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Titolo originale:
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Indice
INTRODUZIONE
PARTE UNO
CAPITOLO 1
CAPITOLO 2
CAPITOLO 3
CAPITOLO 4
CAPITOLO 5
CAPITOLO 6
CAPITOLO 7
CAPITOLO 8
PARTE DUE
CAPITOLO 9
CAPITOLO 10
CAPITOLO 11
CAPITOLO 12
CAPITOLO 13
CAPITOLO 14
CAPITOLO 15
CAPITOLO 16
CAPITOLO 17
CAPITOLO 18
CAPITOLO 19
CAPITOLO 20
PARTE TRE
CAPITOLO 21
CAPITOLO 22
CAPITOLO 23
CAPITOLO 24
CAPITOLO 25
CAPITOLO 26
CAPITOLO 27
CAPITOLO 28
CAPITOLO 29
CAPITOLO 30
CAPITOLO 31
EPILOGO
Tanto tempo fa, in una galassia lontana lontana...
INTRODUZIONE
Sul finire della Vecchia Repubblica i Sith, seguaci del Lato Oscuro della
Forza e antichi nemici dell’Ordine dei Jedi, erano soltanto due: un Maestro
e un apprendista. Eppure, non era sempre stato così. Mille anni prima che
la Repubblica crollasse e l’imperatore Palpatine salisse al potere, esisteva
un esercito di Sith...
Dessel era perso nelle sofferenze del lavoro, a stento consapevole del
mondo circostante. Il battere incessante del martello idraulico gli faceva
dolere le braccia; schegge di roccia si staccavano dalla parete della grotta in
cui scavava, rimbalzandogli sulla visiera protettiva e pungendogli il viso e
le mani scoperte. L’aria era satura di nubi di pulviscolo atomizzato che gli
oscuravano la vista; la grotta pregna del gemito stridente del martello
mentre soffocava ogni altro suono, sprofondando un centimetro dopo
l’altro, con agonizzante lentezza, nella ricca vena di cortosite intrecciata
nella roccia di fronte a sé.
La cortosite, inattaccabile da calore ed energia, era preziosa nella
costruzione di armature e scudi, sia per grandi aziende commerciali che
militari, soprattutto con la galassia in guerra. Estremamente resistenti ai
colpi di blaster, si riteneva che le leghe di cortosite sopportassero persino la
lama di una spada laser. Purtroppo, le stesse proprietà che ne decretavano il
valore ne rendevano anche molto ardua l’estrazione. Le torce al plasma
erano praticamente inutili: ci sarebbero voluti giorni per rimuovere col
calore anche solo una piccola sezione di roccia venata di cortosite. L’unico
modo efficace per estrarla era usare la forza bruta dei martelli idraulici che
si abbattevano senza posa sulla vena del minerale, liberando la cortosite un
pezzetto alla volta.
Si trattava di uno dei materiali più duri della galassia. La forza dei colpi
logorava in fretta la testa del martello, smussandola finché non diventava
quasi inservibile. Il pulviscolo intasava i pistoni idraulici, facendoli
inceppare. Estrarre la cortosite aveva effetti dannosi sull’attrezzatura, e
ancora di più sui minatori.
Des dava addosso alla roccia da quasi sei ore standard. Il martello pesava
più di trenta chili e la fatica di tenerlo sollevato e premuto contro la
superficie cominciava a farsi sentire. Le braccia gli tremavano per lo
sfinimento; i polmoni cercavano affannosamente l’aria, inalando invece le
nubi di sottile polvere sollevata dalla testa dello strumento. Persino i denti
gli dolevano: aveva l’impressione che la vibrazione glieli stesse strappando
dalle gengive.
Ma i minatori di Apatros venivano pagati in base alla quantità di cortosite
che riportavano. Se si fosse fermato, sarebbe arrivato un altro minatore a
lavorare su quella vena, prendendosi una quota dei profitti. E a Des non
piaceva spartire le quote.
Il gemito del motore si fece più acuto, un lamento funereo che conosceva
fin troppo bene. A ventimila giri al secondo, il motore succhiava polvere
come un bantha assetato dopo una lunga traversata nel deserto. L’unico
modo per impedirlo era una costante opera di manutenzione e pulizia, ma la
Compagnia Mineraria, la Outer Rim Oreworks, preferiva acquistare
attrezzatura economica anziché sganciare crediti per ripararla. Des sapeva
esattamente cosa sarebbe successo un secondo prima che accadesse. Il
motore saltò.
I meccanismi idraulici si paralizzarono con un tremendo schianto e dal
retro del martello fuoriuscì una nube di fumo nero. Maledicendo la ORO e
la sua politica aziendale, Des tolse il dito ormai rattrappito dal grilletto e
gettò a terra lo strumento consumato.
“Spostati, ragazzo”, disse una voce.
Uno degli altri minatori, Gerd, si avvicinò e tentò di scostare Des con una
spallata per poter attaccare la vena col proprio martello. Lavorava in
miniera da quasi vent’anni standard e il suo corpo era diventato un
groviglio di muscoli duri come acciaio. Ma anche Des si trovava in quel
luogo da dieci anni, sin da quando era piccolo, ed era ben piazzato, quanto
il più anziano dei due, oltre che più grosso. Non si mosse.
“Non ho finito”, disse. “Il martello è in panne, tutto qui. Dammi il tuo e
continuerò ancora un po’”.
“Conosci le regole, ragazzo. Se smetti di lavorare, qualcun altro può
prendere il tuo posto”.
Tecnicamente, Gerd aveva ragione. Ma nessuno contraddiceva mai un
altro minatore che menzionasse un malfunzionamento dell’attrezzatura, a
meno di non cercare la rissa.
Des diede una rapida occhiata intorno. La stanza era vuota, eccezion fatta
per loro due, distanti meno di mezzo metro l’uno dall’altro. Non si sorprese;
di solito, Des sceglieva grotte ben lontane dalla rete principale dei tunnel.
La presenza di Gerd in quel posto doveva essere più di una semplice
coincidenza.
Des lo conosceva sin da quando aveva memoria. Era stato amico di
Hurst, suo padre. Quando lui aveva cominciato a lavorare in miniera, a
tredici anni, era stato molto maltrattato dai minatori più grandi. Il peggiore
di tutti era stato proprio suo padre, ma uno dei fomentatori più assidui era
Gerd, da cui aveva ricevuto una buona dose di cattiverie, insulti e ogni tanto
schiaffi.
Le molestie erano cessate poco dopo che il padre di Des era morto per un
fatale attacco di cuore, ma non perché ai minatori dispiacesse per il giovane
orfano. Alla morte di Hurst, l’adolescente alto e gracile che si divertivano a
tormentare era ormai diventato una montagna di muscoli dal temperamento
collerico e manesco. Quello del minatore era un mestiere duro, la cosa più
simile ai lavori forzati che esistesse al di fuori di una colonia carceraria
della Repubblica. Chiunque lavorasse nelle miniere di Apatros si faceva
robusto, e Des lo era diventato più di tutti. Una mezza decina di occhi neri,
innumerevoli nasi rotti e una frattura alla mandibola nel giro di un mese
furono sufficienti a convincere i vecchi amici di Hurst che sarebbe stato
meglio lasciarlo in pace.
Eppure, era quasi come se lo incolpassero della morte di Hurst e a
distanza di pochi mesi qualcuno di loro ci riprovava. Gerd era sempre stato
abbastanza sveglio da tenersi alla larga. Fino ad allora.
“Non vedo nessuno dei tuoi amici qui con te, vecchio”, disse Des.
“Accetta quel che t’ho detto e nessuno si farà male”.
Gerd sputò per terra, ai piedi di Des. “Non sai neppure che giorno è oggi,
vero, ragazzino? Razza di sciagurato!”
Si trovavano abbastanza vicini uno all’altro da permettere a Des di
sentire il tanfo acre del whisky corelliano nell’alito di Gerd. Era tanto
ubriaco da andare in cerca di risse, ma anche sobrio a sufficienza da
sapersela cavare coi pugni.
“Con oggi fanno cinque anni”, disse Gerd, scuotendo la testa con
tristezza. “Cinque anni che tuo padre è morto e neppure te lo ricordi!”
Ormai Des non pensava quasi più al padre. Non gli era dispiaciuto
separarsene. I suoi primi ricordi erano di lui che lo picchiava. Aveva
dimenticato anche il motivo; di rado a suo padre ne serviva uno.
“Non è che Hurst mi manchi quanto a te, Gerd”.
“Hurst, eh?” Gerd sbuffò. “Ti ha tirato su da solo dopo che tua madre è
morta e non hai neppure abbastanza rispetto da chiamarlo ‘padre’? Che
ingrato figlio di un kath!”
Des lo fissò minaccioso dall’alto della sua statura, ma quello era troppo
pieno di alcol e mal riposta indignazione per lasciarsi intimidire.
“C’era da aspettarselo, da una sudicia carognetta come te”, proseguì
Gerd. “Hurst diceva sempre che eri un poco di buono. Sapeva che avevi
qualcosa di sbagliato... Bane”.
Des socchiuse gli occhi, ma si guardò bene dall’abboccare. Hurst lo
apostrofava così quand’era ubriaco. Bane. Rovina. Aveva incolpato il
bambino per la morte della moglie, per averlo costretto a restare su Apatros.
Considerava il suo unico figlio la rovina della propria esistenza, e tendeva a
sbraitarlo nei momenti di collera indotti dall’alcol.
Bane. Un nome che rappresentava tutto quanto di maligno, meschino e
crudele c’era in suo padre. Un nome che scuoteva le paure interiori di ogni
bambino: il timore di deludere, di essere abbandonato, di subire violenza.
Da piccolo quel nome lo aveva ferito più di tutte le percosse subite dalle
mani violente del padre, ma Des non era più un bambino: col tempo aveva
imparato a ignorarlo, come tutti gli altri veleni che la bocca di quell’uomo
vomitava.
“Non ho tempo”, mugugnò. “Ho da fare”.
Con una mano afferrò il martello pneumatico nella stretta di Gerd, poi gli
posò l’altra sulla spalla e lo spinse via. L’uomo incespicò all’indietro, urtò
una roccia col tallone e cadde con violenza al suolo.
Si rialzò ringhiando, le mani chiuse a pugno. “Mi sa che tuo padre manca
da troppo tempo, ragazzo. Hai bisogno che qualcuno ti ficchi del sale in
zucca a suon di botte”.
Gerd, si rese conto Des, era ubriaco, ma non stupido. Lui era più grande,
più forte e più giovane... ma aveva trascorso le ultime sei ore a maneggiare
un martello idraulico. Era coperto di lerciume e il sudore gli colava dal viso.
Aveva la maglietta fradicia. L’uniforme di Gerd, d’altro canto, era
relativamente pulita, senza polvere né macchie di sudore. Doveva aver
progettato quel colpo tutto il giorno, prendendosela comoda mentre Des
lavorava fino allo sfinimento.
Des, però, non intendeva tirarsi indietro. Gettò a terra il martello e si
accovacciò, a gambe divaricate e con le braccia davanti a sé.
Gerd partì in carica, tirando un violento montante col pugno destro. Des
allungò la mano sinistra e fermò il pugno col palmo aperto, assorbendo la
forza dell’impatto. Scattò in avanti con la mano destra e agguantò il polso
sinistro di Gerd; si accovacciò, girandosi mentre lo tirava a sé, spingendogli
la spalla contro il torace. Sfruttando lo slancio dell’avversario, Des si rialzò
e gli strattonò il polso con forza, ribaltandolo e schiantandolo a terra di
schiena.
La lotta avrebbe dovuto concludersi allora; Des ebbe una frazione di
secondo per poter calare un ginocchio su Gerd, mozzandogli il respiro e
bloccandolo al suolo per poi tempestarlo di pugni. Non accadde. Stremato,
dopo ore passate a reggere trenta chili di martello, Des ebbe un crampo alla
schiena.
Il dolore fu lancinante; si rialzò d’istinto, afferrandosi i muscoli contratti.
Gerd ebbe così l’occasione di allontanarsi rotolando e di rimettersi in piedi.
In qualche modo, Des riuscì ad assumere di nuovo una posizione di
combattimento. Sentì la schiena protestare, e gli sfuggì una smorfia quando
il suo corpo fu trafitto da lame di dolore. Gerd notò la sua espressione e
rise.
“Abbiamo i crampi, ragazzo? Dovresti saperlo che non è il caso di
provare a lottare dopo sei ore in miniera”.
Gerd partì di nuovo in carica. Stavolta non serrava le mani a pugno, ma a
mo’ di artigli che si aggrappavano a qualunque cosa trovassero, cercando di
neutralizzare da vicino la statura e la portata dei pugni del giovane. Des
tentò di scansarlo, ma aveva le gambe troppo irrigidite per riuscirci. Una
mano lo agguantò alla maglietta, l’altra gli strinse la cintura e poi Gerd tirò
entrambi a terra.
Si azzuffarono, rotolandosi sulla pietra dura e irregolare della grotta.
Gerd aveva affondato il viso nel torace di Dessel per proteggerlo ed evitare
testate o gomitate. Gli stringeva ancora la cintura, ma aveva liberato l’altra
mano, con cui tirava pugni alla cieca verso l’alto, dove immaginava si
trovasse il volto del nemico. Des fu costretto ad avvolgere le braccia intorno
a quelle di Gerd, intrecciandole in modo che nessuno dei due potesse usare i
pugni.
Una volta bloccati gli arti, tecnica e strategia avevano poco senso. La
lotta si era trasformata in una prova di forza e resistenza, in cui i due
combattenti si sfinivano lentamente a vicenda. Dessel tentò di rovesciare
Gerd sulla schiena, ma la stanchezza lo tradì. Si sentiva le membra molli e
pesanti; non riuscì a far leva come necessario. Fu invece Gerd che riuscì a
divincolarsi e girarsi, liberando una mano mentre continuava a tenere il viso
premuto con forza contro il torace di Des.
Des non era così fortunato: aveva il viso scoperto e vulnerabile. Gerd
sferrò un colpo con la mano libera, ma non un pugno. Conficcò invece il
pollice con forza nella guancia di Des, a pochissimi centimetri dal vero
bersaglio. Colpì ancora col pollice, cercando di cavargli un occhio per
accecarlo e lasciarlo a contorcersi per il dolore.
Des impiegò un secondo a capire cosa stesse succedendo: per la fatica, la
mente gli era diventata lenta e goffa come il corpo. Si voltò proprio mentre
arrivava il secondo attacco, e il pollice gli si conficcò dolorosamente nella
parte alta dell’orecchio.
Dentro di lui esplose una rabbia oscura, una scarica di passione ardente
che fece evaporare ogni traccia di spossatezza. All’improvviso la sua mente
era concentrata, il corpo forte e rinvigorito. Sapeva cos’avrebbe fatto dopo
ma, più importante ancora, sapeva con certezza assoluta anche cos’avrebbe
fatto Gerd.
Non sapeva spiegare come mai lo sapesse; a volte riusciva
semplicemente a prevedere la mossa successiva di un avversario. Qualcuno
lo avrebbe chiamato istinto, ma Des sentiva che era qualcos’altro. Era
troppo dettagliato, troppo specifico per essere semplice istinto. Somigliava
più a una visione, a uno spiraglio sul futuro. E ogni qualvolta avveniva Des
sapeva sempre cosa fare, come se qualcosa guidasse le sue azioni.
Quando arrivò il colpo successivo, Des fu più che pronto. Riusciva a
vederlo a perfezione. Sapeva con esattezza quando sarebbe arrivato e dove.
Stavolta girò la testa nella direzione opposta, esponendo il volto all’attacco,
e aprì la bocca. La richiuse con perfetto tempismo e i denti affondarono
nelle carni sudice del pollice di Gerd.
Questi urlò quando Des serrò la mandibola, recidendo i tendini e
raggiungendo l’osso. Si domandò se avrebbe potuto attraversare anche
quello e, come se il pensiero si fosse concretizzato, recise il pollice di Gerd.
Le urla divennero strilli e Gerd lasciò la presa e si allontanò, stringendosi
la mano mutilata con quella sana. Sangue scuro colò tra le dita che
tentavano di fermare l’emorragia.
Alzandosi lentamente, Des sputò il pollice a terra, il sapore del sangue
ancora caldo in bocca. Fisicamente si sentiva forte e pieno di energia, come
se un grande potere gli scorresse nelle vene. Aveva completamente privato
l’avversario della voglia di combattere: a quel punto avrebbe potuto fare di
Gerd qualunque cosa volesse.
Quest’ultimo si rotolava a terra, avanti e indietro, con la mano stretta al
petto. Gemeva e singhiozzava, implorando pietà e chiamando aiuto.
Des scosse la testa, disgustato; Gerd se l’era cercata. Tutto era iniziato
come una normale scazzottata in cui qualcuno si sarebbe ritrovato un occhio
nero e qualche livido, non di più. Poi l’altro aveva portato la faccenda su un
altro piano tentando di accecarlo, e lui aveva risposto per le rime. Des aveva
imparato da molto tempo a non far degenerare una lotta a meno di non
essere disposto a pagare il prezzo della sconfitta. Ora anche Gerd lo sapeva.
Des era collerico, ma non era tipo da accanirsi su un avversario inerme.
Uscì dalla grotta, senza girarsi a guardare il vecchio sconfitto, e risalì il
tunnel per riferire l’accaduto a uno dei capisquadra, in modo che qualcuno
si occupasse della ferita di Gerd.
Le conseguenze non lo preoccupavano. I medici potevano riattaccargli il
pollice, e nel peggiore dei casi Des avrebbe subito una multa pari alla paga
di uno o due giorni. Alla Compagnia non importava molto cosa facessero i
dipendenti, a patto che tornassero a estrarre cortosite. Le risse erano comuni
fra i minatori e quasi sempre la ORO chiudeva un occhio, sebbene quella
fosse stata peggiore di altre: breve e feroce, con una fine cruenta.
Proprio come la vita su Apatros.
CAPITOLO 2
Chiuso nella stiva della nave, Des tentò di mettersi comodo. Era nascosto
nel piccolo scomparto di contrabbando, che a un uomo della sua taglia
andava stretto, da quasi un’ora.
Venti minuti prima aveva sentito una pattuglia della ORO arrivare per
un’ispezione della nave. Avevano condotto una ricerca sommaria ma poi,
non avendo trovato il fuggiasco che cercavano, se n’erano andati. Qualche
secondo più tardi il capitano, un pilota rodiano, aveva picchiato forte sul
pannello dietro cui era nascosto Des.
“Rimani lì finché i motori non partono”, gli aveva indicato in un Basic
accettabile. “Quando partiamo, esci. Non prima”.
Quando era salito a bordo, Des non lo aveva riconosciuto: il suo aspetto
era lo stesso di qualunque altro rodiano avesse mai visto. L’ennesimo
capitano di un trasporto indipendente che prendeva un carico di cortosite
nella speranza di venderlo su qualche altro pianeta e ottenere profitti
sufficienti a volare ancora qualche mese.
Probabilmente, se la ORO avesse offerto una ricompensa per la sua
cattura, il capitano lo avrebbe venduto a loro. Significava che i dirigenti non
gli avevano messo una taglia sulla testa: si preoccupavano più di dover
pagare che non di permettere che un fuggiasco evadesse la giustizia della
Repubblica. Non importava che lo trovassero, finché potevano dimostrare
alla Repubblica di averci provato. Groshik doveva averlo capito quando si
erano accordati per nascondere Des a bordo.
Quando i motori si accesero, il loro gemito stridulo fece aggrappare Des
alle pareti di quello spazio angusto. Qualche secondo dopo, il gemito si
trasformò in un ruggito assordante e la nave sobbalzò sotto i suoi piedi. I
repulsori si accesero, bilanciando il vascello, e Des avvertì la pressione
della gravità sulla nave che si alzava in cielo.
Diede un calcio al pannello, aprendolo, e uscì dal nascondiglio. Capitano
ed equipaggio non erano in vista; dovevano essere tutti ai propri posti per il
decollo.
Des non sapeva dove fossero diretti. Sapeva soltanto che al termine di
quel viaggio c’era una donna umana che lo aspettava per arruolarlo
nell’esercito Sith. Il pensiero lo colmò di un miscuglio di emozioni, come
aveva fatto in precedenza, e su tutte dominavano paura ed esaltazione.
La nave diede un leggero strattone quando uscì dall’atmosfera e iniziò ad
accelerare per allontanarsi dal minuscolo pianeta minerario. Qualche
secondo più tardi, Des avvertì una sensazione inconfondibile, benché non
gli fosse familiare: avevano eseguito il salto nell’iperspazio.
Il suo spirito si riempì di un improvviso senso di sollievo. Era libero. Per
la prima volta in vita sua non era più nel pugno della ORO e delle sue
miniere di cortosite. Groshik aveva detto che il fato avverso e la sfortuna
tramavano contro di lui, ma in quel momento Des non ne era più così
sicuro. Non era andata proprio come progettava, ed era un fuggiasco col
sangue di un soldato della Repubblica sulle mani, ma era finalmente fuggito
da Apatros.
Forse le carte che gli erano toccate non erano poi così brutte. Alla fine
aveva ottenuto proprio ciò che voleva di più. E, in fin dei conti, non era
forse quella l’unica cosa che contava?
CAPITOLO 6
Il sole giallo di Phaseera era a picco, e inondava coi suoi raggi la vallata
rigogliosa e l’accampamento nella giungla dove attendevano Des e gli altri
suoi compagni Sith. Sotto il riparo di un albero di cydera, Des passava il
tempo effettuando un rapido controllo dei sistemi sul suo fucile blaster TC-
22. La cella energetica era a piena carica, per un valore di cinquanta colpi.
Anche la cella energetica di riserva risultò a posto. La mira era solo
leggermente disallineata, un problema comune a tutti i modelli TC.
Avevano buone potenza e portata, ma col tempo i mirini potevano perdere
la calibrazione. Una rapida correzione lo riportò in linea.
Le sue mani si mossero con la rapidità e la sicurezza che provenivano
dalle migliaia di esercitazioni. Negli ultimi dodici mesi aveva eseguito
quella routine così tante volte che non aveva più bisogno di pensarci. Un
controllo delle armi prima della battaglia non era pratica standard delle
milizie Sith, bensì un’abitudine che aveva preso e che gli aveva salvato la
vita in più di un’occasione. L’esercito Sith cresceva così in fretta che
l’offerta non riusciva a seguire la domanda. La strumentazione migliore era
riservata a ufficiali e veterani, mentre le reclute erano costrette ad
accontentarsi di ciò che era disponibile.
Essendo diventato sergente, avrebbe potuto richiedere un modello
migliore, ma il TC-22 era la prima arma con cui aveva imparato a sparare
ed era diventato piuttosto abile a usarla. Des supponeva che una
manutenzione di routine fosse meglio che imparare a padroneggiare le
sottili sfumature di qualche altra arma.
Tuttavia, la sua pistola blaster era il top della gamma. Non a tutti i soldati
Sith venivano date pistole: un fucile a medio raggio e semi-ripetizione era
una dotazione che doveva bastare a quasi tutti i soldati. Era probabile che
morissero ben prima di avvicinarsi al nemico abbastanza da poter usare una
pistola. Ma nell’anno appena passato, Des aveva dimostrato una decina di
volte di non essere semplice carne da torrette laser. I soldati tanto abili da
sopravvivere alla carica iniziale e trovarsi a stretto contatto con le file
nemiche avevano bisogno di un’arma più adatta al combattimento
ravvicinato.
Per Des, l’arma in questione era la GSI-21D: la miglior pistola
disintegratrice fabbricata dalla Galactic Solutions Industries. La portata
ottimale era di soli venti metri, ma entro quella distanza era in grado di
disintegrare armature, carne e metallo di droide con uguale efficacia. La
21D era illegale in gran parte dei settori galattici controllati dalla
Repubblica, il che ne dimostrava l’incredibile potenziale distruttivo. La
cella energetica aveva carica sufficiente solo per una decina di colpi, ma
quando arrivava a guardare negli occhi un avversario raramente ne serviva
più di uno.
Infilò la pistola nella fondina che aveva agganciata alla cintura, controllò
la vibrolama nello stivale e rivolse l’attenzione alle sue truppe. Gli uomini e
le donne della sua unità, tutto intorno a lui, stavano seguendo il suo esempio
ed effettuavano simili ispezioni del loro equipaggiamento in attesa degli
ordini. Non poté fare a meno di sorridere: li aveva addestrati bene.
Des si era unito all’esercito Sith per sfuggire sia al carcere che ad
Apatros stesso, ma non ci aveva messo molto per affezionarsi veramente
alla vita militare. Tra gli uomini e le donne che combattevano al suo fianco
scorreva un cameratismo che si era rapidamente esteso fino a includere
anche lui. Non si era mai sentito legato in alcun modo ai minatori su
Apatros e di fatto si era sempre considerato una sorta di solitario. Ma
nell’esercito aveva trovato il suo vero scopo. Era quello il suo posto, con i
soldati. I suoi soldati.
Il soldato anziano Adanar notò il suo sguardo e si batté leggermente il
pugno chiuso sul petto per due volte, proprio sopra il cuore. Era un gesto
conosciuto soltanto dai membri dell’unità: un segno privato che significava
lealtà e fedeltà, il simbolo del legame che li univa tutti.
Des ricambiò il gesto. Lui e Adanar si trovavano nella stessa unità sin dal
primo giorno della loro carriera militare. L’ufficiale di reclutamento li aveva
arruolati insieme e li aveva assegnati entrambi ai Camminatori del Buio,
l’unità del tenente Ulabore.
Adanar raccolse il fucile e saltellò fin dov’era seduto l’amico. “Credi che
tra poco ci servirà quel tuo disintegratore, sergente?”
“Essere preparati non fa mai male”, rispose Des, sfoderando la pistola e
facendola roteare con un movimento aggraziato prima di rimetterla nella
fondina.
“Vorrei tanto che ci avessero già dato il via”, borbottò Adanar. “Sono due
giorni ormai che siamo in posizione. Quanto aspetteranno ancora?”
Des si strinse nelle spalle. “Non possiamo partire finché non saranno
pronti a entrare con le forze principali. Se ci muoviamo troppo presto, il
piano salta”.
Nel corso dell’ultimo anno, i Camminatori del Buio si erano guadagnati
una certa reputazione. Avevano partecipato a un fiume di battaglie su
cinque o sei pianeti e avevano assaporato il gusto della vittoria ben più del
solito. Partiti come una delle migliaia di unità sacrificabili al fronte, erano
arrivati a essere soldati di élite riservati alle missioni critiche. In quel
momento, erano la chiave per la cattura del mondo industriale di Phaseera...
sempre se qualcuno avesse dato l’ordine di partire. Fino ad allora erano
bloccati in quell’accampamento nella giungla, a un’ora di marcia
dall’obiettivo. Si trovavano lì solo da due giorni, ma già cominciavano a
risentirne.
Adanar cominciò a camminare avanti e indietro. Des sedeva tranquillo
all’ombra e lo osservava.
“Non stancarti”, disse dopo un minuto. “Non andremo da nessuna parte
finché non sarà notte, al più presto. Tanto vale che ti metta comodo”.
Adanar smise di camminare, ma non si sedette. “Il tenente dice che sarà
facile come una consegna di spezia”, disse, tentando di suonare disinvolto.
“Pensi che abbia ragione?”
Il tenente Ulabore aveva ricevuto molti encomi per il successo delle sue
truppe, ma nell’unità tutti sapevano chi fosse realmente al comando quando
cominciavano a volare le scariche dei blaster.
Quel fatto era diventato penosamente evidente quasi un anno prima su
Kashyyyk, dove Des e Adanar avevano visto la loro prima battaglia. La
Confraternita dell’Oscurità aveva tentato di trovare un appiglio nell’Orlo
Intermedio invadendo il sistema, inviando un’ondata di soldati dopo l’altra
per catturare il mondo natale degli Wookiee, ricco di risorse naturali. Ma si
trattava di una roccaforte della Repubblica e non si sarebbe ritirata, per
quanto in schiacciante inferiorità numerica fosse.
Al primo atterraggio della flotta dei Sith, i nemici si erano limitati a
scomparire nella foresta. L’invasione si era trasformata in una guerra
d’attrito, una lunghissima campagna che si trascinava tra i rami dei wroshyr,
a grande altitudine sopra la superficie. I soldati Sith non erano abituati a
combattere sulle cime degli alberi, e il denso fogliame e i rampicanti kshyy
della volta arborea offrivano un riparo perfetto ai soldati della Repubblica e
alle loro guide wookiee per tendere agguati e lanciare attacchi di guerriglia.
Migliaia e migliaia di invasori erano stati spazzati via, quasi sempre
morendo senza neppure aver visto il nemico che aveva esploso il colpo
fatale... ma i Maestri Sith continuavano semplicemente a inviare nuove
truppe.
I Camminatori del Buio facevano parte della seconda ondata dei rinforzi.
Alla prima battaglia erano rimasti separati dalle linee principali, staccati dal
resto dell’esercito. Il tenente Ulabore, solo e circondato dai nemici, era
caduto in preda al panico. Senza ordini diretti non aveva idea di cosa fare
per tenere in vita la propria unità; per fortuna c’era Des, che era intervenuto
e aveva salvato loro la pelle.
Per cominciare, percepiva il nemico anche quando non riusciva a
vederlo. Non riusciva a spiegarlo, ma aveva smesso di provarci molto
tempo prima. Ormai tentava semplicemente di trarne il massimo vantaggio.
Guidati da Des, i Camminatori del Buio erano riusciti a evitare trappole e
agguati nel lento viaggio di ritorno verso le forze principali. C’erano voluti
tre giorni e tre notti, innumerevoli battaglie brevi ma letali e una marcia
apparentemente infinita attraverso il territorio nemico, ma ce l’avevano
fatta. Nonostante i tanti combattimenti, l’unità aveva perso solo una
manciata di soldati e quelli che erano riusciti a tornare sapevano di dover la
vita a Des.
La storia dei Camminatori era stata di sprone per il resto dell’esercito
Sith, sollevando un morale che era sceso pericolosamente in basso. Se una
singola unità era riuscita a sopravvivere da sola per tre giorni, riflettevano
tutti, allora di sicuro un migliaio di unità poteva vincere la guerra. C’erano
volute quasi duemila unità, ma alla fine Kashyyyk era caduto.
In quanto capo degli eroici Camminatori del Buio, il tenente Ulabore
aveva ricevuto una lode speciale. Non si era mai preso il disturbo di
menzionare che il vero merito fosse di Des; tuttavia era stato abbastanza
sveglio da promuoverlo a sergente. E sapeva bene di doversi togliere dai
piedi quando la situazione cominciava a scottare.
“Allora?”, ripeté Adanar. “Che si dice, Des? Quando ci daranno il via,
sarà facile come consegnare spezia?”
“Il tenente dice soltanto ciò che pensa vogliamo sentirci dire”.
“Lo so, Des. È per questo che ne parlo con te. Voglio sapere cosa ci
aspetta davvero”.
Des rifletté per qualche istante. Erano rintanati nella giungla sull’orlo di
una stretta vallata: l’unica strada per entrare nella capitale di Phaseera, dove
l’esercito della Repubblica aveva stabilito la sua base. Su una collina vicina,
che sovrastava la vallata, si trovava un avamposto della Repubblica. Se i
Sith avessero provato a spostare delle truppe attraverso la vallata, anche di
notte, di sicuro l’avamposto li avrebbe avvistati. Avrebbero segnalato al
campo base in modo che le difese fossero pronte e pienamente operative
ben prima che il nemico anche solo li raggiungesse.
La missione dei Camminatori era semplice: eliminare l’avamposto, in
modo che il resto dell’esercito potesse lanciare un attacco a sorpresa al
campo base della Repubblica. Erano dotati di generatori d’interferenza,
strumenti di disturbo a corto raggio che potevano usare per impedire che
l’avamposto trasmettesse un segnale al campo base e li avvertisse, ma
avrebbero dovuto colpire con velocità. L’avamposto faceva rapporto tutti i
giorni all’alba, e se i Camminatori avessero colpito troppo presto la
Repubblica si sarebbe resa conto che qualcosa non andava non vedendo
arrivare il rapporto giornaliero.
Il tempismo era cruciale. Dovevano abbatterli appena prima che la forza
principale entrasse nella zona. Sarebbero così rimaste soltanto alcune ore
per attraversare la vallata e cogliere impreparato il campo base: fattibile, ma
solo coordinando tutto alla perfezione. I Camminatori del Buio erano al loro
posto, ma il contingente principale non era ancora pronto a fare la sua
mossa... da cui, l’attesa.
“Sono preoccupato”, ammise finalmente Des. “Prendere l’avamposto non
sarà semplice. Una volta ricevuto il via, non avremo margini di errore.
Dovremo essere perfetti. Se c’è qualche sorpresa che ci aspetta, potremmo
finire nei guai”.
Adanar sputò per terra. “Lo sapevo! Hai un brutto presentimento, vero?
Sarà un’altra Hsskhor!”
Quello era stato un disastro. Dopo la caduta di Kashyyyk, i soldati della
Repubblica superstiti erano fuggiti sul pianeta attiguo di Trandosha. A
inseguirli erano state inviate trenta unità di soldati Sith, inclusi i
Camminatori. Avevano raggiunto i sopravvissuti nelle pianure deserte
all’esterno della città di Hsskhor.
Una giornata di feroci combattimenti aveva lasciato a terra molti cadaveri
da entrambe le parti, ma senza un vincitore definitivo. Durante tutta la
battaglia, Des si era sentito a disagio, anche se al tempo non era stato in
grado di dire perché. La sensazione era cresciuta al calar della notte, quando
entrambe le parti si erano ritirate ai due capi del campo di battaglia per
riorganizzarsi. I Trandoshani avevano colpito qualche ora più tardi.
Il buio totale della notte non era un problema per quella specie rettiloide,
che poteva vedere lo spettro infrarosso. Sembrava che spuntassero dal nulla,
materializzandosi dalle tenebre come se un incubo avesse preso forma.
A differenza dei Wookiee, i Trandoshani non erano allineati con nessuna
fazione della guerra civile galattica. I cacciatori di taglie e i mercenari di
Hsskhor si erano lasciati dietro una scia di distruzione tra le file sia della
Repubblica che dei Sith, senza curarsi di chi fossero i loro avversari pur di
portare con sé i trofei delle loro uccisioni.
I dettagli del massacro non erano mai stati resi noti ufficialmente. Des si
era trovato proprio in mezzo alla strage e nemmeno lui riusciva quasi a
ricostruire l’accaduto. Quell’attacco aveva colto i Camminatori, e tutte le
altre unità, completamente alla sprovvista. Al sorgere del sole era stata
abbattuta quasi la metà delle truppe Sith. Des aveva perso moltissimi amici
in quel massacro... amici che avrebbe potuto salvare se solo avesse prestato
più attenzione all’oscuro presagio provato quando aveva messo piede per la
prima volta su quel pianeta desertico e dimenticato. Aveva giurato che non
avrebbe mai più permesso che i Camminatori del Buio cadessero vittime di
un simile massacro.
Alla fine, Hsskhor aveva pagato caro quell’agguato. Da Kashyyyk erano
stati inviati rinforzi per sopraffare sia le forze della Repubblica che i
Trandoshani. I Sith avevano impiegato meno di una settimana per ottenere
la vittoria e la città, un tempo fiera, era stata saccheggiata e rasa al suolo.
Molti Trandoshani avevano rinunciato a lottare per difendere la propria
casa, offrendo invece i propri servizi ai conquistatori: erano cacciatori di
taglie e mercenari di mestiere, predatori di natura. Potevano lavorare per
chiunque, a patto che vi fosse l’occasione di uccidere ancora. Inutile dire
che i Sith li avevano accolti a braccia aperte.
“Non sarà un’altra Hsskhor”, assicurò Des al suo compagno nervoso. Era
vero, provava di nuovo un senso di disagio, ma stavolta era diverso. Stava
per succedere qualcosa di grosso, ma Des non poteva dire con certezza se
fosse buono o cattivo.
“Avanti, Des”, lo incalzò Adanar. “Va’ a parlare con Ulabore. Qualche
volta ti dà retta”.
“E cosa gli dico?”
Adanar alzò le mani, esasperato. “Non lo so! Di’ che hai un brutto
presentimento. Fagli chiamare il Quartier Generale al comunicatore e dire
di farci ritirare. Oppure di convincerli a farci andare avanti! Basta che non
ci lasci qui a marcire sotto il sole come un branco di topi giganti morti!”
Prima che Des potesse rispondere, una nuova leva, una giovane di nome
Lucia, li raggiunse e si fermò con uno scattante saluto militare. “Sergente! Il
Tenente Ulabore vuole che raduniate le truppe davanti alla sua tenda.
Parlerà fra trenta minuti”, disse con voce zelante ed eccitata.
Des rivolse un fugace sorriso all’amico. “Credo che abbiamo finalmente i
nostri ordini”.
I soldati si misero sull’attenti mentre il tenente e Des passavano in
rassegna le truppe. Durante l’ispezione, come sempre, Ulabore camminò tra
i ranghi annuendo e approvando a mezza bocca. Serviva più che altro a far
scena; era un’occasione, per Ulabore, di sentirsi come se avesse un qualche
merito per il successo di una missione.
Quando ebbero finito, il tenente marciò fino in testa alla colonna e si girò
verso le truppe. Des era in piedi, da solo, davanti all’unità, e dava la schiena
ai soldati in modo da trovarsi col viso rivolto al superiore.
“Tutti qui sono a conoscenza dell’obiettivo della nostra missione”,
attaccò Ulabore con voce insolitamente alta e acuta. Des ipotizzò che
tentasse di avere un tono autoritario, ma invece risultava solo stridulo.
“Lascerò i dettagli al nostro Sergente”, proseguì. “Il nostro incarico non è
semplice, ma sono ormai lontani i giorni in cui quello dei Camminatori era
un lavoro semplice.
“Non ho molto altro da dire: so che siete tutti impazienti quanto me di
mettere fine a quest’inutile attesa. Per questo sono lieto d’informarvi che ci
è stato dato l’ordine di partire. Colpiremo l’avamposto della Repubblica fra
un’ora!”
Dai ranghi si levarono esclamazioni di orrore e mormorii d’incredulità.
Ulabore fece un passo indietro, come se lo avessero schiaffeggiato. Era
chiaro che si aspettasse applausi e acclamazioni, e fu scosso
dall’improvvisa esplosione di rabbia e indisciplina.
“Un attimo, Camminatori!”, ringhiò Des. Si avvicinò al tenente e abbassò
la voce. “È sicuro che gli ordini fossero questi, signore? Tra un’ora? È
sicuro che non intendessero un’ora dopo il tramonto?”
“Sta dubitando di me, sergente?”, lo aggredì Ulabore senza cercare di
parlare a bassa voce.
“No, signore. Soltanto che, se partiamo fra un’ora, ci sarà ancora luce. Ci
vedranno arrivare”.
“Quando ci vedranno saremo già abbastanza vicini da disturbare le loro
trasmittenti”, controbatté il tenente. “Non saranno in grado di mandare
segnali al campo base”.
“Non è questo, signore. Si tratta delle cannoniere. Hanno tre veicoli a
repulsione, muniti di cannoni con elevata cadenza di fuoco. Se tentiamo di
prendere l’avamposto di giorno, quelle cose ci falceranno dall’alto”.
“È una missione suicida!”, gridò qualcuno dai ranghi.
Gli occhi di Ulabore divennero strette fessure e si fece paonazzo.
“L’armata principale si muoverà al crepuscolo, sergente”, disse a denti
stretti. “Vogliono attraversare la vallata al buio e colpire il campo base alle
prime luci dell’alba”.
“Allora non c’è motivo di muoverci così presto”, rispose Des,
sforzandosi di restare calmo. “Se partiranno al crepuscolo, ci vorranno
almeno tre ore prima che raggiungano la vallata dalla posizione attuale.
Così avremo tutto il tempo di abbattere l’avamposto prima che arrivino,
anche se aspettassimo fino a notte”.
“È evidente che non capisce cosa stia succedendo davvero, sergente”. Dal
tono, pareva che Ulabore discutesse con un bambino testardo. “Il
contingente principale non si muoverà finché non avremo riferito il
completamento della missione. È per questo che dobbiamo partire adesso”.
Era logico: i generali non volevano rischiare la forza principale prima di
sapere per certo che la vallata fosse sicura. Ma far agire i Camminatori alla
luce del giorno avrebbe garantito che il numero di vittime si quintuplicasse.
“Dovrà ricontattare il Quartier Generale e spiegare la situazione”, ribatté
Des. “Non possiamo affrontare le cannoniere. Dobbiamo aspettare che
atterrino per la notte. Deve fargli capire cosa ci troviamo contro”.
Il tenente si comportò come se non lo avesse neppure ascoltato. “I
generali danno gli ordini a me e io li do a voi”, lo aggredì. “Non funziona al
contrario! L’esercito si muoverà al crepuscolo, e gli ordini non cambieranno
in base alle sue opinioni, sergente!”
“Non dovranno cambiare i piani”, insistette Des. “Se partiamo non
appena fa buio, quando raggiungeranno la valle avremo comunque
abbattuto quell’avamposto. Ma mandarci adesso è...”
“Basta!”, scattò il tenente. “La smetta di ragliare come un bantha fuori
dal branco! Questi sono gli ordini, li esegua! Oppure vuol vedere cosa
succede ai soldati che sfidano gli ufficiali superiori?”
All’improvviso, a Des fu chiaro cosa stesse realmente accadendo.
Ulabore sapeva che quell’ordine era uno sbaglio, ma era troppo spaventato
per fare qualcosa. Doveva essere giunto direttamente da uno dei Signori
Oscuri. Ulabore avrebbe preferito condurre le sue truppe al macello
piuttosto che fronteggiare l’ira di un Maestro Sith, ma Des non aveva
intenzione di lasciargli condurre i Camminatori alla rovina. Non sarebbe
diventata una seconda Hsskhor. Esitò solo un attimo prima di colpire il suo
tenente al mento con un pugno, mandandolo sul terreno.
Mentre Ulabore si accasciava al suolo, sul resto dei soldati cadde un
silenzio scioccato. Con rapidità, Des tolse le armi all’ufficiale svenuto, poi
si girò e indicò un paio delle ultime reclute.
“Voi due tenete d’occhio il tenente. Assicuratevi che stia comodo se si
sveglia, ma non fatelo avvicinare al comunicatore”.
All’ufficiale alle comunicazioni disse: “Invia un messaggio al Quartier
Generale poco prima del crepuscolo, con cui li informi che la nostra
missione è completa, e che quindi possono iniziare a portare il contingente
principale nella vallata. Questo ci darà due ore per raggiungere l’obiettivo
prima del loro arrivo”.
Voltandosi verso il resto delle truppe, fece una pausa, per far penetrare
meglio la gravità delle sue parole successive. “Ho appena compiuto
un’insubordinazione”, disse con lentezza. “C’è la possibilità che, quando
tutto questo sarà finito, chiunque mi seguirà d’ora in poi dovrà affrontare
una corte marziale. Se qualcuno di voi pensasse di non poter seguire i miei
ordini dopo ciò che ho fatto oggi, parli adesso e consegnerò il comando al
soldato anziano Adanar per il resto della missione”.
Fissò i soldati che aveva davanti. Per un attimo nessuno parlò; poi, come
un sol uomo, tutti alzarono il pugno e si batterono leggermente il petto due
volte, proprio sul cuore.
Sopraffatto dall’orgoglio, Des dovette deglutire forte prima di poter dare
l’ordine finale alle truppe... le sue truppe. “Rompete le righe, Camminatori
del Buio!”
I ranghi si dispersero formando gruppi di due o tre persone, i soldati che
si sussurravano piano l’un l’altro. Adanar si staccò dagli altri e si avvicinò a
Des.
“Ulabore se la legherà al dito”, disse tranquillo. “Cosa farai con lui?”
“Quando avremo preso l’avamposto, vorranno appuntare una medaglia al
petto del nostro ufficiale comandante”, rispose Des. “Scommetto che
preferirà stare zitto e accettarla piuttosto che far sapere a qualcuno cos’è
successo realmente”.
Adanar grugnì. “Suppongo avessi già previsto tutto”.
“Non proprio”, ammise Des. “Non sono ancora certo di come
elimineremo l’avamposto”.
CAPITOLO 7
Tre ore più tardi era tutto finito. La missione era stata un successo
completo: avevano preso l’avamposto e la Repubblica era totalmente ignara
che migliaia di soldati Sith marciassero attraverso la vallata per attaccarli
alle prime luci dell’alba. La battaglia in sé era stata breve ma sanguinosa:
quarantasei morti fra i soldati della Repubblica e nove fra le schiere di Des.
Ogni qualvolta un Camminatore cadeva, una parte di Des sentiva di aver
fallito in qualche modo, ma vista la natura della missione, aver impedito
che il numero delle vittime salisse a due cifre era più di quanto potesse
ragionevolmente sperare.
Una volta ottenuto l’obiettivo, aveva lasciato Adanar e un piccolo
contingente a tenere l’avamposto. Il resto dell’unità, con Des in testa, era
tornato al proprio campo base.
Per strada, tentò d’ignorare i sussurri e le occhiate furtive che gli
rivolgeva il resto della compagnia. Lucia aveva sparso la voce della sua
incredibile impresa, e in quel momento l’unità non parlava d’altro. Nessuno
era abbastanza coraggioso da dirgli qualcosa apertamente, ma udiva
brandelli di conversazione provenienti dai ranghi alle sue spalle.
In tutta onestà non riusciva a biasimarli. Ripensandoci, nemmeno lui era
certo di cosa fosse successo. Des era un buon tiratore, ma non era certo un
cecchino. Eppure, in qualche modo era riuscito a mandare a segno una
decina di colpi impossibili con un’arma mai usata prima... e per la maggior
parte dopo essere stato abbagliato da una granata accecante. Andava al di là
dell’incredibile: era come se, una volta persa la vista, un qualche potere
misterioso fosse intervenuto a guidare le sue azioni. Era stato esaltante, ma
allo stesso tempo terrificante. Da dove veniva quel potere? E perché non
riusciva a controllarlo?
Era talmente assorto nei suoi pensieri che dapprima non notò neppure gli
estranei in attesa al campo base. Solo dopo che si furono avvicinati e gli
ebbero chiuso le manette stordenti intorno ai polsi si rese conto di quel che
stava succedendo.
“Bentornato, sergente”. La voce di Ulabore traboccava d’odio.
Des si guardò intorno. C’erano una decina di agenti, la sicurezza militare
dell’esercito Sith, con le armi sfoderate. Alle loro spalle si ergeva Ulabore,
un livido scuro sul viso nel punto in cui Des lo aveva colpito. Sullo sfondo
vedeva le due reclute che aveva lasciato a gestire il tenente. Avevano gli
occhi fissi a terra, imbarazzati e mortificati.
“Credeva sul serio che delle reclute inesperte avrebbero tenuto il loro
comandante legato come un prigioniero?”, lo schernì Ulabore dietro la
barriera protettiva formata dalle guardie armate. “Era davvero convinto che
l’avrebbero seguita nella sua follia?”
“Quella follia ci ha salvato la vita!”, gridò Lucia. Des sollevò i polsi
ammanettati per zittirla: bastava un attimo perché la situazione sfuggisse di
mano.
Quando non accadde altro, il tenente parve prendere coraggio. Si fece
largo tra la barriera protettiva degli agenti e si avvicinò a Des.
“L’avevo avvertita di non disobbedire agli ordini”, gli disse con fare
derisorio. “Adesso proverà di persona il trattamento che la Confraternita
riserva agli insubordinati!”
Alcuni Camminatori iniziarono a portare le mani verso le armi, ma Des
scosse la testa e quelli s’immobilizzarono. Gli agenti avevano già le armi in
pugno e non avevano paura di usarle. I soldati non sarebbero riusciti a
sparare neppure un colpo.
“Cosa c’è, sergente?”, lo incalzò Ulabore, avvicinandosi ancora di più al
nemico sconfitto. Forse troppo. “Non ha niente da dire?”
Des sapeva di poter uccidere il tenente con una rapida mossa. Gli agenti
lo avrebbero abbattuto, ma almeno avrebbe portato Ulabore con sé. Ogni
fibra del suo essere avrebbe voluto aggredirlo e porre fine alle vite di
entrambi in un’orgia di sangue e raggi laser. Riuscì però a respingere
l’impulso. Non aveva senso gettar via la propria vita: probabilmente una
corte marziale sarebbe sfociata nella condanna a morte, ma se avesse subito
un processo avrebbe avuto almeno un’occasione.
Ulabore lo schiaffeggiò in viso, poi gli sputò sugli stivali e indietreggiò.
“Portatelo via”, disse agli agenti, voltandogli le spalle.
Mentre Des veniva condotto via, non poté fare a meno di notare lo
sguardo negli occhi di Lucia e dei soldati a cui aveva salvato la vita solo
poche ore prima. Aveva la sensazione che, durante la successiva battaglia
dell’unità, Ulabore avrebbe subito uno sfortunato incidente... sfortunato e
fatale.
Quella consapevolezza gli disegnò l’ombra di un sorriso sulle labbra.
Gli agenti lo fecero marciare nella giungla per ore, le armi sfoderate e
puntate su di lui tutto il tempo. Le abbassarono soltanto quando raggiunsero
le sentinelle sul perimetro dell’accampamento Sith principale.
“Un prigioniero per la corte marziale”, disse atono uno degli agenti.
“Riferite a Lord Kopecz”. Una delle sentinelle fece il saluto militare e corse
via.
Fecero marciare Des attraverso il campo, diretti alle celle. Dagli sguardi
che gli rivolgevano, vide che molti soldati lo avevano riconosciuto. Era una
figura imponente, con la sua altezza e la testa glabra, e molti avevano udito
delle sue imprese. Di certo dovette impressionarli vedere quello che era
stato il soldato ideale trascinato davanti alla corte marziale.
Raggiunsero la prigione improvvisata del campo: un piccolo perimetro di
contenimento che copriva un fosso di tre metri per lato, che fungeva da
zona di detenzione per le spie e i prigionieri di guerra. Nel prenderlo in
custodia, gli agenti gli avevano tolto le armi; a quel punto eseguirono una
perquisizione più accurata e lo privarono di ogni altro effetto personale. Poi
spensero il campo di contenimento e lo gettarono dentro in malo modo,
senza neppure disturbarsi di togliergli le manette. Atterrò goffamente sul
terreno duro in fondo al fosso. Rialzandosi in piedi a fatica, udì un ronzio
inconfondibile: il campo era stato riattivato, imprigionandolo là sotto.
A parte lo stesso Des, il fosso era vuoto. I Sith non tendevano a tenere
prigionieri molto a lungo. Iniziò a domandarsi se non avesse commesso un
grosso sbaglio. Sperava che il suo stato di servizio gli sarebbe valso un
minimo di clemenza durante il processo, ma in quel momento si rese conto
che in realtà la sua reputazione poteva invece danneggiarlo. I Maestri Sith
non avevano fama di essere tolleranti o misericordiosi. Aveva sfidato un
ordine diretto: c’erano buone probabilità che decidessero di farne un brutale
esempio per tutti gli altri.
Non avrebbe saputo dire per quanto tempo lo lasciarono in fondo al
fosso. Dopo un po’ si addormentò, sfinito dalla battaglia e dalla marcia
forzata. Scivolava nel sonno a intermittenza: a un certo punto vide la luce
fuori dalla sua prigione e seppe che doveva essersi fatto giorno. Al suo
risveglio successivo era di nuovo buio.
Non gli avevano ancora dato da mangiare: lo stomaco gli brontolava,
reclamando nutrimento. Si sentiva la gola riarsa, la lingua gonfia tanto da
soffocarlo. Nonostante questo, avvertiva una pressione crescente sulla
vescica, ma non voleva urinare. Il fosso puzzava già abbastanza.
Forse la loro intenzione era semplicemente lasciarlo lì, a morire
lentamente e da solo. Viste le voci che gli erano giunte sulla tortura Sith,
sperava quasi che fosse così. Ma non si era arreso, non ancora.
Quando udì il rumore di passi che si avvicinavano, si alzò in fretta e si
erse ben dritto e impettito, nonostante avesse ancora i polsi ammanettati.
Attraverso il campo di contenimento riuscì a distinguere solo le sagome
sfocate di alcune guardie, in piedi sul bordo del fosso, insieme a un’altra
figura avvolta in un pesante manto nero.
“Portatelo sulla mia nave”, disse la figura incappucciata con una voce
rauca e profonda. “Mi occuperò di lui su Korriban”.
CAPITOLO 8
Des non vide mai con chiarezza l’uomo che aveva ordinato il suo
trasferimento. Quando lo avevano tirato fuori dal fosso, la figura
incappucciata era già svanita. Gli avevano dato cibo e acqua, poi gli
avevano permesso di lavarsi e rinfrescarsi. Benché gli avessero tolto le
manette, mentre saliva a bordo di un piccolo trasporto diretto a Korriban
restò sotto stretta sorveglianza.
Durante il viaggio nessuno gli parlò, e Des non sapeva cosa stesse
succedendo. Se non altro, non era più ammanettato. Decise di prenderlo
come un buon segno.
Arrivarono in pieno giorno. Si aspettava che sarebbero atterrati a
Dreshdae, l’unica città sul pianeta oscuro e inospitale. La nave, invece,
atterrò in uno spazioporto costruito in cima a un tempio antico che si ergeva
sopra una valle desolata. Mentre sbarcava, Des sentì un vento gelido
soffiare sulla piattaforma di atterraggio, ma non provò fastidio. Qualunque
tipo di brezza era piacevole dopo l’aria immobile del fosso. Quando mise
piede sulla superficie di Korriban, avvertì un brivido lungo la schiena.
Aveva sentito dire che un tempo quello era stato un luogo di grande potere,
ma ormai non ne restava che una pallida ombra. Era attraversato da una
sotterranea corrente di malignità: l’aveva percepita non appena il trasporto
era entrato nella cupa atmosfera del pianeta.
Da lì riusciva a vedere gli altri templi sparsi per la superficie desertica.
Persino da quella distanza vedeva le rocce erose e le pietre cadenti che
formavano gli ingressi, un tempo maestosi. Al di là della valle, la città di
Dreshdae non era che un puntino all’orizzonte.
Sulla piattaforma di atterraggio gli venne incontro un’altra figura
incappucciata, ma capì all’istante che non si trattava della stessa del fosso.
Costui o costei non aveva le dimensioni né il portamento impressionanti del
suo liberatore, di cui Des era riuscito a percepire l’autoritaria presenza.
Questa figura, che in quel momento Des ritenne femminile, gli fece
cenno di seguirlo. Lo condusse in silenzio lungo una rampa di gradini di
pietra che conducevano al tempio stesso. Oltrepassarono un pianerottolo e
scesero altre scale, poi ripeterono lo schema, facendosi strada un piano
dopo l’altro dalla sommità del tempio fino al livello del suolo. Su ogni
pianerottolo si aprivano porte e passaggi, e da essi Des udì riecheggiare
frammenti di suoni e conversazioni, ma non riuscì mai a capire cosa venisse
detto.
La donna non parlava, e Des aveva il buonsenso di non spezzare quel
silenzio. Tecnicamente, era ancora un prigioniero; per quel che ne sapeva,
lo stava conducendo alla sua corte marziale. Non aveva intenzione di
peggiorare la situazione ponendo domande sciocche.
Quando raggiunsero i piedi dell’edificio, lei lo condusse verso un’arcata
di pietra con ancora un’altra rampa di scale. Queste, tuttavia, differivano
dalle altre: erano scure e anguste, e scendevano tortuosamente fino a
scomparire alla vista nelle viscere della terra. Senza dire una parola, la
guida gli porse una torcia che aveva staccato da un supporto alla parete e si
fece da parte.
Domandandosi cosa stesse succedendo, Des scese con attenzione la
ripida scalinata. Non seppe dire quanto scese in profondità: era difficile
farsene un’idea negli spazi ristretti della tromba. Dopo qualche minuto
raggiunse il fondo solo per ritrovarsi davanti un lungo corridoio. Al
termine, s’imbatté in un’unica stanza.
Era buia, piena di ombre. Solo poche torce scoppiettavano sulle pareti di
pietra, le fiamme morenti a stento in grado di penetrare l’oscurità.
Esitò sulla soglia, lasciando che gli occhi si abituassero al buio.
All’interno riusciva appena a scorgere una figura indistinta che lo chiamò a
sé.
“Vieni avanti”.
Des ebbe un brivido, anche se nella stanza non faceva certo freddo. L’aria
in sé era elettrica, piena di un potere palpabile. Lo sorprese il fatto di non
avere paura: riconobbe ciò che provava come il brivido dell’aspettativa.
Addentrandosi nella stanza, i lineamenti della figura divennero visibili e
si rivelò un Twi’lek. Anche sotto la larga veste che indossava, Des capiva
che era di corporazione pesante e massiccia. Era alto quasi due metri,
probabilmente il Twi’lek più grosso che Des avesse mai incontrato...
... sebbene non grosso quanto lui.
Aveva il lekku che gli scendeva sul petto ampio e avvolto intorno al collo
e alle spalle muscolosi; al centro del viso, gli occhi emanavano un bagliore
arancione simile a quello delle torce tremolanti. Sorrise, rivelando i denti
aguzzi e affilati tipici della sua specie.
“Sono Lord Kopecz dei Sith”, disse. A quel punto Des seppe senz’ombra
di dubbio che si trattava dell’uomo incappucciato che si era recato al fosso,
e chinò leggermente il capo verso di lui.
“Sarò il tuo inquisitore”, spiegò Lord Kopecz con voce priva di
emozione. “E io soltanto deciderò il tuo destino. Sappi che il mio giudizio
sarà definitivo”.
Des fece un altro cenno del capo.
Il Twi’lek fissò gli occhi ardenti su di lui. “Non se un amico dei Jedi o
della loro Repubblica”.
Non era una domanda, ma si sentì comunque in dovere di rispondere.
“Che cosa mai avrebbero fatto per me?”
“Esatto”, disse Kopecz con un sorriso crudele. “Se ho ben capito, hai
combattuto molte battaglie contro le forze della Repubblica. I tuoi
compagni parlano di te con grande rispetto. Se vogliamo vincere questa
guerra, i Sith hanno bisogno di uomini come te”. Fece una pausa. “Sei stato
un soldato modello... finché non hai disobbedito a un ordine diretto”.
“Era un ordine sbagliato”, rispose Des. Aveva la gola talmente secca e
contratta che faceva fatica ad articolare le parole.
“Perché ti sei rifiutato di attaccare l’avamposto di giorno? Sei forse un
codardo?”
“Un codardo non avrebbe completato la missione”, rispose brusco, ferito
da quell’accusa.
Kopecz inclinò di lato la testa e attese.
“Attaccare di giorno era uno sbaglio tattico”, continuò Des cercando di
chiarire bene le sue motivazioni. “Ulabore avrebbe dovuto riferire
quell’informazione al comando, ma aveva troppa paura. È stato Ulabore il
codardo, non io. Avrebbe preferito morire per mano della Repubblica che
fronteggiare la Confraternita dell’Oscurità. Io preferisco non gettar via
inutilmente la mia vita”.
“Lo vedo dal tuo stato di servizio”, confermò Kopecz. “Kashyyyk,
Trandosha, Phaseera... se i rapporti sono esatti, hai compiuto imprese
incredibili mentre eri con i Camminatori del Buio. Imprese che alcuni
riterrebbero impossibili”.
Il sottinteso di quell’affermazione fece fremere Des di rabbia. “I rapporti
sono esatti”, rispose.
“Non ne dubito”. O Kopecz non aveva notato il tono con cui aveva
risposto, oppure non gliene importava. “Sai perché ti ho fatto condurre su
Korriban?”
Des iniziava a rendersi conto che quella non era veramente una corte
marziale. Era una sorta di prova, sebbene non fosse ancora sicuro per che
cosa. “Sento che mi avete scelto per qualcosa”.
Kopecz gli rivolse un altro sinistro sorriso. “Rifletti velocemente. Bene.
Cosa sai della Forza?”
“Non molto”, ammise Des, stringendosi nelle spalle. “È qualcosa in cui
credono i Jedi, un grande potere che aleggerebbe nell’universo”.
“E cosa sai dei Jedi?”
“So che si credono i guardiani della Repubblica”, rispose Des senza
tentare di nascondere il proprio disprezzo. “So che esercitano una grande
influenza nel Senato. So che molti credono di possedere poteri mistici”.
“E della Confraternita dell’Oscurità?”
Stavolta, Des soppesò con più cura le sue parole. “Siete i capi del nostro
esercito e nemici giurati dei Jedi. Molti credono che, come loro, possediate
abilità innaturali!”
“E tu no?”
Des esitò, sforzandosi di trovare la risposta che pensava Kopecz volesse
ascoltare. Alla fine non riuscì a immaginarsi cosa cercasse il suo
inquisitore, e così disse semplicemente la verità. “Credo che gran parte di
queste storie siano molto esagerate”.
Kopecz annuì. “Convinzione abbastanza comune. Chi non comprende le
vie della Forza considera simili storie come miti o leggende. Ma la Forza è
reale, e chi la controlla ha un potere che non puoi neanche immaginare.
“Hai visto molte battaglie, ma non hai esperienza della vera guerra.
Mentre i soldati competono per il controllo di lune e pianeti, i Maestri Jedi e
Sith cercano di distruggersi a vicenda. Ci stiamo dirigendo verso un
confronto finale e inevitabile. La fazione sopravvissuta, che sia Sith o Jedi,
deciderà il destino della galassia per i prossimi mille anni.
“In questa guerra, la vera vittoria non si otterrà con gli eserciti, ma
tramite la Confraternita. La nostra arma più grande è la Forza, e gli
individui col potere di dominarla. Individui come te”.
Fece una pausa per lasciare che le sue parole facessero effetto. “Tu sei
speciale, Des. Hai molti talenti notevoli. Si tratta di manifestazioni della
Forza, e ti hanno servito bene da soldato. Ma hai soltanto sfiorato la
superficie del tuo dono. La Forza è reale, ed esiste intorno a noi. Puoi
sentirne il potere in questa stessa stanza. Riesci a percepirlo?”
Des esitò solo un attimo, poi annuì. “Lo sento. È rovente, come un
incendio che sta per scoppiare”.
“È il potere del Lato Oscuro. Il calore della passione e dell’emozione.
Riesco a sentirlo ardere, anche dentro di te. Come la tua rabbia. Ti rende
forte”.
Kopecz chiuse gli occhi e inclinò la testa all’indietro come se si
crogiolasse in quel calore. La punta del lekku aveva dei guizzi leggerissimi.
L’unico rumore era il tenue crepitio delle torce. Dalla testa glabra di Des
colò una goccia di sudore che gli scese lungo la nuca. Non l’asciugò, ma
mosse comunque i piedi a disagio mentre quella continuava verso le
scapole. Quel minimo movimento parve strappare il Twi’lek dalla sua
trance.
Per alcuni secondi non parlò di nuovo, pur studiando assorto Des col suo
sguardo penetrante. “In passato hai toccato la Forza, ma le tue abilità non
sono che un granello di polvere dinanzi al potere di un vero Maestro Sith”,
disse finalmente. “Hai un grande potenziale. Se resterai su Korriban
potremo insegnarti a usarlo”.
Des non sapeva cosa dire.
“Non saresti più un soldato nelle prime linee”, continuò Kopecz. “Se
accetterai la mia offerta, quella fase della tua vita finirà. Sarai addestrato
nelle vie del Lato Oscuro. Diventerai parte della Confraternita
dell’Oscurità. E non farai ritorno ai Camminatori del Buio”.
Des si sentì la testa leggera, il cuore che gli martellava. Sapeva di essere
speciale per via dei suoi talenti sin da quando aveva memoria. E in quel
momento gli avevano detto che le sue capacità erano nulla a confronto di
ciò che avrebbe potuto davvero raggiungere.
Una parte di lui, tuttavia, tentennava all’idea di lasciare la sua unità senza
neppure aver modo di salutarli. Considerava Adanar, Lucia e gli altri più
che semplici compagni: erano degli amici. Davvero poteva abbandonarli in
quel modo, anche per l’occasione di unirsi ai Maestri Sith?
Rammentò una delle ultime cose che gli aveva detto Groshik: Non
contare sull’aiuto degli altri. In fin dei conti, siamo tutti soli. Sopravvive chi
sa badare a se stesso.
Aveva dato alla sua unità tutto ciò che aveva. Aveva salvato loro la vita
troppe volte per contarle. E alla fine, quando gli agenti erano venuti a
portarlo via, loro non erano stati in grado di salvare lui. Se glielo avesse
permesso ci avrebbero provato, ma avrebbero fallito. Des capì la verità:
ormai la sua unità, i suoi amici, non avrebbero potuto fare nulla per lui.
Poteva contare solo su se stesso, come sempre. Sarebbe stato da sciocchi
rifiutare quell’opportunità.
“Maestro Kopecz, sono onorato e accetto la vostra offerta con
gratitudine”.
“La via dei Sith non è adatta ai deboli”, lo avvertì l’imponente Twi’lek.
“Chi esita... sarà lasciato indietro”. Nel suo tono c’era un che di minaccioso.
“Non succederà”, rispose Des imperterrito.
“Staremo a vedere”, osservò Kopecz, poi aggiunse: “Questo è un nuovo
inizio per te, una nuova vita. Molti studenti che si recano qui si scelgono un
nuovo nome, lasciandosi alle spalle la loro vecchia esistenza”.
Des non desiderava conservare nessuna parte della sua vita precedente.
Un padre violento, la brutalità del lavoro in miniera su Apatros: nei suoi
ricordi non c’era altro che la ricerca di una nuova vita. I Camminatori gli
avevano offerto una via di fuga, ma era stata solo temporanea. In quel
momento aveva l’occasione di lasciarsi per sempre il passato alle spalle.
Non doveva far altro che abbracciare la Confraternita dell’Oscurità e i suoi
insegnamenti. Eppure, per motivi che non riusciva a spiegare, sentì la
fredda morsa della paura incalzarlo, e così esitò.
“Desideri scegliere un nuovo nome, Dessel?”, domandò Kopecz, forse
percependone la riluttanza. “Desideri rinascere?” Des annuì.
Kopecz sorrise ancora una volta. “E come dovremo chiamarti?”
La paura non lo avrebbe fermato: l’avrebbe catturata, trasformata e resa
sua. Avrebbe preso ciò che un tempo lo aveva reso debole e lo avrebbe
sfruttato per diventare più forte.
“Il mio nome è Bane. Bane dei Sith”.
Kopecz se n’era andato per riunirsi all’esercito di Kaan e alla guerra che
infuriava contro i Jedi e la Repubblica. Bane invece era rimasto
all’Accademia su Korriban per apprendere le vie dei Sith. La prima lezione
iniziò la mattina successiva sotto lo stesso Lord Qordis.
“I principi Sith non sono solo semplici parole da memorizzare”, spiegò il
Maestro dell’Accademia al suo nuovo apprendista. “Imparale e
comprendile. Ti condurranno al vero potere della Forza: quello del Lato
Oscuro”.
Qordis era più alto di Kopecz, e persino più di Bane. Era esile e avvolto
in una veste nera e larga, il cappuccio abbassato che gli ricadeva sulle
spalle. Poteva darsi che fosse umano, ma il suo aspetto aveva qualcosa di
strano. La sua carnagione era di una tonalità innaturale, simile a gesso,
messa ancora più in risalto dalle gemme luccicanti che adornavano i molti
anelli portati sulle lunghe dita. Aveva occhi scuri e infossati, denti aguzzi e
unghie ricurve come artigli crudeli.
Bane, che a sua volta indossava una veste nera col cappuccio abbassato,
s’inginocchiò dinanzi a lui. Quella stessa mattina aveva udito per la prima
volta il Codice Sith, le cui parole risuonavano ancora vivide e misteriose.
Gli rigiravano in mente come tanti mulinelli nella corrente sotterranea dei
suoi pensieri, affiorando ogni tanto mentre cercava di assorbirne il profondo
significato. La pace è una menzogna. C’è solo la passione. Almeno, sapeva
che il primo principio era vero: la sua intera vita ne era la prova.
“Kopecz mi ha detto che sei venuto qui da noi come apprendista
inesperto”, osservò Qordis. “Dice che non sei mai stato addestrato nelle vie
della Forza”.
“Imparo in fretta”, gli assicurò Bane.
“Sì... e il Lato Oscuro scorre potente in te. Ma lo stesso può dirsi di tutti
coloro che arrivano qui”.
Non essendo certo di come rispondere, Bane decise che l’azione più
saggia fosse restare in silenzio.
“Cosa sai di quest’Accademia?”, chiese finalmente Qordis.
“Qui, gli studenti imparano a usare la Forza. Voi e gli altri Signori dei
Sith insegnate loro i segreti del Lato Oscuro”. Aggiunse poi, dopo una
breve esitazione: “E so che esistono molte altre accademie come questa”.
“No”, lo corresse Qordis. “Non come questa. È vero che nel nostro
sempre più grande impero ci sono altre strutture di addestramento, luoghi
dove s’insegna agli individui promettenti come usare il proprio potere. Ma
ogni struttura è unica, e quella dove ogni singolo studente viene inviato
dipende dal potenziale che scorgiamo in lui.
“Chi possiede abilità notevoli ma limitate finisce su Honoghr, Gentes o
Gamorr per diventare un Guerriero o un Predone Sith. Lì impara a
incanalare le emozioni in rabbia incontrollata e furia combattiva. Il potere
del Lato Oscuro lo trasforma in una belva devastatrice che scatena morte e
distruzione sui nostri nemici”.
Attraverso la passione, acquisto forza, pensò Bane. Ma quando parlò
disse: “La forza bruta non basta da sola a far cadere la Repubblica”.
“È vero”, concordò Qordis. Bane capì dal tono della sua voce di aver
detto ciò che il Maestro desiderava.
“Chi possiede abilità superiori viene inviato su pianeti alleatisi alla nostra
causa per la distruzione della Repubblica: Ryloth, Umbara, Nar Shadaa.
Questi apprendisti diventano ombre che imparano a usare il Lato Oscuro
per agire in segretezza, con l’inganno e la manipolazione. Chi sopravvive
all’addestramento si trasforma in un assassino inarrestabile, capace di
attingere al Lato Oscuro per uccidere senza muovere un muscolo”.
“Eppure, neanche loro possono sconfiggere un Jedi”, aggiunse Bane,
ritenendo di aver compreso dove fosse diretta quella lezione.
“Esattamente”, concordò il Maestro. “Le accademie di Dathomir e
Iridonia sono le più simili a questa. Là, gli apprendisti studiano sotto i
Maestri Sith. Se l’addestramento ha successo, si diventa adepti e seguaci
per ingrossare le file del nostro esercito. Sono le controparti dei Cavalieri
Jedi che si frappongono tra noi e la conquista finale.
“Ma come i Cavalieri Jedi devono rispondere ai Maestri, così devono
fare gli adepti e i seguaci con i Signori dei Sith. E coloro che possiedono il
potenziale per diventare Signori dei Sith, e soltanto loro, vengono addestrati
qui su Korriban”.
Bane provò un brivido di esaltazione. Attraverso la forza, guadagno
potere.
“Korriban era il pianeta ancestrale dei Sith”, spiegò Qordis. “È un luogo
dal grande potere: il Lato Oscuro vive e pulsa nel cuore di questo mondo”.
Fece una pausa e allungò lentamente la mano scheletrica, col palmo
rivolto verso l’alto. Sembrava quasi che le dita simili ad artigli
racchiudessero qualcosa d’invisibile, qualcosa di prezioso e inestimabile.
“Il tempio in cui ci troviamo è stato costruito migliaia di anni fa per
raccogliere e focalizzare quel potere. Qui si può avvertire il Lato Oscuro al
massimo della sua potenza”. Serrò il pugno così stretto che le lunghissime
unghie gli si conficcarono nel palmo, facendone colare del sangue. “Sei
stato scelto perché possiedi un grande potenziale”, sussurrò. “Ci si aspetta
molto dagli apprendisti, qui su Korriban. L’addestramento è difficile, ma
per chi riesce a superarlo le ricompense sono grandi”.
Attraverso il potere, guadagno la vittoria.
Qordis tese la mano e impose il palmo insanguinato sulla testa di Bane,
ungendolo col sangue di un Signore dei Sith. Da soldato, Bane aveva visto
sangue in abbondanza, eppure quell’atto cerimoniale di autolesionismo lo
disgustò, per qualche ragione, più di qualunque massacro sul campo di
battaglia. Riuscì a stento a non ritrarsi.
“Hai il potenziale per diventare uno di noi: un membro della
Confraternita dell’Oscurità. Insieme potremo liberarci dai ceppi della
Repubblica”.
Attraverso la vittoria, spezzo le mie catene.
“Ma anche chi ha potenziale può fallire”, concluse Qordis. “Confido che
non ci deluderai”.
Bane non ne aveva la minima intenzione.
Bane si gettò a capofitto nei suoi studi e le settimane successive
trascorsero in fretta. Scoprì con sorpresa che la sua inesperienza nella Forza
era l’eccezione, non la regola. Molti studenti si erano addestrati per mesi o
anni prima di venir accettati nell’Accademia di Korriban.
All’inizio, Bane ne era stato turbato. Aveva appena cominciato ad
addestrarsi ed era già indietro. In un contesto tanto competitivo e spietato
sarebbe stato un bersaglio facile per tutti gli altri studenti. Ma
rimuginandoci sopra, iniziò a rendersi conto che forse non era vulnerabile
quanto pensava.
Fra tutti gli apprendisti dell’Accademia, solo lui era riuscito a
manifestare il potere del Lato Oscuro senza alcun tipo di addestramento. Lo
aveva usato tanto spesso da arrivare a darlo per scontato. Gli aveva dato
vantaggio giocando a carte e nelle risse. In guerra lo aveva avvertito dei
pericoli e portato alla vittoria in circostanze altrimenti impossibili.
E tutto era accaduto d’istinto, senza un addestramento e neppure la
minima consapevolezza di ciò che faceva. In quel momento, per la prima
volta, gli insegnavano a usare davvero le sue abilità. Non doveva
preoccuparsi di nessun altro studente... anzi, loro avrebbero dovuto
preoccuparsi. Una volta completato il suo addestramento, nessun altro
sarebbe stato alla sua altezza.
Gran parte della sua formazione era seguita da Qordis e dagli altri
Maestri: Kas’im, Orilltha, Shenayag, Hezzoran e Borthis. All’Accademia
c’erano sessioni di allenamento di gruppo, ma erano poche e lontane tra
loro. Non era ammissibile che i più deboli rallentassero chi era forte e
ambizioso. Gli studenti imparavano coi propri ritmi, spinti dalla brama e
dalla sete di potere. Tuttavia, ogni Maestro aveva quasi sei studenti, e gli
apprendisti dovevano dimostrarsi degni prima che un istruttore dedicasse
del tempo prezioso a insegnargli i segreti dei Sith.
Pur essendo un novizio, per Bane era facile attirare l’attenzione dei
Signori dei Sith, in particolare di Qordis. Sapeva che ciò avrebbe
inevitabilmente suscitato ostilità negli altri studenti, ma si sforzava di non
pensarci. Col tempo, l’istruzione ricevuta dai Maestri gli avrebbe consentito
di raggiungere e superare gli altri apprendisti, e a quel punto non avrebbe
avuto bisogno di preoccuparsi delle loro meschine gelosie. Fino ad allora,
fece attenzione a restare nell’ombra e a non farsi notare.
Quando non apprendeva dai Maestri si chiudeva in biblioteca, a studiare
le cronache antiche. Così come i Jedi custodivano i propri archivi nel
Tempio di Coruscant, allo stesso modo i Sith avevano iniziato a raccogliere
e conservare le informazioni negli archivi del tempio di Korriban. Tuttavia,
a differenza della biblioteca dei Jedi, dove gran parte dei dati era
immagazzinata in formato elettronico, olografico e negli holocron, la
collezione Sith si limitava a pergamene, volumi e manuali. Durante i
tremila anni standard trascorsi da quando Darth Revan aveva quasi distrutto
la Repubblica, i Jedi avevano condotto un’instancabile guerra per
rimuovere gli strumenti educativi del Lato Oscuro. Tutti gli holocron Sith
conosciuti erano stati distrutti oppure trafugati e portati in custodia nel
Tempio dei Jedi su Coruscant. Circolavano molte voci di ignoti holocron
Sith nascosti su mondi remoti oppure avidamente accumulati da un qualche
Maestro oscuro bramoso di tenere per sé tutta quella sapienza segreta. Ogni
tentativo di trovare quei tesori perduti da parte della Confraternita si era
però rivelato inutile, costringendola ad affidarsi alle primitive tecnologie
della pergamena e del filmplast.
Visto poi che alla collezione si aggiungevano costantemente nuovi pezzi,
indici e riferimenti erano irrimediabilmente desueti. Spesso ricercare negli
archivi era un esercizio di futilità o di frustrazione, e gli studenti pensavano
in gran parte che avrebbero impiegato meglio il loro tempo apprendendo dai
Maestri o impressionandoli.
Forse era più grande di quasi tutti gli altri, o forse anni passati a fare il
minatore gli avevano insegnato la virtù della pazienza: qualunque fosse la
spiegazione, Bane trascorreva ogni giorno ore e ore a studiare le vecchie
cronache. Le trovava affascinanti: molti rotoli erano resoconti storici che
raccontavano antiche battaglie o decantavano le imprese di passati Signori
dei Sith. Di per sé, le informazioni non avevano grande utilità pratica, ma
riusciva a vedere ogni singola opera per ciò che in realtà rappresentava: il
minuscolo tassello di un mosaico molto più grande, un indizio che
conduceva a una comprensione assai superiore.
Gli archivi completavano ciò che apprendeva dai Maestri,
contestualizzando le lezioni astratte. Bane pensava che col tempo
quell’antica sapienza sarebbe stata la chiave per sbloccare appieno il suo
potenziale. E così la sua comprensione della Forza si plasmava poco a poco.
Mistica e inspiegabile, la Forza era anche naturale ed essenziale:
un’energia fondamentale, che teneva assieme l’universo e legava ogni cosa
vivente al suo interno. Un’energia, un potere che era possibile sfruttare, che
si poteva controllare e manipolare. E, attraverso gli insegnamenti del Lato
Oscuro, Bane stava imparando a impadronirsene. Eseguiva le sue
meditazioni e gli esercizi quotidianamente, spesso sotto lo sguardo vigile di
Qordis. Dopo appena qualche settimana imparò a spostare piccoli oggetti
col semplice pensiero: qualcosa che solo poco tempo prima avrebbe
ritenuto impossibile.
A quel punto, tuttavia, aveva capito che era soltanto l’inizio. Cominciava
ad afferrare una grande verità, a un livello profondo e basilare: la forza per
sopravvivere deve provenire dall’interno. Gli altri vengono sempre meno:
amici, parenti, commilitoni... In definitiva, ogni persona è sola. In caso di
bisogno, bisogna pensare a se stessi.
Il Lato Oscuro alimentava il potere del singolo individuo. Gli
insegnamenti dei Maestri Sith lo avrebbero reso più forte. Soddisfacendoli
avrebbe potuto realizzare completamente il suo potenziale, e un giorno
sedere tra loro.
Bane avvertì la presenza di qualcuno che lo seguiva per le scale del tetto
molto prima di udirne i passi. Non cambiò andatura, ma si fermò al primo
pianerottolo e si voltò verso di esso. Si sarebbe aspettato di vedere Lord
Kas’im, ma anziché il Maestro si ritrovò a fissare le iridi ambrate di Sirak,
un altro apprendista dell’Accademia; anzi, il migliore di tutta l’Accademia.
Sirak era uno Zabrak, uno dei tre che studiavano su Korriban. Gli Zabrak
tendevano a essere ambiziosi, determinati e arroganti: tratti che forse
spiegavano perché il Lato Oscuro fosse tanto potente negli esponenti della
specie sensibili alla Forza. Sirak era la perfetta incarnazione di tutte quelle
caratteristiche, ed era di gran lunga il più forte dei tre apprendisti. Ovunque
Sirak andasse, in genere gli altri due lo seguivano, standogli alle calcagna
come servi obbedienti. Erano un trio pittoresco: rossi di pelle Llokay e
Yevra, giallo chiaro Sirak. In quel momento, però, gli altri due erano
assenti.
Correva voce che Sirak avesse iniziato a studiare le arti del Lato Oscuro
sotto Lord Qordis quasi vent’anni addietro, da ben prima che l’Accademia
su Korriban venisse riaperta. Bane non sapeva se le voci fossero vere e non
aveva ritenuto saggio fare domande in merito. Lo Zabrak iridoniano era sia
potente che pericoloso; fino ad allora, Bane aveva fatto del suo meglio per
non attirare l’attenzione dello studente più forte dell’Accademia. Ma a
quanto pareva, quella strategia non era più praticabile.
La scarica di adrenalina provata nel recidere la vita di Fohargh stava
svanendo assieme alla sicurezza e al senso d’invincibilità che avevano
condotto a quella morte drammatica. Bane non si sentiva propriamente
spaventato dallo Zabrak che si avvicinava, ma di certo era circospetto.
Al fioco bagliore delle torce nel tempio, la pelle giallo chiaro di Sirak
aveva assunto una tonalità cerea e malaticcia che riportò i pensieri di Bane,
senza volerlo, al suo primo anno di lavoro nelle miniere su Apatros. Una
squadra di cinque persone, tre uomini e due donne, era rimasta intrappolata
da una frana. Erano sopravvissuti al crollo del tunnel fuggendo in una
camera di sicurezza rinforzata ricavata nella roccia, ma i gas tossici liberati
dal fenomeno erano trapelati in quel rifugio, uccidendoli tutti prima che le
squadre di salvataggio potessero tirarli fuori. Il colorito dei cadaveri rigonfi
era identico a quello di Sirak: il colore di una morte lenta e dolorosa.
Bane scosse la testa, respingendo quel ricordo. Apparteneva a Des, e lui
non c’era più. “Che cosa vuoi?”, domandò cercando di mantenere la calma.
“Sai perché mi trovo qui”, fu la glaciale risposta. “Fohargh”.
“Era un tuo amico?” Bane era sinceramente confuso. A eccezione dei
suoi simili Zabrak, Sirak interagiva raramente con gli altri studenti. Anzi,
molte delle accuse rivolte da Fohargh a Bane di un trattamento di favore da
parte dei Maestri potevano facilmente valere anche per Sirak.
“Il Makurth non era un amico né un nemico”, rispose in tono altezzoso.
“Non meritava la mia attenzione, come te. Almeno finora”.
L’unica replica di Bane fu uno sguardo fisso e inamovibile. La luce
vibrante delle torce che si rifletteva nelle pupille dello Zabrak dava
l’impressione che delle lingue di fiamma gli lambissero la fronte.
“Sei un avversario affascinante”, bisbigliò Sirak, avvicinandosi di un
passo. “Sei formidabile... almeno in confronto agli altri cosiddetti
apprendisti. Sappi che ti osservo, adesso. E aspetto”.
Allungò lentamente un braccio e premette il dito sul petto di Bane; questi
dovette resistere all’impulso di fare un passo indietro.
“Io non sfido nessuno”, continuò lo Zabrak. “Non ho bisogno di mettermi
alla prova contro avversari inferiori”. Dopo il lampo di un sorriso crudele,
abbassò il dito e fece un passo indietro. “Tuttavia, quando t’illuderai di
essere pronto, inevitabilmente mi sfiderai. Aspetterò con impazienza quel
momento”.
Detto questo, passò accanto a Bane sull’angusto pianerottolo, urtandolo
leggermente con la spalla come se non se ne fosse accorto e poi
continuando a scendere le scale fino al piano inferiore.
A Bane non sfuggì il messaggio contenuto in quella conversazione.
Sapeva che Sirak stava tentando d’intimidirlo, d’incitarlo a uno scontro per
cui non era pronto. Non sarebbe caduto in quella trappola. Rimase invece
immobile sul pianerottolo, rifiutandosi di girarsi per guardare Sirak
andarsene. Si mosse di nuovo solo quando udì il rumore del resto della
classe che scendeva dal tetto: si girò e continuò a scendere le scale verso i
livelli inferiori e l’intimità della sua stanza.
CAPITOLO 11
Il mattino seguente Bane non si ritrovò con gli altri studenti che si
esercitavano sul tetto del tempio. Lord Qordis voleva parlargli. In privato.
Diretto all’incontro, percorreva i corridoi praticamente vuoti
dell’Accademia, esteriormente calmo e fiducioso. Dentro di sé, invece, era
tutto l’opposto.
Aveva rivissuto il duello nei suoi ricordi più e più volte, per tutta la notte,
mentre giaceva sul letto nel silenzio e nell’oscurità della sua stanza. Libero
dall’emozione della battaglia, sapeva di essersi spinto troppo oltre. Aveva
dimostrato la superiorità su Fohargh bloccandolo con la Forza; aveva
ottenuto il dun möch. Il Makurth non avrebbe più osato sfidarlo. Eppure,
per qualche motivo Bane non era riuscito a fermarsi. Non aveva voluto
farlo.
All’inizio, le sue azioni non gli avevano causato alcun senso di colpa.
Una volta calmatosi, tuttavia, una parte di sé non riusciva a non pensare di
aver commesso qualcosa di sbagliato. Davvero Fohargh meritava di morire?
Un’altra parte di sé, però, rifiutava di accettare il senso di colpa. Non
provava simpatia per il Makurth, assolutamente nessun tipo di sentimento.
Fohargh non era stato che un ostacolo per i suoi progressi. Un ostacolo che
era stato eliminato.
In quel momento si era abbandonato completamente al Lato Oscuro. Era
stato qualcosa di più che semplice rabbia o sete di sangue: era in profondità,
nel cuore stesso del suo essere. Aveva perso totalmente la ragione e il
controllo... ma gli era sembrato giusto così.
Bane aveva trascorso una lunga notte insonne nel tentativo di riconciliare
i due opposti del trionfo e del rimorso. Ma quando quel mattino era arrivata
la convocazione, il suo conflitto interiore era stato spazzato via da
preoccupazioni più immediate.
La morte di Fohargh avrebbe avuto delle ripercussioni. Il combattimento
era inteso per mettere alla prova gli apprendisti, per indurirne l’animo
tramite il dolore e la fatica. Non per uccidere. Ogni singolo discepolo
dell’Accademia, da Sirak fino al più infimo degli studenti, aveva la capacità
di diventare un Maestro. Ciascuno possedeva un raro talento per il Lato
Oscuro, un dono che avrebbe dovuto essere usato contro i Jedi, non gli altri
apprendisti.
Uccidendo Fohargh, Bane aveva assottigliato le file dei potenziali
Maestri Sith; aveva inferto un grave colpo allo sforzo bellico. Ogni
apprendista dell’Accademia era più prezioso di un’intera divisione di
soldati Sith. Aveva distrutto uno strumento inestimabile e, sospettava,
sarebbe stato severamente punito per questo.
Mentre marciava verso l’incontro che avrebbe potuto decretare il suo
destino, tentò di scacciare dalla mente sia la paura che i sensi di colpa.
Niente di ciò che poteva fare in quel momento avrebbe riportato indietro
Fohargh. Il Makurth non c’era più, ma Bane sì, ed era un sopravvissuto.
Doveva essere forte. Doveva trovare un modo per giustificare le sue azioni
a Lord Qordis.
Stava già raccogliendo le sue argomentazioni. Fohargh era stato debole.
Bane non lo aveva semplicemente ucciso: lo aveva smascherato. Tra i
compiti di Qordis e degli altri Maestri c’era anche l’esortare alla rivalità e al
disaccordo. Comprendevano il valore della sfida e della competizione: chi
mostrava certe promesse, innalzandosi su tutti gli altri, veniva premiato.
Riceveva un’istruzione personale dai Maestri per realizzare il proprio
potenziale. Chi non ci riusciva restava indietro. Erano queste le vie del Lato
Oscuro.
La morte di Fohargh non era che un’estensione naturale di quella
filosofia. Era il fallimento definitivo: il suo fallimento. Perché Bane
avrebbe dovuto essere incolpato per la debolezza di un altro?
Accelerò il passo e serrò i denti con rabbiosa frustrazione. Non c’era da
meravigliarsi che si trovasse in uno stato così conflittuale. Gli insegnamenti
dell’Accademia si contraddicevano da soli: il Lato Oscuro non consentiva
pietà né perdono, eppure ci si aspettava che gli apprendisti si trattenessero
dopo aver avuto la meglio sull’avversario in un duello. Era innaturale.
Era giunto sulla soglia della stanza di Qordis. Esitò, in bilico tra la paura
della punizione e la rabbia per la situazione impossibile in cui ogni giorno
venivano posti lui e gli altri apprendisti.
Alla fine, decise che la rabbia gli sarebbe stata più utile.
Bussò con decisione alla porta, poi l’aprì quando dall’interno gli fu
ordinato di entrare. Qordis era inginocchiato al centro della camera,
immerso nella meditazione. Bane si era già trovato in quella stanza, ma non
riuscì a non stupirsi per la sua opulenza. Alle pareti erano appesi arazzi e
tendaggi costosi. Bracieri e turiboli d’oro, in cui bruciava un pesante
incenso, erano sparsi in giro a illuminare l’aria torbida. In un angolo era
sistemato un letto ampio e lussuoso; in un altro c’era un tavolo di ossidiana
riccamente intagliato, con sopra un piccolo scrigno.
Quest’ultimo aveva il coperchio sollevato a rivelare i gioielli che
conteneva: collane e ciondoli di metalli preziosi, anelli d’oro e platino
tempestati di splendide gemme. Qordis si faceva in quattro per circondarsi
di beni materiali e dimostrazioni di ricchezza, e ancor di più si sforzava per
accertarsi che gli altri lo notassero. Bane sospettava che il Signore dei Sith,
a un certo livello, ricavasse piacere e potere dall’invidia e dall’avidità che i
suoi averi suscitavano negli altri.
Tuttavia, quegli ammennicoli non interessavano a Bane, più colpito dai
volumi e dai manoscritti disposti in fila sulle librerie alle pareti, ciascuno
maestosamente rilegato in cuoio e decorato con oro sbalzato. Molti dei tomi
erano vecchi di millenni, e lui sapeva che contenevano i segreti degli antichi
Sith.
Finalmente, Lord Qordis si alzò, ergendosi in tutta la sua altezza per
dominare lo studente coi suoi occhi grigi e infossati.
“Kas’im mi ha riferito quanto accaduto ieri mattina”, disse. “Mi ha detto
che sei responsabile della morte di Fohargh”. Il suo tono di voce non
permise a Bane di comprenderne le intenzioni.
“Non sono responsabile della sua morte”, rispose con calma. Era
arrabbiato, ma non stupido. Scelse le parole successive con gran cura:
voleva convincere Lord Qordis, non provocarne l’ira. “È stato Fohargh ad
abbassare la guardia. Si è reso vulnerabile nell’arena. Sarebbe stato da
deboli non approfittarne”.
La dichiarazione non era del tutto corrispondente ai fatti, ma si
avvicinava al vero a sufficienza. Una delle prime lezioni impartite da
Kas’im agli studenti era come innalzare intorno a sé uno scudo protettivo in
combattimento per impedire a un nemico di usare la Forza contro di loro.
Un avversario capace di usare la Forza poteva strappare via la spada laser
dalla mano, far perdere l’equilibrio o persino disattivare l’arma senza
neppure toccarla. Uno scudo di Forza era la protezione più elementare che
esistesse, e anche la più necessaria.
Era diventato istintivo per tutti gli apprendisti, quasi una seconda natura,
creare lo schermo protettivo appena impugnata la spada. Difendersi dai
poteri della Forza usati dal nemico e oscurare le proprie intenzioni esigeva
concentrazione ed energia pari ad aumentare la prestanza fisica o prevedere
le mosse del nemico. Più spesso era la parte invisibile del combattimento, lo
scontro fra due volontà, e non la più evidente interazione fra i corpi e le
spade a determinare l’esito di un duello.
“Kas’im ha detto che Fohargh non ha abbassato la guardia”, controbatté
Qordis. “Ha riferito che l’hai semplicemente penetrata. Le sue difese non
potevano resistere al tuo potere”.
“State dicendo, Maestro, che dovrei trattenermi se il mio avversario è
debole?” Naturalmente era una domanda retorica, a cui Qordis non si
sarebbe nemmeno preso la briga di rispondere.
“Una cosa è sconfiggere un avversario nell’arena. Anche una volta a
terra, però, hai continuato a infierire. Avevi vinto già molto prima che lo
uccidessi. Ciò che hai fatto non è stato diverso dal colpire con la tua lama
un nemico privo di conoscenza... una cosa che non è consentita nell’arena
degli allenamenti”.
Quelle parole colpirono troppo vicino al segno, andando a rivangare il
senso di colpa che Bane aveva tentato di seppellire mentre si dirigeva a
quell’incontro. Qordis restò in silenzio, in attesa della sua reazione: doveva
rispondere in un qualche modo, ma l’unica cosa che gli riuscì di pensare fu
una domanda con cui si era arrovellato nelle ore che precedevano l’alba.
“Kas’im sapeva cosa stava succedendo. Vedeva chiaramente ciò che facevo.
Perché non mi ha fermato?”
“Già, perché no?”, disse Qordis con disinvoltura. “Lord Kas’im voleva
vedere cosa sarebbe successo, come ti saresti comportato in tale situazione.
Voleva vedere se avresti avuto pietà... o se ti saresti dimostrato forte”.
E così, all’improvviso Bane si rese conto che il Maestro non lo aveva
convocato per punirlo. “Non... non capisco. Credevo fosse proibito uccidere
un altro apprendista”.
Qordis annuì. “Non possiamo permettere che gli studenti si attacchino a
vicenda nei corridoi; vogliamo che convogliate il vostro odio verso i Jedi,
non l’uno contro l’altro”. In quelle parole riecheggiava il conflitto interiore
che si era svolto dentro Bane solo qualche minuto prima. Quel che il
Maestro disse dopo, però, fu qualcosa che non si era aspettato.
“Ciò nonostante, la morte di Fohargh potrebbe essere una perdita
trascurabile, se ti aiuterà a realizzare completamente il tuo potenziale. Si
possono fare eccezioni, per chi è potente nel Lato Oscuro”.
“Come Sirak?”, domandò Bane; le parole gli uscirono prima che se ne
rendesse conto.
Per fortuna, quella domanda parve divertire Lord Qordis anziché
offenderlo. “Sirak comprende il potere del Lato Oscuro”, disse sorridendo.
“È la passione che lo alimenta”.
“La pace è una menzogna, c’è solo la passione”. Bane mormorò per
abitudine. “Attraverso la passione, acquisto forza”.
“Esatto”. Qordis pareva compiaciuto, ma era difficile capire se di sé
stesso o del suo studente. “Attraverso la forza, guadagno potere. Attraverso
il potere, guadagno la vittoria...”
“Attraverso la vittoria, spezzo le mie catene”, recitò Bane con diligenza.
“Se comprenderai queste parole, se le comprenderai davvero, allora il tuo
potenziale sarà illimitato!”
Qordis lo congedò con un gesto della mano, poi si riadagiò sul tappeto da
meditazione mentre Bane si voltava e se ne andava. Tuttavia, il giovane si
fermò sulla soglia e si girò.
“Cos’è il Sith’ari?”, sbottò.
Qordis inclinò il capo. “Dove l’hai sentito?” Aveva un tono solenne.
“L’hanno... detto alcuni studenti. Parlavano di Sirak. Sostenevano che
potrebbe essere il Sith’ari”.
“Alcuni antichi testi parlano del Sith’ari”, rispose Qordis lentamente, con
un cenno della mano ingioiellata verso i libri sparsi per la stanza. “Dicono
che un giorno i Sith saranno guidati da un essere perfetto, che rappresenta il
Lato Oscuro e tutto ciò in cui crediamo”.
“E Sirak è questo essere perfetto?”
Qordis si strinse nelle spalle. “Sirak è lo studente più forte
dell’Accademia. Per ora. Col tempo, forse, sorpasserà Kas’im, me e tutti gli
altri Signori dei Sith. O forse no”. Fece una pausa. “Molti Maestri non
credono nella leggenda del Sith’ari”, continuò dopo un attimo. “Per
esempio, Lord Kaan non la considera nemmeno. Va contro la filosofia
sottesa alla Confraternita dell’Oscurità”.
“E voi, Maestro? Credete alla leggenda?”
Bane attese che Qordis riflettesse sulla risposta. Gli parve un’eternità.
“È pericoloso porre queste domande”, disse infine il Signore Oscuro.
“Ma se il Sith’ari è più che una leggenda, non nascerà semplicemente come
prodotto dei nostri insegnamenti. Per raggiungere una tale perfezione, dovrà
essere forgiato o forgiata da dure prove e battaglie. Alcuni potrebbero
sostenere che un simile addestramento sia proprio lo scopo di
quest’Accademia. Ma io ribatterei che noi addestriamo gli apprendisti
affinché si uniscano alle file dei Signori dei Sith, in modo da potersi
affiancare a Kaan e al resto della Confraternita”.
Rendendosi conto che quella sarebbe stata l’unica risposta, Bane annuì e
se ne andò. Era stato assolto dal crimine, perdonato per via del suo potere e
del suo potenziale. Avrebbe dovuto esultarne, sentirsi trionfante, ma per
qualche motivo tutto ciò a cui riusciva a pensare, salendo sul tetto per
raggiungere gli altri studenti, erano gli ultimi rantoli strozzati emessi da
Fohargh prima di morire.
“Fai schifo”, sbraitò suo padre. “Guarda quanto mangi! Sei peggio di un
maiale zucca!”
Des tentò d’ignorarlo. Seduto al tavolo da pranzo, si rannicchiò sulla
sedia e si concentrò sul cibo che aveva nel piatto, infilandosene lentamente
delle forchettate in bocca.
“Mi hai sentito, ragazzo?”, lo aggredì il padre. “Pensi che quel cibo che
hai davanti sia gratis? Lo devo pagare io, sai! Questa settimana ho lavorato
tutti i giorni e ho più debiti adesso che all’inizio di questo dannato mese!”
Come al solito, Hurst era ubriaco. Aveva lo sguardo vitreo e ancora il
puzzo della fatica addosso; non si era neppure preso la briga di lavarsi
prima di attaccarsi alla bottiglia che teneva infilata tra le coperte della
branda.
“Vuoi che cominci a fare i doppi turni per darti da mangiare, ragazzo?”,
gridò.
Senza alzare gli occhi dal piatto, Des mormorò: “Io faccio gli stessi turni
che fai tu”.
“Che cosa?”, disse Hurst, abbassando la voce al livello di un sussurro
minaccioso. “Cos’è che hai detto?”
Anziché mordersi la lingua, Des alzò lo sguardo dal piatto per fissarlo
negli occhi lucidi e arrossati. “Ho detto che faccio gli stessi turni che fai tu.
E ho soltanto diciott’anni”.
Hurst spinse indietro la sedia e si alzò. “Diciott’anni e ancora troppo
stupido per sapere quando tenere il becco chiuso”. Scosse la testa da una
parte all’altra, in segno di plateale delusione. “Sei la stramaledetta rovina
della mia esistenza, ecco cosa”.
Gettando la forchetta nel piatto, Des spinse a sua volta la sedia indietro e
si alzò in tutta la sua statura. Era diventato più alto del padre, e la sua
corporatura iniziava a riempirsi dei muscoli formati nei tunnel.
“Vuoi picchiarmi adesso?”, ringhiò al padre. “Vuoi darmi una lezione?”
Hurst spalancò la bocca. “Che cavolo hai che non va, ragazzo?”
“Ne ho abbastanza”, sbottò Des. “Mi dai la colpa di tutti i tuoi problemi,
ma sei tu che ti bevi tutti i nostri crediti. Se una volta tanto fossi sobrio,
magari potremmo andarcene da questo schifo di pianeta”.
“Tu, linguaccia, feccia che non sei altro!”, ruggì Hurst, rovesciando il
tavolo e mandandolo a schiantarsi contro la parete. Attraversò lo spazio tra
loro con un balzo e afferrò i polsi di Des in una morsa stretta come un paio
di manette in duracciaio. Il giovane tentò di divincolarsi, ma il padre pesava
una ventina di chili più di lui, la metà dei quali era costituita da muscoli.
Sapendo di non avere speranze, Des smise di lottare dopo qualche
secondo. Ma non si sarebbe rannicchiato piangendo in un angolo, non
quella volta. “Se stanotte vuoi picchiarmi, vecchio”, disse, “ricordati che
potrebbe essere l’ultima volta. Sarà meglio che ti impegni”.
Hurst non se lo fece ripetere due volte. Aggredì il figlio con la furia
selvaggia di un uomo amareggiato in preda alla disperazione. Gli ruppe il
naso e gli fece gli occhi neri. Gli fece saltare due denti, gli spaccò il labbro
e incrinò le costole. Ma per tutto il tempo Des non disse una parola, né
versò una sola lacrima.
Quella notte, mentre era steso sul letto troppo gonfio e dolorante per
dormire, la sua mente continuava a ripetere una singola frase, annullando il
russare ubriaco di Hurst, che era crollato in un angolo.
Devi morire. Devi morire. Devi morire.
Non aveva mai odiato suo padre tanto come in quel momento. Immaginò
che una mano gigante stritolasse il cuore maligno di quell’uomo.
Devi morire. Devi morire. Devi morire.
Quelle parole continuavano a tornare, in un mantra senza fine, come se
potesse farle avverare con la semplice forza della volontà.
Devi morire. Devi morire. Devi morire.
Finalmente giunsero le lacrime che aveva trattenuto mentre subiva il
brutale pestaggio: gocce roventi che gli scorrevano sul viso livido e
rigonfio.
Devi morire. Devi morire. Devi...
Bane si svegliò di soprassalto, il cuore che gli martellava e il corpo zuppo
di sudore, contorcendosi per liberarsi dalle coperte che aveva arrotolate
intorno alle gambe. Per un breve attimo credette di essere tornato su
Apatros, nell’opprimente stanza occupata da Hurst e dall’insopportabile
fetore dell’alcool. Poi si rese conto di dove fosse e l’incubo iniziò a
dileguarsi. Al suo posto s’insediò una tremenda rivelazione.
Hurst era morto quella notte stessa. Le autorità l’avevano ritenuto un
decesso per cause naturali: un attacco di cuore dovuto all’eccesso di alcol, a
una vita passata a lavorare in miniera e all’affaticamento di aver quasi
ucciso il figlio a mani nude. Non avevano mai sospettato la motivazione
vera, e neppure Bane. Non fino a quel momento.
Tremando appena, si rigirò tra le coperte, esausto, ma sapendo che per
quella notte non si sarebbe più riaddormentato.
Fohargh non era stato la prima persona che avesse ucciso con la Forza, e
probabilmente non sarebbe stata neanche l’ultima. Era abbastanza
intelligente da capirlo.
Scosse la testa per eliminare il ricordo della morte di Hurst. Quell’uomo
non aveva meritato pietà né misericordia. I forti avrebbero sempre
schiacciato i deboli: era per quello che si trovava all’Accademia. Quella era
la sua missione, la via del Lato Oscuro.
Questa rivelazione, però, non servì a placare il senso di nausea, e quando
chiuse gli occhi poteva ancora vedere il volto di suo padre.
CAPITOLO 12
Lord Kas’im entrò nella camera opulenta e fece un cenno del capo in
direzione dell’altro Maestro. “Volevi vedermi?”
“Notizie dal fronte”, annunciò Qordis, alzandosi lentamente dal suo
tappeto da meditazione. “I Jedi si sono ammassati sotto un’unica bandiera a
Ruusan. Li comanda il generale Hoth. Lord Kaan ha radunato il suo
esercito. In questo momento si dirigono là a ingaggiare battaglia coi Jedi”.
“Ci uniremo a loro?”, domandò Kas’im con voce bramosa, il lekku che
fremeva al pensiero di misurare le proprie abilità contro i più grandi
guerrieri dell’Ordine dei Jedi.
Qordis scosse la testa. “Non noi. Nessuno dei Maestri, e nessuno degli
studenti, a meno che tu non ritenga che uno degli apprendisti sia pronto”.
“No”, rispose Kas’im dopo aver riflettuto un attimo. “Sirak, forse. È
abbastanza forte. Ma è troppo orgoglioso, e ha ancora molto da imparare”.
“E Bane? Si è dimostrato molto promettente quando ha ucciso Fohargh”.
Kas’im si strinse nella spalle. “È successo un mese fa. Da allora, non ha
fatto altri progressi. Qualcosa lo trattiene; credo sia la paura”.
“Paura? Degli altri studenti? Di Sirak?”
“No, nulla del genere. Finalmente ha capito di cosa è davvero capace; ha
compreso il vero potere del Lato Oscuro. Penso abbia paura di affrontare
questa verità”.
“Allora non ci serve più”, affermò Qordis senza mezzi termini.
“Concentrati sugli altri studenti. Non perdere tempo con lui”.
Per un attimo, il Maestro di Spada fu colto in contropiede. Lo
sorprendeva che Qordis fosse tanto svelto a gettare la spugna con uno
studente dotato di un potenziale tanto evidente.
“Ritengo abbia solo bisogno di più tempo”, suggerì. “Quasi tutti i nostri
apprendisti studiano le vie dei Sith da molti anni, sin da bambini. Bane non
ha iniziato ad addestrarsi con noi che da adulto”.
“Sono al corrente delle circostanze che riguardano il suo arrivo in
quest’Accademia!”, lo aggredì Qordis; all’improvviso, Kas’im si rese conto
di cosa stesse realmente accadendo. Bane era stato condotto su Korriban da
Lord Kopecz, e tra lui e il capo dell’Accademia non correva affatto buon
sangue. Alla fine, il fallimento di Bane si sarebbe ripercosso sul peggior
rivale di Qordis.
“La prossima volta che Bane ti cerca, caccialo via”, gli disse il Signore
Oscuro con un tono che non lasciava dubbi che si trattasse di un ordine e
non di una richiesta. “Accertati che tutti i Maestri capiscano che non è più
degno dei nostri insegnamenti”.
Kas’im confermò con un cenno del capo. Avrebbe eseguito l’ordine;
naturalmente, non era giusto nei confronti di Bane, ma nessuno aveva mai
detto che i Sith fossero giusti.
CAPITOLO 13
Githany non disse una parola mentre l’uomo alto e ben piazzato vagava
per gli archivi. Fisicamente era imponente; i muscoli erano evidenti persino
sotto la larga veste. Concentrandosi, come le era stato insegnato dai Maestri
Jedi prima che li tradisse, fu in grado di avvertire il Lato Oscuro: la Forza
aveva una potenza straordinaria in lui. Eppure, non aveva il portamento di
un uomo che fosse forte o potente. Anche lì, lontano dagli sguardi degli
altri, camminava a testa bassa, le spalle ingobbite.
Ecco, si rese conto, cosa fosse in grado di fare Sirak. Era ciò che avrebbe
potuto fare a lei se lo avesse affrontato, perdendo. Githany aveva tutta
l’intenzione di sfidare il miglior studente dell’Accademia... ma solo dopo
che fosse stata certa di poterlo battere.
Aveva cercato Bane nella speranza d’imparare dai suoi sbagli. A vederlo
in quel momento, debole e avvilito, si rese conto che avrebbe potuto
ricavare più di qualche semplice informazione da lui. Normalmente si
sarebbe guardata dall’allearsi con un altro studente, in particolare uno forte
come Bane. Githany preferiva agire da sola: sapeva fin troppo bene quanto
potessero essere devastanti le conseguenze di un inatteso tradimento.
Ma l’uomo che aveva davanti era vulnerabile, esposto. Era solo e
disperato, e di certo non nella posizione di tradire qualcuno. Avrebbe potuto
controllarlo, usandolo quando necessario e sbarazzandosene in seguito.
Bane prese un libro da uno scaffale e si avvicinò lentamente ai tavoli. Lei
attese finché non si fu accomodato e non ebbe iniziato la lettura. Trasse un
profondo respiro e tirò indietro il cappuccio, lasciando che i lunghi boccoli
le ricadessero sulle spalle. Si disegnò poi sul volto il suo sorriso più
seducente e si avvicinò.
Bane sfogliò con cura le pagine dell’antico tomo che aveva preso dagli
scaffali dell’archivio. S’intitolava I Rakata e il mondo sconosciuto, e la sua
datazione indicava un’età di quasi tremila anni standard. Non erano stati
però il titolo o l’argomento ad attirarlo, bensì l’autore: Darth Revan. La sua
storia era ben nota sia ai Sith che ai Jedi. Quel che affascinava Bane era il
termine “Darth”.
Nessun Sith moderno lo usava più, preferendogli la designazione di
Signore Oscuro. Bane aveva sempre trovato il fatto sconcertante, ma non
aveva mai fatto domande in merito. In quel volume, scritto da uno degli
ultimi grandi Sith a usare quel titolo, avrebbe forse potuto scoprire perché la
tradizione fosse caduta in disuso.
Aveva appena iniziato a leggere la prima pagina quando udì avvicinarsi
qualcuno. Alzò lo sguardo e vide l’ultima apprendista dell’Accademia,
Githany, che avanzava verso di lui. Sorrideva, cosa che rendeva ancor più
attraente il suo aspetto già incantevole. In precedenza, Bane l’aveva vista
solo da lontano; da vicino, gli mozzò letteralmente il fiato. Quando scivolò
sulla sedia accanto a lui, una debole nota di profumo gli solleticò il naso,
accelerandogli i battiti del cuore già al galoppo.
“Bane”, sussurrò lei, parlando piano nonostante negli archivi non vi fosse
nessun altro che potessero disturbare con la loro conversazione. “Ti stavo
cercando”.
Quell’affermazione lo colse di sorpresa. “Mi cercavi? Perché?”
Lei gli posò una mano sull’avambraccio. “Ho bisogno di te. Mi serve il
tuo aiuto contro Sirak”.
La vicinanza, il breve contatto col braccio e il profumo ammaliante di lei
gli fecero girare la testa. Gli ci volle qualche momento per capire cosa
intendesse, ma dopo questo improvviso interesse divenne ovvio. Le era
giunta voce della sua umiliazione per mano dello Zabrak. Era venuta a
vederlo di persona, sperando di poter imparare qualcosa che le impedisse di
cadere vittima di un fallimento simile.
“Non posso aiutarti con Sirak”, disse, volgendole le spalle e affondando
il viso nelle pagine.
Sentì una lieve pressione sull’avambraccio e sollevò di nuovo la testa. La
donna si era sporta più avanti, e si ritrovò a fissarla dritto negli occhi color
smeraldo.
“Per favore, Bane, ascolta solo ciò che ho da dirti”.
Lui annuì, non sapendo se sarebbe stato mai capace di parlare mentre lei
gli era così vicina. Chiuse il libro e si girò appena per guardarla meglio.
Githany emise un sospiro di gratitudine e si appoggiò leggermente allo
schienale. Lui avvertì un lieve moto di delusione quando la mano gli lasciò
il braccio.
“So cosa ti è successo nell’arena dei duelli”, attaccò lei. “So che tutti
credono che Sirak ti abbia distrutto, che in qualche modo la sconfitta ti
abbia privato del potere. E vedo che lo credi anche tu”.
Sul suo viso era dipinta un’espressione di tristezza. Non di pietà, per
fortuna: Bane non ne voleva da nessuno, soprattutto non da lei. Ma le sue
parole esprimevano un sincero rammarico.
Quando non rispose, lei inspirò a fondo e proseguì. “Si sbagliano, Bane.
Non si può perdere così la capacità di controllare la Forza. Non può
succedere a nessuno. La Forza fa parte di noi, del nostro essere.
“Ho sentito parlare di ciò che hai fatto a quel Makurth: ha mostrato di
cosa eri capace. Ha rivelato il tuo vero potenziale, provato che possiedi un
grande dono”. Fece una pausa. Il suo sguardo era molto intenso. “Forse
crederai di aver dissipato o perduto quel dono. Ma io so. Percepisco il
potere che è in te, riesco a sentirlo. C’è ancora”.
Bane scosse la testa. “Il potere potrà anche esserci, ma non ho più la
capacità di controllarlo. Non sono più ciò che ero un tempo”.
“Non è possibile”, ripeté lei, in tono paziente. “Come puoi crederlo?”
Pur conoscendo la risposta, esitò prima di parlare. Era una domanda che
si era posto innumerevoli volte mentre galleggiava senza peso nel fluido
della vasca di bacta. Dopo la sconfitta, aveva avuto abbondanti occasioni di
confrontarsi col suo fallimento, e alla fine era riuscito a dedurre cosa fosse
andato storto... ma non come risolvere il problema.
Non era certo di voler condividere la sua scoperta con quella che era
praticamente un’estranea. Ma a chi altri avrebbe potuto dirlo? Non agli
studenti, e di certo non ai Maestri. E pur non conoscendo certo Githany, lei
gli aveva teso una mano. Era l’unica ad averlo fatto.
Esporre debolezze personali all’Accademia era qualcosa che solo un
pazzo o un idiota avrebbe osato fare. Eppure, la dura verità era che a Bane
non restava nulla da perdere.
“Per tutta la vita sono stato spinto dalla rabbia”, spiegò. Parlava
lentamente, fissando la superficie del tavolo, incapace di guardarla negli
occhi. “La rabbia mi rendeva forte. Era il mio legame con la Forza e il Lato
Oscuro. Quando Fohargh è morto... quando l’ho ucciso... mi sono reso
conto di essere responsabile della morte di mio padre. L’ho ucciso col
potere del Lato Oscuro”.
“E ti sei sentito in colpa?”, domandò lei, posandogli di nuovo
delicatamente una mano sul braccio.
“No. Può darsi. Non lo so”. La mano di lei era calda; riusciva a sentire il
tepore irradiarsi attraverso il tessuto della veste, fino alla pelle. “So soltanto
che questa consapevolezza mi ha cambiato. La rabbia che mi spingeva è
svanita. Tutto ciò che è rimasto è... be’... nulla”.
“Dammi la mano”. La voce di lei era dura, e Bane esitò solo un attimo
prima di tendere il braccio. Gli afferrò il palmo con entrambe le mani.
“Chiudi gli occhi”, gli intimò mentre già chiudeva i propri.
Nell’oscurità, si rese acutamente conto di quanto lei gli tenesse stretta la
mano: era una presa tanto forte che poteva sentire il battito del suo cuore.
Era rapido, urgente, e in risposta anche il suo accelerò il già tumultuoso
ritmo.
Avvertì un formicolio alle dita, qualcosa che andava al di là del semplice
contatto fisico. Lo stava raggiungendo con la Forza.
“Vieni con me, Bane”, mormorò.
All’improvviso gli parve di cadere. No, anzi: di tuffarsi. Stava
precipitando in un grande abisso, nel nero vuoto della sua anima. La gelida
oscurità gli intorpidì il corpo; gli arti persero ogni sensibilità. Non riusciva
più a sentire le mani di Githany sulle sue. Non sapeva neppure se fosse
ancora seduta accanto a lui. Era da solo in un vuoto glaciale.
“Il Lato Oscuro è emozione, Bane”. Le sue parole gli giunsero da
lontano, sussurri inconfondibili. “Rabbia, odio, amore, lussuria. È questo
ciò che ci rende forti. La pace è una menzogna. C’è solo la passione”. Le
parole si fecero più forti, abbastanza da soffocare il martellio del suo cuore.
“La tua passione c’è ancora, Bane. Cercala. Rivendicala”.
Come in risposta alle sue parole, le emozioni cominciarono a sorgere
dentro di lui. Provava rabbia. Furia. Un odio puro e pulsante: l’odio per gli
altri studenti che l’avevano emarginato, per i Maestri che l’avevano
abbandonato. E più di tutti odiava Sirak. E con l’odio venne la sete di
vendetta.
Avvertì poi qualcos’altro: una scintilla. Un anelito di luce e calore nella
fredda oscurità. La sua mente balzò ad afferrare quella fiamma, e per un
breve attimo avvertì di nuovo il potere glorioso della Forza ardere in lui.
Poi Githany gli lasciò la mano e svanì, spento come se lo avesse soltanto
immaginato. Ma non era così: era reale. Lo aveva sentito davvero.
Aprì gli occhi guardingo, come un uomo che si sveglia da un bel sogno
con la paura di dimenticarlo. Dall’espressione sul volto di Githany seppe
che anche lei doveva aver sentito qualcosa.
“Come hai fatto?”, domandò, cercando senza riuscirvi di frenare la
disperazione nella voce.
“Me l’ha insegnato il Maestro Handa quando studiavo con lui
nell’Ordine dei Jedi”, ammise lei. “Una volta ho perso il contatto con la
Forza, proprio come te. Ero ancora una ragazzina, quando è successo. La
mia mente non riusciva a far fronte a qualcosa di tanto vasto e infinito. Ha
creato una barriera per proteggersi, vero?”
Bane annuì, rimanendo in fervente silenzio per permetterle di continuare.
“La tua rabbia c’è ancora, e così la Forza. Ora dovrai rompere le barriere
con cui l’hai circondata. Dovrai tornare all’inizio e imparare di nuovo a
collegarti alla Forza”.
“E come?”
“Allenandoti, no?”, rispose Githany come se fosse ovvio. “In che altro
modo s’impara a usare la Forza?”
La tenue speranza che aveva suscitato in lui quella rivelazione morì di
colpo.
“I Maestri non mi addestrano più”, borbottò. “Qordis l’ha proibito”.
“Ti addestrerò io”, disse Githany con freddezza. “Posso condividere con
te tutto ciò che ho imparato sulla Forza dai Jedi. E posso insegnarti anche
tutto ciò che imparerò dai Maestri sul Lato Oscuro”.
Bane esitò. Githany non era una Maestra, eppure si era allenata come
Jedi per anni. Probabilmente sapeva molte cose sulla Forza che lui non
immaginava neppure. Se non altro, avrebbe imparato più col suo aiuto che
senza. Ciò nonostante, qualcosa nella sua offerta lo turbava.
“Perché lo fai?”, domandò.
Lei gli rivolse un sorriso astuto. “Non ti fidi ancora? Bene. Non dovresti.
Lo faccio solo per me. Non posso sconfiggere Sirak da sola. È troppo
forte”.
“Dicono sia il Sith’ari”, mormorò Bane.
“Io non credo alle profezie”, controbatté lei. “Ma ha alleati potenti. E gli
altri apprendisti zabrak gli sono totalmente fedeli. Se mai lo sfiderò, avrò
bisogno di qualcuno al mio fianco. Qualcuno in cui la Forza sia potente.
Qualcuno come te”.
Le sue motivazioni erano sensate, ma c’era qualcosa che continuava a
turbarlo. “Lord Qordis e gli altri Maestri non approverebbero”, la avvertì.
“Stai rischiando grosso”.
“Chi non rischia non ottiene nulla”, rispose lei. “E comunque non
m’importa ciò che pensano i Maestri. Alla fine, sopravvive solo chi sa
badare a se stesso”.
Bane impiegò un attimo a rendersi conto del perché le sue parole gli
suonassero tanto familiari. Poi ricordò l’ultima cosa che gli aveva detto
Groshik prima che lasciasse Apatros. In fin dei conti, siamo tutti soli.
Sopravvive chi sa badare a se stesso.
“Se mi aiuti a riconquistare la Forza, io ti aiuterò con Sirak”, disse,
tendendo la mano. Lei gliela strinse nella sua, poi si alzò per andarsene.
Bane mantenne la stretta, costringendola a risedersi. Un bagliore pericoloso
le lampeggiò negli occhi, ma lui non la lasciò.
“Perché hai lasciato i Jedi?”, domandò.
L’espressione di lei si addolcì, poi scosse la testa. Tese la mano libera e
gliela posò dolcemente sulla guancia. “Non penso di essere ancora pronta a
rivelartelo”.
Lui annuì. In quel momento non aveva bisogno di insistere e sapeva di
non averne ancora il diritto.
La donna ritrasse la mano, e lui le lasciò il braccio. Gli rivolse un’ultima
occhiata indagatrice, poi si alzò e si allontanò a passo svelto e risoluto. Non
si guardò indietro, ma Bane si accontentò di seguire l’ondeggiare dei suoi
fianchi finché non scomparve alla vista.
Githany sapeva di avere addosso i suoi occhi mentre usciva. Gli uomini
la guardavano sempre: ci era abituata.
Nel complesso, pensava che l’incontro fosse andato bene. Per un attimo,
alla fine, quando si era rifiutato di lasciarle il braccio, si era domandata se
non lo avesse sottovalutato. Quell’atteggiamento di sfida l’aveva colta
impreparata; si aspettava una persona debole e sottomessa. Ma quando lo
aveva guardato negli occhi, si era resa conto che si aggrappava a lei per
paura e disperazione. Un unico incontro, e già non riusciva a sopportare
l’idea di lasciarla.
Pur essendo stata coi Sith solo per breve tempo, percorrere le vie del Lato
Oscuro le riusciva naturale. Non provava pietà né tristezza per lui: la
vulnerabilità lo rendeva soltanto più semplice da manovrare. E, a differenza
dei Jedi, la Confraternita dell’Oscurità premiava l’ambizione. Ogni rivale
che sottometteva provava il suo valore e migliorava la sua posizione fra i
Sith.
Bane sarebbe stato lo strumento perfetto per abbattere i rivali, pensò. La
Forza era potentissima in lui, persino più di quanto avesse pensato
inizialmente. Era rimasta strabiliata dal potere che aveva avvertito. E ormai
lo aveva totalmente in pugno; doveva solo assicurarsi che vi rimanesse.
Lo avrebbe accompagnato lentamente, tenendolo sempre un po’ più
indietro rispetto alle proprie abilità. Un gioco pericoloso, ma che sapeva di
poter condurre bene. La conoscenza era potere, e sarebbe stata lei sola a
controllare quali nozioni avrebbe acquisito. Lo avrebbe istruito; lo avrebbe
legato a sé, assoggettandolo alla propria volontà, e lo avrebbe usato per
annientare Sirak. Poi, se avesse ritenuto che Bane stesse diventando troppo
potente, avrebbe distrutto anche lui.
Quella notte, steso sul letto senza riuscire a dormire, Bane stava ancora
pensando a quanto detto da Githany. Perché non era stato in grado di
uccidere Sirak? Aveva ragione lei? Si era ritratto per un mal riposto senso di
pietà? Voleva credere di aver abbracciato il Lato Oscuro, ma in tal caso
avrebbe ucciso Sirak senza pensarci due volte, quali che fossero le
conseguenze.
Tuttavia, c’era anche dell’altro a preoccuparlo. Si sentiva frustrato per
come lui e Githany si erano lasciati. Era attratto in modo innegabile da
quella donna così ipnotica e irresistibile. Ogni volta che lo sfiorava, sentiva
i brividi percorrergli la schiena. Persino quando erano separati pensava
spesso a lei, a ricordi che rimanevano nell’aria come la fragranza del suo
profumo inebriante. Di notte, i lunghi capelli neri e quegli occhi pericolosi
tornavano a ossessionarlo in sogno.
E credeva sinceramente che anche lei provasse qualcosa del genere nei
suoi confronti... benché dubitava che lo avrebbe mai ammesso. Eppure, per
quanto si fossero avvicinati durante le lezioni segrete insieme, non avevano
mai consumato quel desiderio. Sembrava una cosa sbagliata, mentre Sirak
era ancora il primo apprendista dell’Accademia. La sua sconfitta era stata
l’obiettivo principale di entrambi; nessuno dei due aveva voluto lasciarsene
distogliere. Era un nemico comune che li univa sotto un’unica causa, ma in
molti sensi era stato anche una barriera che li separava.
Sconfiggere Sirak avrebbe dovuto abbattere quella barriera. Ma dopo la
battaglia, Bane aveva visto la delusione sul volto di Githany. Aveva
promesso di uccidere il loro nemico e lei aveva creduto in lui. Eppure, alla
fine aveva dimostrato di non essere all’altezza delle sue aspettative e
all’improvviso la barriera si era rafforzata ancora di più.
Qualcuno bussò piano alla porta della sua camera. L’ora del coprifuoco
era passata da un pezzo; nessun apprendista aveva motivo di trovarsi nei
corridoi. Riusciva a pensare a una sola persona che potesse vagare per la
scuola di notte.
Saltando giù dal letto, attraversò la stanza con una singola falcata e aprì
di botto la porta. Riuscì a nascondere in fretta la propria delusione alla vista
di Lord Kas’im in piedi dietro la soglia.
Il Maestro di Spada varcò la porta senza attendere un invito; quando fu
dentro, rivolse a Bane un cenno del capo per dirgli di chiudere. Bane
obbedì, domandandosi lo scopo di quella inattesa visita notturna.
“Ho una cosa per te”, disse il Twi’lek, scostando le pieghe del mantello e
portando la mano verso la sua spada laser. No, si rese conto Bane. Non era
la sua. L’impugnatura dell’arma di Kas’im era chiaramente più lunga delle
altre per poter alloggiare due cristalli, uno per ciascuna lama. Quell’elsa era
più piccola e la sua forma descriveva una strana curva che le dava l’aspetto
di un uncino.
Il Maestro accese la spada: la lama singola ardeva di un rosso scuro.
“Questa era l’arma del mio Maestro”, disse a Bane. “Da bambino lo
osservavo per ore mentre ripeteva i suoi esercizi. I miei primi ricordi sono
luci color rubino che seguono i movimenti della battaglia”.
“Non ricordate i vostri genitori?”, domandò Bane sorpreso.
Kas’im scosse la testa. “I miei genitori furono venduti al mercato degli
schiavi di Nal Hutta. Fu là che il Maestro Na’daz mi trovò: notò la mia
famiglia nell’angolo delle aste, forse perché eravamo Twi’lek come lui. Io
riuscivo a stento a camminare, ma il Maestro Na’daz percepì la Forza in
me. Mi acquistò e mi riportò su Ryloth per crescermi come suo apprendista
fra la nostra gente”.
“Cos’è successo ai vostri genitori?”
“Non lo so”, rispose Kas’im con un’indifferente scrollata di spalle. “Non
avevano particolari legami con la Forza, dunque il mio Maestro non ebbe
motivo di acquistarli. Erano deboli, perciò sono stati abbandonati”.
Parlava con noncuranza, come se la consapevolezza che i genitori fossero
vissuti e probabilmente morti da schiavi al servizio degli Hutt non avesse
alcun importanza per lui. In un certo senso, si trattava di un’apatia
comprensibile. Non aveva mai conosciuto i genitori e dunque non
condivideva con loro alcun legame, buono o cattivo che fosse. Bane si
domandò per un attimo se la sua vita sarebbe stata diversa se lo avesse
cresciuto qualcun altro. Se Hurst fosse morto nelle miniere di cortosite
mentre lui era neonato, sarebbe comunque finito a Korriban?
“Il mio Maestro era un grande Signore dei Sith”, proseguì Kas’im. “Era
particolarmente versato nelle arti del combattimento con la spada laser,
un’abilità che ha tramandato a me. Mi ha insegnato a usare la spada a
doppia lama, benché, come puoi vedere, preferisse forme più tradizionali.
Tranne per l’impugnatura, naturalmente”.
La lama scomparve con uno sfarfallio quando la spense e la lanciò a
Bane, che la afferrò con agio impugnando l’elsa ricurva.
“È strana”, mormorò.
“C’è bisogno di una lieve variazione nella presa”, spiegò Kas’im.
“Tienila più nel palmo, allontanandola dalle dita”.
Bane fece come indicato e lasciò che il corpo si abituasse al peso e
all’equilibrio inconsueti. La sua mente iniziava già a passare in rassegna le
implicazioni di quella nuova presa: avrebbe conferito più potenza ai colpi
portati dall’alto e modificato l’angolazione degli attacchi di un singolo,
minuscolo grado, abbastanza da confondere e disorientare un avversario
ignaro.
“Alcune mosse saranno più difficili da eseguire con quest’arma”, lo
avvertì Kas’im. “Ma molte altre risulteranno ben più efficaci. In definitiva,
ritengo che questa spada laser si adatterà piuttosto bene al tuo stile
personale”.
“Volete darla a me?”, domandò Bane incredulo.
“Oggi hai dimostrato di esserne degno”. Nella voce del Maestro di Spada
c’era appena un’ombra di orgoglio.
Bane la accese, ascoltando il sottile ronzio della cella energetica e il
crepitio della lama di energia. Eseguì qualche semplice florilegio, poi la
spense all’improvviso.
“Qordis è d’accordo?”
“È una mia decisione, non sua”, affermò Kas’im. Sembrava quasi offeso.
“Non ho tenuto questa spada con me dieci anni solo perché fosse Qordis a
decidere a chi darla”.
Bane rispose con un inchino rispettoso, ben consapevole del grande
onore che Kas’im gli aveva appena fatto. Per colmare il silenzio
imbarazzato che seguì, domandò: “Il vostro Maestro ve l’ha data alla sua
morte?”
“L’ho presa quando l’ho ucciso”.
Bane rimase così stupito da non riuscire a nascondere la sua reazione. Il
Maestro di Spada la vide e sorrise debolmente.
“Avevo appreso tutto ciò che potevo dal Maestro Na’daz. Per quanto il
Lato Oscuro fosse potente in lui, in me lo era di più. Per quanto abile fosse
con la spada laser, io lo ero diventato di più”.
“Ma perché ucciderlo?”, domandò Bane.
“È stata una prova. Per capire se fossi forte quanto credevo. Questo
prima dell’ascesa al potere di Lord Kaan. Eravamo ancora intrappolati nelle
vecchie tradizioni Sith contro Sith, Maestro contro apprendista. Ci
sfidavamo stupidamente l’un l’altro per dimostrare la nostra superiorità. Per
fortuna la Confraternita dell’Oscurità ha messo fine a tutto ciò”.
“Non del tutto”, mormorò Bane pensando a Fohargh e a Sirak. “I deboli
cadono ancora per mano dei forti. È inevitabile”.
Kas’im inclinò il capo, tentando di misurare il significato recondito delle
sue parole. “Non lasciarti accecare dall’onore che ti ho fatto”, lo ammonì.
“Non sei pronto a sfidarmi, giovane apprendista. Ti ho insegnato tutto ciò
che sai, ma non tutto ciò che io so”.
Bane non riuscì a fare a meno di sorridere. L’idea di affrontare Kas’im in
un combattimento reale era assurda. Sapeva di non poter competere col
Maestro di Spada, non ancora. “Me ne ricorderò, Maestro”.
Soddisfatto, Kas’im si voltò per andarsene. Appena prima che Bane gli
chiudesse la porta alle spalle aggiunse: “Lord Qordis vuol vederti domattina
presto. Vai nelle sue stanze prima delle esercitazioni diurne”.
Neppure la prospettiva non proprio allegra d’incontrare il tetro
supervisore dell’Accademia riuscì a spegnere l’euforia di Bane. Non appena
fu da solo nella sua stanza riaccese la spada laser e cominciò a eseguire
qualche sequenza. Passarono molte ore prima che riponesse finalmente
l’arma e si rimettesse a letto, ogni pensiero di Githany bandito ormai da
tempo.
Mentre Bane marciava sulla sabbia rovente del deserto di Korriban, notò
il sole che calava rapido dietro l’orizzonte. Camminava da ore sotto i suoi
raggi; la cittadina di Dreshdae e il tempio che la sovrastava erano ormai da
tempo alle sue spalle. Si erano ridotti a puntini in lontananza; se si fosse
voltato, sarebbe riuscito a distinguerli appena nella luce sempre più fioca.
Non si guardò indietro, ma continuò ad avanzare con decisione. Il calore
infuocato non lo aveva rallentato, e neppure lo avrebbero fatto le
temperature che dopo il tramonto sarebbero divenute quasi glaciali. Disagi
fisici come freddo, caldo, sete, fame e fatica non sortivano effetti rilevanti
su di lui, sorretto com’era dal potere della Forza.
Ciò nonostante era inquieto. Ricordava quando aveva messo piede su
Korriban per la prima volta. Aveva percepito il potere di quel pianeta:
Korriban era animato dal Lato Oscuro. Eppure, la sensazione era stata
debole e distante. Nel periodo trascorso all’Accademia si era talmente
abituato a quel rumore di sottofondo pressoché inconscio da non notarlo
quasi più.
Quando si era lasciato tempio e spazioporto alle spalle, si era aspettato
che quella sensazione si rafforzasse. Pensava che avrebbe avvertito
l’intensità del Lato Oscuro crescere a ogni passo che lo avvicinava alla
Valle dei Signori Oscuri.
Invece, non aveva sentito nulla, nessun cambiamento percettibile. Era
appena a pochi chilometri dall’entrata della valle; riusciva a vedere le
sagome in ombra delle più vicine tombe scolpite nelle pareti rocciose. E
nonostante questo il Lato Oscuro non era che un’eco vuota, poco più che il
pallido ricordo di pianeti distanti esistiti in un remoto passato.
Raddoppiò l’andatura, mettendo da parte dubbi e riserve. Voleva
raggiungere la valle prima che l’oscurità fosse totale. Prima di andarsene
dall’Accademia aveva preso una manciata di torce a luminescenza, e se
necessario avrebbe potuto usarle per illuminare il cammino. Purtroppo,
però, la luce sarebbe stata un faro nelle tenebre che avrebbe segnalato la sua
posizione a chiunque... o a qualunque cosa. Con la sua nuova spada laser al
fianco confidava di sopravvivere a quasi ogni scontro, ma vicino alle tombe
si nascondevano cose di cui avrebbe preferito non attirare l’attenzione.
Quando finalmente giunse a destinazione, nell’aria restavano ancora gli
ultimi raggi di luce. La Valle dei Signori Oscuri si estendeva dinanzi a lui,
nascosta sotto il velo dell’oscurità crepuscolare. Prese brevemente in
considerazione l’idea di fermarsi per la notte e accamparsi fino all’alba, poi
la bocciò. Che fosse giorno o notte, non avrebbe più fatto differenza una
volta all’interno delle tombe: avrebbe comunque dovuto usare le torce a
luminescenza. E trovandosi finalmente lì, era troppo ansioso di vedere
cos’avrebbe scoperto per rimandare ulteriormente.
Scelse il tempio più vicino, il solo che riuscisse effettivamente a
distinguere nella debole luce. Come tutte le tombe, questo era stato scavato
nelle alte rupi che circondavano la valle su ambo i lati. La grandiosa arcata
d’ingresso era ricavata dalla facciata del dirupo, ma le camere che
ospitavano i resti del Signore Oscuro tumulato all’interno erano più in
profondità.
Avvicinandosi, notò le complicate decorazioni scolpite sull’arcata. In
cima era scritto qualcosa in lettere che non riconobbe. Suppose che un
tempo la fattura di quell’opera dovesse incutere timore, ma millenni di venti
desertici avevano eroso gran parte dei dettagli.
Si fermò sulla soglia, ad assorbire l’atmosfera di mistero proibito che
circondava l’ingresso della tomba. Tuttavia, non avvertiva ancora
cambiamenti nella Forza. Avvicinatosi all’ingresso, vide con sgomento che
il grande lastrone che faceva da porta era stato spaccato in due. Fece
scorrere le dita sui bordi della fenditura: erano lisci e consunti. Chiunque
avesse spezzato la porta l’aveva fatto molto tempo prima.
Bane raddrizzò la schiena e attraversò a passo deciso il portale distrutto.
Scese la lunga galleria di entrata, spostandosi lentamente al buio. Dopo
cinque o sei metri l’oscurità si fece totale, e dunque estrasse una torcia e
l’attivò.
Il tunnel fu illuminato da una spettrale luce bluastra che fece fuggire un
piccolo sciame di letali insetti pelko dalla fioca illuminazione. Lo avevano
seguito, avvicinandosi su tutti i lati. Riusciva ancora a percepirne la
presenza, in attesa fra le ombre tutt’intorno a lui, ma non aveva paura.
Dopotutto non era la luce che li teneva a bada.
Come molte delle creature indigene di Korriban, i pelko erano in sintonia
con la Forza. Dovevano aver percepito l’arrivo di Bane prima ancora che
entrasse nel sepolcro: il suo potere li avrebbe inevitabilmente attratti. Allo
stesso tempo, però, li teneva anche a distanza di sicurezza assieme ai loro
letali aculei. I pelko riuscivano a percepire d’istinto la pura e semplice
portata del suo potere e si guardavano da lui. Non si sarebbero avvicinati
tanto da attaccarlo, cosa che li rendeva nient’altro che un fastidio. Forse i
predatori più grossi, come i tuk’ata, avrebbero potuto rappresentare una
minaccia. Ma se ne sarebbe occupato se e quando fosse giunto il tempo.
In quel momento lo preoccupavano di più i pericoli che i costruttori della
tomba potevano aver lasciato. I mausolei Sith erano famosi per le loro
trappole diaboliche e letali. Bane adoperò la Forza per sondare attentamente
le pareti, il terreno e il pavimento innanzi a sé in cerca di qualcosa fuori
dall’ordinario. Fu sollevato, e leggermente deluso, di non trovare nulla. Una
parte di sé sperava che si sarebbe imbattuto in una camera sconosciuta,
qualcosa che fosse sfuggito ai Jedi.
Proseguì lungo il tunnel, passando accanto a varie camere dove le
ricchezze e i tesori del Signore Oscuro dovevano essere sepolti assieme ai
servi inferiori ancora in vita. Quelle stanze non avevano nulla che lo
interessasse: non era un razziatore di tombe. Continuò invece sempre più in
profondità finché non raggiunse la camera funebre stessa.
I pelko avanzavano con lui, proseguendo in cerchio appena al di là della
luce blu proiettata dalla torcia a luminescenza. Poteva udire i suoni acuti e i
ciangottii emessi dallo sciame frustrato, incapace di assaltare la preda ma
irresistibilmente attratto dal suo passaggio.
La camera funebre era facilmente riconoscibile dall’enorme sarcofago di
pietra, posto su un piccolo piedistallo al centro della stanza. Era poco più di
un’ombra squadrata ai margini della luce della torcia, ma lo colmò di un
senso di paura e soggezione.
Continuando a usare la Forza in cerca di trappole, si avvicinò con cautela
alla tomba, facendosi sempre più trepidante man mano che la luce azzurra
la illuminava e ne rivelava sempre più dettagli. Sulla pietra erano scolpiti
simboli simili a quelli visti all’ingresso della cripta, ma che non avevano
subito secoli di erosioni: risaltavano con chiarezza nitida e brutale. Non
sapeva leggere quella lingua sconosciuta né identificare il Signore Oscuro
dal suo stemma, ma sapeva che in quel luogo riposava un essere antico e
potente.
Raggiunse la piattaforma, che arrivava poco più in alto del suo ginocchio.
Vi pose un piede, poi tese una mano per afferrare il bordo sporgente di uno
dei simboli scolpiti sul fianco del sarcofago. Si aspettava quasi di ricevere
una scossa elettrica o uno shock di qualche tipo, ma non sentì altro che la
fredda pietra sotto il palmo.
Tenendosi in equilibrio grazie alla presa sull’oggetto, si sollevò per
appoggiare i piedi sulla piattaforma e abbassare lo sguardo sulla sommità
della tomba. Con orrore vide che la lastra che chiudeva il sarcofago era
stata praticamente distrutta. Qualunque cosa si trovasse al suo interno non
c’era più, sostituita da macerie, polvere e qualche frammento di ossa
spezzate che forse un tempo erano state le dita scheletriche del Signore
Oscuro.
Scese dalla piattaforma, frustrato ma non ancora disposto ad arrendersi.
Si girò lentamente intorno, come se si aspettasse di trovare i resti trafugati
in un angolo della camera funebre. Non c’era nulla: la tomba era stata
saccheggiata e profanata.
Bane non sapeva bene cosa si aspettasse di trovare, ma di certo non
quello. Gli spiriti degli antichi Signori Oscuri erano esseri di pura energia
del Lato Oscuro, eterni come la Forza stessa. Sarebbero rimasti per secoli,
addirittura millenni, fino all’arrivo di un degno successore. O così lo
avevano portato a credere i testi nell’archivio.
Eppure, la dura verità davanti ai suoi occhi era innegabile. Gli antichi
manoscritti lo avevano ingannato. Aveva scommesso tutto sulla verità di
quelle parole, arrivando addirittura a sfidare Qordis stesso, e aveva perso.
Per la disperazione, gettò la testa indietro e alzò le braccia verso il
soffitto. “Sono qui, Maestro!”, gridò. “Sono venuto a imparare i vostri
segreti!” Fece una pausa, in attesa di risposta. Non udendo nulla, gridò:
“Mostratevi! Per il potere del Lato Oscuro, fatevi vedere!”
Quelle parole riecheggiarono tra le pareti, suonando vuote e prive di
significato. Cadde in ginocchio, le gambe piegate di fianco e la testa china.
Quando l’eco finì, l’unico suono nell’aria era lo stridulo verso dei pelko.
Mentre ispezionava l’accampamento, Kopecz sputò per terra. Era
circondato da un esercito, ma formato da esseri inferiori. Ovunque
guardasse vedeva i servitori dei Sith, combattenti, assassini e apprendisti.
Ma i Maestri Sith erano pochi e preziosi. La guerra apparentemente
interminabile contro i Jedi sui campi di battaglia di Ruusan iniziava a
pesare non poco sulla Confraternita di Kaan. Senza rinforzi sarebbero stati
costretti alla ritirata, oppure a farsi annientare dal generale Hoth e
dall’odiato Esercito della Luce.
Il massiccio Twi’lek si alzò, spinto ad agire dalla consapevolezza che
occorresse far qualcosa. Si fece strada fra gruppi sparpagliati di soldati
notando quanti di loro fossero feriti, esausti o anche solo abbattuti. Quando
raggiunse l’entrata della tenda di Lord Kaan, il disprezzo che provava per i
suoi cosiddetti Fratelli aveva raggiunto l’apice.
Quando entrò, Lord Kaan lo guardò e congedò gli altri consiglieri con un
brusco gesto della mano. Uscirono in fila, e nessuno si azzardò ad
avvicinarsi troppo.
“Cosa c’è, amico mio?”, domandò Kaan. La sua voce era ammaliante
come sempre, ma aveva gli occhi spalancati e stravolti come un animale
braccato.
“Hai visto il nostro cosiddetto esercito qui fuori?”, ringhiò Kopecz,
indicando col dito dietro le spalle mentre avanzava lentamente. “Se è questo
tutto ciò che abbiamo per contrastare Lord Hoth, tanto vale dare alle
fiamme le vesti nere e cominciare a osservare il Codice dei Jedi”.
“Stanno arrivando rinforzi”, gli assicurò Lord Kaan. “Altre due divisioni
complete di soldati di fanteria e un’altra unità di tiratori. Mezzo reparto di
veicoli a repulsione con armi pesanti. Molti vengono attratti dalla gloria
della nostra causa, e ogni giorno sono sempre di più. La Confraternita
dell’Oscurità non può fallire”.
Kopecz non trovò grande conforto in quelle promesse. Lord Kaan era
sempre stato il punto di forza della Confraternita, un uomo che aveva
riunito i Signori Oscuri sotto un’unica causa grazie al suo enorme carisma e
una visione grandiosa. In quel momento, tuttavia, sembrava al limite. Lo
sforzo di combattere continuamente i Jedi lo aveva fiaccato.
Kopecz scosse la testa disgustato. “Non sono uno dei tuoi servili
consiglieri”, disse, alzando la voce. “Io non mi prostrerò strisciando davanti
a te, Lord Kaan. Non decanterò lodi alla tua follia quando posso vedere coi
miei stessi occhi che ci stai conducendo alla rovina!”
“Abbassa la voce!”, sbottò Kaan. “O distruggerai il morale delle truppe!”
“Non hanno più nessun morale da distruggere”, controbatté Kopecz, pur
abbassando la voce. “Non possiamo sconfiggere i Jedi coi normali soldati.
Loro sono troppi, e noi non siamo abbastanza”.
“Per ‘noi’ ti riferisci a chi è degno di unirsi alle file dei Signori Oscuri”,
rispose Kaan. Sospirò, e abbassò lo sguardo fissando l’olomappa distesa sul
tavolo davanti a sé.
“Sai cosa devi fare”, gli disse Kopecz, con voce leggermente meno
adirata. Aveva scelto di seguire Kaan, e non lo avrebbe abbandonato in quel
momento. Ma non era disposto a star fermo dinanzi a una sconfitta certa.
“Abbiamo di fronte un esercito di Cavalieri e Maestri Jedi. Non possiamo
contrastarli senza i nostri Maestri dell’Accademia, e anche gli studenti.
Tutti quanti”.
“Sono semplici apprendisti”, protestò Kaan.
“Sono i più forti del nostro Ordine”, gli rammentò Kopecz. “Sappiamo
entrambi che persino i più infimi studenti su Korriban sono più forti di metà
dei cosiddetti Signori Oscuri qui su Ruusan”.
“L’opera di Qordis è incompleta. Gli studenti hanno ancora molto da
imparare”, insistette Kaan, seppur debolmente. “Hanno così tanto
potenziale inutilizzato. L’Accademia rappresenta il futuro dei Sith”.
“Se non riusciremo a sconfiggere i Jedi qui su Ruusan, non avremo alcun
futuro!”, perseverò Kopecz.
Lord Kaan si prese la testa fra le mani, come se un gran dolore
minacciasse di spaccargli il cranio. Iniziò a tremare, gremito da un qualche
tremendo accesso. Kopecz indietreggiò senza volerlo.
Kaan ci mise solo pochi secondi a ricomporsi. Lo sguardo spiritato negli
occhi era scomparso, sostituito dalla calma e dalla sicurezza di sé che in
principio avevano attirato così tanti verso la Confraternita.
“Hai ragione, amico mio”, disse. Le parole gli uscirono facili e
disinvolte; parlava come se un gran peso gli fosse stato tolto dalle spalle.
Emanava forza e sicurezza; sembrava rilucere di un’aura viola, come se
fosse l’incarnazione stessa del Lato Oscuro. E all’improvviso, in modo
inspiegabile, Kopecz si sentì rassicurato.
“Avvertirò Qordis”, continuò Kaan, emanando ondate palpabili di Forza.
“Hai ragione. È tempo che gli studenti di Korriban si uniscano davvero alle
file dei Sith”.
CAPITOLO 19
Bane non aveva mai avuto tanta fame in vita sua. Il suo stomaco era
contratto dai crampi, che lo facevano piegare su se stesso mentre
attraversava lentamente il deserto di Korriban diretto a Dreshdae. Aveva
cercato nelle tombe della Valle dei Signori Oscuri per tredici giorni,
trovando sostentamento solo nella Forza e nelle compresse idratanti che
aveva portato per il viaggio nelle lande desolate. Non aveva mai dormito,
ma di tanto in tanto faceva riposare la mente con la meditazione. Ma
neppure la Forza, con tutto il suo potere, poteva creare qualcosa dal nulla.
Poteva tener lontana la fame per un po’ di tempo, ma non per sempre.
Era stato puntato due volte da branchi di tuk’ata, i cani da guardia che
vagavano nelle cripte degli antichi Maestri loro padroni. La prima volta li
aveva respinti con la Forza, usandola per afferrare il maschio dominante e
scagliarlo addosso al resto della muta, ferendo così vari animali. Erano
fuggiti tra penetranti ululati che l’avevano fatto rabbrividire. Il secondo
attacco era stato molto più cruento. Mentre esplorava una delle tombe più
recenti, si era trovato circondato da una dozzina di tuk’ata, quasi il doppio
del branco precedente. Aveva calato la sua spada laser su di essi, tranciando
carne e ossa. Quando finalmente si erano dispersi fuggendo via, ne
restavano in vita solo quattro.
Dopo quell’episodio i tuk’ata lo avevano lasciato in pace: una fortuna,
dal momento che non era più certo di poterli respingere se lo avessero
attaccato di nuovo. Per dare linfa ai propri muscoli e proseguire la ricerca
una tomba dopo l’altra, aveva abusato delle proprie riserve corporee
divorandosi letteralmente dall’interno, e stava pagandone il prezzo.
Avrebbe potuto alleviare le sue sofferenze entrando in una trance di
meditazione, rallentando il battito cardiaco e le funzioni vitali per
conservare energia. Alla fine, tuttavia, non avrebbe ottenuto nulla. Nessuno
sarebbe venuto a cercarlo, e alla fine anche uno stato letargico avrebbe
condotto a una morte lenta, sebbene relativamente indolore.
Non era un’opzione che fosse pronto a contemplare, non ancora.
Nonostante l’inutilità della sua ricerca, e malgrado la cocente delusione,
non era ancora pronto; non se questo significava la morte, insieme a lui,
della verità che aveva scoperto. Sopportò dunque il dolore e comandò alla
sua carne sempre più debole di riportarlo indietro. All’Accademia.
Aveva impiegato solo un giorno a raggiungere la valle all’inizio della sua
ricerca. Il suo viaggio di ritorno era giunto al terzo. Alla partenza era stato
forte e pieno di vigore; in quel momento era debole e affamato. Ma non
erano solo i morsi della fame a rallentargli il passo.
Prima era stato sorretto dall’aspettativa; in quel momento era appesantito
dal fallimento. Qordis aveva ragione: gli antichi Signori Oscuri di Korriban
non c’erano più. Erano passati quasi tremila anni da quando Revan aveva
scacciato i Sith da Korriban al giorno in cui la Confraternita Oscura di Kaan
aveva rivendicato ufficialmente quel pianeta per l’Ordine. In quel periodo,
il lascito dei Sith originari era stato totalmente spazzato via.
Era andato nel deserto in cerca d’illuminazione e vi aveva trovato
soltanto delusioni. Korriban non era più la culla dell’oscurità: era un guscio,
un cadavere secco e avvizzito, ripulito dai mangiatori di carogne. Qordis
aveva ragione... eppure, Bane aveva compreso che si sbagliava anche di
grosso.
Nelle tombe non aveva trovato ciò che cercava. Ma la sua mente si era
finalmente snebbiata durante il lungo viaggio di ritorno nel deserto. Fame,
sete, spossatezza: la sofferenza fisica gli aveva schiarito i pensieri; gli aveva
strappato via ogni illusione e messo a nudo le menzogne di Qordis e
dell’Accademia. Gli spiriti dei Sith se n’erano andati per sempre da
Korriban. Ma non era dei Jedi, bensì della Confraternita di Lord Kaan la
colpa di quanto accaduto.
Essi avevano distorto e corrotto l’antico Ordine dei Sith. Gli
insegnamenti dell’Accademia andavano contro tutto ciò che Bane aveva
appreso negli archivi riguardo alle vie del Lato Oscuro. Kaan aveva
accantonato il vero potere dell’individuo sostituendolo con la falsa gloria
del sacrificio nel nome di una degna causa. Cercava di distruggere i Jedi
con la potenza delle armi, anziché con l’astuzia; peggio di tutto, sosteneva
che nella Confraternita dei Sith tutti fossero uguali. Bane sapeva però che
l’uguaglianza era un mito. I forti erano predestinati a dominare, i deboli a
servire.
La Confraternita dell’Oscurità rappresentava tutto ciò che di sbagliato
c’era negli odierni Sith; si erano discostati dalla retta via. Era il loro
fallimento il motivo per cui gli spiriti dei Signori Oscuri erano svaniti.
Nessuno su Korriban, né Maestro né apprendista, era degno della loro
sapienza; nessuno meritava il loro potere. Si erano semplicemente dissolti,
disperdendosi come una manciata di polvere tra le sabbie del deserto.
Ormai Bane vedeva la verità con chiarezza, e invece Qordis e gli altri
sarebbero rimasti ciechi per sempre. Seguivano Kaan come se li avesse
ammaliati con un segreto incantesimo.
Il vento portò alle sue orecchie il suono di voci lontane. Sollevando lo
sguardo si sorprese di vedere il tempio dell’Accademia torreggiare dinanzi
a lui, a meno di un chilometro di distanza. Assorto com’era nelle sue
elucubrazioni filosofiche, non si era accorto di quanto avesse camminato.
Era vicino a sufficienza da vedere delle piccole sagome che si muovevano
ai piedi dell’edificio: dei servitori, o forse un gruppetto di studenti
dell’Accademia che vagavano lì intorno. Uno di loro notò il suo arrivo e
corse dentro, forse per comunicare la notizia a Qordis e agli altri Maestri.
Bane non era sicuro di che tipo di accoglienza gli avrebbero riservato. In
verità non gli importava, purché gli portassero del cibo. A parte quello, non
gli erano più di alcuna utilità. Li disprezzava tutti allo stesso modo, Maestri
e apprendisti. Non erano migliori dei Jedi che avevano depredato Korriban
tremila anni addietro. L’Accademia era un abominio, la dimostrazione di
quanto i Sith fossero decaduti dai veri ideali del Lato Oscuro.
Solo Bane lo capiva; soltanto lui vedeva la verità. E lui solo avrebbe
potuto ricondurre i Sith sulla via del Lato Oscuro.
Naturalmente non sarebbe stato così sciocco da dirlo. La Confraternita
non lo avrebbe mai seguito, né lo avrebbero fatto Qordis o altri
all’Accademia. Deboli e ignoranti com’erano, avrebbero potuto comunque
sopraffarlo coi loro numeri. Se doveva restaurare la vera gloria dei Sith, gli
sarebbe servito un alleato.
Non fra i Maestri, tutti troppo vicini a Kaan. E gli apprendisti non erano
altro che un branco di servi striscianti che seguivano ciecamente i Maestri.
Non comprendevano davvero il Lato Oscuro, e non percepivano di essere
condotti per un falso cammino. Nessuno di loro era degno.
No, si corresse Bane. Una c’era. Githany.
Non si lasciava intimidire dai Maestri. Li aveva sfidati per allenarlo.
L’idea che lo avesse fatto per i propri fini egoistici non faceva che
dimostrare ulteriormente quanto comprendesse la reale natura del Lato
Oscuro.
In quel momento si rammaricò di non averle parlato prima di lasciare
l’Accademia: almeno avrebbe potuto spiegarle perché avesse dovuto farlo.
Lei era rimasta delusa perché aveva lasciato vivere Sirak. E non a torto. Ma
alla fine era stato lui a volgerle le spalle. Era stato lui ad abbandonarla
mentre andava in cerca dei segreti nascosti di Korriban. Cosa mai poteva
pensare di lui in quel momento?
Raggiunto il limitare dell’area del tempio, i profumi del pasto di
mezzogiorno in preparazione lo raggiunsero dalle cucine, scacciando ogni
altro pensiero dalla mente. Con l’acquolina in bocca e lo stomaco che
brontolava, salì barcollando i gradini, verso la prospettiva sempre più vicina
del cibo.
Qordis non prese bene la notizia del ritorno di Bane. Il tempismo non
avrebbe potuto essere peggiore. Lord Kaan aveva inviato un messaggio
urgente: tutti i membri dell’Accademia sarebbero dovuti andare su Ruusan
per unirsi alla battaglia contro i Jedi. Tutti gli apprendisti avrebbero
ricevuto una spada laser e un posto nella Confraternita dell’Oscurità, che li
avrebbe elevati al rango di Signori Oscuri dei Sith.
Sarebbe stato inopportuno presentarsi con uno dei suoi studenti più
potenti in atteggiamento provocatorio, come quello di Bane durante il loro
ultimo incontro. Ancora peggio sarebbe stato se avesse respinto l’offerta e
se ne fosse andato per conto proprio, disobbedendo all’ordine di recarsi su
Ruusan. Lord Kaan era riuscito a tenere assieme la Confraternita, ma si
trattava di un’alleanza sempre sul punto di sfaldarsi. Di fronte ai ripetuti
fallimenti nel tentativo di scacciare i Jedi da Ruusan, il rifiuto ad allinearsi
da parte di un Sith di rilievo sarebbe potuto bastare a disfare ogni cosa.
Una diserzione poteva portare ad altre, e così tutto sarebbe tornato nel
caos: Sith che combattevano altri Sith, coi vari Signori Oscuri che
cercavano di dominare sui loro rivali e di distruggerli. I Jedi sarebbero
sopravvissuti e avrebbero ricostruito l’Ordine, tutto mentre ridevano della
stupidità dei loro acerrimi nemici.
Se solo Bane fosse perito nel deserto di Korriban! Purtroppo era tornato,
e ormai Qordis non poteva far nulla per sbarazzarsene. Non dopo la
direttiva di Kaan. Avevano bisogno di ogni singola spada laser e ogni
singolo Sith, specie poi se forte come Bane. Per il bene della Confraternita,
e della gloriosa visione di Lord Kaan, Qordis avrebbe dovuto trovare un
modo per fare ammenda.
Bane si accasciò sul letto, pieno fino a scoppiare. Nelle cucine si era
abbuffato, attaccando il cibo coi modi di un soldato gamorreano al trogolo.
Aveva divorato ogni cosa vedesse fino a saziare il suo vorace appetito. Solo
allora ricordò di non aver davvero dormito per quasi due settimane.
La fame aveva fatto strada alla spossatezza, facendolo vagare intontito
dalle cucine alla sua stanza. In pochi secondi cadde in un sonno profondo e
senza sogni.
Si svegliò qualche ora dopo, sentendo bussare alla porta. Ancora
assonnato si costrinse ad alzarsi, accese una torcia a luminescenza e aprì la
porta.
Nel corridoio c’era Qordis. Entrò senza aspettare l’invito, richiudendosi
la porta alle spalle. Bane era troppo impegnato a scrollarsi di dosso gli
ultimi brandelli di sonno per protestare.
“Bentornato, Bane”, disse il Maestro. “Spero che il tuo viaggio sia stato...
istruttivo”.
Bane, perplesso per il tono cordiale del Maestro, si limitò ad annuire.
“Spero che adesso tu capisca perché ti ho lasciato andare”, proseguì
Qordis.
Perché eri troppo codardo per tentare di fermarmi, pensò Bane, anche se
non profferì parola.
“Era l’ultima fase del tuo allenamento”, affermò il Maestro. “Dovevi
capire perché abbiamo abbandonato gli antichi modi. Ci troviamo in una
nuova epoca, e avresti potuto capirlo solo una volta riconosciuto che quella
vecchia era davvero finita”.
Bane mantenne uno stoico silenzio, in disaccordo con Qordis ma
riluttante a discuterne.
“Ora che hai appreso la tua ultima lezione, l’Accademia non ha
nient’altro da insegnarti”. Su quel punto, se non altro, erano pienamente
d’accordo. “Non sei più un apprendista, Bane, e sei ora pronto a unirti ai
ranghi dei Maestri. Sei un Signore Oscuro dei Sith”.
Fece una pausa, come se si aspettasse una reazione di qualche tipo. Bane
era immobile, come le statue di pietra che aveva visto a guardia delle tombe
degli antichi Sith in alcune delle cripte più antiche.
Qordis si schiarì la gola, spezzando quel silenzio imbarazzato. “So che
Lord Kas’im ti ha già consegnato una spada laser. Anch’io ho un dono per
te”. Tese la mano, sul cui palmo si trovava il cristallo di una spada laser.
Quando Bane esitò, Qordis riprese a parlare. “Prendilo, Lord Bane”.
Mise un accento particolare sul nuovo titolo. Alle orecchie di Bane risultò
sgradevole: un onore vuoto, conferito da uno stolto che si credeva un
Maestro. Ma non disse nulla mentre l’altro seguitava a parlare.
“Questo cristallo sintetico è più forte di quello che si trova adesso nella
tua spada”, gli assicurò Qordis. “Ed è molto, molto più potente dei cristalli
naturali usati dai Jedi nelle loro armi”.
Lentamente, Bane tese il braccio e lo prese in mano. All’inizio la pietra
esagonale era fredda al tocco, ma nella sua stretta si scaldò in pochi attimi.
“Il tuo ritorno dal deserto non avrebbe potuto avvenire in un momento
migliore”, riprese Qordis. “Ci stiamo preparando a lasciare Korriban. Lord
Kaan ha bisogno di noi su Ruusan. Tutti i Sith dovranno unirsi alla
Confraternita dell’Oscurità, se vogliamo sconfiggere i Jedi”.
“La Confraternita fallirà”, affermò Bane, dichiarando apertamente ciò
che sapeva vero soltanto perché era certo che l’altro non gli avrebbe
creduto. “Kaan non comprende il Lato Oscuro. Vi sta conducendo sul
sentiero della rovina”.
Qordis inspirò rumorosamente, poi emise un sibilo di rabbia. “Alcuni
potrebbero ritenere le tue parole alto tradimento, Lord Bane. In futuro farai
meglio a tenere simili idee per te”. Si girò e raggiunse rabbiosamente la
porta, aprendola con violenza. Era esattamente la reazione che Bane si
aspettava.
L’allampanato Maestro si girò verso Bane un’altra volta. “Potrai anche
essere diventato un Signore Oscuro, Bane, ma ci sono ancora molte cose del
Lato Oscuro che non comprendi. Unisciti alla Confraternita e potremo
insegnarti ciò che sappiamo. Se ci rifiuterai, non troverai mai ciò che
cerchi”.
Qordis uscì a grandi passi; Bane osservò in silenzio la porta richiudersi
alle sue spalle. Si sbagliava sulla Confraternita, ma su una cosa aveva
ragione: c’erano ancora molte cose del Lato Oscuro che doveva
comprendere.
E c’era un solo luogo in tutta la galassia dove potesse andare per
impararle.
CAPITOLO 20
Lord Hoth, Maestro Jedi e facente funzioni di generale delle forze della
Repubblica su Ruusan, sedeva chino su un tronco, all’esterno della tenda, e
fissava le nubi scure che aleggiavano sul campo. Guardava torvo il cielo
minaccioso come se potesse impedire al temporale di scatenarsi con la
semplice ferocia della sua espressione.
“Qualcosa ti turba, Lord Hoth?”
La voce del Maestro Pernicar, amico di lunga data e suo braccio destro in
quell’interminabile campagna, riportò la sua attenzione a terra.
“E cosa non lo fa, Pernicar?”, domandò con un grande sospiro. “Cibo e
medipac scarseggiano. I feriti sono più numerosi degli incolumi. I
ricognitori riferiscono che stanno arrivando rinforzi ad assistere Kaan e i
suoi Sith”. Si diede una manata sul ginocchio. “E in nostro aiuto non
arrivano che bambini e ragazzi”.
“Bambini in cui la Forza è potente”, gli rammentò Pernicar. “Se non li
arruoliamo noi, lo faranno i Sith”.
“Diamine, Pernicar, sono solo bambini! Io ho bisogno di Jedi addestrati.
Tutti quelli che riusciamo a trovare. Ma ci sono ancora membri del nostro
stesso Ordine che rifiutano di aiutarci”.
“Forse è il modo in cui lo chiedi”, disse un’altra voce alle sue spalle.
Hoth si sfregò le tempie, ma non si girò verso chi aveva parlato. Lord
Valenthyne Farfalla era stato fra i primi Maestri Jedi a unirsi all’Esercito
della Luce su Ruusan. Aveva combattuto in quasi ogni scontro e i Sith
ormai lo conoscevano bene: era difficile non notarlo, persino nel caos della
battaglia.
Sulla schiena gli scendevano lunghi e fluenti boccoli dorati. Anche il
pettorale dell’armatura era d’oro, e veniva strofinato e lucidato fino a
brillare prima di ogni battaglia; era orlato con maniche rosso acceso e
tempestato di rubini che si accordavano col colore dei suoi occhi e
contrastavano la carnagione pallida.
Lord Hoth lo trovava insopportabile. Farfalla era un fedele servitore della
luce, ma oltre a questo era uno sciocco tronfio e vanesio, che passava più
tempo a scegliersi il guardaroba che a pianificare strategie. Proprio l’ultima
persona con cui volesse avere a che fare in quel momento.
“Se mostrassi più tatto, Lord Hoth”, proseguì Farfalla, comparendo con
passo elegante, “richiameresti più Jedi alla tua causa”.
“Non dovrei aver bisogno di convincerli!”, ruggì Hoth, alzandosi e
agitando le braccia, esasperato. Farfalla indietreggiò con agilità. “Stiamo
combattendo contro i Sith! Il Lato Oscuro dev’essere distrutto, e potremmo
farcela se ci fossero più Jedi!”
“Alcuni non la vedono così”, commentò calmo Pernicar. Si era abituato
alle sfuriate di Hoth mentre si trovavano su Ruusan e aveva imparato
perlopiù a ignorarle.
“Altri pianeti della Repubblica sono sotto attacco, a parte questo”,
intervenne Farfalla. “Molti Jedi stanno assistendo le truppe in altri settori,
per aiutarle contro le flotte dei Sith”.
Hoth sputò a terra e si compiacque vedendo l’espressione inorridita di
Farfalla. “Quelle flotte batteranno pure bandiera Sith, ma sono composte da
comunissimi soldati. La Repubblica ha numeri sufficienti a respingerle, non
le serve l’aiuto dei Jedi. Tutti i veri Sith, i Signori Oscuri, si trovano qui, e
adesso. Se sconfiggeremo la Confraternita dell’Oscurità, la ribellione dei
Sith crollerà. Non lo capiscono?”
Seguì un lungo silenzio, mentre gli altri due si scambiavano uno sguardo
imbarazzato. Alla fine fu Pernicar a trovare il coraggio di rispondere.
“Alcuni Jedi credono che non dovremmo trovarci qui. Pensano che
l’unica cosa a tenere unita la Confraternita sia l’odio per l’Esercito della
Luce. Sostengono che se smobilitassimo e cedessimo Ruusan, i Sith
inizierebbero ben presto a rivoltarsi uno contro l’altro e la Confraternita
finirebbe per sfasciarsi”.
Hoth scosse la testa incredulo. “Non capiscono che grande opportunità ci
si presenta qui? Possiamo spazzar via i seguaci del lato oscuro una volta per
tutte!”
“Alcuni potrebbero obiettare che non sia questo lo scopo del nostro
Ordine”, suggerì Farfalla con garbo. “I Jedi sono difensori della
Repubblica. Pensano che l’Esercito della Luce prolunghi la ribellione,
rafforzando la risolutezza dei Sith. Affermano che in realtà tu stia arrecando
danno alla Repubblica che hai giurato di difendere”.
“È questo che pensi?”, ringhiò Hoth.
“Lord Farfalla è con noi dal principio”, gli rammentò Pernicar. “Sta
soltanto riportando ciò che dicono gli altri, i Jedi che non sono venuti a
Ruusan”.
“I Sith riceveranno rinforzi da Korriban”, mugugnò Hoth. “Noi abbiamo
forze appena sufficienti a respingerli ora. Dovrò soltanto farglielo capire!”
“Probabilmente avremmo più successo se lo facesse qualcun altro”,
propose Farfalla. “Alcuni credono che per te sia diventata una questione
personale. Non considerano Ruusan come teatro dello scontro finale tra luce
e oscurità, ma piuttosto di una faida tra te e Lord Kaan”.
Hoth si rimise a sedere stancamente. “Allora siamo condannati. Senza
rinforzi, ci soverchieranno”.
Farfalla si accovacciò accanto a lui, posando una mano curatissima e
profumata sulla spalla muscolosa di Hoth. Il generale Jedi dovette
impiegare ogni briciolo della propria disciplina per non scrollarselo di
dosso.
“Manda me, mio signore”, disse Farfalla con zelo. “Sono qui da sempre;
credo in questa causa col tuo stesso vigore”.
“Perché dovrebbero ascoltare più te che me?”
La risata acuta e cinguettante di Farfalla gli diede sui nervi. “Mio
signore, nonostante la tua abilità in battaglia e il tuo potere nella Forza, hai
qualche difficoltà nella delicata arte della diplomazia. Sei un generale
geniale, e la tua rigida natura aiuta a comandare le truppe. Purtroppo, può
anche mettere a dura prova la pazienza di chi non è al tuo comando”.
“Sei troppo brusco, mio signore”, chiarì Pernicar.
“È ciò che ho appena detto”, puntualizzò Farfalla con appena una punta
d’irritazione. Poi proseguì: “D’altro canto, la gente mi trova spiritoso e
affascinante. Se necessario, so essere molto convincente. Dammi il
permesso di reclutare altri per la nostra causa e io tornerò con cento, no!,
trecento Jedi pronti a unirsi all’Esercito della Luce”.
Hoth si prese di nuovo la testa tra le mani. Le tempie gli battevano:
sembrava che Farfalla avesse sempre quell’effetto su di lui.
“Va’”, bofonchiò senza alzare lo sguardo. “Se sei così certo di potermi
portare dei rinforzi, allora fallo”.
Farfalla gli rivolse un elaborato inchino, poi si girò con uno scatto
elegante e se ne andò, i boccoli dorati che ondeggiavano al vento sempre
più forte del temporale in arrivo.
Non appena fu fuori portata, Pernicar riprese a parlare. “È saggio, mio
signore? Siamo già pochi. Quanto a lungo pensi che potremo sopravvivere
senza di lui?”
La pioggia iniziò a cadere a grandi gocce, e nella mente di Hoth affiorò
un’idea. “I Sith non possono sconfiggerci se noi non combattiamo”, disse.
“Non gliene daremo l’occasione. È arrivata la stagione delle piogge per i
nostri inseguitori diventerà impossibile trovarci. Ci nasconderemo nella
foresta, tormentandoli con agguati e attacchi rapidi prima di scomparire di
nuovo tra gli alberi”.
“Questa strategia non funzionerà con l’arrivo della stagione secca”, lo
avvertì Pernicar.
“Non avrà importanza, se per allora Farfalla non mi avrà portato
rinforzi”, rispose Hoth.
Da lontano, Ambria era molto bello. Arancione con dei magnifici anelli
violacei, era probabilmente il più grande pianeta abitabile del sistema di
Stenness. Eppure, chiunque vi atterrasse si accorgeva ben presto che quella
bellezza svaniva non appena entrati nell’atmosfera.
Molti secoli prima, il fallimento dei rituali da parte di una potente strega
Sith aveva involontariamente scatenato un’ondata catastrofica di energia del
Lato Oscuro su tutta la superficie. La strega era stata distrutta assieme a
quasi tutte le forme di vita su Ambria. Era sopravvissuto poco più della
brulla roccia, e persino i nuovi tratti di terreno fertile erano pochi e molto
distanti tra loro. Su Ambria non c’erano vere città; sulla superficie
risiedevano solo alcuni audaci coloni, a tanta distanza gli uni dagli altri che
praticamente ciascuno viveva da solo.
Un tempo i Jedi avevano tentato di mondare Ambria da quell’orrenda
contaminazione, ma il potere del Lato Oscuro aveva segnato per sempre il
pianeta. Incapaci di purificarlo, erano riusciti soltanto a concentrare e a
confinare il Lato Oscuro in un unico punto: il Lago Natth. Gli abitanti tanto
coraggiosi da sopportare gli ambienti desolati di Ambria giravano ben alla
larga dal lago. Naturalmente, Bane si era accampato proprio sulla riva.
Ambria era situato ai margini della Regione di Espansione, ad appena un
breve salto iperspaziale da Ruusan. Ovunque c’erano le prove di varie
scaramucce combattute tra Repubblica e Sith nella più recente campagna. Il
paesaggio desolato era cosparso di armi e armature cadute; veicoli arsi e
swoop danneggiati erano visibili da chilometri di distanza sulle fredde
pianure inospitali. Tranne per qualche colono locale che ne recuperava i
pezzi, nessuno si era preso la briga di rimuovere i resti.
Il pianeta arancione era un mondo insignificante: aveva risorse e abitanti
troppo scarsi perché la flotta della Repubblica che controllava il settore al
momento se ne preoccupasse. Bane aveva sentito dire che un guaritore
abbastanza abile, un uomo di nome Caleb, fosse giunto sul pianeta una
volta terminata la lotta. Uno stolto idealista, deciso a risanare le ferite della
guerra; non meritava neppure il suo disprezzo. Forse ormai persino
quell’uomo aveva abbandonato il pianeta, una volta visto quanto poco
restasse di recuperabile. Si trattava a tutti gli effetti di un mondo
dimenticato.
Era il luogo perfetto dove incontrare l’emissario di Kaan. Una flotta Sith
sarebbe stata rilevata subito dalle navi della Repubblica che pattugliavano il
sistema, ma una navetta con un pilota abile avrebbe potuto infiltrarsi senza
problemi. Bane non aveva intenzione di organizzare un incontro in un luogo
dove Kaan potesse inviare un’armata per annientarlo.
Attese con pazienza nel suo accampamento l’arrivo dell’emissario.
Talvolta guardava il cielo o l’orizzonte, ma non temeva che qualcuno
potesse coglierlo di sorpresa. Aveva visto una nave atterrare a qualche
chilometro di distanza. Se l’occupante fosse venuto da lui su un veicolo
terrestre, come il cingolato ai bordi del suo accampamento, ne avrebbe
sentito il ronzio del motore o avvertito le inconfondibili vibrazioni dei
cingoli che giravano sul terreno irregolare.
Invece, non sentì che le lievi acque scure del Lago Natth che lambivano
la spiaggia, a meno di cinque metri da dove si trovava. E in tutto quel tempo
la sua mente continuò ad arrovellarsi sull’unica domanda per cui non avesse
ancora una risposta.
Sempre due devono essere: né più, né meno. Uno incarna il potere,
l’altro lo brama. Una volta liberata la galassia dalla Confraternita, dove
avrebbe trovato un apprendista degno?
Il ronzio dei motori di un Buzzard lo distolse dai propri pensieri. Si alzò
in piedi mentre la nave scendeva dal cielo e girava intorno al suo
accampamento prima di atterrare a breve distanza. Quando la rampa di
atterraggio si abbassò e vide chi ne scendeva, non poté fare a meno di
sorridere.
“Githany”, disse, alzandosi per salutarla quando fu abbastanza vicina.
“Speravo proprio che Lord Kaan mandasse te”.
“Non mi ha mandato lui”, rispose. “Ho chiesto io di venire”.
Il cuore di Bane ebbe un sobbalzo. Era lieto di vederla: il suo arrivo
risvegliava in lui un desiderio di cui aveva quasi dimenticato l’esistenza.
Ma era anche inquieto. Se qualcuno poteva smascherare il suo tranello, era
proprio lei.
“Hai visto il messaggio?”, domandò, studiandola attentamente per
valutarne la reazione.
“Credevo fossi cambiato, Bane. Rimorsi e commiserazione sono da
deboli”.
Sollevato, chinò il capo per continuare la farsa. “Hai ragione”, borbottò.
Lei gli si avvicinò. “Con me non attacca, Bane”, gli sussurrò, e i muscoli
di lui s’irrigidirono in attesa di ciò che avrebbe fatto dopo. “Penso che tu sia
qui per un altro motivo”.
Il Sith rimase dov’era mentre lei gli si appoggiava lentamente, pronto a
reagire al primo accenno di minaccia o di pericolo. Abbassò la guardia solo
quando gli sfiorò piano le labbra con le sue.
D’istinto alzò le mani e le afferrò le spalle tirandola a sé, premendo forte
a sé il suo corpo e le sue labbra mentre la baciava. Githany gli avvolse le
braccia intorno alle spalle e al collo robusti, ricambiando la sua passione.
Il calore di lei li avvolse entrambi. Il bacio parve durare in eterno; il suo
profumo si diffuse sui corpi intrecciati finché non gli sembrò di esservi
immerso. Quando alla fine Githany si staccò, Bane vide una feroce
bramosia nei suoi occhi mentre ancora assaporava il dolce fuoco delle sue
labbra. Sentiva anche il sapore di qualcos’altro.
Veleno!
Confuso da quel bacio, impiegò un attimo a rendersi conto dell’accaduto.
Non importava che Githany gli credesse o meno; aveva chiesto a Kaan di
mandarla lì per ucciderlo. Per un solo attimo fu preoccupato... finché non
riconobbe il lieve sapore di trirame del veleno di worrt delle rocce.
Rise, boccheggiando leggermente. “Magnifico”, mormorò. Segretezza.
Astuzia. Tradimento. Forse era corrotta dall’influenza della Confraternita,
ma Githany capiva comunque cosa rendesse forte il Lato Oscuro. Possibile
che sarebbe diventata lei la sua unica vera apprendista, nonostante non
stesse dalla sua parte?
Al suo complimento, lei sorrise schiva. “Attraverso la passione,
acquistiamo forza”.
Bane sentiva il veleno entrargli in circolo. Gli effetti erano sottili. Se la
sua potenza sempre maggiore nel Lato Oscuro non gli avesse acutizzato i
sensi all’estremo, forse non si sarebbe neppure accorto della sua presenza
per ore. Eppure, ancora una volta Githany lo aveva sottovalutato.
Il veleno di worrt delle rocce era tanto potente da uccidere un bantha, ma
avrebbe potuto scegliere tossine molto più rare e letali. Il Lato Oscuro
scorreva in lui denso quanto il sangue che aveva nelle vene. Ormai era
Darth Bane, un vero Signore Oscuro. Non aveva da temere per il suo
veleno.
Il fatto che fosse convinta che non lo avrebbe avvertito sulle sue labbra,
che pensasse che avrebbe potuto arrecargli danni, significava che doveva
aver creduto alla sua recita. Sospettava che si fosse nuovamente allontanato
dal Lato Oscuro; lo riteneva debole. Ne fu lieto: rendeva più perdonabile la
sua decisione di stare dalla parte di Kaan. Forse, dopotutto, c’era ancora
qualche speranza per lei. Ma doveva esserne certo.
“Scusami se ti ho abbandonato”, le disse con dolcezza. “Ero accecato dai
sogni di una gloria ormai trascorsa. Naga Sadow, Exar Kun, Darth Revan...
bramavo il potere dei grandi Signori dei Sith del passato”.
“Tutti quanti bramiamo il potere”, rispose. “È la natura del Lato Oscuro.
Ma la Confraternita è potente. Kaan è in procinto di riuscire là dove tutti
hanno fallito prima di lui. Bane, su Ruusan stiamo vincendo”.
Bane scosse la testa, deluso. Come faceva a essere ancora così cieca?
“Forse Kaan sta vincendo su Ruusan, ma i suoi seguaci perdono in tutti gli
altri luoghi. Senza capi, il suo grande esercito di Sith si è sgretolato. La
Repubblica li ha respinti, impadronendosi di quasi tutti i mondi da noi
conquistati. Entro pochi mesi, la ribellione verrà schiacciata”.
“Niente di tutto ciò avrà importanza, se riusciremo ad annientare i Jedi”,
spiegò lei con impeto, gli occhi che le ardevano. “La guerra ha avuto gravi
ripercussioni sulla Repubblica. Quando i Jedi non ci saranno più, potremo
radunare con facilità le nostre truppe e ribaltare le sorti. Non dobbiamo far
altro che annientarli e la vittoria finale sarà nostra! Dobbiamo solo vincere
su Ruusan!”
“Non ci sono solo i Jedi di Ruusan”, rispose lui.
“Ce ne sono altri, ma sono sparpagliati per tutta la galassia in gruppi
poco numerosi. Distruggendo l’Esercito della Luce, potremo stanarli a
piacimento”.
“Davvero credi che Kaan vincerà? È già successo che ottenesse la vittoria
per poi non mantenere le sue promesse”.
“Non mi sembri molto votato alla causa”, osservò con una punta di
sospetto, “per qualcuno che afferma di volersi unire alla Confraternita”.
Bane protese un braccio di scatto e l’afferrò alla vita, tirandola a sé per
baciarla di nuovo con foga. Lei si sorprese, poi chiuse gli occhi e si
abbandonò al piacere del momento. Stavolta fu lei ad allontanarsi con un
lieve sospiro.
“Avevi ragione, sono tornato per un altro motivo”, disse, continuando a
tenerla stretta. La seconda volta, il subdolo veleno sulle sue labbra aveva lo
stesso dolce sapore.
“La Confraternita non può fallire”, promise lei. “I Jedi sono in fuga, e si
nascondono impauriti nelle foreste”.
La lasciò andare e indietreggiò, dandole le spalle. Voleva credere con
tutte le sue forze che fosse in grado di diventare sua apprendista una volta
distrutti Kaan e la Confraternita, ma continuava a non esserne sicuro. Se
credeva davvero in ciò che la Confraternita rappresentava, non c’erano
speranze.
“Proprio non riesco ad accettare ciò che professa Lord Kaan”, confessò.
“Sostiene che tutti siamo uguali, ma se è così, nessuno può essere forte”.
Lei gli si avvicinò da dietro e gli posò le mani sulle spalle, premendo
dolcemente finché non si voltò di nuovo. Githany aveva un’espressione
divertita.
“Non credere a tutto ciò che dice Kaan”, lo avvertì, con voce carica di
ambizione. Uno incarna il potere, l’altro lo brama. “Una volta distrutti i
Jedi, molti suoi seguaci scopriranno che alcuni sono più uguali”.
Bane sollevò Githany fra le sue possenti braccia con un ruggito di gioia,
facendola girare e dandole un altro lungo bacio appassionato. Era quel che
voleva sentire!
Quando la rimise a terra, lei indietreggiò un po’ barcollando, malferma
sulle gambe dopo quell’inattesa reazione. “Immagino che accetti”, disse,
con un sorriso malizioso sulle labbra avvelenate. “Leva le tende. Io ti
precederò per far sapere a Kaan che stai arrivando”.
“Non vedo l’ora di vedere che faccia farà quando gli parlerai del nostro
incontro”, rispose, sempre fingendo di non essersi accorto del veleno che
ormai gli galoppava nelle vene.
“Nemmeno io”, rispose, senza lasciar trapelare nulla dalla voce.
“Nemmeno io”.
Mentre la superficie di Ambria si allontanava sotto di lei e i magnifici
anelli apparivano, Githany non riuscì a non provare una fitta di rimorso. La
passione che aveva risvegliato in Bane gli aveva dato una forza improvvisa
e stupefacente: l’aveva sentita in ogni suo bacio. Era chiaro però che a Bane
interessava lei, non unirsi alla Confraternita dell’Oscurità.
Immise le coordinate per tornare su Ruusan e si appoggiò allo schienale.
La testa le girava per il veleno sulle labbra. Non quello di worrt delle rocce,
che aveva usato soltanto per indurgli un falso senso di sicurezza. Ma il
synox che vi aveva mescolato, una tossina incolore, inodore e priva di
sapore usata dai famigerati assassini GenoHaradan: le faceva effetto
nonostante l’antidoto che aveva assunto. Non aveva dubbi che presto Bane
si sarebbe sentito molto, molto peggio di lei. Un solo bacio sarebbe bastato
a ucciderlo, e gliene aveva dati tre.
Si rese conto che le sarebbe mancato. Ma rappresentava una minaccia
verso tutto ciò per cui Lord Kaan stava impegnandosi. Doveva stare dalla
parte di uno dei due, e così naturalmente aveva scelto quello che aveva ai
propri ordini un intero esercito di Sith.
Dopotutto, era la natura del Lato Oscuro.
Bane restò a guardare il Buzzard finché non scomparve nel cielo prima di
mettersi a disfare l’accampamento. Doveva agire con cautela. Githany
avrebbe riferito a Kaan di aver tentato di avvelenarlo. Una volta che fosse
comparso ancora vivo, le cose avrebbero potuto farsi... complicate.
Poteva semplicemente restare lontano e lasciare che gli eventi facessero
il loro corso. I Jedi su Ruusan si sarebbero riuniti, ribaltando ancora una
volta le sorti della battaglia. Era scontato, e Bane vi faceva affidamento.
Kaan, disperato, si sarebbe allora rivolto al dono inviatogli da Bane.
Avrebbe scatenato la bomba psichica ignaro della sua vera natura,
distruggendo chiunque su Ruusan fosse in grado di usare la Forza, Sith o
Jedi.
Era lo scenario più probabile. Ma Bane era andato troppo avanti per
lasciare al caso la fine della Confraternita. Stavolta, quando l’esercito di
Kaan avesse vacillato, nel suo accampamento c’erano persone che come
Githany avrebbero potuto rivoltarsi contro di lui. Sarebbero potuti fuggire
da Ruusan, disperdendosi dinanzi ai Jedi. E così Bane avrebbe dovuto
occuparsi separatamente di ciascuno di loro prima di diventare il capo
incontrastato dei Sith.
Meglio essere presente, per guidare gli eventi verso il risultato migliore.
Ciò significava tuttavia dover inventare una storia plausibile, per spiegare il
desiderio di unirsi alla Confraternita anche dopo un tentativo fallito di
assassinio.
Rifletté sulla faccenda quasi un’ora, prendendo in considerazione e
accantonando varie idee. Alla fine, c’era un solo motivo per cui chiunque
avrebbe creduto al suo ritorno. Doveva far pensare a tutti di voler rovesciare
Kaan per diventare il nuovo capo della Confraternita.
Bane sorrise per la subdola bellezza di quel piano. Naturalmente, Kaan
avrebbe nutrito dei sospetti. Ma tutti i suoi sforzi e la sua attenzione si
sarebbero focalizzati sul mantenere la propria posizione. Non avrebbe
capito il suo vero scopo: sterminare totalmente la Confraternita, e
distruggere fino all’ultimo Sith su Ruusan.
C’era inoltre il vantaggio di avere un’altra occasione per convincere
Githany a unirsi a lui. Una volta compreso cos’era diventato davvero, e il
modo in cui aveva manipolato Kaan e gli altri cosiddetti Signori Oscuri,
forse avrebbe effettivamente accettato l’offerta di diventare sua apprendista.
Se non altro, avrebbe potuto vedere la sua faccia una volta accortasi che il
veleno non era riuscito a...
“Urgh!” Bane grugnì e si piegò in due, assalito da un tremendo dolore
allo stomaco. Cercò di raddrizzarsi, ma all’improvviso il suo corpo fu
squassato da un lungo accesso di tosse. Sollevò una mano per coprirsi la
bocca, e quando la abbassò la vide coperta di chiazze spumose di sangue.
Impossibile, pensò mentre un altro crampo all’addome lo faceva cadere
in ginocchio. Revan gli aveva mostrato come usare la Forza per scongiurare
veleni e malattie. Nessuna semplice tossina avrebbe dovuto essere in grado
di attaccare qualcuno tanto potente nel Lato Oscuro come un Signore dei
Sith.
Un altro accesso di tosse lo paralizzò finché non cessò. Portò una mano
in alto per asciugarsi il sudore che gli colava sul viso e si sentì qualcosa di
caldo e viscoso sulla guancia. Dalla coda dell’occhio gli scendeva una
minuscola scia di lacrime cremisi.
Si rialzò tremante, guardando dentro di sé. Il veleno c’era ancora. Si era
diffuso in tutto il corpo, corrompendo il suo organismo e danneggiandone le
parti vitali. Aveva un’emorragia interna, che sgorgava da occhi e narici.
Githany! Se non avesse provato una sofferenza così atroce, avrebbe riso.
Era stato così sicuro di sé, così arrogante. Talmente convinto che lo stesse
sottovalutando. E invece era stato lui a sottovalutare lei. Uno sbaglio che
giurò di non rifare... se fosse sopravvissuto.
Aveva letto abbastanza sul synox da riconoscerne i sintomi. Se lo avesse
rilevato subito sarebbe stato in grado di neutralizzarlo, proprio come aveva
fatto col veleno di worrt che ne aveva celato la presenza. Ma si trattava del
veleno più subdolo di tutti; quella tossina insidiosa lo aveva indebolito
diffondendosi indisturbata in tutto il corpo.
Fece appello a tutte le sue risorse e tentò di epurare il veleno, bruciandolo
col fuoco gelido del Lato Oscuro. Era troppo forte... o meglio lui era troppo
debole. Ormai il danno era fatto. Il synox lo aveva debilitato, lasciando solo
un’ombra del potere di cui disponeva appena un’ora addietro.
Avrebbe potuto attenuarne gli effetti, rallentarne il progresso e tenere a
bada temporaneamente i sintomi più letali. Ma non poteva curarsi. Non in
quel momento, così indebolito.
Nel Lago Natth c’era potere, ma non avrebbe potuto attingervi. Gli
antichi Jedi si erano curati d’isolare il Lato Oscuro nella sicurezza dei suoi
abissi. Le acque nere e stagnanti erano l’unica prova del potere che giaceva
intrappolato per sempre sotto la superficie.
Alla disperata ricerca di un altro modo per sopravvivere, raggiunse
barcollando il cingolato sul limitare dell’accampamento. Ignorando le
proteste delle membra vacillanti, si sistemò a fatica al volante e iniziò il
viaggio. Gli serviva un guaritore. Se quello di nome Caleb si trovava ancora
sul pianeta, Bane doveva trovarlo. Era la sua unica occasione.
Si diresse al campo di battaglia più vicino, un’arida pianura a qualche
chilometro di distanza dove ancora giacevano i resti di coloro che erano
morti combattendo. Il rombo profondo dei cingoli lo esacerbava, e tenne i
denti serrati per via del dolore atroce. Mentre guidava il mondo divenne per
lui un incubo a occhi aperti, fatto di ombre e buio tinti di rosso. Quasi non
sapeva neppure dove andasse, e lasciava che la Forza lo guidasse mentre
cercava anche di usarla per impedire al proprio corpo di soccombere agli
effetti del veleno di Githany.
La paura della morte lo assalì, interrompendo i suoi pensieri. La sua
volontà iniziò a vacillare; sarebbe stato così facile arrendersi allora e
lasciare che tutto avesse fine, lasciare semplicemente che ogni cosa
scivolasse via ed essere in pace.
Scosse la testa con un ringhio e riafferrò i pensieri dall’orlo del
precipizio, ripetendo di continuo la prima frase del mantra dei Sith: La pace
è una menzogna. Tornò al suo addestramento di soldato, prendendo la paura
e trasformandola in rabbia per darsi forza.
Sono Darth Bane, Signore Oscuro dei Sith, e sopravvivrò. A ogni costo.
Molto più avanti, proprio ai margini del suo campo visivo sempre più
ridotto, vide un altro veicolo avanzare lentamente dall’altro capo del campo
di battaglia. Coloni. Recuperatori di rottami che frugavano tra i resti.
Puntò il muso del cingolato in quella direzione, gemendo per lo sforzo
che richiedeva il semplice girare il volante. Emanando la Forza da sé, cercò
di toccare gli spiriti dei caduti in quel luogo. Schiere di esseri erano morte lì
solo pochi mesi addietro; tentò di assorbire ciò che restava della loro fine
orribile, nella speranza che l’agonia di quegli ultimi momenti sorreggesse il
suo potere sempre più tenue. Ma non era abbastanza: le loro sofferenze
erano troppo lontane e l’eco delle urla troppo flebile.
Sollevando lo sguardo si accorse che il suo veicolo aveva cominciato a
sbandare, inclinandosi troppo su un lato mentre la sua presa sul volante si
allentava. Si sentiva le braccia intorpidite; erano diventate quasi del tutto
insensibili. Il cuore sforzava sempre più a ogni battito.
Il cingolo anteriore urtò una grossa roccia e il trattore si ribaltò
all’improvviso, gettando Bane sulla terra dura e la pietra frastagliata. Cercò
di alzare di nuovo lo sguardo per ritrovare le persone viste in lontananza,
ma lo sforzo per sollevare la testa fu troppo. Ormai allo stremo, il mondo si
fece nero.
Bane era perplesso dall’inamovibile uomo che aveva davanti. Gli era
stata appena negata la sua unica speranza di sopravvivere, e non era certo di
cosa potesse fare. Avvertiva il potere in quell’uomo, ma non apparteneva né
al Lato Oscuro né a quello luminoso. Traeva la sua forza dalla terra e dalla
pietra, dalle montagne e dalle foreste, dal cielo e dalla terra. Nonostante la
differenza, Bane percepiva che si trattava di un potere a suo modo
formidabile. Trovava quella stranezza inquietante e sconvolgente. Possibile
che avrebbe perso quello scontro di volontà? Possibile che quell’uomo così
semplice, in cui albergava appena un debolissimo barlume della Forza,
fosse davvero in grado di sfidare un Signore Oscuro dei Sith?
Se la mente del guaritore fosse stata debole, avrebbe semplicemente
potuto costringerlo all’obbedienza, ma la sua volontà era inamovibile come
il nero acciaio del pentolone in cui aveva immerso la mano. Aveva anche
dimostrato che il dolore e le minacce di morte non sarebbero servite a fargli
cambiare idea. Bane riusciva a sentire in quel momento stesso che la sua
mente ergeva pareti per bloccare il dolore, seppellendolo tanto in profondità
da farlo quasi sparire. E c’era anche qualcos’altro che teneva sepolto.
Qualcosa che stava disperatamente tentando di nascondergli.
Quando riconobbe di cosa si trattasse, Bane socchiuse gli occhi. Stava
cercando di celare la presenza di qualcun altro, proteggendolo, chiunque
fosse, dalle percezioni annebbiate e febbrili del Signore Oscuro. Rivolse
l’attenzione alla capanna piccola e cadente. L’uomo non si mosse per
fermarlo; anzi, non reagì in alcun modo.
La porta non era schermata che da un lungo tendaggio mosso dal vento.
Bane si fece avanti e lo scostò, rivelando una stanzetta malridotta. Una
ragazzina si rannicchiò in silenzio contro la parete in fondo, gli occhi
sbarrati dal terrore.
Nel comprendere la verità, le labbra di Bane s’incurvarono in un torvo
sorriso di sollievo. Anche Caleb alla fin fine aveva un punto debole,
qualcosa di cui gli importasse. Tutta la sua forza di volontà fu vana per via
di quell’unica debolezza. E non si sarebbe fatto certo scrupoli a sfruttarla
per ottenere ciò di cui aveva bisogno.
Con un unico ordine mentale sollevò in aria la bambina terrorizzata,
portandola fuori e lasciandola sospesa a testa in giù sul pentolone ribollente
del guaritore.
Caleb balzò in piedi, mostrando per la prima volta una vera emozione.
Tese un braccio verso di lei, poi ritrasse la mano, gli occhi che scattavano
dalla figlia all’uomo che ne teneva letteralmente la vita in pugno. “Papà”,
gemette quella, “aiutami”.
L’uomo, sconfitto, chinò il capo. “E va bene”, disse. “Hai vinto. Avrai la
tua cura”.
Il rituale durò tutta la notte e fino al giorno successivo. Caleb impiegò
erbe e radici di ogni tipo, alcune bollite nelle acque del pentolone, altre
schiacciate e ridotte in poltiglia; altre, infine, sparse direttamente sulla
lingua rigonfia di Bane. Questi restò all’erta per tutto il processo, pronto a
usare la bambina se il guaritore avesse tentato di tradirlo.
Col passare delle ore, però, sentì il synox defluirgli lentamente dal corpo,
eliminato dai medicamenti. La sera del giorno successivo, ogni traccia del
veleno era scomparsa.
Bane tornò all’accampamento e fece i bagagli. Qualche ora più tardi fu
pronto a decollare per lasciarsi Ambria alle spalle.
Una volta completato il rituale, aveva preso brevemente in
considerazione l’idea di uccidere padre e figlia per aver assistito a un suo
momento di debolezza, ma si trattava dei pensieri di un uomo accecato dalla
propria arroganza: il suo ultimo incontro con Githany gli aveva mostrato i
pericoli di quell’atteggiamento.
Né Caleb né la figlia rappresentavano una minaccia per lui o i suoi
obiettivi, e il guaritore possedeva un talento che un giorno avrebbe potuto
servirgli di nuovo. Nonostante tutto il suo potere, il Lato Oscuro era scarso
nelle arti curative.
Dunque li aveva lasciati in vita. La loro morte non avrebbe avuto scopo
né vantaggio. Uccidere senza motivo era un piacere meschino riservato ai
sadici e agli stolti.
E, mentre immetteva nel computer di navigazione le coordinate di
Ruusan, Bane era ben deciso a epurare il Lato Oscuro da ogni stolto.
CAPITOLO 27
Lord Kaan era steso sulla brandina nella propria tenda, a occhi chiusi, e si
massaggiava lentamente le tempie. Stava risentendo dello sforzo di tenere
uniti i suoi seguaci sotto una causa comune, e la testa gli pulsava di
continuo per un dolore sordo e implacabile.
Nonostante i successi conseguiti nelle recenti battaglie contro i Jedi su
Ruusan, il clima nell’accampamento Sith era sempre teso. Si trovavano su
Ruusan da molto, troppo tempo, e continuavano a trapelare rapporti di
vittorie della Repubblica in sistemi lontani. Diventava sempre più difficile,
anche con la sua capacità di manipolare e influenzare le menti degli altri
Signori Oscuri, concentrare la Confraternita sulla battaglia contro l’Esercito
della Luce.
Sapeva che c’era un solo modo di concludere velocemente quella guerra:
la bomba psichica. Aveva trascorso molte notti a domandarsi se avrebbe
osato utilizzarla. Se avessero attirato i Jedi, scatenando poi la bomba
psichica, l’esplosione avrebbe annientato totalmente i nemici. Ma le volontà
congiunte della Confraternita sarebbero state abbastanza forti da
sopravvivere a un tale potere, oppure sarebbero rimaste travolte dal
contraccolpo?
Più e più volte l’aveva giudicata un’arma troppo pericolosa, talmente
terribile che persino lui, Signore Oscuro dei Sith, temeva di usarla. Eppure,
ogni volta la prendeva in considerazione per qualche momento di più, prima
di ritrarsi dall’abisso.
Un rumore all’esterno gli fece aprire gli occhi e lo spinse ad alzarsi di
scatto. Un attimo dopo fece capolino Githany, ormai considerata da molti il
suo braccio destro. “Sono pronti, Lord Kaan”.
Annuì e si alzò in piedi, prendendosi un attimo per calmarsi e ricomporsi.
Se avesse manifestato un segno qualunque di debolezza, gli altri avrebbero
potuto rivoltarsi. Non poteva permetterlo; non in quel momento, quando
erano così vicini alla vittoria finale. Era per questo che aveva convocato gli
altri Signori Oscuri: un’ultima riunione per rafforzare la loro
determinazione e assicurarsi la loro ininterrotta fedeltà.
Githany fece strada attraverso il campo e lui la seguì fino alla grande
tenda dove lo attendevano gli altri Signori dei Sith. Entrò risoluto e
convinto, emanando un’aura di sicurezza e autorità.
Com’era usanza ogni volta che faceva il suo ingresso, i presenti si
alzarono in piedi in segno di rispetto. Uno di loro, tuttavia, rimase seduto,
con le braccia incrociate sul petto muscoloso.
“Sei troppo pesante per alzarti, Lord Kopecz?”, domandò Githany
tagliente.
“Credevo che nella Confraternita fossimo tutti uguali”, ringhiò il Twi’lek
in risposta, rivolto più a Kaan che a lei.
Kaan sapeva di doversi muovere con attenzione. Non era la prima volta
che Kopecz dava voce al proprio dissenso, e molti altri lo imitavano.
Purtroppo era anche fra i più difficili da influenzare e controllare.
“Uguali. È vero, Lord Kopecz”, disse con un sorriso stanco. “Restate
seduti, tutti quanti. Non c’è bisogno di queste insensate formalità”.
Gli altri fecero come ordinato e si rimisero a sedere, benché fosse ancora
palpabile la tensione fra i due. Kaan diffuse un’ondata di calma rassicurante
in tutta la stanza mentre prendeva posto al tavolo tattico.
“Abbiamo quasi vinto la guerra contro i Jedi”, annunciò. “Sono sull’orlo
del collasso. Sono fuggiti nelle foreste, ma ormai sono a corto di posti dove
nascondersi”.
Kopecz sbuffò ironico. “È un ritornello che abbiamo sentito fin troppe
volte”.
Gli ci volle uno sforzo sovrumano per mantenere la calma, ma Lord Kaan
riuscì in qualche modo a rispondere con voce tranquilla e inespressiva.
“Chiunque abbia dei dubbi sulla nostra strategia su Ruusan è libero di
parlare”, propose. “Come già precisato all’inizio, nella Confraternita
dell’Oscurità siamo tutti uguali”.
“Non è solo Ruusan a preoccuparmi”, rispose Kopecz, abboccando
all’amo e alzandosi in piedi. “Abbiamo perso terreno in tutta la galassia.
Stavamo facendo vacillare la Repubblica, ma invece di finirli abbiamo
lasciato che si riorganizzassero!”
“Quasi tutte le nostre prime vittorie risalgono a prima che i Jedi si
unissero alla causa”, gli rammentò Kaan. “Abbiamo attaccato la Repubblica
proprio per far uscire i Jedi allo scoperto. Volevamo costringerli ad
affrontare una battaglia ben precisa: questa, qui su Ruusan.
“Adesso siamo sul punto di spazzarli via. E una volta scomparsi i Jedi,
potremo facilmente rivendicare i mondi tornati alla Repubblica... e molti
altri ancora”.
Kopecz restò in silenzio, ma gli altri Signori dei Sith mormorarono in
assenso. Kaan decise di insistere.
“Una volta spazzato via il nemico su Ruusan, i nostri eserciti
percorreranno la galassia pressoché incontrastati. Conquisteremo ogni
settore e avvolgeremo Coruscant e gli altri Mondi del Nucleo in un cappio,
stringendo sempre più, fino a strangolare la Repubblica!”
Esplose un boato di approvazione. Quando Kopecz parlò, sembrava aver
perso anche lui un po’ di ostilità.
“Ma qui non siamo ancora sicuri di vincere. Forse abbiamo circondato e
bloccato l’esercito di Hoth, ma ai confini del sistema c’è una flotta Jedi con
centinaia di rinforzi”.
“Hanno dei rinforzi ai confini del sistema”, ammise Kaan con un cenno
del capo, senza prendersi la briga di negare qualcosa che tutti sapevano per
certa. “Proprio come per tutta la scorsa settimana. Ed è esattamente lì che
rimarranno, ben lontani dalla superficie dove c’è bisogno di loro.
“Il grosso della nostra flotta è in orbita intorno a Ruusan stesso e ai Jedi
mancano sia i numeri che la potenza di fuoco per sfondare il nostro blocco.
Se non riusciranno a unirsi ai compagni sulla superficie, Hoth e i suoi
seguaci non avranno speranze. E una volta che li avremo finiti, potremo
sbarazzarci senza problemi dei resti malconci dell’Ordine”.
Kopecz, rabbonito, si mise a sedere con un ultimo commento. “Allora
facciamola finita con Hoth e andiamocene da questo sasso maledetto”.
“È proprio lo scopo di questa riunione”, disse Kaan con un sorriso,
sapendo di aver scongiurato ancora una volta il rischio di uno scisma nella
Confraternita. “Avremo anche perso qualche battaglia, ma stiamo per
vincere la guerra!”
Githany gli porse un’olomappa con gli ultimi dati dei droidi di
ricognizione. La ringraziò con un cenno e la stese sul tavolo, poi si chinò
per guardarla da vicino.
“Le nostre spie ci indicano che l’accampamento principale di Hoth è
qui”, disse indicando una sezione della mappa fitta di alberi. “Se
riuscissimo a stanarli, potremmo...”
Un’ombra oscurò la mappa, fermandolo a metà della frase. “E adesso
cosa c’è?”, volle sapere sbattendo il pugno sul tavolo e alzando di scatto la
testa per guardare la fonte di quell’ennesima interruzione.
La porta incorniciava un uomo grande come una montagna, che bloccava
la luce proveniente dall’esterno. Era altissimo e totalmente calvo, la fronte
alta e i lineamenti duri e spietati. Indossava l’armatura e le vesti nere dei
Sith, e al fianco gli pendeva una spada laser uncinata. Lord Kaan non aveva
mai incontrato quell’uomo di persona, ma ne aveva sentito parlare
abbastanza da sapere esattamente chi fosse.
“Darth Bane!”, esclamò. Scoccò una rapida occhiata a Githany,
domandandosi se potesse averlo tradito. A giudicare dalla sua espressione,
era evidente che fosse sorpresa quanto lui di vederlo vivo e vegeto.
“Credevamo che... che fossi morto”, attaccò, incerto. “Come hai fatto
a...”
“Sono stanco”, lo interruppe Bane. “Vi dispiace se mi siedo?”
“Naturalmente”, acconsentì subito Kaan. “Qualunque cosa per un
Fratello”.
L’energumeno si accomodò su una sedia vicina, con un ghigno beffardo.
“Grazie, Fratello”.
Nel suo tono c’era qualcosa che mise in guardia Kaan. Cosa ci faceva lì?
Sapeva che Githany aveva tentato di avvelenarlo, e che era stato lui a
mandarla?
“Continua pure col piano”, lo esortò Bane con un cenno distratto della
mano.
Kaan provò un enorme fastidio. Era come se gli stesse dando il permesso
di proseguire, come se non fosse lui al comando. Abbassò di nuovo lo
sguardo sulla mappa, serrando i denti, e riprese da dove si era interrotto.
“Come dicevo, i Jedi si nascondono nelle foreste. Se ci dividiamo,
possiamo stanarli. Impiegando i nostri speeder, possiamo aggirare il fianco
delle linee a sud...”
“Bah!”, fece Bane, colpendo forte il tavolo con un pugno. “Impiegare
speeder, aggirare il fianco dei nemici”, ripeté, alzandosi in piedi e puntando
un indice accusatore verso Kaan. “Ragioni come un soldato qualsiasi,
invece che come un Signore dei Sith!”
In tutta la stanza scese un silenzio di tomba; persino Kaan era rimasto
senza parole. Si sentiva tutti gli occhi addosso, lo osservavano per vedere
cosa sarebbe successo. Bane si avvicinò, portando il viso a pochi centimetri
dal suo.
“Dove hai trovato il coraggio di avvelenarmi?”, domandò in un sussurro
basso e minaccioso.
“Io... non sono stato io!”, balbettò Kaan mentre l’altro gli voltava le
spalle.
“Non scusarti per aver usato l’inganno e l’astuzia”, lo ammonì il colosso
avvicinandosi al tavolo. “Ti ammiro per questo. Siamo Sith, servi del Lato
Oscuro”, proseguì, chinandosi a studiare le posizioni delle truppe e gli
schemi tattici che gli si stendevano davanti. “Adesso guarda questa mappa e
ragiona da Sith. Non combattere nella foresta: distruggila!”
Fu Githany a rompere il silenzio che seguì, ponendo la domanda che era
sulla bocca di tutti. “E come proponi di farlo?”
Bane diede loro le spalle con un sorriso malevolo. “Posso mostrarvelo”.
Era scesa la notte, ma Bane vedeva gli altri correre avanti e indietro alla
luce dei fuochi da campo per effettuare i preparativi che aveva indicato.
Quando percepì Githany avvicinarsi alle sue spalle, si voltò. Portava una
ciotola di zuppa fumante, con un’espressione cauta e incerta.
“Ci vorrà un’altra ora prima di essere pronti a iniziare questo tuo rituale”,
gli disse a mo’ di saluto. Quando non le rispose, aggiunse: “Hai l’aria
stanca. Ti ho portato qualcosa per ritemprarti”.
Prese la ciotola, ma non la portò alle labbra. Aveva scoperto il rituale di
cui parlava studiando l’holocron di Revan: un modo per unire le menti e gli
spiriti dei Sith in un unico tramite, in modo da poter scatenare il loro potere
nel mondo fisico. Il processo era simile in molti sensi a quello usato per
produrre una bomba psichica con la Forza, pur essendo meno potente, e
assai meno pericoloso, del rituale da lui inviato a Kaan come offerta di
pace.
Si rese conto che Githany lo studiava ancora con attenzione, quindi
indicò la ciotola inclinando il capo. “Vuoi avvelenarmi di nuovo?”,
domandò, appena una nota beffarda nella voce.
“L’hai sempre saputo, non è così?”, disse lei.
Bane scosse la testa. “Non finché non ho sentito il veleno sulle tue
labbra”.
Githany inarcò un sopracciglio e gli sorrise, timidamente. “Ma ne hai
voluto una seconda dose. E una terza”.
“Il veleno non dovrebbe recare danno a un Signore Oscuro”, le spiegò.
Poi ammise: “Eppure mi ha quasi ucciso”. Fece una pausa, ma lei non disse
nulla. “Nella Confraternita ci sono troppi Signori Oscuri”, proseguì.
“Troppi in cui il Lato Oscuro è debole. Kaan non lo capisce”.
“Kaan teme che tu sia tornato per prenderti la Confraternita!” Dopo un
attimo, aggiunse: “E credo abbia ragione”.
Voglio annientarla, pensò, non prendermela. Tuttavia, non si prese la
briga di correggerla: non era ancora il momento. Aveva bisogno di altre
prove che fosse la persona giusta per diventare sua apprendista. Sempre due
devono essere: né più, né meno. Uno incarna il potere, l’altro lo brama. Era
una scelta che non intendeva fare in modo affrettato.
“Posso mostrarti il vero potere del Lato Oscuro, Githany; un potere al di
là di tutto ciò che gli altri possono anche solo immaginare”, disse.
“Insegnamelo”, sussurrò lei. “Voglio imparare. Potrai mostrarmi tutto...
dopo che avrai sostituito Kaan a capo della Confraternita!”
Non poté fare a meno di chiedersi se tentasse ancora di manipolarlo.
Voleva mettere lui e Kaan uno contro l’altro, oppure far sì che deponesse
Kaan per dimostrare la sua forza?
No, dovette ammettere. Continua a non capire che l’intero Ordine dei
Sith va smembrato e ricostruito dalle fondamenta. Forse non lo capirà mai.
“Dimmi una cosa”, replicò. “Avvelenarmi è stata una tua idea oppure di
Kaan?”
Con una risatina, scivolò sotto il braccio che reggeva la ciotola e gli si
avvicinò al petto, guardandolo dritto negli occhi. “È stata una mia idea”,
confessò, “ma mi sono accertata che Kaan la credesse sua”.
Potrebbe ancora esserci qualche speranza, pensò Bane.
“So di aver sbagliato, in precedenza”, continuò lei allontanandosi.
“Quando sei andato via da Korriban, sarei dovuta venire con te. Non mi
rendevo conto di cosa cercassi, non comprendevo i segreti a cui miravi. Ma
adesso lo capisco. Sei il vero capo dei Sith, Bane. Seguirò te, d’ora in poi. E
lo stesso farà il resto della Confraternita, una volta che avremo usato il tuo
rituale per distruggere i Jedi”.
“Sì”, concordò lui, ben attento a mantenere un tono inespressivo e
bevendo un sorso di zuppa calda. “Dopo che avremo distrutto i Jedi”.
Bane sapeva di non poter davvero distruggere i Jedi, non lì su Ruusan;
non in quel modo. I Jedi avrebbero trovato il modo di sopravvivere.
Nessuna guerra normale avrebbe potuto eliminare del tutto i servi della
luce. Soltanto gli strumenti del Lato Oscuro potevano: l’astuzia, la
segretezza, l’inganno, il tradimento.
Gli stessi strumenti che avrebbe usato per spazzar via l’intera
Confraternita dell’Oscurità... a cominciare dal rituale di quella notte.
CAPITOLO 28
Sul viso del generale Hoth non poté fare a meno di passare l’ombra di un
sorriso, nonostante i caduti e i feriti sparsi sul campo di battaglia. La
trappola dei Sith era scattata, ma in qualche modo l’Esercito della Luce era
sopravvissuto.
Riconobbe le insegne di Farfalla sulle navi da battaglia che giravano
intorno alla pianura, bloccando i Sith in fuga dietro i loro ripari finché le
truppe a terra non poterono circondarli e obbligarli alla resa. La maggior
parte ubbidì rapidamente. Tutti sapevano che i Jedi preferivano prendere
prigionieri anziché uccidere i nemici, proprio come sapevano che li
avrebbero trattati con riguardo. Naturalmente, lo stesso non poteva dirsi dei
Sith.
Dalle navi da battaglia stava uscendo un piccolo convoglio di speeder,
che scesero a unirsi ai superstiti a terra. Sul velivolo in testa, il generale
riconobbe Farfalla proprio mentre atterrava.
Il giovane Jedi scese dallo speeder, in silenzio ma tendendo la mano in
segno di cauto saluto. Indossava abiti sgargianti ed eccentrici come sempre,
ma per qualche motivo la cosa non infastidì Hoth come aveva fatto un
tempo. Gli si avvicinò e lo strinse in un abbraccio deciso, facendolo ridere
per la sorpresa. Hoth lo sciolse dalla stretta solo quando Farfalla cominciò a
tossire.
“Salute, Lord Hoth”, disse Farfalla una volta liberato, con un profondo
inchino e un gesto elegante. Rialzandosi, scrutò il campo di battaglia e la
sua espressione si fece più grave. “Mi dispiace solo non essere potuti
arrivare prima”.
“È già un miracolo che siate qui, Farfalla”, rispose Hoth. “Ho persino
paura a chiedere come siate riusciti a superare il blocco, in caso fosse solo il
sogno delirante di un uomo in punto di morte”.
“Non preoccuparti, generale, sono io, in carne e ossa. Riguardo alla tua
domanda, è molto semplice: i Sith hanno rotto la formazione per attaccare
la nostra flotta. Mentre i loro incrociatori e le Dreadnaught si concentravano
sulle nostre navi da battaglia, siamo riusciti a inviare varie cannoniere in
vostro aiuto”.
“E il resto della flotta?”, domandò Hoth preoccupato. “I Sith avevano
quasi il doppio delle vostre navi”.
“Hanno combattuto finché non abbiamo sfondato il blocco, poi si sono
disimpegnati e ritirati con perdite sorprendentemente ridotte”.
“Bene”. Il generale annuì, poi aggrottò la fronte. “Ma ancora non capisco
perché mai abbiano attaccato la flotta. Non ha senso!”
“Posso solo supporre che abbiano ricevuto ordini da qualcuno sulla
superficie”.
“Kaan era sul punto di spazzarci via”, insistette Hoth. “L’ultima cosa che
avrebbe fatto sarebbe stata dare quell’ordine”.
Entrambi i Jedi rimasero in silenzio per un attimo, riflettendo
sull’accaduto. Infine, Farfalla domandò: “È possibile che abbiamo un
ignoto alleato nella Confraternita dell’Oscurità?”
Hoth scosse la testa. “Ne dubito. È più probabile che i Sith abbiano
finalmente cominciato a combattersi tra loro. Era inevitabile”.
Il Maestro Farfalla fece un cenno di assenso. “Sono le vie del Lato
Oscuro, dopotutto”.
Il canto era semplice: dopo averlo ripetuto una volta sola, Kaan fu
raggiunto dal resto della Confraternita, che ripeté quella cantilena
inconsueta a ritmo fisso e costante. Le loro voci rimbombavano sulle pareti
di roccia, e le antiche parole si mescolarono tra loro riecheggiando in tutta
la caverna.
Githany avvertiva il potere che iniziava a raccogliersi al centro
dell’anello, come un vortice impetuoso che girava sempre più veloce. Sentì
la presa sui suoi pensieri coscienti che venivano trascinati giù e cognizione,
mente e persino identità fagocitate dal turbine. L’umidità e il gelo della
caverna svanirono, così come il riverbero delle voci. Non sentiva più
l’odore delle muffe e dei funghi che crescevano negli angoli, né percepiva
la pressione delle mani che stringevano le sue. Alla fine, lo sfavillio dei
cristalli riflettenti e la luce delle torce a incandescenza si dissolsero.
Noi siamo una cosa sola. La voce era di Kaan, eppure era anche sua. Noi
siamo il Lato Oscuro. Il Lato Oscuro è noi.
Pur non riuscendo più a udire la loro cantilena poteva percepirla, persino
con la mente che le scendeva sempre più in profondità verso il centro.
Rendendosi conto che presto avrebbe perso sia la capacità che il desiderio
di liberarsi dal rituale di Kaan, cercò di lottare contro ciò che le stava
succedendo.
Era come nuotare contro la risacca inarrestabile nel cuore di un oceano.
Sentì che le parole del loro canto ripetuto assumevano una forma materiale,
che si avvolgevano intorno alla loro volontà collettiva intrappolandola,
plasmandola, aggregandola in un corpo che si concretizzava a gran velocità.
Avvertite il potere del Lato Oscuro. Consegnatevi a esso. Cedete
all’unificazione. Lasciate che diventiamo una cosa sola.
Dalle profondità del proprio animo, Githany fece appello alle sue ultime
forze. In qualche modo furono sufficienti, e così fu in grado di divincolarsi
e di liberare la mente da quell’empia comunione.
Indietreggiò barcollando, con un rantolo, sentendosi inondare dalla
consapevolezza come acqua che rompesse una diga. Vista, udito, olfatto e
tatto tornarono tutti assieme travolgendole la mente sconvolta. La luce delle
torce si era fatta fioca e attenuata, come se anch’essa venisse assorbita dal
rituale. Il canto proseguì: era diventato così forte da farle male alle
orecchie. La temperatura era calata così bruscamente da condensarle il
respiro, e sulle stalattiti e sui bordi delle pozzanghere avevano iniziato a
formarsi minuscoli cristalli di ghiaccio.
All’improvviso, si accorse che né Kaan né nessun altro le stringeva le
mani. Erano tutti disposti ad anello, con le braccia alzate verso il centro,
inconsapevoli del mondo circostante. Dapprima parve che afferrassero il
nulla, ma quando gli occhi le si abituarono al buio scorse una strana
distorsione nell’aria.
Githany non poté sopportare di guardarla per più di un attimo. C’era
qualcosa di tremendo e innaturale in quella fluttuazione del tessuto della
realtà, che le fece volgere le spalle inorridita.
Bane aveva ragione, si rese conto. Kaan ci ha portato alla rovina!
Qualcosa diede un lieve strattone alla sua mente; un tirare delicato che si
faceva sempre più deciso, minacciando di risucchiarla insieme agli altri. Si
ritrasse, malferma, dalla blasfema cerimonia e dai suoi officianti ormai
condannati, socchiudendo gli occhi per vedere dove andasse sul pavimento
accidentato.
Bane ha cercato di avvertirmi, ma non l’ho ascoltato. I suoi pensieri
erano un caotico ammasso di rimorso, disperazione e paura. Mentre una
parte della mente la redarguiva per lo sbaglio, un’altra la costringeva ad
allontanarsi dall’abominio che la Confraternita stava generando.
La fuga la condusse fino a una parete della grotta, che seguì in cerca di
una via di uscita. La coercizione esercitata dal rituale diventava sempre più
forte. Sentiva che la stava chiamando, invitandola a unirsi agli altri e a
condividerne le sorti.
Non aveva un piano, né alcuna idea di dove stesse andando. Doveva
semplicemente fuggire, sparire, uscire di lì; andarsene prima che venisse
assorbita di nuovo. Nella pietra si apriva uno spazio ristretto: l’entrata di un
piccolo tunnel, ampio appena a sufficienza da farla passare. Vi infilò il
corpo, la pietra frastagliata che le fendeva gli abiti e la pelle.
Il dolore era insignificante. Il mondo fisico stava scivolando via di
nuovo. Githany, disperata, riuscì a lanciarsi in avanti, schiantandosi a terra,
poi strisciò febbrilmente su mani e ginocchia lungo il tunnel.
Lontano; doveva allontanarsi. Andarsene dal rituale, da Kaan;
allontanarsi dalla bomba psichica prima che fosse troppo tardi.
La scena che comparve agli occhi del generale Hoth quando il suo esercito
giunse sul campo di battaglia fu inattesa e altrettanto gradita. Si era
preparato a vedere il teatro di una strage macabra e sanguinosa, un feroce
combattimento in cui nessuno era disposto a chiedere o dare quartiere. Si
era immaginato che i corpi dei caduti sarebbero stati sparsi ovunque,
calpestati dai piedi di chi ancora lottava disperatamente per non morire. Era
arrivato aspettandosi una guerra.
Assistette invece a qualcosa di talmente incredibile che la sua prima
reazione fu di sospetto. Era un trucco, una trappola? Le sue paure si
placarono quando riconobbe i volti familiari e sorridenti dei Jedi che lo
circondavano.
Nell’osservare i postumi dell’ultima battaglia di Ruusan, anche sul suo
volto spuntò un sorriso. C’era solo una manciata di morti, e a giudicare dai
loro abiti era evidente che pochi erano appartenuti all’Esercito della Luce.
Gran parte dei nemici era stata fatta prigioniera: sedevano a terra, tranquilli,
in gruppi numerosi, circondati da Jedi armati. Eppure, sebbene i Jedi
sorvegliassero attentamente i nemici catturati, ridevano e scherzavano fra
loro.
Con la Forza avvertì ondate e ondate di gioia e di sollievo che si
promanavano dalle truppe di Farfalla. Anche i soldati al suo comando le
avvertirono ben presto. Al vedere quell’evidente vittoria, ruppero i ranghi e
corsero a unirsi alle celebrazioni dei compagni ridendo ed esultando. Hoth
resisté all’impulso di gridare l’ordine di ricomporsi e li lasciò andare.
Quella guerra interminabile era finita!
Ma, camminando tra la calca, mentre accettava i saluti militari e le
congratulazioni del suo seguito, si rese conto che c’era qualcosa di strano. Il
campo di battaglia era pieno di Sith tranquilli e disarmati... ma tra loro non
vide un solo Signore Oscuro.
Non servì ad alleviare quel disagio la vista del Maestro Farfalla che gli
correva incontro a tutta velocità dall’altra estremità del campo.
“Generale”, disse Farfalla, frenando e riprendendo fiato, ansante. Gli
rivolse un rapido saluto militare. Il fatto che non eseguisse il suo classico
inchino stravagante contribuì ad alimentare l’ansia crescente di Hoth.
“Devo averci messo più di quanto credessi a radunare le mie truppe”,
scherzò il generale, sperando che quell’inquietudine non fosse altro che una
sciocca paranoia. “Sembra che abbiate già vinto la guerra”.
Farfalla scosse la testa. “La guerra non è conclusa, non ancora. Kaan e la
Confraternita, i veri Sith, si sono rifugiati nelle grotte. Stanno per scatenare
un qualche genere di arma Sith; una cosa chiamata ‘bomba psichica’”.
Una bomba psichica? Hoth aveva sentito menzionare quell’arma molto
tempo prima, mentre studiava sotto il suo Maestro al Tempio dei Jedi su
Coruscant. Stando ad alcune leggende, gli antichi Sith avevano la capacità
di plasmare il Lato Oscuro in una sfera di potere concentrato per poi
rilasciarne l’energia in un’unica e catastrofica esplosione. Chiunque fosse
sensibile alla Forza, tanto i Sith quanto i Jedi, ne sarebbe stato consumato e
il suo spirito intrappolato nel vuoto creatosi all’epicentro della
deflagrazione.
“Kaan è impazzito?”, disse, pur essendo chiaramente una domanda
retorica.
“Dobbiamo evacuare, generale”, insistette Farfalla. “Far allontanare tutti
il prima possibile”.
“No”, rispose Hoth. “Non funzionerà. Se ci ritiriamo, Kaan e la
Confraternita fuggiranno. Non ci metteranno molto a procurarsi altro
appoggio e a ricominciare da capo la guerra”.
“E la bomba psichica?”, si ostinò Valenthyne.
“Se Kaan possiede un’arma simile”, spiegò tetro il generale, “la userà, se
non qui altrove. Magari nei Mondi del Nucleo, o su Coruscant stesso. Non
posso permetterlo.
“Kaan vuol vedermi morto. Devo andare nelle grotte ad affrontarlo. Devo
costringerlo a far esplodere la bomba qui, su Ruusan. È l’unico modo per
far sì che tutto finisca davvero”.
Farfalla s’inginocchiò. “Allora ti accompagnerò, generale. E lo stesso
faranno tutti quelli che mi seguono”.
Allungando le mani forti e irruvidite, il generale Hoth prese Farfalla per
le spalle e lo fece alzare. “No, amico mio”, disse sospirando, “non potrai
accompagnarmi in questo viaggio”.
Quando l’altro fece per protestare, lo fermò sollevando una mano e
continuò. “Quando Kaan scatenerà l’arma, chiunque si trovi nella grotta
morirà. I Sith saranno spazzati via, ma non posso permettere che accada a
tutto il nostro Ordine. La galassia avrà bisogno di Jedi per la ricostruzione,
una volta che la guerra sarà finita. Tu e gli altri Maestri dovete vivere, per
poterli guidare e difendere la Repubblica come abbiamo sempre fatto dalla
sua fondazione”.
Non c’era molto da dire per ribattere alla saggezza delle sue parole, e
dopo aver ponderato per un attimo il Maestro Farfalla chinò la testa,
accettandole in silenzio. Quando la risollevò, aveva le lacrime agli occhi.
“Di certo non andrai da solo”, obiettò.
“Vorrei farlo”, rispose Hoth. “Ma in tal caso, i Signori Oscuri mi
abbatteranno semplicemente con le loro spade e non avrò risolto nulla.
Kaan deve rendersi conto che le sue uniche scelte sono arrendersi oppure...”
Lasciò a intendere il seguito.
“Avrai bisogno di Jedi sufficienti a convincere la Confraternita che uno
scontro fisico è inutile. Almeno cento. Altrimenti, non farà scoppiare la
bomba”.
Hoth annuì. “Non ordinerò a nessuno di venire con me. Vai in giro a
cercare volontari. E accertati di rendere ben chiaro che nessuno ne uscirà
vivo”.
Praticamente ogni singolo membro dell’Esercito della Luce si offrì per la
missione, nonostante il pericolo. Il generale si rese conto che non avrebbe
dovuto sorprendersi. Dopotutto si trattava di Jedi, disposti a sacrificare
tutto, persino la vita, per un bene superiore. Alla fine, fece ciò che sin
dall’inizio sapeva di dover fare: scelse di persona coloro che lo avrebbero
accompagnato verso morte certa.
Ne selezionò esattamente novantanove. La decisione fu di una difficoltà
straziante. Se ne avesse presi meno, forse i Sith sarebbero riusciti a fuggire
dalla grotta combattendo, solo per far esplodere la bomba psichica altrove.
Più ne sceglieva, però, più vite di Jedi rischiava di gettar via inutilmente.
Decidere chi portare con sé fu ancora più difficile. I Jedi che avevano
servito più a lungo al suo fianco, che si erano uniti all’Esercito sin dal
principio della campagna, erano quelli che conosceva meglio. Sapeva
quanto avessero già dato in quella guerra, ed erano quelli che meno avrebbe
desiderato condurre alla morte. Eppure, erano anche quelli col maggior
diritto di stargli accanto nel momento della fine, e fu così che effettuò le sue
scelte. I più anziani sarebbero andati con lui, e gli altri si sarebbero ritirati
con Lord Farfalla.
I cento Jedi, novantanove più lo stesso Hoth, erano fermi all’entrata dei
tunnel, ansiosi. Sopra di loro la notte scurì il cielo, che si riempì di
minacciose nubi temporalesche. Il generale, però, non diede l’ordine di
avanzare. Voleva dare a Farfalla e agli altri tempo sufficiente per
allontanarsi. Se fosse stato possibile avrebbe ordinato di lasciare Ruusan a
tutti coloro che non dovevano entrare nella grotta, ma non c’era tempo.
Dovevano semplicemente allontanarsi il più possibile e sperare di essere
fuori dalla portata dell’arma di Kaan.
Quando caddero le prime gocce di pioggia si rese conto di non poter
aspettare oltre e diede l’ordine di procedere. Marciarono nel tunnel
ordinatamente, entrando nelle caverne nelle profondità del pianeta.
La prima cosa di cui Hoth si accorse durante la discesa fu la velocità con
cui la galleria si raffreddò, come se ne venisse risucchiato ogni calore.
Subito dopo avvertì la tensione nell’aria: pulsava materialmente di un
potere enorme e inimmaginabile, tenuto a stento a freno. Il potere del Lato
Oscuro. S’impedì di pensare a ciò che sarebbe successo quando quel potere
fosse stato liberato.
Avanzarono lentamente, attenti a trappole o agguati. Non ne trovarono.
Anzi, non videro l’ombra di un Sith finché non raggiunsero la grande
caverna centrale nel cuore del sistema di gallerie.
Il generale Hoth era in testa, con una torcia a luminescenza in una mano e
la spada laser accesa nell’altra. Quando mise piede nella caverna, la sua
torcia sfarfallò all’improvviso e si attenuò notevolmente. Persino
l’illuminazione prodotta dalla spada laser parve affievolirsi, riducendosi a
un debolissimo filo incandescente.
Quando la vista si abituò alla penombra, riuscì a distinguere le sagome
dei Signori dei Sith che si ergevano in cerchio in fondo alla caverna. Erano
rivolti all’interno, con le mani sollevate verso il centro. Stavano in piedi
senza muoversi, con la bocca spalancata, i volti fiacchi, gli occhi
inespressivi. Con molta cautela si avvicinò ai corpi immobili,
domandandosi se fossero vivi, morti o intrappolati in un terribile stato
intermedio.
Avvicinandosi, riconobbe una figura in piedi da sola al centro del
cerchio: Lord Kaan. All’inizio non lo aveva visto: quella zona era più buia
del resto della grotta. Pareva che sopra di lui aleggiasse una nube nera, da
cui si dipartivano tentacoli di tenebre liquide che lo avvolgevano in un
abbraccio inquietante.
Bastò uno sguardo al capo della Confraternita a far svanire nel generale
ogni speranza di riportarlo alla ragione. Il viso del Signore dei Sith era
pallido ed esausto; aveva i lineamenti tesi come se la pelle non bastasse a
ricoprire il cranio. Un sottile strato di ghiaccio gli orlava capelli e
sopracciglia. Aveva un’espressione di crudele arroganza, e l’occhio sinistro
si muoveva in scatti e spasmi incontrollabili. Fissava dritto davanti a sé con
un’intensità mortale, senza battere le ciglia né spostare lo sguardo mentre
Hoth e i suoi Jedi riempivano pian piano la caverna.
Parlò soltanto dopo che tutti i Jedi furono entrati. “Benvenuto, Lord
Hoth”. Aveva la voce sforzata e affaticata.
“Cerchi di spaventarmi, Kaan?”, domandò Hoth con un passo avanti.
“Non temo la morte”, continuò. “Non m’importa di morire. Non
m’importerebbe di uccidere tutti i Jedi, se ciò significasse la fine dei Sith”.
Kaan girò velocemente la testa da una parte all’altra, facendo sfrecciare
lo sguardo avanti e indietro per la caverna come se contasse i Jedi che
aveva davanti. Sogghignò con le labbra contratte e sollevò le mani.
Il generale fece la sua mossa, balzando in avanti per uccidere Kaan prima
che potesse scatenare la sua arma finale. Non fece in tempo. Il Signore
Oscuro batté le mani... e la bomba psichica esplose.
Ogni anima viva nella grotta cessò di esistere in un attimo. Abiti, carne e
ossa si vaporizzarono. Stalattiti, stalagmiti e persino le enormi colonne di
pietra si ridussero in polvere. L’eco assordante dello scoppio risalì in ogni
galleria, crepaccio e fessura si aprisse nella caverna mentre l’ondata di
energia distruttiva iniziava a diffondersi.
Bane la trovò lì: una bambina umana che piangeva sui resti di uno dei
bouncer indigeni di Ruusan. Nei paraggi giacevano i cadaveri di due
giovani Jedi, le teste piegate ad angolazioni disgustosamente innaturali.
Impiegò un solo istante a ricostruire l’accaduto.
Mentre si avvicinava, la bambina alzò lo sguardo su di lui, gli occhi gonfi
e arrossati. Suppose che avesse nove anni, dieci al massimo. Avvertiva il
potere della Forza che ardeva in lei, alimentato dal dolore, dalla rabbia e
dall’odio. Se anche non lo avesse percepito, i corpi spezzati dei Jedi che le
giacevano davanti erano mute prove delle sue abilità.
Non parlò, ma restò in piedi in silenzio. I singhiozzi della bambina
cessarono; tirò su col naso e se lo strofinò col dorso della mano. Poi si alzò
in piedi e tentò di muovere un passo verso di lui.
“Chi sei tu?”, le domandò, con voce profonda e minacciosa.
Lei non si ritrasse né fuggì, anche se la sua risposta fu esitante. “Mi
chiamo Rain... cioè, Zannah. I miei cugini mi chiamavano Rain, ma sono
morti adesso. Il mio vero nome è Zannah”.
Bane annuì, capendo perfettamente. Rain: un soprannome, appellativo
d’infanzia e d’innocenza. Un’innocenza che era ormai perduta.
“Sai chi sono io?”, le domandò.
Lei annuì e fece un altro passo avanti. “Sei un Sith”.
“Non hai paura di me?”
“No”, rispose lei scuotendo la testa, anche se Bane sapeva che non era
del tutto sincera. Avvertiva la sua paura, ma era sepolta sotto emozioni ben
più forti: dolore, rabbia odio, desiderio di vendetta.
“Ho ucciso molte persone”, la avvertì Bane. “Uomini, donne... bambini,
anche”.
Lei rabbrividì, ma non cedette. “Anch’io sono un’assassina”.
Bane posò lo sguardo sui cadaveri dei Jedi, poi tornò a rivolgersi alla
ragazzina che gli stava davanti con aria di sfida. Era lei quella giusta? Era
stata la Forza a condurlo su quella strada nel tornare alla nave? Lo aveva
portato lì, in quel preciso momento, semplicemente per fargli trovare la sua
apprendista?
Le pose un’ultima, fondamentale domanda. “Conosci le vie della Forza?
Capisci la vera natura del Lato Oscuro?”
“No”, ammise Rain, senza mai distogliere lo sguardo. “Ma puoi
insegnarmi tu. Sono giovane. Imparerò”.