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Questo libro è un’opera di fantasia.

Nomi, personaggi, luoghi e accadimenti sono prodotti


dell’immaginazione dell’autore o sono utilizzati in maniera fittizia. Ogni somiglianza a eventi, luoghi
o persone reali, vive o morte, è del tutto casuale.

È proibito qualsiasi utilizzo non autorizzato del materiale presente in questo libro, sia totale che
parziale.

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Titolo originale:

Star Wars: Darth Bane: Path of Destruction

Published in the United States by Del Rey Books, an imprint of

The Random House Publishing Group,

a division of Random House, Inc., New York.

Del Rey is a registered trademark and the Del Rey colophon is a trademark of Random House, Inc.

Edizione italiana a cura di: Multiplayer.it Edizioni

Coordinamento: Alessandro Cardinali

Traduzione: Virginia Petrarca

Revisione: Christian La Via Colli, Gian Paolo Gasperi

Impaginazione: Diego Vitali


Prima edizione ePub: Gennaio 2013

ISBN formato ePub: 9788863552256

http://edizioni.multiplayer.it

www.starwars.com

www.lucasarts.com

www.delreybooks.com
Indice

INTRODUZIONE

PARTE UNO

CAPITOLO 1

CAPITOLO 2

CAPITOLO 3

CAPITOLO 4

CAPITOLO 5

CAPITOLO 6

CAPITOLO 7

CAPITOLO 8

PARTE DUE

CAPITOLO 9

CAPITOLO 10

CAPITOLO 11

CAPITOLO 12
CAPITOLO 13

CAPITOLO 14

CAPITOLO 15

CAPITOLO 16

CAPITOLO 17

CAPITOLO 18

CAPITOLO 19

CAPITOLO 20

PARTE TRE

CAPITOLO 21

CAPITOLO 22

CAPITOLO 23

CAPITOLO 24

CAPITOLO 25

CAPITOLO 26

CAPITOLO 27

CAPITOLO 28

CAPITOLO 29

CAPITOLO 30

CAPITOLO 31
EPILOGO
Tanto tempo fa, in una galassia lontana lontana...
INTRODUZIONE

Sul finire della Vecchia Repubblica i Sith, seguaci del Lato Oscuro della
Forza e antichi nemici dell’Ordine dei Jedi, erano soltanto due: un Maestro
e un apprendista. Eppure, non era sempre stato così. Mille anni prima che
la Repubblica crollasse e l’imperatore Palpatine salisse al potere, esisteva
un esercito di Sith...

Lord Kaan, Maestro Sith e fondatore della Confraternita dell’Oscurità,


attraversò a grandi passi il campo di battaglia insanguinato, come un’ombra
imponente nel buio della notte. Migliaia di soldati della Repubblica e quasi
cento Jedi avevano dato la vita per difendere quel mondo dal suo esercito, e
avevano perso. Si crogiolò nel tormento e nella disperazione che avevano
provato; persino in quel momento riusciva ad avvertirli, sospesi nell’aria
come il fetore dei corpi spezzati di cui era cosparsa la vallata.
A grande distanza si preparava una tempesta. Ogni volta che il lampo di
una saetta illuminava il cielo, in lontananza si stagliava per qualche attimo
il grande tempio Sith di Korriban, una sagoma severa che torreggiava sopra
l’orizzonte brullo.
Al centro della strage attendevano due figure, una umana e l’altra twi’lek.
Li riconobbe nonostante il buio: Qordis e Kopecz, due fra i più potenti
Signori dei Sith. Un tempo erano stati acerrimi rivali, ma ormai servivano
assieme nella Confraternita di Kaan. Si avvicinò a passo svelto, sorridendo.
Qordis, alto e tanto magro da sembrare quasi uno scheletro, sorrise di
rimando. “È una grande vittoria, Lord Kaan. È passato fin troppo tempo da
quando su Korriban c’era un’accademia Sith”.
“Sento che sei ansioso d’iniziare ad addestrare qui i nuovi apprendisti”,
rispose Kaan. “Mi aspetto che negli anni a venire mi offrirai molti altri
seguaci e Maestri Sith leali, oltre che potenti”.
“‘Mi offrirai’?”, domandò Kopecz, caustico. “Forse volevi dire ‘ci
offrirai’. Non facciamo tutti parte della Confraternita dell’Oscurità?”
La domanda suscitò una risata disinvolta. “Naturalmente, Kopecz. Ho
soltanto sbagliato una parola”.
“Kopecz non vuole celebrare il nostro trionfo”, osservò Qordis. “È così
da tutta la notte”.
Kaan serrò una mano intorno alla spalla del robusto Twi’lek. “Questa è
una grande vittoria per noi”, affermò. “Korriban non è solo un mondo
qualsiasi: è un simbolo, il luogo in cui sono nati i Sith. La vittoria invierà un
messaggio ai Jedi e alla Repubblica: adesso conosceranno davvero la
Confraternita e la temeranno”.
Kopecz si divincolò dalla stretta di Kaan e si voltò, sferzando le punte dei
lunghi lekku avvolti intorno al collo. “Festeggiate quanto volete”, disse di
spalle, allontanandosi. “Ma la vera guerra è appena iniziata”.
PARTE UNO

TRE ANNI DOPO


CAPITOLO 1

Dessel era perso nelle sofferenze del lavoro, a stento consapevole del
mondo circostante. Il battere incessante del martello idraulico gli faceva
dolere le braccia; schegge di roccia si staccavano dalla parete della grotta in
cui scavava, rimbalzandogli sulla visiera protettiva e pungendogli il viso e
le mani scoperte. L’aria era satura di nubi di pulviscolo atomizzato che gli
oscuravano la vista; la grotta pregna del gemito stridente del martello
mentre soffocava ogni altro suono, sprofondando un centimetro dopo
l’altro, con agonizzante lentezza, nella ricca vena di cortosite intrecciata
nella roccia di fronte a sé.
La cortosite, inattaccabile da calore ed energia, era preziosa nella
costruzione di armature e scudi, sia per grandi aziende commerciali che
militari, soprattutto con la galassia in guerra. Estremamente resistenti ai
colpi di blaster, si riteneva che le leghe di cortosite sopportassero persino la
lama di una spada laser. Purtroppo, le stesse proprietà che ne decretavano il
valore ne rendevano anche molto ardua l’estrazione. Le torce al plasma
erano praticamente inutili: ci sarebbero voluti giorni per rimuovere col
calore anche solo una piccola sezione di roccia venata di cortosite. L’unico
modo efficace per estrarla era usare la forza bruta dei martelli idraulici che
si abbattevano senza posa sulla vena del minerale, liberando la cortosite un
pezzetto alla volta.
Si trattava di uno dei materiali più duri della galassia. La forza dei colpi
logorava in fretta la testa del martello, smussandola finché non diventava
quasi inservibile. Il pulviscolo intasava i pistoni idraulici, facendoli
inceppare. Estrarre la cortosite aveva effetti dannosi sull’attrezzatura, e
ancora di più sui minatori.
Des dava addosso alla roccia da quasi sei ore standard. Il martello pesava
più di trenta chili e la fatica di tenerlo sollevato e premuto contro la
superficie cominciava a farsi sentire. Le braccia gli tremavano per lo
sfinimento; i polmoni cercavano affannosamente l’aria, inalando invece le
nubi di sottile polvere sollevata dalla testa dello strumento. Persino i denti
gli dolevano: aveva l’impressione che la vibrazione glieli stesse strappando
dalle gengive.
Ma i minatori di Apatros venivano pagati in base alla quantità di cortosite
che riportavano. Se si fosse fermato, sarebbe arrivato un altro minatore a
lavorare su quella vena, prendendosi una quota dei profitti. E a Des non
piaceva spartire le quote.
Il gemito del motore si fece più acuto, un lamento funereo che conosceva
fin troppo bene. A ventimila giri al secondo, il motore succhiava polvere
come un bantha assetato dopo una lunga traversata nel deserto. L’unico
modo per impedirlo era una costante opera di manutenzione e pulizia, ma la
Compagnia Mineraria, la Outer Rim Oreworks, preferiva acquistare
attrezzatura economica anziché sganciare crediti per ripararla. Des sapeva
esattamente cosa sarebbe successo un secondo prima che accadesse. Il
motore saltò.
I meccanismi idraulici si paralizzarono con un tremendo schianto e dal
retro del martello fuoriuscì una nube di fumo nero. Maledicendo la ORO e
la sua politica aziendale, Des tolse il dito ormai rattrappito dal grilletto e
gettò a terra lo strumento consumato.
“Spostati, ragazzo”, disse una voce.
Uno degli altri minatori, Gerd, si avvicinò e tentò di scostare Des con una
spallata per poter attaccare la vena col proprio martello. Lavorava in
miniera da quasi vent’anni standard e il suo corpo era diventato un
groviglio di muscoli duri come acciaio. Ma anche Des si trovava in quel
luogo da dieci anni, sin da quando era piccolo, ed era ben piazzato, quanto
il più anziano dei due, oltre che più grosso. Non si mosse.
“Non ho finito”, disse. “Il martello è in panne, tutto qui. Dammi il tuo e
continuerò ancora un po’”.
“Conosci le regole, ragazzo. Se smetti di lavorare, qualcun altro può
prendere il tuo posto”.
Tecnicamente, Gerd aveva ragione. Ma nessuno contraddiceva mai un
altro minatore che menzionasse un malfunzionamento dell’attrezzatura, a
meno di non cercare la rissa.
Des diede una rapida occhiata intorno. La stanza era vuota, eccezion fatta
per loro due, distanti meno di mezzo metro l’uno dall’altro. Non si sorprese;
di solito, Des sceglieva grotte ben lontane dalla rete principale dei tunnel.
La presenza di Gerd in quel posto doveva essere più di una semplice
coincidenza.
Des lo conosceva sin da quando aveva memoria. Era stato amico di
Hurst, suo padre. Quando lui aveva cominciato a lavorare in miniera, a
tredici anni, era stato molto maltrattato dai minatori più grandi. Il peggiore
di tutti era stato proprio suo padre, ma uno dei fomentatori più assidui era
Gerd, da cui aveva ricevuto una buona dose di cattiverie, insulti e ogni tanto
schiaffi.
Le molestie erano cessate poco dopo che il padre di Des era morto per un
fatale attacco di cuore, ma non perché ai minatori dispiacesse per il giovane
orfano. Alla morte di Hurst, l’adolescente alto e gracile che si divertivano a
tormentare era ormai diventato una montagna di muscoli dal temperamento
collerico e manesco. Quello del minatore era un mestiere duro, la cosa più
simile ai lavori forzati che esistesse al di fuori di una colonia carceraria
della Repubblica. Chiunque lavorasse nelle miniere di Apatros si faceva
robusto, e Des lo era diventato più di tutti. Una mezza decina di occhi neri,
innumerevoli nasi rotti e una frattura alla mandibola nel giro di un mese
furono sufficienti a convincere i vecchi amici di Hurst che sarebbe stato
meglio lasciarlo in pace.
Eppure, era quasi come se lo incolpassero della morte di Hurst e a
distanza di pochi mesi qualcuno di loro ci riprovava. Gerd era sempre stato
abbastanza sveglio da tenersi alla larga. Fino ad allora.
“Non vedo nessuno dei tuoi amici qui con te, vecchio”, disse Des.
“Accetta quel che t’ho detto e nessuno si farà male”.
Gerd sputò per terra, ai piedi di Des. “Non sai neppure che giorno è oggi,
vero, ragazzino? Razza di sciagurato!”
Si trovavano abbastanza vicini uno all’altro da permettere a Des di
sentire il tanfo acre del whisky corelliano nell’alito di Gerd. Era tanto
ubriaco da andare in cerca di risse, ma anche sobrio a sufficienza da
sapersela cavare coi pugni.
“Con oggi fanno cinque anni”, disse Gerd, scuotendo la testa con
tristezza. “Cinque anni che tuo padre è morto e neppure te lo ricordi!”
Ormai Des non pensava quasi più al padre. Non gli era dispiaciuto
separarsene. I suoi primi ricordi erano di lui che lo picchiava. Aveva
dimenticato anche il motivo; di rado a suo padre ne serviva uno.
“Non è che Hurst mi manchi quanto a te, Gerd”.
“Hurst, eh?” Gerd sbuffò. “Ti ha tirato su da solo dopo che tua madre è
morta e non hai neppure abbastanza rispetto da chiamarlo ‘padre’? Che
ingrato figlio di un kath!”
Des lo fissò minaccioso dall’alto della sua statura, ma quello era troppo
pieno di alcol e mal riposta indignazione per lasciarsi intimidire.
“C’era da aspettarselo, da una sudicia carognetta come te”, proseguì
Gerd. “Hurst diceva sempre che eri un poco di buono. Sapeva che avevi
qualcosa di sbagliato... Bane”.
Des socchiuse gli occhi, ma si guardò bene dall’abboccare. Hurst lo
apostrofava così quand’era ubriaco. Bane. Rovina. Aveva incolpato il
bambino per la morte della moglie, per averlo costretto a restare su Apatros.
Considerava il suo unico figlio la rovina della propria esistenza, e tendeva a
sbraitarlo nei momenti di collera indotti dall’alcol.
Bane. Un nome che rappresentava tutto quanto di maligno, meschino e
crudele c’era in suo padre. Un nome che scuoteva le paure interiori di ogni
bambino: il timore di deludere, di essere abbandonato, di subire violenza.
Da piccolo quel nome lo aveva ferito più di tutte le percosse subite dalle
mani violente del padre, ma Des non era più un bambino: col tempo aveva
imparato a ignorarlo, come tutti gli altri veleni che la bocca di quell’uomo
vomitava.
“Non ho tempo”, mugugnò. “Ho da fare”.
Con una mano afferrò il martello pneumatico nella stretta di Gerd, poi gli
posò l’altra sulla spalla e lo spinse via. L’uomo incespicò all’indietro, urtò
una roccia col tallone e cadde con violenza al suolo.
Si rialzò ringhiando, le mani chiuse a pugno. “Mi sa che tuo padre manca
da troppo tempo, ragazzo. Hai bisogno che qualcuno ti ficchi del sale in
zucca a suon di botte”.
Gerd, si rese conto Des, era ubriaco, ma non stupido. Lui era più grande,
più forte e più giovane... ma aveva trascorso le ultime sei ore a maneggiare
un martello idraulico. Era coperto di lerciume e il sudore gli colava dal viso.
Aveva la maglietta fradicia. L’uniforme di Gerd, d’altro canto, era
relativamente pulita, senza polvere né macchie di sudore. Doveva aver
progettato quel colpo tutto il giorno, prendendosela comoda mentre Des
lavorava fino allo sfinimento.
Des, però, non intendeva tirarsi indietro. Gettò a terra il martello e si
accovacciò, a gambe divaricate e con le braccia davanti a sé.
Gerd partì in carica, tirando un violento montante col pugno destro. Des
allungò la mano sinistra e fermò il pugno col palmo aperto, assorbendo la
forza dell’impatto. Scattò in avanti con la mano destra e agguantò il polso
sinistro di Gerd; si accovacciò, girandosi mentre lo tirava a sé, spingendogli
la spalla contro il torace. Sfruttando lo slancio dell’avversario, Des si rialzò
e gli strattonò il polso con forza, ribaltandolo e schiantandolo a terra di
schiena.
La lotta avrebbe dovuto concludersi allora; Des ebbe una frazione di
secondo per poter calare un ginocchio su Gerd, mozzandogli il respiro e
bloccandolo al suolo per poi tempestarlo di pugni. Non accadde. Stremato,
dopo ore passate a reggere trenta chili di martello, Des ebbe un crampo alla
schiena.
Il dolore fu lancinante; si rialzò d’istinto, afferrandosi i muscoli contratti.
Gerd ebbe così l’occasione di allontanarsi rotolando e di rimettersi in piedi.
In qualche modo, Des riuscì ad assumere di nuovo una posizione di
combattimento. Sentì la schiena protestare, e gli sfuggì una smorfia quando
il suo corpo fu trafitto da lame di dolore. Gerd notò la sua espressione e
rise.
“Abbiamo i crampi, ragazzo? Dovresti saperlo che non è il caso di
provare a lottare dopo sei ore in miniera”.
Gerd partì di nuovo in carica. Stavolta non serrava le mani a pugno, ma a
mo’ di artigli che si aggrappavano a qualunque cosa trovassero, cercando di
neutralizzare da vicino la statura e la portata dei pugni del giovane. Des
tentò di scansarlo, ma aveva le gambe troppo irrigidite per riuscirci. Una
mano lo agguantò alla maglietta, l’altra gli strinse la cintura e poi Gerd tirò
entrambi a terra.
Si azzuffarono, rotolandosi sulla pietra dura e irregolare della grotta.
Gerd aveva affondato il viso nel torace di Dessel per proteggerlo ed evitare
testate o gomitate. Gli stringeva ancora la cintura, ma aveva liberato l’altra
mano, con cui tirava pugni alla cieca verso l’alto, dove immaginava si
trovasse il volto del nemico. Des fu costretto ad avvolgere le braccia intorno
a quelle di Gerd, intrecciandole in modo che nessuno dei due potesse usare i
pugni.
Una volta bloccati gli arti, tecnica e strategia avevano poco senso. La
lotta si era trasformata in una prova di forza e resistenza, in cui i due
combattenti si sfinivano lentamente a vicenda. Dessel tentò di rovesciare
Gerd sulla schiena, ma la stanchezza lo tradì. Si sentiva le membra molli e
pesanti; non riuscì a far leva come necessario. Fu invece Gerd che riuscì a
divincolarsi e girarsi, liberando una mano mentre continuava a tenere il viso
premuto con forza contro il torace di Des.
Des non era così fortunato: aveva il viso scoperto e vulnerabile. Gerd
sferrò un colpo con la mano libera, ma non un pugno. Conficcò invece il
pollice con forza nella guancia di Des, a pochissimi centimetri dal vero
bersaglio. Colpì ancora col pollice, cercando di cavargli un occhio per
accecarlo e lasciarlo a contorcersi per il dolore.
Des impiegò un secondo a capire cosa stesse succedendo: per la fatica, la
mente gli era diventata lenta e goffa come il corpo. Si voltò proprio mentre
arrivava il secondo attacco, e il pollice gli si conficcò dolorosamente nella
parte alta dell’orecchio.
Dentro di lui esplose una rabbia oscura, una scarica di passione ardente
che fece evaporare ogni traccia di spossatezza. All’improvviso la sua mente
era concentrata, il corpo forte e rinvigorito. Sapeva cos’avrebbe fatto dopo
ma, più importante ancora, sapeva con certezza assoluta anche cos’avrebbe
fatto Gerd.
Non sapeva spiegare come mai lo sapesse; a volte riusciva
semplicemente a prevedere la mossa successiva di un avversario. Qualcuno
lo avrebbe chiamato istinto, ma Des sentiva che era qualcos’altro. Era
troppo dettagliato, troppo specifico per essere semplice istinto. Somigliava
più a una visione, a uno spiraglio sul futuro. E ogni qualvolta avveniva Des
sapeva sempre cosa fare, come se qualcosa guidasse le sue azioni.
Quando arrivò il colpo successivo, Des fu più che pronto. Riusciva a
vederlo a perfezione. Sapeva con esattezza quando sarebbe arrivato e dove.
Stavolta girò la testa nella direzione opposta, esponendo il volto all’attacco,
e aprì la bocca. La richiuse con perfetto tempismo e i denti affondarono
nelle carni sudice del pollice di Gerd.
Questi urlò quando Des serrò la mandibola, recidendo i tendini e
raggiungendo l’osso. Si domandò se avrebbe potuto attraversare anche
quello e, come se il pensiero si fosse concretizzato, recise il pollice di Gerd.
Le urla divennero strilli e Gerd lasciò la presa e si allontanò, stringendosi
la mano mutilata con quella sana. Sangue scuro colò tra le dita che
tentavano di fermare l’emorragia.
Alzandosi lentamente, Des sputò il pollice a terra, il sapore del sangue
ancora caldo in bocca. Fisicamente si sentiva forte e pieno di energia, come
se un grande potere gli scorresse nelle vene. Aveva completamente privato
l’avversario della voglia di combattere: a quel punto avrebbe potuto fare di
Gerd qualunque cosa volesse.
Quest’ultimo si rotolava a terra, avanti e indietro, con la mano stretta al
petto. Gemeva e singhiozzava, implorando pietà e chiamando aiuto.
Des scosse la testa, disgustato; Gerd se l’era cercata. Tutto era iniziato
come una normale scazzottata in cui qualcuno si sarebbe ritrovato un occhio
nero e qualche livido, non di più. Poi l’altro aveva portato la faccenda su un
altro piano tentando di accecarlo, e lui aveva risposto per le rime. Des aveva
imparato da molto tempo a non far degenerare una lotta a meno di non
essere disposto a pagare il prezzo della sconfitta. Ora anche Gerd lo sapeva.
Des era collerico, ma non era tipo da accanirsi su un avversario inerme.
Uscì dalla grotta, senza girarsi a guardare il vecchio sconfitto, e risalì il
tunnel per riferire l’accaduto a uno dei capisquadra, in modo che qualcuno
si occupasse della ferita di Gerd.
Le conseguenze non lo preoccupavano. I medici potevano riattaccargli il
pollice, e nel peggiore dei casi Des avrebbe subito una multa pari alla paga
di uno o due giorni. Alla Compagnia non importava molto cosa facessero i
dipendenti, a patto che tornassero a estrarre cortosite. Le risse erano comuni
fra i minatori e quasi sempre la ORO chiudeva un occhio, sebbene quella
fosse stata peggiore di altre: breve e feroce, con una fine cruenta.
Proprio come la vita su Apatros.
CAPITOLO 2

Seduto sul retro del landspeeder utilizzato per trasportare i minatori


dall’unica colonia di Apatros alle miniere, Des si sentiva esausto. Non
voleva che tornare alla sua branda in camerata e dormire. L’adrenalina lo
aveva completamente abbandonato, lasciandolo soltanto consapevole della
rigidità del proprio corpo. Si accasciò sul sedile e si guardò intorno nel
veicolo.
Di norma, sullo speeder sarebbero stati stipati una ventina di altri
minatori assieme a lui, ma quello era vuoto tranne che per lui e il pilota.
Dopo la lite con Gerd, il caposquadra aveva sospeso Des, senza retribuzione
e con effetto immediato, e aveva ordinato al trasporto di riportarlo alla
colonia.
“Questa faccenda sta diventando ripetitiva, Des”, aveva detto l’uomo,
con espressione truce. “Servirai da esempio per gli altri. Non potrai lavorare
in miniera finché Gerd non sarà guarito e tornato al lavoro”.
Il vero significato era che non avrebbe guadagnato crediti fino al ritorno
di Gerd, ma naturalmente avrebbe dovuto continuare a pagare vitto e
alloggio. Ogni giorno che rimaneva con le mani in mano sarebbe finito sul
conto, aggiungendosi al debito che stava cercando così disperatamente di
ripagare col suo duro lavoro.
Des suppose che ci sarebbero voluti quattro o cinque giorni prima che
Gerd riuscisse a maneggiare di nuovo un martello idraulico. Il medico
aveva riattaccato il pollice tramite vibrobisturi e sintopelle. Qualche giorno
di iniezioni di kolto e farmaci a basso costo per attutire il dolore, poi Gerd
sarebbe tornato al lavoro. Una vasca di bacta lo avrebbe rimesso in sesto in
un giorno, ma il bacta era costoso e la ORO non l’avrebbe pagato a meno
che Gerd non possedesse un’assicurazione, cosa di cui Des dubitava
fortemente.
Per la gran parte, i minatori non si disturbavano mai a sottoscrivere
l’assicurazione sponsorizzata dalla Compagnia. Tanto per cominciare era
costosa. Visto il vitto, l’alloggio e le tariffe del trasporto da e verso le
miniere, quasi tutti ritenevano di dar già alla ORO una parte più che
cospicua dei loro sudati guadagni senza dover aggiungere i premi
assicurativi.
Tuttavia, non era solo per questo. Sembrava quasi che gli uomini e le
donne che lavoravano nelle miniere negassero la realtà, rifiutandosi di
ammettere i potenziali rischi e pericoli in cui ogni giorno s’imbattevano.
Un’assicurazione li avrebbe costretti a guardare in faccia la dura realtà.
Pochi minatori raggiungevano l’età anziana. Le gallerie facevano molte
vittime, seppellendo i corpi con le frane o incenerendoli quando qualcuno
andava a toccare una sacca di gas esplosivi intrappolata nella roccia.
Persino chi riusciva a uscir vivo dalle miniere tendeva a non sopravvivere a
lungo per godersi la pensione. Gli effetti del luogo si facevano sentire.
Uomini sessantenni si ritrovavano corpi con l’aspetto e le capacità di
novantenni; gusci infranti, logorati da decenni di pesante lavoro fisico e
dall’esposizione per via aerea ai contaminanti che passavano attraverso i
filtri scadenti della ORO.
Alla morte del padre di Des, naturalmente privo di assicurazione, tutto
ciò che il figlio ottenne fu il privilegio di accollarsi i suoi debiti. Hurst
aveva trascorso più tempo a bere e giocare d’azzardo che non a lavorare.
Per pagare l’affitto aveva spesso dovuto chiedere crediti in prestito alla
ORO, a tassi d’interesse che sarebbero risultati criminali ovunque tranne
che nell’Orlo Esterno. Il debito continuava a crescere, un mese, un anno
dopo l’altro, ma a Hurst non sembrava importare. Era un genitore solo, con
un figlio che odiava, costretto a un lavoro disumano che disprezzava; aveva
rinunciato a qualsiasi speranza di fuggire da Apatros molto prima che
l’attacco di cuore lo portasse via.
Probabilmente gli Hutt erano stati contenti di sapere che i conti da pagare
erano ricaduti sul figlio.
Il trasporto sfrecciava sopra le brulle rocce dei pianori del piccolo
pianeta, senza emettere suoni a parte l’incessante ronzio dei motori. La
landa tutta uguale continuò a sfrecciar via come una macchia sfocata, finché
la visuale dal finestrino non divenne altro che una cappa di grigio informe.
L’effetto era ipnotico: Des sentiva che il corpo e la mente, sfiniti,
bramavano un sonno profondo e senza sogni.
Succedeva così. Li facevano lavorare fino allo stremo, offuscando i sensi
e spingendoli a sottomettersi, finché non si accettava ciò che si aveva,
sprecando la vita nel sudiciume e nella polvere delle miniere di cortosite.
Tutto all’instancabile servizio della Compagnia Mineraria. Era una trappola
dall’efficacia sorprendente, che funzionava su uomini come Gerd e Hurst.
Ma con Des non sarebbe servita.
Nonostante l’opprimente debito del padre, Des sapeva che un giorno
avrebbe ripagato la ORO lasciandosi alle spalle quella vita. Era destinato a
qualcosa di più grande di quell’esistenza misera e insignificante. Lo sapeva
con certezza assoluta, ed era quella consapevolezza a dargli la forza di
andare avanti, nonostante il travaglio inarrestabile e talvolta disperato. Gli
dava la forza di combattere, anche quando una parte di lui aveva soltanto
voglia di arrendersi.
Era stato sospeso e non poteva lavorare in miniera, ma c’erano altri modi
di guadagnare crediti. Con grande sforzo si costrinse ad alzarsi. Il
pavimento gli ondeggiava sotto i piedi a causa delle costanti correzioni
effettuate dallo speeder per mantenere l’altitudine di crociera, programmata
a mezzo metro dal suolo. Ci mise un secondo ad abituarsi al ritmo del
trasporto; poi, in parte camminando e in parte barcollando, attraversò il
passaggio tra i sedili avvicinandosi al pilota sul davanti. Non riconobbe
l’uomo, ma comunque tendevano tutti a somigliarsi: lineamenti seri e cupi,
occhi spenti e sempre con l’espressione di chi è sull’orlo di un’emicrania.
“Ehi”, disse Des tentando di assumere un tono noncurante, “non è
arrivata nessuna nave allo spazioporto, oggi?”
Il pilota non aveva motivo di tenere gli occhi fissi sul percorso davanti a
sé. I quaranta minuti di viaggio dalle miniere alla colonia consistevano in
un rettilineo attraverso una pianura vuota; c’erano addirittura piloti che
riuscivano a schiacciare un pisolino. Quello, tuttavia, si rifiutò di girarsi e
guardare Des.
“Una nave da carico atterrata qualche ora fa”, disse con tono annoiato.
“Militare. È della Repubblica”.
Des sorrise. “Resteranno per un po’?”
Il pilota non rispose; si limitò a sbuffare e a scuotere la testa per la
stupidità della domanda. Des annuì e tornò barcollando al suo sedile. Anche
lui conosceva la risposta.
La cortosite veniva impiegata per gli scafi di qualunque cosa, dai caccia
alle navi da battaglia, oltre a essere integrata nelle armature dei soldati. E
col protrarsi della guerra contro i Sith, il bisogno di cortosite da parte della
Repubblica continuava ad aumentare. A intervalli di qualche settimana, un
trasporto della Repubblica atterrava su Apatros. Il giorno dopo se ne andava
di nuovo, con le stive cariche del prezioso minerale. Fino ad allora
l’equipaggio, composto da ufficiali e da soldati, non avrebbe dovuto far
altro che aspettare. Des sapeva per esperienza che ai soldati della
Repubblica piaceva giocare a carte ogni qualvolta dovevano ammazzare il
tempo. E ovunque la gente giocasse a carte c’erano soldi da fare.
Tornando a sedere sul retro dello speeder, Des decise che forse, in fondo,
non era ancora il momento di andare a dormire.
Quando il trasporto si fermò sul limitare della colonia, il corpo di Des era
percorso dall’eccitazione dell’aspettativa. Saltò fuori e si avviò a passo
tranquillo verso la camerata, lottando contro l’impazienza e l’impulso di
correre. Immaginò che in quello stesso momento i soldati della Repubblica
e i loro crediti si trovassero ai tavoli da gioco dell’unica taverna della
colonia.
Non c’era comunque motivo di precipitarsi lì. Era tardo pomeriggio e il
sole aveva appena iniziato a calare dietro l’orizzonte, a nord. Ormai la gran
parte dei minatori del turno di notte sarebbero stati svegli. Molti dovevano
già essere alla taverna, a ingannare il tempo prima di doversi dirigere alle
miniere per iniziare il loro turno. Per le due ore successive Des sapeva che
sarebbe stato fortunato anche solo a trovare un posto dove sedersi, figurarsi
quindi una sedia libera a un tavolo di pazaak o sabacc. Nel mentre, ci
sarebbe voluta qualche altra ora prima che gli uomini del turno diurno
salissero sui trasporti in attesa per tornare a casa; sarebbe arrivato alla
taverna molto prima di loro.
Tornato in camerata, si tolse la tuta incrostata di sporco ed entrò nelle
docce comuni, deserte, ripulendosi dal sudore e dal pulviscolo di roccia. Si
mise poi un cambio d’abiti pulito e scese in strada, avvicinandosi
lentamente alla taverna dall’altra parte della città.
La taverna non aveva un nome; non ne aveva bisogno. Nessuno aveva
mai difficoltà a trovarla. Apatros era un mondo piccolo, poco più di una
luna dotata di atmosfera e di qualche esemplare di flora indigena. C’erano
pochi luoghi dove andare: le miniere, la colonia o i terreni desolati nel
mezzo. Le miniere erano un complesso imponente, che comprendeva le
grotte e le gallerie scavate dalla ORO oltre agli impianti di raffinamento e
trattamento dei materiali.
Anche gli spazioporti erano situati lì. I trasporti partivano
quotidianamente con carichi di cortosite diretti ai mondi abbienti, più vicini
a Coruscant e al Nucleo della Galassia, e nei restanti giorni arrivavano navi
che trasportavano attrezzature e scorte per mantenere le miniere in attività. I
dipendenti troppo deboli per estrarre la cortosite lavoravano negli impianti
di raffinamento o allo spazioporto. Non erano pagati così bene, ma in
genere vivevano più a lungo.
Ma ovunque lavorassero, alla fine del turno tutti rincasavano nello stesso
posto. La colonia non era altro che un rappezzato insieme di camerate
temporanee costruite dalla ORO per ospitare quelle poche centinaia di
operai previsti per mandare avanti le miniere. Ufficialmente la colonia era
nota come Apatros, come il mondo stesso. Chi ci viveva la chiamava più
comunemente “fangopoli”. Ogni edificio aveva la stessa tonalità grigio
spento del duracciaio, con l’esterno eroso dagli elementi. Gli interni erano
praticamente identici da un edificio all’altro: camerate provvisorie per gli
operai diventate fin troppo definitive. Ogni struttura conteneva quattro
piccole stanze private intese per due persone, ma che spesso ne ospitavano
tre o più. A volte una di quelle stanze veniva condivisa da intere famiglie, a
meno che non trovassero i crediti per gli affitti astronomici richiesti dalla
ORO per un po’ di spazio in più. Ogni stanza aveva letti a castello incassati
nelle pareti e un’unica porta che si apriva su un angusto corridoio, in fondo
al quale si trovavano i bagni e le docce comuni. Le porte tendevano a
cigolare su cardini sbagliati che mai nessuno riparava; i tetti erano un
mosaico di rattoppi improvvisati contro le infiltrazioni che puntuali si
presentavano a ogni pioggia. Le finestre rotte venivano sigillate col nastro
per ripararsi dal vento e dal freddo, ma mai sostituite. Su tutto si posava un
sottile velo di polvere, ma pochi residenti si disturbavano mai a spazzare
nella loro stanza.
Nella sua interezza, la colonia si estendeva per meno di un chilometro su
ogni lato, e così era possibile andare a piedi da un edificio a un’altra delle
strutture identiche in meno di venti minuti standard. Nonostante
l’architettura ovunque simile a se stessa, destreggiarsi nella colonia era
semplice. I dormitori erano disposti in linee rette orizzontali e verticali,
andando a formare una rete di strade funzionali tra le case regolarmente
distanziate. Le strade non potevano esattamente dirsi pulite, ma di certo non
pullulavano d’immondizia. La ORO smaltiva rifiuti e spazzatura con
frequenza appena sufficiente a mantenere un’igiene accettabile, visto che
un’epidemia trasmessa dalla sporcizia avrebbe inficiato la produzione. La
Compagnia non pareva tuttavia curarsi dei rottami che inevitabilmente si
accumulavano in tutta la città. Generatori guasti, macchinari arrugginiti,
parti metalliche corrose e attrezzi ormai inutilizzabili affollavano le
asfittiche strade fra una camerata e l’altra.
Soltanto due strutture nella colonia si differenziavano dal resto. Una era il
mercato della ORO, unico negozio su tutto il pianeta. Un tempo era stato
anch’esso un dormitorio, ma i letti erano stati sostituiti da scaffali e le docce
comuni erano diventate un magazzino di sicurezza. Alla parete esterna era
stato affisso un cartellino che elencava nero su bianco l’orario di apertura.
Non c’erano vetrine per adescare gli acquirenti, né pubblicità. Nel mercato
erano reperibili solo gli articoli più basilari, tutti con ricarichi folli. Si
accettava di buon grado di trattenere i crediti dalle paghe successive a tassi
d’interesse elevati, come tipico della ORO, assicurando così che i clienti
passassero ancora più ore in miniera a ripagare i loro acquisti.
L’altro edificio diverso era la taverna stessa; un trionfo di bellezza
architettonica, se paragonato alla desolante uniformità del resto della
colonia. Si ergeva a qualche centinaio di metri al di là del confine cittadino,
ben discosto dal grigiore della rete di dormitori. Era alto solo tre piani, ma
dominava su un paesaggio formato unicamente da strutture a singolo
livello. Non che vi fosse bisogno di tutta quell’altezza. Nel bar tutto era
situato al piano terra; quelli superiori erano una semplice facciata, innalzati
da Groshik, il proprietario e barista neimoidiano, per pura ostentazione.
Sopra il primo piano, il secondo e il terzo non esistevano: non c’erano altro
che le pareti e una cupola di vetro purpureo illuminata dall’interno. Luci
viola coordinate ricoprivano le mura esterne azzurro chiaro. L’effetto
sarebbe risultato pacchiano su quasi ogni altro pianeta, ma nel mare di
grigio di Apatros lo era anche il doppio. Groshik affermava spesso di aver
reso la sua taverna la più vistosa possibile semplicemente per risultare
offensivo nei confronti della ORO. Questa sua posizione lo rendeva
popolare tra i minatori, ma Des dubitava che alla ORO importasse granché.
Groshik poteva dipingere la sua taverna di qualunque colore volesse, a patto
di versare alla corporazione una percentuale sui profitti ogni settimana.
La giornata di venti ore standard su Apatros era divisa equamente fra i
due turni di minatori. Des e il resto della squadra diurna lavoravano dalle 8
alle 18, e la controparte notturna dalle 18 alle 8. Nel tentativo di
massimizzare i profitti, Groshik apriva tutti i pomeriggi alle 13 e non
chiudeva i battenti per dieci ore di fila. Poteva così servire gli operai
notturni prima che iniziassero il turno e poi accogliere la squadra diurna alla
fine del proprio. Chiudeva alle 3, faceva due ore di pulizie e sei di sonno,
poi si alzava alle 11 e ricominciava da capo. Questa routine era ben nota a
tutti; il Neimoidiano era puntuale e sistematico come il sorgere del sole
arancione di Apatros.
Nel varcare lo spazio che separava l’accogliente porta della taverna dai
confini veri e propri della colonia, Des riusciva già a sentire i rumori
provenienti dall’interno: musica ad alto volume, risate, chiacchiere, il
tintinnio dei bicchieri. Erano quasi le 16. Al turno di giorno mancavano due
ore per staccare, ma la taverna era comunque gremita di operai del turno di
notte che volevano bere un drink o mangiare un boccone prima di salire a
bordo delle navette che li avrebbero condotti alle miniere.
Des non riconobbe nessuno: di rado le squadre del giorno e della notte
s’incontravano. La clientela era perlopiù umana, con qualche Twi’lek,
Sullustano e Cereano mescolato tra la folla. Si sorprese di notare anche un
Rodiano. A quanto pareva, la squadra notturna tollerava le altre specie più
di quella diurna. Non c’erano cameriere o ballerine di alcun genere: l’unico
addetto ai lavori era Groshik stesso. Chiunque volesse un drink doveva
avvicinarsi al bancone in fondo e ordinarlo.
Des si fece strada fra la folla. Groshik lo vide avvicinarsi e scomparve
dietro il bancone per un attimo, ricomparendo con un boccale di birra Gizer
proprio quando Des lo raggiunse.
“Sei venuto prima, oggi”, disse Groshik posando il drink sul bancone con
un tonfo pesante. Era difficile udire la sua voce bassa e roca tra il vociare
della calca. Le sue parole avevano sempre un che di gutturale, come se
parlasse con la faringe.
Des piaceva al Neimoidiano, ma non era certo del perché; forse l’averlo
visto crescere, o forse semplicemente il fatto che gli fosse toccata una
carogna per padre. Qualunque fosse il motivo, tra i due c’era un tacito
accordo: Des non doveva pagare un drink che non fosse versato su sua
richiesta. Accettò dunque l’offerta con gratitudine, e lo bevve in un’unica,
lunga sorsata, poi sbatté il boccale vuoto sul tavolo.
“Ho avuto problemi con Gerd”, rispose asciugandosi le labbra. “Gli ho
staccato il pollice a morsi e mi hanno rimandato a casa prima”.
Groshik piegò la testa di lato e piantò i suoi enormi occhi rossi su Des.
L’espressione scontrosa sul viso da anfibio non cambiò, ma il suo corpo fu
scosso da un lievissimo tremito. Des lo conosceva abbastanza da rendersi
conto che stava ridendo.
“Mi sembra giusto”, gracchiò Groshik riempiendo di nuovo il boccale.
Des non tracannò il secondo drink come aveva fatto col primo. Di rado
gliene offriva più di uno e non voleva abusare della sua generosità.
Rivolse l’attenzione alla folla. Fu facile individuare i visitatori della
Repubblica: quattro umani, due uomini e due donne, e un Ithoriano, in
curatissime uniformi della Marina. Ma non erano solo i loro abiti a spiccare;
avevano tutti una postura perfettamente diritta, mentre gran parte dei
minatori tendeva a ingobbirsi, come se portassero un gran peso sulle spalle.
Su un lato del salone centrale c’era una sezione più piccola, separata dal
resto della taverna con dei cordoni. Era l’unica parte di quel luogo con cui
Groshik non avesse a che fare. La ORO consentiva il gioco d’azzardo su
Apatros, ma solo a patto di gestire i tavoli, ufficialmente per impedire che
qualcuno barasse. Tutti sapevano, però, che il vero scopo era controllare le
puntate. Non volevano certo che uno dei loro dipendenti ripagasse tutto il
debito con la vincita di un’unica notte fortunata. Tenendo bassi i limiti
massimi, la ORO si assicurava che fosse più proficuo lavorare in miniera
che ai tavoli.
Nella sezione dei giochi c’erano altri quattro militari con l’uniforme della
flotta della Repubblica, assieme a una decina di minatori. Una Twi’lek coi
gradi di sottufficiale sul risvolto stava giocando a pazaak. Un giovane
guardiamarina era seduto al tavolo di sabacc e stava parlando ad alta voce
con tutti quelli che lo circondavano, anche se nessuno sembrava ascoltarlo.
C’erano altri due ufficiali seduti a quel tavolo, due umani: un uomo e una
donna. Quest’ultima era tenente; l’uomo aveva le mostrine di comandante.
Des suppose che fossero gli ufficiali anziani al comando della missione per
il ritiro del carico di cortosite.
“Mi sembra che hai notato i nostri addetti al reclutamento”, borbottò
Groshik.
Ufficialmente la guerra contro i Sith non era altro che una serie di scontri
militari protratti nel tempo, benché tutta la galassia sapesse che si trattava di
un conflitto; c’era dunque bisogno di un flusso costante di cadetti giovani e
infervorati. Per qualche motivo, la Repubblica si aspettava sempre che i
cittadini dell’Orlo Esterno non vedessero l’ora di unirsi a loro. Ogni
qualvolta un equipaggio militare della Repubblica passava per Apatros, gli
ufficiali tentavano di procacciarsi nuove reclute. Offrivano un giro di
alcolici e poi lo usavano come scusa per rompere il ghiaccio, solitamente
raccontando la gloriosa ed eroica vita da soldati. A volte giocavano la carta
della brutalità dei Sith, altre promettevano una vita migliore tra le fila
dell’esercito; per tutto il tempo fingevano cordialità e simpatia nella
speranza che qualcuno si unisse alla loro causa.
Des sospettava che ricevessero qualche extra sulla paga per ogni recluta
che riuscivano ad abbindolare. Purtroppo per loro, su Apatros non
avrebbero trovato terreno fertile. Nell’Orlo Esterno la Repubblica non era
molto popolare: la gente di lì, Des incluso, sapeva che i Mondi del Nucleo
sfruttavano a proprio vantaggio pianeti piccoli e remoti come Apatros. Ai
confini estremi dello spazio civilizzato, i Sith trovavano un gran numero di
avversatori della Repubblica; era uno dei motivi per cui il loro numero
continuava a crescere col prolungarsi della guerra.
Nonostante lo scontento nei confronti dei Mondi del Nucleo, la gente si
sarebbe comunque arruolata se la Repubblica non avesse tenuto tanto a
seguire le leggi alla lettera. Chiunque sperasse di fuggire da Apatros e dalle
grinfie della Compagnia Mineraria ne avrebbe ricevuto un duro colpo: i
debiti verso la ORO andavano comunque estinti, anche da reclute che
proteggevano la galassia contro la crescente minaccia dei Sith. Se qualcuno
doveva del denaro a una corporazione regolare, la flotta della Repubblica
gli o le avrebbe trattenuto il salario fino all’estinzione del debito. Non molti
minatori trovavano esaltante la prospettiva di entrare in guerra solo per
avere il privilegio di non essere pagati.
Alcuni minatori ce l’avevano con gli ufficiali anziani e con la costante
tendenza ad attirare ragazzi e ragazzi verso la loro causa. La cosa, tuttavia,
non infastidiva Des. Poteva ascoltare i loro sproloqui anche tutta la notte,
purché continuassero a giocare a carte. Lo riteneva un prezzo irrisorio per
poter mettere le mani sui loro crediti.
Dovette dare a vedere la propria bramosia, almeno a Groshik. “Non è che
per caso hai saputo che i soldati della Repubblica sarebbero venuti e hai
attaccato briga con Gerd solo per arrivare qui più presto?”
Des scosse la testa. “No. È stata solo una felice coincidenza. Stavolta che
esca stanno usando? La gloria della Repubblica?”
“Stanno cercando di metterci all’erta sugli orrori della Confraternita
dell’Oscurità”, fu la neutra e avveduta risposta. “Non gli sta andando molto
bene”.
Sulle questioni politiche, il proprietario della taverna teneva le proprie
opinioni per sé. I clienti erano liberi di parlare di qualunque argomento
volessero, ma per quanto una discussione s’infervorasse, lui rifiutava
sempre di schierarsi.
Una volta aveva spiegato che faceva male agli affari. “Dai ragione a
qualcuno e sarà tuo amico per tutta la notte. Contraddicilo e potrebbe odiarti
per settimane”. I Neimoidiani erano noti per il loro pragmatico senso degli
affari e Groshik non faceva eccezione.
Un minatore si fece largo fino al bancone e chiese un drink. Quando
Groshik si allontanò per occuparsi dell’ordinazione, Des si voltò a
esaminare la zona da gioco. Al tavolo di sabacc non c’erano posti liberi,
quindi per il momento fu costretto a guardare. Studiò i giochi e le puntate
per più di un’ora, con particolare attenzione agli ufficiali anziani che
tendevano a giocare meglio dei soldati semplici, forse perché avevano più
crediti da perdere.
Su Apatros, il gioco seguiva una versione modificata delle regole
standard di Bespin. Le basi erano semplici: formare una mano quanto più
vicina possibile a ventitré punti senza superarli. A ogni giro un giocatore
doveva puntare per restare in partita, o lasciare. Tutti i giocatori che
decidevano di restare potevano estrarre una carta, scartarla o metterne una
nel campo d’interferenza per bloccarne il valore. Alla fine di ogni giro, un
giocatore poteva rivelare la propria mano, costringendo anche tutti gli altri a
scoprire le carte. La mano migliore sul tavolo vinceva il piatto. Qualunque
punteggio superiore ai ventitré o inferiore ai ventitré negativi sballava,
costringendo il giocatore a pagare una penalità. E se qualcuno aveva una
mano che sommata dava ventitré punti esatti, ovvero un sabacc puro, allora
vinceva anche il piatto complessivo. Ma visti i cambi casuali e inaspettati
del valore delle carte di giro in giro, e il fatto che gli altri giocatori
potessero rivelare la mano in anticipo, ottenere un sabacc puro era molto
più difficile di quanto sembrasse.
Era più di un semplice gioco di fortuna. C’entravano stile e strategia, il
sapere quando bluffare e quando lasciare, il modo di adattarsi alle carte in
continuo mutamento. Alcuni giocatori erano troppo cauti e non puntavano
mai più del rialzo minimo, pur avendo una buona mano; altri, troppo
aggressivi, tentavano d’intimidire il tavolo con puntate esorbitanti, pur non
avendo nulla. Se si sapeva cosa guardare, le tendenze naturali di un
giocatore erano cristalline.
Era chiaro, per esempio, che il guardiamarina fosse nuovo al gioco.
Continuava a rimanere con carte scarse, anziché lasciare. Era un
inseguitore, e non si accontentava di carte sufficienti a vincere il piatto.
Cercava sempre la mano perfetta, sperando in una grossa vincita con cui
accaparrarsi il piatto complessivo che cresceva e cresceva, finché qualcuno
non riusciva a ottenerlo. Il risultato era che continuava a sballare e a pagare
pegno, cosa che tuttavia non pareva scoraggiarlo neanche un po’. Era uno di
quei giocatori dotati più di crediti che di buonsenso, e a Des andava
benissimo così.
Per essere giocatori esperti di sabacc bisognava saper controllare il
tavolo. Des non impiegò molte mani a rendersi conto che era proprio ciò
che il comandante stava facendo. Sapeva come puntare e far lasciare anche
ai giocatori con mani vincenti. Sapeva quando puntare poco per spingere gli
altri a giocare mani che sarebbe stato meglio lasciare. Non si curava molto
delle proprie carte: sapeva che il segreto del sabacc era dedurre cosa
avessero in mano tutti gli altri, e poi lasciare che credessero di sapere quali
carte avesse lui. Solo una volta rivelate tutte le mani, mentre racimolava i
gettoni, gli avversari si rendevano conto di essersi sbagliati.
Era bravo, Des dovette ammetterlo. Migliore di gran parte dei giocatori
della Repubblica che passavano di lì. Nonostante l’aspetto affabile, era
implacabile e intascava un piatto dopo l’altro. Des, però, aveva un buon
presentimento; alle volte, semplicemente, sapeva di non poter perdere.
Quella notte avrebbe vinto... e anche molto.
Da uno dei minatori al tavolo si levò un gemito. “Ancora un giro e mi
prendevo tutto il piatto di sabacc!”, disse scuotendo la testa. “È stato
fortunato a scoprire proprio in quel momento”, aggiunse rivolto al
comandante.
Des sapeva che non si trattava di fortuna. Il minatore era così agitato che
si dimenava sulla sedia: chiunque con un po’ di cervello avrebbe capito che
stava cercando di costruire una buona mano. Il comandante se n’era accorto
e aveva fatto la sua mossa, interrompendo la mano e tagliando così le
gambe alle speranze degli altri giocatori.
“Fine dei giochi”, disse il minatore, allontanandosi dal tavolo. “Non ho
più soldi”.
“Pare che sia la tua occasione”, sussurrò Groshik passandogli accanto per
versare un altro drink. “Buona fortuna”.
Stanotte la fortuna non mi serve, pensò Des. Attraversò la taverna e
scavalcò la fune di nanoseta per entrare nella sala da gioco controllata dalla
ORO.
CAPITOLO 3

Des si avvicinò al tavolo di sabacc e fece un cenno al CardShark Beta-4 che


distribuiva le carte. La ORO preferiva i droidi automatizzati ai mazzieri
organici: non doveva pagarli e non c’era la minima possibilità che qualche
giocatore scaltro convincesse un droide a barare.
“Entro nel gioco”, dichiarò sedendosi al posto vuoto.
Il guardiamarina era seduto proprio davanti a lui, ed emise un fischio
lungo e forte. “Accidenti, sei proprio grosso”, gridò concitato. “Quanto sei
alto? Un metro e novanta? Novantacinque?”
“Ben due metri”, rispose Des senza guardarlo. Strisciò la tessera della
ORO nel lettore incorporato nel tavolo e immise il suo codice di sicurezza.
L’acquisto dei gettoni fu aggiunto al debito totale già presente sul suo conto
e il CardShark, obbediente, sospinse una pila di gettoni sul tavolo verso di
lui.
“Buona fortuna, signore”, disse.
Il guardiamarina continuava a squadrare Des, e bevve un altro lungo
sorso dal boccale. Poi ragliò una risata. “Wow. Qui nell’Orlo Esterno venite
su belli grossi. Sicuro di non essere un Wookiee senza pelliccia?”
Alcuni degli altri giocatori risero, ma smisero subito quando videro Des
serrare la mascella. Quell’uomo puzzava di birra corelliana, come Gerd
quando si era azzuffato con Des solo poche ore prima. I suoi muscoli
s’irrigidirono e si sporse in avanti. L’altro emise un respiro breve e nervoso.
“Andiamo, figliolo”, intervenne il comandante, rivolgendosi conciliante a
Des per tenere la situazione sotto controllo proprio come aveva fatto con il
tavolo durante tutta la partita. Aveva un’aria di tranquilla autorità, come un
padre di famiglia che sedasse una scaramuccia nata intorno al tavolo da
pranzo. “È soltanto una battuta. Non te la prendere”.
Girandosi verso l’unico giocatore abbastanza bravo da costituire una vera
sfida, Des sorrise per un attimo e lasciò che la tensione si sciogliesse.
“Certo che non me la prendo. Preferisco prendere i tuoi crediti”.
Nessuno parlò per un attimo, poi fu come se tutti emettessero un sospiro
di sollievo. L’ufficiale ridacchiò e gli restituì il sorriso. “E va bene.
Giochiamo un po’ a carte”.
Des partì lento, giocando in modo cauto e lasciando spesso. I limiti del
tavolo erano bassi, il valore massimo di una mano non poteva superare i
cento crediti. Tra i cinque crediti d’invito e i due della “tariffa
amministrativa” addebitata dalla ORO ai giocatori all’inizio di ogni nuovo
giro, il piatto copriva a malapena i costi per restare seduti al tavolo anche
nel caso dei giocatori più bravi. Il trucco era vincere abbastanza piatti da
poter rimanere a sufficienza e avere l’occasione di puntare al piatto
complessivo che continuava a crescere a ogni mano.
Quando Des iniziò a giocare, uno dei soldati tentò di scambiare qualche
parola con lui. “Ho notato che i minatori umani qui si rasano la testa, quasi
tutti”, disse con un cenno del capo verso la folla. “Come mai?”
“Non ce la rasiamo. I capelli ci cadono”, rispose Des. “Per i troppi turni
in miniera”.
“Troppi turni in miniera? In che senso?”
“I filtri non rimuovono tutte le impurità dell’aria. Lavorando dieci ore al
giorno, nel corpo si accumulano gli agenti contaminanti”. Parlava con voce
neutra e inespressiva, priva di risentimento: era un semplice fatto della vita,
per lui e gli altri minatori. “Ci sono degli effetti collaterali. Ci ammaliamo
spessissimo, ci cadono i capelli. Ogni tanto dovremmo prenderci dei giorni
di vacanza, ma da quando la ORO ha firmato quei contratti militari con la
Repubblica le miniere non chiudono mai. In sostanza, veniamo avvelenati
lentamente per garantire che la vostra stiva di carico sia piena quando
ripartite”.
Questo bastò ad annullare qualunque altro tentativo di conversazione, e
così le mani si susseguirono in relativo silenzio. Dopo mezz’ora, Des si era
portato più o meno in pari per quella notte, ma era solo un riscaldamento.
Mise l’invito e la percentuale per la ORO e lo stesso fecero gli altri sette
giocatori al tavolo. Il mazziere distribuì due carte ciascuno e così ebbe
inizio un’altra mano. I primi due giocatori lasciarono subito dopo aver dato
un’occhiata alle carte. Il guardiamarina guardò le sue e puntò abbastanza
gettoni da restare in gioco. La cosa non sorprese Des: era raro che quello
lasciasse le carte, anche quando non aveva nulla.
Il guardiamarina spinse una carta nel campo d’interferenza con un rapido
gesto. A ogni turno un giocatore poteva spostarvi una delle carte
elettroniche, bloccandone il valore per impedire eventuali cambi alla fine
del giro.
Des scosse la testa. Era una mossa da stupidi. Le carte bloccate non si
potevano scartare, e solitamente Des preferiva avere delle alternative.
Tuttavia, il guardiamarina ragionava sul breve termine, senza pianificare.
Ciò spiegava forse perché avesse perso qualche centinaio di crediti.
Con un’occhiata alla propria mano, Des decise di restare. Tutti gli altri
giocatori lasciarono e rimasero solo loro due.
Il CardShark distribuì un altro giro di carte. Des vide che gli era capitata
la Resistenza, una figura che valeva meno otto. Aveva un totale di sei punti,
una mano veramente debole.
La mossa più saggia sarebbe stata lasciare: era finito, a meno che non si
verificasse un cambiamento delle carte. Ma Des sapeva che ci sarebbe stato.
Lo sapeva con la stessa certezza di quando aveva morso il dito di Gerd,
prevedendo dove si sarebbe trovato e in che momento. Quei brevi lampi di
certezza non si verificavano spesso, ma in quel caso sapeva di doverli
ascoltare. Gettò i gettoni sul tavolo. Il guardiamarina rispose alla puntata.
Il droide spostò i gettoni al centro e sul segnapunti che aveva davanti
iniziarono a pulsare con rapidità dei colori. Il blu significava nessun
cambiamento, ovvero tutte le carte sarebbero rimaste uguali. Il rosso
significava invece cambiamento, per cui dal segnapunti sarebbe partito un
impulso e una carta elettronica per giocatore avrebbe cambiato valore
casualmente. Il segnapunti continuò ad alternare rosso e blu, sempre più
velocemente, finché non pulsò così rapidamente che i colori si fusero in una
tinta violetta. Poi iniziò a rallentare e fu possibile distinguere di nuovo i
singoli colori: blu, rosso, blu, rosso, blu... si fermò sul rosso.
“Diamine!”, imprecò il guardiamarina. “Cambia sempre quando ho una
buona mano!”
Des sapeva che non era vero. Le probabilità di un cambiamento erano del
cinquanta per cento, e capitava in modo del tutto casuale. Non era possibile
prevederlo alcun modo... a meno di non avere un dono, come qualche volta
capitava a lui.
Le carte si riavviarono con uno sfarfallio e Des raccolse di nuovo la sua
mano. La Resistenza non c’era più, sostituita da un sette. Aveva un ventuno:
niente ventitré, ma comunque buono. Prima che iniziasse il giro successivo,
Des girò le carte per mostrare la mano al tavolo. “Scopro con ventuno”,
disse.
Disgustato, il guardiamarina sbatté le carte sul tavolo. “Non faccio altro
che sballare”.
Des raccolse la piccola pila di gettoni, mentre l’altro versava di
malavoglia la penalità nel piatto complessivo, che ormai doveva avvicinarsi
ai cinquecento crediti.
Uno dei minatori seduti al tavolo si alzò. “Forza, è ora andare”, disse.
“L’ultimo speeder parte fra venti minuti”.
Gli altri minatori si alzarono fra lamenti e borbottii e si trascinarono fuori
per iniziare il loro turno. Il guardiamarina li osservò andar via e poi, con
curiosità, si rivolse a Des.
“Non te ne vai con loro, omaccione? Ti stavi lamentando di non andare
mai in vacanza o sbaglio?”
“Lavoro nel turno di giorno”, spiegò Des, secco. “Quelli fanno parte del
turno di notte”.
“E il resto della squadra dov’è?”, domandò la tenente. Des riconobbe
chiaramente il senso di quella domanda: era un tentativo d’impedire che il
guardiamarina dicesse qualcos’altro per inimicarsi ancora di più il grosso
minatore. “Sono rimasti veramente in pochi”. Agitò una mano a indicare
l’ambiente della taverna, ormai praticamente vuoto tranne che per i soldati
della Repubblica. Alcuni di loro, al vedere i posti disponibili al tavolo di
sabacc, stavano avvicinandosi per unirsi ai colleghi.
“Arriveranno fra poco”, disse Des. “È che io oggi ho finito il turno un
po’ prima”.
“Oh, davvero?” Dal tono, era sottinteso che conoscesse un solo motivo
per cui il turno di un minatore potesse finire in anticipo.
“Tenente”, disse con educazione uno dei soldati appena arrivati al tavolo.
“Comandante”, aggiunse rivolto all’altro ufficiale. “Possiamo partecipare,
signore?”
Il comandante guardò Des. “Non voglio che questo giovane pensi che la
Repubblica lo stia perseguitando. Se occupiamo tutti i posti, dove si
siederanno i suoi amici quando verranno? Ha appena detto che potrebbero
arrivare in qualsiasi momento”.
“Per ora non ci sono”, disse Des. “E non sono miei amici. Tanto vale
sedervi”. Non aggiunse che, probabilmente, gran parte dei minatori diurni
non avrebbe comunque giocato. Quando Des si presentava al tavolo
tendevano a chiudere lì la serata, visto che vinceva troppo spesso per i loro
gusti.
I posti vuoti si riempirono in fretta.
“Allora, guardiamarina, come vanno le carte?”, domandò una giovane
all’uomo che Des aveva sconfitto nell’ultima mano. Gli si sedette accanto e
posò un boccale pieno di birra corelliana sul tavolo davanti a lui.
“Non bene”, ammise con un brevissimo sogghigno e scambiando il
boccale vuoto con quello pieno. “Forse sarò in debito con te per questo
drink. Pare che stanotte non riesca a ingranare”. Fece un cenno verso Des.
“Sta’ attenta a questo qui, è bravo quanto il comandante. Oppure bara”.
Sorrise in fretta, per mostrare che si trattava soltanto di un’altra delle sue
battute vagamente offensive. Des lo ignorò: non era la prima volta che
qualcuno gli dava del baro. Era consapevole del fatto che la sua
precognizione gli desse un vantaggio sugli altri giocatori. Forse non era
corretto, ma per lui non c’era imbroglio. Non è che sapesse cosa sarebbe
successo a ogni mano: non poteva controllarlo, ma era abbastanza
intelligente da sfruttarla al massimo quando gli capitava.
Il CardShark cominciò a distribuire gettoni ai nuovi arrivati, augurando a
ciascuno un “Buona fortuna” di circostanza.
“E così non vai molto d’accordo con gli altri minatori, pare”, disse la
tenente allacciandosi ai commenti fatti prima da Des. “Mai pensato di
cambiare lavoro?”
Dentro di sé, Des gemette. Quando si era unito al tavolo, gli ufficiali
avevano ormai rinunciato alla loro tiritera dedicandosi perlopiù alle carte, e
invece lui le aveva dato un appiglio per ricominciare da capo.
“Non m’interessa fare il soldato”, disse deponendo l’invito per una nuova
mano.
“Aspetta a giudicare”, disse lei, con la voce ridotta a un sussurro bonario
e suadente. “Fare il soldato per la Repubblica dà le sue soddisfazioni. E se
non altro, sospetto sia meglio del lavoro in miniera”.
“Là fuori c’è una galassia intera, figliolo”, aggiunse il comandante. “Con
mondi molto, molto più attraenti di questo, se posso dirlo”.
Eccome, pensò Des. Ad alta voce disse invece: “Non intendo vivere qui
per il resto dei miei giorni. Ma quando me ne andrò da questo sasso non
voglio farlo per passare il tempo a schivare i blaster dei Sith”.
“Non dovremo combattere i Sith ancora a lungo, figliolo. Ormai li
abbiamo costretti alla fuga”. Il comandante parlava con un tono talmente
calmo e rassicurante che Des fu quasi tentato di credergli.
“Non è quel che ho sentito io”, rispose. “Corre voce che la Confraternita
dell’Oscurità abbia vinto un bel po’ di battaglie. E ho sentito dire che ormai
controlla più di una decina di regioni”.
“Questo prima che arrivasse il generale Hoth”, intervenne un altro
soldato.
Des aveva sentito parlare di Hoth all’HoloNet. Era un eroe conclamato
della Repubblica: un geniale stratega, che aveva vinto più di dieci scontri di
rilievo e sapeva come strappare un trionfo dalle fauci della sconfitta. Non
era sorprendente, visti i suoi trascorsi.
“Hoth?”, disse con aria ingenua, gettando uno sguardo alle carte. Tutta
robaccia. Lasciò. “Non è un Jedi?”
“Esatto”, rispose il comandante sbirciando le proprie carte. Fece una
puntata bassa. “A essere più precisi, è un Maestro Jedi ma anche un ottimo
soldato. Per guidare la campagna della Repubblica, non ci potrebbe essere
uomo migliore”.
“Ma i Sith non sono solo soldati”, disse con franchezza il guardiamarina
ebbro con voce ancora più alta. “Alcuni sanno usare la Forza proprio come i
Jedi! Non bastano i blaster a sconfiggerli”.
Des aveva sentito ogni sorta di storie assurde sulle imprese straordinarie
compiute dai Jedi grazie al potere mistico della Forza, ma presumeva si
trattasse solo di miti e leggende, o comunque di esagerazioni. Sapeva
dell’esistenza di poteri che trascendevano il mondo fisico: lo dimostravano
le sue premonizioni. Ma le storie su ciò di cui i Jedi erano capaci erano
troppo inverosimili per essere vere. Se davvero la Forza era un’arma così
straordinaria, perché quella guerra stava durando tanto?
“Non sono molto attratto dall’idea di obbedire a un Maestro Jedi”,
rispose. “Ho sentito cose strane sulle loro credenze: niente passioni né
emozioni, sembra quasi che ci vogliano trasformare tutti in droidi”.
I giocatori restanti ricevettero un altro giro di carte.
“I Jedi seguono la saggezza”, spiegò il comandante. “Non permettono
che il desiderio o la rabbia velino il loro giudizio”.
“La rabbia ha la sua utilità”, osservò Des. “Mi ha tirato fuori da un sacco
di brutte situazioni”.
“Penso che il trucco sia proprio non trovarsi in quelle situazioni, in primo
luogo”, ribatté la tenente in tono educato.
La mano terminò qualche giro più tardi. La giovane che aveva offerto il
drink al guardiamarina aveva un venti, che non era una gran mano, ma
neppure pessima. Guardò il comandante che stava girando le carte e sorrise
quando vide che aveva solo un diciannove, ma quel sorriso svanì quando il
guardiamarina ubriaco rivelò un ventuno. Quando racimolò il piatto, lei
interruppe la sua risata con un’amichevole gomitata al fianco.
Tutti invitarono e il mazziere distribuì altre due carte a ogni giocatore.
“I Jedi sono i difensori della Repubblica”, proseguì la tenente con
franchezza. “A un normale cittadino i loro modi potranno sembrare strani,
ma sono dalla nostra parte. Non vogliono altro che la pace”.
“Oh, davvero?”, disse Des, guardando le carte e gettando sul tavolo i
gettoni. “Credevo volessero eliminare i Sith”.
“I Sith sono un’organizzazione illegale”, spiegò la tenente. Lasciò la
mano dopo aver ponderato attentamente per un attimo. “Il Senato ha
emanato un atto che li dichiarava fuorilegge quasi tremila anni fa, poco
dopo che Revan e Malak hanno devastato tutta la galassia”.
“Avevo sempre sentito dire che Revan avesse salvato la Repubblica”,
disse lui.
Il comandante si intromise di nuovo nella conversazione. “Quella di
Revan è una storia complessa”, disse. “Ma resta il fatto che i Sith e i loro
insegnamenti siano stati messi al bando dal Senato. La loro semplice
esistenza viola la legge della Repubblica, e per un valido motivo. I Jedi
comprendono la minaccia che i Sith rappresentano, e per questo si sono
uniti alla flotta. I Sith devono essere eliminati una volta per tutte, per il bene
della galassia”.
Il guardiamarina brillo vinse di nuovo la mano per la seconda volta di
fila. A volte era meglio aver fortuna che bravura.
“E dunque la Repubblica dice che i Sith vanno eliminati”, ripeté Des
gettando l’invito per la mano successiva. “Ma se fossero i Sith a
comandare, scommetto che direbbero lo stesso dei Jedi”.
“Se sapessi come sono fatti davvero, non lo diresti”, replicò un altro
soldato. “Io ho combattuto con loro: sono assassini sanguinari!”
Des lo derise. “Già, come osano cercare di ucciderti nel bel mezzo di una
guerra? Dovrebbero saperlo che sei occupato ad ammazzarli. Proprio dei
gran maleducati!”
“Maledetto figlio di un kath!”, lo aggredì il soldato alzandosi dalla sedia.
“Seduto, soldato!”, abbaiò il comandante. L’altro obbedì, ma Des avvertì
la tensione nell’aria. Tutti quelli seduti al tavolo, eccetto forse i due
ufficiali, lo guardavano storto.
Bene. Ormai le carte erano l’ultimo dei loro pensieri. La rabbia non
aiutava a giocare a sabacc.
Anche il comandante si era reso conto che andava male. Fece del suo
meglio per alleggerire la situazione.
“I Sith seguono le dottrine del Lato Oscuro, figliolo”, spiegò a Des. “Se
vedessi che razza di cose hanno fatto in questa guerra... e non solo ai
soldati. A loro non importa di far soffrire civili innocenti”.
Des, ascoltando con un solo orecchio, diede uno sguardo alle carte e fece
una puntata.
“Comandante, non sono uno stupido”, disse poi. “Che la Repubblica lo
riconosca o no, siete in guerra con la Confraternita dell’Oscurità. E in
guerra succedono fatti spiacevoli da entrambe le parti, dunque non tentate
di convincermi che i Sith siano dei mostri. Sono persone, come me e voi”.
L’unico fra tutti i giocatori a passare fu il comandante. Des sapeva che
almeno alcuni fra i soldati rimanevano in gioco con mani scarse solo per
avere l’occasione di fargliela pagare.
Il comandante sospirò. “Hai ragione, fino a un certo punto. I comuni
soldati, che servono nell’esercito perché non sanno chi siano davvero i
Maestri Sith e la Confraternita, sono solo persone. Ma devi guardare gli
ideali che stanno dietro questa guerra. Devi capire cosa rappresenta davvero
ciascuna delle due parti”.
“Illuminatemi, comandante”. Des insinuò appena una traccia di
compiacenza nella voce e gettò distrattamente altri gettoni, sapendo che
così avrebbe acceso ancora di più gli animi intorno al tavolo. Fu lieto di
vedere che nessuno abbandonava la partita; sapeva esattamente che tasti
toccare, come un virtuoso del nalargon.
“I Jedi cercano di mantenere la pace”, ripeté il comandante. “Servono la
giustizia. Usano il loro potere per assistere chi ha bisogno ogni qualvolta sia
possibile. Vogliono servire, non governare. Credono che tutti gli esseri
siano creati uguali, a prescindere dalla specie o dal genere. Riesci a
capirlo”.
Era più un’affermazione che una domanda, ma Des rispose lo stesso.
“Ma gli esseri non sono davvero tutti uguali, non è così? Alcuni sono più
intelligenti, o più forti... o più bravi con le carte”.
Con quell’ultimo commento strappò un sorrisetto al comandante, ma tutti
gli altri al tavolo si rabbuiarono.
“Proprio vero, figliolo. Ma non è forse dovere dei più forti aiutare i
deboli?”
Des fece spallucce. Non credeva molto all’uguaglianza. Impegnarsi a
rendere tutti uguali non dava molte occasioni di raggiungere la grandezza.
“E la Confraternita dell’Oscurità, allora?”, domandò. “Loro in cosa
credono?”
“Seguono le dottrine del Lato Oscuro. L’unica cosa che ricercano è il
potere; ritengono che l’ordine naturale della galassia sia che i deboli
servano i forti”.
“Mi sembra ottimo, se si è tra i forti”. Des girò le carte, poi raggranellò il
piatto godendosi i borbottii e le imprecazioni a mezza bocca degli avversari
sconfitti.
Des rivolse un sogghigno malevolo al resto del tavolo. “Spero per il bene
della Repubblica che voialtri combattiate meglio di quanto giochiate a
sabacc”.
“Tu, maledetta carogna!”, gridò il guardiamarina balzando in piedi e
versando il drink sul pavimento. “Se non fosse per noi, i Sith si sarebbero
già presi questo sasso puzzolente!”
Un altro minatore avrebbe tentato di colpirlo, ma il guardiamarina, anche
se poco più che alticcio, era abbastanza disciplinato da tenere a bada le
mani. Uno sguardo severo del comandante lo fece rimettere a sedere,
borbottando delle scuse. Des ne fu colpito. E un po’ deluso.
“Sappiamo tutti perché la Repubblica tiene ad Apatros”, disse, impilando
i gettoni e tentando di assumere un’aria indifferente. In realtà stava
studiando il tavolo, per controllare se qualcun altro avesse intenzione di
attaccarlo.
“Gli scafi delle vostre navi usano la cortosite, così come le armi e persino
le armature che indossate. Quindi non fingete di farci un favore: avete
bisogno di noi quanto noi di voi”.
Nessuno aveva ancora invitato: tutti gli occhi erano puntati sulla
discussione che si svolgeva tra i giocatori. Il CardShark esitava, incerto,
nella sua programmazione limitata, su come gestire quella situazione. Des
sapeva che Groshik osservava dall’altro capo della taverna, con la mano
pronta vicino al blaster stordente che teneva dietro il bancone. Dubitava
tuttavia che il Neimoidiano ne avrebbe avuto bisogno.
“Proprio vero”, ammise il comandante, gettando il suo invito. Gli altri lo
imitarono, Des incluso. “Almeno, però, noi la cortosite ve la paghiamo. I
Sith ve la prenderebbero e basta”.
“No”, lo corresse Des studiando le sue carte, “voi pagate la ORO per la
cortosite. Quei crediti, la gente come me non li vede mai”. Lasciò, ma non
smise di parlare. “Vedete, comandante, è questo il problema della
Repubblica. Nel Nucleo è tutto bellissimo: la gente è ricca, in salute e
felice. Ma qui, nell’Orlo, non è così facile.
“Io lavoro in miniera, in un modo o nell’altro, quasi fin da quando ho
memoria, e ancora devo alla ORO tanti crediti da riempirci un’astronave.
Ma non vedo Jedi che vengano a salvarmi da questa piccola ingiustizia”.
Stavolta nessuno, neppure il comandante, ebbe una risposta pronta per
lui. Des decise che avevano parlato abbastanza di politica: voleva
concentrarsi sui duemila crediti che si erano raccolti nel piatto complessivo.
Tentò la stoccata finale.
“Non cercate di vendermi i vostri Jedi e la vostra Repubblica, perché
questo è esattamente ciò che è: la vostra Repubblica. Dite che i Sith
rispettano solo la forza? Be’, è così che va anche qui nell’Orlo, più o meno.
Ognuno deve badare a se stesso, perché nessun altro lo farà. Per questo i
Sith qui continuano a trovare sempre nuove reclute disposte a unirsi a loro.
Chi non ha niente pensa di non aver nulla da perdere. E se la Repubblica
non se ne accorgerà presto, la Confraternita dell’Oscurità vincerà questa
guerra, dovessero anche esserci mille Jedi al comando del vostro esercito”.
“Forse sarebbe meglio pensare solo alle carte”, suggerì la tenente dopo
un lungo silenzio imbarazzato.
“Per me va bene”, disse Des. “Senza rancore?”
“Senza rancore”, rispose il comandante con un sorriso forzato.
Qualche altro soldato assentì con un borbottio, ma Des sapeva che il
rancore c’era, eccome se c’era. Aveva fatto tutto il possibile per accertarsi
che ne fossero pieni fino all’orlo.
CAPITOLO 4

Trascorsero le ore. Iniziarono ad arrivare altri minatori, il turno di giorno


che veniva a sostituire quello notturno. Il CardShark continuò a distribuire
carte, i giocatori a fare puntate. Il cumulo di gettoni di Des cresceva a ritmo
costante, così come il piatto complessivo: tremila crediti, quattromila,
cinquemila... Nessun giocatore sembrava divertirsi più. Des supponeva che
la sua accesa invettiva avesse dissolto tutto il piacere del gioco.
Non gliene importava. Non giocava a sabacc per divertirsi: era un lavoro,
proprio come quello in miniera. Un modo per guadagnare crediti e ripagare
la ORO in modo da lasciarsi Apatros per sempre alle spalle.
Due soldati si allontanarono dal tavolo senza più crediti. Ben presto i loro
posti furono riempiti dai minatori del turno di giorno. L’attrattiva
dell’enorme piatto complessivo era sufficiente a farli avvicinare, nonostante
la loro riluttanza a sfidare Des.
Passò un’altra ora e infine gli ufficiali anziani, la tenente e il comandante,
se ne andarono. Anche loro furono sostituiti da minatori che immaginavano
di ritrovarsi con una buona mano e accaparrarsi il piatto complessivo,
ancora non riscosso. I soldati della Repubblica rimasti, come il
guardiamarina che aveva sfidato Des per primo, dovevano avere tasche
senza fondo.
Visto il flusso costante di denaro e giocatori, Des fu costretto a cambiare
strategia. Era in positivo di varie centinaia di crediti, e dunque aveva un
margine sufficiente a poter perdere qualche mano, se necessario. La sua
unica preoccupazione, a quel punto, era proteggere il piatto. Se non aveva
una mano con cui pensasse di poter vincere, l’avrebbe scoperta ai primi
turni. Non voleva dare a nessun altro l’occasione di formare una mano da
ventitré. Smise di lasciare, anche se in possesso di carte mediocri.
Andarsene da una mano dava eccessive opportunità di vittoria agli altri
giocatori.
Alcuni cambiamenti fortunati e varie scelte pessime da parte degli
avversari fecero sì che la strategia funzionasse, ma a caro prezzo. I tentativi
di proteggere il piatto iniziarono a erodergli i profitti. Il suo cumulo di
vincite scendeva rapidamente, ma se avesse vinto il piatto complessivo ne
sarebbe valsa la pena.
Una straziante mano dopo l’altra, il ricambio dei giocatori proseguì. I
soldati si alzarono dai loro posti uno dopo l’altro, costretti a farlo quando
finivano i gettoni e non potevano permettersene altro. Del gruppo di origine
restavano solo Des e il guardiamarina. Il cumulo di vincite di quest’ultimo
stava crescendo; alcuni soldati rimasero a osservare e a fare il tifo per il loro
compagno, perché sconfiggesse quel minatore e la sua boccaccia.
Altri spettatori arrivarono e se ne andarono. Alcuni attendevano soltanto
che un giocatore si arrendesse in modo da poter entrare e prendere il suo
posto. Altri erano catturati dall’intensità della partita e dalle dimensioni del
piatto. Dopo un’altra ora, questo raggiunse i diecimila crediti di gettoni, il
limite massimo. Da quel momento, qualunque credito versato sarebbe
andato perso, finendo direttamente sul conto della ORO. Ma nessuno se ne
lamentava, vista l’occasione di vincere la piccola fortuna accumulata sul
tavolo.
Des alzò lo sguardo sul crono alla parete. Mancava meno di un’ora alla
chiusura della taverna. Quando si era seduto al tavolo, si era sentito sicuro
che avrebbe vinto molto; per qualche tempo era stato in vantaggio, ma le
ultime ore gli avevano consumato i gettoni. Impegnarsi a difendere il piatto
complessivo stava diventando problematico: aveva esaurito tutti i suoi
profitti, ed era stato costretto ad acquistare altri gettoni per due volte. Era
caduto nella classica trappola del giocatore d’azzardo: si era lasciato
ossessionare dalla vincita dell’intero banco al punto da non guardare più le
perdite. Aveva lasciato che il gioco diventasse qualcosa di personale.
Era accaldato, e aveva la maglietta incollata addosso dal sudore. Si
sentiva le gambe intorpidite per essere rimasto seduto troppo a lungo, e la
schiena gli doleva per via della postura ingobbita che assumeva quando
studiava le carte.
Per quella notte era in perdita di quasi mille crediti, ma nessuno degli
altri giocatori era riuscito ad approfittare della sua sfortuna. Raggiunto il
limite massimo del piatto complessivo, tutti gli inviti e le penalità finivano
diritte nelle tasche della ORO. Avrebbe dovuto sgobbare un mese in miniera
se voleva rivedere anche solo uno di quei crediti, ma ormai era troppo tardi
per tirarsi indietro. L’unica sua consolazione era che il guardiamarina della
Repubblica aveva perso quasi il doppio di lui. Eppure, ogni volta che finiva
i suoi gettoni, si limitava a mettere una mano in tasca e a tirare fuori un
altro mucchietto di crediti, come se avesse fondi illimitati. O come se non
gli importasse e basta.
Il CardShark distribuì un’altra mano. Dopo un’occhiata alle proprie carte,
Des iniziò pian piano a dubitare di sé. E se quella volta il suo presentimento
fosse stato sbagliato? Se non fosse stata quella la notte della sua vittoria?
Non riusciva a ricordare un solo momento del passato in cui il suo dono lo
avesse tradito, ma non significava che non potesse succedere.
Mise sul tavolo i gettoni nonostante la mano debole, sfidando ogni istinto
che lo spingeva a lasciare. Avrebbe dovuto scoprire le carte all’inizio del
turno successivo, a prescindere da quanto fossero scarse. Se lasciava
passare più tempo, qualcun altro avrebbe potuto rubare il piatto
complessivo che tanto si stava sforzando di ottenere.
Il segnapunti lampeggiò e le carte cambiarono. Des non si disturbò a
guardare; semplicemente, girò le carte e mormorò: “Scopro”.
Quando vide la mano, si sentì come se gli avessero gettato una secchiata
di acqua gelida. Aveva un ventitré negativo esatto: aveva sballato. La
penalità avrebbe esaurito tutta la sua riserva di gettoni.
“Ehi, omaccione”, lo canzonò il guardiamarina con voce impastata, “devi
essere proprio rintronato per aver scoperto quella roba. Che diamine hai in
testa?”
“Forse non capisce la differenza tra ventitré positivo e negativo”, disse
uno dei soldati che osservavano l’incontro, con un ghigno da gatto manka.
Des pagò la penalità e tentò d’ignorarli. Si sentiva vuoto. Svuotato.
“Non parli tanto quando stai perdendo, eh?”, insistette il guardiamarina
sogghignando.
Odio. Da principio, Des non provò nient’altro. Un odio puro,
incandescente, che gli cancellò ogni pensiero, ogni mossa, ogni singola
traccia di ragione dal cervello. All’improvviso non gli importava del piatto,
o di quanti crediti avesse già perso. Non voleva altro che far sparire
quell’espressione compiaciuta dal viso del guardiamarina. E aveva un solo
modo per farlo.
Gli lanciò un’occhiata furente, ma quello era troppo ubriaco per lasciarsi
intimidire. Senza togliergli gli occhi di dosso, Des strisciò la tessera della
ORO nel lettore e richiese un altro acquisto di gettoni, ignorando la parte
razionale della mente che tentava di dissuaderlo.
Il CardShark, i cui circuiti erano totalmente ignari di ciò che stava
realmente accadendo, spinse verso di lui una pila di gettoni e compitò con
voce allegra il suo solito “Buona fortuna”.
Des aprì con l’Asso e il due di sciabole. Un diciassette, mano pericolosa.
C’erano forti possibilità che con la carta successiva salisse troppo,
sballando. Esitò, sapendo che la mossa più intelligente sarebbe stata
lasciare.
“Ci stai ripensando?”, lo rimproverò il guardiamarina.
Agendo in base a un impulso che non era in grado di spiegare, Des spostò
il due nel campo d’interferenza, poi gettò i gettoni nel piatto. Si stava
lasciando guidare dalle emozioni, ma non gli importava più. E quando la
carta successiva si rivelò un tre, seppe cosa doveva fare. Lo spinse nel
campo d’interferenza accanto al due che già vi si trovava, poi fece la
puntata massima e attese il cambio.
C’erano due modi, in realtà, per vincere il piatto complessivo. Uno era
ottenere una mano con un totale di ventitré punti esatti, ovvero un sabacc
puro. C’era però una mano ancora migliore: la formazione dello Sciocco.
Secondo le regole modificate di Bespin, avendo una mano con un due e un
tre dello stesso seme ed estraendo la figura chiamata Sciocco, del tutto priva
di valore, si aveva la formazione dello Sciocco... un 23 in senso letterale.
Era la mano più rara di tutte, e valeva ancora più di un sabacc puro.
Des aveva due delle tre carte richieste. Non gli serviva altro che un
cambio che sostituisse il suo dieci con lo Sciocco... e c’erano solo due
Sciocchi fra tutte le ventisei carte del mazzo: una probabilità davvero
infima.
Il segnapunti si fermò sul rosso e le carte cambiarono. Des non dovette
neppure guardare la mano: lo sapeva.
Fissò il guardiamarina dritto negli occhi. “Scopro”.
Il guardiamarina abbassò lo sguardo sulla propria mano per vedere cosa
avesse ottenuto col cambio e iniziò a ridere così forte che quasi non riuscì a
scoprire la mano. Due di fiaschi, tre di fiaschi... e lo Sciocco!
Dalla folla si levarono esclamazioni di sorpresa e mormorii increduli.
“Che ve ne pare, ragazzi?”, disse con una risata stridula. “Formazione dello
Sciocco al cambio!”
Si alzò, allungandosi verso il cumulo di gettoni sul piedistallo al centro
del tavolo che rappresentava il piatto complessivo.
Des protese di scatto una mano e afferrò il polso del giovane in una
stretta rigida e fredda come duracciaio, poi rigirò le proprie carte. Nella
taverna scese un silenzio di tomba; la risata del guardiamarina gli morì in
gola. Un attimo più tardi si liberò la mano e si rimise a sedere, ammutolito.
Dall’altra estremità del tavolo, qualcuno emise un lungo e basso fischio di
stupore. La folla si mise a vociare tutta insieme.
“... mai visto in vita mia...”
“... non ci credo...”
“... impossibile...”
“Due formazioni dello Sciocco nella stessa mano?”
Il CardShark riassunse i risultati nel modo più analitico possibile. “Due
giocatori con mani di valore uguale. Il vincitore sarà deciso tramite
spareggio finale”.
Il guardiamarina non reagì con la stessa calma. “Stupida feccia
ambulante!”, sbraitò, la voce strozzata dalla rabbia. “Adesso nessuno
vincerà il piatto!” Gli occhi gli uscirono dalle orbite; una vena prese a
pulsargli sulla fronte. Uno dei suoi compagni gli aveva posato una mano
sulla spalla, come se temesse che l’amico potesse balzare sul tavolo e
tentare di strangolare il minatore che aveva di fronte.
Su una cosa aveva ragione: nessuno dei due avrebbe ottenuto il piatto
complessivo con quella mano. Nello spareggio finale, ogni giocatore
riceveva un’altra carta e il valore delle mani veniva ricalcolato. Chi aveva la
migliore vinceva... ma non avrebbe avuto il piatto complessivo a meno di
non ottenere un ventitré esatto. Tuttavia, sembrava impossibile: non c’erano
altri Sciocchi da distribuire per mantenere la formazione e nessuna carta
valeva più dei quindici punti dell’Asso.
Non che a Des importasse. Gli bastava aver infranto la volontà
dell’avversario, averne calpestato le speranze, sottraendogli la vittoria.
Percepiva l’odio del guardiamarina: era come una cosa viva, un’entità da
cui poteva trarre la forza con cui alimentare l’inferno che gli bruciava
dentro. Ma Des non mostrava nessuna emozione. L’odio che lo consumava
era una riserva privata, un potere che ardeva con tale ferocia da dargli
l’impressione che avrebbe potuto distruggere il mondo, se lo avesse lasciato
libero.
Il mazziere mise sul tavolo due carte a faccia in su, per farle vedere a
tutti. Due nove. Prima che chiunque avesse tempo di reagire il droide
ricalcolò la mano, determinò che i due giocatori erano ancora in parità e
diede a ciascuno un’altra carta. Il guardiamarina ebbe un otto, ma Des un
altro nove. Sciocco, due, tre, nove, nove: ventitré!
Allungò lentamente una mano e picchiettò il dito sulle carte, sussurrando
una sola parola: “Sabacc”.
Il soldato impazzì completamente. Balzò in piedi, afferrò il lato inferiore
del tavolo con le mani e spinse con forza verso l’alto. Solo il peso del
tavolo e gli stabilizzatori integrati evitarono che si rovesciasse, ma
comunque dondolò e ricadde a terra con uno schianto assordante. Tutti i
drink che vi erano posati si rovesciarono; birra e lum inondarono le carte
elettroniche, facendole sfrigolare e vomitare scintille.
“Signore, la prego di non toccare il tavolo”, lo implorò il CardShark con
voce patetica.
“Sta’ zitto, ammasso di rottami!” Il guardiamarina afferrò un boccale
rovesciato dal tavolo e lo scagliò contro il droide. Andò a segno con un
tonfo metallico e il droide incespicò cadendo all’indietro.
Puntò un dito contro Des. “Hai barato! Nessuno fa sabacc in uno
spareggio finale, se non è un baro!”
Des non disse nulla, non si alzò neppure. Ma i suoi muscoli erano pronti
a scattare, in caso il soldato si muovesse contro di lui.
Questi si voltò di nuovo verso il droide, che stava rialzandosi sulle gambe
malferme. “Tu eri d’accordo con lui!” Gli gettò contro un altro boccale, di
nuovo andando a segno e facendolo cadere una seconda volta. Due degli
altri militari cercarono di trattenerlo, ma lui riuscì a liberarsi dalla presa. Si
girò, agitando le braccia verso la gente. “Eravate tutti d’accordo! Schifosi
servi dei Sith! Voi odiate la Repubblica, ci odiate! Lo sappiamo. Lo
sappiamo benissimo!”
I minatori si fecero avanti, brontolando di rabbia. Gli insulti del
guardiamarina non erano poi così lontani dalla realtà: su Apatros c’erano
molti sentimenti negativi verso la Repubblica, e se non fosse stato attento a
ciò che diceva qualcuno gli avrebbe mostrato quanto fossero profondi.
“Noi diamo la vita per proteggervi, ma a voi non importa niente di
niente! Se potete umiliarci, lo fate!”
Gli amici lo avevano afferrato di nuovo, cercando di spingerlo fuori dalla
porta; a quel punto, però, non avevano modo di attraversare la folla. Erano
terrorizzati, a giudicare dalle espressioni. E ne avevano ben donde, pensò
Des. Nessuno di loro portava armi: avevano lasciato i blaster sulla loro
nave. In quel momento erano intrappolati al centro di un assembramento
ostile di minatori muscolosi che avevano bevuto per tutta la notte, e il loro
amico non la finiva di sbraitare.
“Dovreste mettervi in ginocchio e ringraziarci ogni singola volta che
atterriamo su questa palla di sterco di bantha, ma invece siete troppo stupidi
per sapere quanto siete fortunati ad averci dalla vostra parte! Siete solo un
branco di sporchi, ingrati...”
Una bottiglia di lum scagliata da mano anonima lo colpì con violenza alla
tempia, interrompendo la frase, e il giovane cadde al suolo, trascinando con
sé i suoi compagni. Des rimase immobile mentre una massa di minatori
adirati avanzava lentamente verso di loro.
Un colpo di blaster fece immobilizzare tutti. Groshik si era arrampicato
sul bancone, il fucile stordente già pronto a sparare di nuovo. Tutti
sapevano, però, che il colpo successivo non sarebbe stato puntato al soffitto.
“Il locale è chiuso”, gracchiò più forte che poté col suo vocione. “Tutti
fuori dalla mia taverna!”
I minatori cominciarono a indietreggiare e i soldati si rialzarono
circospetti. Il guardiamarina barcollava, il sangue della ferita che gli colava
nell’occhio.
“Prima voi tre”, disse il Neimoidiano al guardiamarina e ai soldati che lo
sorreggevano. Sventolò la canna dell’arma in giro per il locale con fare
minaccioso. “Fate strada. Fateli uscire”.
Tutti rimasero paralizzati, tranne i militari. Non era la prima volta che
Groshik sfoderava la sua arma. Il fucile stordente BlasTech CS-33 Firespray
era uno dei migliori dispositivi non letali per il controllo della folla, ed era
in grado di neutralizzare più bersagli con un colpo solo. Più di qualche
minatore aveva provato la brutalità dell’impatto del suo sparo ad ampio
raggio prima di cadere svenuto. Des poteva addurre per esperienza
personale che non si trattava di un dolore facile da dimenticare.
Dopo che il gruppo della Repubblica si fu dileguato nella notte, il resto
della compagnia prese a muoversi lentamente verso la porta. Des si accodò
alla folla, ma passando accanto al bancone Groshik gli puntò contro il
blaster.
“Tu no. Resta qui”.
Des non si mosse di un millimetro finché tutti gli altri non se ne furono
andati. Non aveva paura; non credeva che Groshik avrebbe sparato davvero.
Non vedeva comunque che vantaggio vi fosse a dargliene il motivo.
Quando finalmente l’ultimo avventore se ne fu andato chiudendo la
porta, Groshik abbassò l’arma. Discese goffamente dal bancone e posò il
fucile sul tavolo, poi si voltò verso Des.
“Pensavo fosse più sicuro tenerti qui per un po’”, spiegò. “Quei soldati
fumavano di rabbia. Forse ti stanno aspettando sulla via di casa”.
Des sorrise. “Non avevo capito che eri arrabbiato con me”, disse.
Groshik sbuffò. “Oh, io sono arrabbiato. Motivo per cui mi aiuterai a
ripulire questo pasticcio”.
Des sospirò e scosse la testa con finta esasperazione. “Hai visto cos’è
successo, Groshik. Ero soltanto un osservatore innocente”.
Groshik non era dell’umore per ascoltarlo. “Zitto e tira su quelle sedie”.
Con l’aiuto del CardShark (almeno serviva a qualcosa, a parte dare le
carte, pensò Des), completarono le pulizie in poco più di un’ora. Quando
ebbero finito, il droide uscì ondeggiando sulle gambe malferme, diretto alle
strutture di manutenzione per essere riparato. Prima che se ne andasse Des
si accertò che le sue vincite a sabacc gli venissero accreditate sul conto.
Una volta rimasti soli, Groshik invitò Des ad avvicinarsi al bancone,
prese un paio di bicchieri e una bottiglia dalla mensola.
“Brandy cortyg”, disse, versando mezzo bicchiere ciascuno. “Viene dritto
da Kashyyyk, ma non è la roba forte che bevono gli Wookiee. È più leggero
e amabile. Più blando”.
Des bevve un sorso e quasi si strozzò col liquido infuocato, che gli lasciò
una scia rovente scendendo per la gola. “Questo sarebbe blando? Non
voglio proprio sapere cosa bevano gli Wookiee!”
Groshik si strinse nelle spalle. “Che ti aspettavi? Sono Wookiee”.
Col secondo sorso, Des fece più attenzione. Lasciò che gli scorresse
piano sulla lingua, assaporandone la ricchezza. “È ottimo, Groshik. E
scommetto anche costoso. Quale sarebbe l’occasione speciale?”
“È stata una giornataccia per te. Pensavo ne avessi bisogno”.
Des vuotò il bicchiere. Groshik glielo riempì per metà, poi tappò la
bottiglia e la rimise sulla mensola.
“Sono preoccupato per te”, disse infine, rauco. “Preoccupato per quel che
è successo con Gerd”.
“Non mi ha dato molta scelta”.
Il Neimoidiano annuì. “Lo so, lo so. Però... gli hai staccato il pollice a
morsi. E stanotte hai quasi provocato una rivolta nel mio locale”.
“Ehi, io volevo solo giocare a carte”, protestò Des. “Non è colpa mia se
le cose sono sfuggite di mano”.
“Forse. O forse no. Ti ho visto, stanotte. Lo stavi spronando, lo
manipolavi come fai con tutti quelli che ti si siedono davanti per sfidarti. Li
rigiri come guanti, li fai ballare come marionette. Ma stavolta non hai mai
mollato la presa. Hai continuato a spingere, anche quando eri in vantaggio.
Tu volevi che esplodesse a quel modo”.
“Stai dicendo che avrei progettato tutto?” Des rise. “Andiamo, Groshik.
Sono state le carte a farlo esplodere. Lo sai che non stavo barando... Non è
possibile, semplicemente. Come avrei potuto controllare le carte che
uscivano?”
“Era qualcosa di più delle carte, Des”, disse Groshik, abbassando il tono
di voce al punto che Des dovette sporgersi verso di lui per sentire. “Eri
arrabbiato. Più di quanto ti abbia visto esserlo in passato. Riuscivo a
sentirlo fin dall’altra parte del locale, come qualcosa nell’aria. Lo
sentivamo tutti.
“Des, la gente è diventata cattiva in un attimo. Era come se si nutrissero
della tua ira e del tuo odio. Proiettavi ondate di emozione, una tempesta di
rabbia e furia. Tutti gli altri ne sono stati come risucchiati: la folla, il
soldato... tutti, persino io. Sono riuscito a puntare il blaster verso il soffitto,
ma c’è mancato poco. Ogni singolo istinto che avevo in corpo mi diceva di
sparare sulla folla. Li volevo abbattere tutti, farli contorcere dal dolore”.
Des non riusciva a credere alle sue orecchie. “Ma sentiti, Groshik. È
pazzesco. Lo sai che non lo farei, che non potrei mai farlo. Nessuno
potrebbe”.
Groshik sollevò una mano lunga e sottile e diede una pacca sulla spalla a
Des. “So che non lo faresti mai apposta, Des. E so che suona pazzesco. Ma
stanotte avevi qualcosa di diverso. Ti sei arreso alle tue emozioni e questo
ha scatenato qualcosa di... di strano. E pericoloso”.
Groshik inclinò la testa all’indietro e finì le ultime gocce di cortyg,
mandandolo giù con un brivido. “Fai attenzione, Des. Per favore. Ho un
brutto presentimento”.
“Attento, Groshik”, rispose Des, ridendo di nuovo. “I Neimoidiani non
sono noti per fare affidamento sui presentimenti. È dannoso per gli affari”.
Groshik lo squadrò con attenzione per un attimo, poi annuì stancamente.
“È vero. Forse sono solo stanco. Dovrei dormire un po’, e anche tu”.
Si strinsero la mano e Des uscì dalla taverna.
CAPITOLO 5

Le strade di Apatros erano buie. La ORO praticava tariffe energetiche così


alte che tutti spegnevano le luci al momento di coricarsi, e quella notte la
luna non era che un minuscolo spicchio nel cielo. Non poteva neppure farsi
guidare dall’illuminazione della taverna: Groshik aveva spento le luci sulle
pareti e dentro la cupola fino alla riapertura del giorno dopo. Des si teneva
al centro della strada, tentando di non sbucciarsi gli stinchi coi rottami
nascosti sui lati immersi nel buio.
Eppure in qualche modo li vide arrivare, nonostante l’oscurità quasi
totale.
Fu una frazione di secondo prima che avvenisse: la sensazione che il
pericolo fosse in arrivo, e da dove sarebbe venuto. Tre sagome scure
balzarono verso di lui, due che gli venivano incontro, l’altra alle spalle. Si
gettò in avanti appena in tempo, avvertendo il fendente del tubo di metallo,
che avrebbe dovuto spaccargli la testa, come uno spostamento d’aria a
pochi millimetri sopra di sé. Si rialzò di scatto e sferrò un pugno, che
affondò nel viso irriconoscibile della figura più vicina. Fu ricompensato da
un agghiacciante schiocco di ossa e cartilagini.
Si abbassò di nuovo, stavolta su un lato, e il tubo che avrebbe dovuto
centrarlo dritto in mezzo agli occhi gli si abbatté invece di traverso sulla
spalla sinistra. Barcollò di lato, spinto dalla forza dell’impatto, ma al buio i
suoi avversari impiegarono qualche istante per localizzarlo e a quel punto
aveva già ripreso l’equilibrio.
In tutta quell’oscurità, riusciva a distinguere solo vaghe sagome degli
aggressori. Quello a cui aveva dato un pugno stava rialzandosi lentamente;
gli altri due erano in piedi, pronti e in allerta. Non ebbe bisogno di guardarli
in viso per sapere chi fossero: il guardiamarina e i due soldati che avevano
quasi dovuto trascinarlo fuori dal locale. Des si sentiva arrivare alle narici le
zaffate di birra corelliana che ne confermavano le identità. Dovevano aver
atteso fuori dal locale, seguendolo poi finché non avevano ritenuto di
potergli saltare addosso. Bene: significava che non erano tornati alla nave
per prendere i blaster.
Lo attaccarono di nuovo, tutti insieme. A loro vantaggio avevano il
numero e mesi di addestramento militare; Des, da parte sua, aveva la forza
fisica, la stazza e anni di scazzottate a mani nude. Al buio, però, niente di
tutto questo aveva importanza.
Des incontrò la carica a testa bassa e tutti e quattro i combattenti
ruzzolarono a terra. Pugni e calci venivano scagliati a destra e a manca
senza pensare a bersagli o strategie: era una lotta fra ciechi. Ogni colpo
andato a segno gli procurava la soddisfazione di strappare un gemito o un
grugnito agli avversari, ma quel piacere era limitato dai colpi che il suo
stesso corpo subiva.
Che i suoi occhi fossero aperti o chiusi, non avrebbe comunque visto
nulla. Reagiva soltanto d’istinto; le fitte e il dolore venivano spazzati via,
nel buio, dall’adrenalina che gli scorreva nelle vene.
Poi, all’improvviso, vide qualcosa. Qualcuno aveva sfoderato una
vibrolama. Era ancora buio pesto, come nel cuore delle miniere dopo una
frana, ma Des riusciva a vedere la lama con chiarezza come se brillasse di
una luce interna. Fece un affondo verso di lui, che afferrò il polso di chi la
impugnava torcendo l’arma e spingendola verso la massa scura da cui era
apparsa. Si levò un grido acuto, poi un gorgoglio soffocato, e tutto a un
tratto la lama ardente della sua visione si spense, segnalando che la
minaccia era sparita.
L’ammasso di corpi intrecciati al suolo si sciolse e due si liberarono per
allontanarsi. Il terzo era immobile. Un attimo dopo udì lo scatto
dell’interruttore di una luma e rimase momentaneamente accecato dal suo
fascio di luce. Gli occhi serrati, udì un rantolo.
“È morto!”, esclamò uno dei soldati. “Lo hai ucciso!”
Riparandosi gli occhi dall’illuminazione, Des abbassò lo sguardo e vide
esattamente ciò che si aspettava: il guardiamarina steso sulla schiena, con la
vibrolama conficcata a fondo nel petto.
La luma si spense e Des si preparò a un altro attacco; invece udì il suono
di passi in fuga nella notte, diretti alle piattaforme di attracco.
Des guardò il corpo a terra, progettando di prendere la lama luminosa e
usarla per guidarsi attraverso il buio. Ma in quel momento la lama non era
illuminata. Anzi, si rese conto che non lo era mai stata: non era possibile,
perché le vibrolame non erano armi a energia bensì di semplice metallo.
C’erano questioni più pressanti, tuttavia, del come avesse fatto a vedere
la vibrolama al buio. Non appena arrivati alla nave, i soldati avrebbero fatto
rapporto al comandante, che a sua volta avrebbe riferito dell’incidente alle
autorità della ORO. Avrebbero rivoltato il pianeta come un guanto per
cercarlo. Non gli piacevano le prospettive: sarebbe stata la parola di un
minatore, peraltro con dei trascorsi di risse e violenze, contro quella di due
militari della Repubblica. Nessuno avrebbe creduto che si era trattato di
autodifesa.
Ma poi era davvero così? Aveva visto la lama venire verso di lui.
Avrebbe potuto disarmare l’avversario senza ucciderlo? Scosse la testa. Non
c’era tempo per rimorsi o sensi di colpa, non in quel momento. Doveva
trovare un posto sicuro dove nascondersi.
Non poteva tornare ai dormitori: era il primo posto dove lo avrebbero
cercato. Non avrebbe mai raggiunto le miniere a piedi prima dell’alba, e
una volta sorto il sole non avrebbe potuto nascondersi da nessuna parte
nelle lande aperte e desolate. C’era una sola scelta, un’unica speranza. Alla
fine sarebbero andati a cercarlo anche lì, ma non aveva altro posto dove
andare.
Groshik doveva essere ancora sveglio, perché aprì la porta solo pochi
secondi dopo che Des aveva cominciato a bussare. Il Neimoidiano lanciò
uno sguardo al sangue sulle mani e sulla camicia del giovane e lo agguantò
per la manica.
“Entra dentro!”, gracchiò, tirando Des oltre la soglia e richiudendosi la
porta alle spalle. “Sei ferito?”
Des scosse la testa. “Non credo. Il sangue non è mio”.
Il Neimoidiano fece un passo indietro e lo squadrò da ogni parte. “È
molto. Troppo. L’odore è umano”.
Al silenzio di Des, Groshik azzardò un’ipotesi. “È di Gerd?”
Altro cenno di diniego. “Il guardiamarina”, disse Des.
Groshik chinò il capo e imprecò sottovoce. “Chi altri lo sa? Ti stanno
cercando?”
“Non ancora, ma presto lo faranno”. Poi aggiunse, come per tentare di
giustificare le sue azioni: “Erano in tre, Groshik. Ne è morto solo uno”.
Il vecchio amico annuì comprensivo. “Sono sicuro che se l’è cercata,
proprio come Gerd, ma i fatti non cambiano. Un militare della Repubblica è
morto e daranno la colpa a te”.
Il proprietario del locale portò Des al bancone e prese la bottiglia di
brandy cortyg. Senza dire una parola versò un drink per ciascuno. E stavolta
non si fermò a metà bicchiere.
“Mi spiace di essere venuto qui”, disse Des, desiderando disperatamente
di spezzare quel silenzio sgradevole. “Non volevo coinvolgerti”.
“Essere coinvolto non mi disturba”, lo rassicurò Groshik dandogli una
pacca di conforto sul braccio. “Sto solo cercando di pensare a un modo per
uscire da questo pasticcio. Fammi riflettere”.
Svuotarono i bicchieri. Des riuscì a stento a non farsi prendere dal
panico; si aspettava che una decina di uomini in armature della ORO
avrebbero sfondato la porta della taverna da un secondo all’altro. Dopo
quelle che gli parvero ore, ma che probabilmente furono solo un minuto o
due, Groshik iniziò a parlare. Aveva un tono sommesso, e Des non fu certo
se il Neimoidiano si rivolgesse a lui o stesse semplicemente pensando ad
alta voce.
“Non puoi restare qui. La ORO non può permettersi di perdere i contratti
con la Repubblica. Rivolteranno tutta la colonia come un guanto per
trovarti. Devi lasciare il pianeta”. Fece una pausa. “Ma entro domattina la
tua foto sarà su tutti i videoschermi nello spazio della Repubblica. Alterare
il tuo aspetto non servirà a nulla. Tendi a spiccare sulla folla, anche con una
parrucca o delle protesi facciali. Questo significa che bisogna farti uscire
dallo spazio della Repubblica. E questo significa...” Lasciò in sospeso la
frase.
Des restò in attesa.
“Le cose che hai detto stanotte”, azzardò Groshik, “sui Sith e la
Repubblica. Le pensavi veramente? Dicevi sul serio?”
“Non lo so. Credo di sì”.
Vi fu un’altra lunga pausa, come se l’altro stesse concentrandosi. “Cosa
ne diresti di unirti ai Sith?”, sbottò tutto a un tratto.
Des fu colto totalmente alla sprovvista. “Che cosa?”
“Conosco delle... persone. Posso farti lasciare il pianeta, stanotte. Ma
queste persone non cercano passeggeri: i Sith hanno bisogno di soldati.
Sono sempre alla ricerca di nuove reclute, proprio come gli ufficiali della
Repubblica di oggi”.
Des scosse la testa. “Non ci credo. Lavori per i Sith? Mi hai sempre detto
di non prendere mai le parti di nessuno!”
“Non lavoro per i Sith”, ribatté Groshik brusco. “Conosco solo gente che
lo fa. Conosco anche qualcuno che lavora per la Repubblica, ma in questo
caso non sarebbe di grande aiuto. Quindi devo saperlo, Des. Vuoi farlo?”
“Non ho molte alternative”, borbottò Des in risposta.
“Può darsi. O può darsi di no. Se resti qui, le autorità della ORO ti
troveranno di sicuro. Non è stato un omicidio a sangue freddo;
probabilmente il giudice non ti lascerebbe addurre il movente
dell’autodifesa, ma dovrà ammettere l’esistenza di attenuanti. Sconterai
cinque o sei anni di pena in una colonia di detenzione e poi sarai libero”.
“Oppure mi unisco ai Sith”.
Groshik annuì. “Oppure ti unisci ai Sith. Ma se devo aiutarti a farlo,
voglio essere certo che sappia cosa ti aspetta”.
Des rifletté, ma non a lungo. “Ho passato tutta la vita a tentare di
andarmene da questo sasso maledetto”, disse lentamente. “Se finisco su un
pianeta prigione, finirò soltanto su un altro mondo desolato come questo.
Non c’è molta differenza.
“Se mi unisco ai Sith, almeno sarò fuori dalle grinfie della ORO. E poi
hai sentito cos’ha detto quel comandante a riguardo. I Sith rispettano chi è
forte. Penso che riuscirò a cavarmela”.
“Non ho dubbi”, ammise Groshik. “Ma non screditare tutte le altre cose
che ha detto. Aveva ragione sulla Confraternita dell’Oscurità: sanno essere
crudeli e spietati, e riescono a tirar fuori il peggio da alcune persone. Non
voglio che tu cada in questa trappola”.
“Prima mi dici di unirmi ai Sith”, disse Des, “e adesso mi avverti di non
farlo. Vuoi deciderti?”
Il Neimoidiano sospirò, un suono lungo e gorgogliante. “Hai ragione,
Des. Ormai è deciso. Il fato avverso e la sfortuna hanno tramato contro di
te. Non è come a sabacc. Non si può lasciare quando si ha una brutta mano.
Nella vita, si devono giocare le carte che ci toccano”. Si voltò, diretto alle
scalette in fondo al locale. “Forza, vieni. Fra poche ore, dopo aver cercato
nelle unità abitative della colonia, inizieranno con lo spazioporto.
Dobbiamo sbrigarci se vuoi riuscire a nasconderti in uno degli incrociatori
prima che lo facciano”.
Des allungò una mano sopra il bancone e afferrò la spalla di Groshik.
Quello si voltò verso di lui e Des gli strinse l’avambraccio lungo e
affusolato.
“Grazie, vecchio amico. Non lo dimenticherò”.
“So che non succederà, Des”. Erano parole gentili, ma nella sua voce
roca c’era un’inconfondibile traccia di tristezza.
Des lasciò la presa, provando imbarazzo, vergogna, paura, gratitudine ed
esaltazione tutti in una volta. Sentiva il bisogno di dire altro, quindi
aggiunse: “Mi sdebiterò in qualche modo. Quando ci rivedremo...”
“La tua vita qui è finita”, lo interruppe Groshik. “Io e te non ci rivedremo
più”.
Il Neimoidiano scosse la testa. “Non so cosa ti aspetta, ma ho la
sensazione che non sarà facile. Non contare sull’aiuto degli altri. In fin dei
conti, siamo tutti soli. Sopravvive chi sa badare a se stesso”.
Detto questo si voltò e si diresse all’uscita sul retro, i passi svelti che
risuonavano sul pavimento. Des esitò un istante, le parole di Groshik che gli
echeggiavano ancora nella mente, poi si affrettò a seguirlo.

Chiuso nella stiva della nave, Des tentò di mettersi comodo. Era nascosto
nel piccolo scomparto di contrabbando, che a un uomo della sua taglia
andava stretto, da quasi un’ora.
Venti minuti prima aveva sentito una pattuglia della ORO arrivare per
un’ispezione della nave. Avevano condotto una ricerca sommaria ma poi,
non avendo trovato il fuggiasco che cercavano, se n’erano andati. Qualche
secondo più tardi il capitano, un pilota rodiano, aveva picchiato forte sul
pannello dietro cui era nascosto Des.
“Rimani lì finché i motori non partono”, gli aveva indicato in un Basic
accettabile. “Quando partiamo, esci. Non prima”.
Quando era salito a bordo, Des non lo aveva riconosciuto: il suo aspetto
era lo stesso di qualunque altro rodiano avesse mai visto. L’ennesimo
capitano di un trasporto indipendente che prendeva un carico di cortosite
nella speranza di venderlo su qualche altro pianeta e ottenere profitti
sufficienti a volare ancora qualche mese.
Probabilmente, se la ORO avesse offerto una ricompensa per la sua
cattura, il capitano lo avrebbe venduto a loro. Significava che i dirigenti non
gli avevano messo una taglia sulla testa: si preoccupavano più di dover
pagare che non di permettere che un fuggiasco evadesse la giustizia della
Repubblica. Non importava che lo trovassero, finché potevano dimostrare
alla Repubblica di averci provato. Groshik doveva averlo capito quando si
erano accordati per nascondere Des a bordo.
Quando i motori si accesero, il loro gemito stridulo fece aggrappare Des
alle pareti di quello spazio angusto. Qualche secondo dopo, il gemito si
trasformò in un ruggito assordante e la nave sobbalzò sotto i suoi piedi. I
repulsori si accesero, bilanciando il vascello, e Des avvertì la pressione
della gravità sulla nave che si alzava in cielo.
Diede un calcio al pannello, aprendolo, e uscì dal nascondiglio. Capitano
ed equipaggio non erano in vista; dovevano essere tutti ai propri posti per il
decollo.
Des non sapeva dove fossero diretti. Sapeva soltanto che al termine di
quel viaggio c’era una donna umana che lo aspettava per arruolarlo
nell’esercito Sith. Il pensiero lo colmò di un miscuglio di emozioni, come
aveva fatto in precedenza, e su tutte dominavano paura ed esaltazione.
La nave diede un leggero strattone quando uscì dall’atmosfera e iniziò ad
accelerare per allontanarsi dal minuscolo pianeta minerario. Qualche
secondo più tardi, Des avvertì una sensazione inconfondibile, benché non
gli fosse familiare: avevano eseguito il salto nell’iperspazio.
Il suo spirito si riempì di un improvviso senso di sollievo. Era libero. Per
la prima volta in vita sua non era più nel pugno della ORO e delle sue
miniere di cortosite. Groshik aveva detto che il fato avverso e la sfortuna
tramavano contro di lui, ma in quel momento Des non ne era più così
sicuro. Non era andata proprio come progettava, ed era un fuggiasco col
sangue di un soldato della Repubblica sulle mani, ma era finalmente fuggito
da Apatros.
Forse le carte che gli erano toccate non erano poi così brutte. Alla fine
aveva ottenuto proprio ciò che voleva di più. E, in fin dei conti, non era
forse quella l’unica cosa che contava?
CAPITOLO 6

Il sole giallo di Phaseera era a picco, e inondava coi suoi raggi la vallata
rigogliosa e l’accampamento nella giungla dove attendevano Des e gli altri
suoi compagni Sith. Sotto il riparo di un albero di cydera, Des passava il
tempo effettuando un rapido controllo dei sistemi sul suo fucile blaster TC-
22. La cella energetica era a piena carica, per un valore di cinquanta colpi.
Anche la cella energetica di riserva risultò a posto. La mira era solo
leggermente disallineata, un problema comune a tutti i modelli TC.
Avevano buone potenza e portata, ma col tempo i mirini potevano perdere
la calibrazione. Una rapida correzione lo riportò in linea.
Le sue mani si mossero con la rapidità e la sicurezza che provenivano
dalle migliaia di esercitazioni. Negli ultimi dodici mesi aveva eseguito
quella routine così tante volte che non aveva più bisogno di pensarci. Un
controllo delle armi prima della battaglia non era pratica standard delle
milizie Sith, bensì un’abitudine che aveva preso e che gli aveva salvato la
vita in più di un’occasione. L’esercito Sith cresceva così in fretta che
l’offerta non riusciva a seguire la domanda. La strumentazione migliore era
riservata a ufficiali e veterani, mentre le reclute erano costrette ad
accontentarsi di ciò che era disponibile.
Essendo diventato sergente, avrebbe potuto richiedere un modello
migliore, ma il TC-22 era la prima arma con cui aveva imparato a sparare
ed era diventato piuttosto abile a usarla. Des supponeva che una
manutenzione di routine fosse meglio che imparare a padroneggiare le
sottili sfumature di qualche altra arma.
Tuttavia, la sua pistola blaster era il top della gamma. Non a tutti i soldati
Sith venivano date pistole: un fucile a medio raggio e semi-ripetizione era
una dotazione che doveva bastare a quasi tutti i soldati. Era probabile che
morissero ben prima di avvicinarsi al nemico abbastanza da poter usare una
pistola. Ma nell’anno appena passato, Des aveva dimostrato una decina di
volte di non essere semplice carne da torrette laser. I soldati tanto abili da
sopravvivere alla carica iniziale e trovarsi a stretto contatto con le file
nemiche avevano bisogno di un’arma più adatta al combattimento
ravvicinato.
Per Des, l’arma in questione era la GSI-21D: la miglior pistola
disintegratrice fabbricata dalla Galactic Solutions Industries. La portata
ottimale era di soli venti metri, ma entro quella distanza era in grado di
disintegrare armature, carne e metallo di droide con uguale efficacia. La
21D era illegale in gran parte dei settori galattici controllati dalla
Repubblica, il che ne dimostrava l’incredibile potenziale distruttivo. La
cella energetica aveva carica sufficiente solo per una decina di colpi, ma
quando arrivava a guardare negli occhi un avversario raramente ne serviva
più di uno.
Infilò la pistola nella fondina che aveva agganciata alla cintura, controllò
la vibrolama nello stivale e rivolse l’attenzione alle sue truppe. Gli uomini e
le donne della sua unità, tutto intorno a lui, stavano seguendo il suo esempio
ed effettuavano simili ispezioni del loro equipaggiamento in attesa degli
ordini. Non poté fare a meno di sorridere: li aveva addestrati bene.
Des si era unito all’esercito Sith per sfuggire sia al carcere che ad
Apatros stesso, ma non ci aveva messo molto per affezionarsi veramente
alla vita militare. Tra gli uomini e le donne che combattevano al suo fianco
scorreva un cameratismo che si era rapidamente esteso fino a includere
anche lui. Non si era mai sentito legato in alcun modo ai minatori su
Apatros e di fatto si era sempre considerato una sorta di solitario. Ma
nell’esercito aveva trovato il suo vero scopo. Era quello il suo posto, con i
soldati. I suoi soldati.
Il soldato anziano Adanar notò il suo sguardo e si batté leggermente il
pugno chiuso sul petto per due volte, proprio sopra il cuore. Era un gesto
conosciuto soltanto dai membri dell’unità: un segno privato che significava
lealtà e fedeltà, il simbolo del legame che li univa tutti.
Des ricambiò il gesto. Lui e Adanar si trovavano nella stessa unità sin dal
primo giorno della loro carriera militare. L’ufficiale di reclutamento li aveva
arruolati insieme e li aveva assegnati entrambi ai Camminatori del Buio,
l’unità del tenente Ulabore.
Adanar raccolse il fucile e saltellò fin dov’era seduto l’amico. “Credi che
tra poco ci servirà quel tuo disintegratore, sergente?”
“Essere preparati non fa mai male”, rispose Des, sfoderando la pistola e
facendola roteare con un movimento aggraziato prima di rimetterla nella
fondina.
“Vorrei tanto che ci avessero già dato il via”, borbottò Adanar. “Sono due
giorni ormai che siamo in posizione. Quanto aspetteranno ancora?”
Des si strinse nelle spalle. “Non possiamo partire finché non saranno
pronti a entrare con le forze principali. Se ci muoviamo troppo presto, il
piano salta”.
Nel corso dell’ultimo anno, i Camminatori del Buio si erano guadagnati
una certa reputazione. Avevano partecipato a un fiume di battaglie su
cinque o sei pianeti e avevano assaporato il gusto della vittoria ben più del
solito. Partiti come una delle migliaia di unità sacrificabili al fronte, erano
arrivati a essere soldati di élite riservati alle missioni critiche. In quel
momento, erano la chiave per la cattura del mondo industriale di Phaseera...
sempre se qualcuno avesse dato l’ordine di partire. Fino ad allora erano
bloccati in quell’accampamento nella giungla, a un’ora di marcia
dall’obiettivo. Si trovavano lì solo da due giorni, ma già cominciavano a
risentirne.
Adanar cominciò a camminare avanti e indietro. Des sedeva tranquillo
all’ombra e lo osservava.
“Non stancarti”, disse dopo un minuto. “Non andremo da nessuna parte
finché non sarà notte, al più presto. Tanto vale che ti metta comodo”.
Adanar smise di camminare, ma non si sedette. “Il tenente dice che sarà
facile come una consegna di spezia”, disse, tentando di suonare disinvolto.
“Pensi che abbia ragione?”
Il tenente Ulabore aveva ricevuto molti encomi per il successo delle sue
truppe, ma nell’unità tutti sapevano chi fosse realmente al comando quando
cominciavano a volare le scariche dei blaster.
Quel fatto era diventato penosamente evidente quasi un anno prima su
Kashyyyk, dove Des e Adanar avevano visto la loro prima battaglia. La
Confraternita dell’Oscurità aveva tentato di trovare un appiglio nell’Orlo
Intermedio invadendo il sistema, inviando un’ondata di soldati dopo l’altra
per catturare il mondo natale degli Wookiee, ricco di risorse naturali. Ma si
trattava di una roccaforte della Repubblica e non si sarebbe ritirata, per
quanto in schiacciante inferiorità numerica fosse.
Al primo atterraggio della flotta dei Sith, i nemici si erano limitati a
scomparire nella foresta. L’invasione si era trasformata in una guerra
d’attrito, una lunghissima campagna che si trascinava tra i rami dei wroshyr,
a grande altitudine sopra la superficie. I soldati Sith non erano abituati a
combattere sulle cime degli alberi, e il denso fogliame e i rampicanti kshyy
della volta arborea offrivano un riparo perfetto ai soldati della Repubblica e
alle loro guide wookiee per tendere agguati e lanciare attacchi di guerriglia.
Migliaia e migliaia di invasori erano stati spazzati via, quasi sempre
morendo senza neppure aver visto il nemico che aveva esploso il colpo
fatale... ma i Maestri Sith continuavano semplicemente a inviare nuove
truppe.
I Camminatori del Buio facevano parte della seconda ondata dei rinforzi.
Alla prima battaglia erano rimasti separati dalle linee principali, staccati dal
resto dell’esercito. Il tenente Ulabore, solo e circondato dai nemici, era
caduto in preda al panico. Senza ordini diretti non aveva idea di cosa fare
per tenere in vita la propria unità; per fortuna c’era Des, che era intervenuto
e aveva salvato loro la pelle.
Per cominciare, percepiva il nemico anche quando non riusciva a
vederlo. Non riusciva a spiegarlo, ma aveva smesso di provarci molto
tempo prima. Ormai tentava semplicemente di trarne il massimo vantaggio.
Guidati da Des, i Camminatori del Buio erano riusciti a evitare trappole e
agguati nel lento viaggio di ritorno verso le forze principali. C’erano voluti
tre giorni e tre notti, innumerevoli battaglie brevi ma letali e una marcia
apparentemente infinita attraverso il territorio nemico, ma ce l’avevano
fatta. Nonostante i tanti combattimenti, l’unità aveva perso solo una
manciata di soldati e quelli che erano riusciti a tornare sapevano di dover la
vita a Des.
La storia dei Camminatori era stata di sprone per il resto dell’esercito
Sith, sollevando un morale che era sceso pericolosamente in basso. Se una
singola unità era riuscita a sopravvivere da sola per tre giorni, riflettevano
tutti, allora di sicuro un migliaio di unità poteva vincere la guerra. C’erano
volute quasi duemila unità, ma alla fine Kashyyyk era caduto.
In quanto capo degli eroici Camminatori del Buio, il tenente Ulabore
aveva ricevuto una lode speciale. Non si era mai preso il disturbo di
menzionare che il vero merito fosse di Des; tuttavia era stato abbastanza
sveglio da promuoverlo a sergente. E sapeva bene di doversi togliere dai
piedi quando la situazione cominciava a scottare.
“Allora?”, ripeté Adanar. “Che si dice, Des? Quando ci daranno il via,
sarà facile come consegnare spezia?”
“Il tenente dice soltanto ciò che pensa vogliamo sentirci dire”.
“Lo so, Des. È per questo che ne parlo con te. Voglio sapere cosa ci
aspetta davvero”.
Des rifletté per qualche istante. Erano rintanati nella giungla sull’orlo di
una stretta vallata: l’unica strada per entrare nella capitale di Phaseera, dove
l’esercito della Repubblica aveva stabilito la sua base. Su una collina vicina,
che sovrastava la vallata, si trovava un avamposto della Repubblica. Se i
Sith avessero provato a spostare delle truppe attraverso la vallata, anche di
notte, di sicuro l’avamposto li avrebbe avvistati. Avrebbero segnalato al
campo base in modo che le difese fossero pronte e pienamente operative
ben prima che il nemico anche solo li raggiungesse.
La missione dei Camminatori era semplice: eliminare l’avamposto, in
modo che il resto dell’esercito potesse lanciare un attacco a sorpresa al
campo base della Repubblica. Erano dotati di generatori d’interferenza,
strumenti di disturbo a corto raggio che potevano usare per impedire che
l’avamposto trasmettesse un segnale al campo base e li avvertisse, ma
avrebbero dovuto colpire con velocità. L’avamposto faceva rapporto tutti i
giorni all’alba, e se i Camminatori avessero colpito troppo presto la
Repubblica si sarebbe resa conto che qualcosa non andava non vedendo
arrivare il rapporto giornaliero.
Il tempismo era cruciale. Dovevano abbatterli appena prima che la forza
principale entrasse nella zona. Sarebbero così rimaste soltanto alcune ore
per attraversare la vallata e cogliere impreparato il campo base: fattibile, ma
solo coordinando tutto alla perfezione. I Camminatori del Buio erano al loro
posto, ma il contingente principale non era ancora pronto a fare la sua
mossa... da cui, l’attesa.
“Sono preoccupato”, ammise finalmente Des. “Prendere l’avamposto non
sarà semplice. Una volta ricevuto il via, non avremo margini di errore.
Dovremo essere perfetti. Se c’è qualche sorpresa che ci aspetta, potremmo
finire nei guai”.
Adanar sputò per terra. “Lo sapevo! Hai un brutto presentimento, vero?
Sarà un’altra Hsskhor!”
Quello era stato un disastro. Dopo la caduta di Kashyyyk, i soldati della
Repubblica superstiti erano fuggiti sul pianeta attiguo di Trandosha. A
inseguirli erano state inviate trenta unità di soldati Sith, inclusi i
Camminatori. Avevano raggiunto i sopravvissuti nelle pianure deserte
all’esterno della città di Hsskhor.
Una giornata di feroci combattimenti aveva lasciato a terra molti cadaveri
da entrambe le parti, ma senza un vincitore definitivo. Durante tutta la
battaglia, Des si era sentito a disagio, anche se al tempo non era stato in
grado di dire perché. La sensazione era cresciuta al calar della notte, quando
entrambe le parti si erano ritirate ai due capi del campo di battaglia per
riorganizzarsi. I Trandoshani avevano colpito qualche ora più tardi.
Il buio totale della notte non era un problema per quella specie rettiloide,
che poteva vedere lo spettro infrarosso. Sembrava che spuntassero dal nulla,
materializzandosi dalle tenebre come se un incubo avesse preso forma.
A differenza dei Wookiee, i Trandoshani non erano allineati con nessuna
fazione della guerra civile galattica. I cacciatori di taglie e i mercenari di
Hsskhor si erano lasciati dietro una scia di distruzione tra le file sia della
Repubblica che dei Sith, senza curarsi di chi fossero i loro avversari pur di
portare con sé i trofei delle loro uccisioni.
I dettagli del massacro non erano mai stati resi noti ufficialmente. Des si
era trovato proprio in mezzo alla strage e nemmeno lui riusciva quasi a
ricostruire l’accaduto. Quell’attacco aveva colto i Camminatori, e tutte le
altre unità, completamente alla sprovvista. Al sorgere del sole era stata
abbattuta quasi la metà delle truppe Sith. Des aveva perso moltissimi amici
in quel massacro... amici che avrebbe potuto salvare se solo avesse prestato
più attenzione all’oscuro presagio provato quando aveva messo piede per la
prima volta su quel pianeta desertico e dimenticato. Aveva giurato che non
avrebbe mai più permesso che i Camminatori del Buio cadessero vittime di
un simile massacro.
Alla fine, Hsskhor aveva pagato caro quell’agguato. Da Kashyyyk erano
stati inviati rinforzi per sopraffare sia le forze della Repubblica che i
Trandoshani. I Sith avevano impiegato meno di una settimana per ottenere
la vittoria e la città, un tempo fiera, era stata saccheggiata e rasa al suolo.
Molti Trandoshani avevano rinunciato a lottare per difendere la propria
casa, offrendo invece i propri servizi ai conquistatori: erano cacciatori di
taglie e mercenari di mestiere, predatori di natura. Potevano lavorare per
chiunque, a patto che vi fosse l’occasione di uccidere ancora. Inutile dire
che i Sith li avevano accolti a braccia aperte.
“Non sarà un’altra Hsskhor”, assicurò Des al suo compagno nervoso. Era
vero, provava di nuovo un senso di disagio, ma stavolta era diverso. Stava
per succedere qualcosa di grosso, ma Des non poteva dire con certezza se
fosse buono o cattivo.
“Avanti, Des”, lo incalzò Adanar. “Va’ a parlare con Ulabore. Qualche
volta ti dà retta”.
“E cosa gli dico?”
Adanar alzò le mani, esasperato. “Non lo so! Di’ che hai un brutto
presentimento. Fagli chiamare il Quartier Generale al comunicatore e dire
di farci ritirare. Oppure di convincerli a farci andare avanti! Basta che non
ci lasci qui a marcire sotto il sole come un branco di topi giganti morti!”
Prima che Des potesse rispondere, una nuova leva, una giovane di nome
Lucia, li raggiunse e si fermò con uno scattante saluto militare. “Sergente! Il
Tenente Ulabore vuole che raduniate le truppe davanti alla sua tenda.
Parlerà fra trenta minuti”, disse con voce zelante ed eccitata.
Des rivolse un fugace sorriso all’amico. “Credo che abbiamo finalmente i
nostri ordini”.
I soldati si misero sull’attenti mentre il tenente e Des passavano in
rassegna le truppe. Durante l’ispezione, come sempre, Ulabore camminò tra
i ranghi annuendo e approvando a mezza bocca. Serviva più che altro a far
scena; era un’occasione, per Ulabore, di sentirsi come se avesse un qualche
merito per il successo di una missione.
Quando ebbero finito, il tenente marciò fino in testa alla colonna e si girò
verso le truppe. Des era in piedi, da solo, davanti all’unità, e dava la schiena
ai soldati in modo da trovarsi col viso rivolto al superiore.
“Tutti qui sono a conoscenza dell’obiettivo della nostra missione”,
attaccò Ulabore con voce insolitamente alta e acuta. Des ipotizzò che
tentasse di avere un tono autoritario, ma invece risultava solo stridulo.
“Lascerò i dettagli al nostro Sergente”, proseguì. “Il nostro incarico non è
semplice, ma sono ormai lontani i giorni in cui quello dei Camminatori era
un lavoro semplice.
“Non ho molto altro da dire: so che siete tutti impazienti quanto me di
mettere fine a quest’inutile attesa. Per questo sono lieto d’informarvi che ci
è stato dato l’ordine di partire. Colpiremo l’avamposto della Repubblica fra
un’ora!”
Dai ranghi si levarono esclamazioni di orrore e mormorii d’incredulità.
Ulabore fece un passo indietro, come se lo avessero schiaffeggiato. Era
chiaro che si aspettasse applausi e acclamazioni, e fu scosso
dall’improvvisa esplosione di rabbia e indisciplina.
“Un attimo, Camminatori!”, ringhiò Des. Si avvicinò al tenente e abbassò
la voce. “È sicuro che gli ordini fossero questi, signore? Tra un’ora? È
sicuro che non intendessero un’ora dopo il tramonto?”
“Sta dubitando di me, sergente?”, lo aggredì Ulabore senza cercare di
parlare a bassa voce.
“No, signore. Soltanto che, se partiamo fra un’ora, ci sarà ancora luce. Ci
vedranno arrivare”.
“Quando ci vedranno saremo già abbastanza vicini da disturbare le loro
trasmittenti”, controbatté il tenente. “Non saranno in grado di mandare
segnali al campo base”.
“Non è questo, signore. Si tratta delle cannoniere. Hanno tre veicoli a
repulsione, muniti di cannoni con elevata cadenza di fuoco. Se tentiamo di
prendere l’avamposto di giorno, quelle cose ci falceranno dall’alto”.
“È una missione suicida!”, gridò qualcuno dai ranghi.
Gli occhi di Ulabore divennero strette fessure e si fece paonazzo.
“L’armata principale si muoverà al crepuscolo, sergente”, disse a denti
stretti. “Vogliono attraversare la vallata al buio e colpire il campo base alle
prime luci dell’alba”.
“Allora non c’è motivo di muoverci così presto”, rispose Des,
sforzandosi di restare calmo. “Se partiranno al crepuscolo, ci vorranno
almeno tre ore prima che raggiungano la vallata dalla posizione attuale.
Così avremo tutto il tempo di abbattere l’avamposto prima che arrivino,
anche se aspettassimo fino a notte”.
“È evidente che non capisce cosa stia succedendo davvero, sergente”. Dal
tono, pareva che Ulabore discutesse con un bambino testardo. “Il
contingente principale non si muoverà finché non avremo riferito il
completamento della missione. È per questo che dobbiamo partire adesso”.
Era logico: i generali non volevano rischiare la forza principale prima di
sapere per certo che la vallata fosse sicura. Ma far agire i Camminatori alla
luce del giorno avrebbe garantito che il numero di vittime si quintuplicasse.
“Dovrà ricontattare il Quartier Generale e spiegare la situazione”, ribatté
Des. “Non possiamo affrontare le cannoniere. Dobbiamo aspettare che
atterrino per la notte. Deve fargli capire cosa ci troviamo contro”.
Il tenente si comportò come se non lo avesse neppure ascoltato. “I
generali danno gli ordini a me e io li do a voi”, lo aggredì. “Non funziona al
contrario! L’esercito si muoverà al crepuscolo, e gli ordini non cambieranno
in base alle sue opinioni, sergente!”
“Non dovranno cambiare i piani”, insistette Des. “Se partiamo non
appena fa buio, quando raggiungeranno la valle avremo comunque
abbattuto quell’avamposto. Ma mandarci adesso è...”
“Basta!”, scattò il tenente. “La smetta di ragliare come un bantha fuori
dal branco! Questi sono gli ordini, li esegua! Oppure vuol vedere cosa
succede ai soldati che sfidano gli ufficiali superiori?”
All’improvviso, a Des fu chiaro cosa stesse realmente accadendo.
Ulabore sapeva che quell’ordine era uno sbaglio, ma era troppo spaventato
per fare qualcosa. Doveva essere giunto direttamente da uno dei Signori
Oscuri. Ulabore avrebbe preferito condurre le sue truppe al macello
piuttosto che fronteggiare l’ira di un Maestro Sith, ma Des non aveva
intenzione di lasciargli condurre i Camminatori alla rovina. Non sarebbe
diventata una seconda Hsskhor. Esitò solo un attimo prima di colpire il suo
tenente al mento con un pugno, mandandolo sul terreno.
Mentre Ulabore si accasciava al suolo, sul resto dei soldati cadde un
silenzio scioccato. Con rapidità, Des tolse le armi all’ufficiale svenuto, poi
si girò e indicò un paio delle ultime reclute.
“Voi due tenete d’occhio il tenente. Assicuratevi che stia comodo se si
sveglia, ma non fatelo avvicinare al comunicatore”.
All’ufficiale alle comunicazioni disse: “Invia un messaggio al Quartier
Generale poco prima del crepuscolo, con cui li informi che la nostra
missione è completa, e che quindi possono iniziare a portare il contingente
principale nella vallata. Questo ci darà due ore per raggiungere l’obiettivo
prima del loro arrivo”.
Voltandosi verso il resto delle truppe, fece una pausa, per far penetrare
meglio la gravità delle sue parole successive. “Ho appena compiuto
un’insubordinazione”, disse con lentezza. “C’è la possibilità che, quando
tutto questo sarà finito, chiunque mi seguirà d’ora in poi dovrà affrontare
una corte marziale. Se qualcuno di voi pensasse di non poter seguire i miei
ordini dopo ciò che ho fatto oggi, parli adesso e consegnerò il comando al
soldato anziano Adanar per il resto della missione”.
Fissò i soldati che aveva davanti. Per un attimo nessuno parlò; poi, come
un sol uomo, tutti alzarono il pugno e si batterono leggermente il petto due
volte, proprio sul cuore.
Sopraffatto dall’orgoglio, Des dovette deglutire forte prima di poter dare
l’ordine finale alle truppe... le sue truppe. “Rompete le righe, Camminatori
del Buio!”
I ranghi si dispersero formando gruppi di due o tre persone, i soldati che
si sussurravano piano l’un l’altro. Adanar si staccò dagli altri e si avvicinò a
Des.
“Ulabore se la legherà al dito”, disse tranquillo. “Cosa farai con lui?”
“Quando avremo preso l’avamposto, vorranno appuntare una medaglia al
petto del nostro ufficiale comandante”, rispose Des. “Scommetto che
preferirà stare zitto e accettarla piuttosto che far sapere a qualcuno cos’è
successo realmente”.
Adanar grugnì. “Suppongo avessi già previsto tutto”.
“Non proprio”, ammise Des. “Non sono ancora certo di come
elimineremo l’avamposto”.
CAPITOLO 7

Il bersaglio era situato in una radura su un pianoro che sovrastava la valle. I


Camminatori del Buio avevano attraversato in silenzio la giungla, col
favore della notte, fino a circondarlo. Des aveva suddiviso l’unità in quattro
squadre, facendo avvicinare ciascuna da un lato diverso. Ogni squadra
portava con sé un generatore d’interferenza.
Avevano installato e attivato i generatori una volta giunti a mezzo
chilometro dalla base, disturbando ogni trasmissione entro il perimetro. Le
squadre erano avanzate fino ai bordi della radura, poi si erano fermate, in
attesa che lui desse il segnale di muoversi: il più affidabile, in mancanza di
comunicazioni fra le squadre, dato che i generatori disturbavano anche i
loro strumenti, era lo sparo di un blaster.
Osservando i tre veicoli a repulsione dall’altro lato della radura, Des
avvertì una sensazione familiare alla bocca dello stomaco. Quando
andavano in battaglia, tutti i soldati provavano la stessa cosa, che lo
ammettessero o meno: paura. La paura del fallimento, di morire, di veder
morire gli amici o di restare feriti e vivere da storpi o mutilati il resto dei
loro giorni. La paura c’era sempre, e ti divorava se solo glielo permettevi.
Des sapeva come volgere la paura a proprio vantaggio: bisognava
prendere ciò che rendeva deboli e trasformarlo in qualcosa che rafforzasse.
Trasformare, cioè, la paura in rabbia e odio: del nemico, della Repubblica e
dei Jedi. L’odio gli dava forza, e la forza lo conduceva alla vittoria.
Per Des era facile mettere in atto la trasformazione una volta iniziato il
combattimento. Grazie ai maltrattamenti del padre, era dall’infanzia che
mutava la paura in odio. Forse era un soldato tanto abile per questo. E forse
era per questo che gli altri lo consideravano un capo.
Anche in quel momento attendevano il suo segnale, che fosse lui a
sparare il primo colpo. Sarebbero partiti alla carica non appena lo avesse
fatto. I Camminatori erano quasi la metà degli avversari; avevano bisogno
del fattore sorpresa per pareggiare i conti. Ma quelle cannoniere erano un
problema che Des non aveva previsto.
La radura era circondata da vivide luci che illuminavano ogni cosa entro
un raggio di cento metri intorno all’avamposto stesso. E nonostante i mezzi
a repulsione fossero a terra, sul pianale dietro ogni veicolo c’era un soldato
che operava le torrette. Le barriere corazzate del pianale arrivavano alla
cintola degli artiglieri in modo da offrire un riparo parziale, e la torretta
stessa era dotata di pesanti scudi per proteggerla dal fuoco nemico.
Dalla piattaforma di atterraggio sul tetto, gli artiglieri avevano una
visuale sgombera su tutta la zona circostante. Se avesse sparato quel primo
colpo, le altre unità sarebbero partite alla carica nella radura, dritto in
mezzo a una tempesta di raffiche blaster. Sarebbero stati dilaniati come
prede nel pozzo di un rancor.
“Che succede, sergente?”, domandò uno dei soldati della sua squadra.
Era Lucia, la nuova leva che gli aveva portato gli ordini di Ulabore. “Cosa
stiamo aspettando?”
Era troppo tardi per annullare la missione. L’esercito principale era già in
movimento: quando Des avesse raggiunto il campo per avvertirli, sarebbero
stati già a metà della valle.
Abbassò lo sguardo sulla giovane recluta e notò il mirino telescopico
dell’arma. Lucia portava un fucile blaster TC-17 a lungo raggio. Stringeva
l’arma così forte, per la paura e l’aspettativa, da avere le nocche sbiancate.
Prima di venir assegnata ai Camminatori del Buio aveva svolto ruoli
secondari in combattimento, ma Des sapeva che era una delle tiratrici
migliori di tutta l’unità. Il TC-17 poteva sparare solo una decina di colpi
prima di dover sostituire la cella energetica, ma aveva una portata ben oltre
i trecento metri.
Ognuna delle quattro squadre aveva assegnato un cecchino. Il loro
lavoro, una volta iniziato il combattimento, era sorvegliare il perimetro
della battaglia e accertarsi che nessuno dei soldati della Repubblica fuggisse
per avvisare il campo base.
“Vedi quei soldati sul retro delle cannoniere? Quelli che manovrano i
cannoni?”, le domandò.
Lei annuì.
“Se non ce ne sbarazziamo in qualche modo, faranno a brandelli le nostre
squadre dieci secondi dopo l’inizio della battaglia”.
Lei annuì di nuovo con gli occhi sgranati per la paura. Des tentò di
mantenere un tono neutro e professionale per tranquillizzarla.
“Voglio che tu ci rifletta con molta attenzione, soldato. Quanto
velocemente pensi di poterli eliminare da qui?”
La ragazza esitò. “Non... non so neppure se ci riuscirei, sergente. Non
tutti, non da quest’angolo. Potrei ottenere una linea di tiro sul primo, ma
non appena sarà caduto dubito che gli altri rimarranno immobili per il
tempo che mi servirà a prendere la mira. Probabilmente si getteranno a terra
per ripararsi. E anche se abbattessi gli artiglieri, su quel tetto ci sono altri
cinque o sei soldati che li sostituirebbero. Non posso abbattere nove
bersagli da sola così in fretta, sergente. Nessuno ci riuscirebbe”.
Des si morse il labbro e tentò di elaborare un’altra soluzione al problema.
C’erano soltanto tre cannoniere. Se fosse riuscito in qualche modo a
trasmettere un messaggio al cecchino di ogni squadra e a farli sparare tutti
esattamente nello stesso istante, forse sarebbero riusciti a eliminare gli
artiglieri... anche se poi avrebbero dovuto comunque impedire agli altri sei
soldati di sostituirli.
Imprecò in silenzio, interrompendo le proprie riflessioni. Non avrebbe
mai funzionato. Per colpa dei generatori d’interferenza, non c’era modo di
trasmettere in tempo un messaggio alle altre squadre.
Prendendo il fucile di precisione dalle mani di Lucia, sollevò l’arma e
guardò nel mirino per analizzare meglio la situazione. Perlustrò
rapidamente il tetto da un lato all’altro, annotando la posizione di ciascun
soldato della Repubblica. Grazie all’ingrandimento del mirino, riusciva a
distinguerne i lineamenti con una chiarezza sufficiente a scorgere le labbra
che si muovevano.
La situazione era praticamente senza speranze. L’avamposto era la chiave
per la conquista di Phaseera, e le torrette sul tetto quelle per la conquista
dell’avamposto. Ma Des era a corto di idee, e tra poco lo sarebbe stato
anche di tempo.
Avvertì una paura più forte che mai e trasse un profondo respiro per
concentrarsi. L’adrenalina cominciò a scorrergli in corpo mentre deviava la
paura perché gli desse forza e potere. Allineò il mirino del blaster con uno
degli artiglieri, e la vista gli si velò di rosso. Poi sparò.
Agì d’istinto, muovendosi con troppa rapidità per lasciare che la sua
coscienza intervenisse. Non vide neppure cadere il primo soldato, perché il
mirino stava già muovendosi sul bersaglio successivo. Il secondo artigliere
ebbe appena il tempo di spalancare gli occhi per la sorpresa prima che Des
sparasse, passando poi al terzo. Questi, però, aveva visto cadere il primo
artigliere e si era già abbassato dietro le sponde corazzate del pianale.
Des resistette all’impulso di sparare all’impazzata e descrisse un cerchio
stretto col mirino, alla vana ricerca di una linea di tiro sgombera. Il suono
dei blaster esplose nella notte, assieme alle grida e allo scalpiccio dei passi
dei Camminatori che si lanciavano fuori dai ripari per correre verso
l’avamposto. Avevano seguito gli ordini alla lettera, partendo in carica al
suono del primo sparo. Des sapeva di avere solo pochi secondi prima che le
torrette aprissero il fuoco su di loro, trasformando la radura in un mattatoio,
ma non riusciva a trovare un modo per eliminare il terzo artigliere.
Agitò la canna del fucile da una parte all’altra, disperato, in cerca di un
nuovo bersaglio sul tetto. Puntò il mirino su un soldato accovacciato
accanto a una granata. Il soldato non si muoveva, e si copriva il volto con le
mani come per ripararsi gli occhi. L’esplosione dell’arma di Des lo colpì
dritto al petto nell’istante esatto in cui il dispositivo ai piedi del soldato
detonava.
“È una granata esplosiva!”, urlò Lucia, ma il suo avvertimento arrivò
troppo tardi. La visuale del mirino svanì in un abbagliante lampo bianco,
accecandolo momentaneamente.
Ma all’improvviso, privato della vista, riuscì comunque a vedere tutto
con chiarezza. Conosceva la posizione di ciascun soldato nell’istante in cui
tutti si lanciavano al riparo; sapeva esattamente dove si trovassero e dove
fossero diretti.
L’artigliere della terza torretta stava puntando i cannoni sull’ondata di
soldati in arrivo. Per l’esaltazione aveva alzato la testa di pochi millimetri
sulla barriera del pianale, lasciando esposto un piccolissimo bersaglio. Des
lo abbatté con un solo colpo, che s’insinuò nell’apertura del casco in
corrispondenza dell’orecchio e fuoriuscì dal lato opposto.
Era come se il tempo stesse scorrendo a rallentatore. Spostandosi con
calma e micidiale precisione, puntò il fucile sul bersaglio successivo,
trapassando il cuore della donna; neanche un momento più tardi centrò il
soldato che le era accanto, esattamente in mezzo agli occhi color ghiaccio.
Un altro era a metà della scaletta di uno dei pianali quando un colpo di
blaster gli si conficcò nella coscia, sbilanciandolo. Cadde dalla scala, e Des
gli sparò di nuovo al petto prima che toccasse il suolo.
C’erano voluti meno di tre secondi per spazzar via otto soldati su nove.
L’ultimo si mise a correre verso il bordo, nella speranza di fuggire
tuffandosi dall’altra estremità del tetto. Des lo lasciò fare. Riusciva ad
avvertire il terrore che emanava a ondate dalla sua preda, e lo assaporò più a
lungo che poté. Il soldato spiccò un balzo dal tetto e parve restare sospeso
in aria per un attimo; Des gli scaricò in corpo i tre colpi che gli restavano,
consumando la cella energetica dell’arma.
Restituì l’arma a Lucia e sbatté rapidamente le palpebre per le lacrime
che cercavano di lenire le retine danneggiate. Gli effetti della granata
accecante erano temporanei: la vista stava iniziando a tornare. E la
miracolosa seconda vista di cui aveva fatto esperienza stava già svanendo.
Si stropicciò gli occhi: sapeva che non era quello il momento di pensare
all’accaduto. Aveva eliminato gli artiglieri, ma le sue truppe erano ancora in
inferiorità numerica. C’era bisogno di lui nella zona calda; non lì, ai margini
della battaglia.
“Tieni d’occhio quel tetto”, ordinò a Lucia. “Se quella feccia della
Repubblica ci sale sopra, eliminali prima che raggiungano le navi”.
Lei non rispose: aveva la bocca spalancata per lo stupore.
Des l’afferrò per la spalla e la scrollò con violenza. “Riprenditi, soldato!
Hai un lavoro da fare!”
La ragazza scosse la testa per tornare in sé e annuì, poi caricò un’altra
cella energetica nell’arma. Des, soddisfatto, sfoderò il 21D e partì alla
carica attraverso la radura, impaziente di unirsi alla battaglia.

Tre ore più tardi era tutto finito. La missione era stata un successo
completo: avevano preso l’avamposto e la Repubblica era totalmente ignara
che migliaia di soldati Sith marciassero attraverso la vallata per attaccarli
alle prime luci dell’alba. La battaglia in sé era stata breve ma sanguinosa:
quarantasei morti fra i soldati della Repubblica e nove fra le schiere di Des.
Ogni qualvolta un Camminatore cadeva, una parte di Des sentiva di aver
fallito in qualche modo, ma vista la natura della missione, aver impedito
che il numero delle vittime salisse a due cifre era più di quanto potesse
ragionevolmente sperare.
Una volta ottenuto l’obiettivo, aveva lasciato Adanar e un piccolo
contingente a tenere l’avamposto. Il resto dell’unità, con Des in testa, era
tornato al proprio campo base.
Per strada, tentò d’ignorare i sussurri e le occhiate furtive che gli
rivolgeva il resto della compagnia. Lucia aveva sparso la voce della sua
incredibile impresa, e in quel momento l’unità non parlava d’altro. Nessuno
era abbastanza coraggioso da dirgli qualcosa apertamente, ma udiva
brandelli di conversazione provenienti dai ranghi alle sue spalle.
In tutta onestà non riusciva a biasimarli. Ripensandoci, nemmeno lui era
certo di cosa fosse successo. Des era un buon tiratore, ma non era certo un
cecchino. Eppure, in qualche modo era riuscito a mandare a segno una
decina di colpi impossibili con un’arma mai usata prima... e per la maggior
parte dopo essere stato abbagliato da una granata accecante. Andava al di là
dell’incredibile: era come se, una volta persa la vista, un qualche potere
misterioso fosse intervenuto a guidare le sue azioni. Era stato esaltante, ma
allo stesso tempo terrificante. Da dove veniva quel potere? E perché non
riusciva a controllarlo?
Era talmente assorto nei suoi pensieri che dapprima non notò neppure gli
estranei in attesa al campo base. Solo dopo che si furono avvicinati e gli
ebbero chiuso le manette stordenti intorno ai polsi si rese conto di quel che
stava succedendo.
“Bentornato, sergente”. La voce di Ulabore traboccava d’odio.
Des si guardò intorno. C’erano una decina di agenti, la sicurezza militare
dell’esercito Sith, con le armi sfoderate. Alle loro spalle si ergeva Ulabore,
un livido scuro sul viso nel punto in cui Des lo aveva colpito. Sullo sfondo
vedeva le due reclute che aveva lasciato a gestire il tenente. Avevano gli
occhi fissi a terra, imbarazzati e mortificati.
“Credeva sul serio che delle reclute inesperte avrebbero tenuto il loro
comandante legato come un prigioniero?”, lo schernì Ulabore dietro la
barriera protettiva formata dalle guardie armate. “Era davvero convinto che
l’avrebbero seguita nella sua follia?”
“Quella follia ci ha salvato la vita!”, gridò Lucia. Des sollevò i polsi
ammanettati per zittirla: bastava un attimo perché la situazione sfuggisse di
mano.
Quando non accadde altro, il tenente parve prendere coraggio. Si fece
largo tra la barriera protettiva degli agenti e si avvicinò a Des.
“L’avevo avvertita di non disobbedire agli ordini”, gli disse con fare
derisorio. “Adesso proverà di persona il trattamento che la Confraternita
riserva agli insubordinati!”
Alcuni Camminatori iniziarono a portare le mani verso le armi, ma Des
scosse la testa e quelli s’immobilizzarono. Gli agenti avevano già le armi in
pugno e non avevano paura di usarle. I soldati non sarebbero riusciti a
sparare neppure un colpo.
“Cosa c’è, sergente?”, lo incalzò Ulabore, avvicinandosi ancora di più al
nemico sconfitto. Forse troppo. “Non ha niente da dire?”
Des sapeva di poter uccidere il tenente con una rapida mossa. Gli agenti
lo avrebbero abbattuto, ma almeno avrebbe portato Ulabore con sé. Ogni
fibra del suo essere avrebbe voluto aggredirlo e porre fine alle vite di
entrambi in un’orgia di sangue e raggi laser. Riuscì però a respingere
l’impulso. Non aveva senso gettar via la propria vita: probabilmente una
corte marziale sarebbe sfociata nella condanna a morte, ma se avesse subito
un processo avrebbe avuto almeno un’occasione.
Ulabore lo schiaffeggiò in viso, poi gli sputò sugli stivali e indietreggiò.
“Portatelo via”, disse agli agenti, voltandogli le spalle.
Mentre Des veniva condotto via, non poté fare a meno di notare lo
sguardo negli occhi di Lucia e dei soldati a cui aveva salvato la vita solo
poche ore prima. Aveva la sensazione che, durante la successiva battaglia
dell’unità, Ulabore avrebbe subito uno sfortunato incidente... sfortunato e
fatale.
Quella consapevolezza gli disegnò l’ombra di un sorriso sulle labbra.

Gli agenti lo fecero marciare nella giungla per ore, le armi sfoderate e
puntate su di lui tutto il tempo. Le abbassarono soltanto quando raggiunsero
le sentinelle sul perimetro dell’accampamento Sith principale.
“Un prigioniero per la corte marziale”, disse atono uno degli agenti.
“Riferite a Lord Kopecz”. Una delle sentinelle fece il saluto militare e corse
via.
Fecero marciare Des attraverso il campo, diretti alle celle. Dagli sguardi
che gli rivolgevano, vide che molti soldati lo avevano riconosciuto. Era una
figura imponente, con la sua altezza e la testa glabra, e molti avevano udito
delle sue imprese. Di certo dovette impressionarli vedere quello che era
stato il soldato ideale trascinato davanti alla corte marziale.
Raggiunsero la prigione improvvisata del campo: un piccolo perimetro di
contenimento che copriva un fosso di tre metri per lato, che fungeva da
zona di detenzione per le spie e i prigionieri di guerra. Nel prenderlo in
custodia, gli agenti gli avevano tolto le armi; a quel punto eseguirono una
perquisizione più accurata e lo privarono di ogni altro effetto personale. Poi
spensero il campo di contenimento e lo gettarono dentro in malo modo,
senza neppure disturbarsi di togliergli le manette. Atterrò goffamente sul
terreno duro in fondo al fosso. Rialzandosi in piedi a fatica, udì un ronzio
inconfondibile: il campo era stato riattivato, imprigionandolo là sotto.
A parte lo stesso Des, il fosso era vuoto. I Sith non tendevano a tenere
prigionieri molto a lungo. Iniziò a domandarsi se non avesse commesso un
grosso sbaglio. Sperava che il suo stato di servizio gli sarebbe valso un
minimo di clemenza durante il processo, ma in quel momento si rese conto
che in realtà la sua reputazione poteva invece danneggiarlo. I Maestri Sith
non avevano fama di essere tolleranti o misericordiosi. Aveva sfidato un
ordine diretto: c’erano buone probabilità che decidessero di farne un brutale
esempio per tutti gli altri.
Non avrebbe saputo dire per quanto tempo lo lasciarono in fondo al
fosso. Dopo un po’ si addormentò, sfinito dalla battaglia e dalla marcia
forzata. Scivolava nel sonno a intermittenza: a un certo punto vide la luce
fuori dalla sua prigione e seppe che doveva essersi fatto giorno. Al suo
risveglio successivo era di nuovo buio.
Non gli avevano ancora dato da mangiare: lo stomaco gli brontolava,
reclamando nutrimento. Si sentiva la gola riarsa, la lingua gonfia tanto da
soffocarlo. Nonostante questo, avvertiva una pressione crescente sulla
vescica, ma non voleva urinare. Il fosso puzzava già abbastanza.
Forse la loro intenzione era semplicemente lasciarlo lì, a morire
lentamente e da solo. Viste le voci che gli erano giunte sulla tortura Sith,
sperava quasi che fosse così. Ma non si era arreso, non ancora.
Quando udì il rumore di passi che si avvicinavano, si alzò in fretta e si
erse ben dritto e impettito, nonostante avesse ancora i polsi ammanettati.
Attraverso il campo di contenimento riuscì a distinguere solo le sagome
sfocate di alcune guardie, in piedi sul bordo del fosso, insieme a un’altra
figura avvolta in un pesante manto nero.
“Portatelo sulla mia nave”, disse la figura incappucciata con una voce
rauca e profonda. “Mi occuperò di lui su Korriban”.
CAPITOLO 8

Des non vide mai con chiarezza l’uomo che aveva ordinato il suo
trasferimento. Quando lo avevano tirato fuori dal fosso, la figura
incappucciata era già svanita. Gli avevano dato cibo e acqua, poi gli
avevano permesso di lavarsi e rinfrescarsi. Benché gli avessero tolto le
manette, mentre saliva a bordo di un piccolo trasporto diretto a Korriban
restò sotto stretta sorveglianza.
Durante il viaggio nessuno gli parlò, e Des non sapeva cosa stesse
succedendo. Se non altro, non era più ammanettato. Decise di prenderlo
come un buon segno.
Arrivarono in pieno giorno. Si aspettava che sarebbero atterrati a
Dreshdae, l’unica città sul pianeta oscuro e inospitale. La nave, invece,
atterrò in uno spazioporto costruito in cima a un tempio antico che si ergeva
sopra una valle desolata. Mentre sbarcava, Des sentì un vento gelido
soffiare sulla piattaforma di atterraggio, ma non provò fastidio. Qualunque
tipo di brezza era piacevole dopo l’aria immobile del fosso. Quando mise
piede sulla superficie di Korriban, avvertì un brivido lungo la schiena.
Aveva sentito dire che un tempo quello era stato un luogo di grande potere,
ma ormai non ne restava che una pallida ombra. Era attraversato da una
sotterranea corrente di malignità: l’aveva percepita non appena il trasporto
era entrato nella cupa atmosfera del pianeta.
Da lì riusciva a vedere gli altri templi sparsi per la superficie desertica.
Persino da quella distanza vedeva le rocce erose e le pietre cadenti che
formavano gli ingressi, un tempo maestosi. Al di là della valle, la città di
Dreshdae non era che un puntino all’orizzonte.
Sulla piattaforma di atterraggio gli venne incontro un’altra figura
incappucciata, ma capì all’istante che non si trattava della stessa del fosso.
Costui o costei non aveva le dimensioni né il portamento impressionanti del
suo liberatore, di cui Des era riuscito a percepire l’autoritaria presenza.
Questa figura, che in quel momento Des ritenne femminile, gli fece
cenno di seguirlo. Lo condusse in silenzio lungo una rampa di gradini di
pietra che conducevano al tempio stesso. Oltrepassarono un pianerottolo e
scesero altre scale, poi ripeterono lo schema, facendosi strada un piano
dopo l’altro dalla sommità del tempio fino al livello del suolo. Su ogni
pianerottolo si aprivano porte e passaggi, e da essi Des udì riecheggiare
frammenti di suoni e conversazioni, ma non riuscì mai a capire cosa venisse
detto.
La donna non parlava, e Des aveva il buonsenso di non spezzare quel
silenzio. Tecnicamente, era ancora un prigioniero; per quel che ne sapeva,
lo stava conducendo alla sua corte marziale. Non aveva intenzione di
peggiorare la situazione ponendo domande sciocche.
Quando raggiunsero i piedi dell’edificio, lei lo condusse verso un’arcata
di pietra con ancora un’altra rampa di scale. Queste, tuttavia, differivano
dalle altre: erano scure e anguste, e scendevano tortuosamente fino a
scomparire alla vista nelle viscere della terra. Senza dire una parola, la
guida gli porse una torcia che aveva staccato da un supporto alla parete e si
fece da parte.
Domandandosi cosa stesse succedendo, Des scese con attenzione la
ripida scalinata. Non seppe dire quanto scese in profondità: era difficile
farsene un’idea negli spazi ristretti della tromba. Dopo qualche minuto
raggiunse il fondo solo per ritrovarsi davanti un lungo corridoio. Al
termine, s’imbatté in un’unica stanza.
Era buia, piena di ombre. Solo poche torce scoppiettavano sulle pareti di
pietra, le fiamme morenti a stento in grado di penetrare l’oscurità.
Esitò sulla soglia, lasciando che gli occhi si abituassero al buio.
All’interno riusciva appena a scorgere una figura indistinta che lo chiamò a
sé.
“Vieni avanti”.
Des ebbe un brivido, anche se nella stanza non faceva certo freddo. L’aria
in sé era elettrica, piena di un potere palpabile. Lo sorprese il fatto di non
avere paura: riconobbe ciò che provava come il brivido dell’aspettativa.
Addentrandosi nella stanza, i lineamenti della figura divennero visibili e
si rivelò un Twi’lek. Anche sotto la larga veste che indossava, Des capiva
che era di corporazione pesante e massiccia. Era alto quasi due metri,
probabilmente il Twi’lek più grosso che Des avesse mai incontrato...
... sebbene non grosso quanto lui.
Aveva il lekku che gli scendeva sul petto ampio e avvolto intorno al collo
e alle spalle muscolosi; al centro del viso, gli occhi emanavano un bagliore
arancione simile a quello delle torce tremolanti. Sorrise, rivelando i denti
aguzzi e affilati tipici della sua specie.
“Sono Lord Kopecz dei Sith”, disse. A quel punto Des seppe senz’ombra
di dubbio che si trattava dell’uomo incappucciato che si era recato al fosso,
e chinò leggermente il capo verso di lui.
“Sarò il tuo inquisitore”, spiegò Lord Kopecz con voce priva di
emozione. “E io soltanto deciderò il tuo destino. Sappi che il mio giudizio
sarà definitivo”.
Des fece un altro cenno del capo.
Il Twi’lek fissò gli occhi ardenti su di lui. “Non se un amico dei Jedi o
della loro Repubblica”.
Non era una domanda, ma si sentì comunque in dovere di rispondere.
“Che cosa mai avrebbero fatto per me?”
“Esatto”, disse Kopecz con un sorriso crudele. “Se ho ben capito, hai
combattuto molte battaglie contro le forze della Repubblica. I tuoi
compagni parlano di te con grande rispetto. Se vogliamo vincere questa
guerra, i Sith hanno bisogno di uomini come te”. Fece una pausa. “Sei stato
un soldato modello... finché non hai disobbedito a un ordine diretto”.
“Era un ordine sbagliato”, rispose Des. Aveva la gola talmente secca e
contratta che faceva fatica ad articolare le parole.
“Perché ti sei rifiutato di attaccare l’avamposto di giorno? Sei forse un
codardo?”
“Un codardo non avrebbe completato la missione”, rispose brusco, ferito
da quell’accusa.
Kopecz inclinò di lato la testa e attese.
“Attaccare di giorno era uno sbaglio tattico”, continuò Des cercando di
chiarire bene le sue motivazioni. “Ulabore avrebbe dovuto riferire
quell’informazione al comando, ma aveva troppa paura. È stato Ulabore il
codardo, non io. Avrebbe preferito morire per mano della Repubblica che
fronteggiare la Confraternita dell’Oscurità. Io preferisco non gettar via
inutilmente la mia vita”.
“Lo vedo dal tuo stato di servizio”, confermò Kopecz. “Kashyyyk,
Trandosha, Phaseera... se i rapporti sono esatti, hai compiuto imprese
incredibili mentre eri con i Camminatori del Buio. Imprese che alcuni
riterrebbero impossibili”.
Il sottinteso di quell’affermazione fece fremere Des di rabbia. “I rapporti
sono esatti”, rispose.
“Non ne dubito”. O Kopecz non aveva notato il tono con cui aveva
risposto, oppure non gliene importava. “Sai perché ti ho fatto condurre su
Korriban?”
Des iniziava a rendersi conto che quella non era veramente una corte
marziale. Era una sorta di prova, sebbene non fosse ancora sicuro per che
cosa. “Sento che mi avete scelto per qualcosa”.
Kopecz gli rivolse un altro sinistro sorriso. “Rifletti velocemente. Bene.
Cosa sai della Forza?”
“Non molto”, ammise Des, stringendosi nelle spalle. “È qualcosa in cui
credono i Jedi, un grande potere che aleggerebbe nell’universo”.
“E cosa sai dei Jedi?”
“So che si credono i guardiani della Repubblica”, rispose Des senza
tentare di nascondere il proprio disprezzo. “So che esercitano una grande
influenza nel Senato. So che molti credono di possedere poteri mistici”.
“E della Confraternita dell’Oscurità?”
Stavolta, Des soppesò con più cura le sue parole. “Siete i capi del nostro
esercito e nemici giurati dei Jedi. Molti credono che, come loro, possediate
abilità innaturali!”
“E tu no?”
Des esitò, sforzandosi di trovare la risposta che pensava Kopecz volesse
ascoltare. Alla fine non riuscì a immaginarsi cosa cercasse il suo
inquisitore, e così disse semplicemente la verità. “Credo che gran parte di
queste storie siano molto esagerate”.
Kopecz annuì. “Convinzione abbastanza comune. Chi non comprende le
vie della Forza considera simili storie come miti o leggende. Ma la Forza è
reale, e chi la controlla ha un potere che non puoi neanche immaginare.
“Hai visto molte battaglie, ma non hai esperienza della vera guerra.
Mentre i soldati competono per il controllo di lune e pianeti, i Maestri Jedi e
Sith cercano di distruggersi a vicenda. Ci stiamo dirigendo verso un
confronto finale e inevitabile. La fazione sopravvissuta, che sia Sith o Jedi,
deciderà il destino della galassia per i prossimi mille anni.
“In questa guerra, la vera vittoria non si otterrà con gli eserciti, ma
tramite la Confraternita. La nostra arma più grande è la Forza, e gli
individui col potere di dominarla. Individui come te”.
Fece una pausa per lasciare che le sue parole facessero effetto. “Tu sei
speciale, Des. Hai molti talenti notevoli. Si tratta di manifestazioni della
Forza, e ti hanno servito bene da soldato. Ma hai soltanto sfiorato la
superficie del tuo dono. La Forza è reale, ed esiste intorno a noi. Puoi
sentirne il potere in questa stessa stanza. Riesci a percepirlo?”
Des esitò solo un attimo, poi annuì. “Lo sento. È rovente, come un
incendio che sta per scoppiare”.
“È il potere del Lato Oscuro. Il calore della passione e dell’emozione.
Riesco a sentirlo ardere, anche dentro di te. Come la tua rabbia. Ti rende
forte”.
Kopecz chiuse gli occhi e inclinò la testa all’indietro come se si
crogiolasse in quel calore. La punta del lekku aveva dei guizzi leggerissimi.
L’unico rumore era il tenue crepitio delle torce. Dalla testa glabra di Des
colò una goccia di sudore che gli scese lungo la nuca. Non l’asciugò, ma
mosse comunque i piedi a disagio mentre quella continuava verso le
scapole. Quel minimo movimento parve strappare il Twi’lek dalla sua
trance.
Per alcuni secondi non parlò di nuovo, pur studiando assorto Des col suo
sguardo penetrante. “In passato hai toccato la Forza, ma le tue abilità non
sono che un granello di polvere dinanzi al potere di un vero Maestro Sith”,
disse finalmente. “Hai un grande potenziale. Se resterai su Korriban
potremo insegnarti a usarlo”.
Des non sapeva cosa dire.
“Non saresti più un soldato nelle prime linee”, continuò Kopecz. “Se
accetterai la mia offerta, quella fase della tua vita finirà. Sarai addestrato
nelle vie del Lato Oscuro. Diventerai parte della Confraternita
dell’Oscurità. E non farai ritorno ai Camminatori del Buio”.
Des si sentì la testa leggera, il cuore che gli martellava. Sapeva di essere
speciale per via dei suoi talenti sin da quando aveva memoria. E in quel
momento gli avevano detto che le sue capacità erano nulla a confronto di
ciò che avrebbe potuto davvero raggiungere.
Una parte di lui, tuttavia, tentennava all’idea di lasciare la sua unità senza
neppure aver modo di salutarli. Considerava Adanar, Lucia e gli altri più
che semplici compagni: erano degli amici. Davvero poteva abbandonarli in
quel modo, anche per l’occasione di unirsi ai Maestri Sith?
Rammentò una delle ultime cose che gli aveva detto Groshik: Non
contare sull’aiuto degli altri. In fin dei conti, siamo tutti soli. Sopravvive chi
sa badare a se stesso.
Aveva dato alla sua unità tutto ciò che aveva. Aveva salvato loro la vita
troppe volte per contarle. E alla fine, quando gli agenti erano venuti a
portarlo via, loro non erano stati in grado di salvare lui. Se glielo avesse
permesso ci avrebbero provato, ma avrebbero fallito. Des capì la verità:
ormai la sua unità, i suoi amici, non avrebbero potuto fare nulla per lui.
Poteva contare solo su se stesso, come sempre. Sarebbe stato da sciocchi
rifiutare quell’opportunità.
“Maestro Kopecz, sono onorato e accetto la vostra offerta con
gratitudine”.
“La via dei Sith non è adatta ai deboli”, lo avvertì l’imponente Twi’lek.
“Chi esita... sarà lasciato indietro”. Nel suo tono c’era un che di minaccioso.
“Non succederà”, rispose Des imperterrito.
“Staremo a vedere”, osservò Kopecz, poi aggiunse: “Questo è un nuovo
inizio per te, una nuova vita. Molti studenti che si recano qui si scelgono un
nuovo nome, lasciandosi alle spalle la loro vecchia esistenza”.
Des non desiderava conservare nessuna parte della sua vita precedente.
Un padre violento, la brutalità del lavoro in miniera su Apatros: nei suoi
ricordi non c’era altro che la ricerca di una nuova vita. I Camminatori gli
avevano offerto una via di fuga, ma era stata solo temporanea. In quel
momento aveva l’occasione di lasciarsi per sempre il passato alle spalle.
Non doveva far altro che abbracciare la Confraternita dell’Oscurità e i suoi
insegnamenti. Eppure, per motivi che non riusciva a spiegare, sentì la
fredda morsa della paura incalzarlo, e così esitò.
“Desideri scegliere un nuovo nome, Dessel?”, domandò Kopecz, forse
percependone la riluttanza. “Desideri rinascere?” Des annuì.
Kopecz sorrise ancora una volta. “E come dovremo chiamarti?”
La paura non lo avrebbe fermato: l’avrebbe catturata, trasformata e resa
sua. Avrebbe preso ciò che un tempo lo aveva reso debole e lo avrebbe
sfruttato per diventare più forte.
“Il mio nome è Bane. Bane dei Sith”.

Lord Qordis, eminente Maestro dell’Accademia Sith su Korriban, alzò le


dita lunghe e simili ad artigli per grattarsi il mento con delicatezza.
“Questo studente che mi hai portato, questo Bane, non è mai stato
addestrato nelle vie della Forza?”
Kopecz scosse la testa mentre il suo lekku fremeva in un impercettibile
guizzo d’irritazione. “Come ti ho già detto, Qordis, è cresciuto su Apatros,
un pianeta controllato dalla Compagnia della Outer Rim Oreworks”.
“Eppure, sei riuscito a trovare questo giovane e a portarlo qui in
Accademia. Mi sembra una strana coincidenza”.
Il robusto Twi’lek ringhiò: “Non è un complotto contro di te, Qordis.
Non sono più questi i nostri modi. Adesso siamo una Confraternita, ricordi?
Sei troppo sospettoso”.
Qordis rise. “Non sono sospettoso, bensì cauto. Mi ha aiutato a
mantenere la mia posizione in mezzo a tanti giovani Sith potenti e
ambiziosi”.
“È potente quanto chiunque di loro”, insistette Kopecz.
“Ma è anche più vecchio. Noi preferiamo trovare studenti che siano più
giovani e... plasmabili”.
“Mi sembra di sentire un Jedi”, ribatté Kopecz ironico. “Cercano allievi
sempre più giovani, sperando di trovarli puri e innocenti. Col tempo
rifiuteranno chiunque, tranne i neonati. Noi dobbiamo affrettarci a cogliere
coloro che lasciano indietro. E poi”, continuò, “Bane è troppo potente per
ignorarlo, persino per i Jedi. È una fortuna averlo trovato prima di loro”.
“Già, una fortuna”, fece eco Qordis con voce carica di sarcasmo. “Il suo
arrivo sembra il risultato di una serie incredibile di fortuite coincidenze.
Proprio una vera fortuna”.
“Alcuni potrebbero considerarla tale”, ammise Kopecz, “altri qualcosa di
più. Destino, forse”.
Il silenzio aleggiò nell’aria mentre Qordis rifletteva sulle parole del suo
vecchio rivale. “Gli altri seguaci si addestrano da molti anni. Lui sarà
indietro”.
“Si rimetterà in pari, avendone l’opportunità”, insistette ancora Kopecz.
“E io mi domando... gli altri gliela daranno? No, se sono svegli. Temo
che potremmo semplicemente star gettando via uno dei migliori soldati di
Lord Kaan”.
“Sappiamo entrambi che i soldati non serviranno a sconfiggere i Jedi”,
ribatté brusco Kopecz. “Scambierei volentieri mille dei nostri soldati
migliori per un solo Maestro Sith”.
Qordis parve colto alla sprovvista dall’impeto di quella reazione. “Questo
Bane è molto potente , non è così?”
Kopecz annuì. “Penso possa essere colui che cerchiamo. Il Sith’ari”.
“Per potersi fregiare di quel titolo”, disse Qordis con un sorriso astuto,
“dovrà prima sopravvivere al suo addestramento”.
PARTE DUE
CAPITOLO 9

La pace è una menzogna, c’è solo la passione.


Attraverso la passione, acquisto forza.
Attraverso la forza, guadagno potere.
Attraverso il potere, guadagno la vittoria.
Attraverso la vittoria, spezzo le mie catene.

Kopecz se n’era andato per riunirsi all’esercito di Kaan e alla guerra che
infuriava contro i Jedi e la Repubblica. Bane invece era rimasto
all’Accademia su Korriban per apprendere le vie dei Sith. La prima lezione
iniziò la mattina successiva sotto lo stesso Lord Qordis.
“I principi Sith non sono solo semplici parole da memorizzare”, spiegò il
Maestro dell’Accademia al suo nuovo apprendista. “Imparale e
comprendile. Ti condurranno al vero potere della Forza: quello del Lato
Oscuro”.
Qordis era più alto di Kopecz, e persino più di Bane. Era esile e avvolto
in una veste nera e larga, il cappuccio abbassato che gli ricadeva sulle
spalle. Poteva darsi che fosse umano, ma il suo aspetto aveva qualcosa di
strano. La sua carnagione era di una tonalità innaturale, simile a gesso,
messa ancora più in risalto dalle gemme luccicanti che adornavano i molti
anelli portati sulle lunghe dita. Aveva occhi scuri e infossati, denti aguzzi e
unghie ricurve come artigli crudeli.
Bane, che a sua volta indossava una veste nera col cappuccio abbassato,
s’inginocchiò dinanzi a lui. Quella stessa mattina aveva udito per la prima
volta il Codice Sith, le cui parole risuonavano ancora vivide e misteriose.
Gli rigiravano in mente come tanti mulinelli nella corrente sotterranea dei
suoi pensieri, affiorando ogni tanto mentre cercava di assorbirne il profondo
significato. La pace è una menzogna. C’è solo la passione. Almeno, sapeva
che il primo principio era vero: la sua intera vita ne era la prova.
“Kopecz mi ha detto che sei venuto qui da noi come apprendista
inesperto”, osservò Qordis. “Dice che non sei mai stato addestrato nelle vie
della Forza”.
“Imparo in fretta”, gli assicurò Bane.
“Sì... e il Lato Oscuro scorre potente in te. Ma lo stesso può dirsi di tutti
coloro che arrivano qui”.
Non essendo certo di come rispondere, Bane decise che l’azione più
saggia fosse restare in silenzio.
“Cosa sai di quest’Accademia?”, chiese finalmente Qordis.
“Qui, gli studenti imparano a usare la Forza. Voi e gli altri Signori dei
Sith insegnate loro i segreti del Lato Oscuro”. Aggiunse poi, dopo una
breve esitazione: “E so che esistono molte altre accademie come questa”.
“No”, lo corresse Qordis. “Non come questa. È vero che nel nostro
sempre più grande impero ci sono altre strutture di addestramento, luoghi
dove s’insegna agli individui promettenti come usare il proprio potere. Ma
ogni struttura è unica, e quella dove ogni singolo studente viene inviato
dipende dal potenziale che scorgiamo in lui.
“Chi possiede abilità notevoli ma limitate finisce su Honoghr, Gentes o
Gamorr per diventare un Guerriero o un Predone Sith. Lì impara a
incanalare le emozioni in rabbia incontrollata e furia combattiva. Il potere
del Lato Oscuro lo trasforma in una belva devastatrice che scatena morte e
distruzione sui nostri nemici”.
Attraverso la passione, acquisto forza, pensò Bane. Ma quando parlò
disse: “La forza bruta non basta da sola a far cadere la Repubblica”.
“È vero”, concordò Qordis. Bane capì dal tono della sua voce di aver
detto ciò che il Maestro desiderava.
“Chi possiede abilità superiori viene inviato su pianeti alleatisi alla nostra
causa per la distruzione della Repubblica: Ryloth, Umbara, Nar Shadaa.
Questi apprendisti diventano ombre che imparano a usare il Lato Oscuro
per agire in segretezza, con l’inganno e la manipolazione. Chi sopravvive
all’addestramento si trasforma in un assassino inarrestabile, capace di
attingere al Lato Oscuro per uccidere senza muovere un muscolo”.
“Eppure, neanche loro possono sconfiggere un Jedi”, aggiunse Bane,
ritenendo di aver compreso dove fosse diretta quella lezione.
“Esattamente”, concordò il Maestro. “Le accademie di Dathomir e
Iridonia sono le più simili a questa. Là, gli apprendisti studiano sotto i
Maestri Sith. Se l’addestramento ha successo, si diventa adepti e seguaci
per ingrossare le file del nostro esercito. Sono le controparti dei Cavalieri
Jedi che si frappongono tra noi e la conquista finale.
“Ma come i Cavalieri Jedi devono rispondere ai Maestri, così devono
fare gli adepti e i seguaci con i Signori dei Sith. E coloro che possiedono il
potenziale per diventare Signori dei Sith, e soltanto loro, vengono addestrati
qui su Korriban”.
Bane provò un brivido di esaltazione. Attraverso la forza, guadagno
potere.
“Korriban era il pianeta ancestrale dei Sith”, spiegò Qordis. “È un luogo
dal grande potere: il Lato Oscuro vive e pulsa nel cuore di questo mondo”.
Fece una pausa e allungò lentamente la mano scheletrica, col palmo
rivolto verso l’alto. Sembrava quasi che le dita simili ad artigli
racchiudessero qualcosa d’invisibile, qualcosa di prezioso e inestimabile.
“Il tempio in cui ci troviamo è stato costruito migliaia di anni fa per
raccogliere e focalizzare quel potere. Qui si può avvertire il Lato Oscuro al
massimo della sua potenza”. Serrò il pugno così stretto che le lunghissime
unghie gli si conficcarono nel palmo, facendone colare del sangue. “Sei
stato scelto perché possiedi un grande potenziale”, sussurrò. “Ci si aspetta
molto dagli apprendisti, qui su Korriban. L’addestramento è difficile, ma
per chi riesce a superarlo le ricompense sono grandi”.
Attraverso il potere, guadagno la vittoria.
Qordis tese la mano e impose il palmo insanguinato sulla testa di Bane,
ungendolo col sangue di un Signore dei Sith. Da soldato, Bane aveva visto
sangue in abbondanza, eppure quell’atto cerimoniale di autolesionismo lo
disgustò, per qualche ragione, più di qualunque massacro sul campo di
battaglia. Riuscì a stento a non ritrarsi.
“Hai il potenziale per diventare uno di noi: un membro della
Confraternita dell’Oscurità. Insieme potremo liberarci dai ceppi della
Repubblica”.
Attraverso la vittoria, spezzo le mie catene.
“Ma anche chi ha potenziale può fallire”, concluse Qordis. “Confido che
non ci deluderai”.
Bane non ne aveva la minima intenzione.
Bane si gettò a capofitto nei suoi studi e le settimane successive
trascorsero in fretta. Scoprì con sorpresa che la sua inesperienza nella Forza
era l’eccezione, non la regola. Molti studenti si erano addestrati per mesi o
anni prima di venir accettati nell’Accademia di Korriban.
All’inizio, Bane ne era stato turbato. Aveva appena cominciato ad
addestrarsi ed era già indietro. In un contesto tanto competitivo e spietato
sarebbe stato un bersaglio facile per tutti gli altri studenti. Ma
rimuginandoci sopra, iniziò a rendersi conto che forse non era vulnerabile
quanto pensava.
Fra tutti gli apprendisti dell’Accademia, solo lui era riuscito a
manifestare il potere del Lato Oscuro senza alcun tipo di addestramento. Lo
aveva usato tanto spesso da arrivare a darlo per scontato. Gli aveva dato
vantaggio giocando a carte e nelle risse. In guerra lo aveva avvertito dei
pericoli e portato alla vittoria in circostanze altrimenti impossibili.
E tutto era accaduto d’istinto, senza un addestramento e neppure la
minima consapevolezza di ciò che faceva. In quel momento, per la prima
volta, gli insegnavano a usare davvero le sue abilità. Non doveva
preoccuparsi di nessun altro studente... anzi, loro avrebbero dovuto
preoccuparsi. Una volta completato il suo addestramento, nessun altro
sarebbe stato alla sua altezza.
Gran parte della sua formazione era seguita da Qordis e dagli altri
Maestri: Kas’im, Orilltha, Shenayag, Hezzoran e Borthis. All’Accademia
c’erano sessioni di allenamento di gruppo, ma erano poche e lontane tra
loro. Non era ammissibile che i più deboli rallentassero chi era forte e
ambizioso. Gli studenti imparavano coi propri ritmi, spinti dalla brama e
dalla sete di potere. Tuttavia, ogni Maestro aveva quasi sei studenti, e gli
apprendisti dovevano dimostrarsi degni prima che un istruttore dedicasse
del tempo prezioso a insegnargli i segreti dei Sith.
Pur essendo un novizio, per Bane era facile attirare l’attenzione dei
Signori dei Sith, in particolare di Qordis. Sapeva che ciò avrebbe
inevitabilmente suscitato ostilità negli altri studenti, ma si sforzava di non
pensarci. Col tempo, l’istruzione ricevuta dai Maestri gli avrebbe consentito
di raggiungere e superare gli altri apprendisti, e a quel punto non avrebbe
avuto bisogno di preoccuparsi delle loro meschine gelosie. Fino ad allora,
fece attenzione a restare nell’ombra e a non farsi notare.
Quando non apprendeva dai Maestri si chiudeva in biblioteca, a studiare
le cronache antiche. Così come i Jedi custodivano i propri archivi nel
Tempio di Coruscant, allo stesso modo i Sith avevano iniziato a raccogliere
e conservare le informazioni negli archivi del tempio di Korriban. Tuttavia,
a differenza della biblioteca dei Jedi, dove gran parte dei dati era
immagazzinata in formato elettronico, olografico e negli holocron, la
collezione Sith si limitava a pergamene, volumi e manuali. Durante i
tremila anni standard trascorsi da quando Darth Revan aveva quasi distrutto
la Repubblica, i Jedi avevano condotto un’instancabile guerra per
rimuovere gli strumenti educativi del Lato Oscuro. Tutti gli holocron Sith
conosciuti erano stati distrutti oppure trafugati e portati in custodia nel
Tempio dei Jedi su Coruscant. Circolavano molte voci di ignoti holocron
Sith nascosti su mondi remoti oppure avidamente accumulati da un qualche
Maestro oscuro bramoso di tenere per sé tutta quella sapienza segreta. Ogni
tentativo di trovare quei tesori perduti da parte della Confraternita si era
però rivelato inutile, costringendola ad affidarsi alle primitive tecnologie
della pergamena e del filmplast.
Visto poi che alla collezione si aggiungevano costantemente nuovi pezzi,
indici e riferimenti erano irrimediabilmente desueti. Spesso ricercare negli
archivi era un esercizio di futilità o di frustrazione, e gli studenti pensavano
in gran parte che avrebbero impiegato meglio il loro tempo apprendendo dai
Maestri o impressionandoli.
Forse era più grande di quasi tutti gli altri, o forse anni passati a fare il
minatore gli avevano insegnato la virtù della pazienza: qualunque fosse la
spiegazione, Bane trascorreva ogni giorno ore e ore a studiare le vecchie
cronache. Le trovava affascinanti: molti rotoli erano resoconti storici che
raccontavano antiche battaglie o decantavano le imprese di passati Signori
dei Sith. Di per sé, le informazioni non avevano grande utilità pratica, ma
riusciva a vedere ogni singola opera per ciò che in realtà rappresentava: il
minuscolo tassello di un mosaico molto più grande, un indizio che
conduceva a una comprensione assai superiore.
Gli archivi completavano ciò che apprendeva dai Maestri,
contestualizzando le lezioni astratte. Bane pensava che col tempo
quell’antica sapienza sarebbe stata la chiave per sbloccare appieno il suo
potenziale. E così la sua comprensione della Forza si plasmava poco a poco.
Mistica e inspiegabile, la Forza era anche naturale ed essenziale:
un’energia fondamentale, che teneva assieme l’universo e legava ogni cosa
vivente al suo interno. Un’energia, un potere che era possibile sfruttare, che
si poteva controllare e manipolare. E, attraverso gli insegnamenti del Lato
Oscuro, Bane stava imparando a impadronirsene. Eseguiva le sue
meditazioni e gli esercizi quotidianamente, spesso sotto lo sguardo vigile di
Qordis. Dopo appena qualche settimana imparò a spostare piccoli oggetti
col semplice pensiero: qualcosa che solo poco tempo prima avrebbe
ritenuto impossibile.
A quel punto, tuttavia, aveva capito che era soltanto l’inizio. Cominciava
ad afferrare una grande verità, a un livello profondo e basilare: la forza per
sopravvivere deve provenire dall’interno. Gli altri vengono sempre meno:
amici, parenti, commilitoni... In definitiva, ogni persona è sola. In caso di
bisogno, bisogna pensare a se stessi.
Il Lato Oscuro alimentava il potere del singolo individuo. Gli
insegnamenti dei Maestri Sith lo avrebbero reso più forte. Soddisfacendoli
avrebbe potuto realizzare completamente il suo potenziale, e un giorno
sedere tra loro.

Quando arrivò la prima ondata dell’attacco, la flotta della Repubblica in


orbita nei cieli di Ruusan fu colta totalmente impreparata. Piccolo e privo di
significato politico, quel mondo boscoso era stato usato come base per
organizzare devastanti attacchi a sorpresa contro le forze Sith di stanza nel
vicino sistema di Kashyyyk. Il nemico aveva però usato quella stessa
strategia contro la Repubblica.
I Sith avevano colpito senza preavviso, materializzandosi in massa
dall’iperspazio: una manovra quasi suicida per una flotta così consistente.
Prima ancora di poter suonare qualunque allarme, le navi della Repubblica
si erano ritrovate bombardate da tre incrociatori Dreadnaught, due navi da
guerra corsare, decine d’intercettori e una schiera di caccia Buzzard. E alla
testa dell’attacco c’era l’ammiraglia della Confraternita, il Destroyer Sith
Nightfall.
Lord Kaan dirigeva l’attacco nella sua sfera di meditazione a bordo della
Nightfall. Dall’interno della camera poteva comunicare con una qualunque
delle altre navi, trasmettendo gli ordini con la consapevolezza che sarebbero
stati eseguiti all’istante e alla lettera. La camera era animata da luci e suoni:
monitor luminosi e schermi lampeggianti trillavano in modo incessante per
avvisarlo dei continui aggiornamenti sullo stato della battaglia.
Il Signore Oscuro, tuttavia, non rivolgeva mai neppure uno sguardo agli
schermi. Le sue percezioni si estendevano ben oltre la sfera di meditazione
e al di là dei dati che gli strumenti elettronici riversavano. Conosceva la
posizione di ogni astronave coinvolta nel conflitto, tanto le sue quanto
quelle nemiche. Percepiva ogni raffica sparata, ogni virata e giravolta
evasiva, ogni mossa e contromossa effettuata da ciascuna nave. Spesso le
sentiva ancor prima che avvenissero.
La sua fronte era aggrottata per l’intensità della concentrazione; respirava
in lunghi rantoli affaticati. Su tutto il corpo tremante colavano gocce di
sudore. Lo sforzo era enorme, ma con l’aiuto della sfera manteneva la
concentrazione, e attingeva al Lato Oscuro della Forza per influenzare
l’esito del conflitto nonostante fosse fisicamente esausto.
L’arte della meditazione da battaglia, tramandata dagli antichi stregoni
Sith, gettava le file nemiche nello scompiglio, alimentandone la paura e la
disperazione, opprimendone il cuore e lo spirito con una cupa desolazione.
Ogni errore dell’avversario veniva ingigantito, ogni titubanza trasformata in
una catena di sbagli ed errori che travolgevano persino i più disciplinati tra i
soldati. La battaglia era appena iniziata ed era praticamente già conclusa.
La flotta della Repubblica era in subbuglio. Due delle quattro navi da
battaglia classe Hammerhead avevano perso gli scudi primari al primo giro
dei Buzzard. In quel momento stavano entrando in gioco le Dreadnaught
Sith che avevano preso di mira le Hammerhead, improvvisamente
vulnerabili, con i loro devastanti cannoni laser anteriori. Sul punto di essere
paralizzate e lasciate del tutto indifese, solo in quel momento stavano
iniziando a richiamare in fretta i propri caccia per respingere gli incrociatori
nemici in rapido avvicinamento.
La Rage e la Fury, le navi da guerra Sith, stavano tempestando le altre
due navi da battaglia. Le massicce Hammerhead della Repubblica si
affidavano alle navi d’appoggio per stabilire una linea difensiva che
respingesse gli attacchi nemici mentre si orientavano in modo da mirare coi
cannoni pesanti. Senza linee difensive erano del tutto impotenti contro le
navi corsare, molto più rapide e agili. La Rage e la Fury si avvicinarono
seguendo una rotta che riduceva al minimo il numero di cannoni utilizzabili
dalla Hammerhead contro di loro, e poi sfrecciarono di traverso alla prua
delle navi, sparando con tutte le armi. Quando le Hammerhead tentavano di
cambiar direzione per usare più cannoni, le navi corsare ruotavano e
invertivano la rotta per sorvolare di nuovo un altro vettore, causando ancora
più danni. Questa crudele manovra era soprannominata “taglio del ponte”,
e, senza il supporto di caccia o navi da guerra proprie, le navi da battaglia
non avrebbero potuto sopportarla a lungo.
Tuttavia, era improbabile che sarebbe giunto aiuto dalle navi da guerra
della Repubblica. Quella impegnata nella pattuglia di punta era già ridotta a
un rottame annerito e senza vita, annientata durante i primi istanti
dell’attacco da un colpo diretto della Nightfall prima ancora che potesse
alzare gli scudi. Le altre due erano assalite da sciami di intercettori e
martellate dall’artiglieria laser dorsale della Nightfall, e non pareva che
sarebbero durate molto più a lungo della prima.
Kaan riusciva a sentirlo: tra i soldati e i comandanti della Repubblica si
era insinuato il panico. La sua era una strategia completamente offensiva;
massimizzava i danni, ma lasciava le proprie navi esposte e vulnerabili a un
contrattacco bene organizzato. Una simile risposta, però, non era
all’orizzonte. I capitani della Repubblica non erano in grado di coordinare i
loro sforzi, di stabilire le linee di difesa. Non riuscivano neppure a
organizzare una ritirata degna di quel nome... Era impossibile fuggire.
Aveva la vittoria in pugno!
Poi, all’improvviso, la Fury non ci fu più, squarciata in un attimo da
un’esplosione. Avvenne con una rapidità tale che Kaan non l’aveva
percepito, neppure con la consapevolezza della meditazione da battaglia.
Due Hammerhead si erano girate ad angolo tangente, in qualche modo
puntando simultaneamente sul vettore della Fury. Una aveva aperto il fuoco
con i cannoni anteriori per abbattere gli scudi della nave corsara, mentre
l’altra aveva sparato una raffica di laser nello stesso punto, provocando
un’enorme esplosione che aveva distrutto la nave in un batter d’occhi. Era
una manovra brillante: due navi diverse si erano coordinate alla perfezione
per eliminare un nemico comune mentre si trovavano sotto un attacco
implacabile. E in più, era anche impossibile.
Kaan ordinò alla Rage di eseguire un’azione evasiva; la nave corsara
annullò la sua rotta di attacco proprio mentre le Hammerhead aprivano il
fuoco, evitando per un soffio di fare la stessa fine della nave gemella.
Anche le Dreadnaught che si avvicinavano alle Hammerhead danneggiate
furono costrette a ritirarsi quando quattro squadriglie complete di caccia
della Repubblica eruppero dalle stive di carico di quella che doveva essere
una preda indifesa. Persino in condizioni ideali sarebbe stato difficile far
decollare i caccia con tanta rapidità: era impensabile, in una situazione del
genere. Eppure, Kaan li sentiva: quasi cinquanta Aurek in formazione
serrata, che spingevano a fondo l’attacco contro le Dreadnaught mentre
tutte le quattro Hammerhead ripiegavano. Stavano stabilendo una linea
difensiva!
Attingendo al potere del Lato Oscuro, Lord Kaan protese la propria
volontà per toccare le menti dei nemici. Erano risolute, ma non disperate.
Alcune avevano paura, ma nessuna era in preda al panico. Non sentiva altro
che disciplina, determinazione e uno scopo. Poi avvertì qualcos’altro:
un’altra presenza nella battaglia.
Era tenue, ma era certo che non ve ne fosse traccia nei primi minuti
dell’attacco. Qualcuno stava usando la Forza per sollevare il morale delle
truppe della Repubblica; stava usando il lato luminoso per contrastare gli
effetti della meditazione da battaglia e ribaltare le sorti dello scontro. Solo
un Maestro Jedi poteva avere una tale forza per opporsi alla volontà di un
Signore dei Sith.
Anche Kopecz lo sentiva. Assicurato al sedile del suo intercettore, stava
roteando e scartando per evitare la scarica di colpi anti-caccia sparati dalle
torrette della Hammerhead quando la presenza del Maestro Jedi lo travolse
come un’onda. Lo colse impreparato, facendogli perdere la concentrazione
per un frammento di secondo. Quella distrazione sarebbe stata sufficiente a
far perdere la vita a qualunque altro pilota, ma Kopecz non era un normale
piota.
Con la rapidità concessa dall’istinto, forgiata dall’addestramento e
sostenuta dal potere del Lato Oscuro, reagì riducendo bruscamente la
velocità e spingendo con forza sulla barra. L’intercettore sobbalzò in avanti
e si abbassò in una ripida picchiata, sfuggendo di pochissimo a tre colpi
consecutivi dei cannoni ionici della Hammerhead. Uscito dalla picchiata,
scartò eseguendo un’ampia giravolta e tornò verso il più grosso dei quattro
incrociatori della Repubblica. Il Jedi era là, riusciva a sentirlo: la Forza
emanava dall’astronave come un faro. Kopecz lo avrebbe ucciso.
Sulla Nightfall, intanto, anche Kaan era impegnato in un combattimento
letale col Maestro Jedi, sebbene la loro fosse una battaglia condotta tramite
le navi e i piloti delle rispettive flotte. La Repubblica aveva più navi e una
potenza di fuoco maggiore; Kaan si era affidato all’elemento sorpresa e alla
sua meditazione da battaglia per dare il vantaggio ai Sith. In quel momento,
tuttavia, entrambi erano stati neutralizzati. Nonostante la sua forza, il
Signore Oscuro non era esperto nella rara arte della meditazione da
battaglia. Era uno fra molti talenti che si era impegnato a sviluppare
egualmente. Con ogni probabilità, invece, il Jedi avversario era stato
addestrato sin dalla nascita solo per un confronto del genere. Le sorti della
battaglia stavano lentamente ribaltandosi, e il Signore Oscuro iniziava a
disperare.
Raccolse tutta la sua volontà e liberò un’improvvisa ondata di potere del
Lato Oscuro, un tentativo disperato di riprendere il controllo del
combattimento. Spronati dall’adrenalina, dalla sete di sangue e dalla
fortissima imposizione del loro comandante, due piloti di Buzzard tentarono
di speronare la squadriglia Aurek più vicina con le loro navi, determinati a
rompere la formazione con un attacco suicida. Ma i piloti della Repubblica
non si scomposero né spezzarono i ranghi per tentare di evitare quella folle
carica: incontrarono invece l’assalto a testa bassa, facendo fuoco e
vaporizzando il nemico prima che provocasse alcun danno.
All’altro capo della battaglia, l’intercettore di Kopecz, troppo rapido e
agile per permettere ai caccia Aurek o alle torrette di inquadrarlo, penetrò
nel perimetro difensivo stabilito intorno alla nave da battaglia e al suo
prezioso carico Jedi. Entrato nelle linee della Repubblica, Kopecz condusse
la nave nel cuore dell’hangar principale: le paratie si chiusero una frazione
di secondo troppo tardi. Aprì il fuoco mentre la nave ruotava su se stessa e
slittava sul pavimento della zona di attracco, annientando quasi tutti i
soldati tanto sfortunati da essere rimasti chiusi dentro.
Mentre la nave rallentava e si fermava, il Sith aprì il portello e saltò via
dal sedile con una capriola. Atterrato con eleganza, impugnò e accese la
spada laser con un unico movimento fluido. Il primo arco descritto dalla
lama cremisi fermò i colpi di blaster dei due soldati sopravvissuti all’assalto
iniziale, respingendoli senza che causassero danni. Con un’altra piroetta, il
Twi’lek percorse i sei metri che lo separavano dagli aggressori, ponendo
fine alle loro vite con un ulteriore arco della lama.
Kopecz si fermò ad analizzare la situazione. Tutto ciò che restava
dell’equipaggio e dell’attrezzatura che sostentava i caccia della Repubblica
erano corpi maciullati e macchinari in frantumi. Sorridendo, attraversò la
stiva diretto al portello che conduceva all’interno della nave da battaglia.
Percorreva i corridoi con passo rapido e sicuro, guidato dal potere che
emanava dal Maestro Jedi come un tuk’ata attratto dall’odore di uno
squellbug. In uno dei corridoi fu intercettato da una squadra della sicurezza.
A giudicare dai distintivi rossi sulle maniche, si trattava di un gruppo di
soldati dall’addestramento speciale: le migliori guardie del corpo che
l’esercito della Repubblica avesse da offrire. Kopecz sapeva che dovevano
essere abili: uno riuscì addirittura a sparare due volte prima che tutta l’unità
cadesse sotto i colpi della sua spada laser.
Entrò in un’ampia camera con un’unica porta sul fondo. Dietro era
nascosta la sua preda, ma al centro della stanza il suo cammino era sbarrato
da un paio di Selkath, creature anfibie provenienti dal pianeta Manaan. Si
trattava tuttavia di semplici padawan, servi del Maestro Jedi. Kopecz non si
prese nemmeno la briga d’ingaggiare un combattimento con la spada laser:
sarebbe stato indegno di lui. Tese invece uno dei suoi pugni massicci e usò
la Forza per scagliare i due padawan dall’altra parte della stanza. Il primo
rimase stordito dall’impatto; quando si rialzò a fatica, la sua compagna era
già morta, strangolata dal potere del Lato Oscuro.
Il padawan superstite indietreggiò mentre Kopecz avanzava lentamente;
il Signore dei Sith attraversò la stanza a passi misurati mentre raccoglieva il
suo potere. Lo usò per scatenare una tempesta di energia, dilaniando le carni
della sfortunata vittima con saette blu e purpuree. Il corpo del Selkath quasi
danzò, scosso dalle convulsioni dell’agonia, finché il suo cadavere fumante
non crollò al suolo.
Raggiunta la porta sul retro , Kopecz l’aprì ed entrò nella piccola camera
di meditazione. Un’anziana Cereana, avvolta nelle semplici vesti marroni
dei Maestri Jedi, era seduta a gambe incrociate sul pavimento. Aveva il viso
grinzoso madido di sudore per lo sforzo dello scontro con Kaan e i Sith.
Sfinita e senza forze com’era, non poteva opporsi al Signore dei Sith che
torreggiava su di lei; eppure non accennò a fuggire e neppure a difendersi.
Solo pochi secondi la separavano dalla morte certa, ma continuò a
concentrare la sua mente e il suo potere soltanto sulla battaglia spaziale.
Mentre la falcidiava, Kopecz non poté fare a meno di ammirarne il
coraggio. Il fatto che accettasse la morte con calma privò di qualunque gioia
la sua vittoria. “La pace è una menzogna”, mormorò tra sé mentre
riattraversava i corridoi diretto alla zona di attracco e alla nave in attesa,
ansioso di andarsene prima che la Nightfall o una delle altre navi facessero
a pezzi quella Hammerhead.
La morte della Maestra Jedi ribaltò ancora una volta la situazione. La
resistenza si sgretolò, la battaglia diventò una disfatta, poi una strage. I
soldati della Repubblica, non più protetti dalla Forza, furono del tutto
sopraffatti dal terrore e dalla disperazione generati da Kaan. I forti di spirito
abbandonarono ogni speranza tranne quella di scampare alla battaglia. I più
deboli ne furono così scoraggiati da poter sperare solo in una morte rapida e
misericordiosa. I primi non ottennero ciò che volevano, i secondi invece sì.
Una volta allacciate le cinture nell’intercettore, Lord Kopecz lanciò la
nave e uscì dall’hangar solo pochi secondi prima che la Hammerhead
venisse distrutta in una grandiosa e devastante esplosione.
Quel giorno, i Sith riportarono perdite più ingenti del previsto, ma la loro
vittoria fu assoluta. Nessuna nave, nessun pilota o soldato della Repubblica
uscirono vivi dalla Prima Battaglia di Ruusan.
CAPITOLO 10

Il potere di Bane stava crescendo. In pochi mesi di addestramento aveva


appreso molto della Forza e del potere del Lato Oscuro. Fisicamente si
sentiva più forte che mai. Durante le corse mattutine riusciva a proseguire
quasi alla massima velocità per cinque chilometri prima di avere anche solo
il fiatone. Aveva i riflessi più rapidi, la mente e i sensi più acuti di quanto
avrebbe mai potuto immaginare.
Quando era necessario poteva convogliare la Forza nel proprio corpo,
dandosi vere e proprie sferzate di energia per compiere imprese che
parevano impossibili: eseguire salti mortali da fermo, sopravvivere illeso a
cadute da altezze incredibili, saltare verticalmente ad altezze di dieci o più
metri.
In ogni momento era del tutto consapevole dell’ambiente che lo
circondava, e percepiva la presenza degli altri. A volte riusciva persino a
intuirne le intenzioni, vaghe impressioni dei loro stessi pensieri. Era in
grado di far levitare oggetti più grandi e per periodi più lunghi. Il suo potere
cresceva a ogni lezione; diventava sempre più facile comandare la Forza e
piegarla alla propria volontà. E ogni settimana Bane si rendeva conto di
aver sorpassato un altro degli apprendisti che prima erano stati in vantaggio
su di lui.
Passava sempre meno tempo negli archivi a studiare le antiche
pergamene. Il fascino che avevano emanato in principio era svanito,
spazzato via dall’intensa vita dell’Accademia. Assorbire la sapienza di
Maestri defunti da tempo era un piacere freddo e sterile. Le cronache non
potevano competere con l’esaltazione e il senso di potere provati quando
usava materialmente la Forza. Bane faceva parte dell’Accademia e della
Confraternita dell’Oscurità: era parte del presente, non di un lontano
passato.
Iniziò a trascorrere più tempo con gli altri studenti. Sapeva che alcuni
erano invidiosi, benché nessuno osasse agire contro di lui. La competizione
fra allievi era incoraggiata, e i Maestri lasciavano che la rivalità si
trasformasse nell’ostilità e nell’odio che alimentavano il Lato Oscuro, ma
c’erano punizioni molto severe per gli apprendisti che venivano sorpresi a
interferire con l’addestramento di un altro o ad ostacolarlo.
Naturalmente, tutti gli apprendisti capivano che, in realtà, era la
negligenza che permetteva di coglierli sul fatto a essere punita. L’inganno
era tacitamente accettato, a patto che fosse messo in atto con astuzia tale
che gli istruttori non lo notassero. Gli eccezionali progressi di Bane lo
proteggevano dalle macchinazioni dei suoi compagni; nessuno poteva agire
contro di lui senza attirare l’attenzione di Qordis o degli altri Signori dei
Sith.
Quella stessa attenzione, purtroppo, rendeva difficile anche a Bane stesso
di ricorrere a inganni, manipolazioni o altre simili tecniche per migliorare la
sua levatura nell’Accademia.
Tuttavia, c’era un metodo legittimo con cui gli studenti potevano
abbattere un rivale: il combattimento con la spada laser. Arma d’elezione
sia dei Jedi che dei Sith, non era soltanto una lama di energia in grado di
tagliare quasi ogni materiale nella galassia conosciuta. La spada laser era
un’estensione di chi la utilizzava e del suo controllo sulla Forza. Solo chi
vantava una severa disciplina mentale e una totale padronanza del proprio
corpo poteva utilizzare l’arma con efficacia... o così gli era stato insegnato.
Pochi studenti possedevano già delle spade laser: dovevano ancora
dimostrarsene degni agli occhi di Qordis e degli altri Maestri. Ciò tuttavia
non impediva a Lord Kas’im, il Maestro di Spada Twi’lek, d’istruirli negli
stili e nelle tecniche che avrebbero usato una volta guadagnate finalmente le
loro armi. Ogni mattina gli apprendisti si radunavano sull’ampio tetto
scoperto del tempio per eseguire gli esercizi e le serie di movimenti sotto il
suo sguardo vigile, impegnandosi ad apprendere le esotiche movenze che li
avrebbero condotti alla vittoria sul campo di battaglia.
Il sudore già colava sulla fronte di Bane, finendogli negli occhi mentre il
suo corpo eseguiva i vari esercizi. Sbatté le ciglia per scacciare il sudore e
raddoppiò i suoi sforzi, fendendo l’aria di fronte a sé più e più volte con la
spada da allenamento. Gli altri apprendisti intorno a lui facevano lo stesso;
ognuno si sforzava di superare i propri limiti fisici e diventare più di un
semplice guerriero con un’arma. L’obiettivo era trasformarsi in
un’estensione del Lato Oscuro stesso.
Bane aveva iniziato apprendendo le tecniche di base comuni a tutte le
sette forme di spada laser tradizionali. Le prime settimane erano trascorse
eseguendo infinite ripetizioni di posture difensive, colpi dall’alto, parate e
contrattacchi. Lord Kas’im, osservando le inclinazioni naturali degli
studenti mentre apprendevano le basi, determinava quale forma si sarebbe
adattata meglio al loro stile. Per Bane aveva scelto la Djem So, la Quinta
Forma, che poneva l’accento su forza e potenza, consentendogli di usare
stazza e muscoli per trarne il massimo vantaggio. Solo dopo che fu in grado
di eseguire ogni mossa della Djem So in modo che Kas’im fosse soddisfatto
gli fu consentito di iniziare l’addestramento vero e proprio.
A quel punto trascorreva quasi un’ora ogni mattina, insieme agli altri
studenti dell’Accademia, a far pratica con le sue tecniche usando la spada
laser sotto l’attenta sorveglianza del Maestro di Spada. Le spade da
allenamento, in duracciaio e coi bordi smussati, erano state create
appositamente perché peso e bilanciamento imitassero i raggi di energia
proiettati dalle vere spade laser. Un colpo forte poteva causare gravi danni,
ma poiché non era così che funzionava una spada laser, ogni lama da
allenamento era inoltre ricoperta da milioni di aghi pieni di tossina, troppo
piccoli da vedere a occhio nudo e ricavati dai microscopici aculei dorsali
del letale pelko, un insetto reperibile soltanto su Korriban stesso, nelle
profondità delle sabbie desertiche nella Valle dei Signori Oscuri. A un
impatto diretto, gli aghi minuscoli riuscivano a perforare qualunque tessuto:
il veleno del pelko riempiva all’istante la pelle di vesciche e bruciature. Il
punto colpito subiva una paralisi momentanea, rendendo inservibili gli arti.
Era un modo eccellente per imitare gli effetti della perdita di una mano, di
un braccio o di una gamba per un fendente di spada laser.
L’aria mattutina era colma dei versi di fatica degli apprendisti e dei ronzii
delle lame che la fendevano. In un certo senso, ricordava a Bane il suo
addestramento militare: un gruppo di soldati uniti dalla ripetizione degli
esercizi finché le mosse non diventavano istintive.
Ma lì, all’Accademia, non c’era alcun cameratismo. Gli apprendisti erano
rivali e nient’altro. In molti sensi non era poi così diverso dalle giornate su
Apatros. Ma quel nuovo isolamento valeva la pena, perché gli venivano
insegnati i segreti del Lato Oscuro.
“Sbagliato!”, gridò Kas’im tutto a un tratto. Stava camminando avanti e
indietro lungo le file di apprendisti che si allenavano, ma si era fermato
proprio accanto a Bane. “Devi colpire con crudeltà e precisione!” Tese un
braccio e afferrò Bane al polso, rigirandoglielo bruscamente e modificando
l’angolazione della lama. “Stai colpendo troppo in alto!”, disse duramente.
“Così non c’è margine di errore!”
Restò al fianco di Bane per qualche tempo, a osservarlo per assicurarsi
che avesse appreso a dovere la lezione. Dopo vari violenti affondi eseguiti
con la presa modificata, il Maestro di Spada annuì e proseguì il suo giro.
Bane ripeté senza posa quella singola mossa, badando a mantenere
l’altezza e l’angolazione della lama esattamente come gli aveva mostrato
Kas’im, educando i muscoli tramite innumerevoli ripetizioni finché non
riuscirono a replicarla ogni singola volta alla perfezione. Solo allora
avrebbe potuto incorporarla in manovre più complesse.
Ben presto, quell’esercizio gli diede il fiatone. Le sessioni di allenamento
di Kas’im non erano nulla, in senso fisico, a confronto del trapanare una
vena di cortosite con un martello idraulico per ore e ore; risultavano però
ben più estenuanti in altri sensi. Esigevano un’intensa concentrazione
mentale, un’attenzione al dettaglio che andava ben oltre quanto fosse
visibile nell’immediato. La vera padronanza della lama richiedeva sia la
mente che il corpo.
Quando due Maestri ingaggiavano battaglia con la spada laser, tutto
avveniva troppo in fretta perché l’occhio vedesse o la mente reagisse.
Bisognava agire d’istinto: il corpo doveva essere addestrato a muoversi e
reagire senza pensieri coscienti. Per riuscirci, Kas’im faceva eseguire ai
suoi studenti delle sequenze, serie di colpi multipli e parate orchestrate
attentamente e tratte dallo stile scelto per loro. Erano state pensate dal
Maestro di Spada stesso affinché ogni manovra fluisse nella successiva,
massimizzando l’efficienza in attacco e riducendo al minimo l’apertura
difensiva.
La sequenza in combattimento consentiva agli studenti di liberare la
mente dai pensieri, mentre il corpo continuava a eseguire automaticamente
quelle mosse. Le sequenze erano più efficaci e molto più veloci che
considerare ed eseguire ogni colpo o parata singolarmente, offrendo enormi
vantaggi su un avversario che non avesse familiarità con quella tecnica.
Assimilare una nuova sequenza in modo da poterla eseguire
correttamente, tuttavia, era un processo lungo e laborioso. Molti
impiegavano da due a tre settimane di allenamenti ed esercitazioni, di più se
la sequenza derivava da uno stile che lo studente stava ancora cercando di
padroneggiare. E persino il minimo sbaglio nella più minuscola mossa
poteva rendere inutile l’intera sequenza.
Kas’im aveva individuato una pecca che poteva essere fatale nella
tecnica di Bane. E lui era deciso a correggerla, anche se avesse significato
dedicarvi ore di pratica a parte. Bane inseguiva la perfezione in modo
instancabile, non solo nell’allenamento alla battaglia, ma in tutti i suoi
studi. Aveva una missione.
“Basta così”, li richiamò la voce di Kas’im. A quell’unico ordine, tutti gli
studenti interruppero ciò che stavano facendo e rivolsero l’attenzione al
Maestro. Era in testa a tutto l’assembramento, rivolto verso di loro.
“Potete riposare per dieci minuti”, disse. “Poi inizieranno le sfide”.
Assieme a quasi tutti gli altri, Bane assunse una posizione meditativa,
seduto a gambe incrociate. Posata la spada da allenamento a terra accanto a
sé, chiuse gli occhi e scivolò in una leggera trance, attingendo al Lato
Oscuro per rigenerare i muscoli dolenti e ristorare la mente stanca.
Lasciò che il potere scorresse dentro di lui, e che la mente vagasse alla
deriva. Questa riandò, come spesso faceva, alla prima volta in cui aveva
sfiorato il Lato Oscuro; non quell’andare a tentoni che gli era capitato su
Apatros o quand’era un soldato, ma una reale consapevolezza della Forza.
Era successo il suo terzo giorno all’Accademia. Stava applicando le
tecniche di meditazione apprese il giorno addietro, quando all’improvviso
l’aveva sentita. Era stata come l’esplosione di una diga, come un fiume
scatenato che lo inondasse spazzando via ogni fallimento: la debolezza, la
paura, i dubbi che nutriva. In quell’istante aveva compreso perché si
trovasse lì. In quel momento la trasformazione da Des in Bane, da comune
mortale a Sith, era iniziata davvero.
Attraverso il potere, guadagno la vittoria.
Attraverso la vittoria, spezzo le mie catene.
Bane conosceva molto bene le catene. Alcune erano evidenti: il padre
maltrattatore e indifferente, i tremendi turni in miniera, i debiti rimessi a
una compagnia anonima e spietata. Altre erano più sottili: la Repubblica e
le sue promesse idealistiche di una vita migliore che non si concretizzavano
mai, i Jedi e il loro giuramento di eliminare l’ingiustizia dalla galassia.
Persino i suoi amici nei Camminatori del Buio erano stati una sorta di
catena. Aveva tenuto a loro e se n’era sentito responsabile. In definitiva,
però, a cosa gli erano serviti quando aveva avuto più bisogno di loro?
In quel momento capiva che gli affetti personali potevano soltanto
frenarlo. Gli amici erano un peso: doveva contare soltanto su se stesso.
Doveva sviluppare il proprio potenziale, il proprio potere. Alla fine, tutto in
realtà si riconduceva a quello. Al potere. E il Lato Oscuro, sopra a tutto,
prometteva potere.
Udì i suoni di vari movimenti intorno a sé, il lieve frusciare di vesti
prodotto dagli altri apprendisti che si rialzavano dalla posizione meditativa
per raggiungere l’arena delle sfide. Raccolse la spada da allenamento e si
alzò per unirsi a loro.
Al termine di ogni sessione la classe si raccoglieva in un cerchio ampio e
irregolare in cima al tempio. Qualunque studente poteva entrare nel cerchio
e sfidare qualcuno. Kas’im osservava attentamente i duelli, e una volta
conclusi analizzava le azioni per la classe. Chi vinceva sarebbe stato lodato
per le proprie prestazioni e la sua posizione nella gerarchia informale
dell’Accademia sarebbe salita. Chi perdeva avrebbe ricevuto un castigo per
la sua debolezza, oltre a perdere prestigio.
Quando Bane aveva cominciato ad allenarsi, molti studenti lo avevano
ansiosamente chiamato a sfidarli. Sapevano che era un neofita nell’uso della
Forza ed erano desiderosi di abbattere quel gigante muscoloso davanti agli
altri compagni. All’inizio aveva declinato quelle sfide. Sapeva che era il
modo più rapido di acquistare prestigio all’Accademia, ma non era tanto
stupido da farsi attirare in una battaglia che non poteva vincere.
Negli scorsi mesi, tuttavia, aveva lavorato duramente per imparare il suo
stile e raffinare la tecnica. Aveva appreso in fretta nuove sequenze, e
quando lo stesso Kas’im aveva commentato i suoi progressi Bane si era
sentito abbastanza sicuro da iniziare ad accettare le sfide. Non ne usciva
sempre vittorioso, ma comunque vinceva più duelli di quanti ne perdesse e
stava scalando lentamente la piramide. Quel giorno si sentiva pronto a fare
un altro passo.
Gli apprendisti erano disposti su tre file, e coi loro corpi formavano un
anello intorno a uno spiazzo al centro, di circa dieci metri di diametro.
Kas’im entrò nel mezzo. Non parlò, ma si limitò a piegare il capo, segno
che era tempo d’iniziare le sfide. Bane entrò nel perimetro prima che
chiunque potesse muoversi.
“Sfido Fohargh”, annunciò con toni altisonanti.
“Accetto la sfida”, fu la risposta che venne da un punto sul lato opposto
della folla. Gli apprendisti aprirono la strada per lasciar passare lo sfidato.
Kas’im rivolse un leggero inchino a ciascun combattente e si spostò
sull’orlo dell’area per dar loro spazio.
Fohargh era un Makurth. In molti sensi ricordava a Bane i Trandoshani
contro cui aveva combattuto quando era nei Camminatori. Entrambe le
specie erano rettili umanoidi ricoperti di dure scaglie verdi; in più, però,
dalla testa dei Makurth spuntavano quattro corna ricurve.
All’inizio del suo addestramento, Bane aveva combattuto contro Fohargh
e perso duramente.
Il Makurth era una creatura notturna. Tuttavia, come i minatori del turno
di notte su Apatros, si era abituato a orari innaturali per addestrarsi col resto
degli apprendisti dell’Accademia. Durante il loro primo duello, Bane aveva
sottovalutato Fohargh, aspettandosi che nelle ore diurne fosse lento e
impigrito. Non avrebbe commesso lo stesso sbaglio due volte.
Mentre Kas’im e gli apprendisti li osservavano in silenzio, i due
combattenti si girarono intorno nell’arena, tenendo le spade protese davanti
a sé nella posa di guardia standard. Il Makurth emetteva ringhi e grugniti
dalle narici dilatate per tentare d’intimidire l’avversario umano. Di tanto in
tanto, erompeva in un breve grido e scuoteva la testa cornuta, digrignando
per un attimo i denti feroci. La volta precedente, quando aveva sfidato quel
demone squamoso e sbuffante, Bane era rimasto impressionato dalla
messinscena di Fohargh. Ora però si limitava a ignorarlo.
Bane partì all’attacco con un semplice colpo dall’alto in basso, ma
Fohargh rispose con una rapida parata che deviò il colpo di lato. Anziché il
crepitio ronzante prodotto dall’incrocio di lame di pura energia, si udì un
profondo clangore quando le due lame si scontrarono. I combattenti si
allontanarono immediatamente uno dall’altro e ripresero la posizione di
guardia.
Bane si slanciò in avanti, alzando diagonalmente la lama da destra a
sinistra in un lungo e rapido arco. Fohargh riuscì a deviare l’impatto con la
propria arma, ma perse l’equilibro e barcollò indietro. Bane tentò di non
perdere il vantaggio, sollevando la spada da allenamento in un arco da
sinistra a destra. L’avversario si allontanò con una piroetta e indietreggiò
rapidamente per creare spazio. Bane interruppe la sequenza a metà e tornò
in posizione di guardia.
Su Apatros, la sua capacità latente di usare la Forza gli aveva permesso
di prevedere le mosse del nemico e di reagire. Tuttavia, in quel luogo tutti
avevano in comune quello stesso vantaggio. Ne risultava che per ottenere la
vittoria fosse necessaria una combinazione di Forza e abilità fisica.
Nei mesi passati, Bane si era impegnato ad acquisire quell’abilità. Man
mano che cresceva, diventava in grado di dedicare quantità sempre minori
di energia mentale alle azioni fisiche dell’affondo, della parata, del
contrattacco, cosa che gli consentiva di tenere la mente concentrata per
usare la Forza e prevedere le mosse dell’avversario, obnubilandone al
tempo stesso le precognizioni.
Nel precedente combattimento tra lui e Fohargh, Bane era stato un
novizio, e aveva imparato solo una manciata di sequenze. In quel momento
ne conosceva quasi cento ed era capace di agganciare fluidamente l’inizio
di una nuova sequenza alla fine dell’ultima, disponendo così di una più
ampia gamma di combinazioni offensive e difensive. E la maggior quantità
di opzioni rendeva più difficile usare la Forza per prevedere le sue azioni.
Nonostante l’aspetto terrorizzante, Fohargh era più piccolo e leggero del
suo avversario umano. Superato fisicamente dalla forza bruta della Quinta
Forma di Bane, era costretto ad affidarsi allo stile difensivo della Terza
Forma per tenere a bada gli attacchi incalzanti del massiccio avversario.
Roteando la lama con rapidità, Bane spiccò un salto molto alto e
precipitò verso terra. Fohargh parò l’attacco, ma fu gettato al suolo. Si
rotolò sulla schiena e riuscì a stento a sollevare la spada in tempo per
bloccare il successivo fendente di Bane. I colpi di quest’ultimo si
abbatterono come una pioggia su di lui, in un coro di clangori prodotti
dall’incontro del metallo. Il Makurth impedì che gli sferrasse un colpo
diretto con una magistrale raffica difensiva, poi sferrò un calcio e lo
sbilanciò, lasciando entrambi stesi a terra.
Saltarono in piedi simultaneamente, come immagini riflesse, e le loro
spade s’incontrarono con uno schianto assordante prima di staccarsi di
nuovo. Dalla folla assiepata intorno a loro provenivano mormorii e
borbottii, ma Bane fece del suo meglio per ignorarli. Avevano creduto che
la battaglia fosse conclusa... e lo stesso credeva lui. Era deluso di non essere
riuscito a finire l’avversario a terra, ma sapeva che la vittoria era vicina. La
sopravvivenza di Fohargh gli era costata un caro prezzo: aveva cominciato
a respirare affannosamente, le spalle ingobbite per la fatica.
Bane si scagliò di nuovo contro Fohargh. Questa volta, tuttavia, il
Makurth non indietreggiò. Avanzò con un rapido affondo, passando dalla
Terza Forma alla Seconda, più precisa e aggressiva. Bane ne fu colto alla
sprovvista e riconobbe quel cambiamento un microsecondo troppo tardi. Il
tentativo di parata respinse la punta della lama dal suo petto, ma in
compenso gli passò di taglio sulla spalla destra.
La folla restò senza fiato; Fohargh lanciò un grido di vittoria e Bane urlò
di dolore, mentre la spada gli scivolava via dalle dita improvvisamente
inerti e cadeva al suolo. Senza pensare, usò l’altra mano per spingere
l’avversario al petto. Fohargh indietreggiò annaspando e Bane si portò al
sicuro con una capriola.
Rimettendosi in piedi, protese poi la mano sinistra verso la spada che
giaceva al suolo a tre metri da lui: quella si sollevò, volandogli nel palmo, e
Bane assunse di nuovo la posizione di guardia col braccio destro che gli
penzolava inerte al fianco. Alcuni Sith imparavano a combattere con
entrambe le mani, ma lui non aveva ancora raggiunto quello stadio
avanzato. Impugnare l’arma in quel modo gli sembrava scomodo e
impacciato. Da mancino non avrebbe mai potuto competere con Fohargh: il
combattimento era concluso.
Anche il suo avversario doveva essersene accorto. “La sconfitta ha un
sapore amaro, umano”, ringhiò in Basic con voce profonda e minacciosa.
“Io ho vinto. Tu hai perso”.
Non stava chiedendo a Bane di arrendersi: la resa non era mai
un’opzione. Lo stava semplicemente provocando, umiliandolo davanti agli
altri studenti.
“Ti sei allenato settimane per sfidarmi”, continuò Fohard, deridendolo.
“Hai fallito. Ho vinto di nuovo io”.
“Allora vieni a finirmi!”, ribatté Bane con rabbia. Non c’era molto altro
che potesse dire. Ogni cosa che il suo nemico aveva detto in quel Basic dal
pesante accento era vera, e le parole bruciavano molto più di qualunque ago
avvelenato sulla spada da allenamento.
“Lo decido io quando finirti”, rispose il Makurth senza abboccare
all’amo.
Bane si sentiva addosso gli sguardi penetranti degli altri apprendisti:
poteva sentirli divorare la sua sofferenza. Ce l’avevano con lui, con le
attenzioni che riceveva dai Maestri, e ora godevano del suo fallimento.
“Sei debole”, spiegò Fohargh, tracciando distrattamente un complesso
disegno con la spada. “E prevedibile”.
Smettila!, avrebbe voluto gridare Bane. Basta così! Finiscimi!
Nonostante l’emozione che cresceva in lui, però, si rifiutò di dare al suo
avversario la soddisfazione di profferire altre parole; lasciò invece cadere a
terra la spada ormai inutile. Sullo sfondo poteva vedere il Maestro di Spada
osservare con attenzione, curioso di vedere come il confronto avrebbe
raggiunto la sua inevitabile conclusione.
“I Maestri ti vezzeggiano. Ti danno tempo e attenzioni in più. Più che
agli altri. Più che a me”.
Ormai Bane quasi non udiva più quelle parole. Il battito del suo cuore era
così rumoroso da fargli sentire lo scorrere del sangue nelle vene. Tremando
di rabbia impotente, chinò il capo e cadde in ginocchio, esponendo il collo
liscio.
“E nonostante questo, mi sei ancora inferiore... Bane, rovina dei Sith”.
Rovina. Riudire quella parola spinse Bane ad alzare lo sguardo. Era la
stessa che usava suo padre per apostrofarlo.
“Il mio nome è solo mio”, sibilò Bane, con voce bassa e minacciosa. “E
nessuno lo userà contro di me”.
O Fohargh non lo aveva sentito, oppure non gli importava. Avanzò di un
passo, lentamente. “Bane. Inutile. Un’insignificante nullità. I Maestri hanno
perso tempo con te; tempo che sarebbe stato meglio speso con altri. Il tuo
nome è azzeccato: sei davvero la rovina di quest’Accademia!”
“No!”, urlò Bane, tendendo in avanti la mano sana a palmo aperto mentre
Fohargh balzava verso di lui per finirlo. L’energia del Lato Oscuro gli
eruppe dalla mano e colse l’avversario a mezz’aria, scagliandolo
all’indietro, verso la folla, dove atterrò ai piedi di Kas’im.
Il Maestro osservava con espressione affascinata ma attenta. Bane strinse
lentamente il pugno e si alzò. Fohargh, a terra davanti a lui, si contorceva
nell’agonia, afferrandosi la gola e ansimando in cerca d’aria.
Diversamente da lui, Bane non aveva nulla da dire. Strinse il pugno più
forte, sentendo la Forza galoppargli dentro come un vento divino mentre
prosciugava il nemico della vita. I talloni di Fohargh, agitato dalle
convulsioni, batterono un ritmo irregolare sul pavimento di pietra del
tempio. Iniziò a gorgogliare, e tra le labbra gli comparve una spuma
rossastra.
“Basta così, Bane”, disse Kas’im con voce fredda e inespressiva. Pur
trovandosi a pochi centimetri dagli spasmi di agonia del suo studente, aveva
gli occhi fissi su quello ancora in piedi.
Nelle profondità di Bane eruppe un’ultima ondata di potere, che fuoriuscì
deflagrando. In risposta, il corpo di Fohargh s’irrigidì e gli occhi si
rovesciarono all’indietro. Bane allentò la presa sulla Forza e sull’avversario,
e il cadavere del Makurth si afflosciò, abbandonato dagli ultimi aneliti di
vita.
“Ora basta”, disse Bane, volgendo le spalle al morto e dirigendosi verso
le scale che entravano nel tempio. Il cerchio di studenti gli aprì in fretta un
varco. Non ebbe bisogno di guardarsi indietro per sapere che Kas’im lo
scrutava con grande interesse.

Bane avvertì la presenza di qualcuno che lo seguiva per le scale del tetto
molto prima di udirne i passi. Non cambiò andatura, ma si fermò al primo
pianerottolo e si voltò verso di esso. Si sarebbe aspettato di vedere Lord
Kas’im, ma anziché il Maestro si ritrovò a fissare le iridi ambrate di Sirak,
un altro apprendista dell’Accademia; anzi, il migliore di tutta l’Accademia.
Sirak era uno Zabrak, uno dei tre che studiavano su Korriban. Gli Zabrak
tendevano a essere ambiziosi, determinati e arroganti: tratti che forse
spiegavano perché il Lato Oscuro fosse tanto potente negli esponenti della
specie sensibili alla Forza. Sirak era la perfetta incarnazione di tutte quelle
caratteristiche, ed era di gran lunga il più forte dei tre apprendisti. Ovunque
Sirak andasse, in genere gli altri due lo seguivano, standogli alle calcagna
come servi obbedienti. Erano un trio pittoresco: rossi di pelle Llokay e
Yevra, giallo chiaro Sirak. In quel momento, però, gli altri due erano
assenti.
Correva voce che Sirak avesse iniziato a studiare le arti del Lato Oscuro
sotto Lord Qordis quasi vent’anni addietro, da ben prima che l’Accademia
su Korriban venisse riaperta. Bane non sapeva se le voci fossero vere e non
aveva ritenuto saggio fare domande in merito. Lo Zabrak iridoniano era sia
potente che pericoloso; fino ad allora, Bane aveva fatto del suo meglio per
non attirare l’attenzione dello studente più forte dell’Accademia. Ma a
quanto pareva, quella strategia non era più praticabile.
La scarica di adrenalina provata nel recidere la vita di Fohargh stava
svanendo assieme alla sicurezza e al senso d’invincibilità che avevano
condotto a quella morte drammatica. Bane non si sentiva propriamente
spaventato dallo Zabrak che si avvicinava, ma di certo era circospetto.
Al fioco bagliore delle torce nel tempio, la pelle giallo chiaro di Sirak
aveva assunto una tonalità cerea e malaticcia che riportò i pensieri di Bane,
senza volerlo, al suo primo anno di lavoro nelle miniere su Apatros. Una
squadra di cinque persone, tre uomini e due donne, era rimasta intrappolata
da una frana. Erano sopravvissuti al crollo del tunnel fuggendo in una
camera di sicurezza rinforzata ricavata nella roccia, ma i gas tossici liberati
dal fenomeno erano trapelati in quel rifugio, uccidendoli tutti prima che le
squadre di salvataggio potessero tirarli fuori. Il colorito dei cadaveri rigonfi
era identico a quello di Sirak: il colore di una morte lenta e dolorosa.
Bane scosse la testa, respingendo quel ricordo. Apparteneva a Des, e lui
non c’era più. “Che cosa vuoi?”, domandò cercando di mantenere la calma.
“Sai perché mi trovo qui”, fu la glaciale risposta. “Fohargh”.
“Era un tuo amico?” Bane era sinceramente confuso. A eccezione dei
suoi simili Zabrak, Sirak interagiva raramente con gli altri studenti. Anzi,
molte delle accuse rivolte da Fohargh a Bane di un trattamento di favore da
parte dei Maestri potevano facilmente valere anche per Sirak.
“Il Makurth non era un amico né un nemico”, rispose in tono altezzoso.
“Non meritava la mia attenzione, come te. Almeno finora”.
L’unica replica di Bane fu uno sguardo fisso e inamovibile. La luce
vibrante delle torce che si rifletteva nelle pupille dello Zabrak dava
l’impressione che delle lingue di fiamma gli lambissero la fronte.
“Sei un avversario affascinante”, bisbigliò Sirak, avvicinandosi di un
passo. “Sei formidabile... almeno in confronto agli altri cosiddetti
apprendisti. Sappi che ti osservo, adesso. E aspetto”.
Allungò lentamente un braccio e premette il dito sul petto di Bane; questi
dovette resistere all’impulso di fare un passo indietro.
“Io non sfido nessuno”, continuò lo Zabrak. “Non ho bisogno di mettermi
alla prova contro avversari inferiori”. Dopo il lampo di un sorriso crudele,
abbassò il dito e fece un passo indietro. “Tuttavia, quando t’illuderai di
essere pronto, inevitabilmente mi sfiderai. Aspetterò con impazienza quel
momento”.
Detto questo, passò accanto a Bane sull’angusto pianerottolo, urtandolo
leggermente con la spalla come se non se ne fosse accorto e poi
continuando a scendere le scale fino al piano inferiore.
A Bane non sfuggì il messaggio contenuto in quella conversazione.
Sapeva che Sirak stava tentando d’intimidirlo, d’incitarlo a uno scontro per
cui non era pronto. Non sarebbe caduto in quella trappola. Rimase invece
immobile sul pianerottolo, rifiutandosi di girarsi per guardare Sirak
andarsene. Si mosse di nuovo solo quando udì il rumore del resto della
classe che scendeva dal tetto: si girò e continuò a scendere le scale verso i
livelli inferiori e l’intimità della sua stanza.
CAPITOLO 11

Il mattino seguente Bane non si ritrovò con gli altri studenti che si
esercitavano sul tetto del tempio. Lord Qordis voleva parlargli. In privato.
Diretto all’incontro, percorreva i corridoi praticamente vuoti
dell’Accademia, esteriormente calmo e fiducioso. Dentro di sé, invece, era
tutto l’opposto.
Aveva rivissuto il duello nei suoi ricordi più e più volte, per tutta la notte,
mentre giaceva sul letto nel silenzio e nell’oscurità della sua stanza. Libero
dall’emozione della battaglia, sapeva di essersi spinto troppo oltre. Aveva
dimostrato la superiorità su Fohargh bloccandolo con la Forza; aveva
ottenuto il dun möch. Il Makurth non avrebbe più osato sfidarlo. Eppure,
per qualche motivo Bane non era riuscito a fermarsi. Non aveva voluto
farlo.
All’inizio, le sue azioni non gli avevano causato alcun senso di colpa.
Una volta calmatosi, tuttavia, una parte di sé non riusciva a non pensare di
aver commesso qualcosa di sbagliato. Davvero Fohargh meritava di morire?
Un’altra parte di sé, però, rifiutava di accettare il senso di colpa. Non
provava simpatia per il Makurth, assolutamente nessun tipo di sentimento.
Fohargh non era stato che un ostacolo per i suoi progressi. Un ostacolo che
era stato eliminato.
In quel momento si era abbandonato completamente al Lato Oscuro. Era
stato qualcosa di più che semplice rabbia o sete di sangue: era in profondità,
nel cuore stesso del suo essere. Aveva perso totalmente la ragione e il
controllo... ma gli era sembrato giusto così.
Bane aveva trascorso una lunga notte insonne nel tentativo di riconciliare
i due opposti del trionfo e del rimorso. Ma quando quel mattino era arrivata
la convocazione, il suo conflitto interiore era stato spazzato via da
preoccupazioni più immediate.
La morte di Fohargh avrebbe avuto delle ripercussioni. Il combattimento
era inteso per mettere alla prova gli apprendisti, per indurirne l’animo
tramite il dolore e la fatica. Non per uccidere. Ogni singolo discepolo
dell’Accademia, da Sirak fino al più infimo degli studenti, aveva la capacità
di diventare un Maestro. Ciascuno possedeva un raro talento per il Lato
Oscuro, un dono che avrebbe dovuto essere usato contro i Jedi, non gli altri
apprendisti.
Uccidendo Fohargh, Bane aveva assottigliato le file dei potenziali
Maestri Sith; aveva inferto un grave colpo allo sforzo bellico. Ogni
apprendista dell’Accademia era più prezioso di un’intera divisione di
soldati Sith. Aveva distrutto uno strumento inestimabile e, sospettava,
sarebbe stato severamente punito per questo.
Mentre marciava verso l’incontro che avrebbe potuto decretare il suo
destino, tentò di scacciare dalla mente sia la paura che i sensi di colpa.
Niente di ciò che poteva fare in quel momento avrebbe riportato indietro
Fohargh. Il Makurth non c’era più, ma Bane sì, ed era un sopravvissuto.
Doveva essere forte. Doveva trovare un modo per giustificare le sue azioni
a Lord Qordis.
Stava già raccogliendo le sue argomentazioni. Fohargh era stato debole.
Bane non lo aveva semplicemente ucciso: lo aveva smascherato. Tra i
compiti di Qordis e degli altri Maestri c’era anche l’esortare alla rivalità e al
disaccordo. Comprendevano il valore della sfida e della competizione: chi
mostrava certe promesse, innalzandosi su tutti gli altri, veniva premiato.
Riceveva un’istruzione personale dai Maestri per realizzare il proprio
potenziale. Chi non ci riusciva restava indietro. Erano queste le vie del Lato
Oscuro.
La morte di Fohargh non era che un’estensione naturale di quella
filosofia. Era il fallimento definitivo: il suo fallimento. Perché Bane
avrebbe dovuto essere incolpato per la debolezza di un altro?
Accelerò il passo e serrò i denti con rabbiosa frustrazione. Non c’era da
meravigliarsi che si trovasse in uno stato così conflittuale. Gli insegnamenti
dell’Accademia si contraddicevano da soli: il Lato Oscuro non consentiva
pietà né perdono, eppure ci si aspettava che gli apprendisti si trattenessero
dopo aver avuto la meglio sull’avversario in un duello. Era innaturale.
Era giunto sulla soglia della stanza di Qordis. Esitò, in bilico tra la paura
della punizione e la rabbia per la situazione impossibile in cui ogni giorno
venivano posti lui e gli altri apprendisti.
Alla fine, decise che la rabbia gli sarebbe stata più utile.
Bussò con decisione alla porta, poi l’aprì quando dall’interno gli fu
ordinato di entrare. Qordis era inginocchiato al centro della camera,
immerso nella meditazione. Bane si era già trovato in quella stanza, ma non
riuscì a non stupirsi per la sua opulenza. Alle pareti erano appesi arazzi e
tendaggi costosi. Bracieri e turiboli d’oro, in cui bruciava un pesante
incenso, erano sparsi in giro a illuminare l’aria torbida. In un angolo era
sistemato un letto ampio e lussuoso; in un altro c’era un tavolo di ossidiana
riccamente intagliato, con sopra un piccolo scrigno.
Quest’ultimo aveva il coperchio sollevato a rivelare i gioielli che
conteneva: collane e ciondoli di metalli preziosi, anelli d’oro e platino
tempestati di splendide gemme. Qordis si faceva in quattro per circondarsi
di beni materiali e dimostrazioni di ricchezza, e ancor di più si sforzava per
accertarsi che gli altri lo notassero. Bane sospettava che il Signore dei Sith,
a un certo livello, ricavasse piacere e potere dall’invidia e dall’avidità che i
suoi averi suscitavano negli altri.
Tuttavia, quegli ammennicoli non interessavano a Bane, più colpito dai
volumi e dai manoscritti disposti in fila sulle librerie alle pareti, ciascuno
maestosamente rilegato in cuoio e decorato con oro sbalzato. Molti dei tomi
erano vecchi di millenni, e lui sapeva che contenevano i segreti degli antichi
Sith.
Finalmente, Lord Qordis si alzò, ergendosi in tutta la sua altezza per
dominare lo studente coi suoi occhi grigi e infossati.
“Kas’im mi ha riferito quanto accaduto ieri mattina”, disse. “Mi ha detto
che sei responsabile della morte di Fohargh”. Il suo tono di voce non
permise a Bane di comprenderne le intenzioni.
“Non sono responsabile della sua morte”, rispose con calma. Era
arrabbiato, ma non stupido. Scelse le parole successive con gran cura:
voleva convincere Lord Qordis, non provocarne l’ira. “È stato Fohargh ad
abbassare la guardia. Si è reso vulnerabile nell’arena. Sarebbe stato da
deboli non approfittarne”.
La dichiarazione non era del tutto corrispondente ai fatti, ma si
avvicinava al vero a sufficienza. Una delle prime lezioni impartite da
Kas’im agli studenti era come innalzare intorno a sé uno scudo protettivo in
combattimento per impedire a un nemico di usare la Forza contro di loro.
Un avversario capace di usare la Forza poteva strappare via la spada laser
dalla mano, far perdere l’equilibrio o persino disattivare l’arma senza
neppure toccarla. Uno scudo di Forza era la protezione più elementare che
esistesse, e anche la più necessaria.
Era diventato istintivo per tutti gli apprendisti, quasi una seconda natura,
creare lo schermo protettivo appena impugnata la spada. Difendersi dai
poteri della Forza usati dal nemico e oscurare le proprie intenzioni esigeva
concentrazione ed energia pari ad aumentare la prestanza fisica o prevedere
le mosse del nemico. Più spesso era la parte invisibile del combattimento, lo
scontro fra due volontà, e non la più evidente interazione fra i corpi e le
spade a determinare l’esito di un duello.
“Kas’im ha detto che Fohargh non ha abbassato la guardia”, controbatté
Qordis. “Ha riferito che l’hai semplicemente penetrata. Le sue difese non
potevano resistere al tuo potere”.
“State dicendo, Maestro, che dovrei trattenermi se il mio avversario è
debole?” Naturalmente era una domanda retorica, a cui Qordis non si
sarebbe nemmeno preso la briga di rispondere.
“Una cosa è sconfiggere un avversario nell’arena. Anche una volta a
terra, però, hai continuato a infierire. Avevi vinto già molto prima che lo
uccidessi. Ciò che hai fatto non è stato diverso dal colpire con la tua lama
un nemico privo di conoscenza... una cosa che non è consentita nell’arena
degli allenamenti”.
Quelle parole colpirono troppo vicino al segno, andando a rivangare il
senso di colpa che Bane aveva tentato di seppellire mentre si dirigeva a
quell’incontro. Qordis restò in silenzio, in attesa della sua reazione: doveva
rispondere in un qualche modo, ma l’unica cosa che gli riuscì di pensare fu
una domanda con cui si era arrovellato nelle ore che precedevano l’alba.
“Kas’im sapeva cosa stava succedendo. Vedeva chiaramente ciò che facevo.
Perché non mi ha fermato?”
“Già, perché no?”, disse Qordis con disinvoltura. “Lord Kas’im voleva
vedere cosa sarebbe successo, come ti saresti comportato in tale situazione.
Voleva vedere se avresti avuto pietà... o se ti saresti dimostrato forte”.
E così, all’improvviso Bane si rese conto che il Maestro non lo aveva
convocato per punirlo. “Non... non capisco. Credevo fosse proibito uccidere
un altro apprendista”.
Qordis annuì. “Non possiamo permettere che gli studenti si attacchino a
vicenda nei corridoi; vogliamo che convogliate il vostro odio verso i Jedi,
non l’uno contro l’altro”. In quelle parole riecheggiava il conflitto interiore
che si era svolto dentro Bane solo qualche minuto prima. Quel che il
Maestro disse dopo, però, fu qualcosa che non si era aspettato.
“Ciò nonostante, la morte di Fohargh potrebbe essere una perdita
trascurabile, se ti aiuterà a realizzare completamente il tuo potenziale. Si
possono fare eccezioni, per chi è potente nel Lato Oscuro”.
“Come Sirak?”, domandò Bane; le parole gli uscirono prima che se ne
rendesse conto.
Per fortuna, quella domanda parve divertire Lord Qordis anziché
offenderlo. “Sirak comprende il potere del Lato Oscuro”, disse sorridendo.
“È la passione che lo alimenta”.
“La pace è una menzogna, c’è solo la passione”. Bane mormorò per
abitudine. “Attraverso la passione, acquisto forza”.
“Esatto”. Qordis pareva compiaciuto, ma era difficile capire se di sé
stesso o del suo studente. “Attraverso la forza, guadagno potere. Attraverso
il potere, guadagno la vittoria...”
“Attraverso la vittoria, spezzo le mie catene”, recitò Bane con diligenza.
“Se comprenderai queste parole, se le comprenderai davvero, allora il tuo
potenziale sarà illimitato!”
Qordis lo congedò con un gesto della mano, poi si riadagiò sul tappeto da
meditazione mentre Bane si voltava e se ne andava. Tuttavia, il giovane si
fermò sulla soglia e si girò.
“Cos’è il Sith’ari?”, sbottò.
Qordis inclinò il capo. “Dove l’hai sentito?” Aveva un tono solenne.
“L’hanno... detto alcuni studenti. Parlavano di Sirak. Sostenevano che
potrebbe essere il Sith’ari”.
“Alcuni antichi testi parlano del Sith’ari”, rispose Qordis lentamente, con
un cenno della mano ingioiellata verso i libri sparsi per la stanza. “Dicono
che un giorno i Sith saranno guidati da un essere perfetto, che rappresenta il
Lato Oscuro e tutto ciò in cui crediamo”.
“E Sirak è questo essere perfetto?”
Qordis si strinse nelle spalle. “Sirak è lo studente più forte
dell’Accademia. Per ora. Col tempo, forse, sorpasserà Kas’im, me e tutti gli
altri Signori dei Sith. O forse no”. Fece una pausa. “Molti Maestri non
credono nella leggenda del Sith’ari”, continuò dopo un attimo. “Per
esempio, Lord Kaan non la considera nemmeno. Va contro la filosofia
sottesa alla Confraternita dell’Oscurità”.
“E voi, Maestro? Credete alla leggenda?”
Bane attese che Qordis riflettesse sulla risposta. Gli parve un’eternità.
“È pericoloso porre queste domande”, disse infine il Signore Oscuro.
“Ma se il Sith’ari è più che una leggenda, non nascerà semplicemente come
prodotto dei nostri insegnamenti. Per raggiungere una tale perfezione, dovrà
essere forgiato o forgiata da dure prove e battaglie. Alcuni potrebbero
sostenere che un simile addestramento sia proprio lo scopo di
quest’Accademia. Ma io ribatterei che noi addestriamo gli apprendisti
affinché si uniscano alle file dei Signori dei Sith, in modo da potersi
affiancare a Kaan e al resto della Confraternita”.
Rendendosi conto che quella sarebbe stata l’unica risposta, Bane annuì e
se ne andò. Era stato assolto dal crimine, perdonato per via del suo potere e
del suo potenziale. Avrebbe dovuto esultarne, sentirsi trionfante, ma per
qualche motivo tutto ciò a cui riusciva a pensare, salendo sul tetto per
raggiungere gli altri studenti, erano gli ultimi rantoli strozzati emessi da
Fohargh prima di morire.

Quella notte, nell’intimità della sua stanza, Bane si sforzò di trovare un


senso a quanto era avvenuto, cercando la saggezza insita nelle parole del
Maestro. Qordis aveva detto che le sue emozioni, la sua rabbia, gli avevano
permesso di evocare la Forza per sconfiggere Fohargh. Aveva detto che la
passione alimentava il Lato Oscuro. Bane lo aveva sentito a sufficienza da
sapere che era vero.
Non riusciva però a scacciare la sensazione che vi fosse dell’altro. Non si
considerava crudele; non credeva di essere sadico o spietato. Eppure, in che
altro modo spiegare ciò che aveva fatto al Makurth indifeso? Era stato un
assassinio, un’esecuzione... e Bane non riusciva ad accettarlo.
Le sue mani erano già lorde di sangue: aveva ucciso centinaia, forse
addirittura migliaia di soldati della Repubblica. Ma era stata la guerra. E
aveva ucciso il guardiamarina su Apatros per autodifesa. Tutte questioni di
vita o di morte, verso cui non provava alcun rimorso... a differenza del
giorno addietro.
Per quanto tentasse, non riusciva a trovare un modo per giustificare
quanto accaduto nell’arena. Fohargh lo aveva provocato, alimentando in lui
una rabbia e una furia micidiali. Ma non poteva neppure giustificarsi
dicendo di essersi lasciato trasportare dalla foga del momento, non se
voleva essere onesto con se stesso. Attingendo al Lato Oscuro aveva
provato un turbine di emozioni, ma in sé l’atto era stato freddo e voluto.
Persino calcolato.
Steso sul letto, Bane non poté fare a meno di domandarsi se il rapporto
fra passione e Lato Oscuro fosse più complesso di quanto Qordis lo avesse
fatto sembrare. Chiuse gli occhi, ripensando all’accaduto. Respirò
lentamente e a fondo, cercando di mantenersi calmo e distaccato per
analizzare cosa fosse andato storto.
Era stato umiliato e messo in ridicolo, e aveva reagito con rabbia. Ciò gli
aveva permesso di evocare il Lato Oscuro per aggredire il nemico.
Rammentava una sensazione di esultanza, di trionfo, quando Fohargh era
volato per aria. Ma c’era anche dell’altro. Il suo odio, anche nella vittoria,
aveva continuato a crescere, levandosi come le fiamme di un incendio
estinguibile soltanto col sangue.
La passione alimentava il Lato Oscuro, ma se anche il Lato Oscuro
avesse alimentato la passione? L’emozione portava potere, ma questo
aumentava l’intensità dell’emozione... che a sua volta aumentava il potere.
Nelle giuste circostanze, si sarebbe andato a creare un ciclo che avrebbe
avuto fine soltanto quando si fossero raggiunti i limiti della propria capacità
di controllare la Forza, o quando il bersaglio dell’odio e della rabbia fosse
stato distrutto.
Un brivido gli percorse la schiena nonostante il calore della stanza.
Com’era possibile contenere o controllare un potere che si alimentava di se
stesso? Più imparava, da apprendista, ad attingere alla Forza, più le sue
emozioni lo avrebbero controllato. Più forte diventava, meno razionale
sarebbe stato. Era inevitabile.
No, pensò Bane. Gli sfuggiva qualcosa. Doveva sfuggirgli per forza. Se
fosse stato vero, i Maestri avrebbero insegnato agli studenti delle tecniche
per impedirlo. Avrebbero imparato a staccarsi dalle emozioni, pur usandole
per richiamare il Lato Oscuro. Nel loro addestramento, però, non era
contemplato nulla del genere, dunque l’analisi di Bane doveva essere errata.
Doveva, per forza.
Abbastanza tranquillizzato, Bane lasciò che i suoi pensieri scivolassero
nel sollievo del sonno.

“Fai schifo”, sbraitò suo padre. “Guarda quanto mangi! Sei peggio di un
maiale zucca!”
Des tentò d’ignorarlo. Seduto al tavolo da pranzo, si rannicchiò sulla
sedia e si concentrò sul cibo che aveva nel piatto, infilandosene lentamente
delle forchettate in bocca.
“Mi hai sentito, ragazzo?”, lo aggredì il padre. “Pensi che quel cibo che
hai davanti sia gratis? Lo devo pagare io, sai! Questa settimana ho lavorato
tutti i giorni e ho più debiti adesso che all’inizio di questo dannato mese!”
Come al solito, Hurst era ubriaco. Aveva lo sguardo vitreo e ancora il
puzzo della fatica addosso; non si era neppure preso la briga di lavarsi
prima di attaccarsi alla bottiglia che teneva infilata tra le coperte della
branda.
“Vuoi che cominci a fare i doppi turni per darti da mangiare, ragazzo?”,
gridò.
Senza alzare gli occhi dal piatto, Des mormorò: “Io faccio gli stessi turni
che fai tu”.
“Che cosa?”, disse Hurst, abbassando la voce al livello di un sussurro
minaccioso. “Cos’è che hai detto?”
Anziché mordersi la lingua, Des alzò lo sguardo dal piatto per fissarlo
negli occhi lucidi e arrossati. “Ho detto che faccio gli stessi turni che fai tu.
E ho soltanto diciott’anni”.
Hurst spinse indietro la sedia e si alzò. “Diciott’anni e ancora troppo
stupido per sapere quando tenere il becco chiuso”. Scosse la testa da una
parte all’altra, in segno di plateale delusione. “Sei la stramaledetta rovina
della mia esistenza, ecco cosa”.
Gettando la forchetta nel piatto, Des spinse a sua volta la sedia indietro e
si alzò in tutta la sua statura. Era diventato più alto del padre, e la sua
corporatura iniziava a riempirsi dei muscoli formati nei tunnel.
“Vuoi picchiarmi adesso?”, ringhiò al padre. “Vuoi darmi una lezione?”
Hurst spalancò la bocca. “Che cavolo hai che non va, ragazzo?”
“Ne ho abbastanza”, sbottò Des. “Mi dai la colpa di tutti i tuoi problemi,
ma sei tu che ti bevi tutti i nostri crediti. Se una volta tanto fossi sobrio,
magari potremmo andarcene da questo schifo di pianeta”.
“Tu, linguaccia, feccia che non sei altro!”, ruggì Hurst, rovesciando il
tavolo e mandandolo a schiantarsi contro la parete. Attraversò lo spazio tra
loro con un balzo e afferrò i polsi di Des in una morsa stretta come un paio
di manette in duracciaio. Il giovane tentò di divincolarsi, ma il padre pesava
una ventina di chili più di lui, la metà dei quali era costituita da muscoli.
Sapendo di non avere speranze, Des smise di lottare dopo qualche
secondo. Ma non si sarebbe rannicchiato piangendo in un angolo, non
quella volta. “Se stanotte vuoi picchiarmi, vecchio”, disse, “ricordati che
potrebbe essere l’ultima volta. Sarà meglio che ti impegni”.
Hurst non se lo fece ripetere due volte. Aggredì il figlio con la furia
selvaggia di un uomo amareggiato in preda alla disperazione. Gli ruppe il
naso e gli fece gli occhi neri. Gli fece saltare due denti, gli spaccò il labbro
e incrinò le costole. Ma per tutto il tempo Des non disse una parola, né
versò una sola lacrima.
Quella notte, mentre era steso sul letto troppo gonfio e dolorante per
dormire, la sua mente continuava a ripetere una singola frase, annullando il
russare ubriaco di Hurst, che era crollato in un angolo.
Devi morire. Devi morire. Devi morire.
Non aveva mai odiato suo padre tanto come in quel momento. Immaginò
che una mano gigante stritolasse il cuore maligno di quell’uomo.
Devi morire. Devi morire. Devi morire.
Quelle parole continuavano a tornare, in un mantra senza fine, come se
potesse farle avverare con la semplice forza della volontà.
Devi morire. Devi morire. Devi morire.
Finalmente giunsero le lacrime che aveva trattenuto mentre subiva il
brutale pestaggio: gocce roventi che gli scorrevano sul viso livido e
rigonfio.
Devi morire. Devi morire. Devi...
Bane si svegliò di soprassalto, il cuore che gli martellava e il corpo zuppo
di sudore, contorcendosi per liberarsi dalle coperte che aveva arrotolate
intorno alle gambe. Per un breve attimo credette di essere tornato su
Apatros, nell’opprimente stanza occupata da Hurst e dall’insopportabile
fetore dell’alcool. Poi si rese conto di dove fosse e l’incubo iniziò a
dileguarsi. Al suo posto s’insediò una tremenda rivelazione.
Hurst era morto quella notte stessa. Le autorità l’avevano ritenuto un
decesso per cause naturali: un attacco di cuore dovuto all’eccesso di alcol, a
una vita passata a lavorare in miniera e all’affaticamento di aver quasi
ucciso il figlio a mani nude. Non avevano mai sospettato la motivazione
vera, e neppure Bane. Non fino a quel momento.
Tremando appena, si rigirò tra le coperte, esausto, ma sapendo che per
quella notte non si sarebbe più riaddormentato.
Fohargh non era stato la prima persona che avesse ucciso con la Forza, e
probabilmente non sarebbe stata neanche l’ultima. Era abbastanza
intelligente da capirlo.
Scosse la testa per eliminare il ricordo della morte di Hurst. Quell’uomo
non aveva meritato pietà né misericordia. I forti avrebbero sempre
schiacciato i deboli: era per quello che si trovava all’Accademia. Quella era
la sua missione, la via del Lato Oscuro.
Questa rivelazione, però, non servì a placare il senso di nausea, e quando
chiuse gli occhi poteva ancora vedere il volto di suo padre.
CAPITOLO 12

“No!”, abbaiò Kas’im, scostando la spada da allenamento di Bane con un


gesto sdegnato della propria arma. “È sbagliato! Sei troppo lento nella
prima transizione. Così lasci il fianco sinistro scoperto a un contrattacco
rapido”.
Il Maestro di Spada gli stava insegnando una nuova sequenza; lo faceva
da più di una settimana. Per qualche motivo, però, pareva che Bane non
riuscisse ad afferrare la complessità dei movimenti. La lama sembrava
maldestra e impacciata tra le sue mani.
Fece un passo indietro e si rimise in guardia. Kas’im lo studiò per un
attimo, poi si mise in posizione di difesa davanti a lui. Bane trasse un
profondo respiro per concentrarsi mentalmente prima di lasciare che il
corpo avviasse ancora una volta la sequenza.
I muscoli si mossero d’istinto, attivandosi in modo dirompente. Il
fendente basso della sua lama produsse un sibilo nell’aria alla prima mossa,
poi l’arma divenne una macchia sfocata... ma ancora troppo lenta. Kas’im
reagì scivolando su un lato e descrivendo un lungo e rapido arco con la
doppia lama che terminò colpendolo con forza alle costole.
L’impatto gli mozzò il fiato, poi avvertì il dolore lancinante degli aculei
di pelko seguito dall’ormai familiare torpore che gli si diffondeva nel lato
sinistro del torso. Indietreggiò barcollando, indifeso, con Kas’im che lo
osservava in silenzio. Bane si sforzò di restare in piedi e fallì, crollando
goffamente al suolo. Il Maestro scosse la testa, deluso.
Bane si rialzò a fatica, cercando di non dare a vedere la propria
frustrazione. Erano passate quasi tre settimane dalla morte di Fohargh, e da
allora si allenava con Kas’im in sessioni individuali per migliorare le sue
abilità con la spada laser. Ma per qualche motivo non faceva alcun
progresso.
“Mi dispiace, Maestro. Ripeterò ancora gli esercizi”, disse a denti stretti.
“Gli esercizi?”, ripeté il Twi’lek in tono crudele e beffardo. “E a che ti
serviranno?”
“Devo... devo imparare meglio la sequenza. Per essere più veloce”.
Kas’im sputò per terra. “Se lo credi davvero, allora sei uno sciocco”.
Bane non sapeva cosa rispondere, dunque restò in silenzio.
Il Maestro di Spada fece un passo avanti e gli sferrò un secco
manrovescio all’orecchio. Lo scopo non era fargli male, ma umiliarlo.
“Fohargh era più bravo di te”, lo aggredì. “Conosceva più sequenze, più
forme. Ma non sono bastate a salvarlo.
“Le sequenze sono soltanto strumenti. Ti aiutano a liberare la mente per
permetterti di richiamare la Forza. È là che troverai la chiave per la vittoria,
non nei muscoli delle braccia o nella rapidità della tua lama. Per distruggere
i nemici, devi fare appello al Lato Oscuro!”
Stringendo i denti per il bruciore ormai diffuso in tutto il lato sinistro del
corpo, Bane riuscì solo ad annuire.
“Ti stai trattenendo”, continuò il Maestro. “Non stai usando la Forza.
Senza di essa, sei lento e prevedibile”.
“Mi impegnerò... di più, Maestro”.
“Impegnarti?” Kas’im gli volse le spalle disgustato. “Hai perso la volontà
di lottare. La lezione è terminata”.
Rendendosi conto di essere stato congedato, Bane si diresse lentamente
alle scale che scendevano dal tetto. Quando le raggiunse, Kas’im gli gridò il
suo ultimo consiglio.
“Torna quando sarai pronto ad abbracciare il Lato Oscuro, anziché
ritrartene”.
Non si voltò: il dolore e l’insensibilità del lato sinistro glielo impedivano.
Ma, mentre scendeva zoppicando i gradini, le parole di Kas’im gli
echeggiarono dentro in tutta la loro verità.
Non era la prima sessione di allenamento che falliva. E i fallimenti non si
limitavano a Kas’im e alla spada laser. Con la morte di Fohargh, Bane
aveva acquisito sia prestigio che reputazione; alcuni Maestri avevano
manifestato l’improvvisa volontà di impartirgli un addestramento speciale.
Nonostante tutte quelle attenzioni, però, le sue abilità non avevano
compiuto alcun progresso. Anzi, era addirittura regredito.
Attraversò i corridoi diretto alla sua stanza, poi si distese cautamente sul
letto. Quando era debilitato dal veleno di pelko, non poteva far nulla a parte
riposare e meditare.
Era evidente che qualcosa non andasse, ma non riusciva a dir cosa, di
preciso. Non si sentiva più sveglio e scattante. Non si sentiva più vivo. La
prima volta che era diventato consapevole della Forza che gli fluiva dentro,
i suoi sensi si erano acuiti all’ennesima potenza: il mondo gli era apparso
più vibrante e reale. In quel momento, tutto era distante e attutito.
Percorreva i corridoi dell’Accademia come sotto l’effetto di un qualche tipo
d’ipnosi.
Non dormiva bene; continuava a soffrire di incubi. A volte sognava suo
padre, la notte in cui era morto; altre, il combattimento con Fohargh. A
volte i sogni si mischiavano tra loro, fondendosi in un’unica, terribile
visione: il Makurth che lo picchiava nell’appartamento su Apatros, il padre
morto nell’arena dei duelli in cima al tempio di Korriban. E ogni volta Bane
si risvegliava con un grido strozzato nella gola, rabbrividendo nonostante
avesse il corpo madido di sudore.
Non era solo quello, tuttavia, a causargli uno stato di perenne torpore. La
passione che lo aveva spinto ad agire non c’era più. Il fuoco che gli
infuriava dentro era svanito, sostituito da un senso di gelido vuoto. E senza
la passione, non era in grado di evocare il potere del Lato Oscuro.
Controllare la Forza stava diventando sempre più difficile.
Dapprima i cambiamenti erano stati minimi, quasi impercettibili, ma col
tempo si erano assommati e accumulati. Ormai lo sfiniva persino spostare
oggetti di piccole dimensioni. Era lento e impacciato con la spada; non
riusciva più a prevedere le azioni degli avversari, ma solo a reagire dopo
che erano avvenute.
Stava regredendo, non poteva più negarlo. Gli apprendisti che aveva
superato molto tempo prima lo avevano di nuovo raggiunto. Capiva di non
essere più al passo semplicemente osservando gli altri durante i loro studi...
e ciò significava, probabilmente, che anche loro potevano capirlo.
Ripensò a ciò che il Maestro Twi’lek gli aveva detto. Hai perso la
volontà di lottare.
Kas’im aveva ragione. Bane l’aveva sentita allontanarsi dalla prima volta
che aveva sognato il padre. Purtroppo, non aveva idea di come riprendersi
la rabbia e il fuoco della competizione che avevano alimentato la sua
fulminea ascesa nella gerarchia degli apprendisti Sith.
Torna quando sarai pronto ad abbracciare il Lato Oscuro, anziché
ritrartene.
Qualcosa lo tratteneva. Una parte di sé inorridiva per ciò che era
diventato. Ogni giorno meditava per ore, focalizzando la mente sulla ricerca
della furia turbinante del Lato Oscuro rinchiusa in lui, ma invano. Un velo
gelido era sceso fra lui e il centro del suo essere, e per quanto provasse non
riusciva a squarciarlo e ad afferrare il potere che nascondeva.
E non aveva più tempo. Fino ad allora, dallo scontro con Fohargh,
nessuno aveva osato sfidarlo nell’arena dei duelli. L’orribile morte del
Makurth incuteva ancora tanta paura negli altri studenti da farli girare al
largo, ma Bane sapeva che non avrebbero mantenuto la distanza ancora a
lungo. La sua sicurezza e le sue abilità stavano declinando, e i suoi
fallimenti diventavano sempre più evidenti. Presto se ne sarebbero accorti
anche gli altri studenti.
Nei primi giorni dopo la morte di Fohargh, il suo unico vero rivale era
stato Sirak. Ormai, ogni apprendista su Korriban era una potenziale
minaccia. Pensare a quanto la situazione fosse disperata gli faceva torcere
le budella, desiderare di graffiare le pareti di pietra urlando di rabbia
impotente. Eppure, nonostante la frustrazione, non era in grado di attingere
alla passione che alimentava il Lato Oscuro.
Ben presto, qualche sfidante avrebbe messo piede nell’arena ansioso di
sconfiggerlo. E lui non poteva far nulla per impedire che accadesse.
Lord Kaan passeggiava avanti e indietro sul ponte della Nightfall, in
orbita intorno al pianeta industriale di Brentaal IV. La flotta Sith aveva
occupato il settore di Bormea, la regione dove s’intersecavano la Rotta
Commerciale Perlemiana e la Via Hydiana. La Confraternita dell’Oscurità
controllava ormai due fra le rotte iperspaziali più importanti che servivano i
Mondi del Nucleo: la resistenza opposta dalla Repubblica all’inarrestabile
flotta Sith stava sgretolandosi.
Eppure, nonostante la più recente vittoria, Kaan sentiva che qualcosa non
andava. Per dirne una, la conquista del settore di Bormea era stata troppo
facile. I mondi di Corulag, Chandrila e Brentaal erano caduti uno dopo
l’altro, e i loro difensori avevano opposto solo una resistenza simbolica
prima di ritirarsi di fronte all’orda degli invasori.
Di fatto, aveva percepito appena una manciata di Jedi tra le forze della
Repubblica. Non era la prima volta che i Jedi erano praticamente assenti da
una battaglia chiave: negli scontri su Bespin, Sullust e Tanaab, Kaan si era
aspettato di dover affrontare una flotta comandata dal Maestro Jedi Hoth,
l’unico comandante della Repubblica che paresse capace di sconfiggere i
Sith. Ma, nonostante la reputazione guadagnata nelle prime fasi della
guerra, il generale Hoth non si era mai fatto vedere.
Dapprima, Kaan aveva sospettato una trappola, un qualche elaborato
intrigo architettato dall’astuto Hoth per catturare e distruggere l’acerrimo
nemico. Se però di questo si trattava, la trappola non era mai scattata. I Sith
spingevano da tutti i lati, erano quasi alle porte di Coruscant stesso. E i Jedi
erano praticamente spariti, come se avessero abbandonato la Repubblica
proprio nel momento di maggior bisogno.
Avrebbe dovuto sentirsi euforico. Senza i Jedi, la guerra era praticamente
vinta. La Repubblica sarebbe caduta di lì a pochi mesi e poi i Sith avrebbero
regnato. Ma dov’erano finiti i Jedi? La faccenda non gli piaceva. Al suo
disagio, poi, contribuiva lo strano messaggio inviatogli da Kopecz solo
poche ore addietro. Il Twi’lek stava arrivando sulla Nightfall con notizie
urgenti in merito a Ruusan; notizie che non voleva trasmettere sui canali
regolari. Notizie tanto importanti che riteneva di doverle comunicare di
persona.
“Lord Kaan, un intercettore è appena atterrato nella zona d’attracco della
Nightfall”, riferì uno degli addetti al ponte di comando.
Nonostante fosse impaziente di ascoltare le notizie di Kopecz, Lord Kaan
resistette all’impulso di scendere a incontrarlo nella zona di attracco.
Sentiva che qualcosa era andato tremendamente storto, ed era importante
mantenere un’apparenza calma e sicura davanti ai suoi soldati. Ma la
pazienza non era una virtù che molti Signori dei Sith possedessero, e
dunque non riuscì a impedirsi di camminare avanti e indietro mentre
attendeva che il Twi’lek arrivasse sul ponte e facesse il suo preoccupante
rapporto.
Dopo quelle che gli parvero ore, ma che non furono più di qualche
minuto, finalmente Kopecz arrivò. La sua espressione mentre attraversava il
ponte e gli rivolgeva un inchino frettoloso non alleviò certo la crescente
preoccupazione di Kaan.
“Lord Kaan, devo parlarti in privato”.
“Puoi parlare qui”, gli assicurò Kaan. “Ciò che diremo non uscirà da
questa nave”. L’equipaggio sul ponte della Nightfall era stato selezionato
personalmente da Kaan; tutti avevano prestato giuramento di servirlo con
assoluta lealtà. Conoscevano le gravi conseguenze che avrebbero subito
infrangendo il giuramento.
Kopecz gettò un’occhiata sospettosa per il ponte, ma tutti i membri
dell’equipaggio erano totalmente assorti nei propri compiti. Nessuno
sembrò neppure notarlo. “Abbiamo perso Ruusan”, disse in un sussurro,
nonostante le rassicurazioni di Kaan. “La base stabilita sulla superficie, la
flotta in orbita... tutto spazzato via!”
Per un attimo, Kaan non parlò. Quando lo fece, aveva la voce bassa come
quella di Kopecz. “Com’è successo? Abbiamo delle spie in tutto l’esercito
della Repubblica. Tutte le loro flotte hanno ripiegato sul Nucleo. Tutte! Non
avevano modo di raccogliere forze sufficienti a riprendersi Ruusan. Non a
nostra insaputa!”
“Non è stata la Repubblica”, rispose Kopecz. “Sono stati i Jedi.
Centinaia, migliaia di Jedi. Maestri, Cavalieri, padawan: un intero esercito”.
Kopecz imprecò ad alta voce. Gli uomini e le donne sul ponte non
guardarono neppure verso di lui, a dimostrazione dell’addestramento
ricevuto e della paura che il comandante incuteva in loro.
“Lord Hoth ha capito che le forze dell’Ordine dei Jedi non erano
adeguate a difendere la Repubblica”, continuò Kopecz. “Li ha riuniti tutti in
un solo gruppo, con un unico obiettivo: distruggere chi segue il Lato
Oscuro. Non si curano più dei nostri soldati e delle nostre flotte. Vogliono
soltanto spazzarci via: apprendisti, seguaci, Maestri Sith... e in particolare i
Signori Oscuri. Li conduce Lord Hoth in persona”, aggiunse il Twi’lek,
nonostante Kaan lo avesse già dedotto da sé. “Si fanno chiamare Esercito
della Luce”.
Kopecz fece una pausa per lasciar metabolizzare la notizia. Kaan inspirò
a fondo alcune volte, recitando a mente il Codice Sith per rimettere a fuoco
i suoi pensieri vorticanti.
E poi rise. “Un Esercito della Luce per opporsi alla Confraternita
dell’Oscurità”.
Kopecz lo fissò con un’espressione sconcertata.
“Hoth sa che i Jedi non sono in grado di sconfiggere il nostro esercito”,
spiegò Kaan. “Non più. La Repubblica è condannata. E così ora si
concentra solo su di noi, sui capi. Tagliando la testa, il corpo muore”.
“Dovremmo inviare la nostra flotta su Ruusan”, suggerì Kopecz. “Tutta
quanta. Schiacciare i Jedi in un sol colpo e spazzarli via per sempre dalla
galassia”.
Kaan scosse la testa. “È esattamente ciò che Hoth vuole spingerci a fare:
distogliere il nostro esercito dalla Repubblica, allontanarlo da Coruscant.
Rinunciare a tutto il terreno guadagnato con un attacco futile e insensato
contro i Jedi”.
“Insensato?”
“Hai detto che dispone di un esercito di Jedi, schiere di migliaia di loro.
Che possibilità ha una flotta di semplici soldati contro un nemico simile?
Armi e navi non sono nulla di fronte al potere della Forza. Hoth lo sa”.
Finalmente Kopecz capì e annuì. “Hai sempre detto che l’esito della
guerra non sarà deciso dalla potenza militare”.
“Esattamente. In fin dei conti, la Repubblica è secondaria. Solo col
completo annientamento dell’Ordine dei Jedi potremo raggiungere la vera
vittoria. E Hoth è stato abbastanza gentile da riunirli tutti in un luogo per
noi”.
“Ma la Confraternita non può competere con la somma delle forze di
tutto l’Ordine dei Jedi”, protestò Kopecz. “Loro sono troppi, e noi non
abbastanza”.
“Noi siamo più di quanti credi”, ribatté Kaan. “Abbiamo accademie
sparse in tutta la galassia. Possiamo ingrossare le nostre file coi Predoni di
Honoghr e Gentes. Possiamo riunire tutti gli assassini addestrati su Umbara.
Ordineremo agli studenti di Dathomir, Iridonia e del resto delle accademie
di unirsi alla Confraternita dell’Oscurità. Creeremo il nostro personale
esercito di Sith, uno che sia capace di distruggere Hoth e il suo Esercito
della Luce!”
“E l’Accademia di Korriban?”, domandò Kopecz.
“Si uniranno alla Confraternita, ma solo dopo aver completato
l’addestramento con Qordis”.
“Potrebbero servirci contro i Jedi”, incalzò Kopecz. “Korriban ospita i
nostri apprendisti più promettenti”.
“È esattamente per questo che è pericoloso mandarli al fronte”, spiegò
Kaan. “Alla forza si accompagnano ambizione e rivalità. Nel vivo della
battaglia, le emozioni s’impadroniranno delle loro menti e finiranno per
attaccarsi l’un l’altro. Divideranno i nostri ranghi con lotte intestine mentre
i Jedi restano uniti”. Fece una pausa. “È successo fin troppe volte ai Sith del
passato, e non permetterò che accada di nuovo. Resteranno con Qordis e
completeranno l’addestramento: inculcherà in loro la disciplina e la lealtà
alla Confraternita. Solo allora ci raggiungeranno sul campo di battaglia”.
“Questo è ciò che credi”, domandò Kopecz, “oppure ciò che ti ha detto
Qordis?”
“Non lasciare che la diffidenza verso Qordis ti renda cieco a ciò che
cerchiamo di raggiungere”, lo rimproverò Kaan. “I suoi allievi sono il
futuro della Confraternita, il futuro dei Sith. Non li esporrò a questa guerra
fino a che non saranno pronti”. Era chiaro che il suo tono non ammetteva
repliche. “Gli apprendisti su Korriban si uniranno alla Confraternita a
tempo debito. Ma quel momento non è ancora arrivato”.
“Sarà meglio che arrivi in fretta”, mormorò Kopecz, ammansito solo in
parte. “Non penso che potremo battere Hoth senza di loro”.
Kaan tese una mano e afferrò la robusta spalla del Twi’lek con fermezza.
“Non temere, amico mio”, disse con un sorriso. “I Jedi non saranno un
problema per noi. Li massacreremo a Ruusan e li cancelleremo dalla faccia
della galassia. Gli apprendisti saranno forse il futuro della Confraternita, ma
il presente appartiene a noi!”
Con gran sollievo di Kaan, Kopecz gli restituì il sorriso. Il capo della
Confraternita sarebbe stato meno soddisfatto se avesse saputo che buona
parte della soddisfazione del Twi’lek derivava dalla consapevolezza che
Qordis non avrebbe condiviso con loro la gloria della prossima vittoria.

Lord Kas’im entrò nella camera opulenta e fece un cenno del capo in
direzione dell’altro Maestro. “Volevi vedermi?”
“Notizie dal fronte”, annunciò Qordis, alzandosi lentamente dal suo
tappeto da meditazione. “I Jedi si sono ammassati sotto un’unica bandiera a
Ruusan. Li comanda il generale Hoth. Lord Kaan ha radunato il suo
esercito. In questo momento si dirigono là a ingaggiare battaglia coi Jedi”.
“Ci uniremo a loro?”, domandò Kas’im con voce bramosa, il lekku che
fremeva al pensiero di misurare le proprie abilità contro i più grandi
guerrieri dell’Ordine dei Jedi.
Qordis scosse la testa. “Non noi. Nessuno dei Maestri, e nessuno degli
studenti, a meno che tu non ritenga che uno degli apprendisti sia pronto”.
“No”, rispose Kas’im dopo aver riflettuto un attimo. “Sirak, forse. È
abbastanza forte. Ma è troppo orgoglioso, e ha ancora molto da imparare”.
“E Bane? Si è dimostrato molto promettente quando ha ucciso Fohargh”.
Kas’im si strinse nella spalle. “È successo un mese fa. Da allora, non ha
fatto altri progressi. Qualcosa lo trattiene; credo sia la paura”.
“Paura? Degli altri studenti? Di Sirak?”
“No, nulla del genere. Finalmente ha capito di cosa è davvero capace; ha
compreso il vero potere del Lato Oscuro. Penso abbia paura di affrontare
questa verità”.
“Allora non ci serve più”, affermò Qordis senza mezzi termini.
“Concentrati sugli altri studenti. Non perdere tempo con lui”.
Per un attimo, il Maestro di Spada fu colto in contropiede. Lo
sorprendeva che Qordis fosse tanto svelto a gettare la spugna con uno
studente dotato di un potenziale tanto evidente.
“Ritengo abbia solo bisogno di più tempo”, suggerì. “Quasi tutti i nostri
apprendisti studiano le vie dei Sith da molti anni, sin da bambini. Bane non
ha iniziato ad addestrarsi con noi che da adulto”.
“Sono al corrente delle circostanze che riguardano il suo arrivo in
quest’Accademia!”, lo aggredì Qordis; all’improvviso, Kas’im si rese conto
di cosa stesse realmente accadendo. Bane era stato condotto su Korriban da
Lord Kopecz, e tra lui e il capo dell’Accademia non correva affatto buon
sangue. Alla fine, il fallimento di Bane si sarebbe ripercosso sul peggior
rivale di Qordis.
“La prossima volta che Bane ti cerca, caccialo via”, gli disse il Signore
Oscuro con un tono che non lasciava dubbi che si trattasse di un ordine e
non di una richiesta. “Accertati che tutti i Maestri capiscano che non è più
degno dei nostri insegnamenti”.
Kas’im confermò con un cenno del capo. Avrebbe eseguito l’ordine;
naturalmente, non era giusto nei confronti di Bane, ma nessuno aveva mai
detto che i Sith fossero giusti.
CAPITOLO 13

Bane sapeva di dover fare qualcosa. La situazione stava diventando


disperata: si dibatteva ancora nell’incapacità di richiamare il potere che
aveva usato per distruggere Fohargh. Ma ormai la sua debolezza era
divenuta pubblica.
Il giorno prima, durante la sessione di allenamento serale, si era
avvicinato a Kas’im per organizzare altri incontri di pratica nella speranza
di riscuotersi dalla letargia che lo attanagliava. Il Maestro di Spada, però, lo
aveva respinto, scuotendo la testa e rivolgendo l’attenzione a un altro
studente. Il messaggio era chiaro a tutti: adesso Bane era vulnerabile.
Mentre gli studenti si radunavano in cerchio dopo le esercitazioni
mattutine, Bane seppe cosa doveva fare. La sua reputazione lo aveva
protetto dalle sfide degli altri studenti; in quel momento, quella fama non
c’era più. Ma non poteva restare passivo, in attesa che uno degli altri
studenti lo sfidasse e lo sconfiggesse. Doveva prendere l’iniziativa; doveva
attaccare. Quel giorno doveva essere il primo a metter piede nell’arena.
Naturalmente, se avesse sfidato uno degli studenti inferiori tutti
l’avrebbero considerata la conferma della debolezza che tentava di
nascondere. C’era un solo modo per redimersi agli occhi della scuola e dei
Maestri, un solo avversario che potesse sfidare.
Alcuni apprendisti stavano ancora girando in cerca di un punto da dove
poter osservare meglio le sfide mattutine. Era abitudine attendere che tutti
trovassero posto prima di lanciare una sfida, ma Bane sapeva che più
aspettava, più arduo sarebbe stato il suo compito. Raggiunse baldanzoso il
centro del cerchio, attirando gli sguardi curiosi degli altri studenti. Kas’im
lo fissò con disapprovazione, cercando di ignorarlo.
“Lancio una sfida”, proclamò. “Sfido Sirak”.
Tra gli studenti corse un brusio eccitato, ma Bane riusciva a udirlo a
stento al di sopra dei battiti del proprio cuore. Sirak combatteva raramente
sul serio; Bane non lo aveva neppure mai visto in azione. Ma aveva sentito
altri apprendisti parlare della sua bravura e raccontare storie pazzesche sulle
sue capacità incomparabili. Sin da quando lo Zabrak lo aveva avvicinato
sulle scale, Bane l’aveva osservato durante gli allenamenti proprio in
preparazione di quello scontro. E da quanto aveva visto, i resoconti della
sua abilità, che credeva esagerati, erano invece fin troppo esatti.
A differenza della gran parte degli studenti, Sirak preferiva la spada da
allenamento a doppia lama rispetto alla più tradizionale lama singola. Era
l’unico, a parte Kas’im stesso, che Bane avesse visto brandire quell’arma
esotica con tanta confidenza. Agli occhi inesperti di Bane, la sua tecnica
sembrava quasi perfetta. Pareva che esercitasse sempre un controllo
assoluto, costantemente all’attacco. La sua superiorità era evidente persino
nelle semplici esercitazioni: là dove quasi a tutti gli studenti servivano due
o tre settimane per imparare una nuova sequenza, Sirak era in grado di
padroneggiarla in pochi giorni. E in quel momento Bane era in procinto di
affrontarlo nell’arena.
Lo Zabrak uscì dalla calca, muovendosi lentamente ma con grazia per
rispondere alla sfida. Irradiava un’aria di minaccia persino all’ingresso nel
centro dell’arena. Eseguì un disinvolto florilegio con l’arma mentre si
avvicinava, disegnando lunghi archi languidi nell’aria con le due lame in
duracciaio.
Bane lo osservò avanzare verso di lui, sentendo i battiti del cuore e il
respiro accelerare, il corpo che produceva adrenalina preparandosi
istintivamente allo scontro. Tuttavia, Bane non avvertì cambiamenti
altrettanto significativi nel suo stato emotivo. Si era aspettato di provare
un’ondata di rabbia e paura all’avvicinarsi di Sirak, emozioni di cui potersi
nutrire per squarciare il velo dell’indifferenza e scatenare il lato oscuro. Ma
il torpore letargico lo avviluppava ancora come un manto grigio e ovattato.
“Avrei voluto che mi sfidassi prima”, sussurrò Sirak, la voce appena
udibile da Bane. “Nella prima settimana dopo la morte di Fohargh, molti ti
ritenevano mio pari. Avrei ricavato grande prestigio dalla tua sconfitta. Ma
ora non più”.
Sirak si era fermato ad alcuni metri di distanza. La sua spada da
allenamento a due lame danzava ancora lentamente nell’aria. Si muoveva
come se fosse viva, una creatura che pregustava la preda, troppo eccitata
per rimanere immobile.
“Sconfiggerti adesso non sarà molto glorioso”, ripeté. “Ma la tua
sofferenza mi darà un grande piacere”.
Alle spalle di Sirak, Bane vide Llokay e Yevra, gli altri due apprendisti
Sith, farsi strada fino alla prima fila per ammirare meglio il loro campione.
Il fratello aveva un ghigno crudele sul volto, la sorella un’espressione di
famelica aspettativa. Bane fece del suo meglio per ignorare la bramosia che
vedeva su quei visi scarlatti, lasciando che si mescolassero con
l’insignificante sfondo di spettatori.
La sua concentrazione era rivolta totalmente ai movimenti fluidi
dell’inconsueta arma tra le mani di Sirak. Aveva tentato di memorizzare le
sequenze su cui lo Zabrak lavorava durante le esercitazioni; in quel
momento stava cercando indizi che gli rivelassero la mano dell’avversario,
che potessero fargli capire quale sequenza intendesse utilizzare per dare
inizio alla battaglia. Se avesse indovinato, avrebbe potuto contrattaccare e
forse concludere lo scontro al primo passaggio. Era la sua miglior
opportunità di vittoria, ma senza poter attingere alla Forza le sue probabilità
di dedurre correttamente quale sequenza avrebbe scelto erano davvero
esigue.
Sirak sollevò la spada a due lame sulla testa, roteandola così velocemente
da trasformarla in nient’altro che una macchia sfocata, poi balzò in avanti.
Un’estremità calò in un feroce colpo dall’alto che Bane parò agevolmente.
Quella mossa era però solo una finta per preparare un fendente all’altezza
della vita con l’altra lama. Riconoscendo la manovra all’ultimo momento,
Bane non poté far altro che lanciarsi in una capriola all’indietro, riuscendo a
stento a non farsi colpire.
Il nemico gli fu addosso prima ancora che tornasse in piedi, le lame
gemelle che scendevano ritmicamente, prima la sinistra, poi la destra. Bane
bloccò, piroettò, carambolò e bloccò di nuovo, respingendo la raffica di
attacchi. Tentò di colpirlo con un calcio, ma Sirak previde la mossa e si
scansò con agilità, dandogli tempo appena sufficiente a rimettersi in piedi.
La successiva sequenza di attacchi continuò a farlo indietreggiare, ma fu
in grado d’impedire a Sirak di avere il vantaggio dandogli terreno e
tornando a sequenze difensive di base. Stava ancora cercando
disperatamente di prevedere le mosse dell’avversario. A un certo punto
sembrava che Sirak usasse gli affondi e le stoccate della Vaapad, la più
aggressiva e diretta tra le sette forme tradizionali, ma nel mezzo della
sequenza improvvisamente passava agli attacchi della Djem So, generando
tanta forza da far barcollare Bane anche soltanto bloccandone un colpo. Un
rapido giro o una rotazione dell’arma e una delle lame veniva d’improvviso
calata in una strana angolazione, facendogli perdere l’equilibrio quando la
respingeva con la propria spada.
Vi fu un breve intervallo, in cui i due combattenti si fermarono ansanti
per rivalutare la propria strategia. Sirak roteò l’arma in una rapida e
complessa sequenza che gli portò la spada sotto il braccio destro, dietro la
schiena, sulla spalla sinistra e di nuovo davanti a sé. Poi sorrise e la ripeté
all’inverso.
Bane osservò quella movenza elaborata con un tuffo al cuore. Nei primi
passaggi, Sirak aveva giocato con lui, prolungando il combattimento in
modo da far sembrare la sua vittoria più importante. In quel momento stava
mostrando la sua vera abilità, utilizzando sequenze che fondevano assieme
varie forme, passando rapidamente da uno stile all’altro in schemi
complessi e che Bane non aveva mai visto prima.
Era solo un altro segno della superiorità dello Zabrak. Se Bane avesse
tentato di combinare più stili diversi in una singola sequenza, probabilmente
si sarebbe cavato un occhio o dato un colpo alla nuca. Era chiaramente
superato in abilità: la sua unica speranza era che il nemico commettesse un
errore.
Sirak avanzò di nuovo, la spada da allenamento che si muoveva con tanta
rapidità che Bane poteva udirla sibilare. Spiccò un balzo per affrontarlo,
tentando di richiamare il potere del Lato Oscuro per prevedere e bloccare le
due lame che si muovevano troppo veloci perché i suoi occhi le
percepissero. Sentì la Forza fluire in sé, ma gli sembrò vuota e distante: il
velo era ancora lì. Riuscì a tenere alla larga il filo paralizzante della spada
di Sirak, ma fu necessario concentrare tutta l’attenzione sul controllo della
propria lama... cosa che lo lasciò vulnerabile al vero scopo di quell’attacco.
Si sentì esplodere il cranio quando la fronte di Sirak cozzò contro la sua,
il dolore che gli trasformava il campo visivo in una distesa di stelle
argentee. La cartilagine del naso si ruppe con uno schiocco terrificante e
una fontana di sangue. Stordito e accecato, Bane riuscì a parare il colpo
successivo per puro e semplice istinto, guidato dal lievissimo soffio della
Forza. Ma Sirak piroettò, tenendo lontana la spada, e sferrò un calcio
all’indietro che frantumò la rotula di Bane.
Questi crollò a terra urlando, la mano libera che si piantava al suolo per
ripararlo dalla caduta. Sirak gli schiacciò le dita con lo stivale,
maciullandole sulla dura pietra del tetto. Sollevò un ginocchio,
fratturandogli zigomo e mandibola con uno schianto fragoroso.
In un ultimo impeto di disperazione, Bane tentò di scagliare indietro
l’avversario con la Forza. Sirak scansò l’attacco, respingendolo con facilità
grazie allo schermo con cui si era avvolto all’inizio del duello. Poi si
avvicinò per completare l’opera. Il primo colpo andò a segno con la forza di
uno speeder mandato a tutta velocità contro una parete di permacemento,
spezzando il polso destro di Bane. La spada da allenamento gli scivolò dalla
presa, improvvisamente inutile. Il colpo successivo lo colpì allo stesso
braccio, lussandogli il gomito.
Un semplice calcio al viso gli fece sputare schegge di denti, irradiando
ondate di dolore dalla mandibola fratturata. Bane si accasciò in avanti, quasi
svenuto, mentre Sirak indietreggiava e abbassava la spada, tendendo una
mano libera per afferrarlo alla gola con la presa soffocante della Forza. Alzò
il braccio, sollevando il muscoloso Bane come fosse un fuscello, e poi lo
scagliò dall’altra parte del cerchio.
Bane sentì un altro osso spezzarsi all’impatto col terreno, ma il corpo era
ormai in stato di shock e non provava più alcun dolore. Giacque immobile,
un ammasso di membra contorte. Il sangue che gli riempiva narici e bocca
gli occludeva anche la gola. Il suo corpo fu scosso da un accesso di tosse e
udì, più che percepire, lo sfregamento delle costole fratturate.
Tutto iniziò a farsi buio. Colse il guizzo di un paio di stivali striati di
sangue che marciavano verso di lui, poi si abbandonò alla misericordia
delle tenebre.

Kopecz scosse la testa studiando il piano di battaglia che Kaan aveva


spiegato su un tavolaccio in mezzo alla tenda. L’olomappa del terreno di
Ruusan mostrava le posizioni delle forze Sith come triangoli rossi luminosi
che fluttuavano sui vari punti della carta. Quelle dei Jedi erano
rappresentate da quadrati verdi. Nonostante l’elemento tecnologico, per il
resto la mappa era un semplice disegno bidimensionale che riproduceva la
topografia della zona circostante. Non comunicava affatto la cupa
distruzione che aveva praticamente trasformato Ruusan in un deserto
devastato dalla guerra.
Nell’anno precedente, tre grandi battaglie navali si erano svolte al di
sopra del pianeta, ogni volta spargendo le macerie degli sconfitti per tutta la
superficie scarsamente popolata. Scafi anneriti e deformati, un tempo
appartenuti alle astronavi, erano precipitati nelle foreste rigogliose,
scatenando incendi che avevano ridotto buona parte del pianeta a cenere e
terreno sterile.
Nonostante le ridotte dimensioni, Ruusan era diventato un mondo di
rilievo sia per la Repubblica che per i Sith. Situato strategicamente ai
margini dell’Orlo Interno, era anche una sorta di confine tra la pericolosa
frontiera della Repubblica e il suo Nucleo più sicuro e tranquillo. Ruusan
era un simbolo. La sua conquista rappresentava l’inevitabile avanzata dei
Sith e la sconfitta della Repubblica; la sua liberazione sarebbe stata
l’emblema della capacità dei Jedi di scacciare gli invasori e proteggere i
cittadini della Repubblica. Il risultato era un ciclo infinito di battaglie in cui
nessuno dei due fronti era disposto ad ammettere la sconfitta.
La Prima Battaglia di Ruusan aveva visto la flotta degli invasori Sith
sradicare le forze della Repubblica grazie all’elemento sorpresa e alla
potenza della meditazione da battaglia di Kaan. Nella seconda battaglia, la
Repubblica aveva tentato di riprendere il controllo di Ruusan, fallendo
quando era stata respinta dai numeri e dalla potenza di fuoco del nemico.
La terza battaglia nei cieli sopra Ruusan aveva segnato la comparsa
dell’Esercito della Luce. Anziché gli incrociatori e i caccia della
Repubblica, i Sith si erano trovati ad affrontare una flotta composta perlopiù
da caccia pilotati esclusivamente da equipaggi di uno o due Jedi. I soldati
comuni unitisi all’esercito di Kaan non potevano competere con la Forza, e
Ruusan era stato salvato... ma non per sempre.
I Sith avevano risposto all’Esercito della Luce ammassando la
Confraternita dell’Oscurità al completo in una singola armata, che avevano
poi sguinzagliato sul pianeta. La guerra che aveva devastato quel mondo
dall’alto si era spostata sulla superficie, con conseguenze ben più
catastrofiche. A confronto delle battaglie spaziali, il combattimento a terra
era brutale, sanguinoso e viscerale.
Kopecz sbatté il pugno sul tavolo. “Non c’è speranza, Kaan”.
Gli altri Signori Oscuri radunati nella tenda concordarono con un
mormorio.
“Le posizioni dei Jedi sono troppo ben difese: i vantaggi sono tutti dalla
loro parte”, continuò rabbioso Kopecz. “Terreno rialzato, fortificazioni ben
trincerate, numeri superiori. Non possiamo vincere questa battaglia!”
“Guarda meglio”, lo invitò Kaan. “I Jedi si sono dispersi troppo”.
Il grosso Twi’lek studiò la mappa più nel dettaglio e si rese conto che
Kaan aveva ragione. Il perimetro dei Jedi si allontanava troppo dal loro
campo base. Gli bastò un attimo per capire perché.
Lo scontro fra gli eserciti dei Jedi e dei Sith, condotto da Maestri Jedi e
Signori Oscuri, aveva scosso il mondo fin nelle fondamenta. Il potere della
Forza turbinava incontrollato sul campo di battaglia con tutta la furia di una
stella che esplodeva. Città, villaggi e case isolate erano stati spazzati via,
lasciando solo morte e distruzione al loro posto. I civili erano stati costretti
a fuggire, diventando rifugiati in un’epica battaglia fra i campioni della luce
e dell’oscurità.
Vedendoli soffrire, i Jedi avevano cercato di consolare, confortare e
proteggere gli abitanti innocenti di Ruusan. Pianificavano le strategie per
difendere gli insediamenti e le residenze anche a spese delle risorse e del
vantaggio tattico. Naturalmente, i Sith non facevano simili concessioni.
“La compassione dei Jedi è un punto debole”, proseguì Kaan. “E
possiamo sfruttarlo. Se concentriamo tutti i nostri numeri in un solo punto,
potremo spezzare le linee nemiche. A quel punto saremo in vantaggio”.
I generali e gli strateghi della Confraternita dell’Oscurità annuirono,
d’accordo con lui. Alcuni alzarono la voce emettendo ruggiti di trionfo e di
congratulazioni. Soltanto Kopecz si rifiutò di unirsi ai festeggiamenti.
“L’Esercito della Luce è comunque il doppio di noi”, rammentò a tutti il
massiccio Twi’lek. “Il loro perimetro potrà essere troppo esteso in alcuni
punti, ma non sappiamo quali siano quelli vulnerabili. Sanno che i nostri
ricognitori li osservano, e nascondono l’entità delle loro forze proprio come
noi. Ci massacreranno, se li attacchiamo dove sono molto numerosi!”
Gli altri generali smisero di vociare, non più trascinati dall’entusiasmo
del loro capo, dal momento che la vistosa pecca nel suo piano era ora sotto
gli occhi di tutti. Vi furono di nuovo brusii di disaccordo e insoddisfazione.
Kopecz ignorò la reazione dei Signori Oscuri. Con tutto il loro potere e la
loro ambizione, somigliavano a tanti bantha che seguivano ciecamente il
branco. In teoria ogni membro della Confraternita Oscura era pari agli altri,
ma nella pratica Kaan regnava su tutti quanti.
Kopecz lo capiva ed era disposto a seguirlo. I Sith avevano bisogno di un
leader forte e carismatico, di un visionario, per placare le lotte intestine che
li avevano funestati. Kaan era proprio questo tipo di persona, e di norma era
un geniale stratega militare. Ma quel piano era folle. Un suicidio. A
differenza del resto del gruppo, Kopecz non avrebbe seguito il loro capo
verso una morte certa.
“Mi sottovaluti, Kopecz”, lo rassicurò Kaan con voce calma e sicura,
come se avesse previsto per tutto il tempo quella domanda e avesse già
preparato una risposta. Forse era così. “Non colpiremo finché non sapremo
con esattezza dove siano più vulnerabili”, spiegò il Signore Oscuro.
“Quando attaccheremo, sapremo il numero e la composizione precisi di
ogni unità e pattuglia nel loro perimetro”.
“E come?”, volle sapere Kopecz. “Persino le nostre spie dell’ombra
umbarane non riescono a fornirci quel genere di dettagli, non abbastanza in
fretta da usarli per pianificare il nostro attacco. Non abbiamo modo di
ottenere le informazioni che ci servirebbero”.
Kaan rise. “Certo che lo abbiamo. Ce le darà un Jedi”.
I lembi che coprivano l’entrata della tenda adibita a sala da guerra Sith si
sollevarono come a un segnale prestabilito, ed entrò una giovane abbigliata
con le vesti dell’Ordine dei Jedi. Era di media statura, ma quella era l’unica
cosa comune. Capelli folti e corvini le ricadevano sulle spalle. Il viso e la
figura erano perfetti esempi della forma femminile umana; la pelle color del
tribronzo contrastava gli occhi verdi, che ardevano di un calore che era sia
un invito che un avvertimento. Si muoveva con la grazia di una ballerina
twi’lek mentre sfilava davanti ai Signori Oscuri, un sorriso compunto sulle
labbra mentre fingeva di non udire i loro sussurri sorpresi.
Kopecz aveva visto molte donne bellissime in vita sua. Alcune delle
donne nelle file dei Signori Oscuri presenti in quella tenda erano splendide,
rinomate tanto per l’’incredibile bellezza quanto per il potere devastante.
Ma all’avvicinarsi della giovane Jedi, si scoprì incapace di toglierle gli
occhi di dosso. In lei c’era qualcosa di magnetico, che trascendeva la
semplice avvenenza fisica.
Camminava a testa alta, i lineamenti orgogliosi che lanciavano una tacita
sfida. E Kopecz vide anche qualcos’altro: un’ambizione palese, pura e
famelica.
Kaan, al suo fianco, bisbigliò: “Notevole, vero?”
La donna raggiunse la parte anteriore della tenda e s’inginocchiò con
disinvoltura, chinando leggermente la testa in segno di deferenza a Lord
Kaan.
“Benvenuta, Githany”, disse facendole cenno di rialzarsi. “Ti
aspettavamo”.
“È un onore, Lord Kaan”, mormorò lei suadente. Kopecz si sentì cedere
le ginocchia per un attimo all’ascoltare quella voce sensuale, poi si
ricompose. Era troppo vecchio e saggio per lasciarsi confondere dalla malia
di quella donna. Gli importava soltanto ciò che poteva offrir loro per
contrastare i Jedi.
“Hai delle informazioni per noi?”, le domandò di colpo.
Lei inclinò la testa e gli rivolse un’occhiata curiosa, tentando di trovare il
motivo di quell’accoglienza così fredda. Dopo una breve pausa, rispose:
“Posso dirvi esattamente in quali punti delle loro linee colpire, e quando.
Lord Hoth ha incaricato un Jedi di nome Kiel Charny di coordinare le loro
difese. Ho ricevuto queste informazioni direttamente da lui”.
“Perché questo Charny avrebbe dovuto condividere informazioni del
genere con te?”, chiese Kopecz con sospetto.
Lei gli rivolse un sorriso malizioso. “Eravamo... vicini. Condividevamo
molte cose. Non aveva idea che avrei potuto riferirvele”.
Kopecz socchiuse gli occhi. “Credevo che i Jedi disapprovassero queste
cose”.
Il sorriso divenne un sogghigno beffardo. “I Jedi disapprovano tante cose.
Per questo sono venuta qui”.
Kaan si fece avanti prima che potesse rivolgerle altre domande,
posandole con familiarità una mano sul fianco e facendole volgere le spalle
a Kopecz.
“Githany, non abbiamo tempo”, disse. “Devi farci rapporto e tornare
all’accampamento Jedi prima che qualcuno noti la tua assenza”.
Lei gli rivolse un breve e smagliante sorriso e annuì. “Naturalmente.
Dobbiamo sbrigarci”.
Kaan l’accompagnò dolcemente verso l’olomappa e un capannello di
strateghi si avvicinò, nascondendola alla vista mentre forniva loro i dettagli
sulla guardia dei Jedi. Qualche attimo più tardi, Kaan emerse dalla folla e si
avvicinò a Kopecz.
“Ambizione e tradimento... il Lato Oscuro è forte in lei”, sussurrò il
Twi’lek. “Mi sorprende che i Jedi l’abbiano accettata”.
“Probabilmente credevano di poterla portare nella luce”, rispose Kaan
con lo stesso tono. “Ma Githany è nata nel Lato Oscuro, come me e te. Era
inevitabile che un giorno si sarebbe unita ai Sith”.
“Un tempismo perfetto”, osservò Kopecz. “Forse un po’ troppo. Potrebbe
essere una trappola. Sicuro che possiamo fidarci? Penso sia pericolosa”.
Kaan accantonò quell’avvertimento con una risata. “Anche tu lo sei, Lord
Kopecz. È questo che ti rende tanto utile per la Confraternita”.

Bane galleggiava senza peso, circondato da silenzio e oscurità. Sembrava


che fosse alla deriva, nel vuoto nero della morte stessa.
Poi iniziò a riprendere conoscenza. Strappato dalla tranquillità
dell’inconsapevolezza, il suo corpo si contorse nel fluido verde scuro della
vasca di bacta, creando una scia di bolle che salirono silenziose in
superficie. Il cuore prese a martellargli: riusciva a sentire il sangue che gli
sfrecciava nelle vene.
I suoi occhi si aprirono in tempo per vedere un droide medico avvicinarsi
e regolare alcune impostazioni della vasca. In pochi secondi, i battiti del suo
cuore rallentarono e i movimenti convulsi degli arti contusi e spezzati si
placarono. Nonostante però il corpo fosse stato calmato dal tranquillante, la
mente di Bane era ormai pienamente sveglia e consapevole.
Nella mente gli si affacciarono ricordi di movimenti e di dolore. Le
immagini, i suoni, gli odori del combattimento. Ricordò l’avvicinarsi di
stivali insanguinati. Sporchi del suo sangue. Kas’im doveva essere
intervenuto dopo il suo svenimento per impedire che Sirak lo uccidesse.
Dovevano averlo portato lì per curarlo.
Dapprima fu sorpreso che si fossero presi la briga di farlo guarire. Poi si
rese conto che, come tutti gli studenti dell’Accademia, era troppo prezioso
per la Confraternita perché lo gettassero via. Sarebbe sopravvissuto,
dunque... ma in sostanza la sua vita era finita.
Da quando era arrivato all’Accademia, aveva cercato di raggiungere un
obiettivo ben preciso. Tutti i suoi studi e i suoi allenamenti erano stati volti
a un unico scopo: capire e controllare il potere del Lato Oscuro della Forza.
Il Lato Oscuro gli avrebbe portato potere. Gloria. Forza. Libertà.
Da quel momento sarebbe stato un paria nell’Accademia. Gli sarebbe
stato concesso di ascoltare le lezioni di gruppo, di praticare le sue abilità
nelle sessioni di allenamento di Kas’im, ma quello era tutto. Qualunque
speranza potesse nutrire di ricevere un allenamento personale da un
Maestro era stata schiacciata con quell’umiliante sconfitta. E senza quella
guida specifica, il suo potenziale sarebbe avvizzito e morto.
In teoria, nella Confraternita tutti erano uguali, ma Bane era abbastanza
intelligente da capire la verità. Ai Sith servivano leader, Maestri come Kaan
o Lord Qordis. I forti avanzavano sempre; i deboli non avevano altra scelta
che seguirli.
Ormai Bane sarebbe stato condannato a seguire, in una vita di
obbedienza e di sottomissione.
Attraverso la vittoria, spezzo le mie catene. Non aveva trovato la vittoria,
e sapeva fin troppo bene quali catene di servitù lo avrebbero legato per
sempre. Era distrutto.
Una parte di sé desiderava che Sirak avesse completato l’opera.
CAPITOLO 14

Nei corridoi dell’Accademia Sith c’era un’insolita aria di festa. La


Confraternita dell’Oscurità aveva riportato una netta vittoria sui Jedi a
Ruusan, e nell’aria aleggiava l’esultanza del banchetto organizzato da
Qordis per celebrare la vittoria. Durante le sessioni di allenamento, le
esercitazioni e le lezioni si udivano gli studenti condividere i dettagli dello
scontro in eccitati mormorii. Alcuni dicevano che i Jedi su Ruusan fossero
stati totalmente spazzati via. Altri insistevano che Lord Hoth stesso fosse
caduto. Correva voce che il Tempio dei Jedi su Coruscant fosse privo di
difese, e che fosse ormai questione di giorni prima che venisse depredato
dai Signori Oscuri dei Sith.
I Maestri sapevano che gran parte di ciò che si diceva era esagerato o
inesatto. I Jedi su Ruusan erano stati snidati, ma molti erano riusciti a
fuggire. Lord Hoth non era morto; probabilmente stava riorganizzando i
Jedi per l’inevitabile contrattacco. E il Tempio dei Jedi su Coruscant era
ancora ben al di là della portata di Kaan e della Confraternita dell’Oscurità.
Tuttavia, su ordine di Qordis, gli istruttori permisero all’entusiasmo degli
apprendisti di galoppare incontrollato a beneficio del morale.
L’esultanza diffusa nell’Accademia, però, non aveva molto effetto su
Bane. Ci erano volute tre settimane di sessioni regolari nella vasca di bacta
prima che si riprendesse totalmente dalle ferite inflittegli da Sirak. Una
sconfitta nell’arena dei duelli richiedeva perlopiù solo uno o due giorni
nelle vasche prima che lo studente fosse pronto a riprendere gli allenamenti.
Naturalmente, molti non subivano ferite gravi come quelle di Bane.
Hurst non aveva certo tenuto a freno le mani e, crescendo, Bane aveva
ricevuto una dose più che abbondante di percosse. I maltrattamenti di
gioventù gli avevano insegnato ad affrontare il dolore fisico, ma il trauma
inflittogli da Sirak era ben peggiore di qualunque cosa avesse subito per
mano di suo padre.
Bane si trascinava lentamente per i corridoi dell’Accademia, nonostante
quel passo contenuto fosse più una scelta che una necessità. Il dolore fisico
era irrilevante. Grazie alla vasca di bacta, le ossa fratturate si erano saldate e
i lividi erano del tutto scomparsi. Tuttavia, il danno emotivo era più difficile
da curare.
Un paio di apprendiste si stavano avvicinando ridendo, scambiandosi i
presunti resoconti della vittoria dei Sith su Ruusan. La loro conversazione
s’interruppe quando furono vicine alla figura solitaria. Bane chinò il capo
per evitare d’incrociare i loro sguardi. Una delle due sussurrò qualcosa
d’incomprensibile, ma il disprezzo nella sua voce era inconfondibile.
Bane non reagì. Stava affrontando il dolore interiore nell’unico modo che
conoscesse, il solo in cui lo avesse affrontato fin da bambino: ritirandosi in
se stesso, tentando di rendersi invisibile per evitare lo scherno degli altri.
La sconfitta, così pubblica e completa, aveva distrutto la sua già dubbia
reputazione sia fra gli studenti che fra i Maestri. Sin da prima del duello
molti avevano percepito che il potere lo aveva abbandonato; in quel
momento i loro sospetti erano stati confermati. Bane era diventato un paria
nell’Accademia, evitato dagli studenti e ignorato dai Maestri.
Neppure Sirak lo considerava più. Aveva brutalmente sottomesso il
rivale; Bane non era più degno della sua attenzione. Lo Zabrak l’aveva
rivolta, come quasi tutti gli apprendisti, alla giovane umana che si era unita
a loro poco dopo la battaglia di Ruusan.
Si chiamava Githany. Bane aveva sentito dire che un tempo fosse stata
una padawan Jedi, ma che avesse rifiutato la luce in favore del Lato Oscuro:
una storia abbastanza comune all’Accademia. Tuttavia, Githany era
tutt’altro che comune. Aveva giocato un ruolo fondamentale nella vittoria
dei Sith su Ruusan, ed era giunta su Korriban con l’acclamazione riservata a
un eroico conquistatore.
Bane non aveva avuto la forza di presenziare al banchetto quando Qordis
l’aveva presentata al resto degli studenti, ma da allora l’aveva vista varie
volte in giro per l’Accademia. Era di una bellezza sorprendente;
chiaramente suscitava il desiderio degli studenti maschi. Era altrettanto
chiaro che parecchie studentesse ne fossero gelose, pur tenendo ben
nascosto quel rancore nel proprio stesso interesse.
Githany era crudele e arrogante quanto bella, e in lei la Forza scorreva
potentissima. In poche settimane si era già fatta la reputazione di
schiacciare chiunque le intralciasse la strada. Non sorprendeva che fosse
diventata in fretta una favorita di Qordis e degli altri Signori Oscuri.
A Bane, comunque, non importava nulla di tutto ciò. Percorse i corridoi
lentamente, a testa bassa, dirigendosi alla biblioteca situata nelle profondità
dell’Accademia. Durante le prime fasi del suo sviluppo, studiare negli
archivi gli era parso il miglior modo per coadiuvare gli insegnamenti dei
Maestri. In quel momento la stanza fredda e silenziosa al di sotto dei piani
principali era l’unico rifugio che gli fosse offerto.
L’enorme stanza, poco sorprendentemente, era vuota, tranne che per le
file di scaffali gremiti di manoscritti disposti a casaccio e poi dimenticati.
Pochi studenti si prendevano la briga di scendere là. Perché perder tempo a
contemplare la saggezza degli antichi quando si poteva studiare sotto un
vero Signore Oscuro? Persino Bane si era recato lì come ultima risorsa, ora
che i Maestri non perdevano più tempo con lui.
Nello studiare gli antichi testi, però, una parte di sé che credeva morta
aveva iniziato a risvegliarsi. Il fuoco interiore, la rabbia ardente che era
sempre stata la sua riserva segreta non c’era più. Eppure, anche se solo
debolmente, il Lato Oscuro lo chiamava, e Bane si era reso conto di non
essere ancora pronto ad arrendersi. E così aveva cominciato a studiare.
Agli studenti era proibito portare via i libri dalla stanza degli archivi,
dunque Bane leggeva tutto sul posto. Il giorno prima aveva finalmente
terminato un trattato molto lungo e dettagliato, scritto da un antico Signore
dei Sith di nome Naga Sadow, sull’utilizzo di alchimia e veleni. Anche in
quell’opera aveva trovato brandelli di una sapienza superiore che aveva
tenuto per sé. Poco a poco, la sua conoscenza stava crescendo.
Percorse le file di scaffali lentamente, leggendo titoli e autori nella
speranza di trovare qualcosa di utile. Era talmente assorto da quella ricerca
che non si accorse della figura scura e incappucciata che era entrata negli
archivi ed era rimasta sulla soglia a osservarlo in silenzio.

Githany non disse una parola mentre l’uomo alto e ben piazzato vagava
per gli archivi. Fisicamente era imponente; i muscoli erano evidenti persino
sotto la larga veste. Concentrandosi, come le era stato insegnato dai Maestri
Jedi prima che li tradisse, fu in grado di avvertire il Lato Oscuro: la Forza
aveva una potenza straordinaria in lui. Eppure, non aveva il portamento di
un uomo che fosse forte o potente. Anche lì, lontano dagli sguardi degli
altri, camminava a testa bassa, le spalle ingobbite.
Ecco, si rese conto, cosa fosse in grado di fare Sirak. Era ciò che avrebbe
potuto fare a lei se lo avesse affrontato, perdendo. Githany aveva tutta
l’intenzione di sfidare il miglior studente dell’Accademia... ma solo dopo
che fosse stata certa di poterlo battere.
Aveva cercato Bane nella speranza d’imparare dai suoi sbagli. A vederlo
in quel momento, debole e avvilito, si rese conto che avrebbe potuto
ricavare più di qualche semplice informazione da lui. Normalmente si
sarebbe guardata dall’allearsi con un altro studente, in particolare uno forte
come Bane. Githany preferiva agire da sola: sapeva fin troppo bene quanto
potessero essere devastanti le conseguenze di un inatteso tradimento.
Ma l’uomo che aveva davanti era vulnerabile, esposto. Era solo e
disperato, e di certo non nella posizione di tradire qualcuno. Avrebbe potuto
controllarlo, usandolo quando necessario e sbarazzandosene in seguito.
Bane prese un libro da uno scaffale e si avvicinò lentamente ai tavoli. Lei
attese finché non si fu accomodato e non ebbe iniziato la lettura. Trasse un
profondo respiro e tirò indietro il cappuccio, lasciando che i lunghi boccoli
le ricadessero sulle spalle. Si disegnò poi sul volto il suo sorriso più
seducente e si avvicinò.

Bane sfogliò con cura le pagine dell’antico tomo che aveva preso dagli
scaffali dell’archivio. S’intitolava I Rakata e il mondo sconosciuto, e la sua
datazione indicava un’età di quasi tremila anni standard. Non erano stati
però il titolo o l’argomento ad attirarlo, bensì l’autore: Darth Revan. La sua
storia era ben nota sia ai Sith che ai Jedi. Quel che affascinava Bane era il
termine “Darth”.
Nessun Sith moderno lo usava più, preferendogli la designazione di
Signore Oscuro. Bane aveva sempre trovato il fatto sconcertante, ma non
aveva mai fatto domande in merito. In quel volume, scritto da uno degli
ultimi grandi Sith a usare quel titolo, avrebbe forse potuto scoprire perché la
tradizione fosse caduta in disuso.
Aveva appena iniziato a leggere la prima pagina quando udì avvicinarsi
qualcuno. Alzò lo sguardo e vide l’ultima apprendista dell’Accademia,
Githany, che avanzava verso di lui. Sorrideva, cosa che rendeva ancor più
attraente il suo aspetto già incantevole. In precedenza, Bane l’aveva vista
solo da lontano; da vicino, gli mozzò letteralmente il fiato. Quando scivolò
sulla sedia accanto a lui, una debole nota di profumo gli solleticò il naso,
accelerandogli i battiti del cuore già al galoppo.
“Bane”, sussurrò lei, parlando piano nonostante negli archivi non vi fosse
nessun altro che potessero disturbare con la loro conversazione. “Ti stavo
cercando”.
Quell’affermazione lo colse di sorpresa. “Mi cercavi? Perché?”
Lei gli posò una mano sull’avambraccio. “Ho bisogno di te. Mi serve il
tuo aiuto contro Sirak”.
La vicinanza, il breve contatto col braccio e il profumo ammaliante di lei
gli fecero girare la testa. Gli ci volle qualche momento per capire cosa
intendesse, ma dopo questo improvviso interesse divenne ovvio. Le era
giunta voce della sua umiliazione per mano dello Zabrak. Era venuta a
vederlo di persona, sperando di poter imparare qualcosa che le impedisse di
cadere vittima di un fallimento simile.
“Non posso aiutarti con Sirak”, disse, volgendole le spalle e affondando
il viso nelle pagine.
Sentì una lieve pressione sull’avambraccio e sollevò di nuovo la testa. La
donna si era sporta più avanti, e si ritrovò a fissarla dritto negli occhi color
smeraldo.
“Per favore, Bane, ascolta solo ciò che ho da dirti”.
Lui annuì, non sapendo se sarebbe stato mai capace di parlare mentre lei
gli era così vicina. Chiuse il libro e si girò appena per guardarla meglio.
Githany emise un sospiro di gratitudine e si appoggiò leggermente allo
schienale. Lui avvertì un lieve moto di delusione quando la mano gli lasciò
il braccio.
“So cosa ti è successo nell’arena dei duelli”, attaccò lei. “So che tutti
credono che Sirak ti abbia distrutto, che in qualche modo la sconfitta ti
abbia privato del potere. E vedo che lo credi anche tu”.
Sul suo viso era dipinta un’espressione di tristezza. Non di pietà, per
fortuna: Bane non ne voleva da nessuno, soprattutto non da lei. Ma le sue
parole esprimevano un sincero rammarico.
Quando non rispose, lei inspirò a fondo e proseguì. “Si sbagliano, Bane.
Non si può perdere così la capacità di controllare la Forza. Non può
succedere a nessuno. La Forza fa parte di noi, del nostro essere.
“Ho sentito parlare di ciò che hai fatto a quel Makurth: ha mostrato di
cosa eri capace. Ha rivelato il tuo vero potenziale, provato che possiedi un
grande dono”. Fece una pausa. Il suo sguardo era molto intenso. “Forse
crederai di aver dissipato o perduto quel dono. Ma io so. Percepisco il
potere che è in te, riesco a sentirlo. C’è ancora”.
Bane scosse la testa. “Il potere potrà anche esserci, ma non ho più la
capacità di controllarlo. Non sono più ciò che ero un tempo”.
“Non è possibile”, ripeté lei, in tono paziente. “Come puoi crederlo?”
Pur conoscendo la risposta, esitò prima di parlare. Era una domanda che
si era posto innumerevoli volte mentre galleggiava senza peso nel fluido
della vasca di bacta. Dopo la sconfitta, aveva avuto abbondanti occasioni di
confrontarsi col suo fallimento, e alla fine era riuscito a dedurre cosa fosse
andato storto... ma non come risolvere il problema.
Non era certo di voler condividere la sua scoperta con quella che era
praticamente un’estranea. Ma a chi altri avrebbe potuto dirlo? Non agli
studenti, e di certo non ai Maestri. E pur non conoscendo certo Githany, lei
gli aveva teso una mano. Era l’unica ad averlo fatto.
Esporre debolezze personali all’Accademia era qualcosa che solo un
pazzo o un idiota avrebbe osato fare. Eppure, la dura verità era che a Bane
non restava nulla da perdere.
“Per tutta la vita sono stato spinto dalla rabbia”, spiegò. Parlava
lentamente, fissando la superficie del tavolo, incapace di guardarla negli
occhi. “La rabbia mi rendeva forte. Era il mio legame con la Forza e il Lato
Oscuro. Quando Fohargh è morto... quando l’ho ucciso... mi sono reso
conto di essere responsabile della morte di mio padre. L’ho ucciso col
potere del Lato Oscuro”.
“E ti sei sentito in colpa?”, domandò lei, posandogli di nuovo
delicatamente una mano sul braccio.
“No. Può darsi. Non lo so”. La mano di lei era calda; riusciva a sentire il
tepore irradiarsi attraverso il tessuto della veste, fino alla pelle. “So soltanto
che questa consapevolezza mi ha cambiato. La rabbia che mi spingeva è
svanita. Tutto ciò che è rimasto è... be’... nulla”.
“Dammi la mano”. La voce di lei era dura, e Bane esitò solo un attimo
prima di tendere il braccio. Gli afferrò il palmo con entrambe le mani.
“Chiudi gli occhi”, gli intimò mentre già chiudeva i propri.
Nell’oscurità, si rese acutamente conto di quanto lei gli tenesse stretta la
mano: era una presa tanto forte che poteva sentire il battito del suo cuore.
Era rapido, urgente, e in risposta anche il suo accelerò il già tumultuoso
ritmo.
Avvertì un formicolio alle dita, qualcosa che andava al di là del semplice
contatto fisico. Lo stava raggiungendo con la Forza.
“Vieni con me, Bane”, mormorò.
All’improvviso gli parve di cadere. No, anzi: di tuffarsi. Stava
precipitando in un grande abisso, nel nero vuoto della sua anima. La gelida
oscurità gli intorpidì il corpo; gli arti persero ogni sensibilità. Non riusciva
più a sentire le mani di Githany sulle sue. Non sapeva neppure se fosse
ancora seduta accanto a lui. Era da solo in un vuoto glaciale.
“Il Lato Oscuro è emozione, Bane”. Le sue parole gli giunsero da
lontano, sussurri inconfondibili. “Rabbia, odio, amore, lussuria. È questo
ciò che ci rende forti. La pace è una menzogna. C’è solo la passione”. Le
parole si fecero più forti, abbastanza da soffocare il martellio del suo cuore.
“La tua passione c’è ancora, Bane. Cercala. Rivendicala”.
Come in risposta alle sue parole, le emozioni cominciarono a sorgere
dentro di lui. Provava rabbia. Furia. Un odio puro e pulsante: l’odio per gli
altri studenti che l’avevano emarginato, per i Maestri che l’avevano
abbandonato. E più di tutti odiava Sirak. E con l’odio venne la sete di
vendetta.
Avvertì poi qualcos’altro: una scintilla. Un anelito di luce e calore nella
fredda oscurità. La sua mente balzò ad afferrare quella fiamma, e per un
breve attimo avvertì di nuovo il potere glorioso della Forza ardere in lui.
Poi Githany gli lasciò la mano e svanì, spento come se lo avesse soltanto
immaginato. Ma non era così: era reale. Lo aveva sentito davvero.
Aprì gli occhi guardingo, come un uomo che si sveglia da un bel sogno
con la paura di dimenticarlo. Dall’espressione sul volto di Githany seppe
che anche lei doveva aver sentito qualcosa.
“Come hai fatto?”, domandò, cercando senza riuscirvi di frenare la
disperazione nella voce.
“Me l’ha insegnato il Maestro Handa quando studiavo con lui
nell’Ordine dei Jedi”, ammise lei. “Una volta ho perso il contatto con la
Forza, proprio come te. Ero ancora una ragazzina, quando è successo. La
mia mente non riusciva a far fronte a qualcosa di tanto vasto e infinito. Ha
creato una barriera per proteggersi, vero?”
Bane annuì, rimanendo in fervente silenzio per permetterle di continuare.
“La tua rabbia c’è ancora, e così la Forza. Ora dovrai rompere le barriere
con cui l’hai circondata. Dovrai tornare all’inizio e imparare di nuovo a
collegarti alla Forza”.
“E come?”
“Allenandoti, no?”, rispose Githany come se fosse ovvio. “In che altro
modo s’impara a usare la Forza?”
La tenue speranza che aveva suscitato in lui quella rivelazione morì di
colpo.
“I Maestri non mi addestrano più”, borbottò. “Qordis l’ha proibito”.
“Ti addestrerò io”, disse Githany con freddezza. “Posso condividere con
te tutto ciò che ho imparato sulla Forza dai Jedi. E posso insegnarti anche
tutto ciò che imparerò dai Maestri sul Lato Oscuro”.
Bane esitò. Githany non era una Maestra, eppure si era allenata come
Jedi per anni. Probabilmente sapeva molte cose sulla Forza che lui non
immaginava neppure. Se non altro, avrebbe imparato più col suo aiuto che
senza. Ciò nonostante, qualcosa nella sua offerta lo turbava.
“Perché lo fai?”, domandò.
Lei gli rivolse un sorriso astuto. “Non ti fidi ancora? Bene. Non dovresti.
Lo faccio solo per me. Non posso sconfiggere Sirak da sola. È troppo
forte”.
“Dicono sia il Sith’ari”, mormorò Bane.
“Io non credo alle profezie”, controbatté lei. “Ma ha alleati potenti. E gli
altri apprendisti zabrak gli sono totalmente fedeli. Se mai lo sfiderò, avrò
bisogno di qualcuno al mio fianco. Qualcuno in cui la Forza sia potente.
Qualcuno come te”.
Le sue motivazioni erano sensate, ma c’era qualcosa che continuava a
turbarlo. “Lord Qordis e gli altri Maestri non approverebbero”, la avvertì.
“Stai rischiando grosso”.
“Chi non rischia non ottiene nulla”, rispose lei. “E comunque non
m’importa ciò che pensano i Maestri. Alla fine, sopravvive solo chi sa
badare a se stesso”.
Bane impiegò un attimo a rendersi conto del perché le sue parole gli
suonassero tanto familiari. Poi ricordò l’ultima cosa che gli aveva detto
Groshik prima che lasciasse Apatros. In fin dei conti, siamo tutti soli.
Sopravvive chi sa badare a se stesso.
“Se mi aiuti a riconquistare la Forza, io ti aiuterò con Sirak”, disse,
tendendo la mano. Lei gliela strinse nella sua, poi si alzò per andarsene.
Bane mantenne la stretta, costringendola a risedersi. Un bagliore pericoloso
le lampeggiò negli occhi, ma lui non la lasciò.
“Perché hai lasciato i Jedi?”, domandò.
L’espressione di lei si addolcì, poi scosse la testa. Tese la mano libera e
gliela posò dolcemente sulla guancia. “Non penso di essere ancora pronta a
rivelartelo”.
Lui annuì. In quel momento non aveva bisogno di insistere e sapeva di
non averne ancora il diritto.
La donna ritrasse la mano, e lui le lasciò il braccio. Gli rivolse un’ultima
occhiata indagatrice, poi si alzò e si allontanò a passo svelto e risoluto. Non
si guardò indietro, ma Bane si accontentò di seguire l’ondeggiare dei suoi
fianchi finché non scomparve alla vista.

Githany sapeva di avere addosso i suoi occhi mentre usciva. Gli uomini
la guardavano sempre: ci era abituata.
Nel complesso, pensava che l’incontro fosse andato bene. Per un attimo,
alla fine, quando si era rifiutato di lasciarle il braccio, si era domandata se
non lo avesse sottovalutato. Quell’atteggiamento di sfida l’aveva colta
impreparata; si aspettava una persona debole e sottomessa. Ma quando lo
aveva guardato negli occhi, si era resa conto che si aggrappava a lei per
paura e disperazione. Un unico incontro, e già non riusciva a sopportare
l’idea di lasciarla.
Pur essendo stata coi Sith solo per breve tempo, percorrere le vie del Lato
Oscuro le riusciva naturale. Non provava pietà né tristezza per lui: la
vulnerabilità lo rendeva soltanto più semplice da manovrare. E, a differenza
dei Jedi, la Confraternita dell’Oscurità premiava l’ambizione. Ogni rivale
che sottometteva provava il suo valore e migliorava la sua posizione fra i
Sith.
Bane sarebbe stato lo strumento perfetto per abbattere i rivali, pensò. La
Forza era potentissima in lui, persino più di quanto avesse pensato
inizialmente. Era rimasta strabiliata dal potere che aveva avvertito. E ormai
lo aveva totalmente in pugno; doveva solo assicurarsi che vi rimanesse.
Lo avrebbe accompagnato lentamente, tenendolo sempre un po’ più
indietro rispetto alle proprie abilità. Un gioco pericoloso, ma che sapeva di
poter condurre bene. La conoscenza era potere, e sarebbe stata lei sola a
controllare quali nozioni avrebbe acquisito. Lo avrebbe istruito; lo avrebbe
legato a sé, assoggettandolo alla propria volontà, e lo avrebbe usato per
annientare Sirak. Poi, se avesse ritenuto che Bane stesse diventando troppo
potente, avrebbe distrutto anche lui.

Su Korriban era scesa la notte: le torce scoppiettanti proiettavano ombre


spettrali nei corridoi dell’Accademia. Bane percorreva quei passaggi
avvolto in un mantello nero, del tutto simile a un’ombra.
Agli apprendisti era proibito uscire dalle proprie camere dopo il
coprifuoco: una delle misure prese da Qordis per ridurre le morti
“inspiegabili” che parevano sin troppo comuni in accademie occupate da
studenti del Lato Oscuro rivali. Bane sapeva che, se lo avessero scoperto,
sarebbe stato punito duramente, ma era l’unico momento in cui potesse
agire senza timore di essere visto dagli altri studenti.
Si fece strada attraverso il piano adibito a dormitorio degli studenti finché
non raggiunse la scalinata che conduceva ai piani superiori e agli alloggi dei
Maestri. Guardò rapidamente da destra a sinistra, scrutando nelle ombre
tremolanti proiettate sulle pareti di pietra. Fece una pausa, restando in
ascolto di chiunque avrebbe potuto sorprenderlo in zona. Aveva
memorizzato i percorsi delle sentinelle notturne che pattugliavano i corridoi
dopo il tramonto: sapeva che mancava quasi un’ora prima che tornassero a
quel piano del tempio. Ma c’erano molti altri sottoposti, personale della
cucina e delle pulizie, custodi, che avrebbero potuto vagare in quel luogo
per provvedere ai bisogni dell’Accademia.
Non udendo che il silenzio, proseguì su per le scale. Oltrepassò in fretta
gli alloggi personali di Qordis, sollevato di constatare che persino il
Maestro Sith sentiva il bisogno di chiudere a chiave la porta di notte.
Proseguì, passando accanto ad altre cinque o sei porte, e si fermò soltanto
quando raggiunse l’ingresso alla camera del Maestro di Spada.
Bussò piano una volta, attento a non svegliare gli altri. Prima di poter
bussare di nuovo, la porta si aprì rivelando il Twi’lek. Per un solo attimo
Bane credette che lo avesse aspettato là dietro per tutto quel tempo. Ma
naturalmente era impossibile. Era più probabile che i riflessi acutissimi del
Maestro avessero reagito al bussare iniziale con tanta rapidità da fargli
attraversare la stanza e aprire la porta prima che arrivasse il secondo.
Indossava un paio di calzoni, ma aveva il torso nudo, con gli sfregi e i
tatuaggi bene in vista sul petto. L’espressione sorpresa confermò a Bane che
non sapeva del suo arrivo, mentre la velocità con cui tese una mano per
afferrarlo e tirarlo nella stanza diede un ulteriore conferma dei suoi riflessi
straordinari.
Prima ancora che Bane se ne rendesse conto, la porta fu chiusa e sbarrata
alle sue spalle, isolandoli nella stanza piccola e buia. Il suo ospite accese
una piccola torcia a luminescenza su un comodino accanto al letto e si voltò
per guardare con occhio torvo l’indesiderato visitatore.
“Cosa ci fai qui?”, sibilò, senza alzare la voce.
Bane esitò, incerto su quanto dirgli. Stava pensando all’offerta di Githany
e a ciò che gli aveva detto. Aveva concluso che avesse ragione: doveva
badare a se stesso se voleva sopravvivere. Significava che doveva essere
lui, e non lei, a sconfiggere Sirak.
“Voglio che mi alleniate di nuovo”, sussurrò Bane. “Voglio che mi
insegniate tutto ciò che sapete sull’arte della lotta con la spada laser”.
In risposta Kas’im scosse la testa, ma prima a Bane parve di percepire
una breve esitazione.
“Qordis non lo consentirà mai. È stato molto chiaro: nessun Maestro
deve sprecare altro tempo con te”.
“Non credevo rispondeste a Qordis”, controbatté Bane. “I Maestri non
sono forse pari tra loro nella Confraternita dell’Oscurità?”
Era una sfacciata arringa all’orgoglio del Maestro e il Twi’lek la
riconobbe facilmente come tale. Sorrise, divertito dall’ardire di Bane.
“Vero”, ammise. “Ma qui, su Korriban, gli altri Signori si rimettono a
Qordis. Così si evitano... complicazioni”.
“Non è necessario che lo sappia”, osservò Bane, rincuorato dal fatto che
Kas’im non lo avesse ancora rifiutato esplicitamente. “Allenatemi in
segreto. Possiamo incontrarci la notte sul tetto”.
“Perché dovrei?”, domandò il Twi’lek, incrociando le braccia muscolose.
“Richiedi gli insegnamenti di un Signore dei Sith, ma cosa mi offri in
cambio?”
“Conoscete il mio potenziale”, incalzò Bane. “Qordis mi ha abbandonato.
Se avessi successo, non potrà prendersene il merito. Se diventerò un
guerriero esperto per la Confraternita, Lord Kaan saprà che siete stato voi
ad allenarmi. E se fallisco, nessuno sospetterà mai il vostro ruolo. Non
avete nulla da perdere”.
“Nulla, a parte il mio tempo”, rispose l’altro, grattandosi il mento. “Hai
perso la volontà di lottare. Lo hai dimostrato contro Sirak”. Il lekku tremò
appena e Bane lo interpretò come il segno che stava seriamente
considerando quell’offerta, nonostante le sue parole.
Esitò di nuovo. Quanto avrebbe osato rivelargli? Intendeva ancora
lasciare che Githany gli desse lezioni sulla Forza e sulle vie del Lato
Oscuro. Ma si era reso conto che, se lei fosse stata il suo unico insegnante,
le sarebbe stato per sempre inferiore. Se voleva eliminare Sirak, aveva
bisogno che Kas’im lo aiutasse... e impedire che lei lo scoprisse.
“La mia volontà di lottare è tornata”, disse infine, decidendo di non
rivelare il ruolo di Githany nella sua rinascita improvvisa. “Sono pronto ad
abbracciare il potere del Lato Oscuro”.
Kas’im annuì. “Perché lo fai?”
Bane sapeva che quella era la prova finale. Kas’im era un Signore Oscuro
dei Sith. Il suo talento e le sue abilità erano riservati a coloro che un giorno
sarebbero andati a unirsi ai Maestri nella Confraternita dell’Oscurità.
Voleva qualcosa di più che la prova che Bane fosse davvero pronto: voleva
la prova che ne fosse degno.
“Voglio vendicarmi”, rispose Bane dopo un’attenta riflessione. “Voglio
distruggere Sirak. Voglio schiacciarlo come un insetto sotto il tacco del mio
stivale”.
A quella risposta, il Maestro di Spada sorrise di cupa soddisfazione.
“Cominceremo domani”.
CAPITOLO 15

Bane percorse il corridoio a passi cauti e misurati. Nonostante l’andatura


seria e contenuta, era di umore euforico e trionfante. Nelle settimane
trascorse dal fatidico incontro con Githany, la situazione si era totalmente
ribaltata.
Lei lo stava istruendo, come aveva promesso. Le prime sessioni non
erano state facili: lo aveva aiutato a superare la paura che la mente provava
per il proprio potenziale. Il velo nero era stato strappato a poco a poco. Lo
aveva aiutato, un pezzo dopo l’altro, a riprendersi ciò che aveva perso,
finché non aveva sentito il potere del Lato Oscuro scorrergli di nuovo nelle
vene.
A quel punto, l’addestramento era proseguito molto più velocemente. Era
la sete di vendetta a spingere i suoi studi; alimentava la sua capacità di
usare la Forza; gli permetteva di comprendere le lezioni insegnate dai
Maestri a Githany e che lei gli trasmetteva. Pur essendo ignorato dagli
istruttori, stava di nuovo imparando, e in fretta, tutto ciò che veniva
insegnato agli altri.
Bane chinò il capo al passaggio di un altro studente, fingendo
soggezione. Era importante che nessun altro sospettasse del cambiamento.
Teneva l’allenamento con Githany nascosto a tutti, persino a Kas’im...
proprio come teneva segreto a lei l’allenamento col Maestro.
Kas’im sapeva che diventava sempre più formidabile con la spada, ma
non che compisse passi avanti simili anche in altri ambiti. Githany vedeva i
suoi progressi nel realizzare il proprio potenziale, ma non si accorgeva che
stesse padroneggiando anche le minuzie del combattimento con la spada
laser. Come risultato, era probabile che entrambi sottovalutassero la reale
portata delle sue abilità, e a Bane piaceva il sottile vantaggio che ne
ricavava.
Le sue giornate erano riempite dallo studio e dagli allenamenti. Nelle ore
che precedevano l’alba incontrava Kas’im, per fare pratica con tecniche ed
esercitazioni. A metà giornata incontrava Githany negli archivi, dove
poteva condividere la sua sapienza senza timore di essere scoperta o
interrotta. E quando non si allenava con Kas’im o studiava con Githany,
leggeva i testi antichi.
Si avvicinò un altro apprendista e Bane si scansò, proiettando
un’immagine di paura e debolezza per celare la sua incredibile
metamorfosi. Attese finché i passi dell’altro non si furono dileguati prima di
scendere le scale, diretto ai livelli inferiori del tempio.
Qordis, così come uno degli altri Maestri, avrebbe potuto penetrare la sua
facciata e percepirne il reale potere, se non fosse stato accecato dalla
propria arroganza. Lo avevano accantonato come un fallimento, e non gli
prestavano più attenzione. Per fortuna, quell’anonimato gli andava
benissimo.
Ormai non dormiva quasi più. Pareva che il corpo non ne avesse bisogno:
si alimentava del suo crescente controllo del Lato Oscuro. Un’ora di
meditazione o due al giorno erano sufficienti a rinvigorire il corpo e la
mente. Consumava conoscenze con l’appetito di un rancor famelico,
divorando tutto ciò che riceveva dai suoi mentori segreti senza essere mai
sazio. Il Maestro di Spada era sbalordito dai suoi progressi e persino
Githany, nonostante gli anni di studio coi Jedi, aveva difficoltà a tenergli
testa. Completava tutto ciò che apprendeva da loro con la saggezza degli
antichi. Al suo arrivo aveva percepito il valore degli archivi,
accantonandoli, però, una volta assorbito dalla routine giornaliera e
dall’intensità delle lezioni all’Accademia. In quel momento capiva di aver
visto giusto all’inizio, in fin dei conti: la sapienza contenuta nelle
pergamene ingiallite e nei manoscritti rilegati in pelle non aveva età. La
Forza era eterna e, nonostante i Maestri dell’Accademia percorressero un
sentiero diverso dai predecessori, tutti cercavano risposte nel Lato Oscuro.
L’ironia della vita lo fece sorridere. Era l’emarginato, lo studente che
Qordis voleva isolare. Eppure fra Githany, Kas’im e i suoi studi negli
archivi, riceveva un’istruzione di gran lunga maggiore rispetto a qualunque
altro apprendista su Korriban.
La verità sarebbe emersa molto presto. Al momento giusto, Sirak avrebbe
scoperto di aver sottovalutato Bane. Lo avrebbero scoperto tutti.
“Eccellente!”, disse Kas’im quando Bane bloccò la sua raffica di attacchi
rispondendo con la propria. Non mise a segno alcun colpo diretto, ma
costrinse comunque il Maestro di Spada a fare un passo indietro sotto la
furia dell’assalto.
Il Twi’lek spiccò all’improvviso un grande balzo, piroettando in modo da
attaccare Bane mentre gli passava sopra. Quest’ultimo era pronto, e
trasformò il suo attacco in difesa con tale scioltezza da farla sembrare
un’unica mossa. Parò entrambe le lame dell’arma di Kas’im mentre si
chinava, allontanandosi dal pericolo con una capriola.
Si girò verso il nemico e vide che Kas’im aveva abbassato l’arma, il che
significava la fine della lezione.
“Ottimo, Bane”, disse il Twi’lek con un leggero inchino. “Pensavo che
quella mossa ti avrebbe colto alla sprovvista, ma sei riuscito a prevederla e
a difenderti con una forma quasi perfetta”.
Bane si cullò nelle lodi del Maestro, ma gli spiacque sapere che quella
sessione era finita. Aveva il fiatone e i muscoli contratti dall’adrenalina
luccicavano di sudore, ma gli pareva di poter continuare a lottare per ore.
Per lui, esercitazioni e allenamenti erano diventati molto più che semplice
sforzo fisico. Ogni movimento, ogni attacco e ogni affondo erano
un’estensione della Forza che agiva tramite il suo corpo in carne e ossa.
Bramava di affrontare un altro avversario nell’arena. Aveva fame della
sfida che misurarsi contro gli altri apprendisti rappresentava. Ma non era il
momento, non ancora. Non era ancora bravo abbastanza da sconfiggere
Sirak, e doveva tenere nascosto il suo talento e la sua rapida evoluzione fino
a che non fosse stato in grado di riuscirci.
Kas’im gli gettò un asciugamano. Bane fu soddisfatto di constatare che
anche il Twi’lek era coperto di sudore, benché non certo quanto lui.
“Volete che lavori su qualcosa in particolare, per domani?”, domandò
Bane ansioso. “Una nuova sequenza o una nuova forma, o qualunque altra
cosa?”
“Sei andato ben oltre le sequenze e le forme”, gli rispose il Maestro. “In
quell’ultimo passaggio, hai interrotto il tuo attacco nel mezzo di una
sequenza e mi hai assalito da un’angolazione del tutto diversa e
imprevista”.
“Davvero?” Bane ne fu sorpreso. “Non... non ne avevo l’intenzione”.
“E proprio questo l’ha resa una mossa potenzialmente devastante”,
spiegò Kas’im. “Ora stai lasciando che la Forza guidi la tua lama. Stai
agendo senza pensare o ragionare. Sei spinto dalla passione: dalla furia,
dalla rabbia... persino dall’odio. La tua spada è divenuta un prolungamento
del Lato Oscuro”.
Bane non poté fare a meno di sorridere, ma poi aggrottò la fronte
sgomento. “Ma non sono comunque riuscito a superare le vostre difese”,
disse, analizzando mentalmente lo scontro. Qualunque cosa provasse,
sembrava che un lato dell’arma a due lame del Twi’lek fosse sempre pronta
a intercettare l’attacco. Nella sua mente s’insinuò il seme del dubbio,
rammentando che anche Sirak utilizzava un’arma simile. “La spada laser a
due lame vi offre un vantaggio?”, domandò.
“Sì, ma non nel senso che credi”, rispose Kas’im.
Bane rimase in silenzio, attendendo con pazienza ulteriori spiegazioni. Il
Maestro lo accontentò dopo qualche secondo.
“Come già sai, la Forza è la vera chiave per la vittoria in ogni scontro.
Ma l’equazione non è così lineare. Un guerriero ben addestrato nel
combattimento con la spada laser può sconfiggere un avversario in cui la
Forza è più potente. Quest’ultima consente di prevedere le mosse e di
contrattaccare; ma più alternative avrà a disposizione il tuo nemico, più
difficile sarà prevedere quella scelta”.
Bane credette di aver capito. “Allora un’arma a due lame equivale ad
avere più alternative?”
“No”, rispose Kas’im. “Ma è ciò che pensi, dunque l’effetto è lo stesso”.
Bane rifletté sulle strane parole del Maestro di Spada per qualche
secondo, tentando di decifrarle. Alla fine dovette arrendersi. “Continuo a
non capire, Maestro”.
“Conosci bene la spada laser singola: tu stesso la usi e hai visto gran
parte degli altri apprendisti usarla. La mia arma a doppia lama ti sembra
strana, poco familiare. Non comprendi appieno cosa possa o non possa
fare”. Dato che la voce del Twi’lek non mostrava impazienza né
esasperazione, Bane capì che non si trattava di qualcosa a cui si aspettava
arrivasse da solo.
“In combattimento, la tua mente tenta di seguire ogni lama
separatamente, cosa che di fatto raddoppia il numero di possibilità. Ma le
due lame sono collegate: conoscendo la posizione di una si saprà
automaticamente quella dell’altra. Nella pratica, la spada laser a due lame è
più limitata di una tradizionale. Può infliggere più danni, ma con minor
precisione. Necessita di movimenti più lunghi e ampi, che non si tramutano
efficacemente in un affondo o una stoccata rapidi. Tuttavia, poiché è
un’arma difficile da padroneggiare, pochi tra i Jedi e persino tra i Sith la
capiscono. Non sanno in che modo attaccare o difendersi veramente da
essa. Ciò dona a coloro di noi che la usano un vantaggio su gran parte degli
avversari”.
“Come la frusta di Githany!”, esclamò Bane. Githany evitava le armi
tradizionali a favore della rarissima frusta di energia: era solo una delle
molte caratteristiche che la distinguevano dagli altri apprendisti.
Funzionava secondo gli stessi principi di base di una spada laser, ma
anziché proiettare un raggio dritto, l’energia dei cristalli si concretizzava in
un nastro flessibile che girava, si attorcigliava e schioccava in reazione sia
ai movimenti di Githany che al suo uso della Forza.
“Esattamente. La frusta di energia è assai meno efficace di qualunque
spada laser. Tuttavia, nessuno si esercita mai contro la frusta. Githany sa
che la confusione dei nemici di fronte alla sua arma la pone in vantaggio”.
“E voi avete rinunciato al vostro svelandomi questo segreto”, osservò
Bane, indicando la doppia spada di Kas’im con un sorriso.
“Solo in minima parte”, disse il Twi’lek. “Adesso sai perché è più
difficile difendersi da un’arma esotica o uno stile inconsueto, ma finché non
diventerai esperto in uno stile particolare, nel vivo della battaglia la tua
mente avrà comunque difficoltà a coglierne i limiti”.
Bane continuò a incalzare, ansioso di trasformare questo nuovo concetto
in qualcosa di utilizzo pratico. “Dunque, studiando stili diversi potrei
azzerare quel vantaggio?”
“In teoria sì. Ma il tempo impiegato a studiare altri stili è sottratto alla
padronanza della propria forma. Progredirai meglio concentrandoti più su te
stesso e meno sull’avversario”.
“Allora perché mai vi siete disturbato a spiegarmelo?”, sbottò Bane,
frustrato.
“La conoscenza è potere, Bane, e il mio scopo è darti la conoscenza.
Toccherà a te dedurre come usarla al meglio”.
Detto questo, il Maestro di Spada se ne andò, scendendo le scale del
tempio per concedersi qualche ora di sonno prima del sorgere del sole. Bane
rimase da solo, a meditare su quella lezione finché non fu l’ora di incontrare
Githany negli archivi.

Il tanfo dell’ozono bruciato si spandeva tra gli scaffali, assalendo le narici


di Githany mentre osservava Bane far pratica col suo ultimo esercizio. La
stanza si riempì di sibili e crepitii quando questi canalizzò l’energia della
Forza e la scagliò sotto forma di grandi saette arcuate di fulmini viola e
bluastri.
Githany si trovava con Bane nell’occhio della tempesta. Intorno a loro
turbinava un vento selvaggio, che le strattonava i capelli e i panneggi della
veste. Faceva ondeggiare e tremare le librerie, facendone cadere i
manoscritti e sconvolgendo le pagine. L’aria stessa era carica di elettricità
che le pungeva la pelle.
In mezzo a tutto ciò Bane rise, poi sollevò le mani in segno di trionfo e
scagliò un’altra scarica di fulmini che rimbalzò sul muro in fondo. Ogni
volta che una saetta esplodeva, l’intensità del lampo s’imprimeva sulle
retine di Githany, spingendola a ripararsi gli occhi. Si accorse che Bane non
distoglieva lo sguardo: aveva gli occhi spalancati e stravolti da quell’ondata
di energia.
Il fragore del tuono era quasi assordante, e la tempesta non accennava a
diminuire. Se Bane non avesse fatto attenzione, i suoi echi avrebbero
raggiunto i piani superiori, rivelando il loro allenamento segreto al resto
dell’Accademia.
Muovendosi con cautela, Githany tese una mano e gli sfiorò il braccio.
Bane girò la testa di scatto verso di lei, e la follia nei suoi occhi la fece
quasi ritrarre. Invece, sorrise.
“Ottimo, Bane!”, gridò, cercando di sovrastare quel frastuono con la
voce. “Per oggi basta così!”
Trattenne il fiato, in attesa, finché lui non annuì e abbassò le braccia.
Avvertì la tempesta perdere potenza all’istante. In pochi secondi non ci fu
più: restava soltanto lo scompiglio che aveva creato.
“Non... non ho mai provato niente del genere”, boccheggiò Bane, il viso
ancora euforico.
Githany annuì. “È una sensazione bellissima”, concordò. “Ma devi fare
attenzione a non perderti”. Stava ripetendo le parole del Maestro Qordis,
che solo pochi giorni prima le aveva insegnato come generare i fulmini
della Forza. Lei, tuttavia, non aveva mai prodotto nulla di nemmeno
paragonabile alla grandiosità di quanto Bane aveva appena scatenato.
“Non devi perdere il controllo, o potresti trovarti risucchiato dalla
tempesta assieme ai tuoi nemici”, gli disse, tentando di replicare il tono
calmo e lievemente sussiegoso che i Maestri usavano con gli apprendisti.
Non poteva fargli sapere di essersi sentita stringere nella morsa della paura
mentre assisteva a quello spettacolo.
Bane guardò le librerie rovesciate intorno a sé, accorgendosi dei libri e
delle pergamene sparsi per la stanza. “Sarà meglio rimettere in ordine prima
che qualcuno se ne accorga e si domandi cos’è successo qui”.
Githany annuì di nuovo ed entrambi si misero a lavoro per riportare gli
archivi nelle condizioni originarie. Nel mentre, Githany non poté fare a
meno di chiedersi se l’allearsi con Bane non fosse stato un errore.
Solo gli apprendisti di punta erano stati presenti alla lezione in cui Qordis
aveva insegnato loro a usare il Lato Oscuro per corrompere la Forza e farle
assumere la forma di una letale tempesta di fulmini. Quel primo giorno
nessuno, neppure Sirak, era riuscito a creare molto più di qualche saetta. E
invece, dopo solo un’ora da quando Githany gli aveva insegnato quella
tecnica, Bane aveva richiamato energia sufficiente a gettare nel caos
un’intera stanza.
Non era la prima volta che riusciva a imparare una lezione e a superare
quanto avesse fatto lei al primo tentativo. La Forza in lui era ben più
potente di quanto credesse, e sembrava diventarlo ogni giorno di più.
Githany temeva che avrebbe potuto perdere il controllo che esercitava su di
lui.
Naturalmente faceva attenzione. Non era tanto sciocca da rivelargli tutto
quello che imparava dai Maestri Sith; eppure, ciò non pareva darle più
alcun vantaggio sul suo allievo. A volte si domandava se lo studio degli
antichi testi non gli desse piuttosto un vantaggio su di lei. Studiare sotto un
vero Maestro avrebbe dovuto portare maggiori benefici che leggere opere
teoriche scritte migliaia di anni addietro... a meno che, in un qualche modo,
ai Sith odierni non mancasse qualcosa.
Purtroppo non sapeva come avrebbe potuto provare la sua teoria. Se
all’improvviso si fosse messa a trascorrere ore negli archivi, Bane si
sarebbe domandato che intenzioni avesse, e avrebbe potuto decidere che i
suoi insegnamenti non fossero preziosi quanto ciò che poteva apprendere da
solo; avrebbe potuto giudicarla superflua e, se avessero dovuto scontrarsi,
non era più sicura di poterlo sconfiggere.
Ma Githany si vantava della propria versatilità. Il suo piano iniziale,
mantenerlo un umile apprendista, non era più praticabile. Tuttavia
continuava a volere Bane dalla propria parte: avrebbe potuto dimostrarsi un
potente alleato, a cominciare dalla faccenda di Sirak.
Lavorarono in silenzio per tutta l’ora successiva, raccogliendo libri e
raddrizzando librerie. Quando la stanza fu tornata a una qualche parvenza di
ordine, la schiena le doleva per il continuo piegarsi, sollevare e allungarsi.
Si accasciò su una sedia, rivolgendo uno stanco sorriso a Bane.
“Sono sfinita”, disse con un sospiro esagerato.
Lui le si avvicinò fino ad arrivarle dietro, posandole le grandi mani sulle
spalle, alla base del lungo collo. Iniziò a massaggiarle i muscoli, con un
tocco di una dolcezza sorprendente per un uomo di quella stazza.
“Uhm... che bello”, ammise lei. “Dove l’hai imparato?”
“Lavorare nelle miniere di cortosite insegna molte cose su crampi e
dolori muscolari”, rispose, affondandole i pollici nelle scapole. Lei inarcò la
schiena con un rantolo, poi pian piano si distese mentre i muscoli le si
scioglievano sotto le sue dita.
Raramente le parlava della sua vita passata, benché fosse arrivata a
ricostruirne gran parte durante il tempo passato assieme. Al contrario, lei
era sempre stata molto più riservata.
“Una volta mi hai domandato perché avessi lasciato i Jedi”, mormorò,
sentendosi galleggiare nella ritmica pressione delle sua dita sul collo. “Non
te l’ho mai raccontato, vero?”
“Tutti abbiamo qualcosa del nostro passato che preferiremmo non
ricordare”, rispose lui senza fermarsi. “Sapevo che me lo avresti detto una
volta pronta”. Lei chiuse gli occhi e lasciò cadere la testa indietro mentre
continuava a massaggiarle le spalle.
“Il mio Maestro era un Cathar”, disse piano. “Il Maestro Handa. Ho
studiato con lui quasi da quando ho memoria; i miei genitori mi hanno
affidato all’Ordine quand’ero poco più che neonata”.
“Ho sentito dire che ai Jedi importa poco dei legami che uniscono le
famiglie”.
“A loro importa solo della Forza”, ammise lei dopo un attimo di
riflessione. “Gli attaccamenti terreni, amici, parenti, amanti, annebbiano la
mente con passioni ed emozioni”.
Bane ridacchiò, un suono basso e profondo che le trasmise come una
vibrazione dalle dita. “La passione porta al Lato Oscuro. O così ho sentito
dire”.
“Per i Jedi non era una battuta. Soprattutto non per il Maestro Handa. I
Cathar sono noti come una specie focosa. Non faceva altro che avvertire me
e Kiel dei pericoli di cedere alle nostre emozioni”.
“Kiel?”
“Kiel Charny. Un altro padawan di Handa. Spesso ci allenavamo insieme.
Aveva solo un anno più di me”.
“Era anche lui un Cathar?”, domandò Bane.
“No, Kiel era umano. Con gli anni siamo diventati vicini. Molto”.
Il leggero aumento della pressione nel suo tocco le disse che Bane aveva
capito perfettamente il significato di quelle parole. Finse di non essersene
accorta. “Kiel e io eravamo amanti”, proseguì. “Ai Jedi è proibito
sviluppare simili legami affettivi. I Maestri temono che oscurino la mente
con emozioni pericolose”.
“Eri davvero attratta da lui oppure semplicemente dall’idea di
disobbedire al tuo Maestro?”
Lei rifletté a lungo. “Forse entrambe le cose”, disse infine. “Era
abbastanza bello, e la Forza era potente in lui. Fra noi c’era un’attrazione
innegabile”.
In risposta, Bane si limitò a grugnire. Le mani avevano smesso di
massaggiarla e ora riposavano alla base del collo.
“Una volta diventati amanti, il Maestro Handa non ci ha messo molto a
scoprirlo. Con tutte le sue prediche sul controllo dell’emozione, si vedeva
che era furioso. Ci ha ordinato di accantonare i nostri sentimenti e ci ha
proibito di proseguire il nostro rapporto”.
Bane sbuffò in segno di disprezzo. “Credeva veramente che sarebbe stato
così facile?”
“I Jedi considerano le emozioni parte della nostra natura animalesca;
credono che si debba trascendere dagli istinti più basilari. Ma io so che è la
passione a renderci forti. I Jedi la temono soltanto perché rende i padawan
imprevedibili e difficili da controllare.
“La reazione del Maestro mi ha fatto comprendere la verità. Tutto ciò che
i Jedi credono sulla Forza è una perversione della realtà, una menzogna. Ho
capito finalmente che sotto il Maestro Handa non avrei mai realizzato il mio
vero potenziale. È stato quello il momento in cui ho volto le spalle
all’Ordine e ho iniziato a progettare la mia diserzione in favore dei Sith”.
“E Kiel Charny?” Aveva ripreso a massaggiarle le spalle, ma il suo tocco
si era fatto un po’ meno gentile.
“Gli ho chiesto di venire con me”, confessò. “Gli ho spiegato che
dovevamo fare una scelta: i Jedi o noi due. Ha scelto i Jedi”.
La tensione nelle mani di Bane si rilassò leggermente. “È morto?”
Lei rise. “Mi stai chiedendo se l’ho ucciso? No, l’ultima notizia che ho di
lui è che era vivo. Potrebbe essere morto combattendo contro i Sith su
Ruusan, ma non ho sentito il desiderio di ucciderlo personalmente”.
“Allora suppongo che i sentimenti che provavi per lui non fossero forti
quanto pensavi”.
Githany s’irrigidì. Forse era stata una battuta, ma sapeva che nelle parole
di Bane c’era un fondo di verità. Kiel era stato utile. Benché fra loro ci
fosse stata attrazione fisica, era diventato più di un amico per via della
situazione contingente: studiare giorno e notte con lui sotto il Maestro
Handa, con la pressione di dover essere all’altezza degli ideali irrealistici di
un Jedi, la tensione dell’essere intrappolata su Ruusan in una guerra che
pareva interminabile.
Bane le circondò il collo con le mani, deciso ma senza stringere. Si
abbassò e le sussurrò all’orecchio. “Quando alla fine mi tradirai, spero che
di me t’importerà abbastanza da cercare di uccidermi personalmente”.
Lei balzò in piedi, spingendogli via le mani e girandosi verso di lui. Per
una frazione di secondo, gli vide sul volto un’espressione soddisfatta; poi
sparì, sostituita da uno sguardo preoccupato e dispiaciuto.
“Scusami, Githany. Era solo una battuta. Non volevo offenderti”.
“Ti ho svelato una parte dolorosa del mio passato, Bane”, replicò lei,
circospetta. “Non è una cosa di cui voglia prendermi gioco”.
“Hai ragione”, disse Bane. “Ora... me ne vado”.
Lo studiò mentre si voltava e usciva dagli archivi. Sembrava
sinceramente dispiaciuto per ciò che aveva detto, come se gli rincrescesse
di averla ferita. La situazione perfetta per darle il vantaggio emotivo che
cercava... se solo non vi avesse scorto un barlume di qualcos’altro.
Quando se ne fu andato scosse la testa, tentando di dare un senso alla
situazione. Bane sembrava un gigantesco bruto muscoloso, ma sotto la
fronte alta e la testa calva si nascondevano saggezza e astuzia.
Ripensò agli ultimi venti minuti, tentando di determinare in che punto
avesse perso il controllo della situazione. Tra loro c’erano state delle
scintille, com’era sua intenzione. Bane non aveva fatto alcuno sforzo per
nascondere il suo desiderio; aveva sentito il calore delle sue mani mentre le
carezzava il collo. Eppure qualcosa era andato storto nella sua accorta e ben
studiata opera di seduzione.
Era possibile che provasse davvero qualcosa per lui?
Githany si morse inavvertitamente il labbro. Bane era potente,
intelligente e coraggioso. Ne aveva bisogno, se voleva eliminare Sirak. Ma
aveva la capacità di sorprenderla; continuava a sfidare e a capovolgere le
sue aspettative.
Dovette ammettere di trovarlo affascinante, nonostante questo. O forse
proprio per questo. Bane era tutto ciò che Kiel non era mai stato: ambizioso,
impulsivo e imprevedibile. A dispetto delle sue migliori intenzioni, una
piccola parte di lei si sentiva attratta da lui. Era quello, più di ogni altra
cosa, a renderlo un alleato molto pericoloso.
CAPITOLO 16

In cima al tempio di Korriban, al bagliore di una luna rosso sangue, si


ergevano due figure in controluce: una umana, l’altra twi’lek. Sul tetto
soffiava un vento gelido, ma nonostante entrambi si fossero tolti le vesti per
combattere a torso nudo, nessuno dei due rabbrividiva dal freddo.
Avrebbero potuto essere statue, gelide e immobili come pietra, se non fosse
stato per il fervore che ardeva loro negli occhi.
Le due figure si lanciarono in avanti senza preavviso, muovendosi a
velocità tale che sarebbe stato impossibile per un osservatore dire chi avesse
agito e chi reagito. S’incontrarono con un fragoroso schianto di lame
impetuose.
Mentre lottava disperatamente per non perdere terreno, Bane studiò
Kas’im con attenzione. Era pienamente consapevole di ogni attacco e ogni
finta, analizzava e memorizzava ogni blocco, parata e contrattacco. Il
Maestro di Spada aveva detto che avrebbe impiegato meglio il suo tempo se
si fosse concentrato sulla propria tecnica, ma Bane era deciso a
neutralizzare il vantaggio di Sirak assorbendo tutto ciò che poteva dello
stile a doppia lama del Twi’lek.
Lo scambio durò ben più di un minuto, senza momenti di pausa o di stasi
nell’azione, finché Bane non si allontanò con una piroetta per ricomporsi.
Aveva percepito i propri attacchi scivolare in uno schema inconscio, e la
prevedibilità era la morte contro un avversario abile come Kas’im. Nella
settimana addietro era caduto in quella trappola una volta. Non avrebbe
commesso lo stesso sbaglio una seconda.
I due combattenti si fronteggiarono di nuovo, immobili, tranne che per gli
occhi che scattavano ovunque in cerca di un segnale da sfruttare per
ottenere un minimo vantaggio.
Nel corso del mese precedente, le loro sessioni si erano fatte meno
frequenti, ma assai più intense. Una parte di Bane credeva che Kas’im
trovasse in qualche modo utile combattere contro di lui: il Maestro doveva
essersi stancato d’incrociare la lama con studenti e apprendisti ben al di
sotto del proprio livello.
Naturalmente Bane doveva ancora vibrare un colpo efficace contro il suo
Maestro. Ma ogni volta che si sfidavano sentiva di avvicinarsi sempre più
alla vittoria. La forma e la tecnica di Kas’im erano impeccabili, ma Bane
sapeva bene che la minima svista sarebbe bastata a fornirgli l’apertura di cui
aveva bisogno.
Entrambi avevano il fiato grosso: la sessione durava da molto più di tutte
quelle precedenti. Le loro battaglie di solito terminavano quando il Twi’lek
mandava a segno un colpo, paralizzando un arto del suo studente col
bruciante veleno del pelko. Tuttavia, quella notte doveva ancora sferrarlo.
Kas’im partì in carica, e il clangore assordante delle armi risuonò su tutto
il tetto con un ritmo sincopato. Erano vicinissimi e continuavano a sferrarsi
attacchi martellanti, senza che nessuno dei due cedesse di un solo
centimetro. Alla fine Bane fu costretto a disimpegnare la lama,
interrompendo l’assalto prima che l’abilità superiore del Maestro di Spada
spezzasse le sue difese.
Stavolta fu Bane a dare inizio alla carica. Ancora una volta le loro spade
da allenamento calarono con forza, e di nuovo si separarono con entrambi i
combattenti ancora illesi. Ormai, tuttavia, non c’erano più dubbi sull’esito
della battaglia.
Bane chinò il capo e abbassò la lama, ammettendo la sconfitta. In
quell’ultimo passaggio era riuscito a respingere Kas’im, ma a ogni fendente
si era fatto più lento di un microsecondo. Iniziava a essere stanco. Neppure
la Forza poteva conservare in eterno il suo tono muscolare, e alla fine quel
duello apparentemente interminabile aveva reclamato un prezzo troppo alto.
D’altro canto, il Maestro di Spada non aveva perso quasi nulla della sua
velocità e del suo acume.
Bane dubitò che sarebbe riuscito a superare lo scontro successivo, e in tal
caso quello ancora dopo lo avrebbe certamente sconfitto. Era inevitabile,
dunque non aveva senso insistere fino a farsi colpire e provare dolore.
Per un momento Kas’im parve sorpreso da quell’ammissione, poi accettò
la vittoria con un cenno del capo. “Sei stato intelligente a riconoscere che la
battaglia era terminata, ma mi aspettavo che combattessi fino alla fine. Non
c’è onore nella resa”.
“L’onore è il trofeo degli sciocchi”, rispose Bane, ripetendo un passaggio
tratto da uno dei volumi letti di recente negli archivi. “La gloria non è di
alcuna utilità ai morti”.
Dopo aver riflettuto per un istante su quelle parole, il Maestro di Spada
annuì. “Ben detto, giovane apprendista”.
Bane non fu sorpreso dal fatto che Kas’im non avesse riconosciuto la
citazione. Quelle parole erano state scritte quasi tremila anni prima da Darth
Revan. Quando si trattava di studiare gli scritti antichi, i Maestri erano
svogliati quanto gli studenti. Pareva che l’Accademia avesse volto la
schiena ai vecchi campioni del Lato Oscuro.
Era pur vero che Revan fosse finito col tornare ai Jedi e alla luce dopo il
tradimento di Darth Malak. Ciò nonostante, Revan e Malak erano stati
vicinissimi a spazzar via la Repubblica. Non tener conto di ciò che avevano
fatto era da sciocchi, e ancora di più lo era ignorare le lezioni che si
potevano apprendere da loro. Eppure, Qordis e gli altri Maestri si
rifiutavano ostinatamente d’impiegare tempo a studiare la Storia
dell’Ordine dei Sith. Per fortuna, era una caratteristica che trasmettevano ai
loro studenti.
Gli aveva dato un vantaggio innegabile sugli altri apprendisti; se non
altro, gli aveva mostrato il reale potenziale del Lato Oscuro. Gli archivi
erano pieni di resoconti di imprese incredibili: città rase al suolo, pianeti
annientati, interi sistemi stellari fagocitati quando un Signore Oscuro aveva
trasformato il sole in una supernova. Era probabile che alcune di queste
storie fossero esagerazioni, miti ingigantiti a ogni ripetizione prima di venir
fermati su pergamena. Eppure gettavano radici nella verità, ed era stata
questa a ispirare Bane a spingersi più in là e più velocemente di quanto
altrimenti avrebbe osato.
Pensare a Revan e ai passati Signori dei Sith gli riportò alla mente
un’altra domanda che lo turbava da qualche tempo. “Maestro, perché i Sith
non usano più il titolo di ‘Darth’?”
“È stato deciso da Lord Kaan”, spiegò il Twi’lek mentre si asciugava il
sudore. “La tradizione dei Darth è una reliquia del passato. Rappresenta ciò
che i Sith erano un tempo, non ciò che siamo adesso”.
Bane scosse la testa, insoddisfatto dalla risposta. “Dev’esserci dell’altro”,
disse, chinandosi a recuperare la veste che si era tolto all’inizio del duello.
“Lord Kaan non getterebbe via le antiche tradizioni senza una
giustificazione”.
“Vedo che la risposta più semplice non ti basta”, disse Kas’im con un
sospiro, rivestendosi. “Benissimo. Per capire perché quel titolo non viene
più usato, devi comprendere cosa rappresenti davvero. Il nome ‘Darth’ non
era solo un simbolo di potere: era una dichiarazione di supremazia. Veniva
utilizzato dai Signori Oscuri che cercavano d’imporre la propria volontà
sugli altri Maestri. Era una sfida, con cui si avvertiva di prostrarsi se non si
voleva essere distrutti”.
Bane lo sapeva già grazie ai propri studi, ma non riteneva saggio
interrompere il Maestro. Si mise invece a sedere a gambe incrociate,
sollevando lo sguardo e limitandosi ad ascoltare.
“Naturalmente, pochi degli altri Signori Oscuri si sarebbero mai
sottomessi a lungo al volere di un altro”, proseguì Kas’im. “Ogni qualvolta
uno del nostro Ordine assumeva il titolo di Darth, l’inganno e il tradimento
erano sempre dietro l’angolo per sottrarglielo. Non può esistere pace per un
Maestro che osi servirsi del titolo di Darth”.
“La pace è una menzogna”, ribatté Bane. “C’è solo la passione”.
Kas’im inarcò le sopracciglia per l’esasperazione. “Mi sono espresso
male. Volevo dire ‘stabilità’. I Maestri che sceglievano il titolo di ‘Darth’
dedicavano lo stesso tempo tanto a guardarsi dai presunti alleati quanto a
combattere i Jedi. Kaan voleva porre fine a questo spreco”.
Dal punto in cui sedeva, a Bane sembrò che il Maestro di Spada tentasse
di convincere se stesso tanto quanto il suo studente.
“Kaan vuole concentrare tutte le nostre risorse sul vero nemico invece
che disperderle l’uno contro l’altro”, affermò Kas’im. “È per questo che
nella Confraternita dell’Oscurità siamo tutti pari”.
“La parità è un mito inventato per proteggere i deboli”, ribatté Bane. “In
alcuni di noi la Forza è potente, in altri no. Solo uno sciocco penserebbe
diversamente”.
“Ci sono altri motivi per cui il titolo è stato abbandonato”, insistette
Kas’im con appena una nota di frustrazione. “Per dirne uno, attirava
l’attenzione dei Jedi. Rivelava i nostri superiori al nemico, offrendo facili
bersagli”.
Bane non era ancora convinto. I Jedi sapevano chi fossero i veri capi dei
Sith, e non cambiava nulla che si facessero chiamare Darth, Lord o
Maestro. Ma capiva che quella conversazione metteva il Twi’lek a disagio,
ed ebbe il buonsenso di lasciar perdere.
“Perdonatemi, Lord Kas’im”, disse chinando il capo. “Non volevo
offendervi. Cercavo soltanto di appellarmi alla vostra sapienza per capire
ciò che non riuscivo a comprendere da solo”.
Kas’im lo guardò con la stessa espressione di quando Bane aveva
terminato il duello all’improvviso, appena qualche minuto prima. Alla fine
domandò: “Dunque ora capisci la saggezza insita nella decisione presa da
Lord Kaan?”
“Naturalmente”, mentì Bane. “Agisce così per il bene di tutti”. Mentre si
rialzava, pensò: Kaan si comporta come un Jedi. Si preoccupa del bene
superiore. Cerca di portare armonia e collaborazione nel nostro Ordine. In
queste condizioni, il Lato Oscuro avvizzisce e muore!
Kas’im fissò Bane come se volesse dirgli qualcos’altro. Tuttavia, alla fine
lasciò correre. “Per oggi basta così”, disse. In lontananza, il cielo aveva
assunto la tinta grigio chiaro delle prime luci: l’alba era solo a un’ora di
distanza. “Presto arriveranno gli altri studenti per l’allenamento”.
Bane s’inchinò di nuovo prima di congedarsi. Mentre scendeva i gradini
del tempio si rese conto che Kas’im, nonostante la sua bravura con la spada
laser, non poteva insegnargli ciò che aveva davvero bisogno di sapere. Il
Twi’lek aveva volto le spalle al passato, aveva abbandonato le radici
individualiste dei Sith a favore della Confraternita di Kaan.
I misteri del vero potenziale del Lato Oscuro erano al di là della sua
portata, e probabilmente anche di quella di tutti gli altri Maestri
dell’Accademia.
Githany percepiva che qualcosa turbava Bane. Mentre condivideva ciò
che aveva appreso dai Maestri Sith nelle sue lezioni più recenti, le prestava
a stento attenzione.
Non sapeva cosa lo preoccupasse, e in verità non le importava. A meno
che non interferisse coi propri piani.
“C’è qualcosa che ti preoccupa, Bane”, sussurrò.
Perso nei propri pensieri, reagì dopo qualche momento. “Mi... mi spiace,
Githany”.
“Cosa c’è che non va?”, incalzò lei, tentando di assumere un’aria di
sincero interesse. “A cosa stai pensando?”
Da principio, non rispose; sembrò che soppesasse con cura le parole
prima di parlare. “Tu credi al potere del Lato Oscuro?”, domandò.
“Naturalmente”.
“Ed è quel che t’immaginavi? L’Accademia è all’altezza delle tue
aspettative?”
“Poche cose lo sono”, rispose lei con l’ombra di un sorriso. “Ma ho
imparato moltissimo da Qordis e dagli altri, da quando sono qui. Cose che i
Jedi non avrebbero mai potuto insegnarmi”.
Bane emise uno sbuffo di derisione. “Gran parte di ciò che so viene da
questi libri”. Indicò gli scaffali con un gesto della mano.
Lei non era certa di cosa rispondere, dunque non disse nulla.
“Una volta mi hai detto che i Maestri non sapevano tutto”, proseguì
Bane. “Al tempo ti riferivi ai Maestri Jedi, ma inizio a credere che lo stesso
valga per i Sith”.
“Hanno sbagliato a volgerti le spalle”, disse, scorgendo l’occasione che
aspettava da tempo. “Ma devi incolpare chi lo merita davvero. Sappiamo
entrambi chi è responsabile di ciò che ti è successo”.
“Sirak”, disse lui, pronunciando quel nome come fosse veleno.
“Deve pagare per quel che ti ha fatto, Bane. Abbiamo atteso a
sufficienza. È il momento”.
“Il momento per cosa?”
Githany insinuò l’ombra di un tremito nella sua voce. “Domattina lo
sfiderò a duello”.
“Che cosa?” Bane scosse la testa. “Non essere stupida, Githany! Ti
distruggerà!”
Perfetto, pensò lei. “Non ho scelta, Bane”, disse lei, solenne. “Ti ho già
detto che non credo nella leggenda del Sith’ari. Sirak sarà anche lo studente
di punta della scuola, ma non è invincibile”.
“Non sarà il Sith’ari, ma è comunque troppo forte per te. Non puoi
affrontarlo nell’arena, Githany. L’ho studiato, e so quanto sia abile. Non
puoi batterlo”.
Lei lasciò che quelle parole aleggiassero tra loro per molto tempo prima
di chinare il capo, sconfitta. “Che altra scelta ho? Dobbiamo distruggerlo, e
l’unico modo per farlo è affrontarlo nell’arena”.
Bane non rispose immediatamente: sapeva che stava rimuginando su
un’altra soluzione. Sapevano entrambi che c’era solo una linea d’azione
possibile, una risposta a cui sarebbe inevitabilmente giunto. Avrebbero
dovuto uccidere Sirak al di fuori dell’arena. Assassinarlo. Era una manifesta
violazione delle regole dell’Accademia, e se fossero stati scoperti avrebbero
patito gravi conseguenze.
Era per questo che doveva essere Bane a proporre quell’idea. Una volta
espressa, Githany era sicura di poterlo manipolare e fargli compiere
l’impresa di persona. Era il piano perfetto: sbarazzarsi di Sirak facendo
correre ogni rischio a Bane.
Più tardi, avrebbe potuto lasciarsi sfuggire coi Maestri qualche
particolare sul coinvolgimento di Bane... se fosse stato necessario. Tuttavia,
non era più così sicura di quella parte del piano. Non era convinta di voler
tradire Bane, ma non si faceva scrupoli a manipolarlo.
Bane trasse un lungo respiro, raccogliendo il coraggio per parlare. Lei si
preparò a emettere un’esclamazione di sorpresa molto convincente, e molto
studiata.
“Non puoi affrontare Sirak nell’arena, ma io sì”, disse.
“Che cosa?” La sorpresa di Githany fu totalmente autentica. “La volta
scorsa ti ha quasi ammazzato! Stavolta ti ucciderà di sicuro!”
“Ho intenzione di vincere, stavolta”.
Dal modo in cui parlò Githany capì che le sfuggiva qualcosa. “Che sta
succedendo, Bane?”, domandò.
Lui esitò un attimo prima di ammetterlo: “Mi sono allenato in segreto
con Lord Kas’im”.
La cosa aveva senso. Di fatto, avrebbe dovuto dedurlo da sola. Forse ci
saresti arrivata, se non ti fossi lasciata prendere dai sentimenti, si
rimproverò. Sapevi che stavi iniziando a provare qualcosa, e hai lasciato
che questo velasse il tuo giudizio.
“Non mi piace che ci si prenda gioco di me, Bane”, disse però ad alta
voce.
“Neanche a me”, rispose lui. “Non sono uno stupido, Githany. So cosa
volevi da me, e so cosa ti aspettavi che dicessi. Avrò la mia vendetta su
Sirak, ma seguendo la mia strada”.
Senza neppure rendersene conto, Githany aveva cominciato a mordersi il
labbro. “Quando?”
“Domattina. Proprio quando avevi detto tu”.
“Ma sai che non dicevo sul serio”.
“E tu sai che invece io sì”.
Il dito di Githany, senza volerlo, iniziò ad attorcigliarsi intorno una
ciocca di capelli. Abbassò di scatto la mano non appena si accorse di ciò
che stava facendo.
Bane posò con dolcezza una mano sulla sua spalla. “Non devi
preoccuparti”, la rassicurò. “Nessuno saprà che sei coinvolta”.
“Non è questo che mi preoccupa”, sussurrò lei.
Bane inclinò la testa, studiandola da vicino per capire se fosse onesta.
Con gran sorpresa anche di lei, lo era.
Bane dovette percepire la sua sincerità, perché si sporse in avanti e la
baciò piano sulle labbra. Si ritrasse lentamente, facendo scivolare via la
mano dalla spalla. Poi si alzò in piedi senza un’altra parola e si diresse alla
porta degli archivi.
Lei restò a osservarlo in silenzio, poi all’ultimo istante gli gridò: “Buona
fortuna, Bane. Sta’ attento”.
Si fermò come se fosse stato colpito dal raggio di un blaster, rigido.
“Lo farò”, rispose senza guardarsi indietro. Poi se ne andò.
Qualche momento più tardi, Githany si sentì avvampare. Si asciugò con
aria assente una lacrima che le scorreva sulla guancia, poi sollevò la mano
lentamente, fissando incredula la goccia che si spandeva sul palmo della
mano.
Disgustata dalla propria debolezza, asciugò la lacrima tra le pieghe del
mantello. Si alzò e gettò le spalle indietro, raddrizzando la schiena e
tenendo la testa alta e fiera.
E se anche le cose non erano andate secondo i piani? Se Bane avesse
ucciso Sirak nell’arena, il suo rivale sarebbe comunque morto. E se Bane
avesse fallito, avrebbe sempre potuto trovare qualcun altro che assassinasse
lo Zabrak. Alla fine, il risultato sarebbe stato lo stesso.
Mentre usciva a passi svelti e decisi dalla stanza, però, una parte di sé
sapeva che non era vero. Comunque sarebbero andate le cose, sarebbero
state molto diverse da qualunque cosa si fosse immaginata.

Il cielo mattutino era oscurato da nubi temporalesche. In lontananza si


udiva il boato dei tuoni sulle brulle pianure che separavano il tempio dalla
Valle dei Signori Oscuri.
Quella notte, Bane non aveva dormito. Dopo la discussione con Githany
era tornato in camera sua a meditare. Persino quello si era dimostrato
difficile: la sua mente era agitata da troppi pensieri per concentrarsi a
dovere.
I ricordi dell’atroce pestaggio subito continuavano ad assillargli la mente,
trascinandosi dietro il dubbio e la paura del fallimento. Fino ad allora era
riuscito a resistere ai sussurri che minacciavano la sua determinazione,
fermo nel suo proposito originario.
Gli apprendisti stavano radunandosi, e alcuni lanciavano occhiate irritate
alle nubi soprastanti. Il tetto del tempio era totalmente esposto agli
elementi, ma per quanto gli studenti potessero bagnarsi, aver freddo e
sporcarsi, sapevano che le sfide e gli esercizi non sarebbero stati annullati.
Kas’im amava ripetere che un po’ di pioggia non era nulla per un Sith.
Bane trovò posto tra la calca in preparazione per gli esercizi di gruppo.
Gli apprendisti intorno a lui lo ignorarono deliberatamente. Era così sin da
quando aveva perso contro Sirak. Tutti lo evitavano; era diventato ancora
più odioso per gli altri studenti. Pur allenandosi con loro in tutte le sessioni
di gruppo, era come se non esistesse davvero. Era un’ombra silenziosa che
strisciava ai margini, escluso nello spirito se non nella presenza fisica.
Perlustrò con gli occhi la folla in cerca di Githany, ma quando colse il
suo sguardo lei lo distolse in fretta. Ciò nonostante trovò rassicurante la sua
presenza. Credeva che almeno una parte di lei desiderasse il suo successo;
credeva che qualcosa di ciò che provavano l’uno per l’altra fosse più di una
semplice parte del gioco che entrambi conducevano.
Quando gli esercizi cominciarono, fu ben attento a non portare lo sguardo
su Sirak. Nei mesi addietro aveva studiato lo Zabrak con enorme
meticolosità; qualunque cosa gli fosse capitato di notare in quel momento lo
avrebbe soltanto portato a dei ripensamenti. Si concentrò invece sulla
propria tecnica.
In passato aveva introdotto volutamente errori e sviste nelle esercitazioni
di routine per tenere il suo crescente talento nascosto a eventuali studenti
che avessero guardato nella sua direzione. Quello, tuttavia, non era più
tempo di segretezza. Dopo le sfide di quel giorno, tutti avrebbero saputo di
cosa era capace... oppure sarebbe morto cadendo per sempre nell’oblio.
La pioggia iniziò a cadere, dapprima lentamente: pesanti goccioloni
abbastanza radi da permettergli di distinguere il suono dell’impatto di
ciascuno al suolo. Poi però le nubi si spaccarono e la pioggia cadde a ritmo
regolare e martellante. Bane quasi non se ne accorse neppure. Era fuggito
dentro di sé, scavando a fondo per fronteggiare la sua paura. Mentre il
corpo eseguiva i movimenti delle posizioni basilari di attacco e difesa
assieme al resto della classe, trasformò lentamente la paura in rabbia.
Non sarebbe stato capace di dire quanto durò quella sessione di
allenamento: gli parve andare avanti in eterno, ma nella realtà dei fatti era
probabile che Kas’im l’avesse accorciata per via della violenta
precipitazione che inzuppava gli alunni. Quando fu finita e gli apprendisti si
radunarono nel solito cerchio intorno all’arena, il giovane Sith aveva mutato
la rabbia in un odio incandescente.
Così come aveva fatto la volta precedente, Bane entrò nell’arena prima
che chiunque altro avesse occasione di agire, facendosi strada tra la folla
dalla sua posizione al margine esterno. Si levò un mormorio di sorpresa
quando gli altri riconobbero chi si era fatto avanti.
Percepiva il Lato Oscuro infuriare in lui, come una tempesta ben più
feroce di quella che gli si riversava addosso dal cielo. Era tempo che il suo
odio lo liberasse.
“Sirak!”, gridò, la voce che sovrastava la furia del vento. “Io ti sfido!”
CAPITOLO 17

La sfida di Bane rimase sospesa nell’aria, come se il muro della pioggia


incessante avesse bloccato le sue parole. Nel buio del temporale, vide la
folla dividersi e Sirak avanzare lentamente verso di lui.
Lo Zabrak si muoveva con sicurezza e tranquillità. Bane aveva sperato
che quell’imprevedibile sfida potesse turbare il suo avversario. Se fosse
riuscito a scuoterlo, a coglierlo di sorpresa o a confonderlo, sarebbe stato in
vantaggio prima ancora che il combattimento avesse inizio. Ma se
l’avversario provava qualcosa, lo teneva ben nascosto dietro una calma
glaciale.
Sirak porse la sua lunga spada da allenamento a due lame a Yevra, uno
dei due fratelli zabrak che sembravano seguirlo dappertutto, e poi si tolse il
mantello appesantito dalla pioggia. Sotto la veste indossava un semplice
paio di calzoni e una canottiera. Senza una parola, tese l’involto del
mantello a Llokay, l’altro Zabrak, che uscì con un balzo dalla folla per
prenderlo. Poi Yevra si affrettò a riconsegnare l’arma.
Bane si tolse il mantello e lo lasciò cadere al suolo, tentando d’ignorare i
freddi aghi della pioggia sul torso nudo. Non si aspettava davvero che la
sfida disorientasse Sirak, ma se non altro sperava che fosse troppo sicuro di
sé. Tuttavia, nella preparazione di Sirak c’era una spietata efficienza,
un’economia, una precisione nei movimenti che gli dissero che prendeva
quel duello molto sul serio.
Sirak era arrogante, ma non uno sciocco. Era abbastanza intelligente da
capire che Bane non lo avrebbe sfidato di nuovo se non ritenesse di avere
un piano. Non avrebbe dato per scontato il suo avversario finché non avesse
capito di cosa si trattava.
Bane capì in quel momento che avrebbe probabilmente potuto battere
Sirak. Come Githany, non credeva alla leggenda del prescelto che sarebbe
sorto tra le file dei Sith: era convinto che Sirak non fosse affatto il Sith’ari.
Tuttavia, non voleva soltanto batterlo. Voleva distruggerlo, proprio come
Sirak aveva distrutto lui nel loro scontro precedente.
Sirak, però, era troppo abile: non si sarebbe mai esposto come aveva fatto
Bane. Non da subito, a meno che lui non avesse fatto in modo di spingerlo a
farlo.
Dall’altra parte dell’arena, Sirak assunse la posizione di guardia. La pelle
lucida per la pioggia sembrava brillare al buio: era un demone giallo che
emergeva dalle ombre di un incubo per entrare nella dura luce della realtà.
Bane balzò in avanti, iniziando lo scontro con una serie di attacchi
complessi e aggressivi. Si muoveva velocemente... ma non troppo. La folla
sembrava sbalordita dalla sua evidente e imprevista perizia, anche se Sirak
riuscì ad evitare l’assalto con una certa facilità.
In risposta all’inevitabile contrattacco, Bane si concesse un’incespicante
ritirata. Per un breve attimo vide l’avversario allungare troppo il braccio,
vulnerabile a un attacco che avrebbe posto fine all’incontro in quel preciso
momento. Lottando contro la ferocia dei propri istinti, Bane si trattenne.
Aveva lavorato troppo a lungo e duramente per reclamare la vittoria con un
semplice colpo al braccio.
La battaglia proseguì coi suoi ritmi familiari in un alternarsi di attacchi e
difese. Bane si assicurò che i suoi attacchi apparissero efficaci ma grezzi,
cercando di convincere l’avversario di essere un combattente pericoloso ma
comunque inferiore. Ogni qualvolta respingeva una delle cariche di Sirak,
infiorettava le manovre difensive, trasformando rapide parate in lunghi
archi maldestri che sembravano tener lontana la doppia lama sia per fortuna
che per intenzione.
A ogni incontro delle lame, Bane analizzava la situazione con la Forza, in
cerca di una debolezza da sfruttare. Ci vollero solo pochi minuti per
identificarla. Nonostante l’addestramento, lo Zabrak non aveva mai
combattuto una vera battaglia così lunga: nessuno dei suoi avversari era mai
durato abbastanza da impegnarlo davvero. Man mano che Sirak si stancava,
i suoi colpi si fecero impercettibilmente meno incisivi, i contrattacchi meno
precisi, le transizioni meno eleganti. La nebbia della fatica iniziava a
velargli la mente, e Bane sapeva che era solo questione di tempo prima che
commettesse un cruciale, e fatale, errore di valutazione.
Eppure, nonostante combattesse contro lo Zabrak, la vera lotta che
conduceva era contro se stesso. Più di una volta dovette trattenersi per
evitare di approfittare di un’apertura negli assalti sempre più disperati
dell’avversario. Capiva che la vittoria schiacciante che desiderava sarebbe
giunta solo mediante la pazienza, una virtù che i seguaci del Lato Oscuro di
solito non apprezzavano.
Alla fine, quell’attesa fu ricompensata. Sirak era sempre più frustrato,
cercando senza riuscirvi di abbattere il suo avversario maldestro e
incespicante. Quando iniziò a sentire il peso della stanchezza, i suoi
fendenti si fecero furiosi e sconsiderati finché non abbandonò ogni pretesto
di difesa nel tentativo di porre fine a un duello che si sentiva sfuggire tra le
dita.
Quando la disperazione dello Zabrak raggiunse l’apice, ogni singolo
impulso di Bane prese a urlare per il desiderio di prendere l’iniziativa e
concludere la battaglia. Lasciò invece che l’allettante prossimità della
sconfitta di Sirak alimentasse la sua fame di vendetta, che crebbe a ogni
secondo finché non divenne un dolore fisico che gli torceva le viscere: il
Lato Oscuro lo colmava e sembrava in procinto di dilaniarlo, spaccandogli
la pelle e zampillando fuori come una fontana nera.
Attese fino all’ultimo istante possibile prima di scatenare l’energia
racchiusa dentro di sé in una terrificante ondata. La convogliò attraverso
muscoli e arti, spostandosi con velocità tale da far sembrare che il tempo si
fosse fermato tutto intorno a sé. In un batter d’occhi fece saltar via la spada
dalla mano di Sirak, lo colpì con la propria, fratturandogli l’avambraccio, e
poi si girò per colpire anche il polpaccio. L’osso si frantumò all’impatto e
Sirak urlò quando una candida scheggia di osso si fece strada tra muscoli,
cartilagine e pelle.
Per un attimo, nessuno degli spettatori si rese neppure conto
dell’accaduto: le loro menti impiegarono qualche secondo a registrare
un’azione che si era svolta troppo velocemente perché l’occhio potesse
vederla.
Sirak era accasciato a terra, a contorcersi per il dolore stringendo l’osso
che gli fuoriusciva dallo stinco con la mano sana. Prima di finirlo Bane
esitò una frazione di secondo, assaporando quel momento... e dando a
Kas’im l’opportunità d’intervenire.
“Basta!”, gridò il Maestro di Spada, e l’apprendista obbedì,
immobilizzandosi un attimo prima di calare il colpo mortale sull’avversario
indifeso. “Lo scontro è finito, Bane”.
Lentamente, Bane abbassò la spada e fece un passo indietro. La furia e la
concentrazione che lo avevano trasformato in un tramite dell’inarrestabile
potere del Lato Oscuro erano scomparse, sostituite da una percezione
enormemente acuita del mondo circostante.. Si trovava sul tetto del tempio
nel mezzo di una furiosa tempesta, zuppo di pioggia ghiacciata e col corpo
semicongelato.
Iniziò a rabbrividire, gettando occhiate a terra in cerca del mantello
abbandonato. Lo raccolse, ma dato che era del tutto fradicio non si prese la
briga di rimetterselo.
Kas’im uscì dalla folla, fermandosi come se nulla fosse tra lui e lo
Zabrak sconfitto.
“Oggi avete assistito a una vittoria straordinaria”, comunicò alla folla
radunata lì, gridando per sovrastare la pioggia martellante. “Il trionfo di
Bane è merito tanto di una geniale strategia quanto delle sue superiori
abilità”.
Bane quasi non prestava ascolto a quelle parole. Si limitava a rimanere in
piedi al centro dell’arena, a sbattere i denti in silenzio.
“È stato cauto e paziente. Non voleva soltanto sconfiggere l’avversario...
ma distruggerlo! Ha ottenuto il dun möch non perché fosse più bravo di
Sirak, ma perché è stato più astuto”.
Il Maestro di Spada posò una mano sulla spalla nuda di Bane.
“Che sia una lezione per tutti”, concluse. “La discrezione può essere la
vostra arma migliore. Nascondete la vostra vera forza finché non sarete
pronti a infliggere il colpo di grazia”.
Lasciò la spalla di Bane e gli sussurrò: “Faresti meglio a entrare prima di
prendere freddo”. Poi si rivolse ai due fratelli Zabrak, praticamente storditi
sul bordo del cerchio di studenti. “Portate Sirak al centro medico”.
Mentre quelli aiutavano il loro campione che gemeva in stato
semicosciente, Bane si avviò verso le scale. Kas’im aveva ragione: doveva
ripararsi dalla pioggia.
Con una sensazione strana e surreale, si diresse meccanicamente verso i
gradini che portavano al caldo rifugio delle stanze sottostanti. La folla si
divise subito per lasciarlo passare. Gran parte degli apprendisti lo fissava
con espressioni di paura e di aperta meraviglia, ma quasi non se ne rese
conto. Scese le scale verso l’area principale del tempio, camminando in uno
stato di torpore che fu spezzato solo quando udì Githany chiamarlo per
nome.
“Bane!”, gridò lei. L’altro si voltò e la vide scendere di corsa i gradini per
seguirlo. I capelli fradici le ricoprivano disordinatamente viso e fronte; gli
abiti bagnati le aderivano stretti al corpo, accentuando le sue curve ben
formate. Aveva il fiatone, ma non sapeva dire se fosse per l’esaltazione o
per lo sforzo di raggiungerlo.
Attese ai piedi delle scale che si avvicinasse. Lei corse verso di lui, e per
un attimo credette che si sarebbe gettata tra le sue braccia. Tuttavia
all’ultimo istante si fermò a pochi centimetri da lui.
Githany riprese fiato per un attimo prima di parlare. Quando lo fece, le
sue parole furono aspre, nonostante il basso tono di voce. “Cos’è successo?
Perché non l’hai ucciso?”
Una parte di sé si aspettava quella reazione, benché un’altra avesse
sperato che fosse venuta a congratularsi con lui per la vittoria. Non poté
fare a meno di sentirsi deluso.
“Nel nostro primo duello, mi ha spedito nella vasca di bacta. Io ho fatto
lo stesso con lui”, rispose. “È la mia vendetta”.
“È una sciocchezza!”, controbatté lei. “Pensi che Sirak si dimenticherà di
tutto questo? Ti cercherà di nuovo, Bane. Proprio come tu hai fatto con lui.
È così che funziona. Hai perso l’occasione di porre fine per sempre a questa
faida e voglio sapere il perché”.
“Stavo quasi per ucciderlo”, le rammentò Bane. “Ma Lord Kas’im è
intervenuto prima che potessi farlo. I Maestri non vogliono perdere il loro
allievo migliore”.
“No”, disse lei scuotendo la testa. “Stavi per ucciderlo, ma non ti ha
fermato Kas’im. Hai esitato tu. Qualcosa ti ha trattenuto”.
Bane sapeva che era vero. Aveva esitato; ma non era certo del perché.
Tentò di spiegarlo, a Githany come a se stesso. “Ho già ucciso qualcuno
nell’arena. Qordis mi ha punito per la morte di Fohargh; mi ha ammonito
affinché non succedesse di nuovo. Immagino... che fossi preoccupato di ciò
che i Maestri mi avrebbero fatto se avessi ucciso un altro apprendista”.
Githany strinse gli occhi per la rabbia. “Credevo che finalmente avessimo
smesso di mentirci, Bane”.
Non era una menzogna, non esattamente; ma non era neppure del tutto
esatto. Si agitò a disagio, sentendosi in colpa sotto quello sguardo.
“Non ce l’hai fatta”, disse, puntandogli con violenza un dito contro il
torace. “Ti sei sentito consumare dal Lato Oscuro e ti sei ritratto”.
Stavolta toccò a Bane arrabbiarsi. “Ti sbagli”, la aggredì, scostando
bruscamente il dito accusatore. “Mi sono ritratto dal Lato Oscuro dopo aver
ucciso Fohargh. So cosa si prova. In questo caso è diverso”.
Le sue parole avevano il peso della verità. La volta precedente si era
sentito vuoto, come se gli avessero portato via qualcosa. Stavolta riusciva
ancora sentire la Forza che scorreva in lui in tutto il suo impeto glorioso,
colmandolo di calore e di potere. Stavolta, il Lato Oscuro restava sotto il
suo controllo.
Githany non era convinta. “Non sei ancora disposto ad affidarti
completamente al Lato Oscuro”, disse. “Sirak ha dimostrato debolezza e tu
hai avuto pietà. Non sono queste le vie dei Sith”.
“Cosa sai delle vie dei Sith?”, gridò lui. “Sono io ad aver letto gli antichi
testi, non tu, che ti limiti a imparare da Maestri che hanno dimenticato il
passato!”
“E in che parte degli antichi testi si dice di mostrare pietà per un nemico
sconfitto?”, domandò lei con voce carica di disprezzo.
Ferito da quelle parole, Bane la spinse via con forza e si voltò. Lei riprese
l’equilibrio mettendo un piede in avanti, ma mantenne la distanza.
“Sei soltanto arrabbiata perché il tuo piano è saltato”, borbottò,
all’improvviso riluttante a guardarla. Avrebbe voluto dire altro, ma sapeva
che il resto degli studenti sarebbe arrivato a breve. Non voleva farsi vedere
da nessuno mentre parlava con lei, dunque si allontanò semplicemente,
lasciandola sola.
Githany lo seguì con uno sguardo freddo e calcolatore. Era rimasta
colpita guardandolo giocare con Sirak nell’arena: sembrava invincibile. Ma
quando non era riuscito a uccidere lo Zabrak indifeso, aveva capito subito
cosa stesse succedendo. Era un difetto nel carattere di Bane, una debolezza
che si rifiutava di ammettere. Eppure esisteva.
Quando la passione del momento svaniva e non era più guidato dal Lato
Oscuro, la sua sete di sangue si placava. Non era neppure stato in grado di
uccidere il suo più odiato nemico senza essere provocato: probabilmente
non sarebbe riuscito a uccidere Githany, se mai ne avesse avuto occasione.
Saperlo aveva cambiato ancora una volta la natura del loro rapporto. Di
recente aveva iniziato a temere Bane, preoccupata che se mai si fosse
rivoltato contro di lei non sarebbe stata abbastanza forte da affrontarlo. Ora
sapeva che non sarebbe mai successo. Semplicemente, Bane non era capace
di uccidere un alleato senza un valido motivo.
Per fortuna, lei non si poneva gli stessi limiti.

Quella notte, steso sul letto senza riuscire a dormire, Bane stava ancora
pensando a quanto detto da Githany. Perché non era stato in grado di
uccidere Sirak? Aveva ragione lei? Si era ritratto per un mal riposto senso di
pietà? Voleva credere di aver abbracciato il Lato Oscuro, ma in tal caso
avrebbe ucciso Sirak senza pensarci due volte, quali che fossero le
conseguenze.
Tuttavia, c’era anche dell’altro a preoccuparlo. Si sentiva frustrato per
come lui e Githany si erano lasciati. Era attratto in modo innegabile da
quella donna così ipnotica e irresistibile. Ogni volta che lo sfiorava, sentiva
i brividi percorrergli la schiena. Persino quando erano separati pensava
spesso a lei, a ricordi che rimanevano nell’aria come la fragranza del suo
profumo inebriante. Di notte, i lunghi capelli neri e quegli occhi pericolosi
tornavano a ossessionarlo in sogno.
E credeva sinceramente che anche lei provasse qualcosa del genere nei
suoi confronti... benché dubitava che lo avrebbe mai ammesso. Eppure, per
quanto si fossero avvicinati durante le lezioni segrete insieme, non avevano
mai consumato quel desiderio. Sembrava una cosa sbagliata, mentre Sirak
era ancora il primo apprendista dell’Accademia. La sua sconfitta era stata
l’obiettivo principale di entrambi; nessuno dei due aveva voluto lasciarsene
distogliere. Era un nemico comune che li univa sotto un’unica causa, ma in
molti sensi era stato anche una barriera che li separava.
Sconfiggere Sirak avrebbe dovuto abbattere quella barriera. Ma dopo la
battaglia, Bane aveva visto la delusione sul volto di Githany. Aveva
promesso di uccidere il loro nemico e lei aveva creduto in lui. Eppure, alla
fine aveva dimostrato di non essere all’altezza delle sue aspettative e
all’improvviso la barriera si era rafforzata ancora di più.
Qualcuno bussò piano alla porta della sua camera. L’ora del coprifuoco
era passata da un pezzo; nessun apprendista aveva motivo di trovarsi nei
corridoi. Riusciva a pensare a una sola persona che potesse vagare per la
scuola di notte.
Saltando giù dal letto, attraversò la stanza con una singola falcata e aprì
di botto la porta. Riuscì a nascondere in fretta la propria delusione alla vista
di Lord Kas’im in piedi dietro la soglia.
Il Maestro di Spada varcò la porta senza attendere un invito; quando fu
dentro, rivolse a Bane un cenno del capo per dirgli di chiudere. Bane
obbedì, domandandosi lo scopo di quella inattesa visita notturna.
“Ho una cosa per te”, disse il Twi’lek, scostando le pieghe del mantello e
portando la mano verso la sua spada laser. No, si rese conto Bane. Non era
la sua. L’impugnatura dell’arma di Kas’im era chiaramente più lunga delle
altre per poter alloggiare due cristalli, uno per ciascuna lama. Quell’elsa era
più piccola e la sua forma descriveva una strana curva che le dava l’aspetto
di un uncino.
Il Maestro accese la spada: la lama singola ardeva di un rosso scuro.
“Questa era l’arma del mio Maestro”, disse a Bane. “Da bambino lo
osservavo per ore mentre ripeteva i suoi esercizi. I miei primi ricordi sono
luci color rubino che seguono i movimenti della battaglia”.
“Non ricordate i vostri genitori?”, domandò Bane sorpreso.
Kas’im scosse la testa. “I miei genitori furono venduti al mercato degli
schiavi di Nal Hutta. Fu là che il Maestro Na’daz mi trovò: notò la mia
famiglia nell’angolo delle aste, forse perché eravamo Twi’lek come lui. Io
riuscivo a stento a camminare, ma il Maestro Na’daz percepì la Forza in
me. Mi acquistò e mi riportò su Ryloth per crescermi come suo apprendista
fra la nostra gente”.
“Cos’è successo ai vostri genitori?”
“Non lo so”, rispose Kas’im con un’indifferente scrollata di spalle. “Non
avevano particolari legami con la Forza, dunque il mio Maestro non ebbe
motivo di acquistarli. Erano deboli, perciò sono stati abbandonati”.
Parlava con noncuranza, come se la consapevolezza che i genitori fossero
vissuti e probabilmente morti da schiavi al servizio degli Hutt non avesse
alcun importanza per lui. In un certo senso, si trattava di un’apatia
comprensibile. Non aveva mai conosciuto i genitori e dunque non
condivideva con loro alcun legame, buono o cattivo che fosse. Bane si
domandò per un attimo se la sua vita sarebbe stata diversa se lo avesse
cresciuto qualcun altro. Se Hurst fosse morto nelle miniere di cortosite
mentre lui era neonato, sarebbe comunque finito a Korriban?
“Il mio Maestro era un grande Signore dei Sith”, proseguì Kas’im. “Era
particolarmente versato nelle arti del combattimento con la spada laser,
un’abilità che ha tramandato a me. Mi ha insegnato a usare la spada a
doppia lama, benché, come puoi vedere, preferisse forme più tradizionali.
Tranne per l’impugnatura, naturalmente”.
La lama scomparve con uno sfarfallio quando la spense e la lanciò a
Bane, che la afferrò con agio impugnando l’elsa ricurva.
“È strana”, mormorò.
“C’è bisogno di una lieve variazione nella presa”, spiegò Kas’im.
“Tienila più nel palmo, allontanandola dalle dita”.
Bane fece come indicato e lasciò che il corpo si abituasse al peso e
all’equilibrio inconsueti. La sua mente iniziava già a passare in rassegna le
implicazioni di quella nuova presa: avrebbe conferito più potenza ai colpi
portati dall’alto e modificato l’angolazione degli attacchi di un singolo,
minuscolo grado, abbastanza da confondere e disorientare un avversario
ignaro.
“Alcune mosse saranno più difficili da eseguire con quest’arma”, lo
avvertì Kas’im. “Ma molte altre risulteranno ben più efficaci. In definitiva,
ritengo che questa spada laser si adatterà piuttosto bene al tuo stile
personale”.
“Volete darla a me?”, domandò Bane incredulo.
“Oggi hai dimostrato di esserne degno”. Nella voce del Maestro di Spada
c’era appena un’ombra di orgoglio.
Bane la accese, ascoltando il sottile ronzio della cella energetica e il
crepitio della lama di energia. Eseguì qualche semplice florilegio, poi la
spense all’improvviso.
“Qordis è d’accordo?”
“È una mia decisione, non sua”, affermò Kas’im. Sembrava quasi offeso.
“Non ho tenuto questa spada con me dieci anni solo perché fosse Qordis a
decidere a chi darla”.
Bane rispose con un inchino rispettoso, ben consapevole del grande
onore che Kas’im gli aveva appena fatto. Per colmare il silenzio
imbarazzato che seguì, domandò: “Il vostro Maestro ve l’ha data alla sua
morte?”
“L’ho presa quando l’ho ucciso”.
Bane rimase così stupito da non riuscire a nascondere la sua reazione. Il
Maestro di Spada la vide e sorrise debolmente.
“Avevo appreso tutto ciò che potevo dal Maestro Na’daz. Per quanto il
Lato Oscuro fosse potente in lui, in me lo era di più. Per quanto abile fosse
con la spada laser, io lo ero diventato di più”.
“Ma perché ucciderlo?”, domandò Bane.
“È stata una prova. Per capire se fossi forte quanto credevo. Questo
prima dell’ascesa al potere di Lord Kaan. Eravamo ancora intrappolati nelle
vecchie tradizioni Sith contro Sith, Maestro contro apprendista. Ci
sfidavamo stupidamente l’un l’altro per dimostrare la nostra superiorità. Per
fortuna la Confraternita dell’Oscurità ha messo fine a tutto ciò”.
“Non del tutto”, mormorò Bane pensando a Fohargh e a Sirak. “I deboli
cadono ancora per mano dei forti. È inevitabile”.
Kas’im inclinò il capo, tentando di misurare il significato recondito delle
sue parole. “Non lasciarti accecare dall’onore che ti ho fatto”, lo ammonì.
“Non sei pronto a sfidarmi, giovane apprendista. Ti ho insegnato tutto ciò
che sai, ma non tutto ciò che io so”.
Bane non riuscì a fare a meno di sorridere. L’idea di affrontare Kas’im in
un combattimento reale era assurda. Sapeva di non poter competere col
Maestro di Spada, non ancora. “Me ne ricorderò, Maestro”.
Soddisfatto, Kas’im si voltò per andarsene. Appena prima che Bane gli
chiudesse la porta alle spalle aggiunse: “Lord Qordis vuol vederti domattina
presto. Vai nelle sue stanze prima delle esercitazioni diurne”.
Neppure la prospettiva non proprio allegra d’incontrare il tetro
supervisore dell’Accademia riuscì a spegnere l’euforia di Bane. Non appena
fu da solo nella sua stanza riaccese la spada laser e cominciò a eseguire
qualche sequenza. Passarono molte ore prima che riponesse finalmente
l’arma e si rimettesse a letto, ogni pensiero di Githany bandito ormai da
tempo.

Le prime luci dell’alba trovarono Bane davanti all’ingresso degli alloggi


personali di Lord Qordis. Erano passati mesi dall’ultima volta in cui si era
trovato lì: allora era stato punito per aver ucciso Fohargh. Stavolta aveva
gravemente ferito uno degli studenti di punta dell’Accademia, uno dei
favoriti di Qordis. Si domandò cosa lo aspettasse.
Appellandosi a tutto il suo coraggio, bussò una volta.
“Avanti”, disse la voce all’interno.
Tentando d’ignorare l’apprensione, Bane eseguì. Lord Qordis era al
centro della stanza, inginocchiato sul tappeto da meditazione. Sembrava che
non si fosse mosso: la sua posizione era identica a quella del loro ultimo
incontro.
“Maestro”, disse Bane, inchinandosi profondamente.
Qordis non si prese il disturbo di alzarsi. “Vedo che porti una spada laser
alla cintura”.
“Me l’ha data Lord Kas’im. Riteneva che l’avessi meritata con la mia
ultima vittoria nell’arena”. All’improvviso si sentiva sulla difensiva, come
se fosse sotto attacco.
“Non ho alcuna intenzione di contraddire il Maestro di Spada”, rispose
Qordis nonostante il suo tono lasciasse intendere il contrario. “Tuttavia, pur
portando una spada laser, non devi dimenticare che sei ancora un
apprendista. Devi ancora mostrare obbedienza e lealtà ai Maestri
dell’Accademia”.
“Naturalmente, Lord Qordis”.
“Il modo in cui hai sconfitto Sirak ha profondamente impressionato gli
altri studenti”, proseguì Qordis. “Ora tenteranno di emularti. Dovrai essere
loro di esempio”.
“Farò del mio meglio, Maestro”.
“Ciò vuol dire che le tue lezioni private con Githany finiscono qui”.
Bane fu percorso da un brivido. “Ne siete al corrente?”
“Sono Signore dei Sith e Maestro di quest’Accademia. Non sono uno
sciocco, né sono cieco a ciò che accade tra le mura di questo tempio.
Quando eri un reietto ho tollerato il tuo comportamento, perché non recava
danno agli altri apprendisti. Tuttavia, da adesso molti studenti ti
osserveranno attentamente. Non voglio che seguano le tue orme e tentino di
allenarsi a vicenda nell’incauto tentativo di replicare il tuo successo”.
“Cosa accadrà a Githany? Sarà punita?”
“Le parlerò come sto parlando a te. Agli altri apprendisti dovrà risultare
chiaro che voi due non vi allenate in privato; vale a dire che non potrai più
vederla. Dovrete evitare ogni contatto tranne che durante le lezioni di
gruppo. Se mi obbedirete entrambi, non vi saranno altre conseguenze”.
Bane comprendeva le preoccupazioni di Lord Qordis, ma la soluzione gli
pareva eccessiva. Non c’era bisogno di separarlo così completamente da
Githany. Si domandò se i Maestri sapessero dell’attrazione che provava per
lei. Temevano forse che lo avrebbe distratto?
No, si rese conto. Non era per quello. Si trattava di una semplice
questione di controllo. Bane aveva sfidato Lord Qordis; era riuscito nel suo
intento, pur evitato dal resto dell’Accademia. E allora Qordis voleva
reclamare il merito dei successi di Bane.
“Non è tutto”, continuò Qordis, interrompendo i suoi pensieri. “Dovrai
anche cessare i tuoi studi negli archivi”.
“Perché?”, esplose Bane, arrabbiato e sorpreso. “I manoscritti
contengono la sapienza degli antichi Sith. Ho appreso molto sulle vie del
Lato Oscuro”.
“Gli archivi sono un cimelio del passato”, controbatté Qordis brusco.
“Provengono da un’epoca ormai scomparsa. L’Ordine è cambiato; ci siamo
evoluti da ciò che hai appreso in quelle pergamene e in quei volumi
ammuffiti. Lo capiresti, se avessi studiato coi Maestri anziché correre per la
tua strada”.
Siete stato voi a costringermi a percorrerla, pensò Bane. “Forse i Sith
sono cambiati, ma possiamo ancora costruire qualcosa sulle conoscenze di
chi ci ha preceduto; sono certo che lo capiate, Maestro. Altrimenti perché
avreste ricostruito l’Accademia su Korriban?”
Negli occhi del Signore Oscuro luccicò un lampo di rabbia. Era chiaro
che non gli piacesse essere sfidato da un suo studente. Quando parlò, lo fece
con voce fredda e minacciosa. “Il Lato Oscuro è potente su questo pianeta.
È l’unico motivo per cui abbiamo scelto di venire qui”.
Bane sapeva che avrebbe dovuto lasciar perdere, ma non era pronto a
cedere. Era troppo importante. “Ma allora la Valle dei Signori Oscuri? E le
tombe di tutti i Maestri oscuri sepolti su Korriban, e i segreti nascosti al loro
interno?”
“È questo che cerchi?”, lo derise Qordis. “I segreti dei defunti? I Jedi
hanno depredato le tombe quando Korriban fu sconfitto tremila anni fa.
Non rimane nulla di valore”.
“I Jedi servono la luce”, protestò Bane. “Il Lato Oscuro ha segreti che
non comprenderanno mai. Potrebbe essere sfuggito loro qualcosa”.
Qordis rise, un verso simile a un latrato sgradevole e sdegnoso. “Davvero
sei così ingenuo?”
“Si dice che gli spiriti di potenti Maestri Sith risiedano ancora nelle loro
tombe”, insistette Bane, rifiutando ostinatamente di lasciarsi scoraggiare.
“Appaiono soltanto a chi ne è degno. Non si sarebbero mai mostrati ai
Jedi”.
“Credi veramente che spiriti e fantasmi rimangano nelle loro cripte, in
attesa di tramandare i grandi misteri del Lato Oscuro a chi si rechi da loro?”
I pensieri di Bane tornarono ai suoi studi. Negli archivi erano presenti fin
troppi resoconti del genere perché si trattasse di semplici leggende. Doveva
esserci un fondo di verità.
“Sì”, rispose, pur sapendo che avrebbe fatto infuriare Qordis ancor di più.
“Credo di poter imparare più dai fantasmi della Valle che dai Maestri
viventi di quest’Accademia”.
Qordis balzò in piedi e schiaffeggiò Bane con violenza, ferendolo con le
unghie artigliate. Bane non cedette di un passo; non trasalì neppure.
“Sciocco impudente!”, gridò il suo Maestro. “Tu veneri chi è morto e
defunto. Pensi che in essi alberghi un grande potere, mentre non sono altro
che mucchi di polvere e ossa!”
“Vi sbagliate”, disse Bane. Sentiva il sangue raccogliersi nei graffi sul
viso, ma non alzò la mano per pulirlo. Si limitò a restare immobile come
una statua davanti al Maestro infuriato.
Benché non si fosse mosso, Qordis fece mezzo passo indietro. Quando
parlò la sua voce era più calma, pur traboccando ancora di rabbia. “Va’
fuori”, disse, tendendo un lungo dito ossuto verso la porta. “Se la saggezza
dei morti ti è così cara, allora va’. Lascia il tempio. Va’ nella Valle dei
Signori Oscuri, e trova le tue risposte nelle loro tombe”.
Bane esitò. Sapeva che si trattava di una prova. Se si fosse scusato in
quel momento, se si fosse prostrato e avesse implorato il perdono del
Maestro, probabilmente Qordis lo avrebbe lasciato restare. Ma sapeva che il
Maestro aveva torto. Gli antichi Sith erano morti, ma il loro lascito viveva
ancora. Era la sua occasione per impossessarsene.
Voltò le spalle a Lord Qordis e uscì a grandi passi dalla stanza senza dire
una parola. Non aveva senso continuare quella discussione. L’unico modo
in cui potesse vincere era trovare le prove, e non lo avrebbe fatto restando
dov’era.
CAPITOLO 18

Bane aveva saltato la sessione di allenamento mattutina. Per Kas’im non fu


difficile indovinare il responsabile di quell’assenza.
Non si prese la briga di bussare alla porta di Lord Qordis; usò
semplicemente la Forza per distruggere la serratura e poi la spalancò con un
calcio. Purtroppo, l’elemento sorpresa in cui sperava andò perso.
Qordis dava le spalle alla porta e stava esaminando uno dei magnifici
arazzi appesi accanto al suo enorme letto. Non si voltò all’irruzione del
Maestro; non reagì affatto. Ciò significava che si aspettava quella visita.
Kas’im fece un gesto brusco con la mano e la porta si richiuse con un
botto. Quel che stava per dire non doveva essere ascoltato dagli studenti.
“Che diamine hai fatto, Qordis?”
“Presumo ti riferisca all’apprendista Bane”, fu la risposta, fin troppo
disinvolta.
“È chiaro, maledizione! Basta giocare, Qordis. Che cosa gli hai fatto?”
“Nulla. Non nel senso che credi. Ho solo tentato di ragionare, di fargli
capire la necessità di operare entro le strutture di quest’istituzione”.
“Lo hai manipolato”, disse Kas’im con una traccia di rassegnazione.
Sapeva che Qordis non provasse simpatia per Bane, non quando era stato
Lord Kopecz, il suo antico rivale, a portarlo lì. Il Maestro di Spada si rese
conto che avrebbe dovuto avvertire il giovane apprendista di stare in
guardia.
“Lo hai ingannato in qualche modo”, continuò, tentando di provocare una
reazione. “Lo hai costretto a percorrere il sentiero che volevi. Un sentiero
che lo condurrà alla rovina”.
Non vi fu una risposta immediata. Stanco di fissare la schiena di Qordis,
fece un passo avanti e alzò una mano per ghermire l’uomo allampanato alla
spalla e girarlo verso di sé. “Perché, Qordis?”
Nel primo, breve attimo dopo esser stato costretto a girarsi, Kas’im colse
un barlume d’incertezza e di confusione nei lineamenti scarni e tirati del
supervisore. Poi quegli stessi lineamenti si contorsero in una maschera di
rabbia, gli occhi scuri che ardevano nelle orbite incavate. Qordis allontanò
la mano di Kas’im con uno schiaffo.
“Se l’è cercata! Lo ha fatto di sua volontà! È ossessionato dal passato, e
non ci sarà di alcuna utilità finché non avrà accettato gli insegnamenti di
quest’Accademia!”
Kas’im fu colto alla sprovvista, non da quell’esplosione improvvisa bensì
dall’inatteso lampo d’incertezza che l’aveva preceduta. Tutto a un tratto si
domandò se quell’incontro non fosse andato esattamente come previsto.
Forse Qordis aveva tentato di manipolare Bane e aveva fallito. Non sarebbe
stata la prima volta che sottovalutavano quell’insolito apprendista.
In quel momento si sentiva più curioso che adirato. “Raccontami cos’è
successo, Qordis. Dov’è Bane adesso?”
Qordis sospirò, quasi rammaricato. “È andato nel deserto. È diretto alla
Valle dei Signori Oscuri”.
“Che cosa? E perché mai?”
“Te l’ho detto: è ossessionato dal passato. Crede che vi siano dei segreti
che gli verranno rivelati. Segreti del Lato Oscuro”.
“Lo hai avvertito dei pericoli? Degli sciami di pelko, dei tuk’ata?”
“Non me ne ha dato l’occasione. Ma comunque non mi avrebbe
ascoltato”.
Almeno a quello Kas’im credeva; eppure non era certo di fidarsi del resto
della storia di Qordis. Il Maestro dell’Accademia era subdolo e astuto.
Sarebbe stato proprio da lui convincere qualcuno con l’inganno ad
avventurarsi nella letale Valle dei Signori Oscuri. Se avesse voluto
eliminare Bane senza esserne ritenuto responsabile, quello era uno dei
modi... tranne che per un piccolo dettaglio.
“Sopravvivrà”, affermò Kas’im. “È più forte di quanto credi”.
“Se sopravvivrà”, rispose Qordis, tornando a rivolgersi verso l’arazzo,
“scoprirà la verità. Non ci sono segreti nella valle, non più. Tutte le cose di
valore sono state portate via: prima dai Sith che cercavano di preservare il
nostro Ordine, e in seguito dai Jedi che tentavano di spazzarlo via. Nelle
tombe non restano altro che camere vuote e cumuli di polvere. Quando lo
vedrà coi propri occhi, rinuncerà a idealizzare stupidamente gli antichi Sith.
Soltanto allora sarà pronto a unirsi alla Confraternita dell’Oscurità”.
La conversazione era terminata, e quello se non altro era chiaro. Le
parole di Qordis avevano senso, se quella fosse stata parte di una lezione
più generale per fare finalmente abbandonare a Bane i suoi vecchi modi e
accettare il nuovo Ordine dei Sith e la Confraternita di Kaan.
Eppure, nel voltarsi per lasciare la stanza, Kas’im non riuscì a scacciare
la sensazione che Qordis stesse trovando una logica negli eventi a
posteriori. Voleva far credere agli altri di aver sempre tenuto la situazione
sotto controllo, ma lo sguardo ossessionato che gli aveva visto sul volto per
un attimo dimostrava quale fosse la verità: Qordis era terrorizzato da
qualcosa che Bane aveva detto o fatto.
Quel pensiero disegnò un sorriso sulle labbra del Twi’lek. Confidava
pienamente che Bane sarebbe sopravvissuto al suo viaggio nella Valle dei
Signori Oscuri, e gli interessava molto vedere cosa sarebbe successo al
ritorno del giovane.

Sirak si muoveva con cautela. Aveva trascorso le ultime trentasei ore in


una vasca di bacta e, nonostante le ferite fossero guarite completamente, il
suo corpo reagiva ancora d’istinto al ricordo dei colpi inferti dalla spada di
Bane. Raccolse lentamente i propri effetti personali, ansioso di tornare
all’ambiente familiare della propria stanza lasciandosi alle spalle la
solitudine del centro medico.
Un droide medico si avvicinò fluttuando con un paio di calzoni, una
maglietta e la veste nera da apprendista. Sapevano di disinfettante; era
pratica comune sterilizzare tutto prima di portarlo nel centro medico. Gli
indumenti calzavano, ma dal momento in cui li indossò capì che non erano
mai stati usati prima.
Da quando era stato portato via dall’arena, non aveva visto nessun altro a
parte i droidi medici. Nessuno era venuto a controllare le sue condizioni
mentre galleggiava nel liquido curativo: non Qordis né Kas’im, e nemmeno
Llokay o Yevra. Non li biasimava.
I Sith odiavano la debolezza e il fallimento. Gli apprendisti che
perdevano nell’arena venivano lasciati soli con la vergogna della sconfitta
finché non erano forti abbastanza da riprendere gli studi. Prima o poi
succedeva a tutti... solo che a lui non era mai capitato.
Era stato invincibile e intoccabile, l’apprendista al primo posto in ogni
disciplina. Aveva sentito le voci che correvano su di lui. Lo chiamavano il
Sith’ari, l’essere perfetto. Ma ormai non lo avrebbero più chiamato così.
Non dopo ciò che Bane gli aveva fatto.
Si volse verso la porta e vi trovò incorniciata Githany, che lo osservava.
“Cosa vuoi?”, le domandò, circospetto.
Sapeva chi era, pur non avendole mai parlato. Il giorno del suo arrivo
l’aveva riconosciuta come una potenziale minaccia. L’aveva osservata e
l’aveva vista osservarlo; si erano misurati, valutati l’un l’altro, tentando di
determinare chi fosse più forte. Sirak teneva d’occhio tutti i suoi potenziali
concorrenti, o così aveva pensato finché proprio lo studente che temeva
meno di tutti lo aveva sconfitto.
“Sono qui per parlarti”, rispose lei. “Di Bane”.
Quel nome gli provocò uno spasmo involontario, poi si maledisse per
quella reazione. Se Githany se n’era accorta, non lo diede a vedere.
“Cosa c’entra lui?”, domandò, secco.
“Sono curiosa di sapere quali sono i tuoi piani. Come vuoi gestire la
situazione?”
Fu faticoso richiamare la vecchia arroganza, ma in qualche modo riuscì a
produrre un sogghigno soddisfacente. “I miei piani non ti riguardano”.
“Ti vendicherai?”, lo incalzò.
“Forse, a suo tempo”, ammise infine.
“Io posso aiutarti”.
Entrò nella stanza. Bastò un singolo passo perché Sirak notasse che si
muoveva con la grazia sensuale di una danzatrice del velo zeltron.
Socchiuse gli occhi, sospettoso. “Perché?”
“Ho aiutato Bane a sconfiggerti”, rispose lei. “Ho riconosciuto il suo
potenziale dalla prima volta che l’ho visto. Quando Qordis e gli altri
Maestri lo hanno abbandonato, gli ho impartito lezioni sulla Forza in
segreto. Sapevo che il Lato Oscuro era potente in lui. Più che in me, e in te.
Forse addirittura più che nei Maestri stessi”.
Sirak non riusciva a cogliere il senso di quella storia. “Non hai ancora
risposto alla mia domanda. Hai avuto ciò che volevi da Bane. Perché aiutare
me, adesso?”
Lei scosse la testa con tristezza. “Mi sbagliavo su Bane. Credevo che, se
lo avessi aiutato a diventare forte, avrebbe abbracciato il Lato Oscuro. E
allora avrei potuto imparare da lui e diventare più potente. Ma non è in
grado di darsi completamente al Lato Oscuro. Tutti gli altri credono che il
suo trionfo sia stato una grande vittoria; solo io l’ho riconosciuto come un
fallimento”.
Stava giocando con lui; lo prendeva in giro. E non gli piaceva. “Nessuno
mi ha mai battuto nell’arena prima di Bane!”, la aggredì. “Come puoi
definirlo un fallimento?”
“Sei ancora vivo”, rispose lei con semplicità. “Quando è giunto il
momento di sferrarti il colpo fatale, ha esitato. Non ha avuto la forza di
farlo. È stato debole”.
Affascinato, Sirak non rispose subito. Attese invece che elaborasse quel
concetto.
“Ha complottato e tramato la sua vendetta per mesi”, continuò. “L’odio
gli ha dato la forza per superarti... e all’ultimo istante ha avuto pietà,
lasciandoti vivere”.
“Io l’ho lasciato vivere alla fine del nostro primo duello”, le rammentò
Sirak.
“Quello non è stato un atto di pietà, ma di disprezzo. Pensavi di averlo
totalmente distrutto. Se avessi saputo che un giorno si sarebbe ripreso per
sfidarti ancora, gli avresti tolto la vita a prescindere dalle regole
dell’Accademia.
“Lo hai sottovalutato: è stato uno sbaglio e so che non lo ripeterai. Ma
Bane non ti sta sottovalutando: sa che sei abbastanza potente da
rappresentare una vera minaccia, eppure ti ha lasciato in vita, sapendo che
un giorno cercherai di vendicarti di lui. O è debole, o è uno sciocco”,
concluse, “e in entrambi i casi io non voglio avere nulla a che fare con lui”.
C’era una parte di verità in quelle parole, ma Sirak non era ancora
convinto. “Sei troppo rapida a cambiare bandiera, Githany. Anche per un
Sith”. Lei restò in silenzio per molto tempo, cercando di capire come
rispondergli. Poi all’improvviso abbassò lo sguardo a terra, e quando lo
rialzò i suoi occhi erano colmi di vergogna e umiliazione.
“È stato Bane a cambiare, non io”, ammise, la voce che quasi le si
spezzava. “Mi ha abbandonato”, continuò, senza nascondere la propria
amarezza. “Ha lasciato l’Accademia. Non mi ha detto il perché; non mi ha
neppure salutato”.
Tutto a un tratto, ogni cosa fu chiara. Sirak capì quel desiderio
improvviso di unirsi a lui contro il suo precedente alleato. Githany era
abituata a manipolare, a comandare. Era lei che di solito metteva fine alle
cose, e non le piaceva trovarsi dall’altra parte della barricata.
Era come il vecchio detto corelliano: Non c’è nulla di più vendicativo di
una donna rifiutata.
“Dov’è andato?”, domandò.
“Gli studenti dicono che Qordis lo abbia spedito nella Valle dei Signori
Oscuri”.
Sirak fu sul punto di sbottare: Allora è già morto!, ma all’ultimo istante
ricordò l’avvertimento a non sottovalutare di nuovo Bane. Così disse
invece: “Ti aspetti che ritorni”.
“Ne sono certa”.
“Allora saremo pronti”, promise Sirak. “Quando tornerà, lo
distruggeremo”.

Mentre Bane marciava sulla sabbia rovente del deserto di Korriban, notò
il sole che calava rapido dietro l’orizzonte. Camminava da ore sotto i suoi
raggi; la cittadina di Dreshdae e il tempio che la sovrastava erano ormai da
tempo alle sue spalle. Si erano ridotti a puntini in lontananza; se si fosse
voltato, sarebbe riuscito a distinguerli appena nella luce sempre più fioca.
Non si guardò indietro, ma continuò ad avanzare con decisione. Il calore
infuocato non lo aveva rallentato, e neppure lo avrebbero fatto le
temperature che dopo il tramonto sarebbero divenute quasi glaciali. Disagi
fisici come freddo, caldo, sete, fame e fatica non sortivano effetti rilevanti
su di lui, sorretto com’era dal potere della Forza.
Ciò nonostante era inquieto. Ricordava quando aveva messo piede su
Korriban per la prima volta. Aveva percepito il potere di quel pianeta:
Korriban era animato dal Lato Oscuro. Eppure, la sensazione era stata
debole e distante. Nel periodo trascorso all’Accademia si era talmente
abituato a quel rumore di sottofondo pressoché inconscio da non notarlo
quasi più.
Quando si era lasciato tempio e spazioporto alle spalle, si era aspettato
che quella sensazione si rafforzasse. Pensava che avrebbe avvertito
l’intensità del Lato Oscuro crescere a ogni passo che lo avvicinava alla
Valle dei Signori Oscuri.
Invece, non aveva sentito nulla, nessun cambiamento percettibile. Era
appena a pochi chilometri dall’entrata della valle; riusciva a vedere le
sagome in ombra delle più vicine tombe scolpite nelle pareti rocciose. E
nonostante questo il Lato Oscuro non era che un’eco vuota, poco più che il
pallido ricordo di pianeti distanti esistiti in un remoto passato.
Raddoppiò l’andatura, mettendo da parte dubbi e riserve. Voleva
raggiungere la valle prima che l’oscurità fosse totale. Prima di andarsene
dall’Accademia aveva preso una manciata di torce a luminescenza, e se
necessario avrebbe potuto usarle per illuminare il cammino. Purtroppo,
però, la luce sarebbe stata un faro nelle tenebre che avrebbe segnalato la sua
posizione a chiunque... o a qualunque cosa. Con la sua nuova spada laser al
fianco confidava di sopravvivere a quasi ogni scontro, ma vicino alle tombe
si nascondevano cose di cui avrebbe preferito non attirare l’attenzione.
Quando finalmente giunse a destinazione, nell’aria restavano ancora gli
ultimi raggi di luce. La Valle dei Signori Oscuri si estendeva dinanzi a lui,
nascosta sotto il velo dell’oscurità crepuscolare. Prese brevemente in
considerazione l’idea di fermarsi per la notte e accamparsi fino all’alba, poi
la bocciò. Che fosse giorno o notte, non avrebbe più fatto differenza una
volta all’interno delle tombe: avrebbe comunque dovuto usare le torce a
luminescenza. E trovandosi finalmente lì, era troppo ansioso di vedere
cos’avrebbe scoperto per rimandare ulteriormente.
Scelse il tempio più vicino, il solo che riuscisse effettivamente a
distinguere nella debole luce. Come tutte le tombe, questo era stato scavato
nelle alte rupi che circondavano la valle su ambo i lati. La grandiosa arcata
d’ingresso era ricavata dalla facciata del dirupo, ma le camere che
ospitavano i resti del Signore Oscuro tumulato all’interno erano più in
profondità.
Avvicinandosi, notò le complicate decorazioni scolpite sull’arcata. In
cima era scritto qualcosa in lettere che non riconobbe. Suppose che un
tempo la fattura di quell’opera dovesse incutere timore, ma millenni di venti
desertici avevano eroso gran parte dei dettagli.
Si fermò sulla soglia, ad assorbire l’atmosfera di mistero proibito che
circondava l’ingresso della tomba. Tuttavia, non avvertiva ancora
cambiamenti nella Forza. Avvicinatosi all’ingresso, vide con sgomento che
il grande lastrone che faceva da porta era stato spaccato in due. Fece
scorrere le dita sui bordi della fenditura: erano lisci e consunti. Chiunque
avesse spezzato la porta l’aveva fatto molto tempo prima.
Bane raddrizzò la schiena e attraversò a passo deciso il portale distrutto.
Scese la lunga galleria di entrata, spostandosi lentamente al buio. Dopo
cinque o sei metri l’oscurità si fece totale, e dunque estrasse una torcia e
l’attivò.
Il tunnel fu illuminato da una spettrale luce bluastra che fece fuggire un
piccolo sciame di letali insetti pelko dalla fioca illuminazione. Lo avevano
seguito, avvicinandosi su tutti i lati. Riusciva ancora a percepirne la
presenza, in attesa fra le ombre tutt’intorno a lui, ma non aveva paura.
Dopotutto non era la luce che li teneva a bada.
Come molte delle creature indigene di Korriban, i pelko erano in sintonia
con la Forza. Dovevano aver percepito l’arrivo di Bane prima ancora che
entrasse nel sepolcro: il suo potere li avrebbe inevitabilmente attratti. Allo
stesso tempo, però, li teneva anche a distanza di sicurezza assieme ai loro
letali aculei. I pelko riuscivano a percepire d’istinto la pura e semplice
portata del suo potere e si guardavano da lui. Non si sarebbero avvicinati
tanto da attaccarlo, cosa che li rendeva nient’altro che un fastidio. Forse i
predatori più grossi, come i tuk’ata, avrebbero potuto rappresentare una
minaccia. Ma se ne sarebbe occupato se e quando fosse giunto il tempo.
In quel momento lo preoccupavano di più i pericoli che i costruttori della
tomba potevano aver lasciato. I mausolei Sith erano famosi per le loro
trappole diaboliche e letali. Bane adoperò la Forza per sondare attentamente
le pareti, il terreno e il pavimento innanzi a sé in cerca di qualcosa fuori
dall’ordinario. Fu sollevato, e leggermente deluso, di non trovare nulla. Una
parte di sé sperava che si sarebbe imbattuto in una camera sconosciuta,
qualcosa che fosse sfuggito ai Jedi.
Proseguì lungo il tunnel, passando accanto a varie camere dove le
ricchezze e i tesori del Signore Oscuro dovevano essere sepolti assieme ai
servi inferiori ancora in vita. Quelle stanze non avevano nulla che lo
interessasse: non era un razziatore di tombe. Continuò invece sempre più in
profondità finché non raggiunse la camera funebre stessa.
I pelko avanzavano con lui, proseguendo in cerchio appena al di là della
luce blu proiettata dalla torcia a luminescenza. Poteva udire i suoni acuti e i
ciangottii emessi dallo sciame frustrato, incapace di assaltare la preda ma
irresistibilmente attratto dal suo passaggio.
La camera funebre era facilmente riconoscibile dall’enorme sarcofago di
pietra, posto su un piccolo piedistallo al centro della stanza. Era poco più di
un’ombra squadrata ai margini della luce della torcia, ma lo colmò di un
senso di paura e soggezione.
Continuando a usare la Forza in cerca di trappole, si avvicinò con cautela
alla tomba, facendosi sempre più trepidante man mano che la luce azzurra
la illuminava e ne rivelava sempre più dettagli. Sulla pietra erano scolpiti
simboli simili a quelli visti all’ingresso della cripta, ma che non avevano
subito secoli di erosioni: risaltavano con chiarezza nitida e brutale. Non
sapeva leggere quella lingua sconosciuta né identificare il Signore Oscuro
dal suo stemma, ma sapeva che in quel luogo riposava un essere antico e
potente.
Raggiunse la piattaforma, che arrivava poco più in alto del suo ginocchio.
Vi pose un piede, poi tese una mano per afferrare il bordo sporgente di uno
dei simboli scolpiti sul fianco del sarcofago. Si aspettava quasi di ricevere
una scossa elettrica o uno shock di qualche tipo, ma non sentì altro che la
fredda pietra sotto il palmo.
Tenendosi in equilibrio grazie alla presa sull’oggetto, si sollevò per
appoggiare i piedi sulla piattaforma e abbassare lo sguardo sulla sommità
della tomba. Con orrore vide che la lastra che chiudeva il sarcofago era
stata praticamente distrutta. Qualunque cosa si trovasse al suo interno non
c’era più, sostituita da macerie, polvere e qualche frammento di ossa
spezzate che forse un tempo erano state le dita scheletriche del Signore
Oscuro.
Scese dalla piattaforma, frustrato ma non ancora disposto ad arrendersi.
Si girò lentamente intorno, come se si aspettasse di trovare i resti trafugati
in un angolo della camera funebre. Non c’era nulla: la tomba era stata
saccheggiata e profanata.
Bane non sapeva bene cosa si aspettasse di trovare, ma di certo non
quello. Gli spiriti degli antichi Signori Oscuri erano esseri di pura energia
del Lato Oscuro, eterni come la Forza stessa. Sarebbero rimasti per secoli,
addirittura millenni, fino all’arrivo di un degno successore. O così lo
avevano portato a credere i testi nell’archivio.
Eppure, la dura verità davanti ai suoi occhi era innegabile. Gli antichi
manoscritti lo avevano ingannato. Aveva scommesso tutto sulla verità di
quelle parole, arrivando addirittura a sfidare Qordis stesso, e aveva perso.
Per la disperazione, gettò la testa indietro e alzò le braccia verso il
soffitto. “Sono qui, Maestro!”, gridò. “Sono venuto a imparare i vostri
segreti!” Fece una pausa, in attesa di risposta. Non udendo nulla, gridò:
“Mostratevi! Per il potere del Lato Oscuro, fatevi vedere!”
Quelle parole riecheggiarono tra le pareti, suonando vuote e prive di
significato. Cadde in ginocchio, le gambe piegate di fianco e la testa china.
Quando l’eco finì, l’unico suono nell’aria era lo stridulo verso dei pelko.
Mentre ispezionava l’accampamento, Kopecz sputò per terra. Era
circondato da un esercito, ma formato da esseri inferiori. Ovunque
guardasse vedeva i servitori dei Sith, combattenti, assassini e apprendisti.
Ma i Maestri Sith erano pochi e preziosi. La guerra apparentemente
interminabile contro i Jedi sui campi di battaglia di Ruusan iniziava a
pesare non poco sulla Confraternita di Kaan. Senza rinforzi sarebbero stati
costretti alla ritirata, oppure a farsi annientare dal generale Hoth e
dall’odiato Esercito della Luce.
Il massiccio Twi’lek si alzò, spinto ad agire dalla consapevolezza che
occorresse far qualcosa. Si fece strada fra gruppi sparpagliati di soldati
notando quanti di loro fossero feriti, esausti o anche solo abbattuti. Quando
raggiunse l’entrata della tenda di Lord Kaan, il disprezzo che provava per i
suoi cosiddetti Fratelli aveva raggiunto l’apice.
Quando entrò, Lord Kaan lo guardò e congedò gli altri consiglieri con un
brusco gesto della mano. Uscirono in fila, e nessuno si azzardò ad
avvicinarsi troppo.
“Cosa c’è, amico mio?”, domandò Kaan. La sua voce era ammaliante
come sempre, ma aveva gli occhi spalancati e stravolti come un animale
braccato.
“Hai visto il nostro cosiddetto esercito qui fuori?”, ringhiò Kopecz,
indicando col dito dietro le spalle mentre avanzava lentamente. “Se è questo
tutto ciò che abbiamo per contrastare Lord Hoth, tanto vale dare alle
fiamme le vesti nere e cominciare a osservare il Codice dei Jedi”.
“Stanno arrivando rinforzi”, gli assicurò Lord Kaan. “Altre due divisioni
complete di soldati di fanteria e un’altra unità di tiratori. Mezzo reparto di
veicoli a repulsione con armi pesanti. Molti vengono attratti dalla gloria
della nostra causa, e ogni giorno sono sempre di più. La Confraternita
dell’Oscurità non può fallire”.
Kopecz non trovò grande conforto in quelle promesse. Lord Kaan era
sempre stato il punto di forza della Confraternita, un uomo che aveva
riunito i Signori Oscuri sotto un’unica causa grazie al suo enorme carisma e
una visione grandiosa. In quel momento, tuttavia, sembrava al limite. Lo
sforzo di combattere continuamente i Jedi lo aveva fiaccato.
Kopecz scosse la testa disgustato. “Non sono uno dei tuoi servili
consiglieri”, disse, alzando la voce. “Io non mi prostrerò strisciando davanti
a te, Lord Kaan. Non decanterò lodi alla tua follia quando posso vedere coi
miei stessi occhi che ci stai conducendo alla rovina!”
“Abbassa la voce!”, sbottò Kaan. “O distruggerai il morale delle truppe!”
“Non hanno più nessun morale da distruggere”, controbatté Kopecz, pur
abbassando la voce. “Non possiamo sconfiggere i Jedi coi normali soldati.
Loro sono troppi, e noi non siamo abbastanza”.
“Per ‘noi’ ti riferisci a chi è degno di unirsi alle file dei Signori Oscuri”,
rispose Kaan. Sospirò, e abbassò lo sguardo fissando l’olomappa distesa sul
tavolo davanti a sé.
“Sai cosa devi fare”, gli disse Kopecz, con voce leggermente meno
adirata. Aveva scelto di seguire Kaan, e non lo avrebbe abbandonato in quel
momento. Ma non era disposto a star fermo dinanzi a una sconfitta certa.
“Abbiamo di fronte un esercito di Cavalieri e Maestri Jedi. Non possiamo
contrastarli senza i nostri Maestri dell’Accademia, e anche gli studenti.
Tutti quanti”.
“Sono semplici apprendisti”, protestò Kaan.
“Sono i più forti del nostro Ordine”, gli rammentò Kopecz. “Sappiamo
entrambi che persino i più infimi studenti su Korriban sono più forti di metà
dei cosiddetti Signori Oscuri qui su Ruusan”.
“L’opera di Qordis è incompleta. Gli studenti hanno ancora molto da
imparare”, insistette Kaan, seppur debolmente. “Hanno così tanto
potenziale inutilizzato. L’Accademia rappresenta il futuro dei Sith”.
“Se non riusciremo a sconfiggere i Jedi qui su Ruusan, non avremo alcun
futuro!”, perseverò Kopecz.
Lord Kaan si prese la testa fra le mani, come se un gran dolore
minacciasse di spaccargli il cranio. Iniziò a tremare, gremito da un qualche
tremendo accesso. Kopecz indietreggiò senza volerlo.
Kaan ci mise solo pochi secondi a ricomporsi. Lo sguardo spiritato negli
occhi era scomparso, sostituito dalla calma e dalla sicurezza di sé che in
principio avevano attirato così tanti verso la Confraternita.
“Hai ragione, amico mio”, disse. Le parole gli uscirono facili e
disinvolte; parlava come se un gran peso gli fosse stato tolto dalle spalle.
Emanava forza e sicurezza; sembrava rilucere di un’aura viola, come se
fosse l’incarnazione stessa del Lato Oscuro. E all’improvviso, in modo
inspiegabile, Kopecz si sentì rassicurato.
“Avvertirò Qordis”, continuò Kaan, emanando ondate palpabili di Forza.
“Hai ragione. È tempo che gli studenti di Korriban si uniscano davvero alle
file dei Sith”.
CAPITOLO 19

Bane non aveva mai avuto tanta fame in vita sua. Il suo stomaco era
contratto dai crampi, che lo facevano piegare su se stesso mentre
attraversava lentamente il deserto di Korriban diretto a Dreshdae. Aveva
cercato nelle tombe della Valle dei Signori Oscuri per tredici giorni,
trovando sostentamento solo nella Forza e nelle compresse idratanti che
aveva portato per il viaggio nelle lande desolate. Non aveva mai dormito,
ma di tanto in tanto faceva riposare la mente con la meditazione. Ma
neppure la Forza, con tutto il suo potere, poteva creare qualcosa dal nulla.
Poteva tener lontana la fame per un po’ di tempo, ma non per sempre.
Era stato puntato due volte da branchi di tuk’ata, i cani da guardia che
vagavano nelle cripte degli antichi Maestri loro padroni. La prima volta li
aveva respinti con la Forza, usandola per afferrare il maschio dominante e
scagliarlo addosso al resto della muta, ferendo così vari animali. Erano
fuggiti tra penetranti ululati che l’avevano fatto rabbrividire. Il secondo
attacco era stato molto più cruento. Mentre esplorava una delle tombe più
recenti, si era trovato circondato da una dozzina di tuk’ata, quasi il doppio
del branco precedente. Aveva calato la sua spada laser su di essi, tranciando
carne e ossa. Quando finalmente si erano dispersi fuggendo via, ne
restavano in vita solo quattro.
Dopo quell’episodio i tuk’ata lo avevano lasciato in pace: una fortuna,
dal momento che non era più certo di poterli respingere se lo avessero
attaccato di nuovo. Per dare linfa ai propri muscoli e proseguire la ricerca
una tomba dopo l’altra, aveva abusato delle proprie riserve corporee
divorandosi letteralmente dall’interno, e stava pagandone il prezzo.
Avrebbe potuto alleviare le sue sofferenze entrando in una trance di
meditazione, rallentando il battito cardiaco e le funzioni vitali per
conservare energia. Alla fine, tuttavia, non avrebbe ottenuto nulla. Nessuno
sarebbe venuto a cercarlo, e alla fine anche uno stato letargico avrebbe
condotto a una morte lenta, sebbene relativamente indolore.
Non era un’opzione che fosse pronto a contemplare, non ancora.
Nonostante l’inutilità della sua ricerca, e malgrado la cocente delusione,
non era ancora pronto; non se questo significava la morte, insieme a lui,
della verità che aveva scoperto. Sopportò dunque il dolore e comandò alla
sua carne sempre più debole di riportarlo indietro. All’Accademia.
Aveva impiegato solo un giorno a raggiungere la valle all’inizio della sua
ricerca. Il suo viaggio di ritorno era giunto al terzo. Alla partenza era stato
forte e pieno di vigore; in quel momento era debole e affamato. Ma non
erano solo i morsi della fame a rallentargli il passo.
Prima era stato sorretto dall’aspettativa; in quel momento era appesantito
dal fallimento. Qordis aveva ragione: gli antichi Signori Oscuri di Korriban
non c’erano più. Erano passati quasi tremila anni da quando Revan aveva
scacciato i Sith da Korriban al giorno in cui la Confraternita Oscura di Kaan
aveva rivendicato ufficialmente quel pianeta per l’Ordine. In quel periodo,
il lascito dei Sith originari era stato totalmente spazzato via.
Era andato nel deserto in cerca d’illuminazione e vi aveva trovato
soltanto delusioni. Korriban non era più la culla dell’oscurità: era un guscio,
un cadavere secco e avvizzito, ripulito dai mangiatori di carogne. Qordis
aveva ragione... eppure, Bane aveva compreso che si sbagliava anche di
grosso.
Nelle tombe non aveva trovato ciò che cercava. Ma la sua mente si era
finalmente snebbiata durante il lungo viaggio di ritorno nel deserto. Fame,
sete, spossatezza: la sofferenza fisica gli aveva schiarito i pensieri; gli aveva
strappato via ogni illusione e messo a nudo le menzogne di Qordis e
dell’Accademia. Gli spiriti dei Sith se n’erano andati per sempre da
Korriban. Ma non era dei Jedi, bensì della Confraternita di Lord Kaan la
colpa di quanto accaduto.
Essi avevano distorto e corrotto l’antico Ordine dei Sith. Gli
insegnamenti dell’Accademia andavano contro tutto ciò che Bane aveva
appreso negli archivi riguardo alle vie del Lato Oscuro. Kaan aveva
accantonato il vero potere dell’individuo sostituendolo con la falsa gloria
del sacrificio nel nome di una degna causa. Cercava di distruggere i Jedi
con la potenza delle armi, anziché con l’astuzia; peggio di tutto, sosteneva
che nella Confraternita dei Sith tutti fossero uguali. Bane sapeva però che
l’uguaglianza era un mito. I forti erano predestinati a dominare, i deboli a
servire.
La Confraternita dell’Oscurità rappresentava tutto ciò che di sbagliato
c’era negli odierni Sith; si erano discostati dalla retta via. Era il loro
fallimento il motivo per cui gli spiriti dei Signori Oscuri erano svaniti.
Nessuno su Korriban, né Maestro né apprendista, era degno della loro
sapienza; nessuno meritava il loro potere. Si erano semplicemente dissolti,
disperdendosi come una manciata di polvere tra le sabbie del deserto.
Ormai Bane vedeva la verità con chiarezza, e invece Qordis e gli altri
sarebbero rimasti ciechi per sempre. Seguivano Kaan come se li avesse
ammaliati con un segreto incantesimo.
Il vento portò alle sue orecchie il suono di voci lontane. Sollevando lo
sguardo si sorprese di vedere il tempio dell’Accademia torreggiare dinanzi
a lui, a meno di un chilometro di distanza. Assorto com’era nelle sue
elucubrazioni filosofiche, non si era accorto di quanto avesse camminato.
Era vicino a sufficienza da vedere delle piccole sagome che si muovevano
ai piedi dell’edificio: dei servitori, o forse un gruppetto di studenti
dell’Accademia che vagavano lì intorno. Uno di loro notò il suo arrivo e
corse dentro, forse per comunicare la notizia a Qordis e agli altri Maestri.
Bane non era sicuro di che tipo di accoglienza gli avrebbero riservato. In
verità non gli importava, purché gli portassero del cibo. A parte quello, non
gli erano più di alcuna utilità. Li disprezzava tutti allo stesso modo, Maestri
e apprendisti. Non erano migliori dei Jedi che avevano depredato Korriban
tremila anni addietro. L’Accademia era un abominio, la dimostrazione di
quanto i Sith fossero decaduti dai veri ideali del Lato Oscuro.
Solo Bane lo capiva; soltanto lui vedeva la verità. E lui solo avrebbe
potuto ricondurre i Sith sulla via del Lato Oscuro.
Naturalmente non sarebbe stato così sciocco da dirlo. La Confraternita
non lo avrebbe mai seguito, né lo avrebbero fatto Qordis o altri
all’Accademia. Deboli e ignoranti com’erano, avrebbero potuto comunque
sopraffarlo coi loro numeri. Se doveva restaurare la vera gloria dei Sith, gli
sarebbe servito un alleato.
Non fra i Maestri, tutti troppo vicini a Kaan. E gli apprendisti non erano
altro che un branco di servi striscianti che seguivano ciecamente i Maestri.
Non comprendevano davvero il Lato Oscuro, e non percepivano di essere
condotti per un falso cammino. Nessuno di loro era degno.
No, si corresse Bane. Una c’era. Githany.
Non si lasciava intimidire dai Maestri. Li aveva sfidati per allenarlo.
L’idea che lo avesse fatto per i propri fini egoistici non faceva che
dimostrare ulteriormente quanto comprendesse la reale natura del Lato
Oscuro.
In quel momento si rammaricò di non averle parlato prima di lasciare
l’Accademia: almeno avrebbe potuto spiegarle perché avesse dovuto farlo.
Lei era rimasta delusa perché aveva lasciato vivere Sirak. E non a torto. Ma
alla fine era stato lui a volgerle le spalle. Era stato lui ad abbandonarla
mentre andava in cerca dei segreti nascosti di Korriban. Cosa mai poteva
pensare di lui in quel momento?
Raggiunto il limitare dell’area del tempio, i profumi del pasto di
mezzogiorno in preparazione lo raggiunsero dalle cucine, scacciando ogni
altro pensiero dalla mente. Con l’acquolina in bocca e lo stomaco che
brontolava, salì barcollando i gradini, verso la prospettiva sempre più vicina
del cibo.

Qordis non prese bene la notizia del ritorno di Bane. Il tempismo non
avrebbe potuto essere peggiore. Lord Kaan aveva inviato un messaggio
urgente: tutti i membri dell’Accademia sarebbero dovuti andare su Ruusan
per unirsi alla battaglia contro i Jedi. Tutti gli apprendisti avrebbero
ricevuto una spada laser e un posto nella Confraternita dell’Oscurità, che li
avrebbe elevati al rango di Signori Oscuri dei Sith.
Sarebbe stato inopportuno presentarsi con uno dei suoi studenti più
potenti in atteggiamento provocatorio, come quello di Bane durante il loro
ultimo incontro. Ancora peggio sarebbe stato se avesse respinto l’offerta e
se ne fosse andato per conto proprio, disobbedendo all’ordine di recarsi su
Ruusan. Lord Kaan era riuscito a tenere assieme la Confraternita, ma si
trattava di un’alleanza sempre sul punto di sfaldarsi. Di fronte ai ripetuti
fallimenti nel tentativo di scacciare i Jedi da Ruusan, il rifiuto ad allinearsi
da parte di un Sith di rilievo sarebbe potuto bastare a disfare ogni cosa.
Una diserzione poteva portare ad altre, e così tutto sarebbe tornato nel
caos: Sith che combattevano altri Sith, coi vari Signori Oscuri che
cercavano di dominare sui loro rivali e di distruggerli. I Jedi sarebbero
sopravvissuti e avrebbero ricostruito l’Ordine, tutto mentre ridevano della
stupidità dei loro acerrimi nemici.
Se solo Bane fosse perito nel deserto di Korriban! Purtroppo era tornato,
e ormai Qordis non poteva far nulla per sbarazzarsene. Non dopo la
direttiva di Kaan. Avevano bisogno di ogni singola spada laser e ogni
singolo Sith, specie poi se forte come Bane. Per il bene della Confraternita,
e della gloriosa visione di Lord Kaan, Qordis avrebbe dovuto trovare un
modo per fare ammenda.

La notizia del ritorno di Bane si diffuse in fretta per tutta l’Accademia.


Sirak non si sorprese, semmai ne fu sollevato. Quando il Maestro Qordis
aveva informato gli studenti che presto sarebbero stati inviati su Ruusan,
aveva temuto che se ne sarebbero andati prima del ritorno di Bane,
negandogli la vendetta.
E invece la fortuna gli aveva sorriso, ma avrebbe dovuto agire alla svelta.
Una volta lasciato Korriban, sarebbe stato troppo tardi. Quando fossero
entrati nella Confraternita, Lord Kaan avrebbe fatto pronunciare a ciascun
apprendista giuramenti di lealtà e fedeltà reciproche. Ucciderlo dopo
sarebbe stato un tradimento punibile con la morte. Voleva vendicarsi, ma
non a costo della vita.
Sapeva che Yevra e Llokay lo avrebbero aiutato, ma aveva bisogno di
altro per uccidere qualcuno forte come Bane. Aveva bisogno di Githany.
Dopo aver bussato alla sua porta, attese che gli dicesse di entrare prima
di procedere.
Lei era stesa sul letto, con aria disinvolta e rilassata. In contrasto, Sirak si
sentiva teso come una corda di violino.
“È tornato”, disse soltanto.
“Quando?” Non aveva bisogno di chiedere di chi parlasse.
“Si è trascinato dentro un’ora fa, forse meno. Si è diretto subito verso le
cucine”.
“Le cucine?” Sembrava sorpresa. Oppure offesa. Senza dubbio si
aspettava che per prima cosa sarebbe andato da lei.
“È vulnerabile”, osservò Sirak, la mano che si avvicinava
all’impugnatura della sua nuova spada laser. “Indebolito dalla fame.
Stremato. Dovremmo andare da lui adesso”.
“Non essere stupido”, lo aggredì lei. “Cosa ci farebbero i Maestri, se lo
abbattessimo nelle cucine?”
Aveva ragione. “Hai un piano?”
Lei annuì. “Stanotte. Aspetta negli archivi; io lo porterò laggiù da te”.
“Io porterò Yevra e Llokay”.
Una smorfia d’irritazione le increspò il viso. “Presumo che ci
serviranno”, concesse, senza tentare di nascondere il proprio disprezzo.
Le labbra di Sirak si distorsero in un sogghigno crudele. “Ti chiedo solo
un’altra cosa. Lascia che sia io a sferrare il colpo finale”.

Bane si accasciò sul letto, pieno fino a scoppiare. Nelle cucine si era
abbuffato, attaccando il cibo coi modi di un soldato gamorreano al trogolo.
Aveva divorato ogni cosa vedesse fino a saziare il suo vorace appetito. Solo
allora ricordò di non aver davvero dormito per quasi due settimane.
La fame aveva fatto strada alla spossatezza, facendolo vagare intontito
dalle cucine alla sua stanza. In pochi secondi cadde in un sonno profondo e
senza sogni.
Si svegliò qualche ora dopo, sentendo bussare alla porta. Ancora
assonnato si costrinse ad alzarsi, accese una torcia a luminescenza e aprì la
porta.
Nel corridoio c’era Qordis. Entrò senza aspettare l’invito, richiudendosi
la porta alle spalle. Bane era troppo impegnato a scrollarsi di dosso gli
ultimi brandelli di sonno per protestare.
“Bentornato, Bane”, disse il Maestro. “Spero che il tuo viaggio sia stato...
istruttivo”.
Bane, perplesso per il tono cordiale del Maestro, si limitò ad annuire.
“Spero che adesso tu capisca perché ti ho lasciato andare”, proseguì
Qordis.
Perché eri troppo codardo per tentare di fermarmi, pensò Bane, anche se
non profferì parola.
“Era l’ultima fase del tuo allenamento”, affermò il Maestro. “Dovevi
capire perché abbiamo abbandonato gli antichi modi. Ci troviamo in una
nuova epoca, e avresti potuto capirlo solo una volta riconosciuto che quella
vecchia era davvero finita”.
Bane mantenne uno stoico silenzio, in disaccordo con Qordis ma
riluttante a discuterne.
“Ora che hai appreso la tua ultima lezione, l’Accademia non ha
nient’altro da insegnarti”. Su quel punto, se non altro, erano pienamente
d’accordo. “Non sei più un apprendista, Bane, e sei ora pronto a unirti ai
ranghi dei Maestri. Sei un Signore Oscuro dei Sith”.
Fece una pausa, come se si aspettasse una reazione di qualche tipo. Bane
era immobile, come le statue di pietra che aveva visto a guardia delle tombe
degli antichi Sith in alcune delle cripte più antiche.
Qordis si schiarì la gola, spezzando quel silenzio imbarazzato. “So che
Lord Kas’im ti ha già consegnato una spada laser. Anch’io ho un dono per
te”. Tese la mano, sul cui palmo si trovava il cristallo di una spada laser.
Quando Bane esitò, Qordis riprese a parlare. “Prendilo, Lord Bane”.
Mise un accento particolare sul nuovo titolo. Alle orecchie di Bane risultò
sgradevole: un onore vuoto, conferito da uno stolto che si credeva un
Maestro. Ma non disse nulla mentre l’altro seguitava a parlare.
“Questo cristallo sintetico è più forte di quello che si trova adesso nella
tua spada”, gli assicurò Qordis. “Ed è molto, molto più potente dei cristalli
naturali usati dai Jedi nelle loro armi”.
Lentamente, Bane tese il braccio e lo prese in mano. All’inizio la pietra
esagonale era fredda al tocco, ma nella sua stretta si scaldò in pochi attimi.
“Il tuo ritorno dal deserto non avrebbe potuto avvenire in un momento
migliore”, riprese Qordis. “Ci stiamo preparando a lasciare Korriban. Lord
Kaan ha bisogno di noi su Ruusan. Tutti i Sith dovranno unirsi alla
Confraternita dell’Oscurità, se vogliamo sconfiggere i Jedi”.
“La Confraternita fallirà”, affermò Bane, dichiarando apertamente ciò
che sapeva vero soltanto perché era certo che l’altro non gli avrebbe
creduto. “Kaan non comprende il Lato Oscuro. Vi sta conducendo sul
sentiero della rovina”.
Qordis inspirò rumorosamente, poi emise un sibilo di rabbia. “Alcuni
potrebbero ritenere le tue parole alto tradimento, Lord Bane. In futuro farai
meglio a tenere simili idee per te”. Si girò e raggiunse rabbiosamente la
porta, aprendola con violenza. Era esattamente la reazione che Bane si
aspettava.
L’allampanato Maestro si girò verso Bane un’altra volta. “Potrai anche
essere diventato un Signore Oscuro, Bane, ma ci sono ancora molte cose del
Lato Oscuro che non comprendi. Unisciti alla Confraternita e potremo
insegnarti ciò che sappiamo. Se ci rifiuterai, non troverai mai ciò che
cerchi”.
Qordis uscì a grandi passi; Bane osservò in silenzio la porta richiudersi
alle sue spalle. Si sbagliava sulla Confraternita, ma su una cosa aveva
ragione: c’erano ancora molte cose del Lato Oscuro che doveva
comprendere.
E c’era un solo luogo in tutta la galassia dove potesse andare per
impararle.
CAPITOLO 20

Dopo che Qordis se ne fu andato, Bane tornò strisciando a letto. Pensò di


andare a trovare Githany, ma era ancora esausto. Domani, pensò, scivolando
di nuovo nel sonno.
Qualche ora più tardi fu di nuovo disturbato dal bussare alla porta.
Stavolta, svegliandosi si sentì più rinvigorito. Si alzò a sedere in fretta e
accese una torcia, colorando la stanza di una luce soffusa. Non c’erano
finestre, ma immaginò che dovesse essere quasi mezzanotte, ben oltre il
coprifuoco.
Si alzò in piedi e andò ad accogliere il secondo visitatore inatteso.
Stavolta non rimase deluso quando aprì la porta.
“Posso entrare?”, sussurrò Githany.
Bane si fece da parte, e la fragranza del suo profumo gli raggiunse le
narici. Mentre le richiudeva in silenzio la porta alle spalle, lei si avvicinò al
letto e si mise a sedere sul bordo. Batté il palmo sullo spazio accanto a sé e
Bane si sedette diligente, girandosi per poterla guardare negli occhi.
“Perché sei qui?”, le domandò.
“Perché sei andato via?”, chiese lei in risposta.
“È... è difficile da spiegare. Avevi ragione su quel che è successo con
Sirak. Avrei dovuto finirlo, ma non l’ho fatto. Sono stato debole e sciocco.
Non volevo ammetterlo davanti a te”.
“Hai lasciato l’Accademia per non dovermi affrontare?” Sembravano
parole di compassione, come se cercasse di comprenderlo. Ma Bane
avvertiva il disprezzo che celavano.
“No”, spiegò. “Non l’ho fatto a causa tua. Me ne sono andato perché sei
stata l’unica a riconoscere il mio fallimento. Tutti gli altri si sono
congratulati per la mia grande vittoria: Kas’im, Qordis... tutti. Erano ciechi
davanti alla vera natura del Lato Oscuro. Ciechi come lo ero io finché tu
non mi hai aperto gli occhi.
“Me ne sono andato perché l’Accademia non aveva più nient’altro da
offrirmi. Mi sono recato nella Valle dei Signori Oscuri nella speranza di
avere risposte che non potevo trovare qui”.
“E non hai mai pensato di dirmelo?” La voce le era cambiata; il velo di
falsa compassione era caduto. In quel momento sembrava solo arrabbiata. E
ferita. Bane provò sollievo nel constatare che nutriva per lui sentimenti
ancora abbastanza forti da rivelargli emozioni autentiche.
“Sarei dovuto venire da te”, ammise. “Sono stato avventato. Ho lasciato
che la rabbia nei confronti di Qordis mi allontanasse”.
Lei annuì: passione e avventatezza, lo sapeva, erano sentimenti con cui
Githany poteva identificarsi.
“Ho risposto alla tua domanda”, disse. “Ora rispondi alla mia. Perché sei
qui?”
Lei esitò, mordendosi delicatamente il labbro. Bane riconobbe quel gesto
inconscio: significava che era assorta nei suoi pensieri per cercare di
mettervi ordine.
“Non qui”, disse finalmente alzandosi dal letto di scatto. “Devo mostrarti
una cosa. Negli archivi”.
Senza guardarsi indietro per controllare che la seguisse, attraversò
rapidamente la stanza, uscendo nel corridoio fiocamente illuminato. Bane si
alzò e la seguì, correndo per starle dietro.
Lei fissava dritto davanti a sé, producendo a ogni passo forti tonfi con gli
stivali sul pavimento. Quel suono riecheggiava nei corridoi vuoti, ma non
pareva che a Githany importasse. Bane capiva che qualcosa la turbava, ma
non aveva idea di cosa potesse trattarsi.
Trovarono la porta degli archivi aperta. Githany non parve sorpresa e la
attraversò senza rallentare. Bane esitò solo per un attimo prima di seguirla.
Arrivata all’altra estremità della stanza, oltre le file di scaffali, si fermò e
si voltò verso di lui. Sui lineamenti altezzosi ma splendidi c’era
un’espressione che non riusciva bene a decifrare.
Arrivò a metà della stanza, poi si fermò quando lei sollevò una mano a
palmo aperto. “Githany”, le disse, perplesso, “cosa sta...”
Le sue parole furono interrotte dallo schianto sordo della porta che si
richiudeva alle sue spalle. Si girò e vide Sirak, affiancato da Yevra e Llokay.
Le labbra giallastre dello Zabrak rivelavano un sorriso crudele che gli dava
l’aspetto di un teschio ghignante. Bane non poté fare a meno di notare le
impugnature delle spade laser appese alle cinture di tutti e tre.
Quando Githany parlò dietro di lui, dovette resistere all’impulso di
girarsi. Non sarebbe stato saggio dare la schiena al terzetto degli Zabrak.
“Perché mi hai seguito, Bane?”, gli domandò, la voce un miscuglio di
rabbia, disprezzo e rammarico. “Come hai potuto essere così stupido? Non
ti sei reso conto che ti stavo attirando in una trappola?”
Githany lo aveva tradito. La conversazione nella sua stanza era stata una
prova, che lui aveva fallito. La conosceva abbastanza da aspettarselo;
avrebbe dovuto stare all’erta. Invece era stato uno sciocco, cieco e
obbediente.
Sapeva di essersela cercata, ma ora doveva trovare una via d’uscita.
“È questo che vuoi, Githany?”, domandò, cercando di temporeggiare.
“Vuole tutto ciò che desiderano i Sith”, rispose Sirak per lei. “Potere.
Vittoria. Sa stare dalla parte di chi è forte”.
“Io sono più forte di lui”, disse Bane a Githany. “L’ho dimostrato
nell’arena”.
“La forza fisica non è solo questione di maestria”, rispose Sirak,
accendendo la spada laser. Era una versione a due lame. Gli occhi di Bane
erano intensamente fissi sulle lame rosso vivo, ma udì i sibili dei due
Zabrak che lo imitavano. Tuttavia, Githany non aveva ancora attivato la sua
frusta.
“Essere potenti significa qualcosa di più della semplice capacità di usare
la Forza”, continuò Sirak, iniziando ad avanzare. “Vuol dire essere
intelligenti. Astuti. Spietati”.
“Sai quanto facilmente ti ho sconfitto nell’arena”, replicò Bane infine,
rivolto direttamente a Sirak nonostante le parole fossero ancora intese per
Githany. “Sei sicuro di potermi sconfiggere adesso?”
“Siamo quattro contro uno, Bane. E hai lasciato la spada laser in camera.
Mi piace, questo rapporto di forze”.
Bane rise e voltò le spalle a Sirak. Lo Zabrak era abbastanza vicino da
poter spiccare un balzo e ucciderlo in un sol colpo, ma Bane puntava sul
fatto che si sarebbe trattenuto nel timore di una trappola. Era un azzardo
pericoloso, ma voleva guardare Githany negli occhi mentre pronunciava
quelle che potevano essere le sue ultime parole.
“Questo sciocco crede davvero che tu mi abbia portato qui per lui”, le
disse. Percepì la confusione e l’incertezza di Sirak alle sue spalle. Non era
ancora stato lanciato alcun attacco.
Githany incontrò il suo sguardo con occhi freddi e risoluti e non rispose.
Ma continuava a tormentarsi il labbro.
“Sappiamo entrambi perché mi hai condotto qui”, disse parlando
velocemente. Sirak non avrebbe atteso a lungo. “Non vuoi stare dalla parte
di Sirak. Stai cercando un modo per far sì che lo uccida sin dal tuo primo
giorno in questa Accademia”.
“Basta!”, gridò Sirak. Bane si lanciò in avanti, togliendosi di mezzo
all’ultimo istante, proprio mentre la doppia spada laser scavava un profondo
solco nel punto in cui si era trovato. Rimettendosi in piedi, vide Githany
muoversi; quando gli lanciò la spada laser, stava già tendendo la mano e
usando la Forza per attirare l’impugnatura nella sua presa.
L’arma prese vita con una vampata e Bane si girò appena in tempo per
bloccare la carica di Sirak. Yevra e Llokay erano pochi metri dietro di lui, e
stavano correndo a unirsi alla mischia.
Bane contrattaccò con un fendente alle gambe di Sirak. Lo Zabrak parò il
colpo e le lame collisero con un ronzio crepitante. Ai margini della
consapevolezza, Bane udì il suono della frusta di Githany che si accendeva.
Una veloce raffica di colpi fece ritirare Sirak. Bane fintò, come se volesse
incalzarlo, poi indietreggiò di un passo, creando uno spazio di un metro fra
loro. Gli diede proprio il tempo che bastava a lanciare il braccio in
direzione dell’ignara Yevra. Afferrandola con la Forza, la scagliò addosso a
una delle librerie vicine con violenza sufficiente a scheggiare il legno.
Yevra si accasciò al suolo, stordita. Prima che potesse alzarsi, Githany
sferzò la frusta e pose fine alla vita della Zabrak.
Bane ebbe appena il tempo di registrarne la morte prima che Llokay lo
aggredisse. Non era un avversario alla portata dello Zabrak dalla pelle
rossa, ma il dolore e la rabbia di quest’ultimo gli davano potere e dunque
respinse il nemico ben più grosso di lui con una serie brutale di colpi e
fendenti disperati.
Frastornato, Bane barcollò all’indietro e quasi non si avvide di Sirak
intento a scatenargli addosso una scarica di fulmini azzurri. Si voltò
all’ultimo istante e fermò il colpo potenzialmente letale con la lama della
spada laser, assorbendone l’energia. Si era trattato di un’ultima risorsa, di
una mossa istintiva, e lo aveva lasciato vulnerabile a un singolo, rapido
affondo di Llokay. Ma la frusta di Githany schioccò e crepitò diretta al suo
viso e agli occhi, mentre aveva la lama impegnata a respingere gli attacchi.
Bane rivolse di nuovo l’attenzione a Sirak, che esitava. In quel momento,
Llokay emise un urlo: non aveva calcolato la traiettoria irregolare della
frusta di energia di Githany, perdendo così un occhio. Avrebbe lanciato un
secondo urlo se lei non gli avesse squarciato la gola, cauterizzandogli le
corde vocali con la punta rovente dell’arma in un’agonia silenziosa.
Sopraffatto, Sirak spense la spada laser, la gettò a terra e s’inginocchiò.
“Ti prego, Bane”, implorò, con voce spezzata. “Mi arrendo. Sei un vero
Signore dei Sith. Ora lo so”.
Githany sussurrò: “Finiscilo adesso, Bane”.
Bane avanzò fino a torreggiare sul nemico che strisciava a terra.
All’improvviso, dinanzi a sé non vide soltanto Sirak, ma tutti coloro che
aveva ucciso. Ogni singola vita avesse stroncato. Fohargh il Makurth.
L’anonimo soldato della Repubblica su Apatros. Suo padre.
Era responsabile delle loro morti, e anche in quel momento se ne sentiva
addosso il peso. Il senso di colpa per quella di Fohargh l’aveva reso
insensibile al Lato Oscuro per mesi; lo aveva incatenato come un ceppo.
Non voleva soffrire di nuovo quel tormento.
“Ascoltami”, lo implorò Sirak. “Ti servirò. Farò tutto ciò che mi
ordinerai. Puoi usarmi. Io posso aiutarti. Ti prego, Bane... abbi pietà!”
Adesso Bane era insensibile alle suppliche. “Chi chiede pietà”, rispose
con freddezza, “è troppo debole per meritarla”.
La lama decapitò lo Zabrak indifeso. Il torso rimase dritto per un secondo
intero, il bordo netto del collo dov’era stata attaccata la testa ancora
fumante. Poi si rovesciò in avanti.
Mentre lo fissava, Bane provò una sola cosa: libertà. Il senso di colpa e di
vergogna, il peso della responsabilità erano tutti svaniti in quel singolo atto
decisivo. Si era totalmente aperto al Lato Oscuro; lo inondò, riempiendolo
di potere e di sicurezza.
Attraverso il potere, guadagno la vittoria. Attraverso la vittoria, spezzo
le mie catene. Si girò e vide che Githany sorrideva, gli occhi ricolmi di
bramosia.
“Io fra tutti avrei dovuto saperlo, di non sottovalutarti”, disse. “Mi hai
visto mentre prendevo la spada laser! È per questo che mi hai seguito”.
“No”, rispose Bane, ancora inebriato per l’uccisione del nemico. “Non ho
visto nulla. Tiravo solo a indovinare”.
Per un breve attimo, il volto di lei si rabbuiò, poi scoppiò a ridere. “Non
finisci mai di stupirmi, Lord Bane”.
“Non chiamarmi così”, la rimbeccò.
“Perché no?”, domandò lei. “Qordis ha dato a tutti gli studenti il grado di
Signore Oscuro dei Sith”.
Vedendolo trasalire, si fece avanti e gli cinse il collo con le braccia,
sollevando lo sguardo su di lui. “Bane”, sussurrò, “combatteremo i Jedi!
Stiamo per unirci alla Confraternita dell’Oscurità di Lord Kaan!”
Lui portò in alto le braccia e le prese le mani delicate nelle sue, molto più
grandi, poi sciolse con dolcezza l’abbraccio. Perplessa, non oppose
resistenza quando si portò al petto le mani congiunte, tenendovi strette
quelle di lei.
Come poteva farglielo capire? Ormai apparteneva al Lato Oscuro:
l’esecuzione di Sirak era stata l’ultimo passo. Aveva oltrepassato una soglia,
e non sarebbe potuto tornare indietro. Non avrebbe mai più esitato, e
nemmeno dubitato. La trasformazione avviata al suo arrivo all’Accademia
era completa: adesso era un Sith.
In quel momento più che mai comprendeva le mancanze della
Confraternita. “Kaan è uno sciocco, Githany”, disse fissandola
intensamente negli occhi per decifrarne l’espressione.
Lei indietreggiò leggermente, tentando di liberarsi le mani. Lui gliele
tenne strette.
“Non l’hai neppure mai incontrato”, affermò, sulla difensiva. “Io sì. È un
grand’uomo, Bane. Un visionario”.
“È cieco come una lumaca orkelliana”, insistette Bane. “La Confraternita
dell’Oscurità, quest’Accademia, tutto ciò che i Sith sono diventati sono
monumento della sua ignoranza!” Le afferrò le mani ancora più forte.
“Vieni con me. Non resta più nulla per noi qui su Korriban, e su Ruusan c’è
solo la morte. Ma conosco un altro luogo dove possiamo andare, uno dove
il Lato Oscuro è ancora potente”.
Githany si liberò divincolandosi e si allontanò da lui. “Lord Kaan ha
unito i Sith sotto un’unica e gloriosa causa. Potremo unirci a loro su
Ruusan”.
“Allora va’!”, esplose Bane. “Raggiungi gli altri su Ruusan. Unisciti a
loro nella sconfitta”.
Si precipitò fuori con rabbia mentre lei gli gridava dietro: “Bane...
aspetta, Bane!”
Se avesse fatto cenno di seguirlo, forse le avrebbe dato ascolto.
Spalancò la porta di Qordis con un calcio, mandandola a sbattere contro
la parete con uno schianto che rimbombò in tutto il corridoio. Il Maestro
dell’Accademia era sveglio e già vestito, e meditava sul tappeto al centro
della stanza. Saltò in piedi, il volto rabbuiato dall’ira.
“Cosa significa questo?”
“Avete inviato Sirak a uccidermi?”, domandò Bane con foga. Non era più
il momento di usare il tatto.
“Cosa? Io... è successo qualcosa a Sirak?”
“L’ho ucciso. E anche Yevra e Llokay. I cadaveri sono negli archivi”.
La reazione inorridita e stravolta di Qordis dimostrava che non sapeva
nulla dell’aggressione. “E lo hai fatto alla vigilia della partenza per
Ruusan?”, domandò con la voce che gli diventava stridula.
Nel corridoio all’esterno si erano raccolti alcuni Maestri, attirati dal
tumultuoso arrivo di Bane. C’erano anche alcuni studenti; a Bane non
importava.
“Potete andare a Ruusan”, sbottò. “Io non voglio aver nulla a che fare
con la Confraternita dell’Oscurità”.
“Sei uno studente di quest’Accademia”, gli rammentò Qordis. “Farai ciò
che ti viene detto!”
“Sono un Signore Oscuro dei Sith”, controbatté Bane. “Non servo
nessuno tranne me stesso”.
Guardando il capannello di curiosi alle spalle del suo studente, Qordis
abbassò la voce al livello di un bisbiglio minaccioso. “Partiremo per
Ruusan domani, Lord Bane, e tu verrai con noi. Su questo non si discute”.
“Io partirò stanotte”, rispose Bane, abbassando il tono della voce per
sbeffeggiare quella di Qordis. “E nessuno di voi è abbastanza potente da
fermarmi!”
Volse le spalle al reggente dell’Accademia e uscì a lenti passi dalla
stanza. Per un breve attimo avvertì il Maestro umiliato invocare la Forza e
si preparò a uno scontro. Un attimo dopo, però, sentì che il potere svaniva.
Si fermò sulla soglia. Quando parlò era rivolto ai curiosi all’esterno tanto
quanto a Qordis.
“Qualcuno di voi mi ha detto una volta che il titolo di Darth era caduto in
disuso in quanto promuoveva la rivalità fra i Sith e creava facili bersagli per
i Jedi. Era più semplice abbandonare quest’usanza, e far usare a tutti i
Maestri Sith lo stesso titolo di Signore Oscuro”.
Alzò leggermente la voce, parlando abbastanza forte da farsi udire da
tutti. “Ma io so la verità, Qordis. So perché nessuno di voi reclama per sé
quel nome: è per paura. Siete dei codardi”.
Si girò per metà, tornando a guardare Qordis. “Nessuno nella
Confraternita è degno del titolo di Darth, e men che meno voi”.
Dal gruppo si levò un’esclamazione di stupore. Alcuni studenti
indietreggiarono aspettandosi una reazione di qualche tipo. Naturalmente
non ve ne furono.
Scuotendo la testa disgustato, Bane li lasciò dov’erano. Mentre passava
accanto agli altri Maestri, Kas’im lo fermò e gli mise una mano sul petto.
“Non andare”, disse il Maestro di Spada. “Parliamone. Se incontrerai
Kaan, capirai. Ti chiedo solo questo, Bane”.
“Sono Darth Bane”, replicò, scostando la mano del Twi’lek e
spingendolo via.
Nessun altro tentò di fermarlo mentre attraversava i corridoi
dell’Accademia. Nessuno cercò di seguirlo e neppure lo chiamò mentre
saliva le scale che portavano alla piattaforma di atterraggio sul tetto.
Nello spazioporto c’era una sola nave: la Valcyn, incrociatore personale
classe T a lungo raggio dalla forma allungata come una lama. Si trattava di
uno dei migliori vascelli della flotta Sith. Era arrivato il giorno prima: un
dono di Kaan a Qordis in riconoscimento del lavoro svolto con gli
apprendisti dell’Accademia.
Bane fece abbassare il portello d’ingresso e vi salì. Nel breve periodo
trascorso nell’esercito gli era stato impartito un addestramento sommario
sulle basi del pilotaggio di navi con iperguida standard. Per fortuna i
comandi della Valcyn corrispondevano a tutti gli standard operativi
intergalattici ed erano pensati per essere facili da usare. Si sedette al posto
del pilota e accese i propulsori, immettendo le coordinate iperspaziali della
destinazione mentre già iniziava la sequenza di lancio. Un attimo più tardi,
la Valcyn si sollevò dalla piattaforma di atterraggio e sfrecciò
nell’atmosfera, lasciandosi alle spalle Korriban e l’Accademia.
PARTE tre
CAPITOLO 21

Lord Hoth, Maestro Jedi e facente funzioni di generale delle forze della
Repubblica su Ruusan, sedeva chino su un tronco, all’esterno della tenda, e
fissava le nubi scure che aleggiavano sul campo. Guardava torvo il cielo
minaccioso come se potesse impedire al temporale di scatenarsi con la
semplice ferocia della sua espressione.
“Qualcosa ti turba, Lord Hoth?”
La voce del Maestro Pernicar, amico di lunga data e suo braccio destro in
quell’interminabile campagna, riportò la sua attenzione a terra.
“E cosa non lo fa, Pernicar?”, domandò con un grande sospiro. “Cibo e
medipac scarseggiano. I feriti sono più numerosi degli incolumi. I
ricognitori riferiscono che stanno arrivando rinforzi ad assistere Kaan e i
suoi Sith”. Si diede una manata sul ginocchio. “E in nostro aiuto non
arrivano che bambini e ragazzi”.
“Bambini in cui la Forza è potente”, gli rammentò Pernicar. “Se non li
arruoliamo noi, lo faranno i Sith”.
“Diamine, Pernicar, sono solo bambini! Io ho bisogno di Jedi addestrati.
Tutti quelli che riusciamo a trovare. Ma ci sono ancora membri del nostro
stesso Ordine che rifiutano di aiutarci”.
“Forse è il modo in cui lo chiedi”, disse un’altra voce alle sue spalle.
Hoth si sfregò le tempie, ma non si girò verso chi aveva parlato. Lord
Valenthyne Farfalla era stato fra i primi Maestri Jedi a unirsi all’Esercito
della Luce su Ruusan. Aveva combattuto in quasi ogni scontro e i Sith
ormai lo conoscevano bene: era difficile non notarlo, persino nel caos della
battaglia.
Sulla schiena gli scendevano lunghi e fluenti boccoli dorati. Anche il
pettorale dell’armatura era d’oro, e veniva strofinato e lucidato fino a
brillare prima di ogni battaglia; era orlato con maniche rosso acceso e
tempestato di rubini che si accordavano col colore dei suoi occhi e
contrastavano la carnagione pallida.
Lord Hoth lo trovava insopportabile. Farfalla era un fedele servitore della
luce, ma oltre a questo era uno sciocco tronfio e vanesio, che passava più
tempo a scegliersi il guardaroba che a pianificare strategie. Proprio l’ultima
persona con cui volesse avere a che fare in quel momento.
“Se mostrassi più tatto, Lord Hoth”, proseguì Farfalla, comparendo con
passo elegante, “richiameresti più Jedi alla tua causa”.
“Non dovrei aver bisogno di convincerli!”, ruggì Hoth, alzandosi e
agitando le braccia, esasperato. Farfalla indietreggiò con agilità. “Stiamo
combattendo contro i Sith! Il Lato Oscuro dev’essere distrutto, e potremmo
farcela se ci fossero più Jedi!”
“Alcuni non la vedono così”, commentò calmo Pernicar. Si era abituato
alle sfuriate di Hoth mentre si trovavano su Ruusan e aveva imparato
perlopiù a ignorarle.
“Altri pianeti della Repubblica sono sotto attacco, a parte questo”,
intervenne Farfalla. “Molti Jedi stanno assistendo le truppe in altri settori,
per aiutarle contro le flotte dei Sith”.
Hoth sputò a terra e si compiacque vedendo l’espressione inorridita di
Farfalla. “Quelle flotte batteranno pure bandiera Sith, ma sono composte da
comunissimi soldati. La Repubblica ha numeri sufficienti a respingerle, non
le serve l’aiuto dei Jedi. Tutti i veri Sith, i Signori Oscuri, si trovano qui, e
adesso. Se sconfiggeremo la Confraternita dell’Oscurità, la ribellione dei
Sith crollerà. Non lo capiscono?”
Seguì un lungo silenzio, mentre gli altri due si scambiavano uno sguardo
imbarazzato. Alla fine fu Pernicar a trovare il coraggio di rispondere.
“Alcuni Jedi credono che non dovremmo trovarci qui. Pensano che
l’unica cosa a tenere unita la Confraternita sia l’odio per l’Esercito della
Luce. Sostengono che se smobilitassimo e cedessimo Ruusan, i Sith
inizierebbero ben presto a rivoltarsi uno contro l’altro e la Confraternita
finirebbe per sfasciarsi”.
Hoth scosse la testa incredulo. “Non capiscono che grande opportunità ci
si presenta qui? Possiamo spazzar via i seguaci del lato oscuro una volta per
tutte!”
“Alcuni potrebbero obiettare che non sia questo lo scopo del nostro
Ordine”, suggerì Farfalla con garbo. “I Jedi sono difensori della
Repubblica. Pensano che l’Esercito della Luce prolunghi la ribellione,
rafforzando la risolutezza dei Sith. Affermano che in realtà tu stia arrecando
danno alla Repubblica che hai giurato di difendere”.
“È questo che pensi?”, ringhiò Hoth.
“Lord Farfalla è con noi dal principio”, gli rammentò Pernicar. “Sta
soltanto riportando ciò che dicono gli altri, i Jedi che non sono venuti a
Ruusan”.
“I Sith riceveranno rinforzi da Korriban”, mugugnò Hoth. “Noi abbiamo
forze appena sufficienti a respingerli ora. Dovrò soltanto farglielo capire!”
“Probabilmente avremmo più successo se lo facesse qualcun altro”,
propose Farfalla. “Alcuni credono che per te sia diventata una questione
personale. Non considerano Ruusan come teatro dello scontro finale tra luce
e oscurità, ma piuttosto di una faida tra te e Lord Kaan”.
Hoth si rimise a sedere stancamente. “Allora siamo condannati. Senza
rinforzi, ci soverchieranno”.
Farfalla si accovacciò accanto a lui, posando una mano curatissima e
profumata sulla spalla muscolosa di Hoth. Il generale Jedi dovette
impiegare ogni briciolo della propria disciplina per non scrollarselo di
dosso.
“Manda me, mio signore”, disse Farfalla con zelo. “Sono qui da sempre;
credo in questa causa col tuo stesso vigore”.
“Perché dovrebbero ascoltare più te che me?”
La risata acuta e cinguettante di Farfalla gli diede sui nervi. “Mio
signore, nonostante la tua abilità in battaglia e il tuo potere nella Forza, hai
qualche difficoltà nella delicata arte della diplomazia. Sei un generale
geniale, e la tua rigida natura aiuta a comandare le truppe. Purtroppo, può
anche mettere a dura prova la pazienza di chi non è al tuo comando”.
“Sei troppo brusco, mio signore”, chiarì Pernicar.
“È ciò che ho appena detto”, puntualizzò Farfalla con appena una punta
d’irritazione. Poi proseguì: “D’altro canto, la gente mi trova spiritoso e
affascinante. Se necessario, so essere molto convincente. Dammi il
permesso di reclutare altri per la nostra causa e io tornerò con cento, no!,
trecento Jedi pronti a unirsi all’Esercito della Luce”.
Hoth si prese di nuovo la testa tra le mani. Le tempie gli battevano:
sembrava che Farfalla avesse sempre quell’effetto su di lui.
“Va’”, bofonchiò senza alzare lo sguardo. “Se sei così certo di potermi
portare dei rinforzi, allora fallo”.
Farfalla gli rivolse un elaborato inchino, poi si girò con uno scatto
elegante e se ne andò, i boccoli dorati che ondeggiavano al vento sempre
più forte del temporale in arrivo.
Non appena fu fuori portata, Pernicar riprese a parlare. “È saggio, mio
signore? Siamo già pochi. Quanto a lungo pensi che potremo sopravvivere
senza di lui?”
La pioggia iniziò a cadere a grandi gocce, e nella mente di Hoth affiorò
un’idea. “I Sith non possono sconfiggerci se noi non combattiamo”, disse.
“Non gliene daremo l’occasione. È arrivata la stagione delle piogge per i
nostri inseguitori diventerà impossibile trovarci. Ci nasconderemo nella
foresta, tormentandoli con agguati e attacchi rapidi prima di scomparire di
nuovo tra gli alberi”.
“Questa strategia non funzionerà con l’arrivo della stagione secca”, lo
avvertì Pernicar.
“Non avrà importanza, se per allora Farfalla non mi avrà portato
rinforzi”, rispose Hoth.

I cinque Interloper, piccole navi da trasporto multitruppa a medio raggio,


volarono basse sull’orizzonte di Ruusan. Ogni vascello trasportava un
equipaggio di dieci persone composto unicamente da ex studenti e Maestri
dell’Accademia di Korriban.
Nella nave in testa, Githany operava i comandi con la precisione e la
calma di un pilota altamente addestrato. In realtà aveva imparato a volare su
un vascello della Repubblica, ma le basi erano uguali.
Gli Interloper erano più leggeri e veloci dei trasporti Bivouac della
Repubblica. Avevano una corazza meno resistente, che sacrificava la
sicurezza degli occupanti in favore di una portata e una maneggevolezza
superiori. Come a dimostrarlo, Githany inclinò la nave in una virata stretta a
sinistra, avvicinandola talmente alla superficie del pianeta che la scia del
motore ionico sconvolse il fogliame della grande foresta di Ruusan.
Le altre navi la imitarono senza mai rompere la formazione. Collegati a
Githany mediante la Forza, i piloti reagivano perfettamente all’unisono con
ogni sua mossa. Se lei avesse sbagliato, sarebbe precipitato l’intero
convoglio. Ma non commise errori.
“Forse sarebbe più sicuro alzarsi dalla linea degli alberi”, osservò Lord
Qordis dal suo posto accanto a Githany in cabina di pilotaggio.
“Non voglio che i Jedi rilevino qualcosa sugli scanner”, spiegò,
concentrata sul compito d’impedire alla nave di schiantarsi nell’oceano
verde a pochi metri sotto lo scafo. “La Confraternita non ha conquistato
questa regione. Se una squadra di esploratori ci inquadra, questi trasporti
non hanno in dotazione armamenti sufficienti a respingerli”.
In lontananza apparvero cinque o sei piccoli caccia, che volavano in rotta
di intercettazione con gli Interloper. Qordis imprecò, e Githany si preparò a
eseguire una manovra evasiva.
Un attimo più tardi, riconobbe la sagoma caratteristica dei Buzzard Sith
ed emise un sospiro di sollievo. “Ecco la nostra scorta”, disse.
Entro pochi minuti sarebbero arrivati al campo base Sith, e coi Buzzard a
intercettare eventuali caccia Jedi non sarebbe stato più necessario rasentare
così pericolosamente le cime degli alberi. Githany avrebbe potuto tirare un
po’ indietro la barra per riportare la nave a un’altitudine più sicura.
Invece, mantenne la rotta. Le piaceva il brivido di trovarsi a un solo
errore di distanza da una morte immediata tra le fiamme. A giudicare dalla
rigidità con cui sedeva al suo posto, era evidente che Qordis non fosse dello
stesso parere.
Una volta superata la foresta Githany decelerò, poi abbassò con grazia la
nave nel campo di atterraggio ai margini dell’accampamento di Lord Kaan.
Un drappello di Maestri Sith, Kaan in testa, li attendeva per accogliere i
rinforzi. Potevano anche essere soltanto cinquanta, ma ciascuno di essi era
un Signore dei Sith, più potente di un’intera divisione di soldati.
Scendendo dalla rampa di sbarco della nave, Githany capì subito perché
la loro presenza fosse stata richiesta con tanta urgenza. Dietro il capannello
di Signori Oscuri, il resto del campo si stendeva a perdita d’occhio, e non vi
scorgeva altro che un quadro di squallida desolazione. Tende lacere e
cadenti, disposte in fitti anelli da cinque ciascuno, ospitavano il grosso
dell’esercito: alloggi provvisori macchiati e strappati dal vento e dalla
pioggia. Tra di esse erano sparsi veicoli a repulsione, torrette pesanti e altre
attrezzature belliche. Queste erano sporche di fango secco e ruggine, come
se fosse stato abbandonato ogni tentativo di una corretta manutenzione.
Le truppe erano sparpagliate in gruppetti, rannicchiate intorno a fuochi da
cucina costruiti fra i cerchi di tende. Avevano le uniformi coperte di polvere
e lerciume; molti portavano fasciature sudice avvolte intorno a ferite che
ormai non speravano più di mantenere pulite o sterili. I loro volti erano
segnati dall’amarezza delle troppe sconfitte, e a impressionare più di tutto
era la disperazione nelle loro espressioni.
Anche Lord Qordis parve colto alla sprovvista da quel panorama
deprimente, e fece una smorfia all’avvicinarsi di Lord Kaan.
Questi sembrava smagrito, il volto teso e solcato da rughe di
preoccupazione. Aveva i capelli sporchi e scarmigliati. Il mento era scurito
dalla barba incolta che gli dava un’aria vecchia e stanca. Pareva fisicamente
più piccolo di quanto Githany lo ricordasse; rattrappito, meno autoritario.
La scintilla che aveva trovato così accattivante al loro primo incontro non
c’era più. Un tempo, nei suoi occhi ardeva la fiamma di un uomo totalmente
sicuro del proprio successo. In quel momento vi ardeva invece
qualcos’altro: disperazione. Follia, forse. Non poté fare a meno di
domandarsi se Bane non avesse ragione.
“Benvenuto, Lord Qordis”, disse Kaan, stringendo il braccio del nuovo
arrivato in segno di saluto. Lasciò la presa e si girò verso gli altri.
“Benvenuti su Ruusan, tutti voi”.
“Non mi aspettavo di trovare il tuo esercito in condizioni così pietose”,
mormorò Qordis.
I lineamenti di Kaan assunsero un’espressione che avrebbe potuto essere
di rabbia; poi scomparve, sostituita dalla sicurezza raggiante che Githany
ricordava. Si raddrizzò leggermente.
“Per giudicare il vincitore di una guerra, bisogna osservare le condizioni
di entrambe le parti”, disse, asciutto. “Quella dei Jedi è molto peggiore. I
miei informatori mi riferiscono che le loro perdite sono assai superiori alle
nostre. Le scorte scarseggiano, così come i loro numeri. Noi abbiamo
medipac e cibo e siamo di più. E non hanno rinforzi freschi”.
Alzò la voce in modo da farsi udire in tutto il campo; le sue parole
rimbombarono tra la distesa di tende. “Ora che siete qui, finalmente la
Confraternita dell’Oscurità è completa!”
I soldati nell’accampamento si fermarono e lo guardarono. Alcuni si
alzarono speranzosi. Chi era in piedi sollevò in alto i pugni. L’eco della loro
esultanza scosse il campo come un terremoto.
Githany lo sentì in modo inequivocabile come il resto delle truppe. Non
erano soltanto le sue parole: era il modo in cui le aveva dette. Tutti i dubbi e
le paure svanirono in un lampo, sgretolate dal peso di quell’unico,
brevissimo discorso. Era come se fosse stata spinta a obbedire da un potere
più grande di lei.
Attraversarono il campo, assaporando il ritrovato ottimismo dei soldati
mentre Lord Kaan li conduceva alla grande tenda dove teneva le sue
riunioni. Un muscoloso Twi’lek si affiancò a Lord Qordis, proprio davanti a
Githany. Presa com’era, impiegò qualche secondo a ricordarlo: Lord
Kopecz.
“Dov’è Bane?”, domandò a Qordis con voce così bassa che lo sentirono
probabilmente solo lui e Githany.
“Bane non c’è più”, rispose Qordis.
Kopecz grugnì. “Cos’è successo? Lo hai ucciso?” Non si sforzò di
nascondere il proprio disprezzo.
“È ancora vivo, ma ha voltato le spalle alla Confraternita dell’Oscurità”.
“Abbiamo bisogno di lui”, insistette Kopecz. “È troppo forte per lasciarlo
andare così”.
“È stata una sua decisione, non mia!”, sbottò Qordis.
Avanzarono all’interno senza parlare. Finalmente Kopecz ruppe il
silenzio, chiedendo con un sospiro: “Sai almeno dov’è andato?”
“No”, rispose Qordis. “Nessuno lo sa”.

Bane fece uscire la Valcyn dall’iperspazio al margine estremo di quel


lontano sistema, poi attivò i motori ionici e proseguì lentamente verso
l’unico pianeta abitabile, un piccolo mondo in orbita intorno a una stella
gialla.
Il nome ufficiale del pianeta era Lehon, lo stesso del sistema solare, ma
veniva più comunemente chiamato Pianeta Ignoto. Quasi tremila anni
prima, in quell’insignificante sistema oltre i confini dello spazio esplorato,
Darth Revan e Darth Malak avevano scoperto i Rakata, un’antica specie di
utilizzatori della Forza che aveva dominato la galassia molto tempo prima
che nascesse la Repubblica.
Avevano inoltre scoperto la Star Forge, un’incredibile stazione e fabbrica
orbitante, nonché un monumento al potere del Lato Oscuro. Là si era svolta
una grande battaglia tra la Repubblica, condotta dal Maestro Jedi redento
Revan, e i Sith di Darth Malak. Questi era caduto, i Sith erano stati
sbaragliati e la Star Forge distrutta, benché a caro prezzo per la Repubblica.
Le vestigia della titanica battaglia erano ancora lì. Le navi di entrambe le
flotte erano state travolte dalla catastrofica esplosione che aveva distrutto la
Star Forge. Tutto ciò che era stato investito dalle onde d’urto
dell’esplosione, inclusa l’enorme fabbrica, era stato deformato e fatto a
brandelli dalla forza della detonazione, poi si era fuso assieme per il calore,
fino a trasformarsi in irriconoscibili pezzi di metallo.
Quasi tutti i relitti si erano saldati a formare una sorta di grosso anello
che circondava il piccolo pianeta di Lehon, come quelli presenti spesso nei
giganti gassosi in tutta la galassia. Le altre macerie erano sparpagliate per
tutto il sistema, in orbita intorno al sole come un vasto campo di asteroidi
che rendeva la navigazione difficile se non impossibile.
Bane passò ai controlli manuali e prese il timone. Tramite la Forza
manovrò la nave con attenzione attraverso l’insidioso percorso a ostacoli.
Impiegò quasi un’ora ad arrivare a destinazione: sudava per lo sforzo,
quando finalmente oltrepassò l’anello entrando nella relativa sicurezza
dell’atmosfera del Pianeta Ignoto.
Naturalmente, non c’era alcun traffico navale con cui interagire. Nessuno
lo contattò mentre scendeva verso la superficie in cerca di un punto in cui
atterrare.
Quando Revan e Malak li avevano scoperti, i Rakata erano una specie
morente e sull’orlo dell’estinzione. Praticamente ogni prova della loro
esistenza, al di là del loro minuscolo pianeta natale, era stata spazzata via:
erano stati cancellati dalla memoria della galassia. Dopo la Battaglia della
Star Forge, non c’era stato alcun cambiamento.
Naturalmente, gli ufficiali della Repubblica ne erano al corrente, ma la
loro esistenza non era mai stata ratificata formalmente al di là dei rapporti
confidenziali sul conflitto. Si credeva che la popolazione generale non
avrebbe reagito bene all’improvvisa ricomparsa di una specie antica che un
tempo aveva soggiogato gran parte della galassia conosciuta. I pochi Rakata
superstiti si erano rifiutati di lasciare il loro pianeta d’origine, e il numero
non era sufficiente a mantenere un pool genetico vitale. Nel giro di qualche
altra generazione, la lenta e lunghissima estinzione della specie si era infine
compiuta.
Tenere nascosta l’esistenza dei Rakata era stato un compito di una
semplicità sorprendente. Dopo la battaglia, il sistema non aveva mai attirato
grandi attenzioni. Pur essendovi parti di astronavi in gran quantità a causa
della distruzione della Star Forge, non era stato compiuto alcun tentativo di
recupero. Anziché profanare le tombe dei propri soldati, la Repubblica
aveva deciso di onorare la memoria dei defunti rendendo Lehon un sito
storico protetto. In questo modo, l’ingresso di navi nel sistema senza
un’autorizzazione ufficiale diventava tecnicamente illegale.
Nessuno si era mai preso la briga di ottenere un tale permesso. Il sistema
non possedeva un valore intrinseco né risorse significative, a parte i rottami
protetti delle astronavi. Era situato ben al di là di qualunque rotta
iperspaziale o via commerciale praticata, ed era così lontano da non
interessare neppure ai contrabbandieri. Agli archivi ufficiali della
Repubblica venne aggiunta una breve nota sulla sua posizione e iniziò ad
apparire come un puntino insignificante ai margini delle mappe stellari più
dettagliate. A parte questo, era come se non esistesse neppure.
Bane sapeva che le cose non erano così semplici. La Forza era potente
sul Pianeta Ignoto. Forse aveva persino dato i natali ai primi servitori del
Lato Oscuro, i capi Rakata che avevano spinto il loro popolo alla conquista
e alla sottomissione di centinaia di pianeti diecimila anni prima che il resto
della galassia scoprisse la tecnologia dell’iperguida. Quel potere era stato
concentrato nella Star Forge e sarebbe stato liberato con la sua distruzione.
I Jedi lo avevano capito, e temevano il male che poteva risiedere in un
luogo simile. Gli ufficiali della Repubblica avevano agito su loro
indicazione, isolando l’intero sistema e ponendolo di fatto in quarantena.
Nei secoli a venire, i Jedi si erano impegnati a nascondere quel segreto. La
storia di Revan e Malak si era diffusa, così come le voci e le speculazioni
sui Rakata, ma la vera natura del Pianeta Ignoto era sepolta sotto uno strato
di misteri e omissioni.
Negli archivi dell’Accademia, Bane si era imbattuto in alcuni frammenti
che alludevano alla verità. Dapprima, non si era neppure reso conto delle
implicazioni. Una breve menzione del pianeta da una parte, un’allusione da
un’altra. Pian piano se n’era reso conto, mentre si districava tra gli enigmi
del Lato Oscuro. Man mano che la sua conoscenza si allargava, era sempre
più vicino a ricomporre l’intero mosaico. Pensava che lo avrebbe
completato nella Valle dei Signori Oscuri, ma aveva fallito. E adesso era là
per scovare l’ultimo tassello.
Il mondo sotto di lui era una rete di isolette tropicali separate da un
oceano azzurro vivo. Usò i sensori della Valcyn per identificare la regione
più estesa, poi scese in picchiata cercando un punto per atterrare. L’isola era
quasi del tutto ricoperta da una fitta e rigogliosa giungla, senza spiazzi
grandi abbastanza per la sua nave. Alla fine decelerò e cominciò una lenta
discesa, posando la Valcyn sulla spiaggia di sabbia cristallina al limitare
dell’isola.
Non appena mise piede sulla superficie del Pianeta Ignoto, la sentì: una
profonda vibrazione, simile a quella avvertita su Korriban, ma molto, molto
più forte. Anche l’aria sembrava diversa, e grondava antichità e segreti da
tempo dimenticati.
Con la schiena rivolta all’oceano, fissando la barriera di vegetazione
praticamente impenetrabile che formava il cuore dell’isola, percepì anche
qualcos’altro: una presenza, una forza vitale di immenso potere e
dimensioni. Si muoveva verso di lui, e in fretta.
Qualche secondo più tardi la udì precipitarsi attraverso il sottobosco.
Doveva essere stata attratta dall’atterraggio della nave: un cacciatore
enorme in cerca di prede fresche.
Il rancor irruppe dagli alberi e iniziò a percorrere a balzi la sabbia con un
ruggito agghiacciante. Bane rimase dov’era, osservandolo arrivare e
meravigliandosi per la velocità con cui l’enorme belva si muoveva. Quando
fu a meno di cinquanta metri, sollevò una mano con calma e adoperò la
Forza per toccare la mente del mostro.
Al suo ordine silenzioso, l’animale si fermò incespicando, immobile e
ansante. Ben attento a tenerne sotto stretto controllo l’istinto predatorio,
Bane si avvicinò al rancor. Quello rimase immobile, docile come un
tauntaun accarezzato dal suo cavaliere.
Dalle dimensioni, Bane capì che si trattava di un maschio adulto, benché
il colore acceso della pelle e le poche cicatrici suggerissero che dovesse
esserlo diventato da poco. Posò la mano su una delle gigantesche zampe,
sentendo i muscoli frementi sotto la pelle ed entrando più in profondità nel
suo cervello di animale.
Non trovò consapevolezza, idea o comprensione dei Maestri che un
tempo avevano domato quelle bestie per usarle come cavalcature e
guardiani. Non ne fu sorpreso: i Rakata erano scomparsi secoli prima che
quel rancor nascesse. Ma Bane stava cercando qualcos’altro.
Lo assalì un caleidoscopio d’immagini e sensazioni. Innumerevoli battute
di caccia nella foresta, quasi tutte concluse con un’uccisione. Ossa e tendini
lacerati; la carne ancora calda della preda che veniva divorata. La ricerca di
una compagna. Il combattimento per la supremazia con un altro rancor. Poi,
finalmente, trovò ciò che cercava.
Sepolta a fondo nei ricordi della creatura c’era l’immagine di una grande
piramide nascosta nei recessi della giungla. Il rancor l’aveva vista una sola
volta, quando ancora era un cucciolo accudito dalle madri del branco.
Eppure, la struttura aveva lasciato un segno indelebile in quella mente
bestiale.
Il rancor era un animale, in cima alla catena alimentare del Pianeta
Ignoto. Non conosceva la paura, ma emise un debole gemito quando Bane
riportò a galla il ricordo di quel Tempio. La bestia rabbrividì sapendo cosa
ci si aspettasse da lei, ma non poté opporsi; la Forza la costringeva a
obbedire.
Il rancor si accovacciò a terra e Bane gli saltò in groppa. Si rialzò con
attenzione, col cavaliere appollaiato sulle grandi spalle ricurve. All’ordine
di Bane partì in corsa, lasciandosi dietro la spiaggia e tornando nella foresta
per condurlo all’antico Tempio dei Rakata.
CAPITOLO 22

Ci volle quasi un’ora perché Bane giungesse a destinazione. La vegetazione


intorno a lui brulicava di vita, ma durante il tragitto nella giungla non vide
nulla di più grande di insetti o uccelli. Quasi tutte le creature fuggivano di
fronte al rancor, sparendo ben prima che Bane si avvicinasse abbastanza da
coglierne un guizzo. Sebbene si disperdessero, però, spesso il potente
olfatto del rancor ne fiutava la pista e più di una volta Bane dovette frenare
gli istinti della belva per tenerla sulla strada.
Impedirle di correre via all’inseguimento del suo prossimo pasto era
difficile, ma lo fu ancora di più farla avanzare quando si avvicinarono al
tempio. Tentava continuamente di allontanarsi o di abbandonare il percorso
all’improvviso; una volta persino d’impennarsi e disarcionarlo.
Bane non riusciva a vedere più di qualche metro avanti a sé nella fitta
vegetazione, ma sapeva che ormai erano vicini. Percepiva il potere del
Tempio che lo richiamava da dietro l’impenetrabile cortina di rampicanti
intrecciati e rami contorti. Creando una morsa col Lato Oscuro, schiacciò
gli ultimi rimasugli di volontà del possente rancor e gli intimò di avanzare.
All’improvviso sbucarono in una radura, un cerchio del diametro di quasi
cento metri. Proprio al centro si ergeva il Tempio dei Rakata. La struttura
era alta quasi venti metri, un monumento di pietra e di roccia scolpita.
L’unico ingresso era un ampio arco in cima a una colossale scalinata,
ricavata dalla parete esterna del tempio stesso. La superficie era intonsa:
nuda e pura, senza muschio né edere rampicanti. Il terreno che lo
circondava era spoglio, a parte un manto di erba corta e morbida. Era come
se la giungla avesse timore di avanzare e impossessarsi della pietra corrotta.
Bane saltò giù dalla cavalcatura, l’attenzione totalmente rivolta alla
struttura che gli torreggiava innanzi. Libero dal suo potere, il rancor fuggì
nel sottobosco. Il tremendo fracasso causato dalla sua fuga era sovrastato da
ululati strazianti, ma Bane non si accorse neppure di quei rumori. Il rancor
non gli serviva più: aveva trovato ciò che cercava.
Tremando, avanzò di un passo e poi si fermò di colpo. Scosse la testa per
schiarirsi le idee. Il Lato Oscuro era potente, tanto potente da stordirlo. Ciò
significava che si trattava di un luogo pericoloso; non poteva permettersi
distrazioni.
Secondo i resoconti letti negli archivi, una volta il Tempio era stato
protetto da un potente scudo di energia, che per essere abbattuto richiedeva
un’intera tribù di Rakata composta unicamente da utilizzatori della Forza.
Come aveva fatto nelle tombe su Korriban, iniziò a sondare la zona con
la Forza. Avvertì gli echi delle misure di sicurezza che una volta
proteggevano il Tempio, ma erano tanto deboli da essere quasi inesistenti.
Non ne fu sorpreso. Gli scudi che lo circondavano erano stati alimentati
dall’energia della Star Forge. Una volta distrutta erano venuti a mancare,
assieme a tutte le altre difese che avevano reso il Pianeta Ignoto un cimitero
di navi.
Domandandosi cos’altro fosse andato perso nella violenta fine della Star
Forge, attraversò il cortile e salì i gradini del Tempio. La scalinata era ripida
ma larga, e la pietra non era erosa né screpolata nonostante l’età. I gradini
terminavano su uno spiazzo che conduceva all’arcata di pietra dell’ingresso,
a tre quarti della salita. Si fermò sulla soglia, poi la attraversò. Ebbe una
breve idea di ciò che doveva aver provato chi lo aveva preceduto: l’attesa, il
brivido della scoperta. Una volta all’interno, tuttavia, ci vollero solo pochi
minuti di esplorazione perché perdesse ogni esaltazione.
Come Korriban, il tempio era stato spogliato di qualunque cosa di valore.
Cercò per ore, a cominciare dall’ultimo piano da cui era entrato e
addentrandosi sempre più fino a raggiungere il fondo, setacciando ogni
centimetro dei corridoi vuoti e delle stanze deserte. Eppure non disperava,
nonostante la sua ricerca stesse dimostrandosi infruttuosa. Le cripte nella
Valle dei Signori Oscuri gli erano sembrate prosciugate, spremute fino
all’ultima goccia. Il Pianeta Ignoto era diverso. Lì c’era ancora del potere.
Doveva esserci qualcosa. Ne era certo. Si rifiutava di accettare un altro
fallimento.
Fu nel livello più basso del Tempio, molto al di sotto della superficie del
pianeta, che la sua ossessiva ricerca ebbe finalmente termine. Quando
s’imbatté per la prima volta in quella stanza, la sua attenzione fu
immediatamente attratta da ciò che restava di un enorme computer in
condizioni evidentemente irreparabili. Notò poi qualcosa sulla parete
rocciosa dietro la macchina.
Sulla superficie erano incisi vari simboli arcani: forse la lingua dei
Rakata. Per lui non avevano alcun significato, e li avrebbe liquidati senza
una seconda occhiata non fosse stato per il fatto che uno di essi brillava.
All’inizio non se ne accorse neppure. Era quasi impercettibile: una tenue
tinta violacea che segnava i contorni di una di quelle sagome insolite. Si
trovava quasi perfettamente all’altezza dei suoi occhi.
Mentre la fissava, il bagliore s’intensificò. Fece un passo avanti e tese
timidamente la mano. La luce sfarfallò e si spense, facendolo indietreggiare
per la sorpresa. Provò di nuovo, ma stavolta, anziché usare la mano,
adoperò la Forza.
Il carattere di pietra avvampò di luce.
Contenendo a fatica l’impazienza, tese di nuovo la mano e premette con
forza il simbolo luminoso. Vi fu un suono come di ingranaggi che giravano
e di pietra che sfregava contro altra pietra. Sulla parete apparve il perimetro
di un piccolo riquadro, meno di mezzo metro per lato, e una sezione di
pietra cominciò a staccarsi dalla parete.
Bane indietreggiò quando il cubo cadde dalla parete infrangendosi sul
terreno ai suoi piedi, rivelando una piccola alcova che vi era nascosta
dietro. Tese il braccio nel buio senza esitazioni per impadronirsi di
qualunque cosa vi fosse all’interno.
Le sue dita si chiusero intorno a un oggetto freddo e pesante. Lo estrasse
e rimase a fissare con meraviglia il manufatto che aveva in mano.
Leggermente più grande del suo pugno, aveva la forma di una piramide:
una minuscola replica del Tempio nel quale si trovava. Bane riconobbe
all’istante cosa fosse davvero la sua ricompensa: un holocron Sith, scrigno
di sapienza proibita in attesa soltanto di essere aperto.
L’arte della costruzione degli holocron era perduta da millenni, ma grazie
ai suoi studi Bane sapeva qualcosa sulla teoria fondamentale dietro la loro
progettazione. Le informazioni in essi contenute erano immagazzinate in
una matrice digitale incrociata a crittaggio automatico. I sistemi di
protezione di un holocron non potevano essere aggirati o violati; le
informazioni non potevano essere copiate o manipolate da un pirata
informatico. C’era solo un modo per avere accesso allo scibile che
racchiudevano.
Su ogni holocron era impressa la personalità di uno o più Maestri che
fungevano da guardiani. Quando lo utilizzava qualcuno in grado di
comprenderne i segreti, l’holocron proiettava minuscole e grezze immagini
olografiche dei vari guardiani. Interagendo con lo studente, i simulacri
programmati impartivano un’educazione molto simile a quella di un
mentore in carne e ossa.
Tuttavia, tutti i resoconti sugli holocron Sith avevano menzionato i
simboli antichi che adornavano la piramide. L’holocron che stringeva nella
mano era quasi del tutto liscio. Era possibile che precedesse persino gli
holocron degli antichi Sith? Si trattava di un cimelio dei Rakata stessi? I
guardiani dell’holocron erano forse la riproduzione delle personalità di
Maestri alieni, risalenti addirittura a prima che nascesse la Repubblica? E in
tal caso, sarebbero stati disposti a svelare i loro segreti? Avrebbero anche
solo risposto?
Muovendosi con cautela, posò delicatamente l’holocron a terra e poi vi si
sedette davanti. Incrociò le gambe e iniziò a trarre i respiri lenti e profondi
della trance di meditazione. Raccogliendo e focalizzando la propria energia,
Bane proiettò un’ondata di Forza oscura che avvolse il piccolo oggetto sul
pavimento. In risposta, l’holocron iniziò a sfavillare producendo scintille.
Trattenne il fiato, incerto di cosa sarebbe successo. Dalla sommità del
congegno fuoriuscì un piccolo raggio di luce composto da particelle
disperse. Queste iniziarono a roteare e a cambiare, aggregandosi in una
figura incappucciata i cui lineamenti erano totalmente nascosti dalla pesante
veste.
Poi una voce parlò, chiara e forte. “Sono Darth Revan, Signore Oscuro
dei Sith”.
La fragorosa risata di trionfo di Bane riecheggiò nei corridoi del Tempio.

A Bane sembrava che gli insegnamenti racchiusi in quell’unico holocron


superassero quanto contenuto in tutto l’archivio dell’Accademia. Revan
aveva scoperto molto fra i rituali degli antichi Sith, e mentre la sua replica
digitale ne spiegava la natura e gli scopi, stentava a credere al loro
incredibile potenziale. Alcuni rituali erano così terribili e pericolosi, persino
per un vero Maestro Sith, che dubitava avrebbe mai osato utilizzarli.
Comunque li copiò con diligenza su fasci di filmplast, conservandoli in
modo da poterli studiare meglio in seguito.
E all’interno dell’holocron c’era molto più delle semplici pratiche degli
antichi stregoni Sith. In poche settimane aveva imparato sulla vera natura
del Lato Oscuro più che in tutto il tempo passato su Korriban. Revan era
stato un vero Signore dei Sith, a differenza dei Maestri compiacenti che
s’inchinavano a Kaan e alla sua Confraternita. E presto tutta la sua
sapienza, la sua comprensione del Lato Oscuro sarebbero appartenute a
Bane.

Githany si svegliò di soprassalto, dando un calcio alle coperte che


caddero sul pavimento sterrato della tenda. Aveva la pelle sudata e
arrossata, ma non per via del caldo. Ruusan era nella stagione delle piogge
e, nonostante di giorno fosse caldo e umido, di notte la temperature
calavano a tal punto che le sentinelle di guardia potevano vedere la
condensa formata dal proprio respiro.
Aveva sognato Bane. No, non era stato un sogno: i dettagli erano troppo
nitidi e definiti per poterlo definire tale; l’esperienza era stata fin troppo
vivida e reale. Si era trattato di una visione. Tra loro due c’era una
connessione, un legame stabilitosi nel periodo trascorso assieme a studiare
la Forza. Un collegamento tra mentore e studente non era qualcosa
d’inaudito, benché Githany non fosse più certa di chi fosse stato davvero il
Maestro e chi l’apprendista.
La sua visione era stata chiarissima: Bane avrebbe raggiunto Ruusan. Ma
non per unirsi alla Confraternita, bensì per distruggerla.
Rabbrividì, il sudore che le si ghiacciava addosso nell’aria fredda della
notte. Si alzò dal giaciglio e s’infilò il pesante mantello sulla sottile camicia
da notte. Doveva parlarne a Kaan; non poteva aspettare fino al mattino.
La notte era scura: la luna e le stelle erano bloccate dalle minacciose nubi
di tempesta che avevano riempito il cielo sin dall’arrivo dei Sith di
Korriban. Dall’alto cadevano fitte goccioline, un leggero miglioramento
rispetto alla coltre di pioggia continua di quando si era trascinata a letto.
Per il campo vagava una manciata di altri Sith. Alcuni le borbottarono
saluti incomprensibili al loro passaggio, ma per la maggior parte tennero la
testa bassa e continuarono a trascinare i piedi nel fango senza rallentare.
L’ardore instillato da Kaan all’arrivo dei rinforzi era stato attutito da quel
flusso apparentemente interminabile di giornate grigie e piovose. Ci
sarebbero volute alcune settimane prima che le piogge diminuissero,
cedendo il passo alla lunga estate torrida di Ruusan. Fino ad allora, i
seguaci di Kaan avrebbero dovuto continuare a soffrire freddo e umidità.
Githany non ci fece neanche caso. Concentrata sulla propria missione,
rallentò soltanto quando raggiunse l’entrata della grande tenda in cui Kaan
aveva stabilito i suoi alloggi personali. All’interno ardeva una luce: Lord
Kaan era sveglio.
Entrò timidamente. Ciò che doveva dirgli non doveva essere udito da
altri. Per fortuna lo trovò solo. Ma si fermò all’entrata, fissando con
morboso interesse l’apparizione che aveva innanzi. Al fioco bagliore della
lanterna che faceva da unica fonte d’illuminazione, Kaan sembrava
impazzito.
Camminava avanti e indietro lungo la tenda, a passi svelti e irregolari.
Era curvo su se stesso, quasi piegato in due, borbottando tra sé e scuotendo
la testa. Con la mano sinistra continuava a tirarsi una ciocca di capelli, poi
la abbassava di scatto come se l’avessero sorpreso in un atto sconveniente.
Stentava a credere che quel folle fosse l’uomo che aveva scelto di
seguire. Era possibile che Bane avesse ragione? Era sul punto di tornare
nella notte grondante quando Kaan si voltò e finalmente la notò.
Per un breve attimo, nei suoi occhi apparve un panico sfrenato: ardevano
con la paura e la disperazione di un animale in gabbia. Poi, all’improvviso,
alzò la schiena di scatto, ergendosi in tutta la sua altezza. Lo sguardo
terrorizzato gli sparì dagli occhi, sostituito da una fredda collera.
“Githany”, disse, il benvenuto glaciale come la sua espressione. “Non
aspettavo visite”.
A quel punto fu lei ad avere paura. Lord Kaan emanava potere: avrebbe
potuto schiacciarla con la stessa facilità con cui lei uccideva gli scarafaggi
che a volte strisciavano sul pavimento della tenda. Il ricordo dell’uomo
spezzato e impaurito sparì, spazzato via dalla sua mente dall’aura
travolgente dell’autorità di Kaan.
“Perdonami, Lord Kaan”, disse chinando leggermente il capo. “Devo
parlarti”.
La rabbia parve attenuarsi, benché continuasse senza dubbio a emanare
un’imponente presenza. “Naturalmente, Githany. Per te ho sempre tempo”.
In quelle parole non c’era solo cordiale formalità, ma qualcosa di più
profondo. Githany era una donna attraente, abituata a essere oggetto dei
doppi sensi e del malcelato desiderio degli uomini. In genere le provocava
poco più che un senso di ribrezzo, ma nel caso di Kaan la fece arrossire. Era
il fondatore della Confraternita dell’Oscurità, un uomo visionario e
predestinato. Come avrebbe potuto non sentirsi lusingata dalle sue
attenzioni?
“Ho avuto una premonizione”, spiegò. “Ho visto... ho visto Darth Bane.
Stava venendo su Ruusan a distruggerci”.
“Qordis mi ha messo al corrente delle opinioni di Bane”, disse annuendo.
“Non mi sorprende”.
“Non capisce la gloria della nostra causa”, disse Githany scusandosi per
Bane. “Non ti ha mai incontrato di persona. La sua comprensione della
Confraternita gli deriva soltanto da Qordis e dagli altri Maestri, coloro che
lo hanno abbandonato”.
Kaan le rivolse uno sguardo perplesso. “Sei venuta ad avvertirmi che
Bane progetta di distruggerci, ma adesso sembra che tu stia cercando di
giustificarlo”.
“La Forza ci mostra ciò che potrebbe accadere, non necessariamente ciò
che accadrà”, gli rammentò lei. “Se riusciremo a convincere Bane a unirsi a
noi, potrebbe essere un prezioso alleato contro i Jedi”.
“Capisco”, disse Kaan. “Pensi che, accogliendolo nella Confraternita, la
tua premonizione non si avvererà”. Vi fu una lunga pausa, poi domandò:
“Sei certa che il tuo giudizio non sia velato dai sentimenti personali che
nutri per lui?”
Imbarazzata, Githany non riuscì a guardarlo negli occhi. “Non sono la
sola a pensarla così”, mormorò, lo sguardo fisso a terra. “Anche molti degli
altri di Korriban sono turbati dalla sua assenza. Hanno avvertito la sua
forza; si domandano perché qualcuno in cui il Lato Oscuro è tanto potente
debba rifiutare la Confraternita”.
Quando Kaan le posò una mano sulla spalla per consolarla, Githany
sollevò lo sguardo. “Forse hai ragione, Githany. Ma non posso seguire il tuo
consiglio. Nessuno sa neppure dove sia Bane”.
“Io lo so. Tra noi c’è... un legame. Posso dirti dov’è andato”.
Kaan tese una mano per sfiorarle il mento. Le reclinò il capo in maniera
impercettibile. “Allora manderò qualcuno da lui”, promise. “Hai fatto la
cosa giusta a venire da me, Githany”, aggiunse, allontanando dolcemente la
mano e rivolgendole un sorriso rassicurante.
Raggiante di orgoglio, Githany gli restituì il sorriso.
Se ne andò dopo pochi minuti, una volta spiegato dove Bane fosse andato
e perché. Kaan la guardò uscire, turbato dalle sue parole pur badando bene a
non darlo a vedere. Aveva placato le sue paure e confidava che sarebbe
rimasta fedele alla Confraternita nonostante l’evidente attrazione che
provava per Bane. Githany s’immaginava al centro dei desideri di ogni
uomo, ma Kaan vedeva che in lei ardeva una brama molto simile: aveva
fame di potere e di gloria, e lui era dispostissimo ad alimentarne orgoglio e
ambizione con lusinghe, promesse e allusioni.
Non era certo, comunque, di come interpretare la sua visione. Benché la
Forza fosse potente in lui, i suoi talenti erano altri. Poteva modificare l’esito
di una guerra con la meditazione da battaglia. Era in grado d’ispirare fedeltà
negli altri Signori Oscuri manipolandone impercettibilmente le emozioni.
Ma non gli era mai capitata una visione come quella che l’aveva condotta
nella sua tenda nel cuore della notte.
Inizialmente pensò di liquidarla come una preoccupazione infondata
causata dal basso morale. I rinforzi da Korriban avevano creato l’aspettativa
di una rapida fine della lunga guerra su Ruusan. Il generale Hoth era però
troppo scaltro per lasciare che l’Esercito della Luce venisse schiacciato
dalla potenza superiore dei Sith. Aveva cambiato tattica, conducendo una
guerra fatta di sortite lampo per guadagnare tempo nel tentativo di ricavare
maggior appoggio.
Ormai i Sith si stavano facendo impazienti e irrequieti. La gloriosa
vittoria che Kaan aveva promesso loro settimane addietro non si era
concretizzata; invece, dovevano arrancare nel fango e nella pioggia
incessante nel tentativo di sconfiggere un nemico che neppure li affrontava
apertamente. La visita di Githany non lo aveva sorpreso: l’unica cosa
davvero sorprendente era che non fossero venuti altri Signori Oscuri a
manifestare il proprio malcontento.
Ciò però non faceva che rendere più pericolosi gli avvertimenti di
Githany. Bane aveva rifiutato la Confraternita in modo plateale; tutte le
reclute di Korriban sostenevano di aver assistito alla scena di persona.
Quella storia si era diffusa nel campo come un morbo. Da principio ne
avevano schernito l’arroganza e l’ostinazione: aveva scelto di andare da
solo e non avrebbe preso parte al loro trionfo. In assenza di quest’ultimo,
tuttavia, alcuni avevano cominciato a domandarsi se Bane non avesse
ragione.
Lord Kaan aveva spie tra i Signori Oscuri; i mormorii gli erano giunti
all’orecchio. I Signori non erano pronti a dar voce ai loro dubbi, ma la loro
determinazione stava indebolendosi, assieme alla loro lealtà. Aveva formato
una coalizione di nemici e acerrimi rivali. Nonostante la Confraternita
dell’Oscurità sembrasse salda come il duracciaio, una decisa voce di
dissenso avrebbe potuto infrangerla in mille fragilissimi pezzi.
Afferrò la lanterna nella tenda e uscì nella pioggerella notturna,
attraversando in fretta il campo a lunghi passi. Si sarebbe occupato di Bane,
proprio come aveva promesso a Githany. Se non era possibile convincere
quel giovane ribelle a unirsi a loro, avrebbe dovuto essere eliminato.
Kaan giunse a destinazione in pochi minuti. Si fermò davanti alla porta,
ricordando la propria rabbia all’inatteso ingresso di Githany nella sua tenda.
Non volendo inimicarsi l’uomo che era andato a trovare, chiamò:
“Kas’im?”
“Avanti”, rispose una voce un secondo dopo; udì l’inconfondibile suono
di una spada laser che si spegneva.
Entrò e trovò il Maestro di Spada a petto nudo, coperto di sudore e col
fiatone.
“Vedo che sei sveglio”, osservò.
“Non è facile dormire alla vigilia di una battaglia, anche quando sembra
non arrivare mai”.
Kas’im era un guerriero; Kaan sapeva che scalpitava per quell’inattività.
Sequenze ed esercitazioni non potevano saziare il suo desiderio di un vero
combattimento. Presso l’Accademia su Korriban, il Maestro di Spada aveva
prestato servizio senza lamentarsi. Ma lì, su Ruusan, la promessa della
battaglia era troppo vicina e insistente. L’odore del sangue era sempre
nell’aria, dove si mescolava al sudore della paura e dell’attesa. Lì, Kas’im
poteva essere soddisfatto solo faccia a faccia con un nemico. Ben presto
quella frustrazione sarebbe tracimata trasformandosi in ribellione, e Kaan
non poteva certo permettersi di perdere la fedeltà del più grande guerriero
del suo esercito. Per fortuna, c’era un modo per risolvere entrambi i
problemi, Bane e Kas’im, in un colpo solo.
“Ho una missione per te. Di grande importanza”.
“Vivo per servirti, Lord Kaan”. La risposta di Kas’im era calma, ma i
suoi lekku si contrassero per l’aspettativa.
“Devo inviarti lontano da Ruusan, ai confini della galassia. Dovrai recarti
a Lehon”.
“Sul Pianeta Ignoto?”, domandò il Maestro di Spada, perplesso. “Non c’è
nulla lì, tranne i resti della più grande sconfitta del nostro Ordine”.
“Bane è là”, spiegò Kaan. “Dovrai andare da lui in veste di mio inviato.
Spiegargli che deve unirsi al resto dei Sith qui su Ruusan. Digli che chi non
è con la Confraternita è contro di essa”.
Kas’im scosse la testa. “Dubito che farà differenza. Una volta che ha
preso una decisione, sa essere... ostinato”.
“Il Lato Oscuro non può unirsi nella Confraternita se lui agisce da solo”,
spiegò Kaan. Nel parlare emanò la Forza, facendo leva con gran delicatezza
sul senso di orgoglio ferito del Twi’lek. “So che ha respinto te e gli altri
Maestri su Korriban. Ma dovrai fargli di nuovo quest’offerta”.
“E quando la rifiuterà?” Kas’im parlò in modo rapido e tagliente. Kaan
sorrise tra sé per la rabbia crescente del Maestro di Spada mentre faceva
leva ancora un altro po’ sulle sue emozioni.
“Allora dovrai ucciderlo”.
CAPITOLO 23

“Chi utilizza il Lato Oscuro è destinato a servirlo. Capirlo vuol dire


comprendere la filosofia sottesa ai Sith”.
Bane sedeva immobile, gli occhi fissi sul simulacro di un Signore Oscuro
morto e sepolto da tremila anni. L’immagine di Revan scomparve, poi
lentamente riapparve con uno sfarfallio. L’holocron stava per spegnersi;
stava morendo. Il materiale usato per costruirlo, il cristallo che convogliava
l’energia della Forza per dar vita al manufatto, era difettoso. Più Bane lo
usava e più instabile diventava. Ma non poteva lasciarlo neppure per un
giorno. Ormai era ossessionato dal ricavarne tutta la conoscenza che
racchiudeva, e trascorreva ore e ore ad assorbire le parole di Revan con la
stessa accanita determinazione di quando estraeva cortosite su Apatros.
“Il Lato Oscuro offre il potere per il potere. Dovrai bramarlo, desiderarlo
ardentemente. Dovrai cercare il potere sopra ogni cosa, senza riserve o
esitazioni”.
Quelle parole erano particolarmente vere per Bane, come se la
personalità programmata del suo Maestro virtuale percepisse di essere quasi
alla fine e avesse plasmato quelle ultime lezioni espressamente per lui.
“La Forza ti cambierà, ti trasformerà. Alcuni temono questo
cambiamento. Gli insegnamenti dei Jedi si concentrano sul combattere e sul
controllare la trasformazione. È per questo che chi serve la luce è limitato in
ciò che consegue.
“Il vero potere può giungere solo a chi abbraccia la mutazione. Non
possono esistere compromessi. Pietà, compassione, lealtà: tutte cose che
t’impediranno di reclamare ciò che ti spetta di diritto. Chi segue il Lato
Oscuro deve accantonare tali concetti. Chi non lo fa, chi cerca di percorrere
il sentiero della moderazione, fallisce, trascinato sul fondo dalla propria
debolezza”.
Quelle parole lo descrivevano in modo quasi perfetto mentre frequentava
l’Accademia; ciò nonostante, non provava vergogna o rimorso. Quel Bane
non esisteva più. Come aveva smesso i panni del minatore di Apatros
prendendo il suo nome Sith, allo stesso modo si era spogliato
dell’apprendista goffo e insicuro nel rivendicare il titolo di Darth. Quando
aveva rifiutato Qordis e la Confraternita, aveva avviato la trasformazione di
cui Revan parlava, e con l’aiuto dell’holocron era finalmente sul punto di
completarla.
“Chi accetta il potere del Lato Oscuro deve anche accettare la sfida di
conservarlo”, continuò Revan. “Il Lato Oscuro incita per sua natura alla
rivalità e al conflitto. Questa è la più grande forza dei Sith: elimina i deboli
dal nostro Ordine. Tale rivalità, però, può anche essere la nostra maggiore
debolezza. I forti devono far attenzione a non essere soverchiati
dall’ambizione degli inferiori che operano in concerto. Qualunque Maestro
insegni le vie del Lato Oscuro a più di un apprendista, è uno stolto. Col
tempo i suoi accoliti uniranno le forze per detronizzarlo. È ovvio e
inevitabile. Per questo ogni Maestro deve avere soltanto uno studente”.
Bane non rispose, ma d’istinto il labbro gli s’increspò per il disgusto nel
ricordare la propria formazione all’Accademia. Qordis e gli altri avevano
trascinato gli apprendisti da una lezione all’altra, come fossero bambini in
una scuola anziché eredi del lascito dei Sith. C’era forse da meravigliarsi se
aveva dovuto faticare tanto per realizzare il suo vero potenziale in un
sistema così difettoso?
“Questo è anche il motivo per cui può esservi un solo Signore Oscuro.
Sui Sith deve regnare un solo capo: l’incarnazione stessa del vigore e del
potere del Lato Oscuro. Se il capo s’indebolisce, un altro dovrà levarsi a
prenderne il mantello. I forti regnano, i deboli sono destinati a servire. È
così che dev’essere”.
L’immagine sfarfallò ed ebbe un sobbalzo, poi la minuscola replica di
Darth Revan chinò il capo rimettendosi il cappuccio per celare di nuovo il
suo volto. “Il mio tempo è concluso. Prendi ciò che ti ho insegnato e usalo
bene”.
Poi, il Maestro non ci fu più. Il bagliore emanato dall’holocron si dissolse
nel nulla. Bane raccolse la piramide di cristallo da terra, ma la sentì fredda e
inerte tra le mani. Non avvertiva più traccia della Forza al suo interno.
L’oggetto non gli era più di alcuna utilità e pertanto, come Revan gli
aveva insegnato, doveva essere eliminato. Lo lasciò cadere a terra; poi, con
deliberata lentezza, lo schiacciò col potere della Forza finché non rimase
che polvere.

Il Buzzard Sith entrò nell’atmosfera di Lehon e scese in picchiata


attraverso il limpido cielo azzurro. Kas’im, ai comandi, effettuò alcune lievi
correzioni per mantenere la rotta della nave, una linea retta che si dirigeva
verso il radiofaro della Valcyn.
Si era quasi aspettato che Bane lo avesse disattivato o perlomeno ne
avesse modificato la frequenza. Nonostante però sapesse della sua
esistenza, visto che si trattava di una dotazione standard di praticamente
tutte le navi, lo aveva lasciato com’era. Pareva che non temesse l’idea di
essere seguito, ma anzi la gradisse.
Nel giro di pochi minuti, Kas’im ebbe un’immagine del bersaglio. La
nave che era brevemente appartenuta a Qordis, prima che Bane la prendesse
per sé, era posata su una spiaggia bianca, con le acque cristalline dei grandi
oceani del Pianeta Ignoto su un lato e la giungla impenetrabile sull’altro. Le
scansioni non mostravano nessun segno di vita nelle immediate vicinanze,
ma Kas’im rimase all’erta mentre portava la propria nave accanto all’altra.
Spense il Buzzard e uscì dal portello. Avvertì l’energia del mondo, e
l’inconfondibile presenza di Darth Bane, che sembravano emanare dal
cuore oscuro della giungla. Saltò giù, atterrando con un tonfo sordo sulla
sabbia poco compatta in cui i piedi gli affondarono leggermente. Un esame
sommario della Valcyn confermò ciò che sospettava già: la sua preda non si
trovava lì.
Qualunque impronta avesse potuto lasciare Bane nella sabbia era stata
cancellata dalle onde o dispersa dal vento. Eppure, sapeva dov’era diretto.
La giungla torreggiava dinanzi a lui, vibrante e rigogliosa, fitta e
minacciosa: un muro di vegetazione quasi impenetrabile, tranne che per un
ampio solco che l’attraversava.
Qualcuno o qualcosa di dimensioni e forza immense aveva aperto quel
sentiero tra gli alberi e il sottobosco. La giungla stava già tentando di
riprenderselo: sul terreno cresceva uno spesso strato di muschio, e al di
sopra si attorcigliava una grande rete di rampicanti. Ma per il Twi’lek era
abbastanza visibile da seguirlo.
Dalla giungla lo osservavano occhi nascosti: non gli serviva la Forza per
avvertirne lo sguardo che lo studiava, valutandolo, seguendo ogni sua
mossa nel tentativo di determinare se quel nuovo acquisto dell’ecosistema
fosse cacciatore o preda. Per chiarificare meglio il proprio ruolo, sfoderò la
sua spada laser doppia e accese le lame gemelle, poi si avviò a passo svelto
sul sentiero.
Mentre correva usò la Forza per sondare il fogliame intorno a sé. Gran
parte delle creature che percepì non costituiva una grande minaccia; tuttavia
rimaneva all’erta. Qualcosa aveva tracciato quella pista. Qualcosa di
grande.
Quasi dieci chilometri e un’ora di corsa dopo, il Maestro di Spada
s’imbatté finalmente nel suo primo rancor. Il sentiero curvava bruscamente
a est, e mentre svoltava l’angolo la creatura spuntò dagli alberi circostanti
tra ringhi e ululati.
Kas’im non fu minimamente sorpreso dall’agguato. Aveva percepito la
presenza del rancor da centinaia di metri, proprio come quello doveva
averlo sicuramente fiutato e seguito da grande distanza. Accolse la carica
della creatura con calma e spietata efficienza.
Accovacciandosi sotto la prima zampata, incise un profondo squarcio
sulla zampa anteriore sinistra della bestia. Quando s’impennò ululando di
dolore, scavò un altro solco nelle carni molli del basso addome. Il rancor
non cadde subito: era troppo grande per venire abbattuto da due ferite di
spada laser. Il dolore lo spinse invece a una furia incontrollata. Agitò
convulsamente le fauci aperte e gli artigli, torcendo, spezzando e
squarciando tutto ciò che aveva intorno.
Kas’im schivava e si avvitava, scavalcando un attacco e poi gettandosi a
terra per schivarne un altro con una capriola. Si muoveva con rapidità tale
che al rancor non sarebbe risultato altro che una macchia sfocata, se
l’animale non fosse stato cieco per la rabbia. E a ogni colpo evitato ne
sferrava uno suo, lavorando di lama su quella montagna di carne e tendini
come un maestro scultore che intaglia un blocco di lommite.
Il rancor annaspava, incespicando e barcollando come per il ballo di un
ubriaco. Di contro, Kas’im era rapido e preciso. Il suo avversario rallentava
a ogni secondo, le forze che lo abbandonavano. Finalmente la bestia cadde
in avanti con un gemito pietoso, e restò immobile.
Lasciandola lì dov’era crollata, Kas’im proseguì con rinnovata urgenza.
Per breve e facile che si fosse dimostrata quella battaglia, era la prima volta
in cui veniva messo alla prova in un vero scontro mortale da quando aveva
acconsentito ad aiutare Qordis con gli studenti all’Accademia. Fu lieto di
constatare che le sue abilità non si ancora erano indebolite.
Aveva la sensazione che gli sarebbero servite di nuovo prima del finire
del giorno.

Bane sedeva a gambe incrociate sul pavimento di pietra della stanza


centrale, all’ultimo piano del Tempio dei Rakata. Meditava sulle parole di
Revan, come aveva fatto spesso tra una lezione dell’holocron e l’altra.
Senza più il manufatto, era ancora più importante riflettere su ciò che aveva
appreso riguardo alla natura del Lato Oscuro... e al sentiero su cui l’avrebbe
condotto.
Il Lato Oscuro incita per sua natura alla rivalità e al conflitto. Questa è la
più grande forza dei Sith: elimina i deboli dal nostro Ordine.
Le costanti battaglie dei Sith sin dall’inizio della Storia avevano uno
scopo necessario: concentrare il potere del Lato Oscuro in pochi individui
forti. La Confraternita aveva cambiato tutto. Ormai cento o più Signori
Oscuri seguivano Kaan, ma per la gran parte erano deboli e inferiori. Il
numero dei Sith era più alto che mai, eppure stavano perdendo la guerra
contro i Jedi.
Il potere del Lato Oscuro non può essere disperso tra le masse; deve
concentrarsi nei pochi degni di questo onore.
La forza del numero era una trappola, che aveva catturato tutti i grandi
Signori dei Sith venuti in precedenza. Naga Sadow, Exar Kun, Darth
Revan: ciascuno di loro era stato potente. Ciascuno aveva attirato dei
discepoli, a cui aveva insegnato le vie del Lato Oscuro. Ciascuno aveva
ammassato un esercito di seguaci e li aveva sguinzagliati contro i Jedi.
Eppure, in ogni singolo caso, i servi della luce avevano prevalso.
I Jedi sarebbero sempre rimasti uniti sotto la loro causa. I Sith sarebbero
stati sempre appesantiti da lotte intestine e tradimenti. Ambizione
inarrestabile, insaziabile sete di potere: proprio quei tratti che li spingevano
alla gloria e alla grandezza individuali finivano sempre col condannarli. Era
l’inevitabile paradosso dei Sith.
Kaan aveva tentato di risolvere il problema rendendo tutti pari nella
Confraternita. Ma quella soluzione era imperfetta. Mostrava così di non
aver capito il vero problema, e di non comprendere la reale natura del Lato
Oscuro. Sui Sith deve regnare un solo capo: l’incarnazione stessa del
vigore e del potere del Lato Oscuro.
Se tutti sono uguali, nessuno è forte. Eppure, chiunque fosse sorto dalle
file gonfie e sovraccariche dei Sith a reclamare il mantello di Signore
Oscuro non sarebbe mai riuscito a tenerlo per sé. Col tempo i seguaci
avrebbero unito le forze per rovesciare il Maestro: era inevitabile. Insieme, i
deboli avrebbero sopraffatto il forte, in una perversione intollerabile
dell’ordine naturale.
C’era però un’altra soluzione: un modo per spezzare il ciclo infinito che
ostacolava i Sith. Ora Bane se ne rendeva conto. Da principio aveva creduto
che la risposta potesse essere sostituire l’Ordine dei Sith con un unico
Signore Oscuro onnipotente. Nessun altro Maestro; nessun apprendista.
Solo un viatico che contenesse tutto lo scibile e il potere del Lato Oscuro.
Ma aveva accantonato in fretta quell’idea.
Persino un Signore Oscuro sarebbe avvizzito e morto, alla fine, e tutta la
conoscenza dei Sith sarebbe andata persa. Se il capo s’indebolisce, un altro
dovrà levarsi a prenderne il mantello. Uno soltanto non avrebbe mai
funzionato. Ma se i Sith fossero stati esattamente due...
Tirapiedi e servitori avrebbero potuto essere attratti al Lato Oscuro con
l’esca del potere. Si sarebbero potuti dar loro degli assaggi, come un
padrone che condivida i bocconi della sua mensa con dei fedeli segugi. Alla
fine, tuttavia, avrebbe potuto esserci un solo vero Maestro Sith. E a servire
quel Maestro non avrebbe potuto che esservi un solo apprendista.
Sempre due devono essere: né più, né meno. Uno incarna il potere,
l’altro lo brama. La Regola dei Due.
Questa era la conoscenza che avrebbe condotto il Lato Oscuro a una
nuova era. Una rivelazione che avrebbe posto fine a tutte le lotte intestine
che avevano definito l’Ordine per mille generazioni. I Sith sarebbero rinati,
i nuovi modi sarebbero stati spazzati via... tutto per opera di Bane.
Per prima cosa, però, avrebbe dovuto distruggere la Confraternita. Kaan,
Qordis, tutti quelli che avevano studiato assieme a lui su Korriban, tutti i
Maestri su Ruusan, dovevano essere epurati finché non fosse rimasto lui
soltanto.
Darth Bane, Signore dei Sith. Il titolo gli apparteneva di diritto; non c’era
nessun altro in cui il Lato Oscuro fosse abbastanza potente da sfidarlo.
L’unica domanda rimasta era chi fosse degno di diventare il suo
apprendista. E poi come avrebbe eliminato gli altri.
“Bane!” La voce di Kas’im interruppe i suoi pensieri. “Sono qui per
portarti un invito di Lord Kaan”.
Bane balzò in piedi estraendo in un lampo la spada laser, furioso per
essere stato disturbato all’apice dell’illuminazione. Guardò Kas’im in
cagnesco, adirato sia per l’interruzione che con se stesso, troppo assorto nei
propri pensieri per avvertire la presenza del Twi’lek.
“Come avete fatto a trovarmi?”, domandò, proiettando la propria mente
per controllare chi altri potesse aver invaso il Tempio dei Rakata e il suo
santuario. Quando si rese conto che Kas’im era solo, provò un miscuglio di
sollievo e delusione. Sperava che ci fosse un’altra persona... ma lei doveva
aver deciso di non venire.
“Lord Kaan mi ha detto che eri venuto qui. Una volta entrato
nell’atmosfera, non ho fatto altro che seguire il radiofaro della Valcyn”,
rispose il Maestro di Spada. “Non saprei dire come facesse Lord Kaan a
sapere che ti trovavi qui”.
Bane sospettò che dovesse averglielo detto Githany, ma non si prese la
briga di dirlo al Twi’lek. Domandò invece: “Kaan vi ha inviato a
uccidermi?”
Kas’im fece un lieve cenno del capo. “Se non ti unirai alla Confraternita,
lascerò il tuo cadavere su questo pianeta deserto e dimenticato”.
“Deserto?”, ripeté Bane incredulo. “Come potete dirlo? Il Lato Oscuro è
potente qui. Molto più di quanto sia mai stato su Korriban. Qui è dove
troveremo il potere per distruggere i Jedi... non nella Confraternita di
Kaan!”
“Un tempo anche Korriban era un luogo molto potente”, controbatté il
suo ex istruttore. “Nel corso dei secoli, migliaia di Sith ne hanno esplorato i
segreti e nessuno vi ha scoperto grandi strategie per sconfiggere il nostro
nemico”. Il Twi’lek accese la sua spada laser a due lame prima di
proseguire. “È tempo di concludere quest’insensata ricerca, Bane. I vecchi
modi hanno fallito. I Jedi hanno sconfitto coloro che li seguivano: Exar
Kun, Darth Revan... hanno perso tutti! Se vogliamo batterli, dobbiamo
trovare una nuova filosofia”.
Per un breve attimo, Bane avvertì un flebile barlume di esaltazione. Le
parole di Kas’im riecheggiavano ciò che pensava anche lui. Poteva essere
che il Maestro di Spada fosse l’apprendista che cercava?
Quelle successive, però, fecero precipitare le sue speranze. “Kaan lo
capisce. Per questo ha creato la Confraternita. Essa è il futuro del Lato
Oscuro”.
Bane scosse la testa. Il Maestro di Spada era cieco, come tutti gli altri. E
per questo doveva morire. “Kaan si sbaglia; non lo seguirò mai. Non mi
unirò mai alla Confraternita”.
Kas’im sospirò. “Allora la tua vita finisce qui”. Balzò poi in avanti,
l’arma che si muoveva con molta più velocità di quanto avesse mai fatto
durante le sessioni di allenamento.
Mentre parava la prima sequenza, Bane si rese conto che il suo ex
Maestro si era sempre trattenuto... proprio come aveva fatto lui stesso nelle
prime fasi della battaglia con Sirak. Stava finalmente assistendo alla reale
abilità di Kas’im, e fu a stento in grado di difendersi. Ma ci riuscì
comunque.
Il suo avversario mandò un grugnito di sorpresa quando Bane lo respinse,
poi indietreggiò per ricomporsi. Lo aveva assaltato con rapidità e violenza,
aspettandosi di porre subito fine allo scontro. Avrebbe dovuto rivalutare la
propria strategia.
“Sei migliorato dal nostro ultimo combattimento”, disse, evidentemente
colpito e senza tentare di nasconderlo.
“Anche voi”, rispose Bane.
Kas’im balzò di nuovo, e la stanza si riempì dei sibili e dei ronzii delle
spade laser, che s’incontrarono cinque o sei volte nello spazio di un
pensiero. Bane sarebbe stato fatto a fette, se avesse tentato di reagire
individualmente a ogni mossa. Richiamò invece a sé la Forza, lasciando che
gli scorresse dentro e gli guidasse la mano. Si offrì totalmente e senza
riserve al Lato Oscuro. La sua arma divenne un’estensione della Forza, e
così reagì all’assalto inarrestabile del Twi’lek con una difesa impenetrabile.
Poi passò all’attacco. In passato, aveva avuto sempre paura a cedere la
propria volontà alle emozioni grezze che alimentavano il Lato Oscuro. Non
aveva più tali limiti; per la prima volta stava attingendo al suo pieno
potenziale.
Respinse Kas’im con fendenti furiosi, che costrinsero il vecchio mentore
a indietreggiare nella camera. Kas’im saltò indietro e uscì dalla porta nel
corridoio attiguo, ma Bane lo inseguì implacabile, balzando in avanti e
mancando di un centimetro un colpo che avrebbe azzoppato il Twi’lek.
L’attacco fu schivato all’ultimo momento, ma lo fece subito seguire da
un’altra serie di potenti affondi e stoccate. Il Maestro di Spada continuò a
cedere terreno, spinto inesorabilmente indietro dalla furiosa tempesta di
assalti di Bane. Ogni qualvolta tentava di cambiar tattica o passare a
un’altra forma Bane lo prevedeva, reagiva e lo superava.
L’esito era inevitabile. La Forza era semplicemente troppo potente in
Bane; solo una manovra imprevista avrebbe potuto salvare Kas’im, ma in
passato avevano combattuto troppe volte perché potesse sorprendere Bane
in quel momento. Nel corso del suo allenamento, questi aveva visto ogni
possibile sequenza, serie, mossa e tecnica con la doppia spada laser, e
sapeva come contrastarle e neutralizzarle tutte.
Il Maestro era disperato. Balzò, piroettò, si abbassò, rotolò: la sua ritirata
era folle e sconsiderata, ormai un mero tentativo di salvare la pelle. Ma non
conosceva il Tempio come Bane, che gli bloccò ogni percorso verso
l’esterno e lo condusse lentamente in un corridoio senza uscita.
Capendo cosa stesse accadendo, Kas’im fece saltare con la Forza la
pesante porta di una stanza secondaria e si tuffò all’interno. Bane sapeva
che non esisteva un’altra uscita e si fermò sulla soglia ad assaporare la
vittoria.
Il Twi’lek era in piedi al centro della camera vuota, ansante, leggermente
curvo e a capo chino. Sollevò lo sguardo quando Bane attraversò la porta;
ma quando i suoi occhi incontrarono quelli del nemico non mostravano
traccia di sconfitta.
“Avresti dovuto finirmi quando ne hai avuto occasione”, disse. Erano
separati da meno di cinque metri, ma lo spazio bastò appena a Kas’im per
esercitare sull’impugnatura della spada laser una rapida torsione. La lunga
impugnatura si sganciò al centro, e d’improvviso non fu più armato di una
spada a doppia lama, ma di una singola in ciascuna mano.
Bane esitò. All’Accademia, pochi studenti avevano anche solo tentato di
usare due spade in una volta. Il Maestro li aveva sempre dissuasi dall’usare
tale variazione della quarta forma affermando che avesse dei difetti
intrinseci. Vedendo l’espressione di crudele astuzia sul volto del nemico,
Bane comprese la verità.
La battaglia ricominciò, ma stavolta fu Bane a dover battere in ritirata.
Senza un adeguato addestramento, neppure l’enorme controllo che
esercitava sulla Forza era in grado di prevedere le sequenze inconsuete
dello stile di combattimento a due mani. La sua mente fu invasa da milioni
di opzioni utilizzabili dall’avversario, e non poteva attingere ad alcuna
esperienza per neutralizzarle. Indietreggiò barcollando, sopraffatto,
annaspando disperatamente come se annegasse.
Nel giro di pochi passaggi, Bane seppe di non poter vincere. Kas’im si
era allenato tutta una vita per quel momento. Dopo anni di studio aveva
padroneggiato tutte le sette forme della spada laser; aveva poi affinato le
sue abilità per decenni, ripetendo ogni mossa e sequenza fino a diventare
l’arma perfetta e il più grande spadaccino esistente nella galassia, o forse il
più grande di tutti i tempi. Non poteva competere con lui.
La pressione del Maestro era inesorabile. Pareva che brandisse sei lame
anziché due: aveva stabilito un ritmo particolare, pensato per sbilanciare il
nemico, in cui attaccava con una lama in alto e l’altra in basso
contemporaneamente e colpiva da lati e angolazioni opposti e strani. Bane
non ebbe scelta che ripiegare, indietro, sempre più indietro. Ormai
combatteva con un solo scopo: fuggire e mettersi in salvo. C’era una
speranza che gli dava la forza di perseverare nonostante la situazione
sfavorevole, un vantaggio che era mancato al Maestro di Spada durante la
sua ritirata. Conosceva la struttura del Tempio e riuscì a dirigersi lentamente
verso l’uscita.
Sfidandosi tra saloni e corridoi, i combattenti girarono un angolo che li
portò in vista dell’unico ingresso del Tempio dei Rakata; il grande arco con
lo spiazzo subito oltre e l’ampia scalinata che scendeva verso terra, quasi
venti metri più sotto. Nell’istante che Kas’im impiegò a riconoscere il luogo
in cui erano e a capire che l’avversario poteva ancora fuggire, Bane scatenò
la Forza. Sbilanciò per un breve attimo il Twi’lek, poi uscì con un salto
mortale dall’arcata, atterrando sullo spiazzo. Si accovacciò, sempre rivolto
verso l’avversario. Nella fretta, però, Bane aveva saltato troppo lontano; si
trovava in equilibrio precario sull’ultimo gradino, con la scalinata che
scendeva ripida alle sue spalle.
Kas’im rispose usando la Forza per spingerlo, facendolo ruzzolare giù
per i grandi scalini di pietra e lontano da lui. La caduta gli avrebbe spezzato
il collo, o almeno rotto un braccio o una gamba, se Bane non si fosse
avvolto nella Forza. Ciò nonostante, quando arrivò in fondo era contuso,
malconcio e temporaneamente stordito.
Sullo spiazzo, in alto, Kas’im era in piedi sotto al grande arco d’ingresso
del tempio e lo fissava.
“Ti seguirò ovunque fuggirai”, disse. “Ovunque tu vada, alla fine ti
troverò e ti ucciderò. Non vivere nella paura, Bane. È meglio farla finita
adesso”.
“Sono d’accordo”, rispose Bane, scagliando l’ondata di energia della
Forza che aveva accumulato durante il discorso del Maestro di Spada.
Nel suo attacco non c’era nulla di sottile: l’immensa onda d’urto scosse il
Tempio fin nelle fondamenta. La forza dirompente era tanto potente da
frantumare ogni osso nel corpo di Kas’im e ridurne in poltiglia le carni.
All’ultimo istante possibile, però, innalzò uno schermo per proteggersi
dall’attacco.
Purtroppo non poteva schermare il Tempio intorno a sé: le mura
esplosero producendo enormi macerie. L’arco crollò in una cascata di
pietre, che seppellirono Kas’im sotto tonnellate di roccia e intonaco. Un
attimo dopo, il resto del tetto franò soffocando le urla di morte del Twi’lek
con un boato assordante.
Bane, al sicuro ai piedi delle scale, osservò lo spettacolo del Tempio che
implodeva. Nubi ribollenti di polvere si riversarono dalle rovine scendendo
le scale verso di lui. Stremato per il lungo duello ed esausto per
quell’improvvisa esplosione di Forza, rimase steso lì finché non fu ricoperto
da un velo di finissima polvere bianca.
Alla fine, si rimise stancamente in piedi. Adoperando la Forza, cercò un
qualche segno che Kas’im fosse ancora vivo sotto la montagna di rocce.
Non avvertì nulla. Kas’im, il suo mentore, l’unico istruttore dell’Accademia
che lo avesse mai veramente aiutato, era morto.
Darth Bane, Signore Oscuro dei Sith, girò sui tacchi e si allontanò.
CAPITOLO 24

Non c’era tempo di piangere la morte di Kas’im, né ragione. Per quanto


fosse stato utile in passato, non era diventato che un ostacolo sul suo
cammino: un ostacolo che ora era stato rimosso. Eppure, il suo arrivo su
Lehon aveva spinto Bane ad agire. In cerca di saggezza, comprensione e
potere, aveva ignorato per troppo tempo i problemi della galassia. Con il
Tempio distrutto, non aveva più motivo di restare sul Pianeta Ignoto. Così
cominciò il lungo cammino attraverso la giungla, seguendo lo stesso
sentiero percorso da Kas’im solo poche ore addietro.
Avrebbe potuto richiamare un altro rancor con la Forza per andare più
veloce, ma aveva bisogno di tempo per pensare a quanto appena accaduto...
e a come si sarebbe occupato della Confraternita.
Kaan aveva corrotto tutto l’Ordine dei Sith, trasformandolo in un
nauseante coacervo di leccapiedi piagnucolanti. Li aveva convinti tutti con
l’inganno a credere che potessero sconfiggere i Jedi grazie alla potenza
delle armi, ma Bane sapeva come stavano davvero le cose. I Jedi erano
molti e diventavano ancora più potenti se uniti contro un nemico comune:
era la natura del lato luminoso. La chiave per sconfiggerli non stava nelle
flotte o negli eserciti. Le armi di cui avevano bisogno erano l’inganno e la
discrezione. Avrebbero vinto soltanto mediante astuzia e sottigliezza.
E quest’ultima era qualcosa che a Kaan mancava. Se fosse stato
intelligente, avrebbe inviato Kas’im su Lehon nelle vesti di un seguace
scontento. Il Maestro di Spada avrebbe potuto raccontargli di aver voltato le
spalle alla Confraternita, e Bane lo avrebbe accettato come alleato.
Naturalmente avrebbe nutrito dei sospetti, ma col tempo avrebbe messo da
parte anche la cautela. Prima o poi avrebbe abbassato la guardia e Kas’im
avrebbe potuto ucciderlo. L’assassinio era un metodo rapido, pulito ed
efficace.
Kas’im invece era venuto a sfidarlo apertamente, seguendo le regole di
qualche insensato codice d’onore. Non c’era onore nella sua fine; non
esisteva nessuna morte nobile. L’onore era una menzogna, una catena che
avvinceva quelli tanto sciocchi da accettarla e che li trascinava verso la
sconfitta. Attraverso la vittoria, spezzo le mie catene.
Bane seguì senza problemi la pista del rancor; gli abitanti della giungla
gli stettero alla larga. Sul suo cammino scorse brevemente un branco di
felini a sei zampe che divoravano la carcassa di un rancor, ma si dispersero
alla sua vista. Attesero a lungo dopo che se ne fu andato prima di tornare
indietro di soppiatto e continuare il loro pasto.
Quando arrivò alla spiaggia, aveva già concepito il suo piano. La nave di
Kas’im era posata sulla sabbia accanto alla sua, così ne razziò velocemente
le scorte, droni messaggeri inclusi. Trascinò tutto nella propria nave, poi
effettuò una rapida ispezione della Valcyn. Dopo aver verificato lo stato dei
sistemi, salì a bordo. Prima di decollare, programmò una rotta nel drone
messaggero con le coordinate scaricate dalla nave di Kas’im. Pochi minuti
dopo, la Valcyn lasciò la superficie del Pianeta Ignoto, salendo sempre più
in alto fino a superare l’atmosfera e a uscire nel vuoto siderale. Bane
immise le coordinate iperspaziali della sua destinazione, poi lanciò il drone
messaggero.
Quest’ultimo avrebbe raggiunto Ruusan in pochi giorni per offrire una
tregua a Kaan e consegnargli un dono che, sospettava, sarebbe stato troppo
sciocco e presuntuoso per riconoscere davvero.
La Confraternita non avrebbe mai sconfitto i Jedi. E finché fosse esistita,
i Sith sarebbero stati corrotti e contaminati, come una sorgente avvelenata.
Bane doveva distruggerli, tutti quanti. Per farlo avrebbe dovuto usare le
armi che Kaan non aveva adoperato contro di lui per orgoglio o cecità:
inganno e tradimento. Gli strumenti del Lato Oscuro.

“Non mi piace dividere così le nostre squadre”, sussurrò Pernicar alle


calcagna di Lord Hoth. Il generale percorse con lo sguardo la malconcia fila
di soldati che arrancavano nella foresta. In tutto meno di una ventina,
mezzo digiuni, per la gran parte feriti e male equipaggiati, somigliavano più
a rifugiati che non a guerrieri. Stavano portando dei rifornimenti dal punto
di lancio al campo, e lo stesso facevano altre due carovane su percorsi
diversi.
“È troppo pericoloso viaggiare in un unico gruppo”, insistette Hoth.
“Queste scorte ci servono. Dividersi in tre carovane ci dà maggiori
possibilità che almeno alcune riescano a tornare al campo”.
Hoth guardò il sentiero dietro di sé, attento a eventuali segni di
inseguimento. Le piogge erano cessate quasi una settimana prima, ma il
terreno era ancora molle. Il passaggio delle truppe lasciava profonde
impronte sul suolo argilloso.
“Persino un Gamorreano cieco riuscirebbe a trovarci, ora”, mugugnò.
Desiderò in silenzio che tornasse l’occultamento offerto dalle piogge che
così spesso aveva maledetto nei mesi passati, mentre sedeva rannicchiato e
tremante sotto ripari inadatti ricavati da foglie e rami caduti.
Sapeva però che non era degli inseguitori che doveva preoccuparsi.
Adoperò la Forza, cercando di percepire nemici nascosti che attendevano
tra gli alberi più avanti. Nulla. Naturalmente, se fossero stati Sith, avrebbero
proiettato delle immagini false per celarsi a...
“Un’imboscata!”, urlò uno dell’avanscoperta; poi i Sith furono loro
addosso. Venivano da tutte le parti: guerrieri che brandivano spade laser,
soldati armati di blaster e vibrolame. Il clangore del duracciaio e il sibilo
delle lame di energia che s’incrociavano si mescolarono alle urla dei vivi e
dei morenti: grida di rabbia e di trionfo, di agonia e disperazione.
Una raffica di colpi di blaster si rovesciò sulle sue file, abbattendo i
padawan troppo inesperti per respingerli. Una seconda raffica si sprigionò
sui combattenti in mischia. I raggi rimbalzavano all’impazzata, respinti sia
dai Sith che dai Jedi, causando pochi danni reali ma contribuendo al caos
generale. Lord Hoth si trovava nel vivo della lotta, falcidiando chiunque
fosse tanto stupido da capitare a tiro della sua spietata arma. Aveva le narici
colme del fetore dolciastro della carne bruciata, e intorno a lui si
ammassavano i cadaveri. E i nemici continuavano ad arrivare, accalcandosi
come mosche su una carogna per cercare di abbatterlo con la semplice forza
del numero.
Pernicar scomparve sotto il mare di nemici, e Hoth raddoppiò gli sforzi
per raggiungere l’amico. La furia lo rendeva inarrestabile, come le tempeste
devastanti del Maw. Quando lo raggiunse, Pernicar era già morto. Proprio
come ben presto sarebbero stati tutti gli altri.
Un’esplosione ai margini della battaglia attirò brevemente la sua
attenzione verso il cielo. Una zelante serva dei Sith balzò in avanti,
cercando di uccidere il possente generale in quell’attimo di distrazione per
conquistarsi una gloria al di là dei propri sogni più sfrenati. Hoth non volse
neppure lo sguardo, ma si limitò a proiettare la Forza imprigionandola in un
campo di stasi. Quella restò indifesa, paralizzata sul posto finché non fu
abbattuta dal colpo di una vibrolama brandita incautamente da uno dei suoi.
Il pensiero cosciente di Hoth registrò a malapena la sua morte. Era
concentrato piuttosto sui quattro swoop in picchiata che stavano
martellando le linee nemiche con le loro armi pesanti. L’agguato dei Sith si
disperse, incapace di affrontare un appoggio aereo pesante o restio a farlo.
Hoth dovette impiegare tutto il suo addestramento Jedi per non inseguirli e
colpirli alle spalle mentre fuggivano verso la salvezza offerta dal bosco.
Un attimo dopo, i swoop atterrarono tra il plauso della decina di Jedi
ancora in piedi. Lord Valenthyne Farfalla, con l’aspetto impeccabile di
sempre, smontò e s’inchinò profondamente dinanzi al suo generale.
“Mi hanno detto che trasportavi rifornimenti, mio signore”, disse,
rialzandosi con tutta la ricercata eleganza di un Senatore di Coruscant.
“Abbiamo pensato di venire a farti da scorta”.
“Ci sono altre due carovane”, sbottò Hoth. “Dovresti andare ad aiutarle,
anziché star qui a gongolare”.
Farfalla assunse un’espressione imbronciata e permalosa. “Le stanno già
scortando altri swoop”. Esitò, come se ponderasse se dire altro. Hoth gli
scoccò un’occhiata rabbiosa che praticamente gli urlava di restare in
silenzio.
Ciò nonostante, o forse proprio per quello, aggiunse: “Pensavo che
avresti accolto meglio i miei rinforzi”.
“Sei stato via per mesi!”, ringhiò Hoth. “Mentre tu eri in giro a fare il
diplomatico, io ero impegnato a combattere una guerra”.
“Ho mantenuto la promessa”, rispose Farfalla con freddezza. “Ho portato
trecento rinforzi Jedi. Saranno all’accampamento non appena avremo caccia
sufficienti a penetrare la barricata planetaria dei Sith”.
“Non una gran consolazione per chi ha dato la vita nel frattempo”, lo
rimbeccò Hoth.
Farfalla diede un’occhiata ai cadaveri sparsi a terra. Nel vedere Pernicar
tra loro, fece una smorfia di dolore. Si accovacciò accanto al corpo e
sussurrò alcune brevi parole, poi toccò la fronte del soldato caduto prima di
rialzarsi.
“Pernicar era anche mio amico”, disse, con voce più sommessa. “La sua
morte addolora me tanto quanto te, generale”.
“Ne dubito”, bofonchiò rabbioso Hoth. “Non eri neppure presente”.
“Non lasciarti consumare dal dolore”, lo ammonì Farfalla, di nuovo con
voce glaciale. “È un sentiero che conduce al Lato Oscuro”.
“Non osare parlarmi del Lato Oscuro!”, gridò Hoth, puntando con rabbia
l’indice verso il volto di Farfalla. “Io sono qui a combattere la Confraternita
di Kaan! Conosco i suoi modi meglio di chiunque altro! Ho visto il dolore e
la sofferenza che provoca. E so cosa servirà per sconfiggerlo. Ho bisogno di
soldati. Di scorte. Ho bisogno di Jedi disposti a combattere il nemico con lo
stesso odio che prova per noi”. Abbassò il dito e si girò. “Quello di cui non
ho bisogno è che un tronfio damerino mi faccia la morale sui pericoli del
Lato Oscuro”.
“La morte di Pernicar non è stata colpa tua”, disse Farfalla, avanzando
per posare una mano sulla spalla di Hoth in segno di conforto. “Liberati dai
sensi di colpa. Non c’è emozione; c’è pace”.
Hoth si girò e gli scansò con violenza la mano. “Stammi lontano! Prendi i
tuoi maledetti rinforzi e tornatevene su Coruscant come i codardi damerini
che siete! Non abbiamo bisogno di gente come voi!”
Stavolta fu Farfalla a girarsi, tornando a passi rabbiosi verso lo swoop
mentre il resto del gruppo osservava in silenzio, sconvolto. Saltò in sella e
accese i motori.
“Forse gli altri Jedi avevano ragione sul tuo conto!”, disse, gridando per
sovrastare il ruggito del veicolo. “Questa guerra ti ha consumato, ti ha
portato alla follia. E questa follia ti condurrà al Lato Oscuro!”
Hoth non si degnò nemmeno di guardare gli swoop di Farfalla e degli
altri sfrecciare in lontananza. Si accovacciò invece accanto al corpo del suo
più vecchio amico e pianse per la sua fine brutale e insensata.

Quando finalmente arrivò Githany, Kaan dovette trattenersi per non


aggredirla. Lo aveva già sorpreso in un momento di debolezza, confuso e
insicuro. Avrebbe dovuto fare attenzione a come la trattava, per evitare di
perdere la sua lealtà. E ne aveva bisogno più che mai.
Le parlò quindi in tono disinvolto, con appena un’ombra di fredda
disapprovazione sotto la superficie. “Ti ho mandato a chiamare quasi tre ore
fa”.
Lei gli scoccò un sorriso crudele. “Era in corso una sortita contro una
carovana di scorte Jedi. Ho deciso di andare con loro”.
“Non ho ancora avuto i rapporti. Quali sono i risultati?”
“È stato magnifico, Lord Kaan!”, rispose ridendo. “Altri tre Maestri, sei
Cavalieri Jedi e una manciata di padawan... tutti morti!”
Kaan annuì in segno di approvazione. Su Ruusan, le sorti della battaglia
erano in continuo mutamento, e con la fine della stagione delle piogge il
vantaggio era di nuovo passato in mano ai Sith. Naturalmente, sapeva che
non era solo il fattore meteorologico ad aver risollevato il morale delle
truppe, portando tutti loro a una serie di vittorie eclatanti.
C’era una spaccatura nell’Esercito della Luce. Su Ruusan erano sempre
meno; Valenthyne Farfalla rimaneva in orbita intorno al pianeta coi rinforzi,
ma le spie di Kaan riferivano di una divergenza tra quest’ultimo e Hoth che
impediva ai nuovi arrivati di unirsi alla mischia. Senza più il Maestro
Pernicar a smussare la loro netta ostilità, l’antipatia reciproca fra i due
Maestri Jedi stava compromettendo lo sforzo bellico.
A Kaan non poté sfuggire l’ironia della situazione. Per una volta erano i
Jedi a essere divisi da rivalità e faide, mentre la Confraternita dell’Oscurità
restava unita e compatta. Una parte di sé trovava inquietante quello strano
ribaltamento. Nelle lunghe notti, quando non riusciva a dormire, spesso
camminava avanti e indietro nella sua tenda ad arrovellarsi su
quell’apparente paradosso.
Che gli eserciti su Ruusan avessero valicato il confine tra luce e oscurità?
Che l’interminabile conflitto tra l’Esercito della Luce e la Confraternita
dell’Oscurità li avesse attratti entrambi in una zona vuota che intrecciava in
modo indissolubile le due rispettive ideologie? Che ormai tutti
appartenessero al Crepuscolo, incastrati fra i due estremi senza appartenere
a nessuno?
Tuttavia, l’arrivo del giorno scacciava sempre tali pensieri con la notizia
dell’ennesima vittoria dei Sith sul campo. E solo uno sciocco poteva
dubitare dei propri metodi quando vinceva. Ed era per questo che non
sapeva bene come interpretare il messaggio ricevuto di recente da Darth
Bane.
“Kas’im è morto”, disse a Githany arrivando dritto al punto.
“Morto?” La reazione scioccata di lei rafforzò la decisione di Kaan di
non svelare la notizia al resto della Confraternita. Era stato ben attento a
tener nascosto lo scopo della partenza del Maestro finché non avesse saputo
l’esito del confronto. “Sono stati i Jedi?”, domandò lei.
“No”, ammise, scegliendo con cura le parole. “L’ho inviato a contrattare
con Lord Bane. Kas’im credeva di poterlo convincere a unirsi a noi; e
invece, lui lo ha ucciso”.
Githany socchiuse gli occhi. “Ti avevo avvertito”.
Kaan annuì. “Tu lo conosci meglio di chiunque altro. Lo capisci. È per
questo che adesso ho bisogno di te. Bane mi ha inviato un messaggio”.
Tese un braccio per accendere il droide messaggero sul tavolo. Un
minuscolo ologramma del massiccio Signore Oscuro si materializzò davanti
a loro. Benché con quelle dimensioni fosse difficile distinguere i dettagli
dell’espressione, era evidentemente turbato.
“Kas’im è morto. L’ho... l’ho ucciso. Ma ho riflettuto su quel che ha detto
prima... di morire”.
Githany rivolse un’occhiata curiosa a Kaan, che fece spallucce e inclinò
la testa verso l’ologramma che continuava a parlare.
“Sono venuto qui in cerca di qualcosa. Non... non sono neppure certo di
cosa fosse, ma non l’ho trovato. Proprio come non l’avevo trovato nella
Valle dei Signori Oscuri, su Korriban. E adesso che Kas’im è morto io...
non so cosa fare...”
L’ologramma chinò il capo, sperduto, confuso, solo. Kaan vide con
chiarezza il disprezzo sul volto di Githany mentre osservava quello
spettacolo. La figura parve finalmente ricomporsi e alzò di nuovo lo
sguardo.
“Non voglio che la morte di Kas’im sia vana”, disse Bane con enfasi.
“Avrei dovuto ascoltarlo subito. Voglio... voglio unirmi alla Confraternita”.
Kaan allungò di nuovo il braccio e spense il drone. “Ebbene?”, fece a
Githany. “Dice sul serio, oppure è soltanto una trappola?”
Lei si morse il labbro. “Credo sia sincero”, disse infine. “Nonostante il
suo potere, Bane è ancora debole. Non riesce ad affidarsi del tutto al Lato
Oscuro; si sente ancora in colpa quando usa la Forza per uccidere”.
“Qordis ha accennato a qualcosa del genere”, disse Kaan. “Mi ha detto
che in Accademia Bane ha avuto l’occasione di uccidere un suo acerrimo
rivale nell’arena dei duelli, ma che si è ritirato all’ultimo momento”.
Githany annuì. “Sirak. Non ne ha semplicemente avuto la forza. E
Kas’im era il suo mentore. Se Bane è stato costretto a ucciderlo, dev’essere
stato ancora più difficile per lui”.
“Dunque dovrei inviare un emissario a incontrarlo?”
Lei scosse la testa. “Non ne vale la pena. Adesso è vulnerabile, ma
quando gli tornerà la sicurezza ridiventerà testardo come sempre. Seminerà
il dissenso tra i ranghi. E poi”, aggiunse, “non abbiamo più bisogno di lui.
Stiamo vincendo”.
“Allora come proponi di occuparcene? Con gli assassini?”
Githany rise. “Se è riuscito a uccidere Kas’im, dubito che chiunque altro
abbia una possibilità contro di lui. A parte me”.
“Te?”
Sorrise. “Io gli piaccio. Non direi che si fidi di me, non esattamente... ma
vorrebbe. Lasciami andare da lui”.
“E una volta trovato, cosa farai?”
“Gli dirò che mi manca. Gli spiegherò che abbiamo preso in
considerazione la sua offerta, e che vogliamo si unisca alla Confraternita.
Poi, quando avrà abbassato la guardia, lo ucciderò”.
Kaan inarcò le sopracciglia. “Lo fai sembrare così semplice”.
“A differenza di Kas’im, io so come gestirlo”, gli assicurò. “Il tradimento
è un’arma ben più efficace della spada laser”.
Uscì dalla tenda qualche istante più tardi, portando con sé il drone
messaggero e le coordinate trasmesse da Bane per l’incontro. Kaan
confidava pienamente che avrebbe portato a termine il lavoro. E non
trovava motivo di condividere con lei il pacchetto arrivato nella piccola
stiva del drone.
Bane glielo aveva inviato come offerta di pace, per espiare la morte di
Kas’im. L’aspetto non diceva molto: un testo scritto su vari fogli di
filmplast in grafia affrettata e illeggibile, come se fosse stato annotato
ascoltando qualcuno che parlava. Eppure in quelle pagine era contenuta la
descrizione dettagliata di una fra le più temibili creazioni degli antichi Sith:
la bomba psichica.
Rituale che richiedeva il concerto delle volontà di molti potenti Signori
dei Sith, la bomba psichica scatenava la pura energia distruttiva del Lato
Oscuro. C’erano naturalmente dei rischi. Tutto quel potere era altamente
instabile e quindi difficile da controllare persino per coloro che avevano la
forza di evocarlo. Era possibile che l’esplosione annientasse l’intera
Confraternita assieme all’Esercito della Luce di Hoth. Il vuoto al centro
poteva risucchiare gli spiriti disincarnati sia dei Jedi che dei Sith,
intrappolandoli gli uni con gli altri per l’eternità, in uno stato di equilibrio
immutabile, nel cuore di una sfera congelata di energia pura.
Kaan dubitava che gli sarebbe davvero servita un’arma simile per
sconfiggere i Jedi su Ruusan: stava vincendo la guerra, dopotutto. Eppure,
rimettendosi a camminare avanti e indietro per un’altra lunga notte insonne,
non poté fare a meno di studiare ripetutamente il rituale della bomba
psichica.
CAPITOLO 25

Da lontano, Ambria era molto bello. Arancione con dei magnifici anelli
violacei, era probabilmente il più grande pianeta abitabile del sistema di
Stenness. Eppure, chiunque vi atterrasse si accorgeva ben presto che quella
bellezza svaniva non appena entrati nell’atmosfera.
Molti secoli prima, il fallimento dei rituali da parte di una potente strega
Sith aveva involontariamente scatenato un’ondata catastrofica di energia del
Lato Oscuro su tutta la superficie. La strega era stata distrutta assieme a
quasi tutte le forme di vita su Ambria. Era sopravvissuto poco più della
brulla roccia, e persino i nuovi tratti di terreno fertile erano pochi e molto
distanti tra loro. Su Ambria non c’erano vere città; sulla superficie
risiedevano solo alcuni audaci coloni, a tanta distanza gli uni dagli altri che
praticamente ciascuno viveva da solo.
Un tempo i Jedi avevano tentato di mondare Ambria da quell’orrenda
contaminazione, ma il potere del Lato Oscuro aveva segnato per sempre il
pianeta. Incapaci di purificarlo, erano riusciti soltanto a concentrare e a
confinare il Lato Oscuro in un unico punto: il Lago Natth. Gli abitanti tanto
coraggiosi da sopportare gli ambienti desolati di Ambria giravano ben alla
larga dal lago. Naturalmente, Bane si era accampato proprio sulla riva.
Ambria era situato ai margini della Regione di Espansione, ad appena un
breve salto iperspaziale da Ruusan. Ovunque c’erano le prove di varie
scaramucce combattute tra Repubblica e Sith nella più recente campagna. Il
paesaggio desolato era cosparso di armi e armature cadute; veicoli arsi e
swoop danneggiati erano visibili da chilometri di distanza sulle fredde
pianure inospitali. Tranne per qualche colono locale che ne recuperava i
pezzi, nessuno si era preso la briga di rimuovere i resti.
Il pianeta arancione era un mondo insignificante: aveva risorse e abitanti
troppo scarsi perché la flotta della Repubblica che controllava il settore al
momento se ne preoccupasse. Bane aveva sentito dire che un guaritore
abbastanza abile, un uomo di nome Caleb, fosse giunto sul pianeta una
volta terminata la lotta. Uno stolto idealista, deciso a risanare le ferite della
guerra; non meritava neppure il suo disprezzo. Forse ormai persino
quell’uomo aveva abbandonato il pianeta, una volta visto quanto poco
restasse di recuperabile. Si trattava a tutti gli effetti di un mondo
dimenticato.
Era il luogo perfetto dove incontrare l’emissario di Kaan. Una flotta Sith
sarebbe stata rilevata subito dalle navi della Repubblica che pattugliavano il
sistema, ma una navetta con un pilota abile avrebbe potuto infiltrarsi senza
problemi. Bane non aveva intenzione di organizzare un incontro in un luogo
dove Kaan potesse inviare un’armata per annientarlo.
Attese con pazienza nel suo accampamento l’arrivo dell’emissario.
Talvolta guardava il cielo o l’orizzonte, ma non temeva che qualcuno
potesse coglierlo di sorpresa. Aveva visto una nave atterrare a qualche
chilometro di distanza. Se l’occupante fosse venuto da lui su un veicolo
terrestre, come il cingolato ai bordi del suo accampamento, ne avrebbe
sentito il ronzio del motore o avvertito le inconfondibili vibrazioni dei
cingoli che giravano sul terreno irregolare.
Invece, non sentì che le lievi acque scure del Lago Natth che lambivano
la spiaggia, a meno di cinque metri da dove si trovava. E in tutto quel tempo
la sua mente continuò ad arrovellarsi sull’unica domanda per cui non avesse
ancora una risposta.
Sempre due devono essere: né più, né meno. Uno incarna il potere,
l’altro lo brama. Una volta liberata la galassia dalla Confraternita, dove
avrebbe trovato un apprendista degno?
Il ronzio dei motori di un Buzzard lo distolse dai propri pensieri. Si alzò
in piedi mentre la nave scendeva dal cielo e girava intorno al suo
accampamento prima di atterrare a breve distanza. Quando la rampa di
atterraggio si abbassò e vide chi ne scendeva, non poté fare a meno di
sorridere.
“Githany”, disse, alzandosi per salutarla quando fu abbastanza vicina.
“Speravo proprio che Lord Kaan mandasse te”.
“Non mi ha mandato lui”, rispose. “Ho chiesto io di venire”.
Il cuore di Bane ebbe un sobbalzo. Era lieto di vederla: il suo arrivo
risvegliava in lui un desiderio di cui aveva quasi dimenticato l’esistenza.
Ma era anche inquieto. Se qualcuno poteva smascherare il suo tranello, era
proprio lei.
“Hai visto il messaggio?”, domandò, studiandola attentamente per
valutarne la reazione.
“Credevo fossi cambiato, Bane. Rimorsi e commiserazione sono da
deboli”.
Sollevato, chinò il capo per continuare la farsa. “Hai ragione”, borbottò.
Lei gli si avvicinò. “Con me non attacca, Bane”, gli sussurrò, e i muscoli
di lui s’irrigidirono in attesa di ciò che avrebbe fatto dopo. “Penso che tu sia
qui per un altro motivo”.
Il Sith rimase dov’era mentre lei gli si appoggiava lentamente, pronto a
reagire al primo accenno di minaccia o di pericolo. Abbassò la guardia solo
quando gli sfiorò piano le labbra con le sue.
D’istinto alzò le mani e le afferrò le spalle tirandola a sé, premendo forte
a sé il suo corpo e le sue labbra mentre la baciava. Githany gli avvolse le
braccia intorno alle spalle e al collo robusti, ricambiando la sua passione.
Il calore di lei li avvolse entrambi. Il bacio parve durare in eterno; il suo
profumo si diffuse sui corpi intrecciati finché non gli sembrò di esservi
immerso. Quando alla fine Githany si staccò, Bane vide una feroce
bramosia nei suoi occhi mentre ancora assaporava il dolce fuoco delle sue
labbra. Sentiva anche il sapore di qualcos’altro.
Veleno!
Confuso da quel bacio, impiegò un attimo a rendersi conto dell’accaduto.
Non importava che Githany gli credesse o meno; aveva chiesto a Kaan di
mandarla lì per ucciderlo. Per un solo attimo fu preoccupato... finché non
riconobbe il lieve sapore di trirame del veleno di worrt delle rocce.
Rise, boccheggiando leggermente. “Magnifico”, mormorò. Segretezza.
Astuzia. Tradimento. Forse era corrotta dall’influenza della Confraternita,
ma Githany capiva comunque cosa rendesse forte il Lato Oscuro. Possibile
che sarebbe diventata lei la sua unica vera apprendista, nonostante non
stesse dalla sua parte?
Al suo complimento, lei sorrise schiva. “Attraverso la passione,
acquistiamo forza”.
Bane sentiva il veleno entrargli in circolo. Gli effetti erano sottili. Se la
sua potenza sempre maggiore nel Lato Oscuro non gli avesse acutizzato i
sensi all’estremo, forse non si sarebbe neppure accorto della sua presenza
per ore. Eppure, ancora una volta Githany lo aveva sottovalutato.
Il veleno di worrt delle rocce era tanto potente da uccidere un bantha, ma
avrebbe potuto scegliere tossine molto più rare e letali. Il Lato Oscuro
scorreva in lui denso quanto il sangue che aveva nelle vene. Ormai era
Darth Bane, un vero Signore Oscuro. Non aveva da temere per il suo
veleno.
Il fatto che fosse convinta che non lo avrebbe avvertito sulle sue labbra,
che pensasse che avrebbe potuto arrecargli danni, significava che doveva
aver creduto alla sua recita. Sospettava che si fosse nuovamente allontanato
dal Lato Oscuro; lo riteneva debole. Ne fu lieto: rendeva più perdonabile la
sua decisione di stare dalla parte di Kaan. Forse, dopotutto, c’era ancora
qualche speranza per lei. Ma doveva esserne certo.
“Scusami se ti ho abbandonato”, le disse con dolcezza. “Ero accecato dai
sogni di una gloria ormai trascorsa. Naga Sadow, Exar Kun, Darth Revan...
bramavo il potere dei grandi Signori dei Sith del passato”.
“Tutti quanti bramiamo il potere”, rispose. “È la natura del Lato Oscuro.
Ma la Confraternita è potente. Kaan è in procinto di riuscire là dove tutti
hanno fallito prima di lui. Bane, su Ruusan stiamo vincendo”.
Bane scosse la testa, deluso. Come faceva a essere ancora così cieca?
“Forse Kaan sta vincendo su Ruusan, ma i suoi seguaci perdono in tutti gli
altri luoghi. Senza capi, il suo grande esercito di Sith si è sgretolato. La
Repubblica li ha respinti, impadronendosi di quasi tutti i mondi da noi
conquistati. Entro pochi mesi, la ribellione verrà schiacciata”.
“Niente di tutto ciò avrà importanza, se riusciremo ad annientare i Jedi”,
spiegò lei con impeto, gli occhi che le ardevano. “La guerra ha avuto gravi
ripercussioni sulla Repubblica. Quando i Jedi non ci saranno più, potremo
radunare con facilità le nostre truppe e ribaltare le sorti. Non dobbiamo far
altro che annientarli e la vittoria finale sarà nostra! Dobbiamo solo vincere
su Ruusan!”
“Non ci sono solo i Jedi di Ruusan”, rispose lui.
“Ce ne sono altri, ma sono sparpagliati per tutta la galassia in gruppi
poco numerosi. Distruggendo l’Esercito della Luce, potremo stanarli a
piacimento”.
“Davvero credi che Kaan vincerà? È già successo che ottenesse la vittoria
per poi non mantenere le sue promesse”.
“Non mi sembri molto votato alla causa”, osservò con una punta di
sospetto, “per qualcuno che afferma di volersi unire alla Confraternita”.
Bane protese un braccio di scatto e l’afferrò alla vita, tirandola a sé per
baciarla di nuovo con foga. Lei si sorprese, poi chiuse gli occhi e si
abbandonò al piacere del momento. Stavolta fu lei ad allontanarsi con un
lieve sospiro.
“Avevi ragione, sono tornato per un altro motivo”, disse, continuando a
tenerla stretta. La seconda volta, il subdolo veleno sulle sue labbra aveva lo
stesso dolce sapore.
“La Confraternita non può fallire”, promise lei. “I Jedi sono in fuga, e si
nascondono impauriti nelle foreste”.
La lasciò andare e indietreggiò, dandole le spalle. Voleva credere con
tutte le sue forze che fosse in grado di diventare sua apprendista una volta
distrutti Kaan e la Confraternita, ma continuava a non esserne sicuro. Se
credeva davvero in ciò che la Confraternita rappresentava, non c’erano
speranze.
“Proprio non riesco ad accettare ciò che professa Lord Kaan”, confessò.
“Sostiene che tutti siamo uguali, ma se è così, nessuno può essere forte”.
Lei gli si avvicinò da dietro e gli posò le mani sulle spalle, premendo
dolcemente finché non si voltò di nuovo. Githany aveva un’espressione
divertita.
“Non credere a tutto ciò che dice Kaan”, lo avvertì, con voce carica di
ambizione. Uno incarna il potere, l’altro lo brama. “Una volta distrutti i
Jedi, molti suoi seguaci scopriranno che alcuni sono più uguali”.
Bane sollevò Githany fra le sue possenti braccia con un ruggito di gioia,
facendola girare e dandole un altro lungo bacio appassionato. Era quel che
voleva sentire!
Quando la rimise a terra, lei indietreggiò un po’ barcollando, malferma
sulle gambe dopo quell’inattesa reazione. “Immagino che accetti”, disse,
con un sorriso malizioso sulle labbra avvelenate. “Leva le tende. Io ti
precederò per far sapere a Kaan che stai arrivando”.
“Non vedo l’ora di vedere che faccia farà quando gli parlerai del nostro
incontro”, rispose, sempre fingendo di non essersi accorto del veleno che
ormai gli galoppava nelle vene.
“Nemmeno io”, rispose, senza lasciar trapelare nulla dalla voce.
“Nemmeno io”.
Mentre la superficie di Ambria si allontanava sotto di lei e i magnifici
anelli apparivano, Githany non riuscì a non provare una fitta di rimorso. La
passione che aveva risvegliato in Bane gli aveva dato una forza improvvisa
e stupefacente: l’aveva sentita in ogni suo bacio. Era chiaro però che a Bane
interessava lei, non unirsi alla Confraternita dell’Oscurità.
Immise le coordinate per tornare su Ruusan e si appoggiò allo schienale.
La testa le girava per il veleno sulle labbra. Non quello di worrt delle rocce,
che aveva usato soltanto per indurgli un falso senso di sicurezza. Ma il
synox che vi aveva mescolato, una tossina incolore, inodore e priva di
sapore usata dai famigerati assassini GenoHaradan: le faceva effetto
nonostante l’antidoto che aveva assunto. Non aveva dubbi che presto Bane
si sarebbe sentito molto, molto peggio di lei. Un solo bacio sarebbe bastato
a ucciderlo, e gliene aveva dati tre.
Si rese conto che le sarebbe mancato. Ma rappresentava una minaccia
verso tutto ciò per cui Lord Kaan stava impegnandosi. Doveva stare dalla
parte di uno dei due, e così naturalmente aveva scelto quello che aveva ai
propri ordini un intero esercito di Sith.
Dopotutto, era la natura del Lato Oscuro.

Bane restò a guardare il Buzzard finché non scomparve nel cielo prima di
mettersi a disfare l’accampamento. Doveva agire con cautela. Githany
avrebbe riferito a Kaan di aver tentato di avvelenarlo. Una volta che fosse
comparso ancora vivo, le cose avrebbero potuto farsi... complicate.
Poteva semplicemente restare lontano e lasciare che gli eventi facessero
il loro corso. I Jedi su Ruusan si sarebbero riuniti, ribaltando ancora una
volta le sorti della battaglia. Era scontato, e Bane vi faceva affidamento.
Kaan, disperato, si sarebbe allora rivolto al dono inviatogli da Bane.
Avrebbe scatenato la bomba psichica ignaro della sua vera natura,
distruggendo chiunque su Ruusan fosse in grado di usare la Forza, Sith o
Jedi.
Era lo scenario più probabile. Ma Bane era andato troppo avanti per
lasciare al caso la fine della Confraternita. Stavolta, quando l’esercito di
Kaan avesse vacillato, nel suo accampamento c’erano persone che come
Githany avrebbero potuto rivoltarsi contro di lui. Sarebbero potuti fuggire
da Ruusan, disperdendosi dinanzi ai Jedi. E così Bane avrebbe dovuto
occuparsi separatamente di ciascuno di loro prima di diventare il capo
incontrastato dei Sith.
Meglio essere presente, per guidare gli eventi verso il risultato migliore.
Ciò significava tuttavia dover inventare una storia plausibile, per spiegare il
desiderio di unirsi alla Confraternita anche dopo un tentativo fallito di
assassinio.
Rifletté sulla faccenda quasi un’ora, prendendo in considerazione e
accantonando varie idee. Alla fine, c’era un solo motivo per cui chiunque
avrebbe creduto al suo ritorno. Doveva far pensare a tutti di voler rovesciare
Kaan per diventare il nuovo capo della Confraternita.
Bane sorrise per la subdola bellezza di quel piano. Naturalmente, Kaan
avrebbe nutrito dei sospetti. Ma tutti i suoi sforzi e la sua attenzione si
sarebbero focalizzati sul mantenere la propria posizione. Non avrebbe
capito il suo vero scopo: sterminare totalmente la Confraternita, e
distruggere fino all’ultimo Sith su Ruusan.
C’era inoltre il vantaggio di avere un’altra occasione per convincere
Githany a unirsi a lui. Una volta compreso cos’era diventato davvero, e il
modo in cui aveva manipolato Kaan e gli altri cosiddetti Signori Oscuri,
forse avrebbe effettivamente accettato l’offerta di diventare sua apprendista.
Se non altro, avrebbe potuto vedere la sua faccia una volta accortasi che il
veleno non era riuscito a...
“Urgh!” Bane grugnì e si piegò in due, assalito da un tremendo dolore
allo stomaco. Cercò di raddrizzarsi, ma all’improvviso il suo corpo fu
squassato da un lungo accesso di tosse. Sollevò una mano per coprirsi la
bocca, e quando la abbassò la vide coperta di chiazze spumose di sangue.
Impossibile, pensò mentre un altro crampo all’addome lo faceva cadere
in ginocchio. Revan gli aveva mostrato come usare la Forza per scongiurare
veleni e malattie. Nessuna semplice tossina avrebbe dovuto essere in grado
di attaccare qualcuno tanto potente nel Lato Oscuro come un Signore dei
Sith.
Un altro accesso di tosse lo paralizzò finché non cessò. Portò una mano
in alto per asciugarsi il sudore che gli colava sul viso e si sentì qualcosa di
caldo e viscoso sulla guancia. Dalla coda dell’occhio gli scendeva una
minuscola scia di lacrime cremisi.
Si rialzò tremante, guardando dentro di sé. Il veleno c’era ancora. Si era
diffuso in tutto il corpo, corrompendo il suo organismo e danneggiandone le
parti vitali. Aveva un’emorragia interna, che sgorgava da occhi e narici.
Githany! Se non avesse provato una sofferenza così atroce, avrebbe riso.
Era stato così sicuro di sé, così arrogante. Talmente convinto che lo stesse
sottovalutando. E invece era stato lui a sottovalutare lei. Uno sbaglio che
giurò di non rifare... se fosse sopravvissuto.
Aveva letto abbastanza sul synox da riconoscerne i sintomi. Se lo avesse
rilevato subito sarebbe stato in grado di neutralizzarlo, proprio come aveva
fatto col veleno di worrt che ne aveva celato la presenza. Ma si trattava del
veleno più subdolo di tutti; quella tossina insidiosa lo aveva indebolito
diffondendosi indisturbata in tutto il corpo.
Fece appello a tutte le sue risorse e tentò di epurare il veleno, bruciandolo
col fuoco gelido del Lato Oscuro. Era troppo forte... o meglio lui era troppo
debole. Ormai il danno era fatto. Il synox lo aveva debilitato, lasciando solo
un’ombra del potere di cui disponeva appena un’ora addietro.
Avrebbe potuto attenuarne gli effetti, rallentarne il progresso e tenere a
bada temporaneamente i sintomi più letali. Ma non poteva curarsi. Non in
quel momento, così indebolito.
Nel Lago Natth c’era potere, ma non avrebbe potuto attingervi. Gli
antichi Jedi si erano curati d’isolare il Lato Oscuro nella sicurezza dei suoi
abissi. Le acque nere e stagnanti erano l’unica prova del potere che giaceva
intrappolato per sempre sotto la superficie.
Alla disperata ricerca di un altro modo per sopravvivere, raggiunse
barcollando il cingolato sul limitare dell’accampamento. Ignorando le
proteste delle membra vacillanti, si sistemò a fatica al volante e iniziò il
viaggio. Gli serviva un guaritore. Se quello di nome Caleb si trovava ancora
sul pianeta, Bane doveva trovarlo. Era la sua unica occasione.
Si diresse al campo di battaglia più vicino, un’arida pianura a qualche
chilometro di distanza dove ancora giacevano i resti di coloro che erano
morti combattendo. Il rombo profondo dei cingoli lo esacerbava, e tenne i
denti serrati per via del dolore atroce. Mentre guidava il mondo divenne per
lui un incubo a occhi aperti, fatto di ombre e buio tinti di rosso. Quasi non
sapeva neppure dove andasse, e lasciava che la Forza lo guidasse mentre
cercava anche di usarla per impedire al proprio corpo di soccombere agli
effetti del veleno di Githany.
La paura della morte lo assalì, interrompendo i suoi pensieri. La sua
volontà iniziò a vacillare; sarebbe stato così facile arrendersi allora e
lasciare che tutto avesse fine, lasciare semplicemente che ogni cosa
scivolasse via ed essere in pace.
Scosse la testa con un ringhio e riafferrò i pensieri dall’orlo del
precipizio, ripetendo di continuo la prima frase del mantra dei Sith: La pace
è una menzogna. Tornò al suo addestramento di soldato, prendendo la paura
e trasformandola in rabbia per darsi forza.
Sono Darth Bane, Signore Oscuro dei Sith, e sopravvivrò. A ogni costo.
Molto più avanti, proprio ai margini del suo campo visivo sempre più
ridotto, vide un altro veicolo avanzare lentamente dall’altro capo del campo
di battaglia. Coloni. Recuperatori di rottami che frugavano tra i resti.
Puntò il muso del cingolato in quella direzione, gemendo per lo sforzo
che richiedeva il semplice girare il volante. Emanando la Forza da sé, cercò
di toccare gli spiriti dei caduti in quel luogo. Schiere di esseri erano morte lì
solo pochi mesi addietro; tentò di assorbire ciò che restava della loro fine
orribile, nella speranza che l’agonia di quegli ultimi momenti sorreggesse il
suo potere sempre più tenue. Ma non era abbastanza: le loro sofferenze
erano troppo lontane e l’eco delle urla troppo flebile.
Sollevando lo sguardo si accorse che il suo veicolo aveva cominciato a
sbandare, inclinandosi troppo su un lato mentre la sua presa sul volante si
allentava. Si sentiva le braccia intorpidite; erano diventate quasi del tutto
insensibili. Il cuore sforzava sempre più a ogni battito.
Il cingolo anteriore urtò una grossa roccia e il trattore si ribaltò
all’improvviso, gettando Bane sulla terra dura e la pietra frastagliata. Cercò
di alzare di nuovo lo sguardo per ritrovare le persone viste in lontananza,
ma lo sforzo per sollevare la testa fu troppo. Ormai allo stremo, il mondo si
fece nero.

Riprese conoscenza al pesante rumore di cingoli di un veicolo. L’altro


cingolato era là. Dubitava che lo avrebbero anche solo visto: era caduto
dietro il veicolo ribaltato, a cui si erano avvicinati dalla parte opposta. E
pure in tal caso, ormai non potevano fare più nulla. C’era però qualcosa che
poteva fare per salvarsi.
I motori si spensero e udì delle voci: bambini. Tre ragazzini saltarono giù
dal retro del cingolato e iniziarono a esplorare con zelo il rottame.
“Mikki!”, fece la voce del padre che chiamava uno di loro. “Non
allontanarti troppo”.
“Guardate!”, gridò uno dei bambini. “Ho trovato una cosa!”
I deboli devono servire i forti. Questa è la via del Lato Oscuro.
“Wow! è vera? La posso toccare?”
“Fammi vedere, Mikki! Voglio vedere!”
“Calma, ragazzi”, disse il padre stancamente. “Diamo un’occhiata”.
Bane ascoltò gli stivali che scricchiolavano sul pietrisco al suo
avvicinarsi. Io sono forte, loro deboli. Non sono nulla.
“È una spada laser, padre. Ma ha un manico strano. Vedi? C’è un
uncino”.
Percepì la paura improvvisa che serrò il petto dell’uomo come una
morsa.
Sopravvivi. A ogni costo.
“Buttala, Mikki! Subito!”
Troppo tardi.
La spada laser prese vita nella mano del ragazzo, roteando nell’aria e
uccidendolo sul colpo. Il padre urlò; i fratelli tentarono la fuga. La lama
balzò verso il più grande, abbattendolo da dietro.
Attingendo all’orrore di quelle morti, Bane si alzò in piedi come una
figura vomitata dalle viscere del pianeta.
“Nooo!” Il padre ululò di dolore, stringendosi disperato al petto il figlio
minore. “Risparmiatelo, mio signore!”, implorò con le lacrime agli occhi.
“È il più giovane, l’ultimo che mi resta”.
Chi è tanto debole da chiedere pietà non ne è degno.
Ancora troppo spossato anche solo per alzare le mani, Bane adoperò di
nuovo la Forza, sollevando la spada laser e tenendola sospesa sulle sue
vittime indifese. Aspettò, lasciando che il loro orrore crescesse, poi affondò
la lama ardente nel cuore del bambino.
Il padre si strinse al petto il cadavere, le urla di dolore che
riecheggiavano per tutto il campo di battaglia deserto. “Perché? Perché li
avete uccisi?”
Bane si nutrì del suo dolore, divorandolo avidamente, sentendo il Lato
Oscuro farsi più potente in lui. I sintomi dell’avvelenamento si attenuarono
abbastanza da permettergli di alzare un braccio senza tremare. La spada
laser gli balzò in mano.
Il padre si rannicchiò dinanzi a lui. “Perché mi avete fatto vedere? Perché
mi...”
Un rapido fendente della lama lo interruppe, consegnandolo allo stesso
tragico destino dei suoi figli.
CAPITOLO 26

Lord Hoth si rigirava nel letto, incapace di dormire. Lo scricchiolio del


giaciglio si unì allo stridulo ronzio degli sciami di parassiti che seguivano il
suo esercito ovunque si accampasse. Al rumore si abbinava poi il canto
vibrante dei piccoli uccelli notturni mentre si avventavano sugli insetti che
si cibavano dei soldati. Era una cacofonia acuta e insopportabile, al limite
dell’esasperazione.
Non era però solo il rumore a tenerlo sveglio, o il caldo inesorabile che
gli velava la fronte di sudore anche di notte. Non erano le strategie militari e
i piani di battaglia che gli ronzavano di continuo in testa. Non era nessuna
di queste cose in particolare, bensì la loro somma e il fatto che non
s’intravedesse la fine di quella guerra maledetta. Piccole seccature, che
erano state tollerabili durante i primi mesi su Ruusan, si erano ingigantite
fino a diventare tormenti inenarrabili a causa di tutta quella frustrazione e
futilità.
Scostò il sottile lenzuolo con un ruggito di rabbia, gettandolo dall’altra
parte della tenda. Mise i piedi a terra e si alzò a sedere sul bordo del letto,
sporgendosi coi gomiti sulle ginocchia e la testa stretta fra le mani.
Erano due anni standard che conduceva la sua campagna contro la
Confraternita dell’Oscurità su Ruusan. All’inizio, al suo fianco si erano
radunati molti Jedi; e molti, troppi di loro erano morti. Si erano sacrificati al
comando di Lord Hoth, offrendo le proprie vite per il bene superiore.
Eppure niente era ancora deciso, dopo ben sei grandi battaglie, senza
contare schermaglie, sortite, scaramucce e scontri secondari. Aveva le mani
macchiate dal sangue di migliaia di esseri viventi, ma non si era affatto
avvicinato al suo obiettivo.
La frustrazione iniziava a cedere il passo alla disperazione; il morale era
ai minimi storici. Molti soldati borbottavano che Farfalla avesse ragione: il
generale aveva lasciato che Ruusan diventasse una folle ossessione e li
stava conducendo alla rovina.
Hoth non aveva neppure più la forza di discutere con loro. A volte gli
sembrava di aver dimenticato perfino i motivi per cui si era recato lì. Forse
un tempo c’era stata qualche virtù in quella guerra, ma si trattava di una
nobiltà ormai scomparsa. Ormai lottava per vendicarsi in nome dei Jedi
caduti. Combatteva per l’odio del Lato Oscuro e di ciò che rappresentava.
Si batteva per orgoglio e perché rifiutava di ammettere la sconfitta.
Soprattutto, però, lo faceva semplicemente perché non sapeva più far altro.
Eppure quale differenza avrebbe fatto, in quel momento, se si fosse
arreso? Sarebbe cambiato qualcosa se avesse ordinato la ritirata delle truppe
e l’evacuazione del pianeta sulle navi di Farfalla? Se si fosse fatto da parte e
avesse lasciato a qualcun altro il fardello di combattere i Sith, su Ruusan o
in qualunque altro luogo della galassia, sarebbe finalmente stato in pace
oppure non avrebbe fatto altro che tradire tutti coloro che avevano creduto
in lui?
Sciogliere l’Esercito della Luce in quel momento, con la Confraternita
dell’Oscurità ancora in piedi, avrebbe disonorato la memoria di tutti coloro
che erano periti nel conflitto. Andare avanti significava certamente che
molti altri sarebbero morti, e che egli stesso avrebbe potuto abbandonare
per sempre la luce.
Si stese di nuovo e richiuse gli occhi. Il sonno, però, non arrivò. “Quando
tutte le scelte sono sbagliate”, borbottò tra sé nel buio, “che importa quale
faccio?”
“Quando la via che hai davanti non è chiara”, rispose una voce eterea,
“lascia che sia la saggezza della Forza a guidare le tue azioni”.
Hoth alzò di scatto la testa per scrutare nell’oscurità della tenda. Nelle
ombre era a stento visibile una figura, in piedi in fondo alla tenda.
“Pernicar!”, esclamò, poi all’improvviso domandò: “Sei reale, oppure sto
dormendo nel mio letto e questo è solo un sogno?”
“Un sogno è soltanto un altro tipo di realtà”, rispose Pernicar, scuotendo
la testa divertito. Attraversò lentamente la tenda e gli si avvicinò. Quando lo
fece, Hoth si rese conto di poter vedere attraverso il suo corpo.
L’apparizione si sedette sulla branda. Le molle non cigolarono; era come
se non avesse peso né sostanza.
Dev’essere un sogno, pensò Hoth. Ma non voleva svegliarsi. Si appigliò
invece disperatamente all’occasione di rivedere il vecchio amico, anche se
si trattava solo di un’illusione evocata dalla propria mente. “Mi sei
mancato”, disse. “Mi sono mancati i tuoi consigli, la tua saggezza. Ne ho
bisogno adesso più che mai”.
“Non eri così ansioso di darmi ascolto quando ero in vita”, rispose il
Pernicar onirico, sfiorando i sensi di colpa e i rimpianti più reconditi
nell’animo di Hoth. “Avresti potuto imparare molto da me”.
La mente del generale fu attraversata da uno strano pensiero. “Sono stato
tuo padawan per tutto questo tempo, Maestro Pernicar? Tanto giovane e
stupido da non sapere neanche che cercavi d’istruirmi nelle vie della
Forza?”
Pernicar rise piano. “No, generale. Nessuno di noi due è giovane, anche
se entrambi abbiamo avuto i nostri momenti di stupidità”.
Hoth annuì tristemente. Per un attimo non disse nulla, ancora una volta
godendo soltanto della presenza dell’amico, seppur solo in spirito. Poi,
sapendo che l’elaborata messinscena creata dal proprio subconscio doveva
avere un qualche scopo, domandò: “Perché sei qui?”
“L’Esercito della Luce è uno strumento del bene e della giustizia”, gli
rispose Pernicar. “Temi di aver smarrito la strada, ma rivolgiti alla Forza e
saprai cosa fare per ritrovarla”.
“Lo fai sembrare così facile”, disse Hoth scuotendo leggermente la testa.
“Davvero sono caduto tanto in basso da non riuscir neppure a ricordare gli
insegnamenti più elementari del nostro Ordine?”
“Non c’è vergogna nel cadere”, disse Pernicar rialzandosi. “Ma solo nel
rifiutare di rialzarsi”.
Hoth emise un profondo sospiro. “So cosa devo fare, ma non ho i mezzi.
Le mie truppe sono sull’orlo del collasso, stremate e in inferiorità. E gli altri
Jedi non credono più nella nostra causa”.
“Farfalla ancora sì”, osservò Pernicar. “Nonostante le vostre divergenze,
ti è sempre stato fedele”.
“Credo di aver allontanato Farfalla definitivamente”, ammise Hoth. “Non
vuol avere più nulla a che fare con l’Esercito della Luce”.
“E perché allora le sue navi sono ancora in orbita?”, controbatté Pernicar.
“La tua rabbia lo ha fatto allontanare, e teme che tu abbia finito col
soccombere al Lato Oscuro. Dimostragli che non è così e tornerà a
seguirti”.
Pernicar fece un passo indietro. Hoth sentì che ricominciava a tornare
lentamente verso la consapevolezza. Avrebbe potuto opporsi; avrebbe
potuto sforzarsi di restare nel sogno. Ma c’era del lavoro da fare.
“Arrivederci, amico mio”, sussurrò. I suoi occhi si aprirono pian piano,
rivelando il mondo della veglia e l’oscurità deserta della sua tenda.
“Arrivederci”.
Quella notte non si riaddormentò più. Pensò invece a lungo e
intensamente a ciò che Pernicar gli aveva detto in sogno. Si era sempre
rivolto a lui nei momenti di confusione e turbamento. Era logico che la
mente rievocasse l’immagine del suo più caro amico per rimetterlo sulla
strada giusta.
Sapeva cosa fare. Avrebbe soffocato l’orgoglio e chiesto perdono a
Farfalla. Dovevano accantonare le divergenze personali per il bene dei Jedi.
Uscì dalla tenda di primo mattino, deciso a inviare un messo a Farfalla.
Con sua sorpresa, però, scoprì che un’emissaria di Farfalla era venuta a
parlare con lui.
“Mi chiedevo se non avessi compiuto questo viaggio invano”, ammise la
messaggera dopo che Lord Hoth l’ebbe accolta nella tenda. “Temevo che
avreste rifiutato anche solo di vedermi”.
“Se fossi venuta ieri, probabilmente avresti avuto ragione”, confessò.
“Ma la scorsa notte ho avuto una... rivelazione che ha cambiato le cose”.
“Allora immagino siamo fortunati che sia arrivata oggi”, rispose lei
chinando il capo con aria cordiale.
“Già, siamo fortunati”, mormorò, anche se una parte di lui credeva che il
tempismo del sogno non avesse nulla a che vedere con la fortuna. La Forza
era davvero un alleato potente e misterioso.

Bane avvertiva ancora la presenza del veleno nel proprio organismo


mentre guidava il cingolato sui vasti pianori deserti di Ambria. Il rombo del
motore non soffocava del tutto il clangore e lo sferragliamento delle
cianfrusaglie ammassate nel retro. Quel fracasso gli impediva di scacciare
del tutto dalla mente il ricordo dei precedenti proprietari, ma non provava
alcun rimorso per averli uccisi.
Aveva lasciato i corpi dov’erano caduti, in mezzo al campo di battaglia.
Quelle morti gli avevano dato la forza di andare avanti, ma l’ondata di
potere che aveva sentito stava già svanendo. Avrebbe potuto usarla per
tenere a bada il synox qualche altra ora, ma doveva trovare una cura
definitiva.
Doveva trovare Caleb. Se fosse riuscito a raggiungere il guaritore, ci
sarebbe stata ancora speranza. Ma la sua abitazione distava ancora
chilometri.
Era solo questione di tempo prima che il corpo si arrendesse alla paralisi
e la mente fosse inghiottita dalla follia febbricitante causata dalla sostanza.
Tuttavia, per il momento la rabbia gli consentiva di mantenere la mente
lucida.
Non era arrabbiato con Githany. Lei aveva solo agito proprio come
avrebbe fatto un servo del Lato Oscuro. Lo era con sé stesso, per la
debolezza e l’arroganza fuori luogo che aveva dimostrato. Avrebbe dovuto
prevedere la vera portata della sua astuzia.
Invece, si era lasciato avvelenare. E se fosse morto in quel momento, la
sua grande rivelazione, la Regola dei Due, salvezza dei Sith, sarebbe morta
con lui.

Caleb sentì avvicinarsi il trattore molto prima di vederlo o udirlo. Era


come un uragano, una coltre nera dirompente che bloccasse il sole. Quando
il veicolo si fermò davanti alla sua capanna, era già seduto fuori ad
aspettarlo.
L’uomo che ne scese era grosso e muscoloso, in forte contrasto con la
corporatura magra e nervosa di Caleb. Indossava vesti nere e dalla cintura
gli pendeva una spada laser con l’impugnatura uncinata. Aveva la pelle
grigia come cenere e i lineamenti distorti in un’espressione crudele e
sprezzante. Pur non essendo sensibile alle vie della Forza, non gli sarebbe
stato difficile riconoscerlo come un servo del Lato Oscuro; al massimo, non
avrebbe potuto percepire quanto fosse davvero potente quel sinistro
visitatore.
Ma aveva già avuto a che fare con uomini e donne potenti. In passato sia
Jedi che Sith si erano recati da lui, e li aveva respinti tutti. Era servo della
gente comune, di coloro che non potevano aiutare se stessi. Non voleva
aver a che fare con la guerra tra luce e oscurità.
L’uomo s’incamminò verso di lui con movimenti rigidi. Dalla pelle del
Sith morente esalava il fetore ripugnante del veleno, che soffocò l’aroma
della zuppa che bolliva sul fuoco. Frugando tra i carboni con un bastone per
alzare la temperatura, Caleb comprese il perché del colorito innaturale del
visitatore. Gli effetti del synox erano inconfondibili. Dedusse che all’uomo
non restasse più di un giorno di vita.
Non parlò finché non gli fu direttamente davanti, incombente come lo
spettro della morte stessa.
“Hai del veleno in corpo”, disse Caleb tranquillo. “Sei venuto per la
cura”, continuò. “Non te la darò”.
L’uomo non parlò. Non lo sorprendeva, visto il suo stato. Il veleno
doveva avergli reso la lingua gonfia e screpolata, inaridendogli e
riempiendogli di pustole la gola. Ma non aveva bisogno di parole per
esprimere il messaggio: la mano si mosse verso l’impugnatura della spada
laser.
“Non ho paura di morire”, disse Caleb senza cambiare tono. “Puoi
torturarmi, se vuoi”, aggiunse. “Il dolore non significa nulla per me”.
Per dimostrarlo, tuffò la mano nel calderone ribollente. Il lezzo della
carne bruciata si mescolò agli odori del cibo e del veleno. Non mutò mai
espressione, neppure quando ritirò la mano e la tenne in alto per mostrare le
carni ustionate.
Negli occhi dell’estraneo vide confusione e dubbio, un’espressione che
aveva visto molte volte in precedenza. In passato, la sua impassibilità lo
aveva servito bene, frustrando i piani dei Sith o Jedi che lo avevano cercato
per un motivo o l’altro. Non riuscivano a capirlo, ed era ciò che voleva.
Non gli importava nulla della loro guerra o di ciò che le due parti
ritenessero prezioso. C’era di fatto una sola cosa di cui gli importasse in
tutta la galassia. E quella commedia era la sua unica speranza di proteggerla
dal mostro che torreggiava su di lui.

Bane era perplesso dall’inamovibile uomo che aveva davanti. Gli era
stata appena negata la sua unica speranza di sopravvivere, e non era certo di
cosa potesse fare. Avvertiva il potere in quell’uomo, ma non apparteneva né
al Lato Oscuro né a quello luminoso. Traeva la sua forza dalla terra e dalla
pietra, dalle montagne e dalle foreste, dal cielo e dalla terra. Nonostante la
differenza, Bane percepiva che si trattava di un potere a suo modo
formidabile. Trovava quella stranezza inquietante e sconvolgente. Possibile
che avrebbe perso quello scontro di volontà? Possibile che quell’uomo così
semplice, in cui albergava appena un debolissimo barlume della Forza,
fosse davvero in grado di sfidare un Signore Oscuro dei Sith?
Se la mente del guaritore fosse stata debole, avrebbe semplicemente
potuto costringerlo all’obbedienza, ma la sua volontà era inamovibile come
il nero acciaio del pentolone in cui aveva immerso la mano. Aveva anche
dimostrato che il dolore e le minacce di morte non sarebbero servite a fargli
cambiare idea. Bane riusciva a sentire in quel momento stesso che la sua
mente ergeva pareti per bloccare il dolore, seppellendolo tanto in profondità
da farlo quasi sparire. E c’era anche qualcos’altro che teneva sepolto.
Qualcosa che stava disperatamente tentando di nascondergli.
Quando riconobbe di cosa si trattasse, Bane socchiuse gli occhi. Stava
cercando di celare la presenza di qualcun altro, proteggendolo, chiunque
fosse, dalle percezioni annebbiate e febbrili del Signore Oscuro. Rivolse
l’attenzione alla capanna piccola e cadente. L’uomo non si mosse per
fermarlo; anzi, non reagì in alcun modo.
La porta non era schermata che da un lungo tendaggio mosso dal vento.
Bane si fece avanti e lo scostò, rivelando una stanzetta malridotta. Una
ragazzina si rannicchiò in silenzio contro la parete in fondo, gli occhi
sbarrati dal terrore.
Nel comprendere la verità, le labbra di Bane s’incurvarono in un torvo
sorriso di sollievo. Anche Caleb alla fin fine aveva un punto debole,
qualcosa di cui gli importasse. Tutta la sua forza di volontà fu vana per via
di quell’unica debolezza. E non si sarebbe fatto certo scrupoli a sfruttarla
per ottenere ciò di cui aveva bisogno.
Con un unico ordine mentale sollevò in aria la bambina terrorizzata,
portandola fuori e lasciandola sospesa a testa in giù sul pentolone ribollente
del guaritore.
Caleb balzò in piedi, mostrando per la prima volta una vera emozione.
Tese un braccio verso di lei, poi ritrasse la mano, gli occhi che scattavano
dalla figlia all’uomo che ne teneva letteralmente la vita in pugno. “Papà”,
gemette quella, “aiutami”.
L’uomo, sconfitto, chinò il capo. “E va bene”, disse. “Hai vinto. Avrai la
tua cura”.
Il rituale durò tutta la notte e fino al giorno successivo. Caleb impiegò
erbe e radici di ogni tipo, alcune bollite nelle acque del pentolone, altre
schiacciate e ridotte in poltiglia; altre, infine, sparse direttamente sulla
lingua rigonfia di Bane. Questi restò all’erta per tutto il processo, pronto a
usare la bambina se il guaritore avesse tentato di tradirlo.
Col passare delle ore, però, sentì il synox defluirgli lentamente dal corpo,
eliminato dai medicamenti. La sera del giorno successivo, ogni traccia del
veleno era scomparsa.
Bane tornò all’accampamento e fece i bagagli. Qualche ora più tardi fu
pronto a decollare per lasciarsi Ambria alle spalle.
Una volta completato il rituale, aveva preso brevemente in
considerazione l’idea di uccidere padre e figlia per aver assistito a un suo
momento di debolezza, ma si trattava dei pensieri di un uomo accecato dalla
propria arroganza: il suo ultimo incontro con Githany gli aveva mostrato i
pericoli di quell’atteggiamento.
Né Caleb né la figlia rappresentavano una minaccia per lui o i suoi
obiettivi, e il guaritore possedeva un talento che un giorno avrebbe potuto
servirgli di nuovo. Nonostante tutto il suo potere, il Lato Oscuro era scarso
nelle arti curative.
Dunque li aveva lasciati in vita. La loro morte non avrebbe avuto scopo
né vantaggio. Uccidere senza motivo era un piacere meschino riservato ai
sadici e agli stolti.
E, mentre immetteva nel computer di navigazione le coordinate di
Ruusan, Bane era ben deciso a epurare il Lato Oscuro da ogni stolto.
CAPITOLO 27

Quando la Valcyn arrivò a Ruusan, Bane si sorprese di trovare nel sistema


sia la flotta Sith che quella Jedi. I primi avevano stretto d’assedio il pianeta,
nell’evidente tentativo d’impedire ai rinforzi Jedi di raggiungere la
superficie.
A Bane, tuttavia, sembrava che i Jedi non stessero affatto tentando di
sfondare il blocco. Pareva anzi che le loro navi si accontentassero di
aspettare, mantenendosi appena oltre la portata del fuoco nemico. E i Sith
non potevano attaccare senza rompere la formazione ed esporsi. Di
conseguenza, le due fazioni si trovavano in uno stallo pieno di tensione,
entrambe riluttanti a compiere la prima mossa.
Nonostante il blocco, Bane fu in grado di portare la nave su Ruusan
senza attrarre l’attenzione di nessuna delle due flotte. I Jedi non si
preoccupavano delle navi dirette al pianeta e i Sith pattugliavano il sistema
seguendo schemi pensati per la difesa contro le incursioni su ampia scala: il
blocco serviva a fermare trasporti truppe, navi rifornimenti e relative scorte,
ma era totalmente inutile contro un singolo caccia o ricognitore.
I sensori rilevarono l’accampamento Sith poco dopo che ebbe
attraversato l’atmosfera, poi fece avvicinare la Valcyn dalla parte opposta
del pianeta. Le pattuglie non lo avevano scoperto, e aveva disattivato il
radiofaro prima di andarsene da Lehon. Nessuno sapeva della sua presenza,
e progettava di lasciare le cose com’erano ancora per qualche tempo.
Fece atterrare la nave al riparo di una piccola catena collinare a vari
chilometri dal campo. Avvicinandosi a piedi avrebbe attirato meno
l’attenzione, e voleva nascondere la posizione della Valcyn in caso avesse
avuto bisogno di fuggire in fretta. Sbarcò e cominciò a camminare per
raggiungere Kaan e gli altri Sith.
La sensazione data da quel pianeta era ben diversa da tutti quelli su cui si
era trovato. Era un mondo stanco, esaurito e sfiancato dalle incessanti
battaglie condotte sulla sua superficie. C’era un malessere nell’aria, come
una malattia che infettava la mente e lo spirito. La Forza era potente su
Ruusan: inevitabile, visto il gran numero di Sith e Jedi che vi si trovava.
Eppure la percepì in tumulto, come un turbine di conflitto e confusione.
Non prevalevano né il Lato Oscuro né quello luminoso, che invece
collidevano fondendosi e trasformandosi in un’oscena, incerta sfumatura di
grigio.
All’estremo oriente vide i confini delle grandi foreste di Ruusan.
Riusciva ad avvertire i Jedi che si nascondevano nel fitto degli alberi,
benché si servissero del potere della Forza per celare la loro esatta
posizione. Il campo dei Sith era a ovest, ad alcuni chilometri dai confini
della foresta. Tra i due si stendeva un panorama fatto di dolci colline e
pianure: il teatro di tutte le principali battaglie combattute su Ruusan fino
ad allora. La lotta costante era stata scandita da sei scontri su vasta scala, in
cui entrambe le parti avevano impiegato le proprie forze al gran completo
nel tentativo di spazzar via il nemico o perlomeno di scacciarlo dal pianeta.
Hoth e l’Esercito della Luce avevano rivendicato la vittoria per tre volte, e
le altre tre era andata a Kaan e alla sua Confraternita. Eppure nessuna di
esse era stata tanto determinante da porre fine alla guerra.
A giudicare dall’odore penetrante della morte, Bane sospettò che anche
quel territorio dovesse aver ospitato da poco uno scontro di minor rilievo.
Era difficile dire chi avesse vinto: dappertutto c’erano corpi con indosso le
insegne di entrambe le parti, frammisti tra loro come se l’odio li avesse
portati a scontrarsi anche dopo la morte. Era probabile che i caduti fossero
perlopiù seguaci dei Jedi o servi dei Sith, anziché veri Cavalieri o membri
della Confraternita; ciò nonostante, notò le vesti scure dei Sith.
Sul luogo della strage si libravano i bouncer, particolare specie indigena
di Ruusan. Erano almeno sei, di forma sferica e dimensioni variabili, in
gran parte di uno o due metri di diametro. I corpi rotondi erano ricoperti da
una folta peluria verde, e così anche le appendici simili a pinne che avevano
ai fianchi e le lunghe code simili a nastri ondeggianti. Non avevano
lineamenti visibili a parte gli occhi neri senza palpebre.
I rapporti li definivano senzienti, eppure a Bane sembravano soltanto
animali in cerca di cibo tra i resti della battaglia. Avvicinandosi, si rese
conto che stavano comunicando, pur essendo privi di bocca. In qualche
modo proiettavano immagini mentali di soccorso e conforto, come se
tentassero di lenire le ferite della terra.
Al suo arrivo si dispersero, sfrecciando via come uno strano banco di
pesci capaci di nuotare nell’aria. Avvicinandosi, si accorse che si erano
radunati su uno dei caduti. L’umano non era ancora morto, anche se la ferita
che gli si apriva nell’addome lasciava pochi dubbi sul fatto che non avrebbe
visto la notte.
Indossava gli abiti dei Sith, e vicino alla mano protesa giacevano i resti
infranti dell’impugnatura di una spada laser. Bane lo riconobbe: era uno
degli studenti inferiori dell’Accademia di Korriban, talmente debole nel
Lato Oscuro che non era neppure valso la pena sapere il suo nome. Eppure,
lui lo conosceva.
Con un gemito si rotolò sulla schiena e si alzò a sedere, appoggiando
testa e spalle a una pietra. Gli occhi, opachi e dilatati, si snebbiarono per un
attimo. “Lord Bane...”, ansimò. “Kaan ci aveva detto... che eri morto”.
Non aveva senso rispondere, perciò Bane non parlò.
“Ti sei perso la battaglia...”, borbottò l’uomo, udibile a malapena tra i
gorgoglii del sangue che gli risaliva in gola. Un accesso di tosse interruppe
ciò che stava per dire. Era troppo debole anche solo per portarsi la mano
alla bocca e vomitò chiazze rosse sugli stivali neri di Bane.
“È stato uno scontro magnifico”, riuscì finalmente a gracchiare. “È un
onore... essere caduti... in una così splendida battaglia”.
Bane rise di gusto: era l’unica risposta adatta a una simile stupidaggine.
“La gloria non ha alcun significato per i morti”, disse, benché non fosse
chiaro se l’uomo riuscisse a sentirlo nel suo stato febbrile.
Si voltò per andarsene, poi si fermò sentendosi tirare debolmente il piede.
“Aiutami, Lord Bane”.
Sollevando lo stivale per liberarlo, rispose: “Mi chiamo Darth Bane”. Lo
stivale calò con forza, schiacciando il cranio dell’uomo contro le rocce che
lo sorreggevano con uno schianto nauseante. Il corpo fu scosso da uno
spasmo, poi rimase immobile.
L’epurazione dei Sith era iniziata.

Lord Kaan era steso sulla brandina nella propria tenda, a occhi chiusi, e si
massaggiava lentamente le tempie. Stava risentendo dello sforzo di tenere
uniti i suoi seguaci sotto una causa comune, e la testa gli pulsava di
continuo per un dolore sordo e implacabile.
Nonostante i successi conseguiti nelle recenti battaglie contro i Jedi su
Ruusan, il clima nell’accampamento Sith era sempre teso. Si trovavano su
Ruusan da molto, troppo tempo, e continuavano a trapelare rapporti di
vittorie della Repubblica in sistemi lontani. Diventava sempre più difficile,
anche con la sua capacità di manipolare e influenzare le menti degli altri
Signori Oscuri, concentrare la Confraternita sulla battaglia contro l’Esercito
della Luce.
Sapeva che c’era un solo modo di concludere velocemente quella guerra:
la bomba psichica. Aveva trascorso molte notti a domandarsi se avrebbe
osato utilizzarla. Se avessero attirato i Jedi, scatenando poi la bomba
psichica, l’esplosione avrebbe annientato totalmente i nemici. Ma le volontà
congiunte della Confraternita sarebbero state abbastanza forti da
sopravvivere a un tale potere, oppure sarebbero rimaste travolte dal
contraccolpo?
Più e più volte l’aveva giudicata un’arma troppo pericolosa, talmente
terribile che persino lui, Signore Oscuro dei Sith, temeva di usarla. Eppure,
ogni volta la prendeva in considerazione per qualche momento di più, prima
di ritrarsi dall’abisso.
Un rumore all’esterno gli fece aprire gli occhi e lo spinse ad alzarsi di
scatto. Un attimo dopo fece capolino Githany, ormai considerata da molti il
suo braccio destro. “Sono pronti, Lord Kaan”.
Annuì e si alzò in piedi, prendendosi un attimo per calmarsi e ricomporsi.
Se avesse manifestato un segno qualunque di debolezza, gli altri avrebbero
potuto rivoltarsi. Non poteva permetterlo; non in quel momento, quando
erano così vicini alla vittoria finale. Era per questo che aveva convocato gli
altri Signori Oscuri: un’ultima riunione per rafforzare la loro
determinazione e assicurarsi la loro ininterrotta fedeltà.
Githany fece strada attraverso il campo e lui la seguì fino alla grande
tenda dove lo attendevano gli altri Signori dei Sith. Entrò risoluto e
convinto, emanando un’aura di sicurezza e autorità.
Com’era usanza ogni volta che faceva il suo ingresso, i presenti si
alzarono in piedi in segno di rispetto. Uno di loro, tuttavia, rimase seduto,
con le braccia incrociate sul petto muscoloso.
“Sei troppo pesante per alzarti, Lord Kopecz?”, domandò Githany
tagliente.
“Credevo che nella Confraternita fossimo tutti uguali”, ringhiò il Twi’lek
in risposta, rivolto più a Kaan che a lei.
Kaan sapeva di doversi muovere con attenzione. Non era la prima volta
che Kopecz dava voce al proprio dissenso, e molti altri lo imitavano.
Purtroppo era anche fra i più difficili da influenzare e controllare.
“Uguali. È vero, Lord Kopecz”, disse con un sorriso stanco. “Restate
seduti, tutti quanti. Non c’è bisogno di queste insensate formalità”.
Gli altri fecero come ordinato e si rimisero a sedere, benché fosse ancora
palpabile la tensione fra i due. Kaan diffuse un’ondata di calma rassicurante
in tutta la stanza mentre prendeva posto al tavolo tattico.
“Abbiamo quasi vinto la guerra contro i Jedi”, annunciò. “Sono sull’orlo
del collasso. Sono fuggiti nelle foreste, ma ormai sono a corto di posti dove
nascondersi”.
Kopecz sbuffò ironico. “È un ritornello che abbiamo sentito fin troppe
volte”.
Gli ci volle uno sforzo sovrumano per mantenere la calma, ma Lord Kaan
riuscì in qualche modo a rispondere con voce tranquilla e inespressiva.
“Chiunque abbia dei dubbi sulla nostra strategia su Ruusan è libero di
parlare”, propose. “Come già precisato all’inizio, nella Confraternita
dell’Oscurità siamo tutti uguali”.
“Non è solo Ruusan a preoccuparmi”, rispose Kopecz, abboccando
all’amo e alzandosi in piedi. “Abbiamo perso terreno in tutta la galassia.
Stavamo facendo vacillare la Repubblica, ma invece di finirli abbiamo
lasciato che si riorganizzassero!”
“Quasi tutte le nostre prime vittorie risalgono a prima che i Jedi si
unissero alla causa”, gli rammentò Kaan. “Abbiamo attaccato la Repubblica
proprio per far uscire i Jedi allo scoperto. Volevamo costringerli ad
affrontare una battaglia ben precisa: questa, qui su Ruusan.
“Adesso siamo sul punto di spazzarli via. E una volta scomparsi i Jedi,
potremo facilmente rivendicare i mondi tornati alla Repubblica... e molti
altri ancora”.
Kopecz restò in silenzio, ma gli altri Signori dei Sith mormorarono in
assenso. Kaan decise di insistere.
“Una volta spazzato via il nemico su Ruusan, i nostri eserciti
percorreranno la galassia pressoché incontrastati. Conquisteremo ogni
settore e avvolgeremo Coruscant e gli altri Mondi del Nucleo in un cappio,
stringendo sempre più, fino a strangolare la Repubblica!”
Esplose un boato di approvazione. Quando Kopecz parlò, sembrava aver
perso anche lui un po’ di ostilità.
“Ma qui non siamo ancora sicuri di vincere. Forse abbiamo circondato e
bloccato l’esercito di Hoth, ma ai confini del sistema c’è una flotta Jedi con
centinaia di rinforzi”.
“Hanno dei rinforzi ai confini del sistema”, ammise Kaan con un cenno
del capo, senza prendersi la briga di negare qualcosa che tutti sapevano per
certa. “Proprio come per tutta la scorsa settimana. Ed è esattamente lì che
rimarranno, ben lontani dalla superficie dove c’è bisogno di loro.
“Il grosso della nostra flotta è in orbita intorno a Ruusan stesso e ai Jedi
mancano sia i numeri che la potenza di fuoco per sfondare il nostro blocco.
Se non riusciranno a unirsi ai compagni sulla superficie, Hoth e i suoi
seguaci non avranno speranze. E una volta che li avremo finiti, potremo
sbarazzarci senza problemi dei resti malconci dell’Ordine”.
Kopecz, rabbonito, si mise a sedere con un ultimo commento. “Allora
facciamola finita con Hoth e andiamocene da questo sasso maledetto”.
“È proprio lo scopo di questa riunione”, disse Kaan con un sorriso,
sapendo di aver scongiurato ancora una volta il rischio di uno scisma nella
Confraternita. “Avremo anche perso qualche battaglia, ma stiamo per
vincere la guerra!”
Githany gli porse un’olomappa con gli ultimi dati dei droidi di
ricognizione. La ringraziò con un cenno e la stese sul tavolo, poi si chinò
per guardarla da vicino.
“Le nostre spie ci indicano che l’accampamento principale di Hoth è
qui”, disse indicando una sezione della mappa fitta di alberi. “Se
riuscissimo a stanarli, potremmo...”
Un’ombra oscurò la mappa, fermandolo a metà della frase. “E adesso
cosa c’è?”, volle sapere sbattendo il pugno sul tavolo e alzando di scatto la
testa per guardare la fonte di quell’ennesima interruzione.
La porta incorniciava un uomo grande come una montagna, che bloccava
la luce proveniente dall’esterno. Era altissimo e totalmente calvo, la fronte
alta e i lineamenti duri e spietati. Indossava l’armatura e le vesti nere dei
Sith, e al fianco gli pendeva una spada laser uncinata. Lord Kaan non aveva
mai incontrato quell’uomo di persona, ma ne aveva sentito parlare
abbastanza da sapere esattamente chi fosse.
“Darth Bane!”, esclamò. Scoccò una rapida occhiata a Githany,
domandandosi se potesse averlo tradito. A giudicare dalla sua espressione,
era evidente che fosse sorpresa quanto lui di vederlo vivo e vegeto.
“Credevamo che... che fossi morto”, attaccò, incerto. “Come hai fatto
a...”
“Sono stanco”, lo interruppe Bane. “Vi dispiace se mi siedo?”
“Naturalmente”, acconsentì subito Kaan. “Qualunque cosa per un
Fratello”.
L’energumeno si accomodò su una sedia vicina, con un ghigno beffardo.
“Grazie, Fratello”.
Nel suo tono c’era qualcosa che mise in guardia Kaan. Cosa ci faceva lì?
Sapeva che Githany aveva tentato di avvelenarlo, e che era stato lui a
mandarla?
“Continua pure col piano”, lo esortò Bane con un cenno distratto della
mano.
Kaan provò un enorme fastidio. Era come se gli stesse dando il permesso
di proseguire, come se non fosse lui al comando. Abbassò di nuovo lo
sguardo sulla mappa, serrando i denti, e riprese da dove si era interrotto.
“Come dicevo, i Jedi si nascondono nelle foreste. Se ci dividiamo,
possiamo stanarli. Impiegando i nostri speeder, possiamo aggirare il fianco
delle linee a sud...”
“Bah!”, fece Bane, colpendo forte il tavolo con un pugno. “Impiegare
speeder, aggirare il fianco dei nemici”, ripeté, alzandosi in piedi e puntando
un indice accusatore verso Kaan. “Ragioni come un soldato qualsiasi,
invece che come un Signore dei Sith!”
In tutta la stanza scese un silenzio di tomba; persino Kaan era rimasto
senza parole. Si sentiva tutti gli occhi addosso, lo osservavano per vedere
cosa sarebbe successo. Bane si avvicinò, portando il viso a pochi centimetri
dal suo.
“Dove hai trovato il coraggio di avvelenarmi?”, domandò in un sussurro
basso e minaccioso.
“Io... non sono stato io!”, balbettò Kaan mentre l’altro gli voltava le
spalle.
“Non scusarti per aver usato l’inganno e l’astuzia”, lo ammonì il colosso
avvicinandosi al tavolo. “Ti ammiro per questo. Siamo Sith, servi del Lato
Oscuro”, proseguì, chinandosi a studiare le posizioni delle truppe e gli
schemi tattici che gli si stendevano davanti. “Adesso guarda questa mappa e
ragiona da Sith. Non combattere nella foresta: distruggila!”
Fu Githany a rompere il silenzio che seguì, ponendo la domanda che era
sulla bocca di tutti. “E come proponi di farlo?”
Bane diede loro le spalle con un sorriso malevolo. “Posso mostrarvelo”.

Era scesa la notte, ma Bane vedeva gli altri correre avanti e indietro alla
luce dei fuochi da campo per effettuare i preparativi che aveva indicato.
Quando percepì Githany avvicinarsi alle sue spalle, si voltò. Portava una
ciotola di zuppa fumante, con un’espressione cauta e incerta.
“Ci vorrà un’altra ora prima di essere pronti a iniziare questo tuo rituale”,
gli disse a mo’ di saluto. Quando non le rispose, aggiunse: “Hai l’aria
stanca. Ti ho portato qualcosa per ritemprarti”.
Prese la ciotola, ma non la portò alle labbra. Aveva scoperto il rituale di
cui parlava studiando l’holocron di Revan: un modo per unire le menti e gli
spiriti dei Sith in un unico tramite, in modo da poter scatenare il loro potere
nel mondo fisico. Il processo era simile in molti sensi a quello usato per
produrre una bomba psichica con la Forza, pur essendo meno potente, e
assai meno pericoloso, del rituale da lui inviato a Kaan come offerta di
pace.
Si rese conto che Githany lo studiava ancora con attenzione, quindi
indicò la ciotola inclinando il capo. “Vuoi avvelenarmi di nuovo?”,
domandò, appena una nota beffarda nella voce.
“L’hai sempre saputo, non è così?”, disse lei.
Bane scosse la testa. “Non finché non ho sentito il veleno sulle tue
labbra”.
Githany inarcò un sopracciglio e gli sorrise, timidamente. “Ma ne hai
voluto una seconda dose. E una terza”.
“Il veleno non dovrebbe recare danno a un Signore Oscuro”, le spiegò.
Poi ammise: “Eppure mi ha quasi ucciso”. Fece una pausa, ma lei non disse
nulla. “Nella Confraternita ci sono troppi Signori Oscuri”, proseguì.
“Troppi in cui il Lato Oscuro è debole. Kaan non lo capisce”.
“Kaan teme che tu sia tornato per prenderti la Confraternita!” Dopo un
attimo, aggiunse: “E credo abbia ragione”.
Voglio annientarla, pensò, non prendermela. Tuttavia, non si prese la
briga di correggerla: non era ancora il momento. Aveva bisogno di altre
prove che fosse la persona giusta per diventare sua apprendista. Sempre due
devono essere: né più, né meno. Uno incarna il potere, l’altro lo brama. Era
una scelta che non intendeva fare in modo affrettato.
“Posso mostrarti il vero potere del Lato Oscuro, Githany; un potere al di
là di tutto ciò che gli altri possono anche solo immaginare”, disse.
“Insegnamelo”, sussurrò lei. “Voglio imparare. Potrai mostrarmi tutto...
dopo che avrai sostituito Kaan a capo della Confraternita!”
Non poté fare a meno di chiedersi se tentasse ancora di manipolarlo.
Voleva mettere lui e Kaan uno contro l’altro, oppure far sì che deponesse
Kaan per dimostrare la sua forza?
No, dovette ammettere. Continua a non capire che l’intero Ordine dei
Sith va smembrato e ricostruito dalle fondamenta. Forse non lo capirà mai.
“Dimmi una cosa”, replicò. “Avvelenarmi è stata una tua idea oppure di
Kaan?”
Con una risatina, scivolò sotto il braccio che reggeva la ciotola e gli si
avvicinò al petto, guardandolo dritto negli occhi. “È stata una mia idea”,
confessò, “ma mi sono accertata che Kaan la credesse sua”.
Potrebbe ancora esserci qualche speranza, pensò Bane.
“So di aver sbagliato, in precedenza”, continuò lei allontanandosi.
“Quando sei andato via da Korriban, sarei dovuta venire con te. Non mi
rendevo conto di cosa cercassi, non comprendevo i segreti a cui miravi. Ma
adesso lo capisco. Sei il vero capo dei Sith, Bane. Seguirò te, d’ora in poi. E
lo stesso farà il resto della Confraternita, una volta che avremo usato il tuo
rituale per distruggere i Jedi”.
“Sì”, concordò lui, ben attento a mantenere un tono inespressivo e
bevendo un sorso di zuppa calda. “Dopo che avremo distrutto i Jedi”.
Bane sapeva di non poter davvero distruggere i Jedi, non lì su Ruusan;
non in quel modo. I Jedi avrebbero trovato il modo di sopravvivere.
Nessuna guerra normale avrebbe potuto eliminare del tutto i servi della
luce. Soltanto gli strumenti del Lato Oscuro potevano: l’astuzia, la
segretezza, l’inganno, il tradimento.
Gli stessi strumenti che avrebbe usato per spazzar via l’intera
Confraternita dell’Oscurità... a cominciare dal rituale di quella notte.
CAPITOLO 28

Kaan, Githany e i restanti Signori Oscuri erano riuniti in cima a un brullo


pianoro che si affacciava sulle grandi foreste in cui si nascondevano Lord
Hoth e il suo esercito. Vi erano giunti con gli speeder: velivoli monoposto a
corto raggio armati di cannoni blaster pesanti montati anteriormente. Erano
posteggiati sul bordo, a cinquanta metri dal punto in cui i Sith sedevano in
un ampio cerchio. Il rituale era iniziato.
Stavano entrando in comunione con la Forza, scivolando uniti in una
trance di meditazione. Le loro menti scesero sempre più a fondo nel pozzo
di potere contenuto dentro di loro, attingendo alla propria forza e
combinandola a quella degli altri in un unico canale. Bane li esortava dal
centro del cerchio.
“Toccate il Lato Oscuro. Il Lato Oscuro è uno e indivisibile”.
Il cielo notturno si riempì di nubi nere e il pianoro fu spazzato da un
vento impetuoso, che frustò le vesti e i mantelli dei Sith. L’aria fu squassata
dai tuoni e dal fragore di una tempesta di fulmini sempre più intensa.
Nell’aria danzarono saette bianche e azzurre e le temperature scesero
bruscamente.
“Consegnatevi al Lato Oscuro. Lasciate che vi circondi, che vi avvolga,
vi divori”.
La Confraternita s’immerse più a fondo nella trance collettiva, quasi
neanche più consapevole della tempesta che infuriava su di loro. Bane, al
centro della bufera, si nutriva dei fulmini. Si sentì rinvigorito mentre
incanalava e concentrava il potere degli altri Sith.
È così che dovrebbe essere! Tutta l’energia della Confraternita in un solo
Sith! L’unico modo per scatenare tutto il potere del Lato Oscuro!
“Vi sentite invincibili? Invulnerabili? Immortali?”
Doveva urlare per farsi sentire al di sopra dell’ululato del vento e il boato
del tuono. Dal suo corpo si scatenò una ragnatela di fulmini che lo collegò a
ogni altro Sith. Rabbrividì, poi si irrigidì all’improvviso, le braccia tese. Il
suo corpo paralizzato iniziò a sollevarsi lentamente in aria.
“Riuscite a sentirlo?”, urlò, con la sensazione che il potere grezzo della
Forza che gli infuriava dentro gli avrebbe ridotto le carni a brandelli. “Siete
pronti a uccidere un pianeta?”

Poche cose nella galassia riuscivano a spaventare un uomo come il


generale Hoth. Eppure, mentre era seduto a leggere gli ultimi rapporti dei
ricognitori, sentì le prime avvisaglie della vera paura che gli lambivano i
pensieri.
Il dissenso tra lui e Farfalla era stato sanato, ma ormai non c’era modo di
portare i rinforzi sulla superficie di Ruusan. Alcune navette con a bordo uno
o due inviati erano riuscite a oltrepassare inosservate il blocco orbitale dei
Sith, sebbene ogni tanto persino quelle fossero state scoperte e distrutte.
Niente di più grande ce l’avrebbe mai fatta.
Ma la sua paura non derivava solo dalla frustrazione di avere l’aiuto a
portata di mano, eppure distante in modo impossibile. C’era qualcosa di
sinistro nell’aria. Qualcosa di malvagio.
Un’immagine gli apparve all’improvviso nella mente, inattesa: un
presentimento di morte e distruzione. Balzò in piedi e corse fuori dalla
tenda. Pur essendo notte fonda, non lo sorprese troppo vedere che quasi
tutto il resto dell’accampamento fosse alzato. Lo avevano sentito anche
loro. Stava arrivando qualcosa, e a tutta velocità.
Gli altri cercavano la sua guida, aspettavano che assumesse il comando.
Lo fece urlando un singolo ordine.
“Correte!”
La tempesta si rovesciò dal pianoro e investì la foresta. Dal cielo caddero
centinaia di fulmini accecanti, e la selva esplose. Gli alberi presero fuoco, le
fiamme che sfrecciavano lungo i rami diffondendosi in ogni direzione. Il
sottobosco cominciò a bruciare piano, vomitò fumo e divampò; una parete
di fuoco percorse la superficie del pianeta.
L’inferno consumò ogni cosa sul suo cammino.
Fuoco e calore, nel mondo di Bane non c’era nient’altro. Era come se
fosse diventato la tempesta stessa: vedeva il mondo innanzi a sé fagocitato
da lingue di fiamma scarlatta, di lì a poco ridotto in ceneri e tizzoni dalla
furia scatenata del Lato Oscuro.
Era magnifico. Poi all’improvviso scomparve.
Vi fu un tonfo disarmonico quando il suo corpo cadde dal punto in cui
era sospeso, a cinque metri da terra. Per qualche secondo fu totalmente
disorientato, incapace di capire cosa fosse successo. Poi comprese: il
legame era stato spezzato.
Si alzò in piedi lentamente, con equilibrio incerto. Tutto intorno a lui
c’erano le sagome dei Sith, non più inginocchiati in meditazione ma caduti
oppure che si accasciavano al suolo, le menti provate dall’improvvisa
interruzione del rituale. Anche loro si ricomposero a uno a uno e si
rialzarono, perlopiù confusi come lo era stato Bane solo pochi secondi
prima.
Poi notò Lord Kaan discosto da loro, vicino agli speeder.
“Cos’è successo?”, gli chiese Bane con rabbia. “Perché ti sei fermato?”
“Il tuo piano ha funzionato”, rispose Kaan secco. “La foresta è distrutta e
i Jedi sono fuggiti allo scoperto. Sono esposti e vulnerabili. Adesso
andremo a finirli”.
Kaan aveva spezzato il collegamento ed era riuscito in qualche modo a
spostarsi dietro gli altri, come se avesse un qualche tipo di presa sulle loro
menti. Forse è così, pensò Bane: ulteriore prova che solo l’annientamento
totale poteva epurare i Sith.
Mentre gli altri riacquistavano i sensi, Kaan prese a gridare ordini.
“L’incendio ha stanato i Jedi; possiamo abbatterli dal cielo. Svelti!”
Quelli sobbalzarono, correndo ai loro veicoli e alzandosi in volo con
grida di battaglia e urla di trionfo.
“Forza, Bane”, disse Githany correndogli accanto. “Andiamo con loro!”
Le afferrò il braccio e la fermò dov’era. “Kaan cerca ancora di vincere la
guerra con blaster ed eserciti”, disse. “Non sono queste le vie del Lato
Oscuro”.
“Ma così è più divertente”, replicò lei con evidente esaltazione. Si liberò
dalla sua presa.
Guardandola correre a raggiungere gli altri, si rese conto che era stata
corrotta dagli insegnamenti di Qordis e dall’Accademia su Korriban.
Nonostante la promessa di seguire Bane, non riusciva a vedere oltre la
Confraternita e i suoi limiti. Era contaminata, inadatta a essere sua
apprendista. Sarebbe dovuta morire con tutti gli altri.
Nel prendere la decisione provò una debolissima punta di rimorso, ma
era qualcosa di vuoto: l’eco di un sentimento, gli ultimi rimasugli di
un’emozione. Fu rapido a soffocarla, sapendo che avrebbe potuto soltanto
indebolirlo.
“Tu ci spaventi, Bane”, disse una voce alle sue spalle. Si girò e vide
Kopecz che lo studiava con attenzione.
“Mentre concentravamo la Forza attraverso te, sembrava che ci
azzannassi alla gola”, proseguì il Twi’lek. “Come se tentassi di
prosciugarci”.
“Il potere del Lato Oscuro è al massimo della forza se focalizzato in un
solo tramite”, rispose Bane. “Non disperso tra molti. L’ho fatto per il bene
del Lato Oscuro”.
Kopecz scosse la testa e salì sul suo veicolo. “Che non lo facessi per noi
si sapeva”.
Bane lo osservò allontanarsi. Salì poi sul proprio mezzo, ma anziché
seguire Kaan in battaglia impostò una rotta per l’accampamento Sith. La
prima fase del piano per la distruzione della Confraternita era terminata.
Quando fu tornato al campo, venti minuti più tardi, non si sorprese di
scoprirlo del tutto deserto. Tutti i Signori Oscuri si trovavano sul pianoro
per il rituale, e tutti avevano seguito Kaan per affrontare i Jedi
improvvisamente vulnerabili. Soldati, servitori e seguaci che costituivano il
grosso dell’esercito dei Sith all’inizio erano rimasti all’accampamento, ma
poi dovevano aver ricevuto da Kaan e dagli altri l’ordine di raggiungerli sul
campo di battaglia.
Bane atterrò nel cuore del complesso, proprio accanto alla tenda di Lord
Kaan. Spense il motore e fu sorpreso di udire il ronzio lontano di un altro
veicolo in avvicinamento. Sollevò lo sguardo, curioso. Quando scese in
picchiata, riconobbe il guidatore.
Il veicolo puntava verso di lui in linea retta. Bane portò la mano alla
spada laser, pronto a sganciarla in un attimo. La Forza gli pervase il corpo,
preparandolo a creare uno schermo protettivo in caso i blaster anteriori del
veicolo avessero aperto il fuoco.
Ma lo speeder non attaccò. Scese invece fino a pochi metri sopra di lui,
scartò bruscamente e poi atterrò accanto al suo.
“La tua arma non servirà”, disse Qordis smontando. “Sono venuto a farti
un’offerta”.
Rendendosi conto che non c’era niente da temere, Bane lasciò ricadere la
mano lungo il fianco. “Un’offerta? E cosa mai potresti offrirmi?”
“La mia lealtà”, disse Qordis, inginocchiandosi.
Bane lo fissò con un misto di orrore, divertimento e disprezzo. “E perché
mai dovresti darmi la tua lealtà?”, domandò. “Perché mai dovrei volerla?”
Qordis si rialzò lentamente, con un sorriso astuto sulle labbra. “Non sono
cieco, Lord Bane. Ti ho visto parlare con Githany, e come manchi di
rispetto a Kaan. So il vero motivo per cui sei venuto su Ruusan”.
Perplesso, Bane si domandò se fosse possibile che Qordis, fondatore
dell’Accademia su Korriban nonché il più fervente sostenitore di tutto
quanto di sbagliato c’era nei Sith, avesse finalmente scorto la verità.
“Cosa proponi di preciso?”, domandò a denti stretti.
“So cos’è successo a Kas’im. Si è messo dalla parte di Kaan contro di te,
e ha pagato con la vita quella decisione. Io non sono così sciocco. So che
sei qui per prenderti la Confraternita”, dichiarò. “Credo che ci riuscirai. E
voglio aiutarti”.
“Vuoi aiutarmi a prendere la Confraternita?” Bane rise; Qordis era cieco,
fuori strada come tutti gli altri. “Sostituire un capo con un altro e andare
avanti come sempre, tu e il resto della Confraternita? Sarebbe questo il tuo
piano geniale?”
“Posso risultarti assai utile, Lord Bane”, insistette Qordis. “Molti membri
della Confraternita hanno studiato alla mia Accademia. Si rivolgono ancora
a me in cerca di consigli e saggezza”.
“E qui sta il problema”. Bane attinse al Lato Oscuro, afferrando Qordis in
una stretta paralizzante. L’altro Sith tentò di proteggersi innalzando uno
schermo per respingere l’assalto, ma Bane penetrò quella misera difesa,
cancellandola come se non fosse mai esistita.
Qordis gridò di dolore quando la Forza lo afferrò sollevandolo da terra.
“La tua saggezza ha distrutto il nostro Ordine”, gli spiegò distrattamente,
restando a guardarlo mentre si dimenava impotente sopra di lui. “Hai
avvelenato la mente dei tuoi allievi; tu e Kaan li avete condotti sulla via
della distruzione”.
“N-non capisco”, boccheggiò Qordis, il fiato che gli veniva strizzato dai
polmoni, a stento in grado di parlare.
“È sempre stato questo il guaio”, rispose Bane. “La Confraternita
dev’essere epurata. I Sith vanno distrutti e ricostruiti e tu, Kaan e tutti gli
altri spazzati via dalla faccia della galassia. È per questo che sono tornato”.
Sui lineamenti magri e allungati di Qordis si disegnò un’espressione di
puro terrore. “Ti prego”, gemette, “non... non così. Liberami. Lasciami...
prendere la spada laser. Permettimi di combattere... come un Sith”.
Bane piegò la testa di lato. “Certamente sai che potrei ucciderti
altrettanto facilmente con la spada laser piuttosto che con la Forza”.
“Lo... lo so”. Qordis stava diventando paonazzo e il suo corpo era scosso
da un tremito convulso. Ogni parola gli costava uno sforzo immane, ma in
qualche modo trovò la forza per un’ultima supplica. “Morire... lottando... è
più... onorevole...?”
Bane fece spallucce con indifferenza. “L’onore è per i vivi. I morti sono
morti”.
La sua mente diede un’ultima stretta alla morsa. Qordis urlò, ma senza
più aria nei polmoni non ne uscì che un rantolo soffocato, perso tra gli
schianti delle ossa che si spezzavano.
Se Bane fosse stato ancora in grado di provare simili emozioni, forse
avrebbe compatito quell’uomo. Invece lasciò cadere il cadavere a terra e poi
entrò nella tenda di Kaan, diretto alla strumentazione per le comunicazioni.
Era il momento di avviare la seconda fase del piano.

Sul ponte della Nightfall, la grande ammiraglia della flotta Sith, il


comandante incaricato, l’ammiraglio Adrianna Nyras, rispose alla chiamata
sul comlink personale che aveva al polso.
“Qui ammiraglio Nyras”, fece. “Aspetto i vostri ordini, Lord Kaan”.
“Lord Kaan non c’è”, rispose una voce sconosciuta. “Sono Lord Bane”.
Esitò solo un istante prima di rispondere. Era raro che Kaan permettesse
ad altri di usare il suo trasmettitore personale, anche se ogni tanto poteva
succedere. Visto poi il crittaggio di sicurezza, era praticamente impossibile
che qualcun altro potesse accedere a quel canale. Il messaggio doveva
provenire dall’accampamento Sith, valeva a dire che stava davvero
parlando con un Signore Oscuro.
“Perdonatemi, Lord Bane”, si scusò. “Quali sono i vostri ordini?”
“Rapporto sulla situazione”.
“Invariata”, replicò lei con voce pronta e carica di efficienza e precisione
militare. “Il blocco è intatto. La flotta Jedi resta appena fuori portata”.
“Attaccare”.
“Come, prego?”, domandò lei, tanto sorpresa da dimenticare per un
attimo con chi parlasse.
“Mi ha sentito, ammiraglio”, la aggredì la voce dall’altra parte.
“Attaccare la flotta Jedi”.
Quell’ordine non aveva senso. L’ultima volta che Kaan le aveva parlato,
le aveva ordinato di mantenere la posizione a tutti i costi. Finché
rimanevano in orbita, il blocco restava pressoché impenetrabile. Tuttavia, se
avessero rotto la formazione per attaccare la flotta non avrebbero potuto
impedire che le navi da sbarco portassero i rinforzi sulla superficie.
Era pur vero che, durante il servizio prestato coi Sith, le erano stati
impartiti altri strani ordini. Correva voce che Kaan possedesse un potere
mistico, un qualche modo per influire sull’esito di una battaglia tramite il
potere della Forza sovvertendo ogni strategia convenzionale. E se un
Signore Oscuro le dava un ordine diretto usando il sistema di
comunicazione personale nella tenda di Lord Kaan, non avrebbe certo corso
un rischio rifiutandosi di obbedire.
“Ai vostri ordini, Lord Bane”, rispose. “Attaccheremo i Jedi”.

L’incendio spinse il generale Hoth e il suo esercito a uscire dal rifugio


della foresta. Abbandonando gran parte delle scorte e dell’attrezzatura, le
sue truppe sfrecciarono tra gli alberi in una folle corsa per sfuggire al calore
e alle fiamme incandescenti. Chi inciampava o cadeva veniva subito
inghiottito dal muro di fuoco. In un modo o nell’altro, riuscirono perlopiù a
non farsi raggiungere e alla fine emersero dai boschi sulle pianure rocciose
dove si erano già svolte molte battaglie.
I Sith erano lì ad attenderli.
La prima ondata di seguaci di Hoth a uscire dagli alberi venne falcidiata
dai blaster. Quelli subito dietro riuscirono ad attivare le spade laser e a
respingere molti dei letali raggi mentre si catapultavano sulle colline, solo
per essere fagocitati dalle schiere di soldati Sith che correvano ad
affrontarli.
Pur se in inferiorità, i Jedi se la cavarono più che egregiamente.
Respinsero le file dei Sith, rompendone le righe e seminando disordine e
scompiglio. Hoth, però, sapeva che la vera trappola non era ancora scattata.
Nell’abbattere tutti i nemici così sciocchi da capitare a tiro della sua
spada laser, il generale avvertì che non erano quelli i veri Sith. I Signori
Oscuri non si trovavano tra loro: non era che un’orda senza volto, un puro e
semplice diversivo.
Dove sono? Cos’ha in mente Kaan?
La risposta giunse un attimo più tardi, quando dall’orizzonte scese in
picchiata un battaglione di speeder che fece piovere sul campo di battaglia
una raffica mortale. I cannoni pesanti, guidati dal potere del Lato Oscuro,
avevano una precisione micidiale e decimarono le truppe di Hoth,
ribaltando le sorti della battaglia di nuovo a favore dei Sith.
Già in passato Hoth aveva dovuto affrontare situazioni impossibili,
trionfando. Eppure, sapeva che quello scontro era destinato a essere
l’ultimo.
Ma farò sì che la mia resistenza finale entri nella leggenda, pensò, senza
cedere alla paura, anche se non rimarrà nessuno che possa raccontarla.
La nebbia della guerra rese indistinti i contorni del mondo. Le urla e i
rumori della battaglia si fusero in un ruggito sordo e indistinguibile.
Terriccio e pietre sollevati dai colpi di blaster che esplodevano al suolo gli
piovvero addosso, unendosi al sudore e al sangue di amici e nemici.
Vibrava ogni colpo come se potesse essere l’ultimo, sapendo che prima o
poi uno speeder lo avrebbe inquadrato e sarebbe sceso a finirlo.

Il velivolo di Lord Kaan sfrecciava avanti e indietro sopra i soldati che si


affannavano sul campo di battaglia, volando su quella baraonda come un
torvo uccello predatore. Da quel punto di vantaggio, era evidente che
avrebbero vinto lo scontro. Eppure, anche se male equipaggiati, in
inferiorità e assaliti da una grandine di colpi, i Jedi combattevano
valorosamente fino alla fine. Non c’era alcun accenno di ritirata, nessuna
rottura dei ranghi. Non poté fare a meno di ammirarne il coraggio e la
devozione alla causa, anche a dispetto di una morte certa. Se le sue truppe
fossero state tanto salde nella loro lealtà e determinazione, avrebbe vinto la
guerra molto tempo prima. Ma all’esercito dei Sith non mancava certo la
disciplina: erano addestrati bene quanto i Jedi o i soldati della Repubblica.
Era di convinzione che mancavano.
Il loro morale era stato troppo spesso mantenuto solo grazie alla pura
forza della volontà di Kaan, che ne rafforzava la determinazione con la
meditazione da battaglia ogni qualvolta la situazione sembrava cupa o
disperata. Ma la sua tecnica non era onnipotente. Affrontando un intero
esercito di Jedi che si difendeva dai poteri dei Sith, non avrebbe potuto far
molto di più che instillare un leggero senso di disagio: un piccolo
vantaggio, che però era facile annullare. Sulla superficie di quel mondo
sciagurato, la Confraternita e i suoi servi erano stati costretti a combattere
facendo affidamento solo su se stessi, senza il suo intervento. E fin troppe
volte non si erano dimostrati all’altezza.
In certe occasioni, aveva dubitato che i suoi seguaci fossero capaci di
riuscire da soli. C’erano casi in cui si domandava se le truppe dei Sith non
facessero così tanto affidamento sull’immenso vantaggio della sua
meditazione da aver dimenticato come combattere senza di essa. Ma
finalmente la vittoria era a portata di mano. I Jedi stavano opponendo
un’ultima resistenza, magnifica a vedersi, ma il risultato era inevitabile.
C’era solo un’altra cosa che Lord Kaan doveva fare prima della fine del
combattimento.
Continuò a zigzagare, sparando di tanto in tanto ai nemici di sotto mentre
cercava la sua vera preda. Finalmente la vide: il generale Hoth, proprio al
centro della mischia, circondato da un drappello di valorosi e da un
inarrestabile oceano di nemici Sith che s’infrangeva loro addosso in
continuazione, più e più volte.
Inquadrato il suo bersaglio con le armi del velivolo, scese in picchiata,
deciso a uccidere il rivale con uno spettacolare passaggio radente. Appena
un attimo prima di sparare, però, il suo speeder fu scosso da un’enorme
esplosione che lo fece sbandare a sinistra. I suoi colpi si abbatterono a terra,
creando un profondo solco alcuni metri a sinistra del generale e lasciandolo
miracolosamente illeso.
Hoth continuò a combattere come se non se ne fosse neanche accorto, ma
Kaan eseguì una brusca virata inclinando il velivolo per vedere cosa fosse
successo. Prima di completare l’inversione, il cielo accanto a lui fu
squarciato da un altro scoppio e vide un altro speeder precipitare fuori
controllo al suolo.
Capendo che li attaccavano dall’alto, sollevò lo sguardo. Sullo scontro
stavano scendendo due grosse navi da battaglia, che sparavano per abbattere
gli speeder uno dopo l’altro. Sulla sezione inferiore di ogni nave erano
chiaramente visibili le insegne del Maestro Jedi Valenthyne Farfalla.
Impossibile! Kaan imprecò tra sé. Non è possibile che abbiano sfondato
il blocco, non con quelle navi! Eppure ci erano riusciti, in qualche modo.
Un’altra serie di colpi eliminò altri tre dei piccoli speeder, e Kaan capì
che all’improvviso era il suo esercito a essere in svantaggio. Gli speeder
erano più rapidi e maneggevoli delle navi Jedi, ma i loro blaster non
potevano neppure scalfire gli scafi altamente corazzati delle avversarie.
Per un breve attimo, pensò che forse sarebbe riuscito a radunare gli altri
Signori Oscuri. Se avessero concentrato i loro attacchi, avrebbero potuto
abbattere le navi da battaglia, anche se con ingenti perdite tra le proprie file.
Accantonò però quell’idea con la stessa velocità.
Non fu l’unico ad aver notato l’arrivo dei rinforzi Jedi. Di fronte a un tale
rapporto di forze, i Signori Oscuri al suo comando avevano reagito
nell’unico modo possibile: dandosi alla fuga. Quasi tutti gli altri speeder
avevano già interrotto i loro voli radenti per eseguire manovre evasive,
decisi soltanto a salvarsi la pelle. E, una volta dileguati i loro Signori e
Maestri, anche le orde di soldati Sith li avrebbero seguiti a breve. La vittoria
imminente stava per trasformarsi in una catastrofica sconfitta.
Scagliando tremende maledizioni sia contro i Jedi che contro i propri
alleati, Lord Kaan seppe che gli restava una sola possibilità. Zigzagando e
scansando due colpi che avrebbero dovuto spazzarlo via dal cielo, si unì alla
ritirata.
CAPITOLO 29

Sul viso del generale Hoth non poté fare a meno di passare l’ombra di un
sorriso, nonostante i caduti e i feriti sparsi sul campo di battaglia. La
trappola dei Sith era scattata, ma in qualche modo l’Esercito della Luce era
sopravvissuto.
Riconobbe le insegne di Farfalla sulle navi da battaglia che giravano
intorno alla pianura, bloccando i Sith in fuga dietro i loro ripari finché le
truppe a terra non poterono circondarli e obbligarli alla resa. La maggior
parte ubbidì rapidamente. Tutti sapevano che i Jedi preferivano prendere
prigionieri anziché uccidere i nemici, proprio come sapevano che li
avrebbero trattati con riguardo. Naturalmente, lo stesso non poteva dirsi dei
Sith.
Dalle navi da battaglia stava uscendo un piccolo convoglio di speeder,
che scesero a unirsi ai superstiti a terra. Sul velivolo in testa, il generale
riconobbe Farfalla proprio mentre atterrava.
Il giovane Jedi scese dallo speeder, in silenzio ma tendendo la mano in
segno di cauto saluto. Indossava abiti sgargianti ed eccentrici come sempre,
ma per qualche motivo la cosa non infastidì Hoth come aveva fatto un
tempo. Gli si avvicinò e lo strinse in un abbraccio deciso, facendolo ridere
per la sorpresa. Hoth lo sciolse dalla stretta solo quando Farfalla cominciò a
tossire.
“Salute, Lord Hoth”, disse Farfalla una volta liberato, con un profondo
inchino e un gesto elegante. Rialzandosi, scrutò il campo di battaglia e la
sua espressione si fece più grave. “Mi dispiace solo non essere potuti
arrivare prima”.
“È già un miracolo che siate qui, Farfalla”, rispose Hoth. “Ho persino
paura a chiedere come siate riusciti a superare il blocco, in caso fosse solo il
sogno delirante di un uomo in punto di morte”.
“Non preoccuparti, generale, sono io, in carne e ossa. Riguardo alla tua
domanda, è molto semplice: i Sith hanno rotto la formazione per attaccare
la nostra flotta. Mentre i loro incrociatori e le Dreadnaught si concentravano
sulle nostre navi da battaglia, siamo riusciti a inviare varie cannoniere in
vostro aiuto”.
“E il resto della flotta?”, domandò Hoth preoccupato. “I Sith avevano
quasi il doppio delle vostre navi”.
“Hanno combattuto finché non abbiamo sfondato il blocco, poi si sono
disimpegnati e ritirati con perdite sorprendentemente ridotte”.
“Bene”. Il generale annuì, poi aggrottò la fronte. “Ma ancora non capisco
perché mai abbiano attaccato la flotta. Non ha senso!”
“Posso solo supporre che abbiano ricevuto ordini da qualcuno sulla
superficie”.
“Kaan era sul punto di spazzarci via”, insistette Hoth. “L’ultima cosa che
avrebbe fatto sarebbe stata dare quell’ordine”.
Entrambi i Jedi rimasero in silenzio per un attimo, riflettendo
sull’accaduto. Infine, Farfalla domandò: “È possibile che abbiamo un
ignoto alleato nella Confraternita dell’Oscurità?”
Hoth scosse la testa. “Ne dubito. È più probabile che i Sith abbiano
finalmente cominciato a combattersi tra loro. Era inevitabile”.
Il Maestro Farfalla fece un cenno di assenso. “Sono le vie del Lato
Oscuro, dopotutto”.

Quando il suo speeder atterrò all’accampamento Sith, Kaan era furente.


Come avevano fatto le cose ad andare così male in così poco tempo?
Avevano la vittoria in pugno, e invece all’improvviso si trovavano sull’orlo
della sconfitta.
Attraversò l’accampamento come un fulmine, diretto alla sua tenda,
ignorando le occhiate interrogative di Githany e degli altri. Volevano una
spiegazione, ma non ne aveva da darne, non ancora. Non finché non avesse
ricevuto un rapporto dall’ammiraglio Nyras. Come aveva fatto Farfalla a
sfondare lo stramaledetto blocco?
La sua rabbia era tale che non si accorse dello speeder di Qordis
parcheggiato accanto alla sua tenda, né delle gocce di sangue sul suolo. In
quel caso, forse avrebbe esaminato i dintorni e trovato il corpo nascosto nel
sottobosco. Ma Kaan era concentrato unicamente sulla tenda e sui sistemi di
comunicazione al suo interno.
Trovò Bane ad attenderlo, in piedi e immobile come una roccia.
“Già di ritorno, Kaan?”, domandò. “Cos’è successo alla tua gloriosa
battaglia?”
“Rinforzi”, ringhiò Kaan. “Farfalla ha trovato un modo per sfondare il
blocco”.
“Ho detto io alla tua flotta d’attaccare i Jedi”, disse Bane, con tanta
disinvoltura che pareva stesse parlando del tempo.
Kaan rimase a bocca aperta. Sospettava un tradimento, ma non si
aspettava che il colpevole lo avrebbe ammesso apertamente! “Ma...
perché?”
“Volevo tutti i Jedi assieme qui, su Ruusan”, rispose Bane.
“Pazzo scriteriato!”, gridò Kaan, agitando freneticamente le braccia come
se fossero scosse da spasmi incontrollabili. “Avevamo la vittoria in pugno!
Hoth era sconfitto!”
“Questo è il tuo obiettivo, non il mio. Io punto a un trofeo ben più grande
della testa del generale Hoth. Non è che un uomo”.
Kaan scoppiò in una risata simile a un latrato. “Sappiamo tutti cos’è che
cerchi, Darth Bane. Sei qui per prenderti la Confraternita”.
Bane fece spallucce con indifferenza, come se non gli importasse di
nessuna delle due cose.
Sembrava così calmo, sicuro di quel che faceva. Kaan riuscì a stento a
trattenersi dal balzare alla gola di quell’uomo tutto muscoli. Non capiva
cos’aveva fatto? Non si accorgeva di averli condannati tutti?
Si accasciò stancamente su una sedia. “Se li condurrai contro i Jedi, sarà
un massacro”.
Questa volta fu Bane a ridere: un verso basso e sinistro. “Come sei
caduto in fretta nella disperazione, Kaan. Solo poche ore fa sembravi così
certo di vincere!”
“Questo prima che arrivassero Farfalla e i suoi rinforzi”, ribatté Kaan.
“Quando avevamo i numeri e la superiorità aerea dalla nostra parte. Ora
grazie a te non c’è più nulla. Non abbiamo più alcuna possibilità di
sconfiggerli”.
“Io sì”, dichiarò Bane.
Kaan si raddrizzò sulla sedia. Ecco di nuovo quella sicurezza incrollabile.
Bane conosceva qualcosa di cui lui era all’oscuro. Un qualche trucco. “Un
altro rituale come l’ultimo?”, azzardò.
“Conosco molti rituali, molti segreti. E ho la forza di usarli”.
Kaan sbiancò. “La bomba psichica”, mormorò.
“Tu hai fallito!”, affermò Bane. “Adesso sarò io a guidare la
Confraternita sul sentiero della vittoria”.
“Cosa ne sarà di me?”, domandò Kaan, conoscendo già la risposta.
“Puoi giurarmi fedeltà con tutti gli altri”, gli rispose Bane, “oppure
morire qui, in questa tenda”.
Lord Kaan sapeva di non poter competere con Bane né fisicamente né
con la Forza. Ma non aveva intenzione di arrendersi tanto facilmente; non
finché poteva ancora contare sull’astuzia, l’ingegno e le sue speciali doti
persuasive.
“Credi davvero che gli altri ti seguiranno?”, domandò, adoperando la
Forza per piantare i primi semi del dubbio nella mente del rivale. “Dopo
l’ultimo rituale, ti guardano ancora con sospetto”.
Sui lineamenti pronunciati di Bane passò un’ombra d’incertezza. Kaan
aumentò la sua invisibile pressione coercitiva e continuò a parlare. “La
Confraternita è uguaglianza, non servitù. Chiedere agli altri
d’inginocchiarsi a te li farà soltanto allontanare... o rivoltare”.
Si alzò mentre Bane si sfregava il mento, nervoso, soppesando quelle
argomentazioni. “Come pensi reagiranno, quando dirò loro che hai
architettato l’arrivo dei rinforzi Jedi?”
Un lampo di rabbia illuminò gli occhi neri di Bane e la mano gli sfrecciò
all’impugnatura della spada laser.
“Uccidermi non proteggerà il tuo segreto”, lo avvertì Bane. “Gli altri
sanno che non ti trovavi con noi in battaglia all’arrivo delle navi di Farfalla.
Probabilmente, molti già sospettano che tu li abbia traditi”.
Kaan incalzò ancora di più con la Forza, tentando di distorcere e ribaltare
i pensieri stessi di Bane. “Sarai pure il più forte tra noi, ma non puoi
sconfiggerci tutti, Bane, non da solo”.
L’uomo barcollò e si afferrò la testa. Incespicò fino alla sedia e vi crollò,
facendo gemere il legno sotto la sua mole. Si chinò in avanti, premendosi le
mani con forza sulle tempie.
“Hai ragione”, disse a denti stretti. “Hai ragione”.
“C’è ancora speranza, tuttavia”, disse Kaan, avvicinandosi e posando una
mano consolatrice sulle ampie spalle dell’altro Sith. “Seguimi, e impedirò
agli altri di mettersi contro di te. Unisciti a noi nella Confraternita!”
Bane annuì lentamente, poi si voltò a fissare Kaan con un’espressione di
affranta disperazione. “E i Jedi? E le loro navi da battaglia?”
Kaan si raddrizzò, allentando poco a poco la presa mentale sull’altro.
“Possiamo neutralizzare la superiorità aerea ritirandoci nelle grotte”, disse.
“Conosco il generale Hoth, e ci seguirà. Lì scateneremo su di loro la bomba
psichica”.
Bane scattò in piedi, impaziente. Kaan constatò con piacere che i suoi
poteri persuasivi non avevano perso lo smalto. Neppure Bane era immune
alle sue manipolazioni. “Farò come dici, Lord Kaan!”, esclamò. “Insieme
distruggeremo i Jedi!”
“Calma, Bane”, lo invitò Kaan, toccandolo con pensieri tranquillizzanti.
Aveva neutralizzato la minaccia, ma sapeva che si trattava soltanto di effetti
temporanei. Col tempo, l’ostilità di Bane sarebbe tornata a galla e così i
suoi sogni di usurpare il mantello del comando. Doveva trovare una
soluzione più definitiva.
“Purtroppo”, disse, “rimangono delle... complicazioni”.
“Delle complicazioni?”
“Posso convincere il resto della Confraternita a perdonare il tuo
tradimento, ma solo una volta distrutti i Jedi. Fino ad allora, dovrai
nasconderti”.
L’espressione ferita e confusa di Bane era patetica, ma Kaan era abituato
a provocare emozioni così scoperte in coloro che manipolava.
“Condurrò la Confraternita nelle grotte”, spiegò. “Sono forte abbastanza
da unire le loro menti e scatenare la bomba psichica senza il tuo aiuto. Tu
rimarrai qui nella tenda fino a notte, poi uscirai dal campo di nascosto. Non
farti vedere finché l’impresa non sarà compiuta”.
“E una volta distrutti i Jedi tornerai da me?”
“Sì”, promise Kaan con voce solenne. “Una volta spariti i Jedi, tornerò da
te con tutta la forza della Confraternita!” Quello se non altro era vero. Non
avrebbe lasciato nulla al caso, e non avrebbe più sottovalutato il suo
avversario. Bane era già sopravvissuto a un tentativo di assassinio. Stavolta
gli avrebbe scatenato addosso le schiere dei suoi seguaci al gran completo.
“Farò come ordini, Lord Kaan”, rispose Bane, inginocchiandosi e
chinando il capo. Kaan si girò e uscì nell’accampamento, marciando dritto
verso la propria tenda, dov’erano nascoste le pagine con il rituale della
bomba psichica.

Bane rimase in quella posizione di supplica finché il Signore Oscuro non


fu più in vista, poi si alzò e si spazzò la polvere dalle ginocchia con aria
infastidita. Aveva percepito i tentativi di Kaan di dominare la sua mente, ma
non avevano avuto più effetto di un coltello arrugginito sulla corazza di un
cinghiale dei ghiacci haluriano. Nonostante ciò, aveva colto l’occasione per
eseguire una recita degna del più grande attore di Alderaan.
Kaan era convinto che la bomba psichica fosse la chiave per la vittoria
dei Sith, e stava per intrappolare il resto della Confraternita nella sua tela di
follia. La seconda fase del suo piano era in azione. Entro la notte del giorno
seguente tutto sarebbe finito.

Le pattuglie giravano incessanti nella notte lungo il perimetro


dell’accampamento Jedi, sempre attente e vigili. Non facevano la guardia
soltanto contro gli attacchi dei Sith, ma anche contro le invasioni dei
bouncer volanti e irsuti.
Le creature indigene di Ruusan, un tempo docili e pacifiche, erano
impazzite per via della catastrofe che aveva devastato la foresta. Prima
erano una vista gradita e familiare, e si raggruppavano sui feriti e sui malati
per proiettare immagini mentali di conforto e lenimento. In quel momento
emergevano dal buio in branchi temibili provocando incubi spaventosi che
causavano sofferenza, terrore e panico in tutti coloro che erano vicini.
Le pattuglie non potevano far altro che sparare a vista a quelle creature
tormentate prima che diffondessero la loro follia tra i Jedi. Un compito
ingrato ma necessario, così come molti altri su Ruusan.
Per fortuna le pattuglie erano riuscite a tenere a bada i bouncer, e l’umore
all’interno dell’accampamento era di cauto ottimismo. Dopo la sconfinata
disperazione dei mesi passati, al generale Hoth il loro tiepido entusiasmo
sembrava quasi euforia.
Non erano più loro le prede che si rannicchiavano nei recessi della
foresta e sopravvivevano solo finché restavano nascoste. I Jedi erano in
vantaggio: il loro nuovo accampamento si ergeva nelle grandi pianure,
proprio ai bordi del campo di battaglia dove le sorti della guerra erano
cambiate. E in quel momento erano i Sith a nascondersi.
Benché la fuga disperata dalle fiamme e il successivo combattimento lo
avessero stremato, il generale si rifiutava di dormire. C’erano troppi dettagli
a cui provvedere, troppe faccende che richiedevano la sua attenzione.
Oltre a organizzare le pattuglie per proteggersi dai bouncer, doveva
supervisionare la distribuzione delle nuove scorte. Le navi di Farfalla
avevano consegnato cibo, medipac e celle energetiche nuove per blaster e
scudi personali, di cui c’era un bisogno disperato. Dal momento che quasi
tutti i loro beni erano andati persi nell’incendio innaturale che aveva raso al
suolo le foreste, il generale voleva accertarsi che tutte le sue truppe si
procurassero equipaggiamento nuovo e venissero curate a dovere prima di
concedersi il lusso di riposare.
Si fece strada tra decine di fuochi da campo morenti e schiere di soldati
addormentati. Erano ancora a corto di tende per le truppe, ma chi non ne
aveva si accontentava di stendersi a terra e di passare le notti torride sotto le
stelle.
“Generale!”, lo chiamò una voce, sorprendentemente forte nella notte
altrimenti silenziosa. Hoth si girò e vide Farfalla che gli correva incontro,
con passo sicuro nonostante l’oscurità e scavalcando agilmente i soldati
addormentati sul suo cammino.
Fermandosi per permettergli di raggiungerlo, Hoth gli restituì l’inchino
ormai abituale, ma sempre bizzarro, con un cortese cenno del capo. “Ci
sono novità, Maestro Farfalla?”
Il più giovane dei due annuì con entusiasmo. “I nostri ricognitori hanno
avvistato i Sith. Kaan li sta conducendo a est, verso le colline”.
“Probabilmente sono diretti ai sistemi di caverne e gallerie”, suppose
Hoth. “Cercano di toglierci il vantaggio aereo”.
Farfalla sorrise. “Per fortuna abbiamo già perlustrato la zona.
Conosciamo quasi tutti i principali punti di accesso da e verso la superficie.
Una volta entrati nei tunnel, potremo circondare le uscite. Saranno in
trappola!”
“Mmm...” Hoth si carezzò la folta barba. “Non è da Kaan commettere
uno sbaglio tattico così evidente”, mormorò. “Ha in mente qualcosa”.
“Potrei indicare ad alcuni ricognitori di seguirli nei tunnel e tenerli
d’occhio”, suggerì Farfalla.
“No”, rispose con fermezza Hoth dopo appena un attimo di riflessione.
“Kaan starà attento alle spie. Non gli consegnerò nessuno dei nostri pronto
per l’interrogatorio”.
“Potremmo prenderli per fame”, propose Farfalla. “Costringerli alla resa
senza spargere altro sangue”.
“Sarebbe la migliore soluzione”, ammise il generale. “Purtroppo non
penso potremo concederci tanto tempo”. Fece un gran sospiro e scosse la
testa stancamente. “Non so perché Kaan sia diretto nelle grotte... so solo
che dovremo far qualcosa per fermarlo”. Il suo volto fu indurito dalla
determinazione. “Suona la sveglia e assembla le truppe. Lo seguiremo”.
“Non vorrei mettere in dubbio i tuoi ordini, generale”, esordì Farfalla col
massimo tatto, “ma non è possibile che Kaan ti stia attirando in trappola?”
“Ne sono quasi certo”, ammise Hoth. “Ma tanto sarebbe una trappola
destinata a scattare. Preferirei non dargli il tempo di prepararsi. Se saremo
fortunati, riusciremo a prenderlo prima che sia pronto”.
“Ai tuoi ordini, generale”, disse Farfalla con un altro dei suoi elaborati
inchini. Aggiunse poi: “Ma dovresti riposarti. Sei così pallido e sciupato da
sembrare un Sith tu stesso”.
“Non posso dormire ora, amico mio”, rispose Hoth posando una mano
robusta sulla spalla delicata di Farfalla. “Sono qui dall’inizio di questa
guerra. Sono stato io a guidare l’Esercito della Luce su Ruusan per
affrontare la Confraternita di Kaan. Devo vedere questa storia fino in
fondo”.
“Ma fino a quando riuscirai ad andare avanti senza dormire, generale?”
“Abbastanza. Ho la sensazione che tutto finirà entro domani notte... in un
modo o nell’altro”.
CAPITOLO 30

Le caverne erano fredde e umide, ma tutt’altro che buie. Le pareti e il


soffitto di roccia erano orlati di cristalli che catturavano la fioca luce delle
torce a luminescenza e la riflettevano in un gioco di rifrazioni in tutta la
grotta. Sul pavimento scintillavano delle pozzanghere ed enormi stalagmiti
si protendevano verso il soffitto, da cui scendeva una foresta riflessa di
stalattiti; le punte stillavano gocce d’acqua che cadevano nelle pozzanghere,
increspandone la superficie. In certi punti le protuberanze in alto e in basso
si erano fuse assieme, unite dai secoli di sedimentazione dell’incessante
stillicidio. Quelle immense colonne mettevano in soggezione: grandi eppure
allo stesso tempo fragili e delicate.
Kaan non aveva tempo per ammirare la bellezza naturale dell’ambiente.
Sapeva che i ricognitori Jedi avevano preso nota del loro spostamento nel
rifugio sotterraneo. E sapeva che il generale Hoth non avrebbe atteso a
lungo prima di seguirlo.
Benché estesa, la caverna era affollata dal resto della Confraternita. Ogni
Signore dei Sith sopravvissuto, con la notevole eccezione di Darth Bane,
era radunato lì con lui per l’ultima resistenza. Il resto dell’esercito si
trovava a guardia delle principali entrate ai tunnel sotterranei, con l’ordine
di respingere l’inevitabile attacco dei Jedi quanto più a lungo possibile.
Alla fine, quelli all’esterno sarebbero stati soverchiati, ma Kaan
confidava che il loro numero avrebbe ritardato Hoth a sufficienza da
completare il rituale della bomba psichica.
“Riunitevi intorno a me”, gridò agli altri. “È il momento”.
Githany sapeva che in Lord Kaan c’era qualcosa di profondamente
sbagliato. Aveva sospettato che qualcosa non quadrasse quand’erano fuggiti
dai rinforzi Jedi in arrivo. Una volta atterrati all’accampamento Kaan era
scomparso nella tenda delle comunicazioni, uscendone qualche istante più
tardi per poi recarsi nella propria tenda senza dire una parola. Quando però
era tornato, la forza irresistibile del suo carisma era di nuovo al proprio
posto. Era andato da loro non come un capo sconfitto che cercasse
ammenda, ma indomito e sprezzante come un eroe conquistatore. Era fiero
e orgoglioso, l’immagine stessa della gloria e della forza.
Si era rivolto a loro con voce stentorea e parole coraggiose, emanando
autorità. Aveva parlato di congiungere le menti in un rituale che avrebbe
sorpassato di gran lunga quello in cui Bane li aveva diretti solo poche ore
addietro. Aveva raccontato di un’arma tremenda che avrebbero scatenato
sui nemici, riattizzando la speranza e la fede in loro e rivelando l’esistenza
della bomba psichica.
Aveva promesso la vittoria, come aveva già fatto in passato. E, com’era
sempre accaduto in precedenza, la Confraternita lo aveva seguito ancora
una volta. Erano andati con lui in quella caverna, benché Githany pensasse
che fosse più esatto dire che vi erano stati condotti... o attirati.
Lo aveva seguito con tutti gli altri, spinta dalla passione delle sue parole
e dalla pura e semplice grandezza della sua personalità. L’idea che potesse
essere instabile o inadatto a comandare era stata dimenticata nel corso
dell’inebriante pellegrinaggio notturno verso il riparo della caverna. Una
volta raggiunta la destinazione, tuttavia, quella sferzata di esaltazione era
svanita, sostituita da una cruda e innegabile chiarezza. E finalmente aveva
visto la verità, rivelata dall’illuminazione delle torce a luminescenza che si
riflettevano nei cristalli alle pareti.
L’aspetto e il vestiario di Kaan non erano insoliti, a parte la polvere, il
lerciume e il sangue del recente scontro. Ma Githany gli vide uno sguardo
folle negli occhi: erano sbarrati e spiritati, e ardevano con feroce intensità
sfavillando come le schegge di cristallo che li circondavano. Quegli occhi le
ricordarono la notte in cui lo aveva sorpreso nella tenda, quella in cui le era
apparsa la visione del ritorno di Bane.
Allora era sembrato scarmigliato e delirante, perso e confuso. Per un
breve attimo lo aveva scorto com’era davvero: un falso profeta, incapace di
vedere al di là delle proprie illusioni. Poi quell’immagine tremolante era
scomparsa, dimenticata fino ad allora.
Tuttavia, a quel punto il ricordo le tornò con forza e Githany seppe di star
seguendo un pazzo. L’arrivo dei rinforzi Jedi e quella sconvolgente
sconfitta avevano spezzato qualcosa dentro di lui. Kaan li stava conducendo
alla rovina, e nessuno degli altri riusciva ad accorgersene.
Non osava prendere la parola contro di lui. Non lì nella caverna,
circondata da suoi seguaci ancora una volta fedeli fino al fanatismo. Voleva
allontanarsi di soppiatto, scivolare in silenzio nell’oscurità al riparo dalla
luce delle torce e fuggire da quel tremendo destino. Ma rimase chiusa nella
stretta dei corpi che avanzarono all’ordine di Kaan.
“Riunitevi. Più vicino. Formate un cerchio, un anello di potere”.
Sentì la mano di lui afferrarle strettamente il polso e tirarla in modo che il
suo corpo fosse premuto a sé. Il suo tocco era gelido, anche nel freddo della
grotta. “Stammi accanto, Githany”, sussurrò. “Condivideremo questo
momento speciale”.
A voce alta gridò: “Unite le vostre mani così come dobbiamo unire le
menti”.
Le dita della mano destra le si avvolsero intorno alla sua sinistra,
immobilizzandola in una stretta fredda come il ghiaccio e salda come il
duracciaio. Uno degli altri Signori dei Sith le prese l’altra mano e seppe che
ogni speranza di fuga era sparita.
Kaan, accanto a lei, intonò un canto.

Githany non era la sola a percepire qualcosa di strano in Lord Kaan.


Come tutti gli altri, Lord Kopecz era stato travolto dall’esaltazione della
bomba psichica. Aveva esultato insieme a loro quando Kaan aveva descritto
il modo in cui avrebbe annientato i Jedi imprigionandone gli spiriti; si era
unito con zelo alla calca che lo aveva seguito fino alla caverna.
Tuttavia, in quel momento il suo fervore si era dissolto. Pensava di nuovo
con razionalità e si rendeva conto che quel piano era una completa follia. Si
trovavano nell’epicentro della detonazione della bomba. Qualunque arma
tanto potente da distruggere i Jedi avrebbe ucciso anche loro.
Kaan aveva promesso che la forza delle volontà combinate avrebbe
consentito loro di sopravvivere all’esplosione, ma in quel momento Kopecz
nutriva seri dubbi. Era una promessa che sapeva di pia illusione, nata da una
mente disperata che si rifiutava di ammettere la sconfitta. Se Kaan aveva
sempre avuto quella bomba psichica, perché non l’aveva usata prima?
L’unica risposta logica era che le conseguenze lo spaventassero. E
sebbene Kaan potesse aver abbandonato quella paura nella sua follia,
Kopecz era ancora abbastanza assennato da conservare la propria.
I restanti Sith avanzarono in risposta all’ordine di Kaan, ma Kopecz lottò
contro l’ondata e si mosse in senso opposto. Nessuno degli altri sembrò
accorgersene.
Kaan era circondato da una barriera di corpi, che ostruivano gran parte
della luce delle torce a luminescenza. Il Twi’lek si mosse con cautela tra le
ombre verso l’uscita principale della caverna, con sorprendente silenziosità
viste le sue dimensioni. Entrando nel tunnel che conduceva alla superficie,
non si girò né si guardò indietro e accelerò soltanto quando udì la
Confraternita intonare un canto lento e ritmico.
Naturalmente, fuggire era impossibile. Ormai i Jedi dovevano aver
circondato l’intero complesso di gallerie. Ben presto avrebbero ingaggiato
le truppe Sith in superficie, nel tentativo di sfondare il blocco e seguire
Kaan ponendo fine all’ultima grande battaglia di Ruusan. Kopecz non
sapeva se avrebbero fatto in tempo; una parte di sé, in realtà, sperava di sì.
In definitiva, tuttavia, voleva accertarsi che la cosa non lo riguardasse. Si
sarebbe unito ai difensori in superficie per opporre un’ultima resistenza ai
Jedi. La morte era inevitabile; era disposto ad accettarla. Sapeva però che
avrebbe preferito perire di spada laser o di un colpo di blaster, piuttosto che
essere colto dall’esplosione della bomba psichica.

Il canto era semplice: dopo averlo ripetuto una volta sola, Kaan fu
raggiunto dal resto della Confraternita, che ripeté quella cantilena
inconsueta a ritmo fisso e costante. Le loro voci rimbombavano sulle pareti
di roccia, e le antiche parole si mescolarono tra loro riecheggiando in tutta
la caverna.
Githany avvertiva il potere che iniziava a raccogliersi al centro
dell’anello, come un vortice impetuoso che girava sempre più veloce. Sentì
la presa sui suoi pensieri coscienti che venivano trascinati giù e cognizione,
mente e persino identità fagocitate dal turbine. L’umidità e il gelo della
caverna svanirono, così come il riverbero delle voci. Non sentiva più
l’odore delle muffe e dei funghi che crescevano negli angoli, né percepiva
la pressione delle mani che stringevano le sue. Alla fine, lo sfavillio dei
cristalli riflettenti e la luce delle torce a incandescenza si dissolsero.
Noi siamo una cosa sola. La voce era di Kaan, eppure era anche sua. Noi
siamo il Lato Oscuro. Il Lato Oscuro è noi.
Pur non riuscendo più a udire la loro cantilena poteva percepirla, persino
con la mente che le scendeva sempre più in profondità verso il centro.
Rendendosi conto che presto avrebbe perso sia la capacità che il desiderio
di liberarsi dal rituale di Kaan, cercò di lottare contro ciò che le stava
succedendo.
Era come nuotare contro la risacca inarrestabile nel cuore di un oceano.
Sentì che le parole del loro canto ripetuto assumevano una forma materiale,
che si avvolgevano intorno alla loro volontà collettiva intrappolandola,
plasmandola, aggregandola in un corpo che si concretizzava a gran velocità.
Avvertite il potere del Lato Oscuro. Consegnatevi a esso. Cedete
all’unificazione. Lasciate che diventiamo una cosa sola.
Dalle profondità del proprio animo, Githany fece appello alle sue ultime
forze. In qualche modo furono sufficienti, e così fu in grado di divincolarsi
e di liberare la mente da quell’empia comunione.
Indietreggiò barcollando, con un rantolo, sentendosi inondare dalla
consapevolezza come acqua che rompesse una diga. Vista, udito, olfatto e
tatto tornarono tutti assieme travolgendole la mente sconvolta. La luce delle
torce si era fatta fioca e attenuata, come se anch’essa venisse assorbita dal
rituale. Il canto proseguì: era diventato così forte da farle male alle
orecchie. La temperatura era calata così bruscamente da condensarle il
respiro, e sulle stalattiti e sui bordi delle pozzanghere avevano iniziato a
formarsi minuscoli cristalli di ghiaccio.
All’improvviso, si accorse che né Kaan né nessun altro le stringeva le
mani. Erano tutti disposti ad anello, con le braccia alzate verso il centro,
inconsapevoli del mondo circostante. Dapprima parve che afferrassero il
nulla, ma quando gli occhi le si abituarono al buio scorse una strana
distorsione nell’aria.
Githany non poté sopportare di guardarla per più di un attimo. C’era
qualcosa di tremendo e innaturale in quella fluttuazione del tessuto della
realtà, che le fece volgere le spalle inorridita.
Bane aveva ragione, si rese conto. Kaan ci ha portato alla rovina!
Qualcosa diede un lieve strattone alla sua mente; un tirare delicato che si
faceva sempre più deciso, minacciando di risucchiarla insieme agli altri. Si
ritrasse, malferma, dalla blasfema cerimonia e dai suoi officianti ormai
condannati, socchiudendo gli occhi per vedere dove andasse sul pavimento
accidentato.
Bane ha cercato di avvertirmi, ma non l’ho ascoltato. I suoi pensieri
erano un caotico ammasso di rimorso, disperazione e paura. Mentre una
parte della mente la redarguiva per lo sbaglio, un’altra la costringeva ad
allontanarsi dall’abominio che la Confraternita stava generando.
La fuga la condusse fino a una parete della grotta, che seguì in cerca di
una via di uscita. La coercizione esercitata dal rituale diventava sempre più
forte. Sentiva che la stava chiamando, invitandola a unirsi agli altri e a
condividerne le sorti.
Non aveva un piano, né alcuna idea di dove stesse andando. Doveva
semplicemente fuggire, sparire, uscire di lì; andarsene prima che venisse
assorbita di nuovo. Nella pietra si apriva uno spazio ristretto: l’entrata di un
piccolo tunnel, ampio appena a sufficienza da farla passare. Vi infilò il
corpo, la pietra frastagliata che le fendeva gli abiti e la pelle.
Il dolore era insignificante. Il mondo fisico stava scivolando via di
nuovo. Githany, disperata, riuscì a lanciarsi in avanti, schiantandosi a terra,
poi strisciò febbrilmente su mani e ginocchia lungo il tunnel.
Lontano; doveva allontanarsi. Andarsene dal rituale, da Kaan;
allontanarsi dalla bomba psichica prima che fosse troppo tardi.

I soldati Sith di guardia all’entrata dei tunnel erano forti di numero, ma


deboli d’animo. Non opposero che una resistenza simbolica a Farfalla e al
resto dell’unità di avanscoperta Jedi che li attaccò. L’ultima battaglia di
Ruusan si trasformò in breve tempo in una resa collettiva, in cui i nemici
gettavano a terra le armi e imploravano pietà.
Farfalla camminava fra i suoi soldati, osservando la scena. Il generale
Hoth lo seguiva da vicino col grosso dell’esercito. Lo avrebbe sorpreso
trovare la guerra già conclusa al suo arrivo.
“Come va?”, domandò Farfalla a un comandante dell’unità.
“Le truppe dei Sith ci superano di tre a uno”, rispose il comandante,
burbero. “E stanno cercando di arrendersi tutti contemporaneamente. Ci
vorrà un po’”.
Farfalla rise di gusto e gli diede una pacca sulla spalla. “Ben detto”,
concordò. “A volte penso che la gente segua i Sith soltanto perché sa che se
perdono la prenderemo viva”.
“Non osare prendere vivo me, Farfalla”, disse una voce gorgogliante.
Girando la testa di scatto, il Jedi vide un Twi’lek muscoloso che giaceva a
terra ferito.
Quest’ultimo si rimise in piedi con gran sforzo e Farfalla si sorprese
vedendo che indossava le vesti di un Signore dei Sith. Aveva il volto
talmente ricoperto di sangue fresco e raggrumato, in gran parte suo, che il
Jedi impiegò qualche momento a riconoscerlo.
“Kopecz”, disse finalmente, ricordando i giorni molto lontani in cui era
stato un Jedi. “Sei ferito”, proseguì Farfalla, tendendo la mano in un’offerta
di amicizia. “Getta le armi e potremo aiutarti”.
La robusta mano del Twi’lek gliela sferzò via. “Ho scelto tempo fa da che
parte stare”, sbraitò. “Promettimi la morte, Jedi, e ti darò un avvertimento.
Ti svelerò il piano di Kaan”.
Uno sguardo alle ferite del Signore Oscuro suggerì a Farfalla che in ogni
caso al nemico non restava molto da vivere. “Che cosa sai?”
Kopecz tossì, soffocato dal sangue che gli si raccoglieva in gola. “Prima
promettimelo”, disse in un soffio.
“Ti darò la morte, se è ciò che davvero desideri. Lo giuro”.
Il Twi’lek rise, una spuma rossastra che gli saliva alle labbra. “Bene. La
morte è una vecchia amica. Ciò che progetta Kaan è molto peggio”. E
raccontò della bomba psichica a Farfalla, facendo scendere un brivido sulla
schiena del Maestro Jedi con le sue parole. Quando ebbe terminato, chinò la
testa e trasse un profondo respiro per raccogliere le forze, poi attivò la
spada laser.
“Mi hai promesso la morte”, disse. “Desidero cadere in combattimento.
Se ti tratterrai, sarai tu a morire qui, oggi. Hai capito?”
Il Maestro Farfalla annuì, cupo, e accese la sua arma.
Lord Kopecz si batté con valore nonostante le ferite, ma non poteva
competere con un Maestro Jedi riposato e illeso. Alla fine, Farfalla
mantenne la promessa.
CAPITOLO 31

La scena che comparve agli occhi del generale Hoth quando il suo esercito
giunse sul campo di battaglia fu inattesa e altrettanto gradita. Si era
preparato a vedere il teatro di una strage macabra e sanguinosa, un feroce
combattimento in cui nessuno era disposto a chiedere o dare quartiere. Si
era immaginato che i corpi dei caduti sarebbero stati sparsi ovunque,
calpestati dai piedi di chi ancora lottava disperatamente per non morire. Era
arrivato aspettandosi una guerra.
Assistette invece a qualcosa di talmente incredibile che la sua prima
reazione fu di sospetto. Era un trucco, una trappola? Le sue paure si
placarono quando riconobbe i volti familiari e sorridenti dei Jedi che lo
circondavano.
Nell’osservare i postumi dell’ultima battaglia di Ruusan, anche sul suo
volto spuntò un sorriso. C’era solo una manciata di morti, e a giudicare dai
loro abiti era evidente che pochi erano appartenuti all’Esercito della Luce.
Gran parte dei nemici era stata fatta prigioniera: sedevano a terra, tranquilli,
in gruppi numerosi, circondati da Jedi armati. Eppure, sebbene i Jedi
sorvegliassero attentamente i nemici catturati, ridevano e scherzavano fra
loro.
Con la Forza avvertì ondate e ondate di gioia e di sollievo che si
promanavano dalle truppe di Farfalla. Anche i soldati al suo comando le
avvertirono ben presto. Al vedere quell’evidente vittoria, ruppero i ranghi e
corsero a unirsi alle celebrazioni dei compagni ridendo ed esultando. Hoth
resisté all’impulso di gridare l’ordine di ricomporsi e li lasciò andare.
Quella guerra interminabile era finita!
Ma, camminando tra la calca, mentre accettava i saluti militari e le
congratulazioni del suo seguito, si rese conto che c’era qualcosa di strano. Il
campo di battaglia era pieno di Sith tranquilli e disarmati... ma tra loro non
vide un solo Signore Oscuro.
Non servì ad alleviare quel disagio la vista del Maestro Farfalla che gli
correva incontro a tutta velocità dall’altra estremità del campo.
“Generale”, disse Farfalla, frenando e riprendendo fiato, ansante. Gli
rivolse un rapido saluto militare. Il fatto che non eseguisse il suo classico
inchino stravagante contribuì ad alimentare l’ansia crescente di Hoth.
“Devo averci messo più di quanto credessi a radunare le mie truppe”,
scherzò il generale, sperando che quell’inquietudine non fosse altro che una
sciocca paranoia. “Sembra che abbiate già vinto la guerra”.
Farfalla scosse la testa. “La guerra non è conclusa, non ancora. Kaan e la
Confraternita, i veri Sith, si sono rifugiati nelle grotte. Stanno per scatenare
un qualche genere di arma Sith; una cosa chiamata ‘bomba psichica’”.
Una bomba psichica? Hoth aveva sentito menzionare quell’arma molto
tempo prima, mentre studiava sotto il suo Maestro al Tempio dei Jedi su
Coruscant. Stando ad alcune leggende, gli antichi Sith avevano la capacità
di plasmare il Lato Oscuro in una sfera di potere concentrato per poi
rilasciarne l’energia in un’unica e catastrofica esplosione. Chiunque fosse
sensibile alla Forza, tanto i Sith quanto i Jedi, ne sarebbe stato consumato e
il suo spirito intrappolato nel vuoto creatosi all’epicentro della
deflagrazione.
“Kaan è impazzito?”, disse, pur essendo chiaramente una domanda
retorica.
“Dobbiamo evacuare, generale”, insistette Farfalla. “Far allontanare tutti
il prima possibile”.
“No”, rispose Hoth. “Non funzionerà. Se ci ritiriamo, Kaan e la
Confraternita fuggiranno. Non ci metteranno molto a procurarsi altro
appoggio e a ricominciare da capo la guerra”.
“E la bomba psichica?”, si ostinò Valenthyne.
“Se Kaan possiede un’arma simile”, spiegò tetro il generale, “la userà, se
non qui altrove. Magari nei Mondi del Nucleo, o su Coruscant stesso. Non
posso permetterlo.
“Kaan vuol vedermi morto. Devo andare nelle grotte ad affrontarlo. Devo
costringerlo a far esplodere la bomba qui, su Ruusan. È l’unico modo per
far sì che tutto finisca davvero”.
Farfalla s’inginocchiò. “Allora ti accompagnerò, generale. E lo stesso
faranno tutti quelli che mi seguono”.
Allungando le mani forti e irruvidite, il generale Hoth prese Farfalla per
le spalle e lo fece alzare. “No, amico mio”, disse sospirando, “non potrai
accompagnarmi in questo viaggio”.
Quando l’altro fece per protestare, lo fermò sollevando una mano e
continuò. “Quando Kaan scatenerà l’arma, chiunque si trovi nella grotta
morirà. I Sith saranno spazzati via, ma non posso permettere che accada a
tutto il nostro Ordine. La galassia avrà bisogno di Jedi per la ricostruzione,
una volta che la guerra sarà finita. Tu e gli altri Maestri dovete vivere, per
poterli guidare e difendere la Repubblica come abbiamo sempre fatto dalla
sua fondazione”.
Non c’era molto da dire per ribattere alla saggezza delle sue parole, e
dopo aver ponderato per un attimo il Maestro Farfalla chinò la testa,
accettandole in silenzio. Quando la risollevò, aveva le lacrime agli occhi.
“Di certo non andrai da solo”, obiettò.
“Vorrei farlo”, rispose Hoth. “Ma in tal caso, i Signori Oscuri mi
abbatteranno semplicemente con le loro spade e non avrò risolto nulla.
Kaan deve rendersi conto che le sue uniche scelte sono arrendersi oppure...”
Lasciò a intendere il seguito.
“Avrai bisogno di Jedi sufficienti a convincere la Confraternita che uno
scontro fisico è inutile. Almeno cento. Altrimenti, non farà scoppiare la
bomba”.
Hoth annuì. “Non ordinerò a nessuno di venire con me. Vai in giro a
cercare volontari. E accertati di rendere ben chiaro che nessuno ne uscirà
vivo”.
Praticamente ogni singolo membro dell’Esercito della Luce si offrì per la
missione, nonostante il pericolo. Il generale si rese conto che non avrebbe
dovuto sorprendersi. Dopotutto si trattava di Jedi, disposti a sacrificare
tutto, persino la vita, per un bene superiore. Alla fine, fece ciò che sin
dall’inizio sapeva di dover fare: scelse di persona coloro che lo avrebbero
accompagnato verso morte certa.
Ne selezionò esattamente novantanove. La decisione fu di una difficoltà
straziante. Se ne avesse presi meno, forse i Sith sarebbero riusciti a fuggire
dalla grotta combattendo, solo per far esplodere la bomba psichica altrove.
Più ne sceglieva, però, più vite di Jedi rischiava di gettar via inutilmente.
Decidere chi portare con sé fu ancora più difficile. I Jedi che avevano
servito più a lungo al suo fianco, che si erano uniti all’Esercito sin dal
principio della campagna, erano quelli che conosceva meglio. Sapeva
quanto avessero già dato in quella guerra, ed erano quelli che meno avrebbe
desiderato condurre alla morte. Eppure, erano anche quelli col maggior
diritto di stargli accanto nel momento della fine, e fu così che effettuò le sue
scelte. I più anziani sarebbero andati con lui, e gli altri si sarebbero ritirati
con Lord Farfalla.
I cento Jedi, novantanove più lo stesso Hoth, erano fermi all’entrata dei
tunnel, ansiosi. Sopra di loro la notte scurì il cielo, che si riempì di
minacciose nubi temporalesche. Il generale, però, non diede l’ordine di
avanzare. Voleva dare a Farfalla e agli altri tempo sufficiente per
allontanarsi. Se fosse stato possibile avrebbe ordinato di lasciare Ruusan a
tutti coloro che non dovevano entrare nella grotta, ma non c’era tempo.
Dovevano semplicemente allontanarsi il più possibile e sperare di essere
fuori dalla portata dell’arma di Kaan.
Quando caddero le prime gocce di pioggia si rese conto di non poter
aspettare oltre e diede l’ordine di procedere. Marciarono nel tunnel
ordinatamente, entrando nelle caverne nelle profondità del pianeta.
La prima cosa di cui Hoth si accorse durante la discesa fu la velocità con
cui la galleria si raffreddò, come se ne venisse risucchiato ogni calore.
Subito dopo avvertì la tensione nell’aria: pulsava materialmente di un
potere enorme e inimmaginabile, tenuto a stento a freno. Il potere del Lato
Oscuro. S’impedì di pensare a ciò che sarebbe successo quando quel potere
fosse stato liberato.
Avanzarono lentamente, attenti a trappole o agguati. Non ne trovarono.
Anzi, non videro l’ombra di un Sith finché non raggiunsero la grande
caverna centrale nel cuore del sistema di gallerie.
Il generale Hoth era in testa, con una torcia a luminescenza in una mano e
la spada laser accesa nell’altra. Quando mise piede nella caverna, la sua
torcia sfarfallò all’improvviso e si attenuò notevolmente. Persino
l’illuminazione prodotta dalla spada laser parve affievolirsi, riducendosi a
un debolissimo filo incandescente.
Quando la vista si abituò alla penombra, riuscì a distinguere le sagome
dei Signori dei Sith che si ergevano in cerchio in fondo alla caverna. Erano
rivolti all’interno, con le mani sollevate verso il centro. Stavano in piedi
senza muoversi, con la bocca spalancata, i volti fiacchi, gli occhi
inespressivi. Con molta cautela si avvicinò ai corpi immobili,
domandandosi se fossero vivi, morti o intrappolati in un terribile stato
intermedio.
Avvicinandosi, riconobbe una figura in piedi da sola al centro del
cerchio: Lord Kaan. All’inizio non lo aveva visto: quella zona era più buia
del resto della grotta. Pareva che sopra di lui aleggiasse una nube nera, da
cui si dipartivano tentacoli di tenebre liquide che lo avvolgevano in un
abbraccio inquietante.
Bastò uno sguardo al capo della Confraternita a far svanire nel generale
ogni speranza di riportarlo alla ragione. Il viso del Signore dei Sith era
pallido ed esausto; aveva i lineamenti tesi come se la pelle non bastasse a
ricoprire il cranio. Un sottile strato di ghiaccio gli orlava capelli e
sopracciglia. Aveva un’espressione di crudele arroganza, e l’occhio sinistro
si muoveva in scatti e spasmi incontrollabili. Fissava dritto davanti a sé con
un’intensità mortale, senza battere le ciglia né spostare lo sguardo mentre
Hoth e i suoi Jedi riempivano pian piano la caverna.
Parlò soltanto dopo che tutti i Jedi furono entrati. “Benvenuto, Lord
Hoth”. Aveva la voce sforzata e affaticata.
“Cerchi di spaventarmi, Kaan?”, domandò Hoth con un passo avanti.
“Non temo la morte”, continuò. “Non m’importa di morire. Non
m’importerebbe di uccidere tutti i Jedi, se ciò significasse la fine dei Sith”.
Kaan girò velocemente la testa da una parte all’altra, facendo sfrecciare
lo sguardo avanti e indietro per la caverna come se contasse i Jedi che
aveva davanti. Sogghignò con le labbra contratte e sollevò le mani.
Il generale fece la sua mossa, balzando in avanti per uccidere Kaan prima
che potesse scatenare la sua arma finale. Non fece in tempo. Il Signore
Oscuro batté le mani... e la bomba psichica esplose.
Ogni anima viva nella grotta cessò di esistere in un attimo. Abiti, carne e
ossa si vaporizzarono. Stalattiti, stalagmiti e persino le enormi colonne di
pietra si ridussero in polvere. L’eco assordante dello scoppio risalì in ogni
galleria, crepaccio e fessura si aprisse nella caverna mentre l’ondata di
energia distruttiva iniziava a diffondersi.

Githany era intrappolata nel labirinto di passaggi sotterranei. Aveva perso


l’orientamento fuggendo dal rituale di Kaan, e in quel momento stava
vagando senza meta per chilometri e chilometri di tunnel naturali nella vana
ricerca di uno sbocco sulla superficie.
Alla fioca luce della torcia a luminescenza, vide una fessura alla sua
sinistra e la seguì per metri prima di arrivare a un vicolo cieco. Gridando
un’imprecazione, si girò e tornò indietro.
Era furiosa. Con Kaan per aver portato la Confraternita sull’orlo della
distruzione. Con se stessa per averlo seguito laggiù. Ed era furiosa anche
con Bane. Dentro di sé non c’era dubbio che in qualche modo avesse
architettato il tutto. Aveva manipolato Kaan e gli altri, spingendoli verso la
loro distruzione. Ma non era quel tradimento a farle rabbia. Bane l’aveva
abbandonata. L’aveva gettata via insieme agli altri, lasciandola a morire e
andandosene a ricostruire i Sith.
Il tunnel davanti a lei si diramava in due direzioni. Si fermò, attingendo
alla Forza per acuire i sensi nella speranza di trovare un qualche indizio
sulla via da prendere. Dapprima non sentì nulla; poi colse il sussurro di una
debolissima brezza proveniente dalla galleria a sinistra. L’aria era fresca,
pulita: veniva dalla superficie!
Mentre correva lungo il passaggio, sentì rabbia e frustrazione dissolversi.
Sarebbe sopravvissuta! Il terreno irregolare iniziò a risalire bruscamente,
permettendole di vedere un barlume di luce naturale molto distante.
Raddoppiò gli sforzi, pensando già al modo in cui avrebbe ottenuto la sua
vendetta.
Avrebbe dovuto essere astuta e subdola. Aveva sottovalutato Bane fin
troppe volte in passato. Sarebbe stata paziente, e non avrebbe colpito prima
di esser certa che fosse il momento giusto.
Il primo passo era trovarlo e offrirsi di diventare sua apprendista. Dentro
di sé, non aveva dubbi che avrebbe accettato. Aveva bisogno di qualcuno
che lo servisse: quelli erano i modi del Lato Oscuro. Avrebbe imparato da
lui, sottomettendosi al suo volere. Forse ci sarebbero voluti anni, addirittura
decenni, ma col tempo le avrebbe insegnato tutto ciò che sapeva. Solo
allora, una volta in possesso di tutti i suoi segreti, gli si sarebbe rivoltata
contro. Sarebbe diventata il Maestro e avrebbe preso un proprio
apprendista.
Githany era a meno di cinquanta metri dall’uscita quando avvertì i primi
effetti della bomba psichica. Cominciarono con un tremito del suolo.
D’istinto, temette che si trattasse di un terremoto o di una frana, che
l’avrebbe sepolta sotto tonnellate di roccia e polvere mentre era a un passo
dalla superficie. Ma quando sentì il potere del Lato Oscuro sfrecciare verso
di lei lungo il passaggio si rese conto che stava per subire una sorte assai
peggiore. Chi si trovava nell’epicentro era stato vaporizzato. Githany, colta
ai margini del raggio d’azione della bomba, non fu così fortunata. L’onda di
pura energia del Lato Oscuro le si abbatté addosso un attimo dopo,
investendola come una folata di vento assassino; le risucchiò la vita dal
corpo, strappandole l’anima dal suo involucro mortale. Le sue carni
avvizzirono, e i suoi bei lineamenti si mummificarono prima ancora che
avesse tempo di urlare. Poi l’onda la superò, veloce com’era venuta. Il suo
guscio senza vita rimase in perfetto equilibrio per un attimo, poi si rovesciò
e cadde al suolo disintegrandosi in un cumulo di cenere.

Sulla superficie, a molti chilometri di distanza, Farfalla e gli altri Jedi


sentirono la terra tremare e seppero che il loro generale era perito. Un
attimo dopo, nelle loro menti eruppero le urla straziate dei Jedi e dei Sith
colti nell’esplosione, la cui forza vitale era stata strappata e risucchiata nel
vuoto al cuore del fenomeno.
Molti Jedi piansero di dolore, comprendendo quanto grande fosse stato il
sacrificio dei compagni. Gli spiriti dei defunti sarebbero rimasti prigionieri
in eterno, pietrificati per sempre nella stasi.
Il Maestro Valenthyne Farfalla, ormai a capo di ciò che restava
dell’Esercito, avvertì quella tristezza con la stessa intensità di tutti gli altri.
Ma non era il momento di dolersi. Morto il generale Hoth, il fardello del
comando passava a lui, e c’erano ancora molte cose da fare.
“Capitano Haduran, forma una squadra”, ordinò. “Perlustreremo l’area
intorno alle gallerie in cerca di superstiti”. Sapeva che nessuna creatura
vivente avrebbe potuto resistere al potere della bomba psichica, ma era
possibile che qualche Sith fosse fuggito prima della detonazione. Dopo un
tale sacrificio non aveva intenzione di lasciar scappare nessun membro
della Confraternita.
Il capitano gli rivolse un rapido saluto militare e si girò per andarsene.
Poco prima che si allontanasse, Farfalla aggiunse: “E fate attenzione ai
bouncer. Con l’altro rituale sono impazziti; chi sa cosa può aver fatto
questo”.
“E se li avvistassimo, signore?”
“Uccideteli”.

A molti chilometri di distanza, nella direzione opposta, anche Darth Bane


avvertì le ripercussioni dell’esplosione. Percepì l’ondata di energia del Lato
Oscuro che lo sorpassava, abbastanza forte da farlo rabbrividire persino a
quella distanza. Una volta svanita, adoperò la Forza per cercare eventuali
sopravvissuti. Come si aspettava, non avvertì nulla. Non c’era più nessuno:
Kaan, Kopecz, Githany... tutti morti.
La Confraternita dell’Oscurità era stata epurata. Per quanto ne sapevano i
Jedi, i Sith si erano estinti. E Bane aveva intenzione di lasciarglielo credere.
Era l’unico Signore Oscuro dei Sith, l’ultimo nel suo genere. Su di lui
sarebbe ricaduto il peso della ricostruzione; stavolta, però, l’avrebbe fatto
nel modo giusto. Anziché molti, sarebbero stati solo due: un Maestro e un
apprendista. Uno per incarnare il potere, l’altro per bramarlo.
Per sopravvivere i Sith dovevano sparire, diventare terrificanti creature
mitologiche. Lontano dagli occhi dei Jedi, avrebbero potuto ricercare i
segreti perduti del Lato Oscuro fino a controllarlo pienamente. Solo allora,
una volta che la vittoria sui nemici fosse stata certa, avrebbero strappato il
velo d’ombra per rivelarsi.
Sarebbe stato un cammino lungo e arduo. Forse ci sarebbero voluti anni o
decenni prima di poter attaccare di nuovo la luce; forse addirittura secoli.
Ma Bane era paziente: capiva ciò che sarebbe accaduto e cosa andasse fatto.
Forse lui non sarebbe vissuto per assistere al trionfo del Lato Oscuro, ma i
posteri avrebbero perpetuato la sua eredità. Un giorno, in un remoto futuro,
la Repubblica sarebbe caduta e i Jedi periti, e tutta la galassia si sarebbe
inchinata dinanzi a un Signore Oscuro dei Sith. Era inevitabile; era la via
del Lato Oscuro.
Soddisfatto della sua opera su Ruusan, iniziò il lungo cammino verso il
punto dove aveva nascosto la nave. Sapeva che i Jedi rimasti sarebbero
andati in cerca di superstiti, ma al loro arrivo sarebbe stato già molto
lontano.
Tuttavia, qualcosa ancora lo turbava. Per poter concretizzare tutto ciò,
avrebbe dovuto trovare un apprendista idoneo. Uno in cui la Forza scorresse
potente, ma che non fosse ancora contaminato dagli insegnamenti dei Jedi.
Da qualche parte, avrebbe dovuto trovare un bambino degno di ereditare
tutto il potere del Lato Oscuro.
EPILOGO

Rain si agitò nel sonno, ma non si svegliò. Qualcuno la chiamava, ma lei


non voleva rispondere. Nei suoi sogni poteva continuare a immaginare di
essere a casa coi cugini, di condurre una vita semplice ma felice.
Svegliandosi sapeva che le sarebbe toccato guardare in faccia la realtà:
quella vita non esisteva più.
Svegliati, Rain...
Era scomparsa nel momento in cui il Jedi (il Maestro Torr, così si
chiamava) li aveva reclutati nell’Esercito della Luce. Lei non ci sarebbe
neppure voluta andare. Ma i suoi cugini, Bug e Tomcat, sì. Erano gli unici
parenti che aveva e non voleva restare da sola. Era giovane, appena dieci
anni, ma la Forza era potente in lei. E così il Maestro Torr le aveva
permesso di venire.
Aveva detto che li stava portando su Ruusan, dove sarebbero diventati
Jedi, ma non era mai successo. La loro navetta era stata attaccata non
appena entrati nell’atmosfera. Quel che era accaduto dopo era solo una
macchia confusa, ma ricordava un’esplosione e delle urla. Un’ala si era
spezzata e all’improvviso si era ritrovata a cadere. Il relitto fumante era
diventato un puntino nel cielo sopra di lei, che vorticava privo di controllo
mentre Rain cadeva giù, sempre più giù, finché...
Rain, sveglia!
Laa! Laa l’aveva salvata, ed era Laa che la stava chiamando. Aprì
lentamente gli occhi e si alzò a sedere, ancora assonnata.
Rain dormito molto. Ora Rain deve svegliarsi.
“Sono sveglia, Laa”, disse al bouncer che si librava su di lei. Laa l’aveva
salvata dalla caduta, afferrandola mentre precipitava da centinaia di metri
sopra la superficie di Ruusan.
Brutti sogni, Rain.
“No”, rispose lei. “Non brutti sogni, Laa. Ho sognato che ero di nuovo a
casa”. Laa non le parlava mai fisicamente; si sentiva soltanto le parole nella
testa. Comunicavano tramite il potere della Forza, le aveva spiegato una
volta. Ma quando Rain rispondeva, pronunciava sempre ad alta voce le
parole.
Arrivano brutti sogni.
Rain si accigliò, cercando di capire cosa volesse dirle Laa di preciso. A
volte, quando i bouncer parlavano di sogni, in realtà intendevano
qualcos’altro. A volte era come se avessero visioni del futuro. Si ricordò
cos’aveva detto Laa poco prima che le fiamme divampassero in tutta la
foresta: Brutti sogni, Rain. Sogni di morte.
L’incendio aveva ucciso quasi tutti gli altri bouncer. I sopravvissuti erano
tutti impazziti. Tutti tranne Laa. Rain, in qualche modo, l’aveva salvata.
Aveva usato la Forza, schermandole entrambe dalle fiamme di morte e
distruzione, ma non era del tutto sicura di come avesse fatto. Era...
successo, ecco tutto. Tutto ciò che restava a lei e a Laa erano loro stesse.
Arrivano brutti sogni, ripeté il bouncer.
Qualche ora prima aveva sentito qualcosa di strano: la terra che le
tremava sotto i piedi come per un’esplosione molto, molto lontana. Era di
quello che parlava Laa? Era quello il brutto sogno, oppure l’amica stava
cercando di avvertirla di qualcosa che non era ancora successo?
“Non capisco”, disse, guardando i cespugli intorno alla radura in cui si
era messa a dormire. Non vedeva niente di anormale. Non ancora,
comunque.
Addio, Rain.
Nelle parole di Laa c’era una tristezza lancinante che trafisse il cuore di
Rain come una lama, ma ancora non sapeva di cosa parlasse.
Prima di poterglielo chiedere, dagli arbusti venne un rumore. Si girò e
vide due uomini irrompere nella radura. Capì immediatamente che si
trattava di Jedi: indossavano le stesse vesti marroni del Maestro Torr, e vide
spade laser appese alle cinture. Ognuno impugnava anche un grosso fucile
blaster.
“Un bouncer!”, gridò uno dei due. “Attenta!”
Reagirono con tanta velocità che quando aprirono il fuoco i loro
movimenti non furono che una chiazza sfocata. Quando l’urlo uscì dalle
labbra di Rain, l’amica era già morta.
Urlava ancora quando il primo Jedi le corse vicino. “Stai bene, piccola?”,
le domandò allungando una mano.
Lei lo aggredì, d’istinto. Non sapeva come avesse fatto; non era stato
neppure un pensiero cosciente. Sapeva solo che aveva sparato alla sua
amica. Aveva ucciso Laa!
“Cos’ha...” La frase s’interruppe quando lei gli spezzò il collo con la
Forza. Il compagno sbarrò gli occhi per l’orrore, ma la bambina ruppe il
collo anche a lui prima che potesse fare qualcosa.
Solo allora Rain smise di urlare e cominciò invece a piangere, il corpo
squassato da grandi singhiozzi mentre andava a stringersi alla soffice
pelliccia del corpo ancora caldo di Laa, nel punto in cui era caduta a terra.

Bane la trovò lì: una bambina umana che piangeva sui resti di uno dei
bouncer indigeni di Ruusan. Nei paraggi giacevano i cadaveri di due
giovani Jedi, le teste piegate ad angolazioni disgustosamente innaturali.
Impiegò un solo istante a ricostruire l’accaduto.
Mentre si avvicinava, la bambina alzò lo sguardo su di lui, gli occhi gonfi
e arrossati. Suppose che avesse nove anni, dieci al massimo. Avvertiva il
potere della Forza che ardeva in lei, alimentato dal dolore, dalla rabbia e
dall’odio. Se anche non lo avesse percepito, i corpi spezzati dei Jedi che le
giacevano davanti erano mute prove delle sue abilità.
Non parlò, ma restò in piedi in silenzio. I singhiozzi della bambina
cessarono; tirò su col naso e se lo strofinò col dorso della mano. Poi si alzò
in piedi e tentò di muovere un passo verso di lui.
“Chi sei tu?”, le domandò, con voce profonda e minacciosa.
Lei non si ritrasse né fuggì, anche se la sua risposta fu esitante. “Mi
chiamo Rain... cioè, Zannah. I miei cugini mi chiamavano Rain, ma sono
morti adesso. Il mio vero nome è Zannah”.
Bane annuì, capendo perfettamente. Rain: un soprannome, appellativo
d’infanzia e d’innocenza. Un’innocenza che era ormai perduta.
“Sai chi sono io?”, le domandò.
Lei annuì e fece un altro passo avanti. “Sei un Sith”.
“Non hai paura di me?”
“No”, rispose lei scuotendo la testa, anche se Bane sapeva che non era
del tutto sincera. Avvertiva la sua paura, ma era sepolta sotto emozioni ben
più forti: dolore, rabbia odio, desiderio di vendetta.
“Ho ucciso molte persone”, la avvertì Bane. “Uomini, donne... bambini,
anche”.
Lei rabbrividì, ma non cedette. “Anch’io sono un’assassina”.
Bane posò lo sguardo sui cadaveri dei Jedi, poi tornò a rivolgersi alla
ragazzina che gli stava davanti con aria di sfida. Era lei quella giusta? Era
stata la Forza a condurlo su quella strada nel tornare alla nave? Lo aveva
portato lì, in quel preciso momento, semplicemente per fargli trovare la sua
apprendista?
Le pose un’ultima, fondamentale domanda. “Conosci le vie della Forza?
Capisci la vera natura del Lato Oscuro?”
“No”, ammise Rain, senza mai distogliere lo sguardo. “Ma puoi
insegnarmi tu. Sono giovane. Imparerò”.

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