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L’infinito di Leopardi

Titolo

Il titolo L'infinito delimita già i temi fondamentali della poesia: lo spazio e il tempo, perché solo queste due
entità sono effettivamente infinite nel mondo concepito dall'uomo. Infinito può essere lo spazio orizzontale
sul piano cartesiano; oppure lo scorrere del tempo sulla linea del tempo; infinito è anche il tempo ciclico
che si ripete continuamente, l'avvicendarsi delle stagioni, della vita che muore e rinasce. Il nucleo centrale
della poesia è dunque un tema molto caro all'uomo, che esprime il suo interrogarsi sui misteri del mondo,
impossibili da sondare fino in fondo con la sola ragione.

Metrica

La poesia è un componimento di 15 endecasillabi sciolti. Questo significa che si riallaccia alla tradizione
poetica classica perché espressa in endecasillabi, il verso classico per eccellenza. Ma d'altra parte non è
costruita con uno schema metrico particolare: non ci sono rime (gli endecasillabi sono "sciolti", appunto).
Questa "libertà" metrica permette al poeta di esprimersi senza troppe costrizioni e soprattutto senza dare
troppo l'impressione a chi legge dell'artificio letterario, rendendo il significato della poesia molto più
personale e intimo, con un ritmo foneticamente meno cadenzato e di respiro più ampio.

Campi semantici

La natura: tra gli elementi che ricorrono maggiormente in questa poesia troviamo elementi naturali: l'ermo
colle, la siepe, il vento, le piante, le stagioni, il mare. La presenza di questi elementi è l'unica cosa che
àncora il poeta alla realtà, ma esse appaiono ovunque indistinti e piuttosto indeterminati. E' vero che si
parla di questo ermo colle, questa siepe, ecc, ma quest'uso di termini determinativi come questo e quello in
realtà evidenziano ancora di più l'indeterminatezza del paesaggio (quale colle? quale siepe?). In realtà al
poeta non interessa parlare della natura ma di ciò che accade al poeta di fronte ad essa. Ogni elemento
naturale diventa così solo una coordinata vaga per mettere in scena e rappresentare l'esperienza dell'io
poetico, vero personaggio della poesia.

Lo spazio: è un elemento fondamentale in questa poesia; l'elemento descrittivo e metaforico su cui regge
tutta la narrazione. Tutto nasce infatti da una contrapposizione iniziale tra uno spazio lontano (ma caro), il
"laggiù" rappresentato dal colle, e uno spazio vicino e ristretto, il "qui", delimitato dalla siepe.

Il poeta si trova nel "qui" e non riesce ad andare oltre, a raggiungere il colle tanto caro, perché la siepe
glielo impedisce. Ma quando il poeta si siede e si mette a guardare l'orizzonte, ecco che grazie alla sua
immaginazione riesce a pensare a interminati spazi oltre la siepe e prende così vita la sua esperienza
poetica più pura.

Il tempo: è un elemento centrale del poema, tanto che viene espresso fin dall'inizio del primo verso col
sempre da cui parte tutto. "Sempre caro mi fu quest'ermo colle" è un verso che sembra dare inizio a una
descrizione (il poeta parlerà del colle?) oppure al racconto di un ricordo passato (un ricordo d'infanzia?).
Questo abbozzo di ricordo si arresta alla siepe, che quindi non solo fa da spartiacque spaziale tra ciò che è
lontano e ciò che è vicino, ma anche tra il passato (sempre caro mi fu...) e il presente (il guardo esclude). Il
passato è passato e dunque non si può recuperare ma anche il presente sembra irraggiungibile perché la
siepe sembra rappresentare una barriera mentale. Ma grazie alla sua esperienza mentale il poeta saprà
ricordare e riconoscere sia il passato che il presente, unendoli in un unico significato, e arricchirsi di questa
nuova consapevolezza abbandonandosi ad essa (e il naufragar m'è dolce in questo mare).

L'esperienza sensoriale: tra la percezione degli elementi naturali e l'elaborazione mentale di concetti
astratti come lo spazio e il tempo, in questa poesia c'è un intero sistema sensoriale che viene vissuto ed
espresso da parte del poeta. Si parte da un dominio sensoriale visivo (la siepe che il guardo esclude,
sedendo e mirando...) per giungere a un dominio sensoriale acustico (sovrumani silenzi, profondissima
quiete, il vento odo stormir, quello infinito silenzio a quella voce vo comparando, e il suon di lei...).

Figure retoriche

Anche se la poesia non fa uso di rime, in realtà è sapientemente costruita su un'infinità di piccoli
accorgimenti fonetici e sintattici che gli danno una cadenza e una musicalità particolari.

Ad esempio, dopo i primi tre versi introduttivi, nel momento in cui ha inizio l'esperienza sensoriale del
poeta, l'uso del gerundio di sedendo e mirando (v. 4), l'uso del polisindeto con la ripetizione della
congiunzione "e" (e sovrumani silenzi, e profondissima quiete... - vv. 5-6), e quello dell'assonanza col suono
"s" (sedendo / spazi / sovrumani silenzi / profondissima quiete) danno alla frase un'ampiezza maggiore e
una cadenza più lenta e dolce, che accompagnano bene il significato espresso dai versi. Un'altra assonanza
presente nella poesia è quella col suono "v" (ove per poco... e come il vento... a questa voce vo
comparando... e mi sovvien... e la presente e viva): un'assonanza che si dipana su ben 9 versi (vv. 5-13),
accompagnata da molte ripetizioni del suono "o", particolarmente profondo, che lega tra loro tutti i versi
centrali della poesia fino a consegnarla all'epilogo.

Di nuovo, il polisindeto dei versi 11-13 (e mi sovvien l'eterno, e le morti stagioni, e la presente e viva, e il
suon di lei), accentuano il senso del succedersi dei pensieri nella mente del poeta, e del suo vagabondare
da un pensiero all'altro. L'ultima ripresa, nel verso finale, della congiunzione "e" (e il naufragar m'è dolce...)
non fa che proseguire questo senso del vagabondare del pensiero con cui si conclude la poesia.

Altra figura retorica importante in questa poesia è l'enjambement, grazie al quale leggiamo i versi in modo
continuo, senza pause, e che dà maggiore enfasi all'ampiezza di questi endecasillabi.

Infine, tutta la poesia si basa su metafore, dove la siepe rappresenta la barriera mentale dell'uomo che lo
stimola a guardare "oltre", lo stormire del vento tra le piante ricorda alla mente gli spazi infiniti entro cui
può muoversi il pensiero, e il mare in cui annegare è la dimensione senza confini dell'immaginazione.

Osservazioni conclusive

Con le esperienze sensoriali che descrive a partire da un contatto con la natura, abbiamo visto come la
poesia racconta un'esperienza propria al poeta e alla sua meditazione. Vengono descritti pochi elementi
naturali : un colle, una siepe che fa da barriera allo sguardo, il vento che soffia. Questa scarna descrizione è
solo uno stimolo al poeta per fare una riflessione su temi come lo spazio e il tempo, il passato e il presente,
e il loro infinito dilatarsi. Ma più che la riflessione in sé, nei versi viene rappresentato lo sgomento
dell'uomo di fronte all'immensità di questi temi.

I temi sul quale il poeta si sofferma sono però per lui fonte di dolcezza: passato lo sgomento iniziale, il
poeta è contento di abbandonarsi a queste riflessioni, come se rappresentassero per lui il senso profondo
del suo io più intimo, in cui riconoscere anche il significato del suo passato e quindi del suo presente.

L'incapacità dell'uomo di sondare il senso profondo delle cose è per lui uno stimolo e un'occasione per
andare oltre, usando la propria immaginazione. Nello Zibaldone Leopardi scrive: "L'anima s'immagina
quello che non vede, che quell'albero, quella siepe, quella torre gli nasconde, e va errando in uno spazio
immaginario, e si figura cose che non potrebbe, se la sua vita si estendesse da per tutto, perché il reale
escluderebbe l'immaginario".

Il racconto espresso in questa poesia è quello di un'esperienza personale e intima: è soprattutto in questo
senso che la poesia di leopardi viene chiamata "idillio", quasi come fosse una pagina di diario in cui il poeta
trascrive sensazioni, contrapposta alla poesia dotta delle canzoni.
A Silvia
Parafrasi discorsiva

Silvia, ti ricordi ancora quel periodo della tua vita terrena quando la bellezza risplendeva nei tuoi occhi
sorridenti e sfuggenti e tu, felice e pensierosa, eri sul punto di superare la soglia della gioventù?

Risuonavano le stanze tranquille e le strade circostanti al tuo canto ininterrotto, quando tu, intenta alle
attività tipicamente femminili, sedevi, molto felice di quel futuro indeterminato e desiderato che avevi in
mente. Era il mese di maggio, pieno di profumi, e tu eri solita passare così le giornate.

Io, abbandonando di tanto in tanto gli studi piacevoli e le carte che mi affaticavano, nei quali si
consumavano il tempo della mia giovinezza e la parte migliore di me, dai balconi della casa di mio padre
porgevo le orecchie al suono della tua voce e a quello della tua mano veloce che con fatica tesseva la tela.
Contemplavo il cielo sereno, le vie illuminate dal sole e i giardini e da una parte il mare da lontano, dall’altra
la montagna. Le parole di un uomo non possono esprimere ciò che io provavo nel cuore.

Che pensieri stupendi, che speranze, che sentimenti, o mia Silvia! Come ci sembravano allora la vita umana
e il destino! Quando mi ricordo di una speranza così grande, mi opprime un sentimento insopportabile e
sconsolato, e mi torno a rattristare per la mia sfortuna. Natura, natura, perché non restituisci dopo quello
che hai promesso prima? Perché inganni così tanto i tuoi figli?

Tu prima che l’inverno inaridisse le erbe, consumata e uccisa da una malattia interna, morivi, o mia tenera.
E non vedevi la parte migliore dei tuoi anni; non ti addolciva il cuore la dolce lode o dei tuoi capelli neri, o
degli sguardi innamorati e pudichi; né le compagne nei giorni festivi parlavano d’amore con te. Tra poco si
estinguerà anche la mia dolce speranza: il destino negò la giovinezza anche alla mia vita. Ahimè, come sei
svanita, cara compagna della mia giovinezza, mia compianta speranza!

È dunque questo quel mondo (così desiderato)? Sono questi i piaceri, i sentimenti, le attività, gli
avvenimenti di cui parlammo tanto insieme? È questo il destino degli uomini? Al rivelarsi della verità, tu sei
miseramente svanita: e indicavi con la mano la fredda morte e una tomba spoglia.

Figure retoriche

 apostrofe (v. 1, Silvia, rimembri ancora; v. 29, o Silvia mia!; v. 36, O natura, o natura)
 allitterazione (della sillaba vi e delle lettere t, m, n)
 ossimoro (v. 5, lieta e pensosa)
 enjambement (vv. 7-8, Sonavan le quiete / Stanze, e le vie dintorno; vv. 49-50, peria fra poco / La
speranza mia dolce; vv. 51-52, Anche negaro i fati / La giovanezza. Ahi come; vv. 56-57, questi / I diletti,
l’amor, l’opre, gli eventi; vv. 62-63, ed una tomba ignuda / Mostravi di lontano)
 chiasmo (vv. 15-16, Io gli studi leggiadri /… e le sudate carte; v. 62, La fredda morte ed una tomba
ignuda)
 metonimia (v. 16, sudate carte; v. 22, faticosa tela; v. 26, lingua mortal; v. 46, sguardi innamorati e
schivi)
 zeugma (vv. 20-21, Porgea gli orecchi al suon della tua voce, / Ed alla man veloce)
 climax (vv. 28-29, Che pensieri soavi, / Che speranze, che cori, o Silvia mia!)
 personificazione (vv. 36-38, O natura, o natura / Perché non rendi poi / Quel che prometti allor?).
Analisi di A silvia

Questi versi celeberrimi con i quali Leopardi torna alla poesia nel 1828 a Pisa, inaugurano una nuova
stagione lirica di Leopardi. L'episodio che generalmente si associa a questo personaggio (Silvia, dal nome
tassiano, preso dall'ecloga tassiana "Aminta", molto amata da Leopardi), è un episodio di quasi dieci anni
prima. Teresa Fattorini era la figlia del cocchiere di casa Leopardi, era morta di tisi a ventun anni (nel 1818):
una coetanea di Leopardi, una ragazza che sicuramente avrà conosciuto, avrà ascoltato cantare, come ci
dice in questi versi, ma che diventa improvvisamente un emblema, forse il primo personaggio della poesia
italiana che si trasforma in un emblema, un'immagine quasi scultorea come quella degli ultimi versi, che
sembrano evocare i grandi monumenti funebri di Antonio Canova, come già le poesie sepolcrali che
Leopardi aveva inserito nei Canti. Un destino di morte, un destino di dissoluzione e soprattutto
un'interrogazione sul senso della speranza: senso della speranza che Leopardi indica essere concluso
all'altezza di questa nuova stagione poetica. La speranza di una felicità terrena che è tanto più ingannevole,
illusoria, quanto più contemplata in un periodo successivo, quando quelle speranze rivelano la loro vacuità,
la loro impossibilità, quanto erano solo parole, solo canti, solo sensazioni e sguardi, ma non componevano
una vita, non componevano un'esperienza di vita condivisa, di vita proseguita, di vita continua. Il
personaggio della giovane diventa specchio del poeta. Una vita, quella di Leopardi vissuta a Recanati, che
era una "morte in vita", ma anche la vita degli anni successivi, all'uscita dal "natio borgo selvaggio", non è
altro che una composizione continua di attività, che però non si riesce ad annodare, a filare in una tela
continua. E questa immagine della filatrice, del cucito nel quale è intenta Silvia, ci ricorda le immagini
terribili del mito funebre, le immagini delle Parche. Così come nel momento in cui viene introdotta la
stagione invernale: la malattia di cui Silvia si ammala è una malattia che la conduce a morte, e viene
associata all'inverno. Ed è questo un immaginario che richiama l'immagine di Persefone, di Proserpina,
rapita alla vita umana e trascinata nell'Ade ghiacciata, in cui non c'è più sensualità, non c'è più gioia, non c'è
più felicità, ma solo un mondo cupo e tenebroso, solo un mondo chiuso in un morbo mortale che impedisce
l'esistenza. Questo canto funebre, questa rapsodia funebre è anche una elegia sulla fine di un modo
poetico, perché A Silvia insieme ai grandi canti Pisano-recanatesi, come vengono chiamati quelli dell'anno
seguente, Le Ricordanze e Canto notturno di un pastore errante dell'Asia, è un primo esempio di quella
straordinaria invenzione formale di Leopardi, che è la cosiddetta canzone libera, in cui i versi della
tradizione petrarchesca, i versi della tradizione retorica italiana, l'endecasillabo ed il settenario, non sono
più vincolati e stretti in un sistema chiuso, in un sistema che abbia delle forme e delle strutture riconoscibili,
ma si alternano liberamente e possono rilasciare, a seconda di quelli che sono i moti del sentimento,
dell'immaginazione, le loro diverse energie ritmiche e prosodiche con somma libertà. Questa stessa libertà,
quella che è negata all'individuo nella sua esistenza reale, biologica, nella vita reale, viene vissuta dal poeta
nel suo laboratorio di scrittura, viene vissuta come dissoluzione dei legami, diluizione delle forme chiuse
che erano state ereditate e come apparizione di un mondo nuovo, di un mondo libero, di un mondo aperto
che invece nell'esistenza non viene concesso a noi umani. Quel verso famoso che è sempre stato tanto
amato, "le vie dorate e gli orti", in cui la successione dei nessi consonantici è così armoniosa e musicale, in
realtà viene negato a Silvia o a Teresa Fattorini, se veramente si trattava di lei, così come viene negato a
Giacomo Leopardi individuo biologico e sofferente, ma quelle "vie dorate e quegli orti" si sono aperte quel
giorno a Pisa per tutti noi e per sempre. Tutto il componimento è pervaso dalla vaghezza e dal senso di
indefinito che, per Leopardi, sono massimamente poetici: infatti non vi sono descrizioni, la figura femminile
non presenta dettagli concreti. Gli elementi fisici e realistici sono solo un punto di partenza: l’unico
particolare concreto cui si accenna è lo sguardo ridente, luminoso e al tempo stesso pudico che illumina la
figura di Silvia e ne sottolinea l’atteggiamento spensierato, felice ma anche riflessivo; anche l’ambiente
circostante è rarefatto e caratterizzato solo da pochi aggettivi evocativi: “quiete”, “odoroso”, “sereno”,
“dorate”. La poesia è resa possibile soltanto dal filtro del ricordo, che, come il filtro “fisico” rappresentato
dalla finestra del “paterno ostello”, rende le immagini sfocate, quindi “vaghe e indefinite”. La finestra, come
la siepe de L’infinito, infatti, limita il contatto con il reale, scatenando l’immaginazione. Inoltre il filtro del
ricordo concorre in maniera determinante a spegnere le illusioni, che non possono essere vissute
ingenuamente come nella giovinezza, bensì sono interrotte dalla consapevolezza del vero. Tuttavia, anche
se la poesia si chiude con l’immagine lugubre della morte, è tutta pervasa da immagini di vita e di gioia,
poiché Leopardi vuole levare un grido di protesta contro la natura “matrigna” che ha negato queste cose
belle all’uomo: non si rassegna al dolore, ma, pur nella disperazione, non rinuncia mai a rivendicare il diritto
alla felicità.

Netta la contrapposizione anche nell’uso dei tempi verbali: l’imperfetto caratterizza le strofe del ricordo
indefinito degli anni giovanili e domina le strofe 1, 3 e 5, il presente quelle dell’amara constatazione del
dolore, la 4 e la 6. Nelle strofe del ricordo, la sintassi è piana e limpida, in quelle di riflessione è più mossa e
tesa, ricca di interrogative retoriche e di esclamazioni. Molte sono le parole appartenenti al linguaggio del
“vago e indefinito”: “fuggitivi”, “quiete”, “perpetuo”, “vago”, “odoroso”, “lungi”, “dolce”.

Alla luna
Alla luna – Parafrasi

O luna graziosa, io mi ricordo Che, un anno fa, io mi recavo pieno di dolore A contemplarti sopra questo
colle: E tu allora stavi su quel bosco Così come fai ora, che lo illumini tutto. Ma il tuo volto appariva ai miei
occhi Annebbiato e tremante a causa del pianto Che mi spuntava sulle ciglia, poiché la mia vita Era piena di
tormento: e lo è ancora né cambia modo di essere, O mia amata luna. Eppure mi è gradito Il ricordo, e
contare la durata Del mio dolore. Oh com’è gradito Durante la giovinezza, quando la speranza Ha ancora un
corso lungo e la memoria uno breve di fronte a sé, Ricordare le cose passate, Anche se dolorose e sebbene
l’affanno non finisca.

Analisi – commento

Alla luna è un componimento scritto da Leopardi attorno al 1819 e inserito nell’edizione dei Canti del 1831.
L’aggiunta dei versi 13 e 14 è stata fatta nell’edizione postuma del 1845.

Il tema della poesia è squisitamente romantico. Essa sviluppa il rapporto che c’è tra uomo e paesaggio
notturno senza trascurare il tema assai caro di quanto un ricordo possa essere dolce e amaro per l’uomo.

La poesia parte con l’invocazione alla luna, astro molto caro a Leopardi e suo confidente rispetto alle
continue angosce che vive. L’abitudine a confidarsi con la luna, se non con regolarità serrata con una certa
periodicità, è sottolineata dalla specificazione temporale “or volge l’anno” (v. 2): a un anno di distanza
dall’ultima volta che si è confidato con il satellite, Leopardi può fare un nuovo bilancio della propria vita e
del proprio dolore.

Appare evidente sin da subito come, in questa poesia, ci sia una combinazione tra gli scorci di paesaggio
notturno e le sensazioni dell’autore nel momento in cui lo guarda e il ricordo di quando il poeta, già in
passato, andava a confidarsi con la luna.

Leopardi si rivolge direttamente alla luna la quale, tuttavia, comunque non può capire fino in fondo il suo
tormento interiore: non a caso, mentre l’io poetico è “pien d’angoscia” (v. 3), la luna è “graziosa” (v. 1).

Questo componimento ha più di un punto in comune con L’infinito, a partire dalla forma e dal periodo in
cui è stato composto, così come dal luogo privilegiato d’osservazione: la sommità del Monte Tabor. Le due
poesie sono accomunate anche dalla brevità e dalla densità di significato in così pochi versi.

La luna, inoltre, regna sovrana anche nella poesia La sera del dì di festa e celebre è l’incipit, sempre
dedicato alla luna, del Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, a sottolineare come la componente
romantica data dal cielo e dall’astro notturno non manchino praticamente mai nell’espressione artistica del
poeta.
Il blocco compatto di sedici endecasillabi di cui la poesia è composta non viene suddiviso nemmeno dalle
rime. Attuare è possibile realizzare una divisione dal punto di vista contenutistico, come già accennato
all’inizio, dal momento in cui il poeta si rivolge alla luna nominandola direttamente: “O graziosa luna” (v. 1)
e “o mia diletta luna” (v. 10).

Nella prima invocazione domina il paesaggio notturno verso il quale Leopardi proietta la propria angoscia
tornando su quel colle, un anno dopo, e vedendo la stessa luna che vide allora. Nonostante il tempo sia
passato, lo stato d’animo dell’autore non è cambiato.

La prima parte del componimento è dunque prevalentemente narrativa, mentre dal decimo verso in poi si
apre una riflessione teorico-filosofica incentrata sulla poetica della rimembranza.

Il poeta osserva la luna solo attraverso i suoi occhi, vedendola sfocata e deformata a causa del suo pianto. Il
dolore si rinnova, quindi, nell’incontro con la luna; non sappiamo la causa di questo male che il poeta sta
vivendo, un dolore immutabile di cui la luna è testimone. Il ricordo di un passato triste che si tramuta in un
presente triste sembra consolare il poeta, anche se nel testo non viene spiegato il motivo per cui è così.
Tutta la poesia è strutturata sull’opposizione tra passato e presente, sebbene i sentimenti permangano
uguali il poeta trova un po’ di consolazione nel ricordo. Proprio il ricordo permette di avere il tono dolce e
pacato di questo testo.

Figure retoriche

Enjambements:

vv 8-9 travagliosa / era la mia vita

vv 10-11 mi giova / la ricordanza

vv 11-12 l’etate / del mio dolore

vv 13-14 lungo/ la speme

Allitterazione

La lettera ‘L’ nelle parole Luna-voLge-coLLe- aLLor

Anafora

Vv 1;10 o graziosa luna (…) o mia diletta luna

Metonimia

v.6 pianto

Metafora

v.7 luci (occhi)

Iperbato:

vv 6-8 Ma nebuloso e tremulo dal pianto / che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci / il tuo volto apparia

Anastrofe

vv. 13-14 lungo/la speme e breve ha la memoria il corso

Chiasmo

vv. 13-14 lungo/la speme e breve ha la memoria il corso


Ultimo canto di saffo
Analisi

Parafrasi discorsiva

Notte serena e raggio puro della luna che sta per tramontare; e tu, Venere, che annunci il sorgere del
giorno, spuntando sulla roccia in mezzo al bosco silenzioso; oh immagini gradite e care ai miei occhi finché
mi sono rimaste sconosciute le passioni amorose e il destino; ormai un gradevole spettacolo non provoca
piacere a chi prova sentimenti disperati. Un’insolita gioia ci anima quando attraverso l’aria limpida e i campi
sconvolti si agita la furia polverosa dei venti, e quando il pesante carro di Giove, tuonando sulle nostre
teste, squarcia l’aria cupa. Per noi è piacevole immergerci nelle nubi attraverso i dirupi e le valli profonde;
(è piacevole) la fuga caotica delle greggi impaurite; o il fragore e la forza devastante delle onde contro la
riva non sicura di un fiume profondo.

È bello il tuo aspetto, o cielo divino, e tu sei bella, terra rugiadosa. Ahimè, gli dei e la sorte crudele non
hanno fatto partecipare in nessun modo l’infelice Saffo di questa immensa bellezza. O natura, io, assegnata
come un’estranea disprezzata e indesiderata e come un’amante denigrata ai tuoi splendidi regni, rivolgo
invano angosciata il mio cuore e i miei occhi alle tue bellezze. A me non sorride la campagna soleggiata, né
l’alba mattutina dalla porta da cui sorge il sole; non mi salutano né il canto degli uccelli colorati, né il
mormorio dei faggi: e dove, all’ombra dei salici dai rami inchinati verso terra, un limpido ruscello fa scorrere
le sue acque pure, questo sottrae con disprezzo le acque sinuose al mio piede che scivola e mentre fugge
tocca le rive profumate.

Quale colpa mai, quale peccato così empio mi ha macchiato prima del giorno della mia nascita perché mi
fossero così ostili il destino e la sorte? Che peccati ho commesso da bambina, quando la vita non ha ancora
conosciuto le cattive azioni, cosicché poi il mio filo color della ruggine, privo di giovinezza e sfiorito, si
avvolgesse al fuso dell’inesorabile Parca (divinità che governa la vita e la morte)? Le tue labbra pronunciano
frasi troppo audaci: una volontà a noi sconosciuta determina gli eventi cui siamo destinati. Tutto è
sconosciuto, tranne il nostro dolore. Noi, figli disprezzati, siamo nati solo per piangere e la motivazione si
trova nella mente degli dei. Oh preoccupazioni, oh speranze della giovinezza! Giove, il padre degli dei,
attribuì alle apparenze esteriori, al bell’aspetto un potere eterno tra gli uomini; e il valore dimostrato
tramite le imprese eroiche oppure la musica o il canto poetico, non risplende in un corpo non bello.

Moriremo. Abbandonato sulla terra il corpo brutto, l’anima priva di corpo fuggirà presso Dite (divinità
infernale), e correggerà il crudele errore di colui che distribuisce le sorti alla cieca. E tu, Faone, a cui mi
hanno legato inutilmente un amore e una fedeltà di lunga durata e una inutile passione derivante da un
desiderio insoddisfatto, vivi felice, se mai un uomo sulla Terra è vissuto felice. Giove non mi cosparse del
piacevole liquido del vaso poco usato dei piaceri, dopo che finirono le illusioni e i sogni della mia
fanciullezza. Ognuno dei giorni più felici della nostra vita è il primo ad andarsene. Subentrano la malattia, la
vecchiezza e l’ombra della fredda morte. Ecco, di tanti premi desiderati e piacevoli illusioni, mi resta solo la
morte, e accolgono il mio forte ingegno la dea di Capo Tenario (Proserpina, dea degli Inferi), e la notte
oscura e la riva silenziosa dell’Acheronte.

Figure retoriche

Di seguito si riportano le figure retoriche che accompagnano il testo:

Anastrofi: vv. 16-17: «d’alto / fiume alla dubbia sponda»; vv. 30-31: «de’ faggi / il murmure»; v. 39: «di
fortuna il volto»; vv. 40-41: «ignara / di misfatto è la vita»; vv. 44-45: «incaute voci / spande il tuo labbro»;
vv. 45-46: «i destinati eventi/ move arcano consiglio»;
Apostrofi: vv. 1-2: «placida notte, e verecondo raggio / della cadente luna»; vv. 2-4: «e tu che spunti / […]
nunzio del giorno»; v. 19: «o divo cielo»; v. 20: «rorida terra»; v. 24: «o Natura»; vv. 49-50: «Oh, cure, oh
speme/ de’ più verd’anni!»;

Chiasmo: vv. 29-31: «me non il canto / de’ colorati augelli, e non de’ faggi / il murmure»;

Enjambements: vv. 1-2; vv. 6-7; vv. 10-11; vv. 15-16; vv. 16-17; vv. 20-21; vv. 22-23; vv. 25-26; vv. 27-28; vv.
29-30; vv. 30-31; vv. 31-32; vv. 32-33; vv. 37-38; vv. 38-39; vv. 40-41; vv. 41-42; vv. 42-43; vv. 43-44; vv. 44-
45; vv. 45-46; vv. 47-48; vv. 48-49; vv. 49-50; vv. 51-52; vv. 57-58; vv. 58-59; vv. 59-60; vv. 62-63; vv. 64-65;
vv. 65-66; vv. 67-68; vv. 68-69; vv. 70-71;

Epanalessi: vv. 11-12: «il carro/ grave carro di Giove»; vv. 50-51: «alle sembianze il Padre/ alle amene
sembianze»;

Interrogative retoriche: vv. 37-39: «Qual fallo mai, qual sì nefando eccesso/ macchiommi anzi il natale,
onde sì torvo/ il ciel mi fosse e di fortuna il volto?»; vv. 40-44: «In che peccai bambina, allor che ignara/ di
misfatto è la vita, onde poi scemo/ di giovanezza, e disfiorato, al fuso/ dell’indomita Parca si volvesse/ il
ferrigno mio stame?»;

Iperbati: vv. 2-4: «e tu che spunti / fra la tacita selva in su la rupe / nunzio del giorno»; vv. 4-6: «oh dilettose
e care/ mentre ignote mi fur l’erinni e il fato, / sembianze»; v. 8: «noi l’insueto allor gaudio ravviva» ; vv.
17-19: «o d’alto/ fiume alla dubbia sponda/ il suono e la vittrice ira dell’onda»; vv. 20-23: «Ahi! di cotesta /
infinita beltà parte nessuna / alla misera Saffo i numi e l’empia / sorte non fenno»; vv. 41-44: «onde poi
scemo / di giovanezza, e disfiorato, al fuso / dell’indomita Parca si volvesse / il ferrigno mio stame?»; vv. 57-
58: «e il crudo fallo emenderà del cieco / dispensator de’ casi»; vv. 59-60: «e vano / d’implacato desio furor
mi strinse»;

Metafore: v. 44: «il ferrigno mio stame»; vv. 48-49: «la ragione in grembo / de’ celesti si posa»; v. 50: «de’
più verd’anni; v. 54: «disadorno ammanto»; v. 55: «velo indegno»; vv. 51-52: «alle amene sembianze,
eterno regno/ die’ nelle genti»; v. 53 «per dotta lira o canto»; vv. 62-64: «Me non asperse / del soave licor
del doglio avaro / Giove»; v. 64: «perir gl’inganni»;

Metonimia: v. 45: «il tuo labbro»;

Perifrasi: vv. 57-58: «cieco / dispensator de’ casi»; v. 62: «nato mortal»; v. 71: «tenaria Diva»;

Polisindeti: vv. 24-25: «vile, o Natura, e grave ospite addetta,/ e dispregiata amante»; v. 67: «il morbo, e la
vecchiezza, e l’ombra»; vv. 71-72: «la tenaria Diva, e l’atra notte, e la silente riva»;

Sineddoche: v. 26: «pupille».

Analisi e Commento

L’Ultimo canto di Saffo, insieme al Bruto minore, è considerato una delle cosiddette “canzoni del suicidio”
del 1821-1822 e chiude la prima sezione dei Canti leopardiani, quella dedicata alle canzoni civili o
patriottiche. Ponendo il testo in questa posizione, secondo Zottoli, è chiaro che per Leopardi «la morte di
Saffo era l’avvenimento decisivo che segnava la fine di un periodo poetico».

Questa canzone trae spunto da un passo delle Heroides di Ovidio, in cui viene narrato l’amore della
poetessa greca per il giovane Faone, che la disprezzava per la sua bruttezza. Nel testo leopardiano, però,
all’infelicità individuale dell’io lirico, escluso e triste a causa di un corpo deforme, si affianca l’idea di
un’infelicità universale che coinvolge l’intera umanità di ogni tempo: anche gli antichi Greci, pertanto,
erano infelici, perché alla natura, considerata ancora una madre benigna, si affianca il fato crudele, che
destina inevitabilmente l’uomo alla sofferenza. Ciò si riflette, in particolare, nell’uso dei pronomi, in cui
all’io, si alterna costantemente il noi, per accomunare il destino della poetessa a quello di tutti gli uomini.
Siamo dunque di fronte ad una Saffo profondamente moderna, che, abbandonata ogni illusione, ha assunto
piena consapevolezza dell’”arido vero”: il suo dolore è direttamente proporzionale alle sue notevoli qualità
d’animo. In Saffo, evidentemente, Leopardi proietta, almeno in parte, la sua personale esperienza; tuttavia,
l’impianto della canzone, con il contrasto tra l’io e il mondo, non si può ridurre al solo dato biografico, bensì
è il frutto di profonde riflessioni filosofiche.

Ultimo canto di Saffo inizia con la serena contemplazione di un paesaggio notturno; tuttavia, la serenità è di
breve durata, in quanto, già al v. 5, con i richiami alle “Erinni” e al “Fato” diventa evidente che la bellezza
della natura non ha alcun rapporto, anzi è in contrasto, con i “disperati affetti” di Saffo, che predilige,
invece, un paesaggio ben più cupo e tempestoso, quale quello evocato nei vv. 8-18, poiché, attraverso
l’esperienza dolorosa dell’amore, ella è diventata consapevole dell’infelicità umana. Nella seconda strofa,
diventa evidente che la donna è irrimediabilmente esclusa dalla bellezza della natura, rappresentata da
pochi elementi molto evocativi (il cielo, la terra umida di rugiada, gli uccelli, un albero e un ruscello). La
terza e la quarta strofa sono tutte incentrate sull’io lirico, che sottolinea la sua innocenza di bambina per
mettere in evidenza quanto siano inspiegabili e senza motivo le sofferenze subite. Ogni illusione giovanile è
destinata a cadere, rimane solo la certezza del dolore, dal momento che il mondo apprezza solo la bellezza
esteriore e non quella dell’animo. Spenta infine ogni illusione, l’unico possibile rimedio alla crudeltà del
destino resta, dunque, il suicidio.

Saffo incarna qui il modello del suicidio eroico, considerato un gesto di libertà interiore, secondo una
concezione analoga a quella dello Stoicismo antico; Leopardi giustifica il suicidio come gesto di rivalsa
dell’intellettuale che, nel Settecento, ha perso il suo ruolo, in quanto la poesia è diminuita d’importanza, a
favore della scienza.

La lirica Ultimo canto di Saffo è caratterizzata da numerose metafore ardite e sentenze lapidarie e da un
lessico decisamente aulico. Frequenti ed espressivi sono anche gli enjambements, gli iperbati e le anastrofi.

Il sabato del villaggio


Parafrasi discorsiva

La giovane contadina torna dai campi al tramonto del sole con il fascio d’erba e porta in mano un mazzetto
di rose e viole, con il quale, come è usanza, si prepara ad abbellire il seno ed i capelli, domani per il giorno
di festa. La vecchietta siede sulle scale a filare con le vicine, rivolta al tramonto, alla direzione in cui il giorno
finisce; e inizia a raccontare della sua giovinezza, quando si faceva bella nei giorni di festa e, ancora in
salute e in forma, era solita ballare la sera con quelli che furono compagni della sua giovinezza, della sua età
più bella. Tutta l’aria si oscura già, il cielo ritorna azzurro e le ombre, alla luce bianca della luna sorta da
poco, tornano a vedersi giù dai colli e dai tetti. Ora la campana annuncia la festa che arriva e si potrebbe
dire che a quel suono l’animo trova conforto. I ragazzi, gridando a gruppi nella piazzetta e saltellando qua e
là, producono un rumore che rende felici: e intanto lo zappatore ritorna a casa per il suo pasto frugale
fischiettando e pensa tra sé e sé al suo giorno di riposo. Poi, quando intorno è spenta ogni altra luce e tutto
il resto è in silenzio, senti picchiare il martello, senti il rumore della sega del falegname che sta sveglio alla
luce della lucerna nel chiuso della sua bottega e si affretta e si dà da fare per finire il suo lavoro prima del
sorgere del sole. Questo (il sabato), tra sette giorni, è il più amato, pieno di speranza e di gioia: domani
(domenica) la tristezza e la noia riempiranno le ore e ciascuno tornerà col pensiero al suo lavoro consueto.
Ragazzo spensierato, questa età giovanile è come un giorno pieno di allegria, un giorno chiaro, sereno, che
precede la tua maturità. Sii felice, ragazzo mio; questa è una condizione felice, un’età serena. Non voglio
dirti altro; ma non ti sia di peso che la tua maturità tardi ancora a giungere.
Le figure retoriche ne Il sabato del villaggio

Diamo uno sguardo alle figure retoriche presenti nella poesia Il sabato del villaggio che, con A Silvia, è uno
dei componimenti più celebri del poeta.

 Allitterazione: “donzelletta, vecchierella, novellando, sulla, bella, colli”; “giorno, chiaro, ciascuno, gioia,
stagion, pien, pensier, lieta”
 Anadiplosi: vv. 45-46: “un giorno d’allegrezza pieno / giorno chiaro, sereno”
 Anastrofe: v. 11: “novellando vien”; v. 45: “d’allegrezza pieno”
 Apostrofe: v. 43: “garzoncello scherzoso”; v. 48: “fanciullo mio”
 Enjambement: vv. 4-5: “reca in mano / un mazzolin di rose e di viole”; vv. 33-34: “la sega / del
legnaiuol”; vv. 40-41: “tristezza e noia / recheran l’ore”
 Iperbato: vv.6-7: “tornare ella si appresta / dimani, al dì di festa, il petto e il crine”; v. 41-42: “ed al
travaglio usato / ciascuno in suo pensier farà ritorno”; vv. 50-51: “ma la tua festa / ch’anco tardi a venir
non ti sia grave”
 Metafora: “età più bella” (v. 15); “età fiorita” (v. 44); “stagion lieta” (v. 49) indica la giovinezza; “festa”
(vv. 47 e 50) a significare la maturità
 Metonimia: v. 17: “il sereno” (per indicare il cielo)
 Ossimoro: v. 27 “lieto romore”
 Preterizione: v. 50: “altro dirti non vo’”
 Similitudine: vv. 44-45: “cotesta età fiorita è come un giorno d’allegrezza pieno”

Analisi – commento

Il titolo della poesia, Il sabato del villaggio, connota da subito, temporalmente, il giorno in cui si svolge la
scena. Non si tratta di un giorno qualsiasi ma è un giorno speciale, è il sabato che preannuncia l’arrivo della
festività. Un inconsueto fervore pervade tutti in attesa che si realizzi l’arrivo della domenica.

La lirica si apre su questa contrapposizione di attesa e realizzazione, attraverso due figure esemplari:

• La ragazza (donzelletta), di cui viene messa in luce la dinamicità, vivacità e l’entusiasmo giovanile, che
rappresenta l’aspettativa, l’attesa di una vita che deve ancora realizzarsi;

• La vecchietta (vecchierella), descritta in una posizione di quiete (siede), volta a ricordare il passato, il
periodo felice della giovinezza e che rappresenta quindi la realizzazione delusa dell’aspettativa giovanile. Le
due figure, simbolo di due età della vita umana, sono l’una, la giovane, tutta protesa verso il futuro, e
l’altra, la vecchietta, rivolta verso il passato. Le scenette di vita paesana che seguono si sviluppano in
parallelismo con la donzelletta e la vecchierella attraverso altre due figure:

• I bambini che correndo e gridando manifestano la gioiosa attesa del giorno di festa;

• Lo zappatore che torna stanco alla sua casa ed esprime la sua gioia in modo più pacato. Per lui,
disincantato dalla vita, il giorno di festa rappresenta solo un giorno di riposo. Infine c’è l’immagine del
falegname, il legnaiuol, di cui viene messa in rilievo l’ansia di finire il lavoro per poter godere in tempo della
festività e risulta perciò ancora più vittima del grande inganno che la vita riserva agli uomini: l’attesa di una
gioia che non verrà. Nella parte riflessiva della lirica Leopardi, chiarendo il senso della parte descrittiva,
esprime la sua opinione sulla vita che non riserva che delusioni così come la domenica tanto attesa in realtà
porta con sé solo noia e tristezza. La condizione più prossima all’esperienza del piacere è l’attesa del
piacere stesso, per questo nella conclusione il poeta si rivolge ad un ideale fanciullo, poiché la fanciullezza è
l’età in cui la vita appare gioiosa e piena di speranze e in cui si è ancora ignari dell’amara realtà della vita,
ammonendolo di godere del presente senza aspettare nulla dal futuro, in modo da non rimanere deluso.
Nonostante la negatività del messaggio il tono risulta lieve, il poeta si rivolge al fanciullo con affettuosità,
utilizzando il termine letterario e benevolo di garzoncello, lo mette in guardia ma senza toni eccessivi, anzi
si trattiene dal dire altro (altro dirti non vo’), ricorrendo ad un particolare espediente espressivo che ha il
nome di reticenza (o preterizione). In realtà Leopardi in questo modo allude a qualcosa di non detto e
quindi, indirettamente, rivela, in maniera sottintesa, molto di più.

Canto notturno di un pastore errante dell’asia


Parafrasi discorsiva

Che fai tu nel cielo! Dimmi che fai, o luna silenziosa? Sorgi la sera illuminando i deserti, poi tramonti: non
sei ormai stanca di ripercorrere i sentieri eterni del cielo?

Non provi noia, ancora desideri contemplare queste terre?

La vita del pastore è simile alla tua. Si alza appena sorge il sole, porta il gregge oltre il suo campo per vedere
altri greggi, altre sorgenti e altri prati; alla fine, stanco, di riposa con l’arrivo della sera: non spera mai di
vedere qualcosa di diverso.

Dimmi, o luna, quale significato per il pastore ha la sua vita e che senso ha la vostra per voi astri? Dimmi:
dove stiamo andando, io col mio breve vagare e e tu col tuo percorso immortale?

Vecchio e coi capelli bianchi, debole, vestito male e senza scarpe, con un fardello molto pesante da portare
sulle spalle, attraverso monti e valli, attraverso sassi taglienti e sabbia alta e cespugli, con vento e tempesta,
sia quando è estate che quando è inverno, corre via, respirando affannosamente, attraversa torrenti e
paludi e cade e si rialza, e quanto più si affretta, senza mai riposo o tregua, lacero e sanguinante; fino a che
non arriva nel posto dove tutte le sue fatiche erano indirizzate fin dal primo momento, e non è altro che un
orrendo immenso abisso, precipitando nel quale dimentica tutto.

Vergine luna, è così la vita umana.

L’uomo nasce con fatica e perfino la nascita lo mette a rischio di morte. Prova, innanzitutto, sofferenza e
angoscia; e subito la madre e il padre iniziano a consolare il piccolo per essere nato.

Mano a mano che cresce, poi, i genitori lo sostengono e di continuo, tramite azioni e parole, si prodigano
per fargli coraggio, consolandolo del fatto di essere umano: non c’è cosa più gradita che i genitori possano
fare per i figli.

Ma allora perché mettere al mondo, perché mantenere in vita chi poi bisogna consolare? Se la vita è solo
dolore e sofferenza, perché la si sopporta?

Intatta luna, è questa la condizione degli uomini. Tu, però, non sei mortale e probabilmente poco ti importa
delle mie parole.

Eppure tu, solitaria ed eterna viandante del cielo, che sei tanto pensierosa, forse anche tu capisci come sia
questa vita terrena, cosa siano le nostre sofferenze e i sospiri, che cosa questo morire, questo impallidire
estremo del viso, lo scomparire della terra e abbandonare chi abbiamo amato e che per tanto tempo ci ha
fatto compagnia. Sicuramente tu capisci il perché delle cose, vedi lo scopo del mattino, della sera e dello
scorrere incessante del tempo. Sai, certamente, a quale dei suoi dolci amanti sorride la primavera a chi sia
d’aiuto il caldo, cosa procuri l’inverno con il suo ghiaccio.

Mille sono le cose che tu conosci, e altrettante ne riscopri, tutte nascoste a un semplice pastore. Spesso
quando ti ammiro mentre sei lassù, silenziosa sulla pianura deserta che, all’estremo orizzonte, confina con il
cielo; oppure mentre mi stai dietro, passo dopo passo, a me e al mio gregge; e quando guardo le stelle che
luccicano in cielo dico, pensando tra me e me: che cosa fanno tante stelle? Cosa fa lo spazio infinito del
cielo, l’immensa volta celesta? Cosa vuol dire questa immensità in cui l’uomo è solo? E cosa sono io?
Questo penso, tra me e me: e non riesco a trovare né un senso né uno scopo, sia per quanto riguarda la vita
del vasto e grandioso universo, sia per i tanti esseri che lo abitano; e nemmeno il senso e lo scopo di tanto
affaccendarsi, dei movimenti numerosi degli astri e delle cose terrene, che girando senza sosta tornano poi
al loro punto di partenza.

Ma tu sicuramente, giovincella immortale, conosci già tutto quanto. Io solo questo capisco e so: che forse
qualcun altro otterrà gioia e utilità dal movimento eterno degli astri e dalla mia fragile esistenza; per me,
invece, la vita è una condizione di dolore.

O mio gregge che riposi, beato te che, credo, non conosci la tua miseria! Quanta invidia provo per te! Non
solo perché soffri di pochi dolori, e ogni fatica, ogni danno, ogni paura che provi, per quanto grande, la
dimentichi subito; ma soprattutto perché non hai idea di cosa sia la noia. Quando sei sdraiato all’ombra, sul
prato, sei tranquillo e contento; la gran parte della tua esistenza la trascorri senza provare noia.

Anch’io sto seduto sul prato all’ombra, e un pensiero opprime la mia mente, un irrequietezza che mi rode
tanto che, pur sedendo tranquillo, mai sono stato più lontano dalla pace o dal riposo.

Eppure, almeno per ora, nulla desidero e non ho alcun vero motivo per lamentarmi.

Non so quanto tu gioisca o di cosa, ma sicuramente sei fortunato. Anche io godo di pochi piaceri, o mio
gregge, ma non mi lamento solo per questo.

Se tu sapessi parlare, allora io ti chiederei: dimmi, perché ogni animale che riposa e ozia è contento e io,
invece, se giaccio comodamente sono assalito dalla noia?

Forse, se avessi le ali, se potessi volare sopra le nuvole, contando le stelle una a una, o potessi errare come
il tuono, da vetta a vetta, sarei più felice, dolce mio gregge, sarei più contento, o candida luna.

Ma no, forse mi sbaglio e il mio pensiero si allontana dalla verità quando guarda alle condizioni degli altri:
forse per qualunque forma, in qualsiasi condizione, dentro una tana o in una culla, il giorno della nascita è
solo causa di dolore e lutto.

Analisi - commento

Con i cosiddetti “grandi idilli”, di cui Canto notturno di un pastore errante dell’Asia fa parte, Leopardi torna
alla poesia, dopo l’intervallo di sei anni delle Operette morali. Queste poesie, a differenza degli idilli
giovanili, sono pervase dalla consapevolezza dell’”arido vero”, causata dalla fine delle illusioni giovanili. Lo
spunto del componimento deriva da un articolo letto su una rivista del 1826 riguardante le abitudini e i
canti malinconici dei pastori asiatici. Partendo da tale suggestione, nella sua poesia più filosofica, Leopardi
non parla in prima persona, come avviene solitamente, ma affida le sue riflessioni a un pastore, un uomo
semplice e ingenuo proveniente da una terra lontana e non ben definita, il quale analizza filosoficamente la
sua infelicità e quella universale, facendosi portavoce del tedio e dello sgomento provati da ogni uomo di
fronte a un’esistenza dolorosa di cui non si comprende il significato. In questo modo, tramite la scelta di un
uomo umile e proveniente da terre lontane, gli interrogativi acquistano una forza particolare, primordiale e
assoluta, e l’infelicità si configura come una caratteristica tipica dell’uomo di ogni tempo e di ogni
condizione. La luna, tipica interlocutrice di Leopardi, è ad un tempo, bella e così vicina da invitare al dialogo
(come in Alla luna), ma anche distante, gelida e muta: infatti, non risponde mai agli angosciosi interrogativi
posti dal pastore, apparendo totalmente indifferente alle sofferenze dell’uomo. Altri interlocutori sono gli
animali, il gregge, cui Leopardi chiede come mai non provi tedio quando giace in riposo sull’erba. Il tedio è,
secondo Leopardi, un sentimento che nobilita l’uomo in quanto dotato di ragione e lo distingue dagli
animali, anche se gli impedisce di sentirsi appagato. La vita appare come un cammino faticosissimo verso la
morte; l’uomo è per sua stessa natura portato all’infelicità: dunque, dal pessimismo “storico” e individuale,
si è ormai passati al pessimismo “cosmico”: al termine del componimento emerge che non solo per l’uomo
la vita è fonte di sofferenza, ma per qualunque creatura vivente venga al mondo. L’universo resta un
enigma indecifrabile, in cui l’unico elemento certo è la morte. La figura allegorica del “vecchierel bianco
infermo” è tratta da Petrarca, ma la vita dell’uomo qui è comparata a quella di un astro, con una evidente
sproporzione tra la breve vita dell’uomo e la vita infinita dell’universo: l’esistenza umana è una corsa
affannosa e inutile verso il nulla, come l’affannarsi vano di un vecchio che corre verso l’abisso in cui
precipita. L’elemento dell’”abisso orrido immenso” notturno con elementi esotici e l’aura di mistero e
l’interrogativo sul significato della vita, si apre alla poetica romantica. Lo stile del componimento Canto
notturno di un pastore errante dell’Asia è quello tipico dei grandi canti del 1828-30, con molti termini
“vaghi e indefiniti”, ritmo fluido, struttura sintattica chiara, ma è assente la memoria delle illusioni giovanili.
L’unico tratto regolare della struttura metrica è la costante rima in “ale” – che riguarda tutte le frasi topiche
e proverbiali – la quale mette in evidenza le parole chiave del canto e, secondo il critico Fubini, conferisce
“il sapore musicale di un’antichissima nenia”.

Figure retoriche

Di seguito sono riportate le figure retoriche che accompagnano il Canto notturno:

Adynaton: v. 128: «Se tu parlar sapessi, io chiederei»; vv. 133-138: «Forse s'avess'io l'ale… più felice sarei»;

Allegoria: v. 21 (occupa l’intera strofa): «Vecchierel bianco infermo»;

Allitterazioni della "v": vv. 16-19: «Dimmi, o luna: a che vale / al pastor la sua vita, / la vostra vita a voi?
dimmi: ove tende / questo vagar mio breve, / il tuo corso immortale?»; della "l": vv. 1-2: «Che fai tu, luna,
in ciel? dimmi, che fai, / silenziosa luna?»; della "s": v. 14: «poi stanco si riposa in su la sera»; vv. 3-4: «sorgi
la sera, e vai, / contemplando i deserti; indi ti posi»; vv. 65-66: «che sia questo morir, questo supremo /
scolorar del sembiante»;

Anadiplosi: vv. 9-10: «alla tua vita/ la vita»; vv. 17-18: «la sua vita/ la vostra vita»; vv. 64-65: «che sia;/ che
sia»;

Anafore: vv. 5,7: «ancor»; vv. 16, 18: «dimmi»; vv. 52-53, 56: «perché»; vv. 101-102: «che»; vv. 137-138:
«più felice sarei»; vv. 133, 139, 141: «forse»;

Anastrofi: vv. 94-98: «d'ogni celeste, ogni terrena cosa/… uso alcuno, alcun frutto/ indovinar non so»; vv.
101-104: «degli eterni giri / dell’esser mio frale,/ qualche bene o contento/ avrà fors'altri»; vv. 108-109:
«d’affanno/ quasi libera vai»; v. 132: «me, s'io giaccio in riposo, il tedio assale?»;

Antitesi: vv. 17-18: «al pastor la sua vita/ la vostra vita a voi»; vv. 19-20: «questo vagar mio breve/ il tuo
corso immortale»; vv. 57-59: «tale/ è lo stato mortale./ Ma tu mortal non sei»; vv. 98-100: «Ma tu per
certo,/ giovinetta immortal, conosci il tutto./ Questo io conosco e sento»; vv. 103-104: «qualche bene o
contento/ avrà fors'altri; a me la vita è male»; vv. 113-117: «Quando tu siedi all'ombra …/ ed io pur seggo
sovra l’erbe all'ombra»; vv. 124-126: «Quel che tu goda o quanto/ non so già dir…/ ed io godo ancor poco»;
vv. 129-132: «giacendo/ a bell'agio, ozioso,/ s’appaga ogni animale;/ me, s’io giaccio in riposo, il tedio
assale»;

Apostrofe: v. 1: «luna»; v. 2: «silenziosa luna»; v. 16: «o luna»; v. 37: «vergine luna»; v. 57: «intatta luna»;
v. 61: «solinga, eterna peregrina»; v. 99: «giovinetta immortal»; v. 105, 127: «o greggia mia»; v. 137: «dolce
mia greggia»; v. 138: «candida luna»;

Chiasmi: vv. 16-18: «a che vale /al pastor la sua vita, / la vostra vita a voi?»; v. 97: «uso alcuno, alcun
frutto»;

Enjambements: vv. 12-13; vv. 16-17; vv. 18-19; vv. 26-27; vv. 69-70; vv. 70-71; vv. 75-76; vv. 87-88; vv. 88-
89; vv. 90-91; vv. 93-94; vv. 108-109; vv. 108-109; vv. 141-142;
Epanadiplosi: v. 1: «che fai… che fai»;

Esclamazioni: v. 105-106: «o greggia mia che posi, oh te beata / che la miseria tua, credo, non sai!»; v. 107:
«Quanta invidia ti porto!»;

Interrogative retoriche: vv. 1-2: «che fai tu, luna…?»; vv. 5-6: «Ancor non sei tu paga…calli?»; vv. 7-8:
«Ancor non prendi a schivo… valli?»; vv. 16-18: «Dimmi, o luna… a voi?»; vv. 18-20: «dimmi: ove tende…
immortale?»; vv. 52-54: «Ma perché dare al sole …. Consolar convenga?»; vv. 55-56: «Se la vita …si dura?»;
v. 86: «A che tante facelle?»; vv. 87-88: «Che fa l’aria infinita …infinito seren?»; vv. 88-89: «che vuol dir…
immensa? Ed io che sono?»; vv. 129-132: «dimmi: perché giacendo / … il tedio assale?»;

Iperbole: vv. 35-36: «abisso orrido, immenso/ ov'ei precipitando il tutto obblia»;

Metafore: v. 19: «questo vagar mio breve»; v. 52: «dare al sole»; vv. 65-66: «supremo/ scolorar del
sembiante»; v. 70: «frutto»; v. 75: «l’ardore»; v. 86: «facelle»; vv. 90-91: «stanza/ smisurata e superba»; v.
92: «innumerabile famiglia»; v. 119: «uno spron quasi mi punge»;

Metonimia: v. 142: «dentro covile o cuna»;

Ossimoro: v. 143: «è funesto a chi nasce il dì natale»;

Personificazioni: vv. 61-62: «solinga, eterna peregrina,/ che sì pensosa sei»; v. 80: «muta»; v. 99:
«giovinetta immortal»;

Sineddochi: v. 21: «bianco»; v. 88: «seren»; v. 94: «celeste».

La Ginestra
Parafrasi discorsiva

[vv. 1-51] Qui sul crinale (schiena, v.1) desolato del monte spaventoso (formidabile, v.2) e distruttore
Vesuvio, il quale non è ornato dai colori di nessun altro arbusto o fiore, spargi intorno i tuoi cespi solitari,
profumata ginestra, felice nelle terre desolate. Un’altra volta (“anco”, v.7) ti vidi che abbellivi con i tuoi steli
anche i terreni solitari che circondano Roma (“la cittade”, v.9), la città regina (“donna”, v.10) degli esseri
umani una volta, e dell’Impero ormai da tempo caduto. E sembra (par che) che queste campagne con il loro
silenzioso e cupo aspetto testimonino e ricordino a chi vi passa (passeggero) il passato di quei luoghi. Ti
rivedo adesso su questo terreno, tu che ami i luoghi malinconici e isolati dal resto del mondo, e accompagni
sempre ciò che dalla grandezza è caduto in disgrazia (“afflitte fortune”, v.16). Questi campi sui cui sono
distese ceneri che li rendono sterili, e coperti dalla lava dissecata e ormai divenuta roccia che rintocca sotto
i passi di chi la calpesta (“peregrin”, v.20); dove si nasconde nella sua tana o si distende arrotolandosi al
sole il serpente, e dove alla familiare e profonda tana (“covil”, v.23) torna il coniglio; furono coltivati questi
campi e popolati di ricche città, (“liete ville”, v.24) e biondeggiarono di grano e messi, e risuonò l’aria dei
muggiti delle mandrie, vi furono giardini e regge sontuose, per lo svago dei potenti luogo prediletto; e vi
furono città celebri che con i suoi fiumi di lava il vulcano prepotente (“altero”, v.30) tuonando
(“fulminando”, v.31) dalla sua bocca infuocata seppellì insieme a tutti i loro abitanti. Ora tutto qui intorno è
avvolto in uno sfacelo, dove tu cresci, o fiore delicato, e come se stessi piangendo le disgrazie altrui,
nell’aria spargi un odore finissimo e profumato, che raddolcisce il dolore del deserto. In questi luoghi venga
chi ha l’abitudine (“ha in uso”, v.39) di entusiasmarsi della nostra condizione di esseri umani, e guardi con i
propri occhi quanto è cara (“in cura”, v.40) la nostra specie (“il gener nostro”, v.40) alla benevola natura. E
la potenza dell’uomo (“uman seme”, v.43) in questo posto con giusto metro di misura potrà valutare con
esattezza, a cui la natura, come una severa balia (“dura nutrice”, v.44), nel momento in cui egli ha meno
paura di essere sorpreso, con un minimo moto nell’attimo appena di un secondo è capace di radere al suolo
(“annichilare”, v.48) gran parte di ciò che egli crea e con moti ancora più leggeri in un baleno distruggere
tutto ciò che ne rimane. Qui su queste pendici (“rive”, v.49) come in un quadro è del genere umano ritratto
il destino di splendore e progresso.

[vv. 52-86] Vieni qui a guardarti in viso e specchiarti, secolo vano e superbo, che la via (“il calle”, v.54) sino
ad ora percorsa dal pensiero ritrovato del Rinascimento hai abbandonato, e sei tornato indietro, e
vantandoti del tuo cammino a ritroso, lo chiami avanzamento e progresso. Il tuo infantilismo
(“pargoleggiar”, v.59) tutti gli intellettuali, ai quali sei padre viste le loro posizioni erronee (“sorte rea”,
v.60), adulano e lodano continuamente, anche se a volte ti prendono in giro (“a ludibrio”, v.62) e ti
scherniscono segretamente (“tra sé”, v.63). Non io, io non morirò (“scenderò sotterra”, v.64)
comportandomi in un modo tanto infamante; piuttosto il disprezzo profondo racchiuso nel mio cuore per te
dimostrerò più apertamente che si possa: nonostante io sappia bene che l’oblio è la pena per chi fu troppo
sgradito all’età in cui visse. Di questa pena, che con te condivido, per il momento non mi preoccupo affatto
e anzi mi pare ridicola. Sogni di essere libero, e vuoi nello stesso momento che sia servo di nuovo il
pensiero, la sola cosa a cui si deve la nostra resurrezione parziale dalla barbarie passata, e la sola in virtù
della quale cresce la cultura e la civiltà, unico oggetto che verso il meglio indirizza il destino dei popoli
(“pubblici fati”, v.77). Così hai disprezzato la realtà del destino amaro e del luogo piccolo e meschino che la
natura ci ha concesso. Per questo le spalle (“il tergo”, v.80) hai volto da vigliacco alla luce della ragione (“il
lume”, v.81) che ci ha svelato il vero: e, fuggendo, chiami con il nome di vile chi la segue, e semplicemente
magnanimo chi prendendosi gioco di se stesso o degli altri, furbo o forse pazzo, innalza (“estolle”, v.86) sino
alle stelle l’urlo disperato degli uomini.

[vv. 87-157] Un uomo umile e malato (“povero stato e membra inferme”, v.87) che sia tuttavia nell’animo
generoso e nobile, non si ritiene né si definisce da solo ricco di tesori né forte, e di vita sfarzosa o vigorosa
costituzione del corpo, tra le persone non si vanta in maniera ridicola; ma essendo come un mendicante
che deve chiedere ad altri sostegno e denaro lascia che il suo stato si noti senza vergognarsi, e chiama,
quando ne parla, apertamente le cose con il loro vero nome e le valuta con esattezza (“chiama e fa stima al
vero uguale”, v.97). Un uomo dotato di sagacia (“magnanimo”, v.98) io non considero infatti (“già”, v.99),
ma piuttosto uno sciocco, chi, essendo nato per morire e nutrito unicamente di sofferenza, dice, sono fatto
per godere, e di orgoglio nauseante riempie libri; un futuro splendido e felicità tutte nuove, che nemmeno
l’universo intero conosce, e tanto meno questo pianeta, promette sulla terra a una massa di popoli che
un’onda di mare in tempesta o un semplice respiro di aria infetta da una pestilenza (“aura maligna”, v.108)
o un terremoto (“sotterraneo crollo”, v.108) sono capaci di annientare a tal punto, che sopravviverebbe
(“avanza”, v.109) a stento di loro il ricordo. Una nobile natura è invece quella di chi osa sollevare gli occhi
come semplice uomo contro il destino comune a tutti, e con lingua sincera e schietta, non togliendo nulla a
ciò che è vero, confessa e parla apertamente del dolore che ci è stato assegnato per destino e lo stato
infimo e debole in cui viviamo; è una natura nobile quella che tenace e solida si mostra nella sofferenza, né
odio e rabbia verso i propri fratelli esseri umani, sentimenti più gravi di ogni altra disgrazia, aggiunge alle
sventure che già prova di per sé, non incolpando perciò l’uomo come causa dei propri mali, ma accusando
colei che davvero è colpevole, la Natura, che degli esseri umani è madre perché li ha generati ma matrigna
per come si comporta con loro (“madre di parto e di voler matrigna”, v.125). È lei che devi chiamare
nemica; e contro di lei pensando se stessa come unita e schierata all’unisono (“ordinata in pria”, v.128),
com’è giusto e vero, la società umana considera tutti tra loro alleati gli uomini e tutti li abbraccia insieme
con sincero amore, porgendo o aspettando sempre un aiuto veloce ed efficace tra le tantissime minacce e
paure della guerra che tutti combattono insieme. E con le ingiurie verso i propri simili armare la mano degli
uomini, o porre ostacoli (“laccio”, v.136) o intralciare chi ci sta vicino reputa stupido, così come lo sarebbe
(“fora”, v.138) chi in un campo di battaglia, circondato dai nemici, nel pieno delle ondate incalzanti della
parte avversa, dimenticandosene, cominciasse ad aprire dispute aspre con i propri compagni di battaglia,
metterli in fuga e colpirli a morte (“fulminar”, v.143) brandendo la propria spada tra i soldati della propria
schiera. Un ragionamento di questo tipo, quando sarà, come lo è stato in fondo già in passato, noto a
chiunque, e quel sacro terrore che all’alba dei tempi (“orror primo”, v.147) contro la Natura malvagia
strinse tutti gli uomini come gli anelli di una catena sarà riportato tra noi almeno in parte dalla conoscenza
del Vero (“verace saper”, v.151), l’onestà e la rettitudine nei rapporti tra gli uomini (“conversar cittadino”,
v.152), la giustizia e la pietà, un altro fondamento più profondo (“radice”, v.153) avranno delle
farneticazioni illusorie e ottuse (“superbe fole”, v.154), sulle quali il coraggio dei popoli (“probità del volgo”,
v.155) potrebbe stare in piedi così come ci starebbe chi poggia i piedi su un terreno che vibrando crolla a
pezzi.

[vv. 158-200] Spesso su queste terre, che, deserte, di scuro sono vestite dalle onde di lava pietrificata, e
sembra che la loro superficie sia liquida, vengo a sedermi durante la notte, e sopra la triste distesa, nel cielo
sgombro e illuminato d’azzurro incontaminato, vedo le stelle in alto brillare come fiamme, sotto le quali si
distende più in là come uno specchio il mare, e vedo pieno di scintille sparse intorno per la volta celeste
sgombra (“lo voto seren”, v.166) il mondo brillare. E poi fissò gli occhi sulle luci delle stelle, a loro (gli occhi,
ndr) queste sembrano non essere che un piccolo punto, e invece sono immense, viceversa sono un punto
per loro (le stelle, ndr) la terra e il mare ed è questa la prospettiva veritiera (“veracemente”, v.171); e
perciò (“a cui”, v.171) non solo l’uomo, ma anche questo pianeta dove l’uomo vive è insignificante, è
assolutamente privo di importanza (“sconosciuto”, v.174); e quando osservo quegli ammassi (“nodi”, v.176)
ancor più sterminati e irraggiungibili di stelle, le galassie, che per noi assomigliano alla nebbia, alle quali non
solo l’uomo, non solo la terra, ma tutte insieme nel loro numero infinito e nella loro massa, con il sole
dorato insieme, le stelle, o sono anche esse sconosciute, o appaiono come essi appaiono alla terra, un
piccolo puntino di luce sfocata; alla luce di queste riflessioni, nel mio pensiero quale immagine può mai
comparire di te (“che sembri allora”, v.184), o stirpe degli esseri umani? E ricordando la condizione in cui
vivi quaggiù, della quale è simbolo il terreno vulcanico che sto calpestando in questo momento; e pensando
invece dal tuo punto di vista (“dall’altra parte”, v.187) che tu ti pensi signora, stirpe degli umani, e che un
fine logico credi sia posto in capo all’Universo, e pensando a quante volte ti sei divertita a raccontar favole
su come, su questo minuscolo e oscuro granello di sabbia, che è detto pianeta terra, a causa della tua
presenza, siano scesi gli dèi creatori (“scender gli autori”, v.193) dell’universo e di come spesso
conversarono piacevolmente con i tuoi simili, e i già ridicolizzati sogni rinnovando e continuando a
raccontare, si burla dei saggi il secolo presente, il quale per conoscenze e civiltà di usi e costumi sembra
dover superare tutti i precedenti, quale sentimento (“moto”, v.198) allora, infelice stirpe degli esseri umani,
o quale opinione sul tuo conto può infine riempirmi il cuore?

[vv. 201-236] Io davvero non so se sia più forte in me nei tuoi confronti il senso del ridicolo o la
compassione. Come quando da un albero una piccola mela, sul finire dell’autunno, per forza di maturazione
e null’altro cade, e la piccola tana di una colonia di formiche, scavata nella terra tenera attraverso un
paziente lavoro, e le costruzioni e le ricchezze lì radunate per sicurezza con tanta fatica dai laboriosi membri
del branco, che erano state raccolte prudentemente durante l’estate, schiaccia, stermina e copre in un
attimo; alla stessa maniera precipitando dall’alto, dal cratere (“utero”, v.213) tonante sparata nel cielo
infinito, fatta di ceneri, sassi e rocce, una nube oscura di sfacelo e rovina, sotto la quale scorrevano torrenti
di lava bollente, per il pendio della montagna, come una furia tra l’erba, fatti di massi disciolti e metalli e di
sabbia incendiata, scendendo, un’immensa piena di lava, le città che il mare laggiù sulla spiaggia più lontana
bagnava, disciolse e distrusse e ricoprì in pochi istanti: e su quelle ora pascolano le capre, e nuove città
sono nate all’esterno della colata (“dall’altra banda”, v.228), alle quali quasi da sgabello e sostegno fanno
quelle sepolte, e le antiche mura crollate sono ai piedi del monte impietoso che quasi le calpesta. Per la
natura il popolo umano non è più caro o importante di quanto non lo siano le formiche: e se capita più
spesso lo sterminio di questa specie rispetto alla nostra, ciò d’altronde accade solo perché l’uomo ha meno
capacità di riprodursi (“prosapie”=generazioni, v.236).

[vv. 237-296] Ben mille e ottocento anni sono passati da quando scomparirono, schiacciati dalla forza del
fuoco vulcanico, gli edifici che furono abitati, e il povero contadino, quando cura le vigne, che a fatica su
questi terreni sono nutriti dalla terra bruciata e sterile, ancora talvolta alza gli occhi guardingo verso la cima
del monte assassino, che da nulla fu mai scalfita né resa più tenera ed ancora sta lì spaventosa, ancora
minaccia di annientare lui e i suoi figli e le poche ricchezze che essi, poveri, hanno. E spesso Il disgraziato
sale sul tetto della casa contadina, stando all’aria aperta sdraiato senza dormire per tutta la notte, e
sobbalzando per la tensione più e più volte, segue il corso del temuto ribollire, che scende dal mai sazio
cratere sul crinale roccioso, sul quale si riflette il profilo di Capri e il porto di Napoli e il quartiere Mergellina.
E se capisce che la lava si avvicina, oppure se nel fondo scuro del pozzo di casa capita che egli senta l’acqua
borbottare ribollendo per il calore sotterraneo, sveglia i figli, sveglia la moglie in fretta e furia, e via, con
quanto essi possono in quel momento prendere di ciò che possiedono, fuggendo di corsa, egli vede
allontanandosi la familiare sua dimora, e il piccolo campo, tutto ciò che gli permetteva di scampare alla
fame, invaso dall’ondata lavica, che arriva scoppiettando mentre brucia tutto ciò che incontra, e
inarrestabile si assesta sopra quei luoghi per sempre. Torna a vedere la luce del sole dopo un oblio
lunghissimo la distrutta Pompei, come un seppellito scheletro, al quale la terra, stufa di tenerlo racchiuso in
sé o pietosa, permette di uscire allo scoperto; e dal foro, la piazza, desolata guardando dritto tra le file
parallele dei portici le cui colonne sono state mozzate a metà dalla lava, chi visita il sito (“il peregrino”,
v.276) può osservare da lontano il profilo a forma di conca della montagna (il “bipartito giogo”, v. 277) e il
cratere fumante, che ancora minacciano le rovine sparse qui e là. E nella paura della notte buia (“secreta”,
v.280) tra i teatri vuoti, tra gli antichi templi distrutti e tra le macerie delle case, dove si riproducono
nell’oscurità i pipistrelli, come un fantasma maligno (“sinistra face”, v.284) che si aggira oscuro per antichi
palazzi abbandonati, corre la luce della lava mortale che in lontananza tra le ombre si intravede nel suo
rossore e colora i luoghi che circondano i resti della città. È così, inconsapevole dell’uomo e delle sue età,
che solo lui chiama antiche, del susseguirsi di antenati e pronipoti, che sta la natura, eternamente giovane
(“ognor verde”, v.292), e anzi percorre un cammino tanto lungo e lento che essa sembra star ferma e
immobile. Cadono nel frattempo i regni, nascono e muoiono gli uomini e cambiano le loro lingue: lei
semplicemente non se ne avvede: e l’uomo si attribuisce vantandosi con superbia un’aura di eternità.

[vv. 297-317] E tu, tenera ginestra, che di boschi profumati decori queste campagne spoglie, anche tu
presto alla crudele e impietosa potenza della lava sotterranea dovrai soccombere, la quale passando di
nuovo sui luoghi già da lei bruciati, stenderà il suo funebre lenzuolo (“lembo”, v. 303) sui tuoi morbidi
cespugli. E sarai costretta a piegare sotto la colata assassina, senza poter resistere (“non renitente”, v. 305)
la tua testa innocente: ma mai fino ad allora essa è stata piegata per supplicare in maniera vigliacca di
fronte a chi l’avrebbe schiacciata; ma mai essa è stata sollevata con folle superbia verso il cielo e gli astri, e
neppure verso il deserto, dove hai vissuto e sei nata non per tua volontà ma per caso; ma sei più saggia, ma
sei tanto meno debole e insana dell’uomo, poiché le tue fragili generazioni non hai mai creduto poter
essere immortali per volere del destino o addirittura di te stessa.

Analisi

La ginestra fu probabilmente composta da Leopardi prima del “Tramonto della luna”. Questo lunghissimo
poemetto è il più esteso dei Canti, con sette strofe di dimensioni eccezionali e lunghi periodi che si snodano
a volte a cavallo di decine di versi. Si può definire un poemetto lirico-filosofico, che per dimensioni e genere
può ricordare i “Sepolcri” di Ugo Foscolo. Si distingue, però, per il suo alto grado di audacia formale,
innovazione e radicalità a livello intellettuale. Per quanto riguarda tono e varietà di stile, la Ginestra e un
componimento vario che si lascia andare a toni diversi: da quelli infuocati e aspri della polemica a quelli
sublimi e complessi della contemplazione, passando per i toni più dolci del dialogo lirico. Ognuna delle sette
strofe rappresenta un’unità tematica a sé, ricca di gradazioni di toni, da invettiva a sarcasmo, da elogio
commosso a compassione.

Parlando di temi e struttura, si possono ben distinguere le varie strofe:


Prima strofa: la ginestra viene scelta da Leopardi come sua interlocutrice alle pendici del Vesuvio, dove un
tempo si ergevano città fiorenti e ora sono deserte e ricoperte di rovine e cenere. Questo è lo spazio che
simboleggia il tragico destino dell’uomo. In questa strofa prevale il sarcasmo.

Seconda strofa: qui il poeta definisce l’Ottocento come il «secol superbo e sciocco», accusandolo di aver
rifiutato le verità coraggiose del pensiero razionalista. Ancora dominano il tono e le parole sprezzanti
dell’invettiva.

Terza strofa: in questa strofa Leopardi contrappone la stupidità di quelli che si rifiutano di constatare la
miseria umana alla grandezza di chi, invece, ammette la realtà e guarda in faccia la miseria attribuendone la
responsabilità alla natura, contro la quale gli uomini devono far fronte comune stringendo legami sociali di
solidarietà.

Quarta strofa: qui la prospettiva dell’umana infelicità si allarga. Dall’esperienza personale del poeta nasce
una meditazione sull’universo e gli spazi celesti. Il poeta, sarcastico, non sa se ridere o avere compassione
dell’uomo, che si crede il centro dell’universo.

Quinta strofa: in questa strofa c’è una lunga similitudine. Come un frutto cade da un albero e distrugge un
formicaio intero, così l’eruzione del Vesuvio risalente al 79 d.C. fece con Pompei, Ercolano e Stabia,
annientandole. La natura è indifferente, dunque, e per lei il destino umano non ha più valore del destino
delle formiche.

Sesta strofa: qui Leopardi osserva come il vulcano sia distruttivo in modo incessante, presentando un
paragone tra il tempo umano e i grandi cicli naturali, che si susseguono in un tempo talmente dilatato da
far apparire tutto immobile.

Settima strofa: l’ultima delle sette strofe, in questa il poeta parla nuovamente con la ginestra, elogiandone
l’umiltà e il coraggio. Fragile, nata nel deserto, anche lei è destinata a soccombere sotto le colate laviche,
lasciando spazio a un tono commosso dal lessico vago, che suggerisce il cedimento del poeta a un destino di
annientamento di tutto quanto, compresa l’eroica ginestra.

Tema chiave del componimento è la contemplazione del paesaggio attorno al Vesuvio, perfetta metafora
della condizione umana e del rapporto con la natura.

Il paesaggio: desertico, imponente, minaccioso, estraneo. Incarna l’indifferenza e la ferocia che Leopardi
attribuisce alla natura, vista come nemica e responsabile del dolore dell’uomo e di tutti gli esseri viventi
(come le formiche).

Con questa posizione Leopardi si distacca completamente da quella che era il suo credo durante il
“pessimismo storico”, cioè quando la negatività che si vive nel presente era considerata come perdita di
una condizione primitiva che era relativamente felice.

La natura, a partire dalle Operette morali (1824), comincia ad apparire come matrigna. Essa infligge
sofferenze alle proprie creature, come malattie e cataclismi, fino a farle arrivare alla morte.

Qui si vede il pessimismo cosmico tipico di Leopardi, quella visione totalmente negativa della natura per la
quale ogni essere vivente è condannato alla perpetua infelicità.

Il Vesuvio in questo componimento simboleggia questa natura devastatrice e onnipotente, e la storia


umana sembra priva di senso. Dalla distruzione di Pompei nulla è cambiato, constata Leopardi. Gli uomini
sono sempre fragili e costantemente esposti a una mortale minaccia.

Di fronte a queste evidenze, Leopardi deride l’ottimismo dei suoi contemporanei, accusandoli di codardia
perché rifiutano di vedere ciò che è vero. Eppure, una salvezza c’è: la solidarietà tra gli esseri umani. Solo
così gli uomini possono reagire all’ingiustizia della natura.
Figure retoriche

Anastrofi - sono molto numerose e caratterizzano tutta la lirica. Le anastrofi determinano una costruzione
diversa del periodo rispetto alla disposizione della prosa, si riprende spesso la costruzione latina, sono
tantissime, vedi per es.:

tuoi cespi solitari intorno spargi, v.5 – complemento oggetto prima del verbo;

de' tuoi steli abbellir l'erme contrade, v.8

di tristi / lochi e dal mondo abbandonati amante, vv.14-15

e d'afflitte fortune ognor compagna,v.16

che sotto i passi al peregrin risona, v.20

dove s'annida e si contorce al sole / la serpe, vv.21-22

dove al noto / cavernoso covil torna il coniglio, vv.22-23

agli ozi de' potenti / gradito ospizio, vv.28-29

fulminando oppresse, v.31

e quasi / i danni altrui commiserando, vv.34-35

al cielo / di dolcissimo odor mandi un profumo, / che il deserto consola, vv.35/37

colui che d'esaltar con lode / il nostro stato ha in uso, vv.38-39

del ritornar ti vanti, v.57

e procedere il chiami, v.58

padre ti fece, v.60

….ecc.

Allitterazione

cavernoso covil torna il coniglio, v.23 – l’allitterazione in c sottolinea lo squallore dei luoghi una volta
fiorenti.

Anafora

fur...fur...fur..., vv.24-27-29 – la funzione di questa anafora è di sottolineare e opporre alla desolazione il


ricordo dello splendore delle città antiche.

Antitesi

Veggo dall'alto fiammeggiar le stelle, / Cui di lontan fa specchio / Il mare, vv. 163/165 – si contrappongono
stelle e mare; sembrano un punto, / e sono immense, vv.169-169.

Chiasmi

povero stato e membra inferme, v. 87 – aggettivo + sostantivo /sostantivo + aggettivo;

madre è di parto e di voler matrigna, v.125 – nome + compl. specificazione / compl. specificazione + nome.
Iperbati

E la possanza /qui con giusta misura / anco estimar potrà dell'uman seme, vv.41/43;

dipinte in queste rive / son dell'umana gente / magnifiche sorti e progressive, vv.49/51 - la citazione
proviene dalla dedica che il cugino del poeta, Terenzio Mamiani, premetteva agli Inni Sacri ed è diventata
proverbiale per alludere ad ogni facile fiducia nel futuro;

che il calle insino allora / dal risorto pensier segnato innanti / abbandonasti, vv.54/56;

ma il disprezzo piuttosto che si serra / di te nel petto mio, / mostrato avrò, vv.65/67;

con lungo affaticar l'assidua gente, v.209;

d’un popol di formiche…/…schiaccia, diserta e copre, v.211;

Notte e ruina, infusa, v.216;

che il mar là su l'estremo / lido aspergea, vv. 223-224;

corre il baglior della funerea lava, v.286;

quanto le frali / tue stirpi non credesti /o dal fato o da te fatte immortali, vv.315/317.

Iperbole

Che un punto a petto a lor son terra e mare / veracemente, vv.170-171.

Similitudine

come sepolto / scheletro, vv.271-272;

come sinistra face, v.284.

Dialogo della natura e di un islandese – analisi


L’ISLANDESE DI FRONTE ALLA NATURA In un angolo remoto della Terra, un viaggiatore islandese in fuga
dalla Natura si trova davanti a una donna enorme che comincia a interrogarlo, incuriosita nel vedere un
uomo in quei luoghi inospitali. L’Islandese scopre che quella donna è la Natura e le racconta la propria vita.

L’obiettivo dell’Islandese è sempre stato quello di vivere «una vita oscura e tranquilla» tenendosi «lontano
dai patimenti». Da giovane aveva sperato di poter vivere insieme agli altri uomini senza offenderli e senza
riceverne offesa. Dopo aver capito che un simile desiderio è irrealizzabile, ha deciso di fuggire dalla società
alla ricerca di un altro luogo favorevole alla vita. Ma la Natura combatte costantemente contro l’uomo: il
clima, le catastrofi naturali, gli animali feroci rendono invivibili tutte quelle zone della Terra che non sono
già abitate. La Natura dimostra in altri modi la sua avversità verso l’uomo. Prima di tutto, lo ha dotato di un
desiderio costante di raggiungere il piacere: ma questa tendenza innata si rivela nociva, perché il piacere
diminuisce le forze e danneggia il corpo. Poi, infligge costantemente all’uomo le malattie e questi periodi di
grande sofferenza non vengono compensati da periodi di grande piacere. Bisogna concludere che la vita
stessa – sempre minacciata e alla fine distrutta da una vecchiaia inevitabile – è un male.

UN «CIRCUITO DI PRODUZIONE E DISTRUZIONE» La Natura rivela di essere indifferente alla specie umana:
siccome l’uomo non ha alcun posto privilegiato nel cosmo, lei non si rende conto di quando gli giovi o lo
danneggi. La vita serve soltanto a riprodurre la vita: è un «circuito di produzione e distruzione» senza altro
scopo che il mantenimento di se stesso. L’Islandese allora chiede a chi possa giovare questo circolo di
sofferenza, visto che, se soffre chi muore, chi distrugge non gode. La domanda è destinata a rimanere senza
risposta, il racconto termina qui: secondo alcuni, il viaggiatore venne sbranato da due leoni; secondo altri fu
sommerso da una tempesta di sabbia e si tramutò in mummia.

L’UOMO PRIMITIVO E LO STATO DI NATURA Nella prima fase del pensiero leopardiano la Natura viene
considerata come una madre benevola: quando gli uomini sono nello stato di natura, cioè in quello stato
primitivo, non civilizzato in cui essa li ha creati, possono raggiungere una condizione di spirito prossima alla
felicità. Ciò accade perché la Natura li ha dotati di una capacità immaginativa potente, cioè di una fantasia
fervida, e li ha predisposti a nutrire illusioni. Le illusioni sono quegli ideali per i quali gli uomini possono
compiere azioni eroiche e virtuose, anche a rischio della propria vita: la gloria, l’onore, la virtù, la patria, il
sapere. Le illusioni vengono chiamate da Leopardi anche fantasmi, e cioè mere apparenze: e il nome stesso
indica che esse non hanno una consistenza oggettiva, ma solo soggettiva, ovvero che sono soltanto
proiezioni di idee e desideri individuali. In altre parole: siccome tutti gli uomini credono alla gloria, allora la
gloria ha una sua reale presenza nel mondo. Attraverso le illusioni gli uomini raggiungono il piacere: «Il più
solido piacere di questa vita è il piacer vano delle illusioni» (Zibaldone, pensiero non datato).

L’UOMO CIVILIZZATO E LA RAGIONE Nella fase giovanile del pensiero di Leopardi la ragione e la scienza
hanno un ruolo negativo, perché grazie alle loro conquiste l’uomo abbandona il suo stato primitivo,
ingenuamente naturale: le conoscenze scientifiche dimostrano la falsità di ciò che ha prodotto
l’immaginazione, ma questo disinganno porta con sé più dolore che benefici. Così scrive Leopardi nello
Zibaldone:

La ragione è nemica della natura, non già quella ragione primitiva di cui si serve l’uomo nello stato naturale,
e di cui partecipano gli altri animali, parimenti liberi e perciò necessariamente capaci di conoscere. Questa
l’ha posta nell’uomo la stessa natura, e nella natura non si trovano contraddizioni. Nemico della natura è
quell’uso della ragione che non è naturale, quell’uso eccessivo ch’è proprio solamente dell’uomo, e
dell’uomo corrotto: nemico della natura, perciò appunto che non è naturale, né proprio dell’uomo
primitivo. (Zibaldone, 3 dicembre 1820)

Leopardi distingue dunque due stadi o modi di utilizzo della ragione: il primo stadio è quello dell’uomo allo
stato di natura, dell’uomo in quanto animale. Lo stadio successivo è determinato da un uso più intenso, più
sistematico della ragione, che non accetta più le idee “naturali” ma le indaga, le sottopone a esame e le
trova infondate. Questo secondo stadio distrugge le illusioni, ed è perciò nocivo alla vita dell’uomo.

In un altro passo dello Zibaldone, Leopardi dice esplicitamente che la ragione distrugge e soffoca la capacità
di immaginare perché, attraverso l’indagine scientifica, accerta la verità:

Quanto poi alla facoltà che ha l’immaginazione nostra di concepire un certo infinito, un piacere che l’anima
non possa abbracciare, cagione vera per cui l’infinito le piace [...]. Io per me credo 1. che la natura l’abbia
posta in noi solamente per la nostra felicità temporale, che non poteva stare senza queste illusioni. 2.
osservo che questa facoltà è grandissima nei fanciulli, primitivi, ignoranti, barbari ec. Quindi congetturo e
mi par ben verisimile che esista anche nelle bestie in un certo grado, e relativamente a certe idee, come son
quelle dei fanciulli ec. 3. considero che la ragione, la quale si vuole avere per fonte della nostra grandezza, e
cagione della nostra superiorità sopra gli altri animali, qui non ha che far niente, se non per distruggere; per
distruggere quello che v’ha di più spirituale nell’uomo [...]. 4. che le illusioni sono anzi affatto naturali,
animali, atti dell’uomo e non umani secondo il linguaggio scolastico, ed appartenenti all’istinto, il quale
abbiamo comune cogli altri animali, se non fosse affogato dalla ragione. (Zibaldone, 12-23 luglio 1820)

Gli uomini civilizzati, dunque, conservano solo nella loro fanciullezza quella potente capacità immaginativa
che è propria dell’uomo allo stato primitivo. Nonostante ciò, anche l’uomo civilizzato può conservare la
speranza di nutrire illusioni: «Io credo che nessun uomo al mondo in nessuna congiuntura debba mai
disperare il ritorno delle illusioni, perché queste non sono opera dell’arte o della ragione, ma della natura»
(Lettera a Pietro Giordani, 30 giugno 1820).
LA NATURA MATRIGNA Nei primi anni Venti dell’Ottocento le idee leopardiane iniziano a cambiare. Il
Dialogo della Natura e di un Islandese, datato maggio 1824, spiega la nuova concezione della Natura, che
non è più madre pietosa bensì matrigna. È una madre ostile che mette al mondo gli uomini e le altre specie
viventi con il solo scopo di propagare la vita. Questo meccanismo che si autoalimenta non ha né uno scopo
né un significato: esso esiste e basta. Nello Zibaldone si legge:

La mia filosofia fa rea [colpevole] d’ogni cosa la natura, e discolpando gli uomini totalmente, rivolge l’odio,
o se non altro il lamento, a principio più alto, all’origine vera de’ mali de’ viventi [cioè a Dio]. (Zibaldone, 2
gennaio 1829)

E ancora:

La natura, per necessità della legge di distruzione e riproduzione, e per conservare lo stato attuale
dell’universo, è essenzialmente regolarmente e perpetuamente persecutrice e nemica mortale di tutti
gl’individui d’ogni genere e specie, ch’ella dà in luce; e comincia a perseguitarli dal punto medesimo in cui li
ha prodotti. (Zibaldone, 11 aprile 1829)

La ragione è lo strumento che fa conoscere queste tristi verità all’uomo; ma è anche la facoltà che consente
di mantenere la dignità nella sventura: ovvero di non nutrire speranze insensate o illusioni sciocche.

LA RICERCA DEL PIACERE E IL «VIVER QUIETO» Nel Dialogo, accanto al tema principale (come dobbiamo
interpretare la Natura e la vita sulla Terra?), ne troviamo altri due a esso collegati. Il primo è il tema del
piacere. Per loro natura, gli uomini cercano in continuazione la felicità e i piaceri: ma questa ricerca non
raggiunge mai un risultato soddisfacente, anche perché i piaceri provocano la decadenza fisica dell’uomo.
E, se è possibile trascorrere un giorno senza l’ombra di un godimento, non esiste un giorno senza pena. L’11
maggio 1824, Leopardi annota nello Zibaldone queste righe, che inquadrano bene il problema:

Non è forse cosa che tanto consumi ed abbrevi o renda nel futuro infelice la vita, quanto i piaceri. E da altra
parte la vita non è fatta che per il piacere, poiché non è fatta se non per la felicità, la quale consiste nel
piacere, e senza di esso è imperfetta la vita, perché manca del suo fine, ed è una continua pena, perch’ella è
naturalmente e necessariamente un continuo e non mai interrotto desiderio e bisogno di felicità cioè di
piacere. Chi mi sa spiegare questa contraddizione in natura? (Zibaldone, 11 maggio 1824)

Il secondo tema è l’ozio. L’assenza di occupazioni e di fatiche fisiche non dà tranquillità: il «viver quieto» è
differente dal «vivere ozioso». Nel Dialogo di un Fisico e di un Metafisico Leopardi aveva concluso che la
vita «piena d’ozio e di tedio, che è quanto dire vacua», è simile alla morte. Al contrario, la vita è «tanto
meno infelice, quanto più fortemente agitata, e in maggior parte occupata, senza dolore né disagio». Il
problema dell’ozio si lega, dunque, a quello della noia, che viene sviluppato nel Canto notturno e nei
Pensieri.

LA SINTASSI E IL LESSICO Osserviamo la struttura del brano. Il Dialogo vero e proprio è racchiuso fra due
paragrafi narrativi. Quello iniziale racconta la situazione e introduce il personaggio dell’Islandese. Quello
conclusivo interrompe bruscamente il dialogo, proprio quando la Natura dovrebbe rispondere alla
domanda suprema: «a chi giova cotesta vita»?

Analizziamo la sintassi del primo periodo, che non è un’eccezione all’interno del testo. Le subordinate sono
numerose: due relative, due temporali implicite, un’altra relativa, una temporale di secondo grado e una
finale di terzo grado. Anche se non si è esperti di analisi del periodo, è chiaro che più aumentano il numero
e il grado delle subordinate, più l’espressione è complessa, e più il lettore deve fare attenzione per seguire il
senso del discorso.

Il lessico è adeguato alla ricercatezza della sintassi: cagionandosi, molestia, verun’, incomodità, incostanza,
commozioni, a tutta lena, «le infermità mi hanno perdonato» (intendendo “risparmiato”). Anche la forma
delle parole è iperletteraria, visto che Leopardi sceglie la variante morfologica più distante dall’uso comune:
menomo e non “minimo”; ciascheduna e non “ciascuna”; niuna e non “nessuna”; Ponghiamo e non
“poniamo”.

NEGAZIONE E PRIVAZIONE Abbiamo visto che gli obiettivi che l’Islandese desidera raggiungere nella propria
vita non sono affatto ambiziosi; sono anzi obiettivi minimi: evitare i danni provenienti dall’esterno ed
evitare di offendere gli altri. Sono obiettivi negativi: non subire, non dare molestia. Questo elemento del
contenuto ha un suo “sintomo” formale: la frequenza dell’avverbio non è altissima, tanto da essere la
caratteristica più evidente dello stile del brano. La figura retorica che si costruisce attraverso la negazione è
la litote, e di fatto nel Dialogo di litoti se ne incontrano molte. Ne diamo qui solo i primi cinque esempi (nel
complesso sono più di cinquanta): «maggior disavventura di questa non mi potesse sopraggiungere»;
«piaceri che non dilettano»; «beni che non giovano»; «non dando molestia a chicchessia, non procurando
in modo alcuno di avanzare il mio stato, non contendendo con altri per nessun bene del mondo».

L’avverbio non viene utilizzato di frequente anche in contesti in cui è meno significativo, come se
l’espressione di qualsiasi concetto debba essere resa attraverso una negazione. Anche qui proponiamo
cinque esempi: «luogo non mai prima penetrato da uomo alcuno»; «non finta ma viva»; «La Natura?» /
«Non altri»; «non ignori che si dimostra più che altrove la mia potenza»; «di non poco momento».

Infine, non sono rari i vocaboli che indicano privazione: «disperato dei piaceri»; «tenermi lontano dai
patimenti»; «astenermi dalle occupazioni e dalle fatiche corporali»; «è vano a pensare»; «riducendomi in
solitudine»; «[vita] spogliata di qualunque altro desiderio e speranza»; «privo di ogni speranza».

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