del 1976, a New York,
Donna Summer apre la finestra della stanza dell’hotel dove

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alloggia, situata all’undicesimo piano. Guarda giù, sta per sal-
tare nel vuoto. Improvvisamente entra la cameriera di servi-
zio che la vede in bilico sul davanzale e, con voce calma, la
convince a scendere e chiudere la finestra. Sono anni inten-
si, dove tutto sembra ritorcersi contro proprio adesso che è
finalmente arrivato il successo. Stress, solitudine, la figlia ab-
bandonata ai nonni e il conflitto artistico che si sta silenzio-
samente portando dentro: la causa è che proprio una sua
canzone - di fatto - a rivelare al mondo il lato più spinto e go-
liardico del movimento disco. Ma l’industria non le dà tre-
gua, così come i fan: e dopo altri sette mesi Four Seasons Of
Love aggiunge un nuovo capitolo della storia della First Lady
of Love.

I primi vagiti dell’eurodisco


Con le produzioni del trio Moroder-Bellotte-Donna
Summer nasce ufficialmente l’eurodisco, cioè la discomusic
prodotta in Europa. «Una musica perfetta per gente che non
ha il senso del ritmo - la definisce il regista e scrittore ameri-
cano Nelson George - con parti vocali senza inflessioni e una
sessualità metallica ideale per l’atmosfera ultratecnologica,
ultrasessuale e zero passionale delle nuove discoteche».
Anche il critico musicale Ricky Vincent, storico della musica
funk, non è tenero, definendo in pratica gli europei che suo-
nano disco «parassiti che scrivono brani che mancano di
struttura e hanno successo solo perché sono orecchiabili e

72 9
spingono un pubblico, privo di alcun senso musicale e ritmo,
ad ammassarsi in gregge all’interno delle discoteche».
Sarà, ma in Europa iniziano a fare sul serio, e le produzio-
ni del vecchio continente cominciano a vendere, e molto,
anche sul mercato americano. È vero, la musica è molto sem-
plice, il messaggio compreso da tutti, però è confezionata con
professionalità, perché ciascuno rispetta le proprie specializ-
zazioni: i musicisti tedeschi preferiscono la batteria e giocano
con la drum machine, i belgi il basso, gli scandinavi cantano,
francesi e italiani producono. I fiati sono quasi sempre sosti-
tuiti con gli archi, perché in Europa la tradizione vuole siamo
più bravi con violini e violoncelli e meno coi sax o tromboni;
tutti scrivono testi in inglese e gli arrangiamenti sono mecca-
nizzati, quasi robotici, lasciando pochissimo spazio alla fan-
tasia. Queste marcate differenze della disco Made in Europe
si notano subito quando nel 1975 esce Fly Robin Fly, singolo
delle Silver Convention: gli archi sono molto marcati, il giro
di basso è rigido, così come la batteria, dove Keith Forsey –
inglese, traferitosi in Germania nei primi anni Settanta inse-
guendo un amore, ex batterista del gruppo progressive
Amon Düll II - scandisce il tempo rigidamente con la cassa
in 4, senza nemmeno una rullata o un controtempo. Dopo
aver inciso per le Silver Convention Forsey - che per l’eurodi-
sco è considerato una sorta di Earl Young - siede dietro alla
batteria in quasi tutti i primi successi prodotti nel vecchio
continente: Roberta Kelly (Love Power, Trouble Maker),

: 73
Claudja Barry (Why Must a Girl Like Me), Boney M (Daddy
Cool), Munich Machine (Get On The Funk Train), i successi
in lingua inglese di Patrick Juvet, e lo chiama anche Giorgio
Moroder per le nuove produzioni di Donna Summer.
Dopo Monaco e l’Italia (di cui parleremo più avanti) l’altro
centro direzionale dell’eurodisco è la Francia. Qui un batteri-
sta di origine italiane, Jean Marc Cerrone, miscela gli ingre-
dienti con furbizia (batteria martellante in primo piano,
brano lunghissimo e copertina sexy, degna quasi di una rivi-
sta porno) e assieme al suo amico Alec R. Costandinos, pro-
duce un album dove la facciata A - seguendo la scia del suc-
cesso delle produzioni di Moroder per Donna Summer - è
interamente occupata da una lunga suite, Love in C Minor,
che da il titolo all’album. Incide per la Malligator, una picco-
la etichetta francese, e l’album all’inizio resta semiclandestino.
A quasi un anno dalla pubblicazione accade un po’ la stessa
cosa successa a Barry White e alla sua Love’s Theme: per un
errore dell’ufficio resi del distributore americano una decina
di copie dell’album, invece di tornare al mittente, arrivano tra
le mani di alcuni dei dj dei locali più in di New York
(Mancuso, Siano, Grasso, D’Acquisto) che, nonostante la pro-
duzione non sia nemmeno lontanamente paragonabile a
quella del maestro White - secondo il giornalista musicale
Peter Shapiro, studioso di discomusic, gli archi sono troppo
invadenti e mielosi, gli interventi del synth dozzinali, i riff ef-
fettati con lo wah wah e gli interventi delle coriste agghiac-

74 9
cianti – se ne innamorano. Il testo è imbarazzante - racconta
di una fantasia erotica dello stesso Cerrone che sogna di ri-
morchiare tre ragazze e soddisfarle in un unico amplesso,
con riferimenti nemmeno tanti celati all’organo maschile -
ma non conta: il sound trascina, la batteria martella e, quan-
do i dj la suonano, la gente invade le piste.
Alla fine del 1977 l’eurodisco si afferma sul mercato, sia in
termini qualitativi sia quantitativi, una presenza con cui la
discografia americana deve fare i conti. Realizzata con un
tempo martellante in quattroquarti, sintetizzatori ultramo-
derni e testi che spaziano tra il fiabesco e la fantascienza,
vende tonnellate di dischi. Billboard, sul numero di fine anno,
scrive: «Sebbene alcuni dirigenti delle principali case disco-
grafiche siano ancora riluttanti a riconoscere l’impatto che le
importazioni stanno avendo sul mercato americano, affer-
mando che questo paese può vantare i migliori creatori di
ritmi che sarà sempre il centro della dance-music, i successi
di gruppi stranieri come Silver Convention, Cerrone, Love &
Kisses, Munich Machine e Giorgio Moroder non possono es-
sere ignorati».
Il colpo di grazia alla disco americana lo piazza proprio lo
stesso Moroder, quando nel 1977 scrive e produce I
Remember Yesterday, quarto LP di Donna Summer, anche
questo una sorta di concept album dove per il momento
viene lasciato da parte lo stile “peccaminoso e sensuale” della
disco per un viaggio attraverso tutte le musiche da ballo. A

: 75
parte il fatto che per la critica è sicuramente uno degli album
più riusciti nella carriera della Summer, Moroder spiazza
tutti quando confeziona quello che secondo lui sarà il futuro
della musica disco: I Feel Love. Una linea di Moog e tre sole
note modulate all’ossessione con una precisione robotica, ca-
paci di generare voglia di movimento, di lasciarsi andare ma
anche di farsi ipnotizzare. Poi la voce di Donna Summer, dai
toni lirici ma rarefatti che si scontra col suono sintetico di
synth e drum machine. L’idea di Moroder è semplice quanto
rivoluzionaria: creare un pezzo disco utilizzando come base
strati sovrapposti ricavati esclusivamente dall’uso di un sinte-
tizzatore. I Feel Love, spopola ovunque, in America, in
Inghilterra, nel resto del mondo, ed è a tutt’oggi forse uno dei
brani più amati dagli ex frequentatori delle discoteche. Le
lodi, i tributi e i rifacimenti realizzati nel corso dei decenni si
sprecano. Una volta estrapolato e velocizzato, il ritmo del
pezzo getta le fondamenta per la musica techno, aiutando a
definire quello che oggi intendiamo comunemente come
Edm (electronic dance music). Nel 2012, a ridosso della
scomparsa di Donna Summer, la canzone è stata ufficial-
mente aggiunta al National Recording Registry.

76 9
:

PERCHÉ LA PISTA È DEMOCRATICA

N Nella musica contemporanea la componente erotica-


sessuale è sempre stata tra gli ingredienti fondamentali,
tanto che in alcuni casi ha addirittura favorito il propa-
garsi, incrementato il successo o compensato le carenze
creative. Rock, pop, disco e sex appeal hanno sempre
avuto un legame intimo. Nei primi anni Settanta discote-
ca è il luogo pubblico dove incontrarsi, scambiare emo-
zioni, intrecciare relazioni; uno spazio fuori dal control-
lo dalla Chiesa, dallo Stato, dalla politica, dai militari,
dalla famiglia. In discoteca si balla fregandosene dei vin-
coli imposti dalle varie istituzioni e dal bon ton, ci si la-
scia andare, liberi di fare quello che si vuole, aiutati ma-
gari da un po’ di droga. La pista da ballo è democratica
perché è il cliente - cioè colui che balla - la vera star. Nelle

: 77
discoteche si cerca di mettere in pratica quello che si era
predicato negli anni Sessanta: un mondo in cui si può fu-
gare la paura della vecchiaia, fatto solo di pulsioni e desi-
deri giovanili, dove consumare sesso senza limiti e pre-
concetti perché la musica disco non favorisce l’amore ro-
mantico e sterilizzato del rock classico o del soul. Il
tempo in 4/4 scatena un’estasi travolgente, una gioia
piena e assoluta di poter trarre piacere da qualcosa, che
partendo dalla testa si estende a tutto il corpo, accenden-
do una sorta di “diritto al piacere” assoluto, e senza limi-
ti. Le martellanti pulsazioni sonore della discomusic,
spesso accompagnate dalla sensualità delle voci e dei ge-
miti delle cantanti, inducono a una maggiore libertà ses-
suale e, quindi, a consumare - con partner occasionali -
sesso facile e veloce, quasi come fosse l’atto conclusivo di
un rito collettivo durato tutta la notte.
Rock e pop invecchiano di colpo, le canzoni poetiche
che raccontano di amori sognanti, passioni e tradimenti,
tormenti e - raramente – qualche trasgressione tutto a un
tratto sembrano scritte il secolo scorso, sono testi am-
muffiti e polverosi: con la discomusic l’amore diventa si-
nonimo esclusivo di sesso, di puro piacere corporeo, di
atto fisico da consumare all’insegna del divertimento più
smodato. Gli anni Settanta, non ancora minacciati a
morte dallo spettro dell’Aids, sono perciò il decennio
della raggiunta libertà sessuale dove tutto sembra facile e

78 9
senza conseguenze: sex & drugs & discomusic. Si pensi a
Love To Love You Baby di Donna Summer, la versione
lunga più di un quarto d’ora: per molte donne è una delle
maggiori espressioni musicali della critica femminista al
sesso, un brano che appena uscito ha fatto invecchiare di
anni pezzi pop e rock, farciti di rime «cuore-amore» o di
sogni onirici e di amore libero stile Figli dei fiori. La dis-
comusic riesce a captare le esigenze delle nuove genera-
zioni, a formulare il messaggio estatico al servizio dello
straripante desiderio di libertà sessuale di dichiarata ap-
partenenza al mondo gay e a riconoscere il diritto al “pia-
cere” fine a se stesso, omo o eterosessuale che sia. Le can-
zoni non si riferiscono mai all’interno di un unico ambi-
to politico-sociale e riescono a far ritrovare l’unità su bat-
taglie comuni o questioni poco dibattute in pubblico,
come ad esempio l’orgasmo femminile. E forse è stato
quest’ultimo tema - molto pruriginoso - che ha fatto in
modo che l’industria discografica si accorgesse di questo
nuovo genere musicale. Per la prima volta autori uomini
– uno su tutti, Barry White - scrivono e cantano canzoni
dove le donne sono protagoniste, con frasi del tipo: «È
quello che vuoi amore» cioè non si parla più di quello che
desidera l’uomo, le parti si sono ribaltate.
Sono molti gli artisti che hanno successo con un uno o
al massimo due singoli e poi scompaiono; la causa è che
spesso vogliono cominciare a scrivere canzoni da soli per

: 79
arrivare ad avere un repertorio abbastanza ricco da poter
intraprendere una tournée, e guadagnare. Alcune, come
Gloria Gaynor, Vicky Sue Robinson e Thelma Houston,
nei primi anni Settanta vanno in tournée praticamente
con una sola hit, e poi cantano canzoni di altre perché
non hanno un loro repertorio da presentare. Ma la disco
diventa anche lo strumento di alcune artiste-donne
afroamericane per sfidare il concetto di rispettabilità, e
non vale solo per le donne di colore. Mai come questa
volta, infatti, la donna si sente al centro dello stato socia-
le, viene considerata non più solo un oggetto che dispen-
sa piacere, ma una persona a cui regalare piacere; la stes-
sa cosa riguarda i gay che finalmente, si sentono liberi di
essere loro stessi, senza doversi nascondere o aver timore
di qualche azione repressiva. Tutte queste conquiste av-
vengono mentre i neri dominano le classifiche di vendita
dei dischi e, di conseguenza, accumulano ricchezza tanto
che i testi delle canzoni cambiano piano piano e diventa-
no un trionfo di ottimismo. È così che - ballando e can-
tando - inizia l’ascesa verso la cima della scala sociale
delle minoranze.
E in un’atmosfera così “calda” è automatico che qualsia-
si brano dotato di una sensibilità trasgressiva - gay o etero,
non fa differenza - diventa un successo. Ma il fatto più cla-
moroso sono artisti come Amanda Lear e Sylvester, i
Village People o le Musique (quelli del ritornello «Push,

80 9
Push in the Bush») che raccolgono i favori anche da un
pubblico etero, per il quale l’erotismo appena velato nelle
movenze del ballo e l’ostentazione della sessualità diventa
un invito irresistibile. Analizzando l’intera produzione
disco emerge chiaramente che il novanta per cento degli
artisti quando non sono gay sono donne, e quasi tutte di
colore. Così nella musica si mette sempre di più in risalto
quella che è la peculiarità principale del genere disco: la
componente femminile o effemminata. Nei testi è un fiori-
re di allusioni sessuali, problematiche sociali, insofferenza
verso il machismo. Abbiamo visto il caso Love To Love You
Baby, ma la produzione di quegli anni regala parecchi
esempi. Hit come I Need a Man di Grace Jones e I Will
Survive, uno dei più grandi successi di Gloria Gaynor, ri-
specchiano la tendenza all’egocentrismo, alla nevrosi, al-
l’insofferenza verso le regole, al desiderio di esibirsi e di
mostrarsi liberi e disinibiti. Oggi i Village People sono
spesso presi ad esempio per essere state una delle band più
sovversive di tutti i tempi. In effetti è il primo gruppo “di
frontiera”, tra gay e eterosessuali, con un’immagine sfaccia-
tamente gay e un seguito cresciuto tra il pubblico delle di-
scoteche etero. Come si è visto questa è l’epoca della risco-
perta “dell’orgasmo femminile” e di conseguenza c’è un’at-
tenzione maggiore verso ciò quello che riguarda il sesso in
tutte le sue forme. Quindi Love To Love You Baby non è sol-
tanto una canzone da ballare ma anche per fare l’amore a

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lungo, un’espressione musicale della critica femminista al
sesso che dura tre minuti. In un certo senso può essere
considerata una canzone politica. Ma i deejay la suonano
spesso anche per un motivo meno nobile: perché hanno 13
minuti per potere andare in bagno, fumarsi una sigaretta,
bere un drink, sniffare e anche fare sesso. Ma veloce, però.

I modelli dell’immaginario gay


Il discografico francese Jacque Morali dopo aver pro-
dotto alcuni successi come i primi lavori della Ritchie
Family, viene al corrente della nuova aria che si respira
oltre oceano e nel 1976 – assieme al suo socio, Henri Belolo
- si trasferisce a New York, al Greenwich Village. I due ini-
ziano a scrivere dei pezzi e li affidano a Victor Willis, un
cantante di colore gay. I brani hanno subito successo nei
club e così Morali e Belolo decidono di costituire un grup-
po spalla che accompagni Willis in alcune serate. Morali,
gay dichiarato, non è timido, non ha vergogna e, soprattut-
to, ha uno spiccato senso dell’umorismo. Vuole scrivere
una canzone per aiutare la comunità gay e che funzioni
nelle piste da ballo, che non sia però la solita cosa noiosa
«in aiuto delle minoranze» che, una volta ascoltata, non
resta in testa a nessuno. Presenta quindi alla Casablanca il
progetto Village People, gruppo formato da sei uomini, che
in pochi mesi diventa uno dei più sovversivi di sempre. Il
loro modo di proporsi è volutamente ed esageratamente ef-

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femminato e gay – vanno in scena vestiti da archetipi del-
l’immaginario gay: il poliziotto, l’operaio, l’indiano, il mo-
tociclista, il soldato e il cow boy - e i loro testi sono infarci-
ti di doppi sensi. L’idea piace e, soprattutto, rende. L’album
d’esordio costato poco meno di 60mila dollari vende più di
un milione di dischi in un paio di mesi. Il disco è essenzia-
le e mirato principalmente al ballo, ritmi martellanti e pop
a presa rapida. I brani hanno chiari riferimenti alla cultura
gay emergente e soprattutto sempre più sicura di se, e sono
abilmente intitolati con i nomi di angoli urbani e di zone
calde della città frequentati dalla comunità omosex
(Folsom Street, Folk Street, Studio One, Ice Palace,
Sandpiper) con avvisi ironici tipo: «Non andare vicino ai
cespugli, qualcosa potrebbe afferrarti».
E un cambiamento sociale fondamentale. Negli anni
prima dell’avvento della discomusic i gay si presentavano
in un modo che potrebbe facilmente essere definito effem-
minato; ora invece è l’epoca dell’uomo macho: e per capire
il significato basta dare un’occhiata alle copertine degli
album dei Village People. Come detto, sono il primo grup-
po trasversale che piace indifferentemente a gay e etero,
con un’immagine smaccatamente gay e un pubblico di esti-
matori di donne e uomini, molti dei quali non credono che
il gruppo sia formato da omosessuali. La Casablanca capi-
sce che i consumatori non vogliono saperlo, o che stanno
fingendo di non saperlo: e così rimane questo “segreto

: 83
aperto”, che rappresenta una reminiscenza del bigottismo
che imperava tra gli anni Cinquanta e Sessanta. E gli etero
preferiscono non conoscere e non volere conoscere la cul-
tura gay, preferiscono restare nell’ignoranza e percepire
solo ciò che essa produce, cioè stili puramente estetici.
Ancora oggi i Village Pepole non credono al loro contri-
buto “rivoluzionario”, cioè di essere stati importanti, per
non dire fondamentali, alla causa dei gay. Sta di fatto che
nell’ambiente sono rimasti come ambasciatori del “macho
gay”, una sorta di ossimoro. Anche se i componenti della
band sono gay più o meno dichiarati, per loro non è mai
esistita una bandiera da far sventolare, vogliono solo che
gli uomini, le donne, i vecchi e i bambini siano semplice-
mente loro stessi. Il brano Macho Man nasce per caso:
Morali lo scrive quando viene a sapere che uno di loro si è
iscritto in palestra per fare pesi e migliorare la muscolatu-
ra (essere magri e muscolosi era di moda) e assiste a una
sua presa in giro generale da parte di tutti gli altri. Stessa
cosa è successa per Ymca, luogo famoso e frequentatissimo
dai gay per rimorchiare giovani ragazzi. E così, rimanendo
fedeli a loro stessi, i Village People diffondono un messag-
gio gay positivo, anche se loro si sono sempre definiti solo
un «gruppo buono solo per fare festa» e non «per fare
battaglie».

84 9
: 85
Madonna allo Studio 54 di New York

86 9
:

SCOPPIA LA FEBBRE E CONTAGIA ANCHE IL ROCK

E E proprio con Donna Summer e i Village People, con i


loro successi a ripetizione, che la Casablanca scopre la ri-
cetta per sfornare hit a getto continuo e diventare miliar-
dari con la musica disco. Il management prima ancora
del musicista o della canzone, va in cerca di un produtto-
re che abbia l’idea. E perché l’idea sia giusta, deve essere
assolutamente originale, pazza e fuori dagli schemi.
Trovata l’idea è il momento di individuare l’artista, sia
esso un gruppo o un singolo cantante, che possa inter-
pretarla e impersonarla. Nel caso non si trovasse subito
l’artista adatto, il brano è registrato con i session e i tur-
nisti di sala di incisione, soltanto dopo si pensa a cercare
qualche fotomodella e scattare un paio di foto in posa
sexy da mettere in copertina. Il margine di guadagno da

: 87
un album di discomusic rispetto ai precedenti di rock e
pop è altissimo: un long playing non costa più di 20 mila
dollari, quando per un album rock se ne arriva a spende-
re dai 100 ai 150. Parte dei soldi risparmiati vanno così
investiti nella promozione, che si traduce nel coccolare i
deejay delle discoteche che pregandoli di suonare il disco
(si arriva anche a mandare Limousine sotto casa che ac-
compagni il disk jockey all’appuntamento con i discogra-
fici o a un party o a un ristorante dove si presenta il disco
da lanciare) e a distribuire gadget nei locali (tovagliolini,
bicchieri, posacenere, manifesti, cannucce, fiammiferi,
poster) con ben impresso il titolo del brano e il nome e la
foto dell’arista (o il fotomodello). Esibizioni dal vivo,
tour, ospitate in radio e tv non sono previsti – anche per-
ché spesso l’artista è inesistente - e il resto dei soldi avan-
zati è guadagno immediato. Fondamentale, quasi quan-
to il contenuto, è la copertina. Siccome è grande - il “for-
mato cd” non esiste ancora - offre la possibilità di creare
abbinamenti tra disegni con colori forti e foto o immagi-
ni sexy, anche perché non sono pochi quelli che compra-
no il disco attratti soltanto dalla copertina, senza avere la
più pallida idea di quale sia la canzone. A tale proposito,
con l’andare del tempo i produttori e i discografici si sono
fatti furbi, facendo quasi a gara a proporre la cover più
provocatoria e sconvolgente. Il clou è raggiunto nel 1977
con la copertina di un discomix dei Love & Kisses, dove

88 9
la T-Shirt indossata da una ragazza è squarciata da più
mani maschili. Alec R. Costandinos, produttore e com-
positore nonché ideatore della cover, è stato subito accu-
sato di maschilismo e di esaltare la violenza sulle donne.
Lui s’è difeso sostenendo che voleva solo un’immagine
forte e molto sexy. E in effetti i titoli dei brani sulle due
facciate - Accidental lover e I’ve Found Love (Now That
I’ve Found You) - nulla hanno a che vedere con un conte-
sto violento.
Così, seguendo queste semplici regole, l’industria della
musica si risolleva di colpo: i dischi si vedono come il
pane, almeno quelli pubblicati delle case discografiche
che per prime hanno puntato sulla disco. La Casablanca,
etichetta che in catalogo ha alcuni tra i maggiori big della
disco, in un anno guadagna più dischi d’oro (premio as-
segnato per vendite di un singolo album di oltre un mi-
lione di copie) e di platino (dieci milioni) che le prime tre
major messe insieme. La discomusic vende ma non lan-
cia personaggi, come accade con il rock e il pop. I mag-
giori problemi - se così si possono definire - arrivano
proprio dal fatto che molti di gruppi, in realtà, non esi-
stono in carne e ossa, sono solo nomi creati a tavolino
negli studi di registrazione mentre i brani sono suonati e
cantati da turnisti. Così, se un brano cantato da un “ghost
singer” diventa una hit, chi l’ha prodotto deve subito
mettersi all’opera trovare nel più breve tempo possibile

: 89
un “figurante” per le ospitate televisive e – in casi ecce-
zionali - per un eventuale tour. A essere ingaggiati nei
ruoli di figuranti sono soprattutto modelli, che oltre che
avere una “bella presenza” sanno posare davanti a una
macchina fotografica, muoversi a tempo e vestirsi, e per
girare un video o esibirsi 3 minuti e mezzo in qualche
programma tv è... più che sufficiente. E poi saper cantare
non sempre è necessario, perché in tv regna il playback.
Tutti vogliono saltare sul carro vincente della disco-
music, col risultato che in un attimo il mercato è invaso
da migliaia di dischi prodotti in serie, molti dei quali, ad
essere onesti, sono davvero brutti. Ma diversi produttori
- soprattutto quelli che lavorano per le major - sono co-
stretti per ragioni di fatturato ad applicare la ricetta della
“hit disco” su artisti già affermati, magari lontani anni
luce dalla discomusic. E a parte alcune inversioni riusci-
te, altre sono risultate davvero imbarazzanti. Tra i gruppi
a cui avvicinarsi al nuovo genere ha sicuramente portato
fortuna ci sono senz’altro i Kool & The Gang, che proba-
bilmente, non avrebbero mai sfondato se fossero rimasti
inchiodati nel loro sound anni Settanta. Brani come
Jungle Boogie avevano uno stile troppo ruvido per essere
suonati in discoteca; così la loro casa discografica, la De
Lite, contatta Eumir Deodato che scrive, arrangia e pro-
duce per loro Ladies Night che – grazie a un suono sicu-
ramente più “gentile” - segna un’inversione del gruppo

90 9
verso la discomusic abbandonando definitivamente il
funk. La ricetta, in questo caso, ha funzionato, e arriva il
successo commerciale.

Alla conquista del rock


Il virus della disco – che non si è ancora trasformato in
“febbre” – si trasmette a una velocità supersonica. La dis-
comusic sembra inarrestabile: dai bassifondi di New York
è arrivata persino alla Casa Bianca. Il 20 gennaio 1977, in
occasione della cerimonia inaugurale per l’incarico del
presidente Jimmy Carter, si suona e si balla musica da di-
scoteca. Si legge sul Billboard di quella settimana:
«Quello che andrà in scena a Washington è il primo spet-
tacolo disco a un’inaugurazione presidenziale, con un
deejay set mobile. Oltre alla musica ci saranno anche due
ballerine travestite da “nocciolina” che si muoveranno a
ritmo del Bicentennial Disco Mix, pubblicato l’anno scor-
so dalla Private Stock Records».
Dopo avere trovato la chiave per l’emancipazione di
massa, la disco raggiunge i piani alti della società e anche
lì riesce a diffondersi a macchia d’olio. Ma non basta: il
tempo in 4/4 arriva a colpire anche il nemico influenzan-
do - o inquinando, in base ai gusti - anche nomi altiso-
nanti del rock.
Prima dell’avvento di Barry White, Donna Summer,
Sister Sledge e compagnia, bisogna ricordare che il rock

: 91
nei locali si è sempre ballato, in pista ci si scatenava con
Rolling Stones, Who, Doors. Ora non più, perché la mu-
sica disco, tanto denigrata, così schematica e ripetitiva,
suonata da illustri sconosciuti e che rispecchia una socie-
tà leggera e votata al consumo, riesce a minare le rockstar.
Vista la tendenza - crollo delle vendite dei dischi, platee
ai concerti semi vuote, artisti a corto di idee e in crisi
creativa - manager, produttori, discografici e le stesse
rockstar corrono ai ripari e, non senza fatica, compongo-
no brani “più orecchiabili”, sacrificando le tanto amate
variazioni soliste, cercando di dare vita a un rock “mor-
bido”, senza soste o interruzioni. Da ballare, insomma. E
verso la fine dei Settanta escono i primi lavori dei grandi
nomi del rock che strizzano l’occhio al pubblico delle di-
scoteche. Tra i primi a mettere a rischio la reputazione di
anni e anni di onorato servizio al rock, i Rolling Stones:
Jagger & Richards, vecchie volpi della discografia, senza
perdere la faccia riescono a confezionare brani come Miss
You e Emotional Rescue, eleganti e non banali, riuscendo
nell’impresa di non venire insultati dai fan. Cosa che in-
vece non è riuscita a Rod Stewart con Do Ya Think I’m
Sexy?, disco per altro vendutissimo ma assai pacchiano.
Blondie, invece, si lascia andare alla cassa in 4 con Heart
of Glass, che in pochi mesi diventa un riempi-pista. Per
Elton John vale lo stesso discorso di Rod Stewart: di Part-
Time Lover (1978) e Victim of love (pubblicato l’anno suc-

92 9
cessivo, scritto da Pete Bellotte) si poteva fare anche a
meno. Anche Paul McCartney s’è sporcato le mani con la
disco: Goodnight Tonight, uscito nel 1979, è stato uno dei
brani più venduti, ballati e trasmessi alla radio di quel-
l’anno, ma molti fan dei Beatles - e anche suoi - si sono
tappati le orecchie per non ascoltare, a detta loro, un tale
scempio. Tra i mostri sacri che “ci hanno provato”, chi per
calcolo chi involontariamente, vanno citati sicuramente i
Pink Floyd con Run Like Hell tratto da The Wall; i Kiss -
che se non altro hanno l’alibi di incidere per la
Casablanca, la stessa etichetta di Donna Summer e
Village People - con I Was Made for Lovin’ You; i Queen
con Another One Bites the Dust e, in modo più smaccato,
con Back Chat; i duri AC/DC di You Shook Me All Night
Long; il gruppo progressive Yes con Owner Of A Lonely
Heart e i Tom Tom Club - costola dei Talking’ Heads –
con Wordy Rappinghood. Escursione nel mondo disco
anche per David Bowie che, giusto per far capire le sue
intenzioni, intitola un intero album Let’s Dance, scritto e
prodotto assieme a Nile Rodgers degli Chic.
Rock, metal, prog, pop: un miscuglio di generi entrano
quindi nel mondo disco, e influenzano non poco sia la pro-
duzione sia il pubblico, tanto che verso la fine degli anni
Ottanta in discoteca si suona di tutto, disco, funk, reggae,
ska, pop e rock, così da fare diventare la pista da ballo il
principale teatro della musica giovanile di consumo.

: 93
Il 1977 è l’anno in cui la disco diventa a tutti gli effetti
“discomania”. Il merito principale è del film La febbre del
sabato sera che, non c’è dubbio, rappresenta la più grande
vittoria della disco sui benpensanti, sull’industria, sui so-
ciologi, sui politici, su tutti quelli che l’avevano denigrata e
disprezzata. Il film, diretto da John Badham, racconta la
storia di Tony Manero (interpretato da John Travolta e in
Italia doppiato da Flavio Bucci), un ragazzo di Brooklyn
intrappolato in una vita senza prospettiva, la cui unica
gioia è andare a ballare in discoteca nel weekend e farsi
passare l’inquietudine e la depressione ballando. Giovane
ma con idee ben precise sui valori della vita che vengono
rivelati chiaramente dai poster dei suoi idoli che ha appe-
so in camera: Bruce Lee, Al Pacino in Serpico, Silvester
Stallone in Rocky, Farrah Fawcett, miti da cui cerca di in-
carnare - nell’ordine - forza, onestà, coraggio e bellezza.
Dato che il suo status sociale non gli permette e non gli
offre grandi prospettive per cambiare vita, Tony cerca il ri-
scatto sulla pista da ballo. Negli anni Settanta gli italiani
che vivono nelle grandi città americane sono ancora con-
siderati cittadini indesiderati, per loro compiere quel salto
che porta dal lato dimenticato della società a quello illu-
minato dalle opportunità e dalla ricchezza diventa un’im-
presa quasi impossibile. Ogni sabato sera Tony oltrepassa
il ponte Giovanni Da Verrazzano, che unisce Brooklyn a
Staten Island e ai quartieri ricchi: lui di quel ponte conosce

94 9
ogni particolare, la storia, le statistiche, e non sa nemmeno
perché la cosa lo appassiona. La simbologia è fin evidente,
comunque tutti i sabato sera lo attraversa per raggiungere
l’Odissey 2001, una discoteca a Manhattan, col capello
nero spazzolato e imbrillantinato, pantaloni a campana
aderenti in giro vita, giacche a lustrini, camicia con collet-
to dalle punte lunghissime, scarpe a punta con suola di
cuoio e tacco alto. Tony balla con studiati e sensuali movi-
menti pelvici, illuminato da palle di specchi, luci strobo-
scopiche e psichedeliche. È un macho elegante, poco
istruito ma - come è ricordato più volte nel film - con dei
valori: onesto, gran lavoratore, usa gli anticoncezionali
(anche se l’Aids è ancora sconosciuta), è sempre pronto a
correre in soccorso agli amici e non beve alcol, al bar della
discoteca ordina gazzosa. Ovviamente s’innamora della
donna sbagliata: Stephanie, ragazza istruita e di alto ceto
sociale, consapevole delle proprie possibilità. Nonostante
le differenze sociali i due si avvicinano e iniziano a prepa-
rarsi per partecipare a una gara di ballo organizzata dalla
discoteca, una delle scene più riuscite del film è il ballo tra
i due sulle note di More Than A Woman dei Bee Gees.
Dentro alla trama c’è tutto: amicizia, onestà, amore, ma
è lontano anni luce dagli obiettivi fondamentali del primo
“movimento disco”: l’emancipazione delle donne, dei neri
e dei gay, tanto che La febbre… ha suscitato non pochi sen-
timenti contrastanti tra gli amanti della disco della prima

: 95
ora. E infatti, sia il film sia la colonna sonora sono il frut-
to di un progetto costruito a tavolino dal cineasta austra-
liano Robert Stigwood proprio nel momento in cui il mer-
cato del vinile è dominato dalla discomusic. Stigwood as-
sieme ai suoi collaboratori aveva cominciato anni prima a
guardare con interesse al nuovo fenomeno delle discoteche
che stava conquistando i giovani di tutto il mondo, e così
ha deciso di produrre un film affiancandolo a una colon-
na sonora da favola.
Nonostante l’operazione sia stata fatta per scopi pura-
mente commerciali, e la trama sia davvero debole, non
sono mancati gli scontri ideologici sull’interpretazione del
film. Il giornalista musicale Jon Savage scrive: «Toni
Manero decide che l’unico modo per fuggire dalla sua vita
noiosa sia quello di diventare il miglior ballerino della
città. Tuttavia, per ottenere questo riconoscimento, deve
negare la sua personalità: i passi di danza richiesti a un
campione di ballo sono talmente codificati che per eccel-
lere deve diventare un automa. Un nichilismo a cui i punk
non sono mai riusciti ad avvicinarsi. L’edonismo propu-
gnato dalla disco è quindi solo uno strumento di sovver-
sione della morale dominante». Secondo lo storico Peter
Caroll, invece, «La Febbre del sabato sera rafforza un mes-
saggio conservatore di conformismo, visto gli abiti costosi
e l’autodisciplina. Solo sposando questi valori tradizional-
mente americani il giovane eroe - caratterizzato etnica-

96 9
mente - può sperare di ottenere la promozione sociale, ab-
bandonando le sue origini operaie di Brooklyn e vivendo
una nuova vita a Manhattan». Per Nile Rodgers, leader
degli Chic, il film ha un messaggio anti razzista molto
chiaro. «Il protagonista non cambia per diventare un intel-
lettuale, cambia per diventare un essere umano dalla men-
talità più aperta. Questo si capisce quando dice cose come:
“mio padre continua a subire, torna a casa e se la prende
con mia madre, poi lei se la prende con me, e poi noi ce la
prendiamo con gli ispanici perché dobbiamo pur prender-
cela con qualcuno, e loro se la prendono con i neri o con
chissà chi”. Un modo semplice per dire che il razzismo e
l’ingiustizia esistono. Il film fa riflettere anche il passaggio
che recita: “Come potete premiare noi, che non siamo
nemmeno vicini al livello dei portoricani. Date il premio a
me perché sono uno di voi, un bianco, sono italiano, sono
del quartiere, ma quei portoricani che vengono qui, che si
avventurano nella nostra comunità sono meglio di noi”. È
un messaggio forte, mi piacerebbe sapere quanti spettato-
ri l’hanno recepito».
La colonna sonora è tutt’ora uno degli album più ven-
duti al mondo, grazie a oltre 40 milioni di copie (è stato il
primo di tutti i tempi prima dell’uscita di Thriller di
Michael Jackson), ma per la scena disco il “pacchetto
Febbre” (film e doppio album) è stato positivo e negativo
allo stesso tempo. Il film ha fatto conoscere al mondo la

: 97
parole “disco” che, tutto a un tratto, è stata abbinata ad
altre parole: disco-moda, disco-revolution, disco-paradise,
disco-gym, disco-parade… e così tutto è stato cambiato, i
“veri” paladini, i “veri” rivoluzionari, quelli che l’hanno in-
ventata, sono stati messi da parte a favore dei soldi e del
business e i Bee Gees e John Travolta, loro malgrado, si
sono trovati a guidare una rivoluzione per cui non erano
portati.
Comunque film e colonna sonora fanno la fortuna di
decine di artisti: i Bee Gees scoprono una seconda giovi-
nezza, i Trammps con Disco Inferno e KC & The Sunshine
Band grazie a Boogie Shoes vivono ancora di rendita; John
Travolta sfonda a Hollywood, ma il film, nonostante tanta
popolarità, nelle sale non registra incassi stratosferici.
Saturday Night Fever è stato un successo più di costume
che di botteghino, contrariamente a quanto si è portati a
pensare: 903.353 spettatori contro gli oltre due milioni del
primo capitolo di Guerre Stellari, sugli schermi nello stes-
so periodo. Dopo l’uscita della pellicola - la cui sceneggia-
tura, è bene ricordarlo, è cucita su misura per un pubblico
vastissimo, uomini e donne etero, bianchi e non certo fre-
quentatori di club o discoteche il sabato sera - i locali da
ballo aumentano del 50 per cento in un anno. E l’ingresso
della discoteca lo varcano tutti: studenti e lavoratori, con-
testatori e conservatori, ricchi e poveri, spesso vestiti in
modo improbabile. Si vedono camicie e pantaloni di raso

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coloratissimi, ricami di strass, capelli imbrillantinati per
uomini e scolpiti con la lacca per le donne. Nei locali si
entra in gruppo o da soli, e non si ha più vergogna di esi-
birsi sulla pista. Quando si balla ci si lascia andare muo-
vendosi liberamente come si vuole, perché non occorre es-
sere provetti ballerini. È così che nasce il fenomeno del
Travoltismo, per tutti. La perfezione del pop dei Bee Gees,
la performance iconica di Travolta e la sinergia commer-
ciale tra pellicola e colonna sonora, rendono La febbre del
sabato sera onnipresente, calamitando sulla disco un’atten-
zione smisurata da parte dei media, facendogli avere un
impatto sulla cultura pop maggiore di qualsiasi altri film
dai tempi di Via col vento.
Quello che era iniziato come movimento dei neri, dei
latini e degli omosessuali, si estende quindi al mondo dei
bianchi e degli etero grazie anche all’uscita nelle sale di
Saturday Night Fever e della sua colonna sonora, che vede
i Bee Gees protagonisti, nonché primo gruppo composto
interamente da bianchi a cantare discomusic. Un fenome-
no di tale portata inizia a preoccupare non solo i conser-
vatori e i benpensanti, ma anche i seguaci degli altri gene-
ri musicali, i quali, sentendo minacciato il loro primato e
la loro importanza, iniziano a organizzarsi e a dichiarare
apertamente guerra a questo nuovo modo di intendere la
musica, il divertimento e - forse - anche la vita.
La disco cresce sempre di più e insieme a lei anche i lo-

: 99
100 9
:

STUDIO 54, LA GOMORRA DI NEW YORK

L
cali che con gli anni si trasformano, passando da essere
piccoli loft, bui e semi nascosti in periferia a grandi spazi
illuminatissimi nelle down town. E il tempio della disco,
cioè il locale di tendenza che più di ogni altro è passato
alla storia, non poteva che sorgere a New York.
È il 22 aprile del 1977 quando si aprono per la prima
volta le porte di quella che in seguito sarà soprannomi-
nata la Gomorra newyorkese. Si trova nella 54esima stra-
da di Manhattan, all’interno dei locali di un vecchio tea-
tro costruito nel 1927 e che in seguito, a partire dal 1943,
è utilizzato dalla CBS come studio televisivo. A metà
degli anni Sessanta il network si trasferisce in un palazzo
a Hollywood e l’edificio resta abbandono, fino a quando
nel 1976 è rilevato da Uva Harden, un indossatore prove-

: 101
niente da Amburgo che cerca uno spazio per aprire un
club capace di scioccare New York e il jet set internazio-
nale. Dopo aver sposato l’attrice Barbara Carrera, Harden
decide di perseguire il suo sogno e quell’edificio vuoto
sulla Cinquantaquattresima gli sembra perfetto per ospi-
tare la più grande e trasgressiva discoteca mai aperta nel
mondo. Il destino, però, ha voluto che questa discoteca
non sarà lui a progettarla e inaugurarla. Indebitato prima
di portare a termine il suo progetto, l’ex indossatore si
trova sull’orlo del fallimento e si rivolge a Carmen
D’Alessio, una giovane rampante promoter di party, per
trovare qualcuno a cui vendere l’immobile. Poche setti-
mane dopo la D’Alessio organizza un incontro tra
Harden, Steve Rubell, figlio di un impiegato delle poste di
Brooklyn che arrotonda facendo il maestro di tennis, e
Ian Schrager, compagno d’università di Rubell ed ex
agente immobiliare, che aveva conosciuto quando i due
avevano chiesto la sua consulenza per lanciare una festa
a tema all’Enchanted Garden, un piccolo locale di New
York. Dopo una lunga contrattazione Harden riesce a
vendere e viene liquidato da Rubell e Schrager. I nuovi
proprietari investono nel progetto 400mila dollari, divisi
in tre quote, una detenuta da Jack Dushey, magnate del
commercio, entrato in società perché convinto di realiz-
zare un ottimo guadagno in pochi mesi. Per prima cosa
Rubell e Schrager pensano al nome del locale facendo se-

102 9
guire alla vecchia destinazione d’uso (Studio) il numero
civico (54) poi, in sole sei settimane, creano il mito di un
luogo da favola.
Alla consolle si alternano due deejay, veri e propri pro-
fessionisti del mixaggio su vinile, nomi che diventeranno
leggendari: Nicky Siano, che suona nei giorni feriali, e
Richie Kaczor, ingaggiato solo per i fine settimana. Per la
cronaca, il primo disco suonato la notte dell’inaugurazio-
ne, il 22 aprile, è Devil’s Gun, dei C.J. & Company. Dopo
molti interventi di restauro nel locale sono conservati gli
arredamenti barocchi e la struttura teatrale originale. I
1.800 metri quadrati della pista da ballo vengono bom-
bardati ogni secondo da uno spiegamento di 54 differen-
ti effetti luce, fiamme di stoffa svolazzanti, strisce di allu-
minio che ondeggiano, neon rotanti, luci stroboscopiche
e torri di riflettori colorati che diffondono luci intermit-
tenti che si alzano e si abbassano sui mille ballerini accal-
cati in pista, sotto bufere di neve sintetica e una pioggia
palloni di varie fogge e dimensioni lanciati in momenti
prestabiliti. C’è poi un cartonato enorme, una mezza
Luna col volto umano che viene fatto scendere nel mo-
mento topico della serata per offrire ai presenti lo scintil-
lante contenuto di un cucchiaino d’argento che, con un
movimento meccanico, è portato sotto il naso della Luna.
Sul vecchio palcoscenico è ricavata la postazione del dee-
jay, quindi appena rialzata rispetto alla pista, mentre

: 103
negli spazi che volta erano occupati dalla balconata sono
posizionati decine di divani; altri divanetti d’argento cir-
condano la pista e il bar principale, a forma di diamante
e rivestito da specchi, è situato sotto alla balconata. Al
terzo piano, in quella che una volta era la galleria, c’è la
Rubber Room, “la stanza di gomma”, un piccolo locale
con balcone da dove si domina l’enorme pista da ballo in-
teramente rivestita da uno spesso strato di gomma alle
pareti, in modo da essere lavate con più facilità. Questa
stanza, ammetteranno anni dopo i due proprietari, è stata
pensata apposta per il consumo di droghe e di sesso. Nel
seminterrato, invece, c’è la sala più ambita e segreta, la
sala V.I.P. dove si può accedere solo su invito personale.
Per la gente comune entrare non è affatto semplice: lo
Studio 54, infatti, è la prima discoteca a promuovere la
politica della selezione all’ingresso. Arrivare davanti alla
porta con in tasca i dieci dollari del biglietto non signifi-
ca automaticamente che si è sicuri di accedere. Di sicuro
si deve sostare almeno una ventina di minuti dietro a due
intimidatorie transenne di velluto rosso, mentre i butta-
fuori Marc Benecke e il suo collega Al Corley (futura star
di Dinasty e cantante HI-NRG di Square Rooms) decido-
no chi è abbastanza bello, abbastanza oltraggioso o abba-
stanza famoso per essere ammesso. Rubell chiama questa
procedura «pulire l’insalata»: lui vuole che all’interno
nessun gruppo sia prevalente, e per questo ha istruito il

104 9
personale alla porta affinché possano entrare un numero
equilibrato di neri, travestiti, celebrità, gente normale,
modelle, gente dei sobborghi, sballati e anziani. Rubell ha
perfettamente capito che per rendere famoso il locale oc-
corre innanzitutto creare un’aura esclusiva. Si racconta
che una sera sia stato rifiutato l’ingresso persino a Cher e
di una coppia di sposini ai quali, sadicamente, viene con-
cesso di entrare solo al marito costringendo la moglie a
rimanere tutta la notte sul marciapiede in sua attesa.
Essere gay è sicuramente d’aiuto per farsi spalancare le
porte, e non solo quelle del 54 ma anche nel cinema, nella
musica, nella moda, nella pubblicità, nella televisione…
Essere gay è ormai diventato di tendenza. Ma invece di
essere il tempio dell’emancipazione, lo Studio 54 è identi-
ficato solo con il suo cordone d’ingresso rosso, un poten-
te simbolo d’esclusione. Se il cordone si apre è come se si
dividessero i mari: perché si è consapevoli che si entra in
un locale dove si sta facendo la storia e si diventa certa-
mente protagonista di una delle serate più esclusive del
mondo. E se non si è nello spirito adatto per partecipare
alla baldoria Rubell mette disposizione gli omaggi della
casa per trasformare la serata in uno schianto.
Qualunque sia il “vizio” il locale è pronto a soddisfarlo.
Droghe? È possibile scegliere tra quaalude, marijuana,
hashish, polvere degli angeli, eroina, cocaina e popper.
Sesso? O si rimorchia uno sconosciuto in pista (per far

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sesso basta guardare qualcuno negli occhi e dirgli
«ciao»), oppure chiedere a uno dei ragazzi del bar - gay,
eterosessuali o bisex, nudi fino alla cintola - di essere ac-
compagnati nella zona della balconata dove si consuma
nella penombra, senza smettere di guardare il fermento
giù nella pista e ascoltare la musica. Rubell capisce anche
che nel “progetto Studio 54” il sesso ha la stessa impor-
tanza dell’impianto luci e della musica, e fa di tutto per
incoraggiarlo. Il locale diventa famoso anche per i suoi
party a tema: non c’è limite al budegt che i due proprieta-
ri mettono a disposizione per trasformare il loro club in
un ambiente totalmente diverso.
Grazie alle celebrità che lo frequentano e alla stampa
amica, soprattutto quella scandalistica, lo Studio 54 fa sì
che il messaggio della disco - anche se ormai inquinato
da troppa droga e troppa esclusività - si diffonda ancora
di più. Seduti sui divanetti dello Studio è facile vedere
Andy Wharol, Liza Minnelli, Truman Capote, Bianca
Jagger, Grace Jones, Sylvester Stallone e il nostro Elio
Fiorucci. A invitarli è la stessa D’Alessio che i proprietari
assumono apposta per invitare le celebrità. Fiorucci è un
habitué; il suo negozio di New York è frequentato da tutte
le star della disco, tanto che viene citato nel brano You’re
The Greatest Dancer delle Sister Sledge dove il testo
recita: «The best designers, heaven knows/Ooh, from his
head down to his toes/Halston, Gucci, Fiorucci/ He looks

106 9
like a still/That man is dressed to kill» .
Altra curiosità legata a quello che è stato definito il
“Tempio della disco” riguarda i due giovani musicisti,
Nile Rodgers, ex attivista del movimento black panther, e
Bernard Edwards, del celebre gruppo degli Chic. Una
sera sono invitati al 54 da Grace Jones che vuole lavorare
con loro per la preparazione del suo prossimo album.
Quando si presentano davanti all’ingresso il buttafuori
non trova i loro nomi nella lista degli invitati e sono al-
lontanati, anche in modo poco gentile. Furiosi tornano a
casa, prendono carta, penna e chitarra e scrivono in nem-
meno mezz’ora un brano ispirato all’accaduto che intito-
lano Fuck Off’. La canzone diventa uno dei più grandi
successi del gruppo, nonché il più grande inno di prote-
sta disco: il titolo, per ovvie ragioni, è cambiato in Freak
Out e vende oltre 6 milioni di copie nel solo mercato
degli Stati Uniti. Al 54 tutti si sentono liberi di fare quel-
lo che vogliono: si beve, si fa sesso, ci si droga, si sballa, si
può dare sfogo ai propri istinti. Se a Woodstock gli hip-
pie celebravano la vita gridando peace & love e ascoltan-
do rock, dieci anni dopo allo Studio 54 si abusa di se stes-
si e della vita ballando al suono della disco.
A un tale calderone di liberalità non può essere con-
sentito di bollire ancora a lungo: c’è troppa esagerazione
e troppa illegalità. Le prime avvisaglie di un incombente
disastro si hanno quando viene reso noto che il locale

: 107
non possiede una licenza permanente per la vendita di
alcolici, così ogni giorno deve richiederne una provviso-
ria che vale per ventiquattr’ore. Un giorno Rubell si di-
mentica di avviare la trafila burocratica e alla sera arriva
la polizia che si piazza davanti al bar proibendo di som-
ministrare nemmeno un bicchiere di vino gettando nello
sconforto la clientela del locale. Da quel momento in poi
le autorità cominciano a tenere d’occhio lo Studio inso-
spettiti che dietro tanto divertimento e trasgressione si
celi anche qualcosa di losco. Poi Rubell incappa in una
clamorosa gaffe: durante un’intervista al New York
Magazine dichiara che i profitti del club sono astronomi-
ci, che sono superati solo dalla mafia. L’esternazione atti-
ra l’attenzione di Frank Trattolillo della divisione crimi-
nale dell’Erario. È lui che, in concomitanza a una denun-
cia per evasione fiscale da parte di un ex-dipendente,
emette un mandato di perquisizione firmato dal pubbli-
co ministero Peter Sudler. La mattina del 14 dicembre
1978 la polizia entra nel locale e sotto lo sguardo scon-
certato dei dipendenti riuniti in attesa di ricevere la paga
inizia una lunga perquisizione. Vengono rinvenuti doppi
libri contabili e sacchi pieni di denaro nascosti dapper-
tutto, come se non bastasse all’interno del borsello di
Schrager trovano una busta di cocaina. I due proprietari
sono arrestati. Ad appena un anno e mezzo dall’inaugu-
razione inizia così la fine del locale più chic e di tenden-

108 9
za del mondo. Nel processo viene sentenziato che i due
nel 1977 non hanno denunciato più di un terzo degli in-
troiti. Dopo una richiesta di patteggiamento sul procedi-
mento per frode fiscale - l’imputazione a Schrager per de-
tenzione di cocaina è lasciata cadere - i proprietari ven-
gono condannati a tre anni e mezzo di detenzione.
Pagano la cauzione ed escono; ma nel 1979 la polizia
torna allo Studio 54 per chiuderlo definitivamente: soliti
soldi non dichiarati, solita droga trovata dappertutto.

: 109
L’ingresso dello Studio 54 a New York, al numero 254 della 54ᵃ
strada ovest a Manhattan, tra la Settima e l'Ottava Avenue

110 9
:

LA DISCO SI TINGE DI BIANCO

COMINCIA IL DECLINO

L La chiusura dello Studio 54 è emblematica perché da


quel giorno inizia il declino della disco. Il primo segnale
si ha dalle canzoni. Sono cambiate: d’improvviso nei testi
c’è più sentimento, il suono è meccanico, la melodia
perde importanza. La disco si va incanalando in qualco-
sa di molto più semplice, di pop e, soprattutto, di “bian-
co”. Dopo il successo planetario dei Bee Gees, tra i pro-
duttori e i discografici c’è l’imperativo di “sbiancare” la
musica disco – che ricordiamo era nata nera a tutti gli ef-
fetti – per renderla sempre più attraente a quella parte
dell’America bianca e borghese e agli amanti della musi-
ca pop e rock. Sono soprattutto le etichette più impor-
tanti quelle che cercano di produrre hit trasversali, cer-
cando un suono della discomusic più gentile, facile,
caldo. Qualche critico si accorge di questa sorta di ibrido

: 111
e parla di “instupidimento” della musica soul. Ma c’è
anche chi vede nell’operazione una mossa politica e accu-
sa che è in atto una chiara propaganda controrivoluzio-
naria, progettata per sminuire i progressi sociali della
disco. Una musica che, è importante ricordarlo, non ha
mai smesso fino in fondo di avere presso i bianchi una re-
putazione negativa, perché è sempre considerata la voce
primaria delle ambizioni sociali dei neri, adatta ai black
yuppies, gente di colore ambiziosa che si allontana dalle
comunità nere per cercare un ruolo all’interno delle co-
munità integrate, che guida auto di lusso, veste abiti fir-
mati e che non vuole impegnarsi in politica, nemmeno
nel movimento per i diritti civili.
Anche se è in continua ascesa commerciale – ormai ha
conquistato tutti i mercati mondiali - la discomusic è in
una vertiginosa discesa qualitativa. Ed è lontana da tutto
ciò che il Paese richiede in quel momento: mancano rife-
rimenti all’impegno sociale e a presupposti culturali, e le
nuove produzioni sanno di artificiosità studiata. Anche
l’uso delle sostanze stupefacenti è diverso: dalla marijua-
na e dall’Lsd, considerate droghe “per pensare”, si passa
alla cocaina e al popper, consumate unicamente “per
agire”. A New York riaprono club dove si ascolta musica
rock, tipo l’Hurrah’s e il Mudd, ma la disco sta ancora vi-
vendo il suo periodo d’oro: nel 1979 è un business da 4
miliardi di dollari e domina negli Stati Uniti. Non si può

112 9
cambiare una stazione radio e accendere la tv senza sen-
tire musica dance. E più cresce, più si trasforma in un
bersaglio sempre più grande: la disco è ormai vittima di
un forte abuso da parte di tutti, è sovraesposta e svendu-
ta, è ovunque, onnipresente, tanto da diventare insoppor-
tabile. Da quando è stata “sbiancata” si è trasformata solo
in suono e sensualità superficiale; sono sempre meno gli
artisti di colore e gay; sono spariti i contenuti, le battaglie
sociali, le lotte per l’emancipazione.
La musica da discoteca diventa così sempre più vulne-
rabile e a sferrare i primi attacchi sono proprio i cultori
della prima ora e i “vecchi” deejay, che lamentano la ter-
ribile uniformità di ritmo e stile che la sta dominando.
Ormai, dicono, si sente solo un rumore veloce, meccani-
co, superficiale, prodotto esclusivamente per il mercato
di massa. Un mercato però su cui tutti hanno cercato di
attingere, perché - come abbiamo visto – chiunque ha
cercato di saltare sul carro carico d’oro trascinato dalla
discomusic, dalle rockstar ai folksinger. Il tempo con la
cassa in 4 lo si ascolta dappertutto, il colmo lo si è rag-
giunto prima con Ethel Merman, cantante americana
nata nel 1908, che incide un album reinterpretando in
versione disco alcuni dei suoi grandi successi, come
Alexander’s Ragtime Band, Everything’s Coming Up Roses
e There’s No Business Like Show Business e poi con i
Muppets, che si esibiscono in una discoteca e cantano la

: 113
sigla della loro trasmissione, ovviamente su ritmica disco.
Per non parlare del trash vero e proprio, e citiamo un
paio di esempi ben noti a tutti: Disco Duck e, in questo
caso la responsabilità e soltanto di noi italiani, Wojtyla
Disco Dance, scritta da Elio Aldrighetti e Stefano Pulga e
affidata alla voce di un deejay di Milano, Federico
l’Olandese Volante, alias Freddy the Flying Dutchman
che, spalleggiato dall’improbabile Sistina Band, scala le
classifiche americane. Sette minuti di autentico trash che
scatenano anche commenti irriverenti dalla stampa sta-
tunitense, non solo quella musicale ma anche quella d’o-
pinione, Herald Tribune in testa. Va detto che la Santa
Sede fa finta di niente e non commenta.
Tutto questo ha dato argomenti a coloro ai quali non è
mai piaciuta, di sostenere che la discomusic è orribile,
stereotipata e anche molto noiosa.

Riflussi di nazismo su un campo da baseball


Nelle rivoluzioni, c’è un tempo per avanzare e un
tempo per ritirarsi. E questo la disco non l’ha capito. Nel
1979 tutti i fan di rock, country, blues, prog, si coalizza-
no con l’intento di farla finita. Iniziano una serie di cam-
pagne volte alla distruzione, all’annientamento, alla
messa al bando, alla condanna della discomusic. La paro-
la d’ordine è «Disco Sucks», che si può tradurre gentil-

114 9
mente come «La disco fa schifo», anche se sucks è un ter-
mine decisamente più volgare. Non bisogna dimenticare
che da sempre gli americani sono bombardati dai miti
della mascolinità e del successo e che nella loro cultura
riservano un posto speciale allo sport professionistico,
unica cosa in cui credere negli anni Settanta dopo gli
scandali politici, le tensioni sociali e la guerra del
Vietnam. Le accuse al genere disco sono rivolte sia alla
musica - descritta come inutile, ripetitiva, senza arte, pre-
confezionata - sia ai testi delle canzoni, ricchi di espliciti
riferimenti all’universo omosessuale, senza capire che la
gente compra e la ascolta semplicemente perché gli piace.
Se così non fosse, significherebbe che tutti gli amanti del
genere sono gay o neri.
In realtà non è la musica il vero nemico da colpire, ma
lo stile di vita di cui è ancora messaggera: il machismo ti-
pico del rock ha ricevuto un duro colpo dall’edonismo
della disco, e in qualche modo si deve rifare. Finché il fe-
nomeno è restato confinato negli ambienti omosessuali e
afroamericani, si poteva anche far finta di niente, ma
ormai la disco ha oltrepassato la barriera razziale ri-
uscendo soprattutto a fare breccia tra i bianchi. Così, la
cosiddetta American way of life si sente minacciata e de-
cide di reagire. In tutta la nazione, e specialmente nelle
grandi città, sorgono gruppi spontanei o aizzati dalle
radio e dalle tv che si organizzano stampando adesivi,

: 115
manifesti e magliette e dando vita a veri e propri eventi,
come i ritrovi per bruciare i poster dei Bee Gees e di-
struggere i loro dischi; e accusando artisti provenienti dal
mondo del rock come David Bowie, Rod Stewart e i
Rolling Stones, colpevoli di aver inserito ritmi disco in al-
cuni loro brani, di essersi venduti. Nel gennaio 1979 la
Wpix, radio di New York, introduce un nuovo format
“solo rock” nel suo palinsesto volto unicamente a boicot-
tare la disco.
Ma non è finita.
Vista la sua tendenza all’omosessualità, la dance music
ha sempre avuto un rapporto ambiguo, per non dire diffi-
cile, verso gli sport di squadra. A luglio del ’79 Michael
Veeck, promoter e figlio del proprietario della squadra di
baseball di Chicago White Sox ha un’idea per far aumen-
tare l’afflusso dei tifosi allo stadio e, per concretizzarla, si
rivolge a due deejay radiofonici Steve Dahl e Garry Meier.
I tre organizzano un “Disco Demolition Derby” durante la
pausa tra gli inning e tutti i tifosi che si fossero presentati
con un vinile di musica disco da demolire avrebbero pa-
gato il biglietto solo 98 centesimi. Sensibilizzate da una
massiccia campagna pubblicitaria alla radio da parte di
Dahl e Meier, il 12 luglio allo stadio di Cominskey Park di
Chicago, che può contenere cinquantaquattromila spetta-
tori, entrano in novantamila e all’intervallo della partita
tra i White Sox e i Detroit Tigers, in trentamila - molti con

116 9
indosso magliette che riportano insulti alla disco e ai suoi
artisti - si riversano sul campo di gioco e fanno saltare per
aria oltre centomila album di discomusic, e chi non è ri-
uscito a entrare sul campo li lancia dagli spalti come se
fossero frisbee. Naturalmente l’incontro di baseball è stato
sospeso perché poi, presi dall’euforia, nessuno del pubbli-
co sceso in campo è tornato al suo posto. Ancora oggi
quella data è ricordata come “The night when disco died”
(La notte in cui morì la discomusic) e ricorda molto da vi-
cino, anche se in modo meno grave, la notte della
Kulturkampf, quando i nazisti bruciarono i libri e le opere
culturali pericolose per la loro ideologia. L’episodio ha una
grande eco da parte dei media e un forte impatto sull’opi-
nione pubblica. Ma quel che più conta per i suoi promo-
tori è che colpisce nel segno: se infatti il 21 luglio di quel-
l’anno le classifiche di vendita vedono sei brani disco nelle
prime sei posizioni, improvvisamente il 25 agosto Good
Times degli Chic è scalzata dal primo posto da My
Sharona dei Knack e appena due mesi dopo, il 22 settem-
bre, non compare più nessuno brano disco nelle prime
dieci posizioni. Questo fa decretare ufficialmente la fine
della discomusic e il ritorno del rock, anche perché la
campagna anti-disco di Chicago non rimane un caso iso-
lato. A ottobre nasce la Dread, Detroit Rockers Engaged in
the Abolition of Disco, organizzazione sostenuta dalla sta-
zione radio rock WRIF che offre ai suoi membri, in cam-

: 117
bio di un giuramento anti-discomusic, sconti per spetta-
coli o per acquisti in negozi di musica. Le operazioni con-
tro l’universo disco si espandono a macchia d’olio: a Los
Angeles, a Portland, a Seattle, in Oklahoma. Da un giorno
all’altro il rock prende il sopravvento, le radio riorganizza-
no i palinsesti, le canzoni disco spariscono dalle classifi-
che, molte etichette indipendenti devono vendere o chiu-
dere per bancarotta e molti artisti vanno nel dimentica-
toio, vivendo il buio della loro carriera, dal quale non tutti
riescono riprendersi. Persino John Travolta deve riciclarsi
e, guarda caso, sceglie un ruolo macho che lo vede prota-
gonista tra rodei e tori meccanici in Urban Cowboy, per
far dimenticare Tony Manero.
Il colpo di grazia arriva con la scoperta del virus
dell’Hiv e dell’Aids, che segna un altro punto a favore dei
fautori dei simpatizzanti dei movimenti Disco Sucks e af-
fini che - piuttosto meschinamente - cavalcano l’onda
emotiva della malattia per far notare come quel modo di
vivere la vita avesse ridotto i protagonisti di quelle notti
dei primi anni Settanta.
La diffusione della disco in Europa è la chiara dimo-
strazione che l’intolleranza dei paladini della Disco Sucks
era rivolta più allo stile di vita che alla musica in sé: nel no-
stro continente, infatti, la discomusic si afferma più come
genere musicale che come fenomeno sociale. Avendo poi
come riferimento soprattutto il film La febbre del sabato

118 9
sera i giovani europei vedono la disco come un fenomeno
aperto a tutte le razze e tendenze sessuali; perché le scene
di scontro razziale del film, come la famosa scazzottata tra
italoamericani e portoricani, è derubricata più che altro
come una prerogativa del tutto newyorchese. Anche in
Europa, però, non mancano i detrattori, primi tra tutti gli
alfieri della cultura punk, ma non si raggiungono mai le
vette americane, proprio perché in discussione è la musi-
ca e non le implicazioni sociali. Questo spiega anche il
motivo per cui, una volta che la discomusic scompare
dalle scene americane, si afferma in Europa.

A tutt’oggi molti artisti della musica disco - quelli che


hanno davvero creduto nel movimento - si battono perché
si capisca quello che è stato fatto allora. E non sono pochi
quelli che evocano risvolti nascosti, come ad esempio che
anche in questo caso la politica non fosse completamente
assente. Perché la disco poteva essere letta come un movi-
mento politico, una forma di protesta, una strada per l’e-
mancipazione delle minoranze. Ma, letta dall’altra parte,
poteva anche essere un modo per lasciare da parte il cer-
vello: uscite di casa, muovetevi e non pensate ad altro!

Sì, forse s’è fatta una rivoluzione senza rendersene


conto.

: 119
Lo Stadio di baseball di Chicago il 12 luglio 1979 in
occasione del “Disco Demolition Derby”

120 9
IIa PARTE

ARRIVA L’ITALO DISCO

: 121
122 9
:

L’ITALIA SI DOMANDA:

BALLARE È DI DESTRA O DI SINISTRA?

É È il dicembre del 1978 quando il politologo Giorgio


Galli scrive su Repubblica: «Può sembrare irriverente
chiedersi se per il nostro sistema politico il 1978 sia stato
l’anno di Aldo Moro oppure della Febbre del sabato sera.
Eppure se la primavera è stata dominata dalla tragedia
del presidente della Dc, l’autunno è stato caratterizzato
dal significato politico attribuito al successo del film». In
Italia il film La febbre del sabato sera esce il 13 marzo di
quell’anno, quando si è al culmine della conflittualità po-
litica tra estrema sinistra e estrema destra; Aldo Moro
viene sequestrato dalle Brigate Rosse tre giorni dopo.
Come è accaduto negli Stati Uniti, il successo è più di
costume che di botteghino. In Italia la discoteca è diven-
tata il nuovo spazio di ritrovo, oratorio, circoli culturali,

: 123
bar del paese si svuotano rapidamente. Nei locali si entra
in gruppo o da soli e non si ha più vergogna di esibirsi
sulla pista perché, grazie proprio al personaggio di John
Travolta, ballare non è più considerata un’arte per sole
donne. E poi, non occorre essere ballerini provetti, basta
muoversi come viene, cercando di tenere il tempo. È così
che da noi nasce il fenomeno del Travoltismo.
Una certa sinistra guarda infastidita al nuovo fenome-
no giovanile e reagisce mescolando una sorta di indigna-
zione e di superiorità: «Nel film La febbre del sabato sera
– si legge su L’Unità - non c’è un messaggio, un’ideologia,
un seppur minimo disegno politico». Il Pci e le decine di
gruppi extraparlamentari che tra il Sessantotto e la fine
degli anni Settanta hanno affascinato un paio di genera-
zioni, non capiscono che in quel preciso momento Tony
Manero rappresenta il “nuovo proletario” in cui molti
giovani italiani, anche studenti e operai, si identificano. E
che sono gli stessi che prima riempivano le piazze, in-
grossavano i cortei e occupavano scuole e fabbriche che
ora entrano in discoteca e cercano di imitare Travolta, nel
modo di ballare e in quello di vestire. Purtroppo, però, a
differenza del protagonista del film, i nostri ragazzi non
bevono gazzosa e il consumo di alcol comincia a regi-
strare picchi di crescita preoccupanti. Per alcuni, però, il
pericolo maggiore è rappresentato dal fatto che il
Travoltismo sia un fenomeno di disimpegno sociale, che

124 9
allontana i giovani dalla cultura e dalla partecipazione di
massa per portarli al qualunquismo. E immediatamente i
politici lo bollano come «tomba dell’impegno politico
giovanile»; le femministe «un ritorno al maschilismo»;
mentre dai sociologi è visto come un «anomalo e perico-
loso rinchiudersi nel privato». Un minimo di verità in ef-
fetti esiste: La febbre del sabato sera, e il conseguente
Travoltismo, è infatti il preludio al disimpegno e all’allon-
tanamento politico delle masse che caratterizzeranno gli
anni Ottanta, quelli dello yuppismo, della Milano da
bere. Tesi sostenuta dal sociologo Sabino Acquaviva: «In
Italia La febbre del sabato sera dà vita a una profonda ri-
voluzione (…) con il film inizia un radicale mutamento
nei gusti di molti giovani, anche dal punto di vista politi-
co. Sembra che abbia cancellato un antico tipo di impe-
gno sociale e un certo tipo di coerenza ideologica…».
I giovani, quindi, non sognano più la rivoluzione, ma
solo di essere felici. Lo spirito del Sessantotto è definiti-
vamente abbandonato, e il cambiamento di rotta più vi-
stoso si verifica proprio nel tipo - e nel consumo - della
musica. Lentamente la discomusic conquista anche le
frange dei giovani più politicizzate, che poco prima inor-
ridivano al solo sentire il ritmo della cassa in 4. Anche in
Italia il sabato sera diventa un rito a cui, prima o poi, si
piegano tutti: proletari, borghesi, progressisti e reaziona-
ri. All’inizio le discoteche sono viste solo come luoghi

: 125
frequentati da giovani di destra, poi hanno cominciato ad
andarci i gay, poi i gay di sinistra e qualche femminista,
alla fine anche i “compagni”. E le canzoni “impegnate”
hanno un tracollo. Gli scaffali nei negozi di dischi sono
zeppi di 33 giri degli Inti Illimani, canti partigiani, can-
zoni di lotta che non compra più nessuno. E anche nelle
neonate radio la musica è cambiata: i dibattiti, le inchie-
ste e i programmi politicamente e socialmente impegna-
ti sono chiusi a favore di spazi musicali “non stop”.
Giorgio Bocca analizza il fenomeno da un punto di
vista squisitamente politico. «Adesso c’è da capire questo
- si domanda su Repubblica - il giovane danzatore nelle
notti di Milano è politico?». E continua: «Le notti mila-
nesi sono percorse da tribù transumanti di giovani in ar-
rivo da Gorgonzola o da Corsico (località della periferia
milanese, ndr) che vogliono ballare, vestiti un po’ da matti
e che incrociano, evitano e incontrano altre tribù cittadi-
ne di cinefili, di birristi, di picchiatori rossi, di picchiato-
ri neri, di socialisti avviati ai circoli di cultura, di punk ar-
rivati da Quarto Oggiaro o dal Giambellino… Aprire una
discoteca o no? Per ora i dirigenti dell’Mls (Movimento
lavoratori per il socialismo) hanno detto no al ballo, proi-
bito il dibattito su John Travolta, restando fedeli all’agri-
turismo sul Ticino, ma il problema si pone: se il danzato
convive con il politico, si può ignorarlo?».
La sfida è raccolta da Lotta Continua, l’organizzazione

126 9
extraparlamentare che all’inizio degli anni Settanta, in
occasione della stesura del suo programma politico, defi-
nì il “tempo libero” come «prodotto organizzato dai pa-
droni per tenere le masse completamente passive».
Nell’ottobre del 1978 l’organizzazione extra parlamentare
guidata da Adriano Sofri rompe il tabù e manda al cine-
ma a vedere il film due suoi militanti, Antonella
Rampino e Roberto Di Reda, con il compito di recensir-
lo sul giornale: «Travoltismo - scrivono - non è che una
parola; e consumarla vestendosi, comportandosi e bal-
lando secondo i suoi canoni è diretta conseguenza dell’a-
ver appreso che consumare è vendersi, e vedersi è oggi un
modo di comunicare. (…) C’è parecchio terreno di facile
identificazione in John Travolta, per le fasce ai margini e
per quelle del centro. E i compagni? Anche loro! “Che
aberrante fenomeno di filofascismo consumistico” ha
detto qualcuno al termine del film. Ma sono in pochi».
L’articolo, pubblicato sul quotidiano Lotta Continua
con tanto di richiamo in prima pagina, spacca la sinistra.
All’interno dell’organizzazione c’è chi critica questa aper-
tura, secondo il quale dietro la moda della discoteca c’è la
stessa ideologia dei vecchi discorsi sul fumare assieme
uno spinello perché aggrega, ma non è così. Ma c’è anche
chi si domanda perché l’andare in discoteca non possa es-
sere visto semplicemente come un bisogno di sfogarsi, di
stare insieme a tanti altri giovani, visto che mancano

: 127
spazi per il sociale. Anche lo stesso Franco Berardi, alias
Bifo, tra i leader del Movimento del ’77, afferma che la
discomania può essere sì una demenza generalizzata:
«Ma il potere è convinto che il travoltismo significhi ri-
torno alla normalità; per noi invece deve diventare il
punto di partenza per una nuova rivoluzione». Dall’altra
parte c’è Vittorio Borrelli, che dalle pagine dei Quotidiano
dei Lavoratori, risponde che andare in discoteca «è un fe-
nomeno regressivo. Con la crisi della sinistra rivoluzio-
naria prendono piede modelli universali provenienti
dagli Stati Uniti, comportamenti di massa tipici dei pe-
riodi di crisi. E il ritorno al privato ha aperto la strada alla
loro infiltrazione nelle file della sinistra. Certo, queste
cose vanno seguite, bisogna parlarne. Ma senza fare le
cellule della balera». Non si sottraggono al dibattito
l’Unità, secondo cui «le multinazionali del rimbecilli-
mento di massa stanno conducendo un’avanzata senza
precedenti, e il Manifesto: «il mito di Travolta è il volto
nuovo con il quale gli yankee hanno deciso di aggredire i
giovani. Dopo la droga e le religioni ora li vogliono ipno-
tizzare così» col ballo.
Sarà anche un fenomeno di pericoloso qualunquismo,
ma è certo che anche grazie alla Febbre si cominciano a
rompere dei tabù, a imporre nuovi modelli sociocultura-
li e ad avvicinarsi a nuove forme di comunicazione. Pochi
anni prima dell’uscita del film il monopolio radiotelevisi-

128 9
vo pubblico è fatto a pezzi: radio e tv private - chiamate
non per caso “libere” - crescono esponenzialmente su
tutta la Penisola e trasmettono una musica completa-
mente nuova. Le emittenti spesso nascono da iniziative
spontanee, realizzate da persone poco o per niente retri-
buite, spinte unicamente dalla passione e dall’entusiasmo.
E grazie a loro si può ascoltare generi musicali che, altri-
menti, rimarrebbero inediti per la stragrande maggioran-
za dei giovani. Ecco che in quel periodo tutti diventano
disc jockey, tutti sono esperti di musica, tutti vogliono
suonare e affermarsi. E tutti hanno sempre di più voglia
di ballare e divertirsi. I dati Siae dimostrano che nel 1978
le presenze nelle sale da ballo aumentano del 40-50 per
cento rispetto all’anno precedente. La discomusic ricon-
verte vecchie palestre, supermercati, cinema, bar, sotto-
scala, club privées esclusivi, Cral ferroviari, portinerie,
tendoni da circo, riempiendoli di impianti hi-fi, specchi e
piste girevoli, luci psichedeliche, fari stroboscopici, gio-
chi con bolle di sapone il tutto portando una nuova im-
pennata di vendite di dischi (e nastri): nel 1979 si registra
un incremento del 120% rispetto all’anno precedente.
Sulla pista la voglia d’evasione si fa largo anche con il
ritmo scandito tra le 120 e le 140 battute al minuto, con
la cassa “in quattro” e il charleston aperto “in levare”,
segno di riconoscimento della batteria nella discomusic.
Un genere che per almeno un lustro spazza via dalle clas-

: 129
sifiche molti eroi della musica rock e prog e cantautori. In
Italia la cultura, e quindi anche la musica, diventa “usa e
getta”, e nei testi delle canzoni scompare la visione politi-
ca e l’impegno sociale, in favore della riscoperta dei sen-
timenti, dei doppi sensi e del divertimento fine a se stes-
so.
La discomusic in Italia appartiene a quella generazio-
ne che erano bambini nel Sessantotto, cresciuti con i can-
tautori impegnati e col Festival di Sanremo in crisi, tanto
che non lo trasmette nemmeno più la Rai.
Un boom di colori e divertimento che altro non è che
lo specchio del Paese di quel periodo, che sta vivendo una
sorta di quiete dopo la tempesta degli Anni di Piombo.
Primi anni Ottanta, quando gli italiani conoscono una
nuova impennata di benessere: trionfa l’ottimismo, tutti
hanno un look, si godono la vita e… ballano. In Italia,
però, si è lontani anni luce dalla rilevanza sociale che la
discomusic ha avuto negli Stati Uniti, la spinta verso l’e-
mancipazione di gay e minoranze etniche. È vero, in
Italia la disco “serve” fondamentalmente a divertirsi,
visto che risulta difficile farlo sulle note mielose dei Pooh
o su quelle delle ballate di Venditti e Guccini. La gente
chiede alla musica solo un’occasione per evadere, il mas-
simo del piacere “estetico”. Sarà anche un’arte “minore”,
ma riesce in qualche modo a fare da tampone alle tensio-
ni sociali, stemperando le rabbie e le insoddisfazioni po-

130 9
litiche accumulate nel decennio precedente dai giovani, e
restituendo energia e voglia di spensieratezza. Ha pochis-
simo da offrire a livello culturale, e lo conferma la stessa
volubilità degli appassionati del genere, che non si affe-
zionano a un artista in particolare, proprio perché quello
che viene offerto dalla musica è fondamentalmente una
sensazione.
Tutto questo accade in un periodo in cui nel nostro
paese l’inflazione viaggia al 20 per cento, tanto che un
analista straniero, sbigottito, afferma: «In questo mo-
mento gli italiani ballano. Ballano sui carboni ardenti. E
si divertono pure!».

: 131
132 9
:

ITALIANS DO IT BETTER

L La discomusic americana inizia a perdere colpi ben


prima del 1979, vittima dell’overdose di febbre travoltia-
na e, soprattutto, dell’evento di Chicago dove sotto la
regia di due dj rockettari vengono mandati al rogo mi-
gliaia di vinili. In realtà già un paio di anni prima il mer-
cato mondiale comincia a essere terra di conquista di
produzioni europee, in massima parte tedesche e italiane.
E proprio mentre negli Stati Uniti è messa al bando e
condannata a morte sicura, la disco in Europa comincia
a vivere una seconda giovinezza. In Italia nasce uno dei
sound più amati, una via di mezzo tra il caratteristico
gusto latino per la melodia e il romanticismo decadente;
in Germania, influenzati dai successi mondiali dell’ac-
coppiata Moroder-Belotte, creano una musica più fredda

: 133
e meccanica; in Francia, invece, si sperimenta con ampio
uso di synth e batterie elettroniche. E grazie a queste
nuove produzioni anche i gusti dei frequentatori delle di-
scoteche cominciano a cambiare.
Sapere con certezza qual è stata la prima canzone disco
cantata in italiano è un’impresa impossibile, gli stessi ad-
detti ai lavori hanno le idee confuse: per qualcuno è
Nessuno mai di Marcella Bella, uscita nel 1974; ma c’è
anche chi dice che è Ancora tu o Il veliero di Lucio
Battisti, artista da sempre capace di anticipare le tenden-
za, pubblicate nel febbraio del 1976 nell’album La batte-
ria, il contrabbasso, ecc.; e chi invece indica Rumore di
Raffaella Carrà, sempre del 1976.
A mio avviso i primi che, forse inconsapevolmente,
aprono la strada a una disco Made in Italy, sono i
Chrisma (che all’epoca avevano ancora il Ch nel nome),
il duo formato da Maurizio Arceri e Christina Moser. Il
primo loro singolo è Amore, pubblicato anche lui nel
1976 con testo scritto da Christina e musica di Vangelis
Papathanassiou (sì, quello di Momenti di gloria e Blade
Runner) che però si firma con lo pseudonimo Richard
Broadbaker, e che vanta la collaborazione degli Osibisa
alle percussioni. Sia Amore sia il successivo U (uscito nel
1977 ma inciso nello stesso giorno di Amore) sono in-
fluenzati dal sexy sound modello Donna Summer che va
di moda in quel periodo. Il testo recita così: «Parlare

134 9
piano, ridendo forte/Toccarsi adagio… Strano far l’amore
quando non ci si conosce/ Amore, amore, amore… Le no-
stre mani, come ali si aprono nell’abbraccio…/ Sentirsi il
cuore nella gola come la mia prima volta/ Amore, amore,
amore…Il tuo trucco è tutto andato…/Sei più bella… Una
luce dolce e calda, sei vestita anche così, sai?…. Amore,
amore, amore…». La canzone, presentata nella serata fi-
nale del Festivalbar all’Arena di Verona, passa quasi inos-
servata, meno Christina grazie al vestito che indossa,
nero, con uno spacco vertiginoso. I due brani rimangono
episodi anomali rispetto alla successiva produzione degli
anni seguenti dei Chrisma/Krisma, tanto che non sono
mai stati inseriti in nessun album.
Tra i pionieri dell’italo disco, anche in questo caso suo
malgrado, c’è Luisa Colombo, in arte Lu. Nel 1975 scrive
a quattro mani con David Riondino una canzone con un
testo triste, che per via dei risvolti politici e sociali viene
rifiutata dai discografici per molti anni, fino a quando –
nel 1981 - non è trasformata in una scanzonata ballata
dance, adatta al grande pubblico e anche ad essere suo-
nata in discoteca. È la storia di Zazà, un’affascinante traf-
ficante d’armi cubana che ha una relazione d’amore col
rivoluzionario Fidel Castro, il cui nome è stato camuffa-
to in Miguel su pressione della casa discografica, perché
non voleva avere problemi (!?) di natura politica. La can-
zone continua parlando dell’assenza del Líder máximo

: 135
cubano, impegnato «in cordigliera da mattina a sera» e
così lei, stanca di restare sola, lo tradisce. Ingelosito, Fidel
Castro «le sparò» e la bella Zazà è costretta a fuggire per
mare. Meta: la città venezuelana di Maracaibo (da cui il
titolo della canzone) dove apre un bordello, tra mulatte,
rhum e cocaina. La versione che ancora oggi passa per le
radio è ancora quella incisa in un piccolo studio di regi-
strazione, con alla chitarra Steve Hopkins, produttore dei
Bee Gees, che ha offerto volentieri la sua collaborazione
perché rapito da quell’insolito ritmo caraibico.
Il primo vero successo commerciale è senza dubbio
Figli delle stelle di Alan Sorrenti, uno dei pochi esempi di
musica disco italiana effettivamente cantata in italiano.
Pubblicato nel 1977, tra lo sgomento dei suoi fan della
prima ora, quelli che amavano (e che amano tutt’ora) il
periodo prog dei suoi primi album, esce praticamente in
contemporanea con il film La febbre del sabato sera; ha il
riff di chitarra più riconoscibile della storia della musica
italiana e un arrangiamento pop dance che gli conferisce
un successo clamoroso in un periodo in cui in Italia
vanno ancora di moda i cantautori “impegnati”. A
Sorrenti va riconosciuto un grande coraggio: manda
tutto all’aria, la ricerca musicale, le collaborazioni con
Jean-Luc Ponty, una prospettiva di successo internazio-
nale (incide per la Harvest, la stessa casa discografica dei
Pink Floyd) per seguire l’istinto che lo porta negli Usa - è

136 9
il disco più americano realizzato da un italiano a scrive-
re, produrre e incidere uno dei suoi album più fortunati.
Ed è proprio nel 1978 che si capisce che per sfondare
occorre cantare in inglese, diventare internazionali. I
primi che ci provano, e con successo, sono i fratelli La
Bionda, Carmelo e Michelangelo, che dopo un album co-
untry-acustico e aver composto per Mia Martini, se ne
vanno a Londra dove scrivono Disco Bass, che diventa la
sigla della popolarissima trasmissione sulla Rai La dome-
nica sportiva. Ai due fratelli piace molto la disco music,
tanto che creano un loro alter ego che chiamano D. D.
Sound (che sta per “disco delivery sound”). I La Bionda
sono anche tra i primi a sfondare a livello internazionale,
grazie a un groove che nulla ha da invidiare alle produ-
zioni d’oltreoceano, così verso la fine dei Settanta in tutte
le discoteche si è ballato 1,2,3,4 Gimme Some More; I
Wanna Be Your Lover; One For You, One For Me; She’s Not
a Disco Lady. Per cinque anni sfornano successi che sca-
lano le hit di mezza Europa. Poi per un po’ staccano la
spina e si dedicano alle colonne sonore. Ma come si fa la
disco di alta qualità non l’hanno scordato, la riprova è nel
1983 quando prendono sotto la loro ala protettrice i
Righeira che vede i La Bionda impegnati della produzio-
ne, scrittura, arrangiamenti di tutte le loro hit, a partire
proprio da Vamos alla playa.
Almeno agli albori sembra esserci un legame forte fra

: 137
colonne sonore e la disco all’italiana (il termine italo
disco sarà coniato più avanti). Un altro dei nomi altiso-
nanti, infatti, è Claudio Simonetti che dopo aver venduto
milioni di dischi con i Goblin grazie alle colonne sonore
dei film di Dario Argento (Profondo rosso, Phenomena,
Tenebre), nel 1978 insieme a Giancarlo Meo fonda gli
Easy Going dando vita a uno dei progetti più riusciti del
periodo.
È nei primi anni Ottanta che la disco di casa nostra
esplode in maniera definitiva. Nascono etichette e pro-
duttori pronti a cavalcare l’onda lunga della musica da di-
scoteca, ormai dilagante protagonista del mercato del vi-
nile. Tutti cominciano ad avere brani arrangiati e scritti
con la cassa in quattro o remixati, persino Tony Renis o
Bobby Solo ripropongono i loro successi anni Sessanta in
versione dance. E come accadde in occasione dell’uscita
de La febbre del sabato sera, stampa e intellettualità di si-
nistra condannano questo nuovo genere, dipingendolo
come musica dell’oppressore americano, scritta proprio
nell’idioma del colonizzatore. L’accusa principale è che
sta cancellando ogni briciola di cultura italiana e che
mantiene lo stesso ruolo delle canzonette spensierate del
periodo fascista, con l’aggravante dell’intento consumisti-
co e globalizzatore. E invece succede proprio il contrario,
cioè che il vecchio “colonizzatore”, sta per essere “colo-
nizzato”. I Kano, trio formato da Luciano Ninzatti (chi-

138 9
tarrista di Finardi e Bennato), Stefano Pulga (tastierista
di Loredana Bertè) e Matteo Bonsanto, alla fine del 1980
con I’m Ready si piazzano nella classifica black (!) dei sin-
goli statunitensi e lasciano un tassello fondamentale per
il successivo sviluppo della disco italian-style. Gli anni
successivi c’è un grande fermento creativo, si registrano
dischi dappertutto e con un alto livello di professionalità.
Il mercato risponde bene e le nostre produzioni diventa-
no hit internazionali grazie a Kasso (sempre farina del
sacco della coppia Simonetti e Meo), Cellophane Brain,
Alexander Robotnick e soprattutto a Klein & M.B.O., con
la loro Dirty Talk (1982), quest’ultima ancora oggi consi-
derata pietra miliare della musica elettronica: è stata
campionata dal rapper Timbaland per la sua Bounce, in-
clusa nelle compilation dei Pet Shop Boys e dei
Röyksopp, e rifatta pure da Miss Kittin. Intorno al 1982
scalano le classifiche internazionali le produzioni di Gary
Low (You Are A Danger), Gazebo (Masterpiece, I Like
Chopin), Via Verdi (Diamond), ‘Lectric Workers (Robot
Is Systematic), Ryan Paris (Dolce Vita) brani rigorosa-
mente cantati in inglese con un sapiente uso di sintetiz-
zatori sintomo che l’Italia, musicalmente e commercial-
mente parlando, è un passo avanti. E milioni di copie lo
certificano.
Nel 1983 Bernhard Mikulski, polacco emigrato in
Germania e titolare dell’etichetta ZYX Music, si ritrova

: 139
un magazzino pieno di musica da discoteca prodotta in
Italia e decide di pubblicare una compilation dal titolo
Best of Italo Disco, coniando di fatto questa espressione
che diventa in tutto il mondo sinonimo di musica dance
realizzata in casa nostra. Da questo momento l’Italo
Disco compie un ulteriore passo avanti, stabilizzandosi e
standardizzandosi secondo alcune caratteristiche, come -
ad esempio - un ritmo binario, suonato a velocità mode-
rata, nel quale il “levare”, rappresentato con un “clap”, è
più accentato del “battere”, che suona come un “boom”; e
una linea melodica seguita dalla voce, spesso filtrata elet-
tronicamente, che spazia seguendo il giro di basso e che
si comporta come fosse uno strumento. Il testo, ovvia-
mente in inglese, il più delle volte tratta di amori (etero)
o inneggia alla vita notturna, alla tecnologia, alle spiagge
incantevoli, all’estate. Analizzandolo sintatticamente
spesso si rischia di imbattersi in non-sense, ma a nessu-
no importa. L’Italo Disco diventa un fenomeno interna-
zionale a partire dal 1983 (soprattutto nei paesi non-an-
glofoni come Germania, Francia, Spagna, Olanda,
Polonia, Giappone) vendendo ovunque milioni di dischi,
piazzandosi in testa alle classifiche, dando persino vita
anche a tentativi stranieri di imitazione.
Le classifiche si riempiono dei vari Ken Laszlo,
Baltimora, Righeira e Sandy Marton, con i kingmaker
come Claudio Cecchetto, il patron della Baby Records

140 9
Freddy Naggiar e Mauro Malavasi, già arrangiatore di
Lucio Dalla, che contribuiscono al lancio di vari fenome-
ni da chart. In molti casi sono artisti “usa e getta”, buoni
per un solo singolo; in altri sono costruiti “in vitro” anche
perché, nella Milano da bere, l’immagine è più importan-
te del contenuto. E così in studio si dannano turnisti e
ghost singer, mentre per la copertina, i video e le ospita-
te televisive vengono chiamati modelli e ballerini di pro-
fessione.
E nel frattempo il sound italo coinvolge anche artisti
con un passato “impegnato” - come Tullio De Piscopo e
Toni Esposito - che danno quel tocco di qualità in più al
fenomeno.

: 141
142 9
IIIa PARTE

IO C’ERO

: 143
144 9
ALAN SORRENTI :

INCROCIANDO IL SOLE

Ho esordito nel 1972 con Aria, disco che per il quale


qualche critico - forse esagerando – ha utilizzato la defi-
nizione di “capolavoro del pop italiano”. Cinque anni più
tardi ho pubblicato Figli delle stelle. E gli stessi critici mi
hanno definito in tutti i modi. I più gentili?
Voltagabbana, schiavo dell’industria, traditore. Questo
perché avevo deciso di scrivere canzoni pop, di rivolger-
mi a un pubblico di massa. Che Figli delle Stelle avrebbe
segnato l’inizio della dance italiana non potevo preveder-
lo. Certo – non lo nego - a me la discoteca, proprio come
ambiente, piaceva. Il motivo è semplice: lì, a cavallo tra
gli anni Settanta e gli Ottanta, tra le luci basse e la musi-
ca alta, i ceti sociali non contavano e tutti avevano la pos-
sibilità – o forse l’illusione - di sentirsi ciò che volevano
essere, di vivere un sogno che alla luce del giorno, con
molta probabilità, non sarebbe stato possibile. Una forma
di liberazione, inconsapevole e spesso narcisistica, dopo
tanto impegno - diciamo filosofico - della generazione
precedente, dove la gente comune tornava a essere prota-
gonista.
Sono partito dalla sperimentazione e dal rock progres-
sive proprio con l’album Aria dove mi sono ispirato a Tim

: 145
Buckley per l’uso della voce (a mio avviso lui è stato per
la voce quello che Jimi Hendrix ha rappresentato per la
chitarra). Poi sono passato a una rivisitazione della can-
zone napoletana (con Dicitencello vuje) e nel 1977 sono -
forse - approdato alla discomusic con Figli delle Stelle;
dico forse perché per me non è un brano disco vero e
proprio, lo definirei piuttosto un mix tra pop e funky; la
musica che ascoltavo in quel periodo.
Queste non sono state altro che alcune tappe di un mio
percorso di ricerca artistica. A me piace cambiare, speri-
mentare, conoscere. A metà anni Settanta non sono ri-
uscito – o forse non mi andava – a uniformarmi a un
certo tipo di corrente musicale che andava in voga, non
mi sentivo di appartenere a una cerchia di anticonformi-
sti che vedevano in determinati stili cantautoriali una
forma di ribellione e libera espressione verso un sistema
sociale e politico. E così, nonostante fossi già un artista
affermato, ho mollato tutto e sono partito per un lungo
viaggio in Africa, tra il Senegal e il Marocco. Lì ho sco-
perto l’importanza che può avere il ritmo all’interno di un
brano musicale. Al mio ritorno ho inciso Sienteme… it’s
time to land, disco con un titolo che oggi suona un po’
come una dichiarazione d’intenti, così come il verso di
Alba, canzone contenuta nell’album, dove dico«Io sento
che sto cambiando». Un altro cambiamento era prossimo.
Vado a Los Angeles a conoscere da vicino la West Coast,

146 9
incontro musicisti di estrazioni completamente diversa
dalla mia, come il chitarrista Jay Graydon, allora produt-
tore di Al Jarreau, e il pianista David Foster. È con loro
che scrivo e incido Figli delle stelle che da lì a poco diven-
ta una delle bandiere della dance italiana e il titolo una
frase-simbolo dell’epoca. È uno dei brani a cui sono più
affezionato, che ancora oggi mi regala un sacco di soddi-
sfazioni, che ha estimatori anche fra le nuove generazio-
ni. Invece, per quanto riguarda i miei critici, alcuni
hanno rivisto le loro posizioni, anche alla luce dell’evolu-
zione degli stili musicali.

Come dico proprio in Figli delle stelle:

«Io non cerco di cambiarti


so che non potrò fermarti
tu per la tua strada vai
addio ragazza ciao…»

La disco ha dato vita a una serie di sperimentazioni ar-


moniche, ritmiche e di effetti: in essa vi confluiva molta
musica elettronica e - con l’avvento del Loop - ha aperto
una nuova era di programmazione della musica e di cros-
sover di stili, da cui nascerà poi la contaminazione. Oggi
guardiamo alla disco come una molecola, un gruppo san-
guigno, un’alchemica combinazione genetica, una scheg-

: 147
gia di sole, un tocco di colore che, anche se non ci faccia-
mo caso, è presente in gran parte della produzione pop
attuale.
C’erano una volta... notti infinite, albe che sembravano
tramonti, colori e suoni diventavano liquidi...

.....era Disco Time.

148 9
CLAUDIO CECCHETTO

CACCIATORI DEL NUOVO

È la discomusic la protagonista degli anni Ottanta. Gli


italiani avevano voglia, e tanta, di divertirsi, di non pen-
sare, di evadere, appunto, e senza vergognarsene, stanchi
del decennio precedente fatto d’instabilità, violenza e
paura, e forse anche delusi da quello che aveva prodotto
il cosiddetto “impegno”.
Il palcoscenico del teatro Ariston di Sanremo è sempre
stato il luogo impagabile per capire gli umori del Paese.
Sono stato chiamato a condurre l’edizione del 1980 e lì ho
capito che l’Italia chiedeva e voleva ciò che nel decennio
prima era difficile anche solo concedersi: divertirsi. Stava
prendendo il via una sorta di rivoluzione che, come tutti
i movimenti, aveva i suoi luoghi di aggregazione (le di-
scoteche), i suoi cerimonieri (i disc-jockey) e un suo cen-
tro, Milano. È all’ombra della Madonnina che nascevano
gli anni Ottanta, non per niente chiamati anni della
Milano da Bere: qui venivano fondati i grandi network
radiofonici e televisivi (qui ho fondato nell’82 la mia
Radio Deejay); qui si ascoltava la New Wave (Duran
Duran e Depeche Mode a manetta) e nasceva la nostra
“Spaghetti-dance” poi esportata in tutto il mondo; da qui
è partito il pret-à-porter, quella forma di moda allargata

: 149
alla portata di tutti; qui veniva creata la pubblicità. E,
come ogni rivoluzione, anche quella degli anni Ottanta
significava cambiamento, totale: tutto doveva essere
nuovo o, meglio, “di moda”. Ogni cosa invecchiava nel
giro di poco, pochissimo tempo: i vestiti, le auto, la mu-
sica... Tutto era “Usa e getta”, veniva creato in fretta e al-
trettanto in fretta buttato perché ci si voleva divertire…
consumando. La novità diventava la caratteristica più
ambita, più desiderata, a volte anche a scapito della qua-
lità. Avevi un’idea? Avevi anche lo spazio, la possibilità di
emergere, di farti notare. Tutti volevano cose nuove, ma
serviva chi le inventasse, chi le creasse; c’era un bisogno
senza limiti da soddisfare. Si lavorava sodo, e tanto, pro-
prio perché bisognava cogliere l’attimo, essere sempre in
sintonia con ciò che voleva la gente in quel preciso mo-
mento, muovendosi tra una concorrenza infinita e im-
prevedibile. Si potevano guadagnare molti soldi, è vero,
ma si rischiava anche parecchio, coltivando forse quella
che era un’illusione: l’idea che le “aziende elefante” doves-
sero essere spazzate via e che l’economia dovesse basarsi
su piccole società, snelle, agili, e su imprenditori creativi.
Credo che questo rinnovamento velocissimo sia stato
il bello degli anni Ottanta. Ai posti di comando arrivava-
no i trentenni, facce nuove che occupavano i vertici nelle
radio, nelle televisioni, nella discografia, nelle agenzie di
pubblicità, nella moda (nella politica no perché di quella,

150 9
allora, non fregava niente a nessuno). E l’Italia, “guidata”
finalmente dai giovani si toglieva l’abito grigio per indos-
sarne uno più colorato, più internazionale, magari scim-
miottando un po’ inglesi e americani, ma sicuramente
adottando un proprio e ben definito stile. L’Italia cam-
biava, e lo faceva divertendosi. Soprattutto ballando.

: 151
LA BIONDA

SIAMO DEI TARANTELLARI

Nei primi anni Settanta, dopo una lunga gavetta, ap-


prodiamo al nostro primo album. È il 1972, nel panora-
ma musicale italiano trionfa la rima “cuore-amore”; a
Sanremo vincono i melodici e gli urlatori; il rock e il pop
sono ancora musica per cantinari (i gruppi che suonano
in cantina). Noi usciamo con un disco curatissimo, rea-
lizzato per metà a Londra e per metà a Milano, e dove
hanno suonato signori musicisti. Il genere è un cantauto-
rale misto a country misto acustico. Insomma, una cosa
che non c’entra niente con la musica che va in quel pe-
riodo. E infatti le vendite sono misere. Così misere che la
nostra casa discografica non ci dà una seconda chance e
dopo un altro 45 giri ci saluta. L’Italia è nel bel mezzo
degli Anni di Piombo, e riesci strappare un contratto dis-
cografico solo se fai canzoni “impegnate”; se fai “prog” o
se sei un “romantico”. Noi non facevamo nessuno di que-
sti generi e così ce ne andiamo a Londra, dove avevamo
lasciato degli amici. Lì, a spese nostre, registriamo un se-
condo album, lo facciamo negli Apple Studios dei
Beatles, con il loro sound engineer, Phil McDonald, e il
loro pianista, Nicky Hopkins. Per poterlo fare ci siamo
venduti qualsiasi cosa potevamo vendere. Poi abbiamo

152 9
avuto tre incontri fondamentali. Il primo è un amico, che
pochi mesi dopo il nostro arrivo a Londra ci parla di una
ragazza che frequenta artisti, che è amica di tutte le rock-
star, che vuole sfondare nella musica «che va di moda» e
ci chiede di darle una mano. È Amanda Lear. La musica
«che va di moda – dice l’amico – è la disco. Scrivete qual-
cosa per lei». La disco c’è sempre piaciuta per due motivi:
è popolare e ha ritmo. E per noi, che veniamo dalla Sicilia
e che abbiamo la tarantella nelle vene, sono fondamenta-
li. Ci mettiamo al lavoro, scriviamo e seguiamo in sala il
lavoro di Amanda. Il disco, un singolo, è così così. Con
mio fratello ci guardiamo negli occhi e capiamo che per
fare bene la musica disco bisogna studiare, andare a im-
parare dove la sanno fare. Così ci trasferiamo a Monaco
di Baviera, dove lavoravano Giorgio Moroder e Donna
Summer, dove Amanda incide Tomorrow, uno dei suoi
più grandi successi e, soprattutto, dove noi riusciamo a
carpire i segreti per fare una discomusic di qualità. E da
quel momento, la nostra carriera ha svoltato. E la nuova
svolta ha coinciso con il secondo incontro: Freddy
Naggiar, discografico della Baby Records, quella che di-
venterà la nostra casa, ahimè non solo discografica. Lui ci
lascia mano libera e noi iniziamo a scrivere musica e a
produrre dischi come vogliamo. Il primo è Disco Bass,
che ha subito successo aiutato anche dal fatto che viene
scelto come sigla della Domenica Sportiva, la prima edi-

: 153
zione a colori. È il 1977 la disco in Italia comincia ad
avere parecchi estimatori. Noi, però, non ci muoviamo da
Monaco e da lì inizia una superproduzione di dischi - alla
media di due album all’anno, uno firmato D.D. Sound,
uno come La Bionda - che entrano subito in classifica e
fanno ballare la gente: 1, 2, 3, 4 Gimme Some More; She’s
Not a Disco Lady; One For You, One for Me; Café; There
for me; Bandido; Disco Roller; I Wanna be Your Love e -
fortunatamente - tanti altri. Fino a Boxes. È il 1981 quan-
do ci accorgiamo di essere stati chiusi in sala di incisione
praticamente per cinque anni. Siamo stanchi e ci pren-
diamo una pausa. Pausa per modo di dire, perché scri-
viamo sempre colonne sonore, per qualche film di Bud
Spencer & Terence Hill, e jingle pubblicitari, tra i quali
quello del settimanale Sorrisi & Canzoni TV.
Ma nell’82 ecco il terzo incontro: ci presentano una
coppia di giovani che vogliono fare musica, si fanno chia-
mare Righeira. I due ci fanno sentire un brano già pron-
to, scritto da uno di loro (Johnson Righeira) e cantato in
spagnolo, Vamos alla playa. L’idea sembra buona, però va
fatto qualche ritocco. I ritocchi sono parecchi – pratica-
mente è stata riscritta la parte musicale – e durano 6
mesi, questo per rispondere a chi sostiene che la disco sia
un genere “facile”, per dilettanti, che può essere fatta da
chiunque. Sei mesi investiti bene, perché il brano è stato
un tormentone e ha venduto tantissimo.

154 9
Ci hanno definito Re Mida della discomusic;
Ambasciatori dell’Italo Disco; Signori delle discoteche;
Pifferai dei discotecomani… Niente di tutto questo,
siamo e restiamo musicisti a cui piace la musica popola-
re, che ha ritmo, che fa ballare la gente. Forse per questo
che non siamo mai stati considerati di “Serie A” dalla
stampa che conta e dai critici. Ma noi siamo riusciti lo
stesso ad avere attestati di stima, anche in tempi recenti.
L’ultimo risale al 2014, quando, intervistato da Fabio
Fazio al Festival di Sanremo, Paolo Nutini si è detto un
nostro estimatore. «Addirittura?» ha risposto il presenta-
tore. Sì, Fazio, addirittura.

: 155
GAZEBO

CI SENTIVAMO UNDERGROUND. FORSE LO


ERAVAMO DAVVERO

Imparo a suonare la chitarra a 10 anni, esclusivamente


per far colpo su una coetanea, mia compagna di classe. E
così, per gioco, inizio a conoscere e apprezzare i grandi
dell’epoca, i Beatles e Dylan per primi, più avanti quelli
del rock e della musica tradizionale anglo-americana.
Poi, con gli anni, mi sposto più verso l’elettronica, la new
wave, in particolare quella che - alla fine degli anni
Settanta - sta nascendo dalle ceneri del punk e del post
punk. L’arrivo delle nuove tecnologie – come le batterie
elettroniche e i sintetizzatori - facilita, e di molto, noi gio-
vani nella produzione di arrangiamenti e sonorità diver-
se. La svolta verso una musica più dance c’è però dopo
l’incontro con Paul Micioni, dj dell’Easy Going di Roma,
e Pierluigi Giombini, mio amico da sempre col quale da
adolescente suonavo musica progressive. Un giorno con
Giombini inizio a lavorare su una strofa che aveva scritto
e, tra un esperimento e un aggiustamento, nasce
Masterpiece. Micioni, invece, è stato fondamentale per la
mia carriera perché oltre a essere il primo ad aver credu-
to in me - l’unico disposto a produrmi - è stato anche l’ar-
tefice della svolta in chiave dance di Masterpiece. Da quel

156 9
momento in poi tutti pensano che possa aver dormito
sonni tranquilli, e invece per niente: perché il mio unico
obiettivo era quello di bissare il successo di Masterpiece e
mai, dico mai, avrei potuto immaginare che potesse acca-
dere. E invece I Like Chopin nel 1983 (con l’ingresso di
Freddy Naggiar della Baby Records in qualità di produt-
tore) è stato il singolo più venduto in Europa.
Era un altro mondo, si guardava poco la tv, si ascolta-
vano molto le radio, i video musicali stavano nascendo, si
andava tanto in discoteca e si compravano dischi in vini-
le con il sorriso negli occhi. Ci sentivamo un po’ under-
ground, perché eravamo fuori dai giochi della grande
discografia, non registravamo in grandi studi e firmava-
no contratti - almeno all’inizio - per piccole etichette. I
nostri dischi erano distribuiti direttamente dai grossisti,
gente che sapeva fare il proprio lavoro, perché frequenta-
va le discoteche e capiva qual era il trend: le mode musi-
cali sulla pista passavano veloci, troppo per le case disco-
grafiche, lente a decidere come burocrati di Stato.
Eppure alla Italo Disco (che ha fatturato miliardi con
milioni di dischi venduti in tutto il mondo) non è mai
stato - e probabilmente mai lo sarà – riconosciuto il do-
vuto rispetto; magari un giorno arriverà un big dagli Stati
Uniti che rifarà qualche brano e l’Italo Disco diventerà un
genere cult, un po’ quello che è successo con gli spaghet-
ti western grazie a Quentin Tarantino. Ma i primi a snob-

: 157
barla - a parte i critici, non ne ho mai visto uno entrare in
una discoteca - sono proprio quelli del settore, quei can-
tanti, musicisti, arrangiatori, produttori blasonati, che ve-
nivano dal rock, dalla musica cosiddetta “colta” e “impe-
gnata”, che all’epoca hanno guadagnato diversi milioni di
lire - e qualche soldo grazie ai diritti Siae gli arriva anco-
ra - e che se ne sono sempre vergognati.
Oggi la dance può produrla chiunque ed è diventata
funzionale a ciò che i giovani vogliono ballare in discote-
ca. Gli idoli sono i grandi dj (meglio se francesi o olan-
desi) che prendono centinaia di migliaia di euro per far
finta di “suonare” il loro set con Tracktor.
È un’altra cosa, è un’altra musica.

158 9
CHRISTINA MOSER (KRISMA)

IO COME LA CALLAS

I Krisma in Italia sono stati sempre visti come “anticipa-


tori”, “precursori” di movimenti e stili musicali. Lo hanno
detto gli addetti ai lavori, i critici, i discografici. Tre le tante
anticipazioni che ci hanno attribuito, c’è anche quella di
aver suonato per primi la musica disco. E sia.
Si parla di Amore e U due canzoni scritte nei primi mesi
del 1976 che hanno celebrato il debutto dei Chrisma (allo-
ra ancora col Ch). All’epoca io e Maurizio vivevamo a
Londra, stavamo insieme da quasi dieci anni. Lui era stufo
di scrivere e cantare come “Maurizio”, quello di 5 minuti e
poi…, delle canzoni d’amore, dei fotoromanzi: aveva voglia
di qualcosa di nuovo. Così, grazie anche alla spinta dell’a-
mico Nico Papathanassiou (direttore artistico della
Polydor italiana, ma con il fratello Vangelis in Polygram
Londra) si decide di fare qualcosa insieme, di formare un
gruppo che sperimentasse nuove forme di musica e che
fosse sempre impegnato nella ricerca artistica. Amore e U
vengono registrate quasi contemporaneamente a Londra,
la musica di Amore è scritta da Vangelis, le percussioni
sono suonate dagli Osibisa; U piace tantissimo a Demis
Russos, che la vuole incidere per primo.
Con la casa discografica si prepara il nostro debutto.

: 159
Sarà in occasione della finale del Festivalbar all’Arena di
Verona del 76. Veniamo invitati come ospiti insieme ai
Pooh, Riccardo Cocciante, Drupi e Patti Pravo: per un
gruppo esordiente una discreta compagnia. Maurizio era
abituato ai palcoscenici e alle folle oceaniche, io proprio
per niente. Debuttare all’Arena mi faceva sentire un po’
come Maria Callas.
Prepariamo l’esibizione: il balletto, i musicisti che ci
accompagnano – con noi sul palco c’erano almeno una
quindicina di persone che avevamo ingaggiato per l’occa-
sione alla base Usa di Aviano, era troppo grande il palco
dell’Arena solo per noi due – i costumi: Maurizio decide
di presentarsi a torso nudo con le bretelle di paillettes; io
con un abito confezionato da Pia Rame, nero lungo fino
alle caviglie, con uno spacco che lasciava scoperto un
fianco.
Ecco, il vestito.
Essendo lo spacco del vestito aperto fino al fianco,
quella sera – evidentemente – non indossavo le mutandi-
ne. Apriti cielo! L’esibizione è andata bene, il pubblico ha
applaudito a lungo (voglio sperare per la canzone) ma il
giorno dopo i giornali titolavano «Ha cantato senza mu-
tande», cosa assai più importante persino del vincitore di
quell’edizione, Gianni Bella. Il vescovo di Verona
Giuseppe Carraro, il sindaco Renato Gozzi, consiglieri,
politici, amministratori insorgono e chiedono che la Rai

160 9
non mandi in onda quell’esibizione scandalosa! La Rai,
invece, resiste alle pressioni e se ne frega e una settimana
dopo trasmette la serata finale, Chrisma compresi.
Negli anni abbiamo visto artisti che per avere un mi-
nimo di attenzione e qualche titolo di giornale hanno
fatto qualsiasi cosa. All’epoca ero ingenua – era anche il
mio debutto nel mondo artistico – e non ero certo in
cerca di pubblicità gratuita. Sta di fatto che quell’episodio
ha lasciato un segno indelebile nella carriera dei
Chrisma: abbiamo capito che in Italia non gliene fregava
niente a nessuno della ricerca musicale, della canzone,
degli arrangiamenti sofisticati, di Vangelis, degli
Osibisa… …tutto passato in secondo piano dal fatto che
io ero senza mutande. Volevano trasformarmi in un sexy
symbol. Io? Io che mi vedevo troppo grassa, col seno
troppo grosso, troppo bionda, insomma, non mi piacevo,
non ero sicura di me e della mia immagine.
Abbiamo subito deciso di abbandonare definitivamen-
te l’Italia “artistica”, di lavorare solo all’estero, con profes-
sionisti stranieri, e di cantare in inglese.
È così che noi la musica disco forse - e sottolineo forse
- l’abbiamo sfiorata: nel 1977, quando scoppiò la Febbre
del sabato sera, cantavamo Lola; un brano che è lontano
anni luce da ciò quello che poteva essere e rappresentare
la discomusic, così come gli altri contenuti in Chinese
Restaurant, l’album pubblicato quell’anno. Amore e U,

: 161
successivamente etichettati come esempi di sexy sound
sulla scia di Love to Love You Baby di Donna Summer e
affini, restano episodi isolati, molto distanti dalle nostre
produzioni successive, ma mai rinnegati, perché fanno
parte della nostra storia.

162 9
JOHNSON RIGHEIRA

UN COLPO DI GENIO MADE IN ITALY

Ai tempi del liceo ero uno spirito punk, lavoravo in


una radio privata e curavo la fanzine “Sewer/La Fogna”.
Ero affascinato soprattutto dalla filosofia del punk che ri-
portava ai minimi termini il rock dopo l’orgia del prog
degli anni precedenti. E così, quando ho cominciato a
suonare, anch’io avevo in mente di rifondare il rock ita-
liano ritornando alle origini. E le origini in Italia signifi-
cano una cosa sola: i primi anni 60, l’epoca pre-beat,
stretti tra la fine del rock’n’roll, il twist e la nostra melo-
dia. E per farlo avevo delle linee guida: le summer songs
che furoreggiavano in quel periodo, figlie dell’ottimismo
nato con il miracolo italiano e delle prime vacanze di
massa mai vissute nel nostro Paese. Canzoni come
Abbronzatissima; Pinne, fucile e occhiali; Stessa spiaggia
stesso mare; Legata a un granello di sabbia definiscono
un’epoca e un immaginario dell’euforia italica degli anni
del boom che nei primi anni Ottanta sembrava tornata
d’attualità. Il primo disco – un 45 giri - l’ho inciso assie-
me con la collaborazione degli Skiantos, le canzoni erano
Bianca Surf e, sul lato B, Photoni, che assieme ad un’altra
manciata di canzoni suonavo nei locali underground di
Torino. Il palco mi sembrava difficile da gestire da solo, e

: 163
così ho chiamato il mio amico Stefano Rota a tenermi
compagnia. I Righeira sono nati così. Mi esibivo già come
Righeira, un soprannome che mi hanno affibiato quando
giocavo a calcio. Johnson l’ho aggiunto io perché faceva
più internazionale. Vamos alla playa è nata nell’82 in una
cantina, dove io e i miei amici ci riunivamo a fare musi-
ca. Ovvio, la prima stesura era molto più dark con una
struttura techno, secondo la moda di quegli anni, ma si
sentono comunque la semplicità e l’immediatezza tipiche
delle canzoni balneari degli anni Sessanta. Poi i La
Bionda hanno messo le mani nella musica e negli arran-
giamenti, e il resto è storia.
Abbiamo inciso il disco e siamo partiti per il servizio
militare. Mentre Vamos a la playa svettava in classifica e
ci cambiava la vita noi avevamo a che fare con marce e
contrappelli, adunate e licenze. Mi sono accorto che ero
diventato una star quando ho cercato di imboscarmi per
ottenere un’ennesima licenza perché dovevamo parteci-
pare alla finale del Festivalbar. Mi fingo in preda alla de-
pressione e chiedo una visita specialistica: davanti a me
tre graduati militari e uno psichiatra. Racconto un sacco
di storie e – ovviamente – non sono creduto. Mi dicono
di tornare in caserma. Così esco dalla stanza e resto a fis-
sare una finestra, nella speranza di farmi venire un’altra
idea. Poco dopo esce lo psichiatra. Mi avvicino e gli chie-
do: «Scusi, lei la conosce la canzone Vamos alla playa?».

164 9
«Certo. E chi non la conosce?» e comincia a canticchiar-
la. «Bene - dico - io sono quello che la canta» e racconto
il motivo della mia richiesta di licenza. «Aspetti un atti-
mo» mi dice. Rientra nella stanza. Passano tre minuti e
mi sento chiamare «Soldato Righi Stefano». Entro. I tre
militari sorridono amabilmente e ottengo la bellezza di
20 giorni.
Una delle canzoni a cui sono più affezionato è L’estate
sta finendo, metafora di un’epoca: il momento magico
degli anni Ottanta, quello dei sogni e delle speranze è fi-
nito e stanno arrivando i tempi bui, il tutto accompagna-
to da un sound diverso dal nostro solito, più malinconi-
co. Non tutti l’hanno capita. I critici in primis non hanno
mai dedicato nemmeno un minuto a leggere i testi dei
nostri brani; e siamo sempre stati etichettati come espo-
nenti del non-sense, dell’idiozia musicale. L’Italo Disco -
genere troppo spesso denigrato, criticato, considerato di
serie B - è stato l’unico momento di nostra originalità.
C’era la tecnologia che si sposava con la melodia tipica
italiana. E poi, sia chiaro, non mai è stata venduta tanta
musica italiana all’estero come in quel periodo. Noi stessi
abbiamo venduto milioni di dischi.
Credo, almeno artisticamente parlando, di essere stato
sempre coerente, ho sempre inseguito lo stesso obiettivo:
cambiare il rock ripartendo dall’inizio, dalle nostre origi-
ni musicali, in primis dalle canzoni balneari. E mi piace-

: 165
rebbe che L’estate sta finendo diventasse un pezzo di culto
raffinato come Odio l’estate di Bruno Martino.
Oggi due tipi come i Righeira non riuscirebbero mai a
imporsi in un talent show. Adesso è tutto più impostato,
si punta molto sulla tecnica. Noi - che sapevamo cantare
a malapena - ci siamo buttati nella musica con passione e
incoscienza: forse negli anni Ottanta si poteva, ora non
più. L’enorme successo è stato un piacevole incidente, ma
si va avanti e sto diventando grande. Anche se ancora
non mi va.

166 9
SIMONA ZANINI (MARTINELLI)

LA RIVINCITA DELLE CENERENTOLE

È stata forse un’anteprima di questa nuova era media-


tica in cui viviamo, dove il fruitore non è solo spettatore,
ma diventa protagonista dell’evento, con tutti i pro e con-
tro del caso.
È stata la rivincita delle Cenerentole: il musicista po-
teva finalmente farsi sentire senza “appoggi” particolari,
il deejay diventava selezionatore, il grossista da distribu-
tore si trasformava in piccola casa discografica, l’eserci-
to di frequentatori delle discoteche sanciva la voga del
momento e si effigeva del nome locale di successo,
“quelli del...” .
Non c’era più da sfondare l’inaccessibile giuria dei di-
rettori artistici delle grosse compagnie per dare il via ad
un progetto. Si stampavano i dischi dai grossisti, veniva-
no ascoltati e scelti nei loro magazzini dai deejay e testa-
ti nei locali. Il contatto diretto col pubblico permetteva di
monitorarne la temperatura e curarne gli umori con ra-
pidità e flessibilità e in pochi anni si produssero e balla-
rono migliaia di musiche nuove, piene di fantasie, anche
surreali. Diverse, perché non erano obbligate a stare nel
solco dettato dalle grandi case discografiche, solo nel
solco del 33 giri.

: 167
Ma l’assenza di regole e gerarchie organizzative ha
scolpito il rovescio della medaglia. Il prezioso potenziale
creatosi è stato interpretato come un facile lasciapassare
per il successo. Il fiume di ricchezza ha fatto girare la
testa a molti che lo hanno fatto evaporare. Il caos di pro-
duzioni non aiutava i creativi, che già poco si occupano
delle cose pratiche, a proteggersi.
In Italia il musicista spesso non è considerato un vero
professionista come nei paesi anglosassoni e finisce col sub-
ire il riflesso di questo rispetto mancato. Non si tutela e
spesso è vittima della propria umiltà. Ci si considerava già
baciati dalla fortuna a poter sentire le proprie creazioni alla
radio e vederle salire nelle hit parade del mondo. E molti
scaltri si sono autoproclamati come fautori di quella fortu-
na e ne hanno approfittato immeritevolmente.
Si rincorrevano i pezzi mentre salivano in classifica, bi-
sognava trovare una figura professionale rappresentativa
per le licenze contrattuali perché si pensava di non esserne
all’altezza, bisognava fornire un’immagine per le richieste
degli eventi televisivi e di spettacolo. Ma gli stessi team crea-
tivi erano usciti con parecchi nomi d’arte diversi e allora si
chiedeva alle agenzie di modelli di fornire ragazze o ragaz-
zi “immagine”, mimi, per ciascuno di quei nomi. Tanto c’era
il play-back. Ma dietro di loro veri compositori, autori, mu-
sicisti e cantanti, un ristretto popolo di ghost-singers e
ghost-musicians con tanti nomi d’arte e volti diversi, ma un

168 9
talento unico. Li ritroviamo, e nemmeno sempre, nelle note
di copertina dei dischi: piccole scritte per una grande so-
stanza.
È stato quindi un terreno fertilissimo per i furbacchioni,
quelle sorellastre di Cenerentola convocate a palazzo, quel-
li che s’inventano i contratti, quelli che fanno fallire le eti-
chette e rispuntano altrove, quelli che te lo raccontano loro
come va interpretato il diritto d’autore e dell’interprete,
quelli che firmano i pezzi senza saper suonare una nota solo
per farteli pubblicare, quelli che copiano. E non ultimi,
quelli che finiscono col pensare di essere veri artisti ma che
devono tenere il microfono sempre chiuso.
Le copertine che si credevano disco alla fine sono rima-
ste solo copertine vuote.
Ma questa specie di brodo primordiale, anzi, questo asilo
senza cancelli di bambini “dentro”, di talenti e fantocci, one-
sti e imbroglioni, creò comunque, malgrado il sopracciglio
alzato di molti qui in patria, un genere musicale Made in
Italy da esportazione, un ritmo che faceva ballare senza
stordire, una melodia non semplicemente facile, bensì feli-
ce, che toccava le corde delle persone senza far banale leva
sulla malinconia o sulla tragedia per rendersi interessante.
Un genere che il tempo in trent’anni ha premiato come
sempreverde e ora viene rivissuta anche dalle nuove gene-
razioni come un cult.
Le immagini sbiadiscono, la musica no.

: 169
ROBERTO TURATTI

SOTTO I CESSI, I SUCCESSI

Un periodo d’oro, unico, irripetibile, per un milione di


motivi. Il primo è che ci si divertiva lavorando. Poi, si era
tutti amici (almeno per i primi anni), si guadagnavano
dei bei soldi e c’era lo spazio per mettere in pratica le idee.
Riuscivi a dare alla gente ciò che la gente voleva: divertir-
si. E basta. Si usciva da un decennio troppo pesante, di
piombo, grigio: e noi più che produrre dischi produceva-
mo colori. Tutti - o quasi - i produttori dell’Italo Disco
hanno iniziato per hobby: nella vita facevano un altro la-
voro. Io, per esempio, ero impiegato alla Provincia di
Milano ma di sera facevo il light-jay in una discoteca mi-
lanese. Alla consolle c’era Miki, che poi diventerà l’altra
metà della premiata ditta Turatti & Chieregato. Una ditta
che in cinque anni è riuscita a sfornare successi interna-
zionali a ripetizione. E solo grazie alle nostre idee: Miki
componeva le melodie alle tastiere, io le ritmiche alla bat-
teria (che ho suonato nella prima formazione dei Decibel
con Enrico Ruggeri). Tutto questo veniva fatto in uno
studio che avevamo allestito sotto il negozio di sanitari
del papà di Chieregato tanto che sulla porta avevamo
scritto “Sotto i cessi, i successi”.
Il nostro primo disco è To Meet Me per Den Harrow,

170 9
scritto con Enrico Ruggeri e Luigi Schiavone. Eravamo il-
lustri sconosciuti e se non fosse stato per Severo
Lombardoni, forse lo saremmo stati ancora. Severo, ex
grossista di dischi che aveva aperto una sua etichetta, la
Disco Magic, è stato il padre dell’Italo Disco: lui prende-
va tutte le produzioni, scommetteva al buio. E quasi tutte
vendevano. Vendevano anche perché all’epoca s’era for-
mato un “buco” produttivo clamoroso. Dagli Stati Uniti
non arrivava più nulla di nuovo, il rock era in crisi crea-
tiva, il prog era scomparso, i cantautori e la musica “im-
pegnata” erano passati di moda. Le novità erano solo gli
Spandau Ballett e i Duran Duran. Così, quel “vuoto” dis-
cografico è stato occupato dai noi dell’Italo Disco: dj e
tecnici radiofonici che, con l’aiuto di turnisti di sala d’in-
cisione, realizzavano musica esclusivamente per ballare e
divertirsi. Detto così sembra sia stato un gioco da ragaz-
zi, tutt’altro: non è stato affatto semplice. Nessuno aveva
alle spalle capitali da spendere o case discografiche che
investivano in promozione e gli artisti - soprattutto per le
prime uscite - erano totalmente sconosciuti. Anzi, in al-
cuni casi non esistevano nemmeno (nei nostri dischi
hanno cantato tutti, da vecchie stelle del rock nostrano al
baritono della Scala). A volte ci è andata bene, a volte
male, a volte benissimo. Ma noi non eravamo “discogra-
fici di professione”, eravamo solo dei giovani con la pas-
sione della musica che facevano musica per il piacere di

: 171
farlo. Sì, abbiamo guadagnato dei soldi, anche tanti, ma
sicuramente meno di quelli che ci spettavano. Noi pren-
devamo quello che i discografici decidevano di darci. E a
noi andava bene, perché non eravamo consci del “mecca-
nismo” economico che c’è dietro un disco, e forse non ci
interessava nemmeno esserlo.
A volte loro sbagliavano a giudicare le nostre proposte
e noi a puntare su una determinata versione, solo che in
quel caso chi aveva ragione e chi torto lo decretava la
gente e numero di copie vendute. A me e a Chieregato è
stata sbattuta la porta in faccia quando abbiamo proposto
Mad Desire; così come avevamo sbagliato noi a capire la
versione di Future Brain: i nostri favori andavano verso
quella “disco”, mentre è stata preferita quella con l’inizio
“lento”, più d’atmosfera, sicuramente più pop, che è stata
un successo internazionale.
Poi, alla fine degli Ottanta è arrivata l’house e la musica
è cambiata, in tutti i sensi. Ma nessun rimpianto. E poi, chi
l’ha detto che quella musica non si debba più ascoltare?

172 9
: 173
174 9
IVa PARTE

DISCO & STARS

: 175
Barry White, “The King of discomusic”: tra il 1973 e il 1979 scrive e
produce sedici album che vendono milioni di copie del mondo

176 9
PLAY LIST

Tra grandi cantanti, meteore, onesti professionisti e di-


lettanti, il mondo artistico della discomusic e dell’Italo
Disco è una vera jungla. Ecco alcuni dei protagonisti che
hanno lasciato il segno con i loro successi.

Barry White (e Love Unlimited e Love Unlimited


Orchestra) Una discografia infinita, un marchio di fab-
brica disco più popolare del primo periodo. A lui si deve
la canzone che ha aperto ufficialmente la stagione: Love’s
Theme. Impossibile scegliere la migliore tra le decine di
successi che ha scritto, complice anche una certa ripeti-
tività che rende spesso difficile distinguere una hit dal-
l’altra, tra le quali ricordiamo I’m ‘m Gonna Love You Just
a Little More Baby e Never, Never Gonna Give You Up
(1973); Can’t Get Enough of Your Love, Baby; You’re The
First, The Last, My Everything; Satin Soul (1974); What
Am I Gonna Do With You (1975); My Sweet Summer
Suite; Let the Music Play (1976); You See the Trouble With
Me (1976) Your Sweetness is My Weakness (1978). L’altra
caratteristica riguarda la lunghezza dei titoli delle canzo-
ni. È stato l’indiscusso King of Disco.

: 177
Donna Summer Personalità carismatica, brillante e
complessa, il sodalizio tra lei, Giorgio Moroder e Pete
Bellotte ha fatto nascere album che hanno fatto la storia.
Esplode nel 1975 con Love to Love You Baby, che grazie a
un’interpretazione sensuale ed erotica, la incorona regina
della disco dance. Tra il 1975 e il 1979 pubblica 8 album,
una cadenza di quasi due all’anno. I Feel Love resta una
delle canzoni disco più belle in assoluto.

Giorgio Moroder È forse il più importante produttore


disco europeo, il cui impatto non è stato ancora valutato
appieno. Insieme alle produzioni per Donna Summer, nel
1977 scrive From Here To Eternity, che porta al successo
lui stesso. È riconosciuto che la disco elettronica nasce
con lui.

Chic Un “marchio di fabbrica”, sia in termini di suc-


cesso sia di influenza grazie al suono della chitarra di
Nile Rodgers, tra i più riconoscibili e caratteristici del pe-
riodo. Tar le hit: Dance Dance Dance; Everybody Dance;
Le Freak; Good Times.

Cerrone Uno dei nomi chiave della discomusic, che


trova il successo nel 1976 cavalcando il filone disco-ero-
tico inaugurato da Donna Summer con Love In C Minor,
una suite lunga una facciata. Successo bissato con

178 9
Cerrone’s Paradise e Supernature, dove abbandona violini
e trombe per avvicinarsi alla musica elettronica stile
Moroder.

Sister Sladge Quattro sorelle che grazie alla regia di


Nile Rodgers hanno riempito le piste da ballo di mezzo
mondo. Nel 1979 escono a raffica le hit We Are Family,
Lost In Music e He’s the Greatest Dancer, con l’omaggio a
Elio Fiorucci.

Peoples’s Choice La prima band che ha avuto il corag-


gio di mischiare la musica funky - sono tra i primi espo-
nenti del Philly Sound - con la disco. La loro gemma Do
It Any Way You Wanna, con fiati e basso in gran spolve-
ro.

Indeep Non poteva che essere scritta da un gruppo di


New York una delle canzoni simbolo del periodo disco:
Last Night A D.J. Saved My Life. Batteria col tempo 4/4,
giro di basso inconfondibile e due voci femminili da bri-
vidi, è uno dei primi esempi di hip hop.

Kraftwerk Minimalismo e grandi melodie, ritmi ro-


botici, voci distorte: grazie alle loro composizioni (Trans
Europe Express; Autobhan; The Robots) dalla seconda
metà degli anni Settanta sono stati aperti nuove strade

: 179
nella musica disco, con scenari e ambienti che prima non
esistevano.

Diana Ross La signora del soul che nel 1976 si cimen-


ta con la disco con Love Hangover che arriva prima nella
Billboard Hot 100. La canzone è stata incisa in due diver-
se versioni: quella da discoteca dura 7’50” ed è divisa in
tre parti, tre minuti di introduzione lenta, poi dopo tre
colpi di archetto di violino inizia la parte più propria-
mente disco, strumentale, con percussioni e basso in evi-
denza, segue la parte finale in cui canta e sussurra.
Sempre quell’anno la rivista Billboard la nomina la “più
grande artista femminile del XX secolo”.

Village People Testi ironici, ritornelli da canticchiare


sotto la doccia: così ancora oggi brani come Macho Man;
Ymca; In The Navy riescono a riempire le piste. A loro va
data la palma del gruppo più ironico di tutto il movi-
mento disco: da omosessuali erano i primi a prendersi in
giro con un look eccessivo.

Gloria Gaynor È la prima a ricevere il titolo di disco


queen, nel 1975 dopo i successi di Never Can Say
Goodbye (cover di un brano del 1971 dei Jackson 5);
Reach Out (I’ll be there) e Honey Bee. Poi, quando sem-
brava destinata al viale del tramonto, ecco il colpo di

180 9
coda: I Will Survive, un hit stratosferico e una sorta di jin-
gle per la comunità gay.

KC & The Sunshine Band Sono gli ambasciatori del


“Miami sound”. Harry Wayne Casey, detto K.C., e
Richard Finch creano il gruppo nel 1973 con l’idea di
fondere la musica del carnevale delle Bahamas, i ritmi
africani e i classici ritmi rhythm & blues. Diventano tra i
dominatori della musica disco e la prima band, dopo i
Beatles, a raggiungere in un anno il primo posto della
Billboard Chart con quattro singoli diversi. Get Down
Tonight; That’s the Way I Like It; (Shake Shake Shake)
Shake Your Booty e I’m Your Boogie Man. E poi sono ri-
cordati anche per Please Don’t Go, lento di successo in un
periodo storico in cui erano praticamente banditi.

MFSB Una sera del 1974 al Gallery Nicky Siano suona


un brano dal sapore vagamente jazz con un’orchestrazio-
ne ricca, dinamica, un basso avvolgente. A un certo
punto il rumore di un jet si sovrappone al pezzo e sale
d’intensità, annunciando il brano successivo.
L’entusiasmo è alle stelle, il pubblico urla e comincia a sal-
tare, il pavimento trema, la serata raggiunge il suo apice.
Il brano è Love is a Message dei MFSB (Mother, father, si-
ster & brother) di Philadelphia, una delle canzoni che se-
gnano la nascita della disco come genere musicale.

: 181
Qualcuno lo definisce addirittura l’inno di New York.
Sempre di quell’anno incidono Tsop (The Sound of
Philadelphia), dove il gruppo smussa le parti più dure del
funky a favore di suoni levigati e dolci, atmosfera morbi-
da, fiati e archi, cori femminili. Successo enorme.

Silver Convention Anticipatrici del Munich Sound


con due brani Fly Robin Fly e Get Up and Boogie presso-
ché identici, dove il tema musicale, se così si può chia-
mare, è esaurito nel primo minuto. Nonostante questo le
due canzoni hanno avuto un successo incredibile (nume-
ro uno e numero due, rispettivamente nella classifica di
Billboard) tra il 1975 e il 1976.

Van McCoy Scrive The Hustle scopiazzandolo da un


ballo di gruppo nei bassifondi di New York e diventa,
contro ogni logica (il brano abbastanza noioso e nemme-
no “disco”) una pietra miliare nella storia del costume
negli Stati Uniti e un enorme successo in tutto il mondo.

Labelle Nel 1975 l’invito proposto da Patti Labelle


contenuto in Lady Marmalade «Voulez-vous coucher
avec-moi?» - che sfrutta il momento storico della cre-
scente disinibizione sessuale amplificata dal ritmo della
musica disco - rimbalza in tutte le discoteche del mondo.
È stata riproposta diverse volte, la più recente a quattro

182 9
voci, tra cui Christina Aguilera e Pink, per il film Moulin
Rouge.

Bee Gees Nati nel 1958 i fratelli Barry, Robin e


Maurice Gibb, originari dell’Isola di Mann, iniziano a ot-
tenere i primi successi negli anni Sessanta, ma la consa-
crazione arriva nel 1977, con la colonna sonora de La feb-
bre del sabato sera, dove i loro brani - Stayin’ Alive; How
Deep Is Your Love; Night Fever e More Than A Woman -
diventano subito i più amati. Il successo prosegue nel
1979 con Spirits Having Flown, che mantiene lo stile
disco e abbandona definitivamente il pop e il primo rock.
Ma il successo per i fratelli australiani avrà due facce:
ormai sono identificati solo con l’immagine delle disco-
star assunta in quel periodo. Così la critica affila le penne
contro di loro, favorita anche dal flop clamoroso del film
Sgt Pepper’s Lonely Hearts Club Hand uscito nel 1980 e
per il quale la band realizza la colonna sonora: sui Beatles
non si scherza.

Trammps Anche loro beneficiano dall’essere stati in-


clusi nella colonna sonora di Saturday Night Fever: Disco
Inferno, dopo una timida apparizione al cinquantatreesi-
mo posto, ritorna in classifica nella primavera del 1978
sfiorando i top ten. Resta uno dei brani che meglio defi-
nisce l’era disco.

: 183
Sylvester Omosessuale dichiarato, con la sua classica
voce in falsetto diventa un nome di punta dall’estate del
1978 con You Make Me Feel (Mighty Real), seguito poi da
altre hit come Dance (Disco Heat), I (Who Have Nothing)
e Stars.

Earth, Wind & Fire Gruppo r’n’b diventano superstar


tra il 1977 e il 1979 grazie a una sequenza ininterrotta di
pezzi da ballare. Rappresentano forse il coté più raffinato
della disco, con potente sezione fiati e cori perfetti. Tra i
successi Let’s Groove; September; Fantasy; Boogie
Wonderland; Sing a Song.

Santa Esmeralda Scalano le hit di mezzo mondo nel-


l’autunno 1977 con Don’t Let Me Be Misunderstood, cover
degli Animals arrangiata con percussioni latine, chitarre
in stile flamenco. Lunghissima, dura oltre 10 minuti, si
fregia di una copertina con due splendide ragazze, poco
vestite, che in pose lascive sembrano in adorazione di
Leroy Gomez, in cantante del gruppo; poi sparito nel
nulla.

Grace Jones Icona gay , corpo stupendo, viso squadra-


to e androgino, con la sua immagine scioccante primeg-
gia allo Studio 54 di New York. Nel 1981 Pull Up To The

184 9
Bumper, tratta dall’album Nightclubbing, disco dell’anno
secondo il New Musical Express, è stata ballata nelle di-
scoteche di tutto il mondo.

Abba Con Dancing Queen spopolano in discoteca,


sebbene la canzone è quasi priva di ogni caratteristica ti-
pica del genere disco - lo è molto di più Gimme! Gimme!
Gimme! - eppure è sicuramente quello più venduto e rag-
giunge il primo posto pressoché in qualunque mercato
del mondo, tranne l’Italia. Forse da noi il pregiudizio nei
confronti degli Abba è probabilmente superiore a quello
ostentato nei confronti della musica da discoteca: chi
negli anni Settanta ascolta gli Abba o è un bambino o non
capisce niente di musica.

Andrea True Connection Ex porno star, esplode nel


1978 con More More More, successo che bissa l’anno suc-
cessivo con What’s Your Name, What’s Your Number,
brano con venature quasi rock, in cui si descrive un in-
contro tra single in un bar.

: 185
ITALODISCO

La Bionda (D.D. Sound) I signori della disco italiana.


I fratelli La Bionda, dopo un inizio stentato nel panora-
ma musicale italiano, con le sigle La Bionda e D.D.
Sound, mietono successi a raffica tra il 1977 e il 1980.
One For You, One For Me; She’s Not A Disco Lady; 1,2,3,4,
Gimme Some More; Café; I Wanna Be Your Lover sono
solo alcuni dei titoli che hanno sbancato sui mercati in-
ternazionali; facendo riconoscere l’Italo Disco nel
mondo.

Martinelli Simona Zanini e Aldo Martinelli, voce e ta-


stiere; o semplicemente Martinelli, o Doctor’s Cat, o
Moonray, o Topo & Roby… insomma, loro sono tra i
maggiori ghost artist degli anni Ottanta, un progetto ar-
tistico durato nel tempo perché non incentrato su un per-
sonaggio e non cavalcava una moda. Hanno fatto ballare
– in Italia e all’estero - con Comanchero; Cinderella; Feel
the Drive; Under the Ice, e molte altre hit.

Sabrina Salerno Una bomba sensuale e di energia,


ideata da Claudio Cecchetto, icona della donna italiana
procace: il suo décolleté era quasi sempre ripreso dall’al-

186 9
to; come dire, a favore di obiettivo). È stata una delle re-
gine della disco nostrana portando al successo Boys
(Summertime Love); My Chico; Sexy Girl che le hanno re-
galato fama anche all’estero (in Spagna e Regno Unito do-
mina le classifiche tra Michael Jackson e Madonna per
settimane) e si calcola abbia venduto oltre 20 milioni di
dischi. Mentre il video ufficiale di Boys, quello girato al-
l’interno di una piscina in bikini bianco viene censurato
da Mtv perché troppo scandaloso; in Spagna ricordano
ancora oggi la sua “generosa” esibizione su TVE nella
notte di Capodanno 1987.

Ivana Spagna Una carriera straordinaria, milioni di


dischi venduti in tutto il mondo grazie soprattutto a Call
Me e Easy Lady. Ancora oggi resta l’unica cantante italia-
na ad aver raggiunto il secondo posto nelle classifiche in-
glesi.

Gazebo Rappresenta un po’ il climax dell’Italo Disco,


dove la quantità non va a discapito della qualità.
Appartiene alla schiera di artisti che ha venduto più in as-
soluto, il solo I Like Chopin ha raggiunto le dodici milio-
ni di copie. A queste vanno aggiunte quelle di Lunatic;
Masterpiece; e altri ancora.

Ryan Paris Debutta nel 1983 con Dolce Vita, che

: 187
vende oltre cinque milioni di copie. Il brano diventa un
po’ l’icona dell’Italo Disco-pensiero, dove il gusto del
buon vivere si unisce alle suggestioni cinematografiche. I
successivi Fall in Love e Paris On My Mind non riescono
a raggiungere le vette dell’esordio.

Gepy & Gepy Il Barry White italiano, più per la stazza


che per le produzioni. Anche se Body to Body, sigla di
Discoring del 1979, è un ottimo brano, suonato ancora
oggi nelle serate disco vintage.

P. Lion Ovvero Pier Paolo Pelandi da Bergamo che


con Happy Children (tre milioni di copie vendute nel
mondo) è il primo - forse l’unico - a scrivere un testo
“impegnato” in un brano Italo Disco: «Sempre la guerra
nel 1983/Questo è il mondo di oggi/Nella nostra mente ci
sono solo i soldi e non c’è niente per te/Dieci ore di lavo-
ro e niente fiori nella testa, la vita va avanti senza felici-
tà/Ogni giorno si sogna una vita migliore ma rimangono
solo sogni/Voi siete i bambini, la vostra vita sarà molto
dura/Voi siete i bambini, cantate ogni giorno». La canzo-
ne si conlcude, per fortuna, con una speranza: «Ma il po-
tere dei bambini vincerà, sono sicuro/vedremo dolci
amanti per noi/La tua fantasia troverà nuovi bei colori
ma ora è tempo di andare».

188 9
Kano Il gruppo formato nel 1979 su iniziativa di
Matteo Bonsanto, Luciano Ninzatti e Stefano Pulga pren-
de il nome dal personaggio di Spazio 1999. Debutta sul
finire del 1979 con I’m Ready che diventa ben presto una
hit da oltre un milione di copie (raggiunge la 21ª posizio-
ne della classifica americana). Altri successi Now Baby
Now; Cosmic Voyager; Another Life.

Macho Vive il primo pezzo di discomusic scritto e


prodotto in Italia, che varca i confini nazionali: succede
nel 1978 con I’m a Man, cover del brano dello Spencer
Davis Group lunga però oltre 18 minuti, raggiunge il de-
cimo posto delle disco charts di Billboard.

Easy Going Il nome è preso in prestito da un noto club


di Roma frequentato principalmente dalla comunità gay.
Anche i componenti del gruppo sono reclutati nel locale,
tra questi il dj Paolo Micioni. Baby I Love You, uscito nel
1978, ottiene subito un buon successo e finisce anche
nella scaletta del Loft di New York. Sul finire del brano si
sente il muggito di una mucca, da molti scambiato per un
orgasmo.

Gaz Nevada Si formano nell’area alternativa bologne-


se degli anni Settanta, il loro sound è inizialmente una
sorta di punk miscelato alla new wave, ma nella seconda

: 189
metà della loro carriera, e siamo nell’83, si muovono
verso sonorità pop, sviluppando una particolare forma di
Italo Disco col brano I. C. Love Affair, che ottiene buoni
riscontri di vendite anche in Europa. Sulla scia del loro
successo, quasi tutti i gruppi che gravitano nell’Italian
Records, etichetta fondata da Oderso Rubini, iniziano a
comporre musica dance: tra questi gli Stupid Set, Hi-Fi
Bros.; N.O.I.A.; Confusional Quartet.

Sandy Marton Una delle punte di diamante di Cecchetto,


presenza fissa sul piccolo schermo nel programma Dee Jay
Television, nell’84 spopola nelle discoteche grazie a People
From Ibiza, tormentone estivo che ha contribuito per un
paio di anni a far spostare in massa i giovani italiani in va-
canza in terra iberica, soprattutto alle Baleari.

Turatti & Chieregatto La “premiata ditta” formata da


Roberto Turatti e Miki Chieregatto è stata una delle coppie
di produttori più attive e prolifiche dell’Italo Disco. Con i
dischi di Joe Yellow (Easy Lover); Dan Harrow (dal primo
To Meet Me ai successi internazionali di Future Brain e Born
To Love), Jock Hattle (Crazy Family), Tom Hooker (Looking
for Love), Albert One (Hopes & Dreams; For Your Love)
sono stati capace di oltrepassare la vecchia disco made in
Usa e aprire nuove strade e soluzioni sonore alla dance
italiana.

190 9
Chrisma A loro viene attribuito il primo brano disco
scritto in Italia: è Amore, prodotto da Nico
Papathanassiou. La canzone è presentata all’Arena di
Verona in occasione della finale del Festivalbar. Il brano,
però, passa quasi inosservato: tutti erano distratti dalla
bellezza di Christina Moser e, soprattutto, dal suo look.

Lu Colombo Pubblicitaria con formazione teatrale,


viene lanciata nel mercato della musica dance con
Maracaibo, ballata d’amore e d’avventura scritta con
David Riondino, che ha nel cassetto già dal 1975 ma che
per il testo “scomodo” (è una storia ambientata a Cuba,
tra trafficanti d’armi, droga e prostitute) non riesce a farsi
produrre. Cambia un po’ il testo e la Emi la pubblica.
Oggi, a 35 anni di distanza, viene ancora suonata in di-
scoteca.

Diana Est Anche lei, come Lu Colombo, in controten-


denza all’anglofonia imperante, piazza un successo in ita-
liano, Tenax scritto da Enrico Ruggeri, dove si prende il
lusso di arricchirlo di con qualche frase in latino. Non ha
mai amato mostrarsi in pubblico, forse anche per questo
- nel periodo in cui invece l’immagine era tutto - la sua
carriera si interrompe dopo il terzo singolo. «Forse è già
mattino e non lo so» verso del ritornello di Tenax, è scrit-
to sul muro della discoteca Cocoricò di Riccione.

: 191
Alan Sorrenti Dopo due dischi prog, un rifacimento
di un classico napoletano e un viaggio in Africa, si tra-
sferisce a Los Angeles dove nel 1977 confeziona la canzo-
ne che può essere considerato il jingle perfetto per la ge-
nerazione di quel periodo: Figli delle stelle, riconoscibile
dal primo secondo grazie al riff di chitarra iniziale. Ma
per la critica e per i fan intransigenti della prim’ora, è un
“tradimento”.

Righeira Michael & Johnson Righeira, al secolo Stefano


Rota e Stefano Righi, dominano le classifiche nella metà degli
anni Ottanta: Vamos a la playa, il singolo d’esordio dell’83, è un
successo di proporzioni galattiche; bissato l’anno successivo
con No tengo dinero e, nel 1985, con L’estate sta finendo, grazie
alla quale vincono il Festivalbar e il Disco per l’estate. Bollati
come principi del nonsense, della musica pattumiera, con gli
anni vengono rivalutati, persino dal Manifesto, che recente-
mente ha recensito – in modo positivo - una loro esibizione in
un locale milanese.

Kasso È uno dei gruppi formati da Claudio Simonetti dopo


lo scioglimento dei Goblin. Il brano d’esordio – col titolo omo-
nimo, Kasso – risale all’81 e ha successo prima in Francia e poi
in Italia. Il successo è bissato l’anno seguente con Walkman.

Klein & MBO Il gruppo è formato dal produttore Mario

192 9
Boncaldo, dal dj Tony Carrasco e dalle coriste più in voga all’e-
poca in sala d’incisione, Rossana Casale e Naimy Hacket. Il
loro singolo più famoso è Dirty Talk, pubblicato inizialmente
soltanto nell’area milanese nel 1982 e che diventa una hit inter-
nazionale grazie al passaparola dei dj delle discoteche.

Jovanotti Quando irrompe sulla scena l’Italo Disco è già fi-


nita, ma rappresenta il ponte tra la fine di un ciclo e l’inizio di
un altro. È una delle ultime creature di Claudio Cecchetto che
quando lo scopre - dopo avergli trovato il nome - lo fa lavora-
re a Radio Deejay con ottimi risultati, tanto che durante la
notte dell’ultimo dell’anno del 1987 resta incollato ai microfo-
ni della radio per 8 ore di fila, senza alcuna interruzione. Nel
1988 incide Gimme Five - scritto dallo stesso Jovanotti assieme
a Claudio Cecchetto, Michele Centonze e David Sabiu - brano
con un ritmo funky anni Settanta, ma con un sound house ti-
pico anni Ottanta e cantato col rap, che esploderà negli anni
Novanta. Gimme Five rappresenta un punto di rottura e, allo
stesso tempo, una novità per quanto riguarda la fruizione mu-
sicale di massa in Italia: per la prima volta un brano rap-elet-
tronico, prodotto da un disc jockey e costruito sulla base di
samples e campionamenti (che qualche critico lungimirante
ha visto bene di definire “musica da officina”) vende centinaia
di migliaia di copie.

: 193
194 9
THE BEST DISCO IN TOWN

Q Questi i locali di New York dov’è nata e cresciuta la dis-


comusic e il suo movimento.

Loft – Il primo locale-club-disco della storia è l’appar-


tamento di David Mancuso, nel quartiere di Chelsea, al-
l’angolo tra Broadway e Bleecker Street. Grande oltre 200
metri quadrati, con il soffitto alto poco più di 4 metri e il
pavimento in legno. Il sound system è rivoluzionario, in-
novativo, incentrato sull’estrema potenza dei bassi, su
ispirazione del dub giamaicano. Le serate settimanali al
Loft diventano presto uno degli appuntamenti più attesi
della gioventù newyorchese nei primi anni Settanta.

Gallery – Locale aperto da Nicky Siano sulla 22esima

: 195
Strada, sul modello del Loft di Mancuso: c’è la stessa at-
mosfera, la stessa gente, con l’unica differenza che non è
un’abitazione, ma esclusivamente un locale (della bellez-
za di 3.600 metri quadrati) dove ballare e ascoltare musi-
ca. Il colore base dell’arredamento è il nero, non ci sono
neon, solo luci che si riflettono su decine di mirror ball.

Le Jardin – Aperta nel giugno del 1973 nel centro di


Manhattan (110 Ovest della 43esima Strada) è il primo
locale dove si intuisce che direzione sta prendendo la
disco e il suo movimento: l’atmosfera non è più quella di
una cantina buia, come se si stesse tenendo una riunione
clandestina, ma di un ristorante di classe. La clientela è
composta dal jet set della comunità gay di Manhattan, da
modelle e esponenti del mondo della moda etero. Dal
giorno un cui apre la disco abbandona la dimensione un-
derground e diventa a tutti gli effetti musica popolare.

Sanctuary – Sorto tra le mura di una vecchia chiesa


battista al 407 Ovest della 43esima Strada. Di fronte al-
l’altare c’è un murale raffigurante un diavolo dallo sguar-
do minaccioso, attorno a lui un gruppo di angeli con i ge-
nitali in bella vista, tutti impegnati in qualche attività ses-
suale. Il locale è frequentato praticamente solo da gay,
tanto che viene definito “la prima discoteca gay
d’America totalmente priva d’inibizioni”. Aperto sette

196 9
sere su sette, c’è sempre più gente di quanta ne possa con-
tenere: l’agibilità è di 346 persone, un numero che spesso
viene anche triplicato.

Paradise Garage – Immenso spazio all’84 di King


Street. In passato era stato effettivamente una rimessa di
camion. L’ingresso è riservato ai soli soci e ai loro ospiti
più una manciata di outsider scelti tra la folla.
Frequentato soprattutto da omosessuali neri e latini del-
l’ambiente undeground.

Studio 54 - Dal 26 aprile 1977, giorno dell’inaugura-


zione, è diventato una tappa obbligatoria per lo star
system che passa da New York. La pista può contenere
più di mille persone contemporaneamente ed è sempre
piena, dalle 10 di sera alle 5 del mattino. L’ingresso costa
10 dollari, ma averli non significa poter entrare: la sele-
zione all’ingresso è minuziosa.

Infinity - Ex fabbrica situata in fondo a Broadway


dove si balla dappertutto, grazie al fatto che le casse acu-
stiche sono dislocate dappertutto. Nel locale ci sono
quattro fornitissimi bar dove, oltre che bere, c’è anche la
possibilità di mangiare (frutta, uova, patatine, sand-
wich). È uno dei pochi locali che sta aperto fino alle 5
della mattina.

: 197
Odissey 2011 – È il locale reso famoso da La febbre del
sabato sera. Per trent’anni è stato un night club, anche
mal frequentato, poi nel 1976 – a seguito del boom della
disco music – s’è riconvertito a discoteca. Una curiosità:
per esigenze di copione vengono apportate sostanziali
modifiche all’arredamento e all’impianto luci; modifiche
che poi la Paramount Pictures lascia ai proprietari come
sorta di risarcimento per il disturbo.

New York New York – È stata definita come la più


bella discoteca del mondo per via della musica, dell’am-
biente, dell’arredamento, anche se i muri tutti grigi ri-
coperti di specchi bordati di metallo e l’arredamento
laccato di rosso conferiscono una certa freddezza. A
scaldare, oltre alla musica, ci pensa il bar, uno dei punti
forti del locale.

198 9
...E LE MIGLIORI IN CITTA’

I In Italia ci sono state alcune discoteche che hanno se-


gnato la storia per tutti gli appassionati del ballo: da Nord
a Sud, non c’è città che non abbia avuto un locale storico,
che ha cresciuto un’intera generazione a cavallo tra gli
anni Settanta e gli Ottanta e segnato la storia del costume
italiano. Prima che nelle grandi città, le discoteche apro-
no nelle località balneari. La Versilia ha rappresentato al-
l’epoca il centro delle sale da ballo: storiche sono la
Capannina di Forte dei Marmi e la Bussola di Focette di
Marina di Pietrasanta. In Liguria c’è forte rivalità tra la
Piscina dei Castelli di Sestri Levante e il Covo di Nord Est
di Santa Margherita; mentre sulla Riviera Romagnola le
più famose sono il Paradiso e L’altro mondo di Rimini e
la Baia degli angeli di Gabicce Mare. Nelle grandi città la

: 199
disco inizia a essere frequentatissima verso la fine degli
anni Settanta e Milano e Roma sono le prima città dove
la Febbre del sabato sera inizia a mietere le sue vittime.
Tra i primi ad aprire i battenti a Milano è il Nepentha
in piazza Diaz, dove alle 23 il volume della musica scema
piano piano e alle 2 si va tutti a casa. Anche il Panthea è
uno dei locali più frequentati, dove il pavimento della
pista da ballo è costituito da un orribile mosaico che rap-
presentava una donna nuda, mentre alle pareti sono ap-
pesi enormi specchi. La musica è molto alta e, quando è
pieno, il caldo diventa insopportabile. Il Biberon, invece,
è la discoteca preferita per le coppie: la musica ha un vo-
lume decente, cioè ai tavoli si possono scambiare quattro
parole senza gridare, e – soprattutto – è tra le poche che
suona anche i lenti. All’American Disaster il pavimento
della pista trema per via della sovrabbondanza di bassi
con cui è regolato l’equalizzatore. È il locale preferito dagli
ascoltatori di Radio 105, clientela rigorosamente under
25. Una delle discoteche che hanno fatto la storia della
Milano by night è il Divina, grazie alla famosa PR Big
Laura che crea un nuovo concetto di notte portando alla
ribalta modelle e serate a tema con presenze in sala di
personaggi Vip e stilisti. A dicembre del 1980 apre il
Plastic, un po’ il nostro Studio 54, locale frequentato da
jet set e personaggi di fama internazionale come
Madonna, Elton John, Andy Warhol, Freddie Mercury,

200 9
Prince, Paul Young, Bruce Springsteen e Keith Haring
che, insieme a Grace Jones, per passarci una serata pren-
de l’aereo da Parigi. Nel 1980 sulle ceneri dell’ex cinema
Ambrosiano in corso XXII Marzo apre lo Studio 54: già
pochi mesi dopo si capisce che è un flop, l’arredamento è
orribile (il colore scelto è il marrone!) e anche la musica
non è poi questo granché. Dura solo un anno, poi si tra-
sforma in Rolling Stone, discoteca principalmente rock
che ospita anche concerti. Oltre al 54 Milano cerca di re-
plicare anche un’altra discoteca famosa: la travoltiana
Odissey 2001, in fondo a via Forze Armate. Quella mila-
nese dell’atmosfera di New York ha ben poco: moquette
rossa e nera, poltroncine a fiori e tavolini neri, la maggior
parte traballanti.
A Roma una delle più in voga è l’Easy Going, con un
ingresso inconfondibile dalla forma quasi di vespasiano.
Anche qui è stata importata l’usanza della selezione al-
l’entrata. Sul piatto suonano sempre le novità selezionate
da Paul Micioni, coautore tra l’altro di uno degli album di
Italo Disco più riusciti proprio sotto il nome di Easy
Going. La palma del locale chic spetta però al Jackie O’:
anche qui l’ingresso è discriminato, per cui in pista e ai ta-
volini si vedono soprattutto modelle, attori, nobili e po-
chissimi comuni mortali. Esclusivo e alla moda anche il
Saint James, frequentato quasi solo da gay. Un posto dav-
vero elegante dove la musica è buona e l’impianto luci ec-

: 201
cezionale è la Cage Au Folles, aperto intorno al 1978: per
la serata d’inaugurazione si creano spaventosi ingorghi
nelle strade vicino e davanti alla porta del locale una ressa
enorme che vuole entrare e a un certo punto è dovuta in-
tervenire la forza pubblica. Anche un locale storico come
il Piper deve cedere il passo alla ventata di novità che ar-
rivava a ritmo di discomusic. Per un po’ di anni il locale
di via Tagliamento, rinnovato negli arredi e nella musica,
cambia anche nome e diventa il Make Up: tra gli artefici
di questo nuovo look anche Gil Cagnè, il noto truccatore
delle star. Il deejay in cabina è sempre Paul Micioni,
strappato all’Easy Going. Dai locali del cinema Roxy, nel
cuore dei Parioli, apre il Much More, che nelle intenzioni
deve essere la risposta romana allo Studio 54 di Milano:
2.000 posti e 40 persone che ci lavorano tutti i giorni.
All’interno - oltre la pista da ballo - funziona anche una
sala giochi, una saletta cinema che proiettava film d’essai,
un negozio di erboristeria, tre bar, una boutique vende
capi “in tono” con la serata e persino tre cabine docce.
L’enorme schermo del cinema Roxy è sostituito da una
specchiera a superficie flessibile e deformante. In pista c’è
l’effetto vento che spazza via i fumi e la nebbia artificiale
e l’effetto terremoto. Il giorno dell’apertura il direttore del
locale, Enrico Lucherini, dichiara: «I giovani dal’68 in poi
sono stati rimbambiti di noia. Questo è il momento di of-
frire a loro un divertimento grandioso e pulito».

202 9
: 203
BIBLIOGRAFIA

Andrea Angeli Bufalini – Giovanni Savastano La Disco


Arcana - Roma, 2014

Carlo Antonelli - Fabio De Luca Disco Inferno


Isbn Edizioni - Milano, 2006

Bill Brewster - Frank Broughton Last Night A Dj Save


My Life
Arcana - Roma, 2005

Will Hermes New York 1973-1977


Codice Edizioni - Torino, 2014

Luca Locati Luciani Crisco Disco


Volo Libero - Milano, 2013

Paolo Morando Dancing Days


Editori Laterza – Roma-Bari, 2009

Luca Pollini Musica leggera. Anni di piombo


No Reply - Milano, 2013

204 9
Peter Shapiro Turn The Beat Around The Secret History
of Disco
Faber & Faber - Londra, 2005

Francesco Cataldo Verrina Disco Music


Edizioni Kriterius - Roma, 2012

: 205
INDICE DEI NOMI

A
Abba, 185
AC/DC 93
Acquaviva, Sabino 125
Aguilera, Christina 183
Aldrighetti, Elio 114
Amon Düll II 73
Andrea True Connection 185
Apple Studios 152
Arcieri, Maurizio 134, 159, 160
Argento, Dario 138

B
Baby Records 140, 153, 157
Badham, John 94
Baltimora 140
Battisti, Lucio 134
Barry, Claudja 74
Bbc 70
Beatles 50, 93, 152, 156, 183
Bee Gees 95, 98, 99, 111, 116, 136, 183
Bella, Gianni 160

206 9
Bella, Marcella 134
Bellolo, Henri 82
Bellotte, Pete 68, 70, 71, 72, 93, 133, 178
Benecke, Marc 104
Bennato, Edoardo 139
Bertè Loredana, 139
Bifo, Franco Berardi 128
Big Laura 200
Billboard 41, 48, 50, 52, 53, 54, 75, 91 , 180, 189
Birkin, Jane 69
Blondie 92
Bocca, Giorgio 126
Bogart, Neil 45, 69, 70
Boney M 74
Boncaldo, Mario 192
Bonsanto, Matteo 139, 189
Borrelli, Vittorio 128
Bowie, David 63, 93, 116
Brigate Rosse, 123
BT Express 51
Bucci, Flavio 94
Buckley, Tim 146
Buddha Record 45

C
Cagnè, Gil 202

: 207
Callas, Maria 159, 160
Capote, Truman 63, 106
Cappello, Michael 37
Carrà, Raffaella 134
Carter, Jimmy 91
Carraro, Giuseppe 160
Carrasco, Tony 192
Carrera, Barbara 102
Carroll, Peter B
Casablanca Records 66, 69, 70, 71, 82, 83, 89, 93
Casale, Rossana 193
Casey, Harry Wayne 181
Castro, Fidel 135, 136
CBS 46, 101
Cecchetto, Claudio 140, 149, 186, 190, 193
Cellophane Brain 139
Centonze, Michele 193
Cerrone, Jean Marc 74, 75, 178
Cher 105
Chic 93, 97, 107, 117, 178
Chieregato, Miki 170, 172, 190
Chrisma, 134, 135, 159, 161, 191
C. J. & Company 103
Cocciante, Riccardo 160
Colombo, Lu 135, 191
Confusional Quartet 190

208 9
Corley, Al 104
Costandinos, Alec R. 66, 74, 89

D
D’Acquisto, Steve 37, 74
D’Alessio, Carmen 102, 106
Dalla, Lucio 141
Dahl, Steve 116
Democrazia Cristiana, 123
D. D. Sound 137, 154, 186
Decibel 170
De Lite 90
Deodato, Eumir 90
Depeche Mode 149
De Piscopo, Tullio 141
Dibango, Manu 51, 52
Di Reda, Roberto 127
Disco Magic 171
Doctor’s Cat 186
Doors 91
Douglas, Carl 54
Drupi 160
Duran Duran 149, 171
Dushey, Jack 102
Dylan, Bob 156

: 209
E
Earth, Wind & Fire 184
Easy Going 138, 156, 189, 201, 202
Edwards, Bernard 107
Esposito, Toni 141
Est, Diana 191

F
Fawcett, Farrah 94
Fazio, Fabio 154
Finardi, Eugenio 139
Finch, Richard 181
Fiorucci, Elio 106, 179
Ford, Gerald 57
Forsey, Keith 73
Foster, David 147
Freddy the Flying Dutchman 114

G
Galli, Giorgio 123
Gamble, Kenny 46
Garland, Judy 45
Gaynor, Gloria 49, 51, 52, 80, 81, 180
Gazebo 139, 156, 187
Gaz Nevada 189
George, Nelson 72

210 9
Gepy & Gepy 187
Gibb, Barry 183
Gibb, Maurice 183
Gibb, Robin 183
Giombini, Pierluigi 156
Goblin 138, 192
Gomez, Leroy 184
Gozzi, Renato 160
Grasso, Francis 37, 74
Graydon, Jay 147
Gucci 106
Guccini, Francesco 130

H
Hacket, Naimy 193
Harden, Uva 101, 102
Haring, Keith 201
Harrow, Dan 170, 190
Hattle, Jock 190
Hendrix, Jimi 50, 146
Herald Tribune 114
Hi-Fi Bros 190
Hill, Terence 154
Hooker, Tom 190
Hopkins, Nicky 152
Hopkins, Steve 136

: 211
Houston, Thelma 80
Hues Corporation 54
Huff, Leon 46

I
Indeep 179
Italian Records 190

J
Jabara, Paul 38
Jackson 5, 180
Jackson, Michael 52, 97, 187
Jagger, Bianca 106
Jagger, Mick 92
Jarreau, Al 147
John, Elton 92, 200
Jones, Grace 81, 106, 107, 184, 201
Joplin, Janis 50
Jovanotti 193
Juvet, Patrick 74

K
Kaczor, Richie 103
Kano 138, 189
Kasso 139, 192
Kelly, Roberta 73

212 9
K.C. & The Sunshine Band 98, 181
Kiss 93
Klein & M.B.O. 139, 192
Knack, The 117
Kool & The Gang 90
Kraftwerk 179
Krisma 135, 159

L
Labelle 64, 182
La Bionda 137, 152, 164, 186
Laszlo, Ken 140
Lear, Amanda 80, 153
‘Lectric Workers 139
Lee, Bruce 94
Lindsay, John 33
Lombardoni, Severo 171
Lotta Continua 126, 127
Love & Kisses 75, 88
Love Unlimited 53, 54, 177
Love Unlimited Orchestra 54, 177
Low, Gary 139
Lucherini, Enrico 202

M
Macho 189

: 213
Madonna 187, 200
Malavasi, Mauro 141
Malligator 74
Mancuso, David 40, 41, 74, 195, 196
Manifesto, 128, 192
Martinelli, 167, 186
Martinelli, Aldo 186
Martini, Mia 137
Martino, Bruno 166
Marton, Sandy 140, 190
McCartney, Paul 92
McCoy, Van 57, 58, 182
McCrea, George 54
McDonald, Phil 152
MFSB 65, 181
Meier, Garry 116
Melvin, Harold 46
Meo, Giancarlo 138, 139
Mercury, Freddie 200
Merman, Ethel 113
Micioni, Paul 156, 189, 201, 202
Mikulski, Bernhard 139
Minnelli, Liza 106
Miss Kittin 139
Moonray 186
Morali, Jacque 82, 84

214 9
Moro, Aldo 123
Moroder, Giorgio 66, 68, 69, 71, 72, 74, 75, 76, 133,
153, 178, 179
Morrison, Jim 50
Moser, Christina 134, 135, 159, 191
Motown 46, 56
Movimento Lavoratori per il Socialismo 126
Mtv 187
Munich Machine 75
Muppets 113
Musique 80

N
Naggiar, Freddy 141, 153, 157
New Musical Express, 185
New York Magazine, 22, 108
Ninzatti, Luciano 138, 189
Nixon, Richard, 33, 57
N.O.I.A. 190
Nutini, Paolo 155

O
One, Albert 190
Osibisa 134, 159, 161

: 215
Pacino, Al 94
Papathanassiou, Nico 159, 191
Papathanassiou, Vangelis 134, 159, 161
Paris, Ryan 139, 187
Partito Comunista Italiano, 124
Pelandi, Pier Paolo 188
People’s Choice 179
Pet Shop Boys 139
Philadelphia International 46, 56
Pink 183
Pink Floyd 93, 136
P. Lion 188
Polydor 156
Polygram London 159
Ponty, Jean-Luc 136
Pooh 130, 160
Pravo, Patty 160
Prince 201
Private Stock Records 91
Pulga, Stefano 114, 139, 189

Q
Queen 93
Quotidiano dei lavoratori 128

216 9
Radio 105 200
Radio Deejay 149, 193
Rai 130, 160
Rame, Pia 160
Rampino, Antonella 127
Renis, Tony 138
Repubblica 123, 126
Richards, Keith 92
Righeira 137, 140, 154, 163, 164, 166, 192
Righi, Stefano 165, 192
Riondino, David 135, 191
Riveira, Silvia 25
Robotnick, Alexander 139
Rodgers, Nile 93, 97, 107, 178, 179
Rolling Stone 22, 48, 54
Rolling Stones 91, 92, 116
Ross, Diana 63, 180
Rota, Stefano 164, 192
Röyksopp 139
Rubell, Steve 102, 104, 105, 106, 108
Rubini, Oderso 190
Ruggeri, Enrico 170, 171, 191
Russos, Demis 159

S
Sabiu, David 193

: 217
Salerno, Sabrina 186
Santa Esmeralda 184
Savage, John 96
Schiavone, Luigi 171
Schrager, Ian 102, 108, 109
Scorsese, Martin 29
Shapiro, Peter 74
Siano, Nicky 41, 52, 53, 74, 103, 181, 195
Silver Convention 73, 75, 182
Simonetti, Claudio 138, 139, 192
Sister Sledge 91, 106, 179
Skiantos 163
Smith, Billy 52, 53
Sofri, Adriano 127
Solo, Bobby 138
Sommer, Helmuth 67
Sorrenti, Alan 136, 145, 192
Sorrisi & Canzoni TV 154
Spagna, Ivana 187
Spandau Ballet 171
Spencer, Bud 154
Spencer Davis Group 189
Springsteen, Bruce 201
Stallone, Sylvester 94, 106
Stewart, Rod 92, 116
Stigwood, Robert 96

218 9
Stupid Set 190
Sudler, Peter 108
Sue Robinson, Vicky 80
Summer, Donna 66, 67, 68, 69, 71, 72, 74, 76, 79, 87,
91, 93, 134, 153, 162, 178
Sylvester 80, 184

T
Talking’ Heads 93
Tarantino, Quentin 157
Timbaland 139
Time 33
Todd, David 58
Tom Tom Club 93
Topo & Roby 186
Trammps, 45, 46, 98, 183
Trattolillo, Frank 108
Travolta, John 94, 98, 99, 118, 124, 126, 127, 128
TVE, 187
Twenty Century Fox 52, 53
Turatti, Roberto 170, 190

U
Unità 124, 128

: 219
Veeck, Michael 116
Venditti, Antonello 130
Verrina, Francesco Cataldo 50
Via Verdi 139
Village People 66, 80, 81, 82, 83, 84, 87, 93, 180
Vincent, Ricky 72

W
Wade, Stanley 46
Wharol, Andy 18, 63, 106, 200
White, Barry 40, 53, 54, 74, 79, 91, 177, 188
Who 91
Willis, Victor 82

Y
Yellow, Joe 190
Yes 93
Young, Earl 45, 46, 47, 73
Young, Paul 201

Z
Zanini, Simona 167, 186
Zyx Music 139

220 9
: 221

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