Documenti di Didattica
Documenti di Professioni
Documenti di Cultura
La storiografia greca
Francesco Piazzi, HORTUS APERTUS - Autori, testi e percorsi - Copyright © 2010 Cappelli Editore
110 La storiografia greca
La storiografia greca
3. I logografi furono i primi scrittori di racconti in prosa (logoi) di argomento vario (ge-
nealogie, eventi, usi e costumi di popoli e città). I logoi costituirono il primo esempio di ge-
nere storiografico ed il loro fine era di tenere desta la memoria collettiva di una data comu-
nità. Letti pubblicamente nelle città della Ionia, avevano una spiccata tendenza al favoloso e
al romanzesco.
4. B. Gentili, in B. Gentili, L. Stupazzini, M. Simonetti, Storia della letteratura latina, La-
terza, Bari-Roma 1987, p. 115.
112 La storiografia greca
dello scrittore, che simpateticamente s’immedesima nei fatti narrati, come Livio che confes-
sa: «Anche per me è un ristoro essere giunto alla fine della guerra punica, come se ne
avessi condiviso i travagli e i pericoli» (31, 1, 1) e, di fronte a un evento portentoso del pas-
sato dal quale il razionalismo dei suoi tempi consiglierebbe di prendere le distanze, si la-
scia idealmente trasportare in quel tempo remoto: «Quanto a me, intento a scriver la storia
dei tempi antichi, l’animo mi si fa antico e un certo scrupolo religioso mi trattiene dal giudi-
care indegni … quei prodigi» (43, 13, 2). Per rivivere il passato in sintonia con lo spirito dei
maiores occorre condividere anche le loro superstizioni e ingenuità.
Erodoto
La vita Nato intorno al 485 a.C. ad Alicarnasso sulla costa dell’Asia Minore, Erodoto fu coinvolto in
giovinezza nelle insurrezioni della sua città contro il tiranno Ligdami vassallo di Serse. In
seguito Alicarnasso divenne città alleata di Atene, dove lo storico soggiornò a più riprese.
I viaggi Erodoto viaggiò molto, in oriente fino alla Mesopotamia, in Egitto e nella Scizia, accumulan-
do grande esperienza diretta del mondo conosciuto. L’evento più importante fu l’incontro
con l’ambiente ateniese raccolto intorno a Pericle, di cui condivise l’orientamento politico.
Negli ultimi anni si stabilì a Turii, colonia ateniese in Magna Grecia, prendendone la cittadi-
nanza, e vi rimase fino alla morte, avvenuta probabilmente nei primi anni successivi all’ini-
zio della guerra del Peloponneso (430 circa).
L’opera Il titolo, Storia o Storie, e la ripartizione in nove libri, ciascuno dei quali porta il nome di una
delle Muse, non furono voluti dall’autore, che divulgò la sua opera in pubbliche letture in
Atene e con essa volle assicurare un eterno ricordo alla più nobile delle imprese compiute
da questa città, la vittoria sui Persiani.
I libro I (Clio) Le origini mitiche dello scontro tra Greci e barbari. Vicende della Lidia. Incontro tra Creso e
Solone (che offre lo spunto a una riflessione di carattere morale e religioso). Origini e cre-
scita della potenza persiana.
II libro (Euterpe) Le imprese del re persiano Cambise. Lunga digressione etnografica (lògos) sull’Egitto di
cui sono descritti la natura geografica, la storia, gli usi e costumi degli abitanti.
III libro (Talia) Conquista dell’Egitto ad opera di Cambise. Excursus sulle vicende di Policrate tiranno di
Samo, esempio dell’eccessiva potenza umana punita dagli dei. La successione di Dario al-
la morte di Cambise.
IV Libro (Melpomene) Campagna militare di Dario contro gli Sciti, di cui sono descritte le abitudini e le tradizioni.
Guerra contro Cirene e storia dei suoi sovrani.
Libro V (Tersicore) Gli antefatti del conflitto greco-persiano: ribellione delle città ioniche che chiedono aiuto al-
la madrepatria. Digressioni dedicate alla storia di Sparta e di Atene. Mentre Sparta rifiuta
l’aiuto, Atene accoglie la richiesta.
VI Libro (Erato) Repressione dei Persiani e conquista di Mileto. Storia di Milziade e della sua famiglia. Pri-
ma spedizione persiana contro la Grecia. Battaglia di Maratona. Assedio di Paro e morte di
Milziade accusato di tradimento.
Libro VII (Polimnia) Seconda spedizione persiana guidata da Serse succeduto al padre Dario. Attraversamento
dell’Ellesponto. L’invio di un’ambasceria in Sicilia è l’occasione per parlare delle vicende
storiche dei Greci di occidente. La sconfitta dello spartano Leonida con i suoi trecento alle
Termopili.
Libro VIII (Urania) Occupazione di Atene da parte dei Persiani. Temistocle fa evacuare la città. Battaglia na-
vale di Salamina e sconfitta dei Persiani. Ritorno in Asia di Serse.
Libro IX (Calliope) Vittoria di Pausania a Platea. Vittoria navale dei Greci sui Persiani a Micale. I Persiani
sconfitti ritornano a Sardi. Presa di Sesto sull’Ellesponto da parte dei Greci.
Le Storie
La «pubblicazione orale» Sono la prima grande opera in prosa della grecità. Il modello è quello dei logografi ionici,
che a sua volta risale alla poesia catalogica esiodea e omerica (vedi p. 93). Le Storie sono
Erodoto 113
il punto d’arrivo di una vicenda di «pubblicazione orale». Infatti la stesura in forma scritta e
unitaria era stata preceduta da recitazioni dello storico itinerante che, come i rapsodi ome-
rici, leggeva parti dell’opera davanti a un uditorio. L’antefatto orale-aurale è percepibile nel-
le forme espressive «agonistiche» tipiche del messaggio non scritto, in particolare nel tono
polemico e risentito, come per prevenire le reazioni di un pubblico partecipe e interattivo.
Busto
Ciò è evidente quando l’autore rassicura l’uditorio sull’attendibilità della propria ricostruzio- di
ne o ne previene le critiche esprimendo anticipatamente le proprie perplessità: «Mi riferi- Erodoto.
scono anche questa versione, ma io non la ritengo degna di fede» (III 3). Agli schemi della Napoli,
Museo
cultura orale sembra conformarsi anche la struttura dell’opera nella quale sono accostate Nazionale.
unità narrative minori dotate ciascuna di una propria autonomia narrativa.
Rispetto alla logografia ionica le novità sono rilevanti, a partire dall’impiego del termine hi- Il metodo
storìe, che indica l’indagine preliminare alla redazione dell’opera storica e comprende tre
fasi: la visione diretta (òpsis) già implicita nella parola historìe (da wid-, gr. eidon, lat. vi-
deo), l’ascolto dei testimoni diretti dei fatti (akoé), la riflessione critica (gnome) in base alla
quale si sceglie tra più versioni quella più attendibile, cioè più verosimile, più probabile.
Nasce così la storiografia come genere che consiste nella ricerca dei dati di fatto, in primo
luogo ciò che l’autore ha visto o raccolto da testimoni oculari. La tradizione orale è la base
della documentazione erodotea, che ricorre tuttavia anche a fonti scritte come i testi di
iscrizioni o di oracoli. Sui dati raccolti lo storico opera una valutazione critica. Dall’impossi-
bilità di controllare ogni notizia nasce la consapevolezza della relatività della ricostruzione
storica:
Fino ad ora le fonti di quanto ho detto sono state la mia visione diretta (òpsis), la II 99
mia valutazione critica (gnome), la mia ricerca (historìe), ma d’ora innanzi riporto
i racconti degli Egiziani come li ho sentiti.
Queste notizie sui Persiani le posso affermare con sicurezza, perché ne ho cono- I 140
scenza diretta; invece queste altre […] non mi sento di affermarle con certezza.
Il metodo prevede, come prima e imprescindibile operazione, il reperimento del materiale Le digressioni
documentario, nell’intento di ricostruire la realtà degli eventi. Ciò comporta che il piano
complessivo dell’opera non preesiste alla raccolta di informazioni. Le notizie raccolte sono
organizzate attorno a un filo conduttore, ma non tutto il materiale trovato serve a illustrare,
ad esempio, la causa dello scontro tra Greci e barbari. Molto di questo materiale servirà per
vari excursus d’interesse etnografico che completano un quadro complessivo di fatti gene-
ricamente «umani». Così il discorso erodoteo si dipana attraverso digressioni anche di
grandi dimensioni come la descrizione dell’Egitto nel libro II, anche se l’autore ha sempre
presente il filo principale della narrazione.
Erodoto non disdegna di introdurre il favoloso, il paradossale. Rispettoso del divino e del Gli eventi mitici o favolosi
soprannaturale, riporta anche fatti poco verosimili, come quello della sacerdotessa cui
cresce la barba nell’imminenza di una disgrazia, ma non li discute, non li sceglie, li consi-
dera come appartenenti ad un ambito dal quale il raziocinio dello storico è bene che resti
escluso:
Se intendessi analizzare i motivi per cui sono considerati sacri [gli animali presso II 65, 2
gli Egizi], finirei per occuparmi di cose concernenti la divinità, che io voglio asso-
lutamente evitare di trattare.
Sulle cause della guerra persiana, Erodoto espone le motivazioni mitiche, ma diversamen-
te da Ecateo e dagli altri logografi, non sceglie tra l’una e l’altra, dichiara anzi di non voler-
ne parlare. Considera solo i fatti certi e documentabili: il tributo imposto da Creso ai Greci
d’Asia, i loro tentativi di liberarsi dal giogo, ecc. In tal modo egli crea la nozione di uno spa-
tium historicum, contrapposto al tempo del mito.
Come si evince dal proemio, l’obiettivo dell’indagine storica è di impedire che il tempo can- Lo scopo della storia
celli la memoria di imprese e monumenti insigni, che meritano d’essere tramandati ai po-
steri:
114 La storiografia greca
trad. di A. Izzo d’Accinni Questa è l’esposizione delle ricerche di Erodoto di Turii, perché le imprese degli
uomini col tempo non cadano in oblìo, né le gesta grandi e meravigliose delle qua-
li han dato prova così i Greci come i barbari rimangan senza gloria, e inoltre per
mostrare per qual motivo vennero a guerra fra loro.
È implicita l’idea che «le gesta grandi e meravigliose» abbiano una validità paradigmatica
che trascende l’ambito municipale di quella data polis o popolo rivestendo caratteri di uni-
versalità. La verità che interessa lo storico non è contingente o particolare, ma è una visio-
ne unitaria dei processi storici. Erodoto intuisce che le Guerre Persiane non sono un con-
flitto qualsiasi, ma il risultato di un antagonismo secolare tra Europa e Asia, l’anello termi-
nale di una catena di nessi causali di lungo periodo. E in questo svolgere il filo delle con-
nessioni degli eventi sta il compito dello storico e nell’aver capito ciò è tutta la grandezza di
Erodoto. La qualifica di pater historiae di cui Cicerone lo gratificò (De leg. I 5) è il giusto ri-
conoscimento del fatto che «egli ha creato l’idea stessa di storia» (H. Strasburger).
La fondazione La decisione di lasciare una stesura scritta è condizione fondante dell’attività storiografica:
della storiografia «Erodoto sembra voler intenzionalmente lasciare una versione scritta dei suoi racconti, che
potrà essere utilizzata dai posteri, da un pubblico astratto, non legato a una specifica occa-
sione. Emerge così un altro piano cronologico, quello dei fruitori dell’opera immaginati nel
futuro […] ed è proprio questo fissarsi della ricerca in una forma scritta definitiva, utilizzabi-
le dai posteri, a fondare, anche per la produzione storiografica, la possibilità di un “ciclo”»
(L. Canfora).
Lingua e stile L’«omericità» è riscontrabile sia nel lessico e nelle formule, sia nell’andamento non lineare
della narrazione segmentata in episodi relativamente autonomi, nel modo tipico della tradi-
zione rapsodica e dei testi destinati alla recitazione. La lingua – il dialetto ionico misto a
elementi attici – risente dell’influsso dell’epos, della tragedia, della lirica. Tale varietà di mo-
delli e forme spiega la definizione di lexis poikìle che gli antichi davano allo stile delle Sto-
rie. Soprattutto all’esigenza di narrare sembrano corrispondere i numerosi inserti e novelle
(si può dire che la novella nasce con Erodoto), la grande abbondanza di notizie e particola-
ri non funzionali alla comprensione dell’evento storico in sé. La congerie di informazioni ta-
lora rasenta la pedanteria (descrizioni di oggetti con specificazione puntuale di peso, misu-
ra, materia) e il pettegolezzo.
Tucidide
Della vita di Tucidide sappiamo poco. Nato intorno al 460 a.C. nel demo attico di Alimunte La vita
(nella prefazione dell’opera egli si presenta come «Tucidide Ateniese»), di nobile famiglia
probabilmente di origine tracia, partecipò alla guerra del Peloponneso, che trattò nelle sue
Storie. Nel 430 a.C. contrasse la peste che aveva colpito l’Attica e di cui diede nella sua
opera una precisa descrizione, ma riuscì a guarire. Nel 424, comandante di una flotta che
avrebbe dovuto controllare le coste della Tracia, non riuscì ad impedire che Anfipoli cades-
se nelle mani degli Spartani, per questo fu processato e mandato in esilio. Nell’ultima parte
della vita probabilmente intraprese una serie di viaggi, come aveva fatto Erodoto, al fine di
raccogliere materiali per la sua attività storiografica. Non conosciamo né il luogo né l’anno
della morte, probabilmente successiva alla sconfitta di Atene avvenuta nel 404 a.C.
116 La storiografia greca
L’opera Tucidide narra in otto libri la guerra del Peloponneso. Il titolo Storie, come pure la ripartizio-
ne in otto libri, non sono originari ma, come per Erodoto, furono voluti dai grammatici ales-
sandrini e tramandati nei codici. Gli avvenimenti narrati vanno dal 431 a.C., anno di inizio
delle ostilità, al 411. Ma l’autore intendeva giungere fino alla fine della guerra e gli ultimi av-
venimenti, forse narrati dallo stesso Tucidide, saranno poi pubblicati nelle Elleniche di Se-
nofonte.
Libro I Storia della Grecia dalle origini alle guerre persiane, la cosiddetta «Archeologia». Premes-
sa metodologica relativa agli scopi e ai metodi. Presentazione della causa occasionale del
conflitto (ostilità tra Corinto e Corcira e intervento di Atene a favore di quest’ultima) con-
trapposta alla vera causa (rivalità fra Atene e Sparta per l’egemonia sulla Grecia). Excur-
sus sui cinquant’anni intercorsi tra le guerre persiane e il conflitto tra Atene e Sparta («pen-
tacontaetia»). Ad Atene Pericle presenta il piano di guerra, che si basa principalmente sul-
le forze di mare.
Libro II Vengono narrati i primi tre anni di guerra (431-429). Discorso funebre di Pericle per i cadu-
ti ateniesi nel primo anno del conflitto. Descrizione della peste che colpì Atene e di cui fu
vittima lo stesso Pericle.
Libro III Anni 428-425. Gli Ateniesi incitati da Cleone, nuovo capo dei popolari, reprimono la ribellio-
ne di Mitilene, gli Spartani conquistano Platea e la radono al suolo. Le atroci violenze cui si
abbandonano a Corcira i democratici nei confronti degli oligarchici forniscono lo spunto per
un’amara riflessione sull’imbarbarimento morale causato dalla guerra.
Libro IV Anni 425-422. Dopo l’invasione dell’Attica da parte degli Spartani, Cleone porta la guerra
nel Peloponneso. Falliscono le trattative di pace. In Tracia si verifica l’episodio di Anfipoli,
nel quale rimane coinvolto Tucidide stesso.
Libro V Pace di Nicia seguita alla battaglia di Anfipoli (421 a.C.). Ma in realtà si prepara un nuovo
periodo di guerra. È narrato l’episodio degli abitanti dell’isola di Melo, che si erano rifiutati di
abbandonare lo stato di neutralità e verranno spietatamente trucidati dagli Atenesi. Segue
un’altra riflessione dell’autore sulla logica orrenda della guerra.
Libro VI e VII Spedizione in Sicilia promossa, a partire dal 416 a.C., da Alcibiade. È allestita una flotta im-
ponente, ma la partenza avviene sotto cattivi auspici: sono trovate sfregiate le Erme, busti
in pietra del dio Hermes posti agli angoli delle strade. Alcibiade, accusato dell’empio atto, si
rifugia presso gli Spartani. Nicia e Lamaco, capi ateniesi della spedizione, non riescono a
prevalere sui Siracusani alleati degli Spartani e presso Siracusa sono vinti. I superstiti, cat-
turati, sono gettati nelle latomie, terribili prigioni siracusane scavate nella pietra.
Libro VIII Anni 413-411. Condanna a morte di Alcibiade per l’episodio delle erme. Colpo di stato oli-
garchico ad Atene («i Quattrocento») e defezione degli alleati. Vittoria navale ateniese a
Cinossena. A questo punto il libro si interrompe. L’ultima parte del conflitto è raccontata da
Senofonte all’inizio delle Elleniche.
Nella conoscenza delle leggi universali del comportamento umano, sempre uguali al va-
riare delle epoche e dei popoli, consiste il «possesso per l’eternità» tucidideo. Si tratta di
un modello in grado d’interpretare gli eventi e predirne gli esiti probabili. Di qui il valore
educativo che una tale storiografia assume soprattutto per l’uomo politico, il quale nel co-
struire i propri progetti non potrà prescindere dai principi generali enucleati dalla riflessio-
ne tucididea.
Una storiografia che studia gli eventi in base a leggi universali del comportamento umano – L’umanizzazione della storia
e non in base a un principio divino – è anche necessariamente laica e antropocentrica. Non
c’è più spazio per interpretazioni di tipo metafisico, per letture che esulino dall’ambito del-
l’uomo e della sua natura. Ogni principio divino è escluso e in ciò la visione tucididea segna
la distanza anche rispetto alla concezione erodotea. Tutti i residui della mitologia, della teo-
logia e del misticismo che affioravano in Erodoto sono banditi.
La centralità dell’uomo non implica tuttavia la sua onnipotenza. Il successo dell’azione La Tyche
umana trova precisi limiti nell’imponderabile, nella Tyche, che non è più come nella trage-
dia un principio metafisico, ma è, al pari dell’errore, un elemento costitutivo della natura e
del destino umano: «Per loro natura gli uomini … sono portati ad errare, e non c’è legge
che possa impedirglielo» (III 45, 3). Di qui anche i limiti della capacità previsionale delle
leggi enucleate dallo storico, che consentono di ipotizzare un esito probabile degli eventi,
ma non saprebbero con certezza predire il futuro.
118 La storiografia greca
Il metodo
L’uso delle fonti La necessità di vagliare le testimonianze, spesso contraddittorie o difficilmente confrontabi-
li per l’inevitabile soggettivismo, è quasi la stessa che avvertiva Erodoto:
I 22, 2-3; Gli eventi accaduti nel corso della guerra non ho considerato opportuno registrarli
trad di F. Ferrari informandomi dal primo che capitava, né come pareva a me, ma ho narrato quelli
a cui io stesso fui presente e quelli sui quali ho potuto informarmi da altri con la
massima esattezza possibile. Difficile era la ricerca, poiché coloro che avevano
partecipato ai fatti non dicevano tutti le stesse cose sugli stessi avvenimenti, ma li
riportavano in relazione alla loro personale simpatia per una delle due parti o alla
loro memoria.
L’evento storico viene indagato secondo una disposizione razionale e scientifica che ricer-
ca i rapporti di causa ed effetto che operano nella storia. Si avverte nell’opera di Tucidide lo
sforzo di raggiungere un’obiettività in cui solo eccezionalmente traspaiono atteggiamenti di
simpatia, e una tensione nella selezione dei dati utili per raggiungere la verità che possia-
mo ricondurre all’ambiente ateniese, ricco di interessi scientifici (la medicina) e filosofici (la
Sofistica).
I discorsi I discorsi in forma diretta sono numerosissimi e parrebbero contrastare con la professione
di esattezza e fedeltà alla verità dei fatti. Tucidide sostiene che, se anche non furono pro-
nunciati nella forma in cui li riporta, i suoi discorsi sono verosimili, nel senso che è molto
probabile che, in quel contesto che egli ha minuziosamente ricostruito, venissero proferite
quelle parole.
I 22, 1; trad. di F. Ferrari I discorsi che furono pronunciati prima o durante la guerra è difficile ricordarli
con esattezza, sia per me (quelli che io stesso ho sentito), sia per quelli che me li
hanno riferiti da altre fonti: ho scritto qui quello che a mio parere di volta in volta
è più verosimile che sia stato detto, tenendomi il più vicino possibile al senso ge-
nerale dei discorsi effettivamente pronunciati.
Il probabile e il verisimile Il discorso sul vero e sul verosimile ci conduce alla retorica, in particolare a quella giudizia-
le: «Lo storico, analogamente al retore, deve ricostruire lo svolgimento dei fatti sulla base
di testimonianze ed elementi di prova, che convalidino l’attendibilità della tesi esposta» (B.
Gentili).
Lo stile
Una storiografia che La prosa di Tucidide – densa, irregolare e scabra – riflette la sua concezione drammatica
presuppone la scrittura della storia. A volte appare intricata, «difficile», concentrata al limite dell’oscurità. Sebbene
sussistano alcuni degli elementi, che già abbiamo rilevato in Erodoto, della cultura orale (in
particolare i discorsi in forma diretta), tuttavia l’autore ha selezionato un pubblico non di udi-
tori, ma di lettori. Questi potranno indugiare sulla pagina, ritornare sui punti precedenti, valu-
tare i rapporti logici tra i vari blocchi del testo. Il metodo analitico e razionale di Tucidide non
sarebbe stato proponibile in una cultura orale come quella a cui prevalentemente si rivolge-
va Erodoto (per il rapporto tra scrittura e analisi razionalistica dell’esperienza, vedi p. 111).
Brevità e antitesi Il resoconto freddo e distaccato privilegia i contenuti ideologici, apparentemente a discapito
degli ornamenti formali. Tuttavia c’è un ampio uso di figure. In particolare abbondano la va-
riatio e le dissimmetrie (anacoluti, costruzioni sintattiche che si accavallano, «inconcinnità»)
e soprattutto l’antitesi, assunta a principio dello stile tucidideo. Si tratta di procedimenti che,
insieme con la brevità e la tinta arcaica della lingua, avranno imitatori tra i latini, in partico-
lare Sallustio. I livelli stilistici sono vari in rapporto agli argomenti trattati e in ossequio al
principio retorico della convenienza (prépon).
La peste, II 52-54.
L’epidemia colpì Atene nel 431 a.C., fu contratta dallo stesso Tucidide, che riuscì a guarirne, e da Pericle che ne morì. La descrizio-
ne precisa e drammatica che ci ha lasciato lo storico ateniese costituirà il modello di ogni futura rappresentazione della peste nella
letteratura occidentale, da Lucrezio a Boccaccio, da Manzoni a Camus. In particolare Lucrezio avrà ben presente il brano che qui pro-
poniamo nell’affresco apocalittico del finale del De rerum natura. «Il discorso tucidideo diventa prodigioso nell’individuazione delle
conseguenze in campo psicologico: sia di psicologia individuale, per cui possiamo ricordare … la passività e lo scoraggiamento che
più della debilitazione fisica incidono sulla mortalità; sia di psicologia sociale, per cui si impongono dei comportamenti che esautorano
di fatto il contratto sociale e le norme etico-religiose» (G. Paduano).
L’effetto più tremendo in tutta questa calamità era lo scoramento, quando ci si accorgeva di
essere colpiti (abbandonavano subito ogni speranza, si ritenevano senz’altro spacciati, e non
opponevano nessuna resistenza al male); e il fatto che, curandosi a vicenda, morivano di con-
tagio, come avviene tra le bestie. Era appunto al contagio che si doveva la più intensa morta-
lità. Quelli che per paura evitavano i contatti morivano in solitudine (e molte famiglie furono
spazzate via perché nessuno volle far loro da infermiere). Quelli che non li evitavano vi ri-
mettevano la vita: specie coloro che tenevano a mostrare una certa nobiltà di sentimenti.
Spronati dal senso dell’onore essi arrischiavano la propria esistenza visitando gli amici; men-
tre invece perfino i familiari alla fine oppressi ed esauriti dall’orrore del male, arrivavano a
trascurare anche le lamentazioni sui propri morti. A ogni modo maggiore pietà di questi fa-
miliari mostravano verso chi moriva e chi lottava col male coloro che ne erano scampati, per
l’esperienza fatta, e perché ormai si sentivano al sicuro. Giacché il male non tornava una se-
conda volta: o almeno non tornava con esito letale. Gli altri li consideravano felici: ed essi
stessi nell’esaltazione del momento si abbandonavano senza riflettere alla vaga speranza che
anche per l’avvenire nessun’altra malattia se li sarebbe mai più portati via.
Maggior tormento recava ora, in aggiunta all’epidemia, l’ammassarsi della popolazione dal
contado alla città; e più ne soffrivano i profughi. Non avevano case, vivevano in capanne sof-
focanti per la stagione, e la strage dilagava in cieco disordine. Giacevano alla rinfusa morti o
moribondi. Uomini semivivi si trascinavano per le strade e ovunque fossero fontane, divorati
dalla sete. I sacri recinti, ove i cittadini si erano accampati, erano pieni di cadaveri, poiché la
gente vi moriva dentro: la furia del male aveva travolto ogni argine, e gli uomini, in balia di
un destino ignoto, trascuravano con eguale indifferenza le leggi umane e le divine. Ogni con-
suetudine prima in onore per le sepolture era sconvolta; ognuno seppelliva come poteva. Mol-
ti ricorsero a funerali senza decoro, data la scarsezza del materiale necessario a causa dei mol-
ti morti che avevano già avuto. Mettevano i propri defunti sopra roghi altrui, che accendevano
prima che sopravvenissero i proprietari; altri gettavano il morto, che avevano portato, su di un
rogo, mentre un altro cadavere vi ardeva; e se n’andavano. Busto di Pericle. Vatica-
(trad. di P. Sgroi) no, Sala delle Muse.
Eforo e Teopompo
Eforo nacque a Cuma, in Asia eolica, nel 400 a.C. circa. Visse ad Atene dove con Teo- Eforo
pompo fu allievo di Isocrate, il retore che teorizzava le virtù della parola scritta. Oltre a trat-
tati retorici, scrisse una storia della Grecia in 29 libri che narrano gli avvenimenti dall’inva-
120 La storiografia greca
sione dorica del Peloponneso al 340 a.C. e di cui restano solo frammenti. Si basò sull’ope-
ra degli autori precedenti (Erodoto, Tucidide) e fu ammirato da Polibio, che considerò la
compilazione di Eforo il primo tentativo di storia universale.
Teopompo Nato a Chio nel 380 a.C. circa, allievo di Isocrate, visse alla corte di Filippo II e di Alessan-
dro Magno. Oltre a scritti di carattere oratorio e a un’Epitome di Erodoto, compose due
opere storiche: le Elleniche in 12 libri, che continuavano la narrazione di Tucidide fino alla
battaglia navale di Cnido (394 a.C.), e le Filippiche in 58 libri, che trattavano la storia mace-
done dall’ascesa al trono di Filippo II (359) alla morte del sovrano (336 a.C.). Quest’opera
– la prima concentrata sui fatti di un singolo personaggio – rappresenta il superamento del-
l’ottica della polis. In essa infatti è centrale la Macedonia, mentre alla Grecia e alla Persia è
assegnato uno spazio marginale. La prosa di Teopompo si caratterizza per il vigore
espressivo, la compiaciuta presenza di moduli retorici isocratei assunti nell’intento di dilet-
tare. Dell’intera produzione restano solo pochi frammenti.
Senofonte
La vita Senofonte nacque ad Atene intorno al 430 a.C. Di famiglia benestante appartenente al ce-
to equestre, fu discepolo di Socrate, insieme con Platone, Alcibiade, Crizia. Forse per in-
sofferenza verso il partito democratico e per evitare le conseguenze della propria adesione
alla dittatura filospartana dei Trenta Tiranni, nel 401 accolse l’invito a seguire i mercenari
greci arruolati da Ciro il Giovane in lotta col fratello Artaserse II, re di Persia. Senza essere
«né generale, né ufficiale, né soldato» (Anabasi III 1, 4), Senofonte probabilmente aveva ri-
cevuto l’incarico di redigere un resoconto della spedizione, che si concluse con la sconfitta
di Ciro a Cunassa. I mercenari sopravvissuti, sbandati e dispersi, furono ricondotti da Se-
nofonte stesso, eletto a loro guida, in Grecia e consegnati al generale spartano Tibrone.
L’esilio a Sparta Nel frattempo, a causa del filolaconismo, Senofonte era stato condannato all’esilio da Ate-
ne e aveva subito la confisca dei beni. Scelse Sparta come nuova patria, legandosi
d’amicizia ad Agesilao. Durante questo periodo, che durò vent’anni, soggiornò a Scillunte
presso Olimpia in un podere concessogli dagli Spartani, dedicandosi alla caccia, all’agricol-
tura e all’attività di scrittore. Quando, durante l’egemonia tebana, ci fu un riavvicinamento
tra Atene e Sparta, egli forse rientrò nella città natale. L’anno della morte non ci è noto, ma
è da collocare intorno al 350.
Le opere Senofonte ebbe molteplici interessi nati dalle varie esperienze di vita, e scrisse numerose
opere tradizionalmente raggruppate in tre gruppi:
• opere di carattere storico, politico, biografico: Anabasi, Elleniche, Costituzione degli
Spartani, Agesilao, Ierone, Ciropedia;
• opere socratiche, cioè incentrate sulla figura di Socrate: Apologia di Socrate, Memorabi-
li di Socrate (quattro libri di dialoghi e scritti socratici), Simposio (sulla natura dell’amo-
re), Economico (dialogo tra Socrate e il giovane Critobulo, nel quale si tratta dell’ammi-
nistrazione della casa, del metodo per la lavorazione dei campi, dei rapporti con i subor-
dinati, dei rapporti con la moglie);
• opere di carattere tecnico-didascalico: Trattato sull’equitazione, Ipparchico, Cinegetico
(che riguarda la caccia vista come contributo alla formazione del carattere), Poroi.
Ci occuperemo solo delle opere appartenenti al primo gruppo.
L’Anabasi
Un genere incerto L’Anabasi in sette libri narra la spedizione di Ciro il Giovane contro Artaserse II. L’opera
racconta nel primo libro la «marcia verso l’interno» (l’anàbasis, appunto) dei Greci; negli al-
tri sei, descrive la battaglia di Cunassa sfavorevole a Ciro, la sua morte, l’imboscata del sa-
trapo Tissaferne e l’uccisione dei capi greci, la ritirata e il difficile rientro in patria (la katàba-
sis) dei Diecimila guidati da Senofonte stesso, attraverso terre sterminate e ignote. La colo-
Senofonte 121
ritura autocelebrativa – male dissimulata dall’uso della terza persona (l’autore si cela sotto
lo pseudonimo di Temistogene di Siracusa) – e la struttura diaristica rendono incerta
l’attribuzione dell’opera al genere storiografico. L’assenza di un’indagine approfondita delle
cause degli eventi narrati, l’interesse quasi solo cronachistico o rivolto ai dettagli tecnici, la
prevalenza dell’informazione sulla riflessione segnano un netto regresso rispetto alla visio-
ne tucididea.
Non riconducibile a un preciso modello letterario, l’Anabasi è il primo diario di guerra della Un diario di guerra
letteratura occidentale, come scrive Italo Calvino: «È il memoriale tecnico di un ufficiale, un
giornale di viaggio con tutte le distanze e i punti di riferimento geografici e notizie sulle ri-
sorse vegetali e animali. E una rassegna di problemi diplomatici, logistici, strategici e delle
rispettive soluzioni … Come scrittore d’azione Senofonte è esemplare … Quello che conta
è la successione continua di particolari visivi e di azione».
L’Anabasi è anche un’autobiografia con intenti apologetici, nella quale l’autore difende le Un’autobiografia
proprie decisioni, riportando i discorsi da lui pronunciati e sottolineando il ruolo decisivo gio-
cato dai suoi interventi in seno all’esercito, che lo segue e lo ammira con totale fiducia. Il
resoconto fatto in terza persona, come da un estraneo, non basta a impedire che l’autore –
con la sua forza d’animo, astuzia, eloquenza – risulti il vero centro della narrazione. Per il
tono soggettivo e apologetico l’Anabasi può essere confrontata ai Commentari della Guerra
Gallica di Cesare.
L’Anabasi è infine il racconto meticoloso di un viaggio in un contesto etnografico e geogra- Un racconto di viaggi
fico remoto, favoloso, esotico. È una storia di avventure, di cui alcuni elementi anticipano le
rocambolesche peripezie del romanzo ellenistico e le gesta di Alessandro Magno.
Avvicinano l’autore al mondo ellenistico il brillante eclettismo e l’attitudine giornalistica a Un precursore
scrivere di tutto, la scarsa simpatia per la democrazia e la propensione per le monarchie dell’ellenismo
orientali, la concezione cosmopolitica che lo porta a mutare patria senza troppi traumi, la
passione per i viaggi e lo spirito d’avventura. A confermare quest’ultimo tratto della perso-
nalità di Senofonte sta il fatto che, quando finalmente giunge con i Diecimila in vista del
Mar Nero, proprio di fronte alla Grecia, dopo un moto di commozione che percorre tutta la
truppa («il mare, il mare!», IV 7, 24), egli non mostra alcuna intenzione di tornare in patria e
prolunga la spedizione mettendo i suoi mercenari al servizio di rissosi principi traci. Seno-
fonte, al pari del contemporaneo Alcibiade – entrambi non esitano a porsi al servizio dei
nemici della patria, perfino dei «barbari» –, fa presentire la crisi della polis e il cosmopoliti-
smo che sarà dei tempi nuovi. Anche nell’incerta definizione del genere letterario – biogra-
fia, trattato tecnico, romanzo memorialistico – egli anticipa l’ellenismo.
encomiastico nel quale il tiranno siracusano e il poeta Simonide discutono in utramque par-
tem, cioè sui pro e sui contro della tirannide analizzando le differenze tra la condizione del
privato cittadino e del tiranno, concludendo che è preferibile la prima. Tuttavia anche il ti-
ranno può essere felice, se è giusto e saggio, sollecito del bene dei cittadini.
Costituzione degli Spartani L’opera esalta la costituzione spartana e la ferrea disciplina istituita da Licurgo come la per-
fetta antitesi della democrazia e individua nella corruzione dei costumi che cominciava ad
affliggere anche Sparta la causa della decadenza della città.
Ciropedia La Ciropedia, o Educazione di Ciro, in otto libri, è la biografia di Ciro il Vecchio, fondatore
dell’impero persiano. Anche in questo caso non si tratta di una vera opera storica, bensì di
una biografia romanzata o «pseudo-biografia pedagogica» (A. Momigliano), che anticipa
temi del romanzo ellenistico, ma anche del moderno «romanzo di formazione» europeo. In
particolare la storia d’amore di Pantea ed Abradata (libro V, VI), due figure eroiche nell’a-
more e nella lealtà fino all’estremo sacrificio, è la prima novella della letteratura occidenta-
le. Nella Ciropedia si parla dell’educazione, della formazione, delle conquiste del re, la cui
figura idealizzata rappresenta il prototipo del monarca illuminato, dell’optimus princeps mo-
dello di ogni virtù e grandezza morale. Ciro, che insegnava ai suoi soldati che lasciare do-
po un saccheggio qualcosa ai vinti era un segno di umanità (philantropia) è un esempio di
humanitas anche per il mondo romano. Che tale esemplarità s’incarni in un sovrano «bar-
baro» è un altro segno dei tempi, prossimi alla visione cosmopolitica dell’ellenismo: «Il pas-
sato eroico non è più quello nazionale, ma quello straniero, barbarico. Il mondo si è ormai
aperto; il mondo monolitico e chiuso dei propri (come era nell’epopea) è sostituito dal gran-
de e aperto mondo e dei propri e degli altri»1.
1. M. Bachtin, Estetica e romanzo, Einaudi, Torino 1975, p. 470.
Lo stile
Senofonte fu giudicato fin dall’antichità scrittore gradevole, limpido ed elegante. Non vero
storico ma piuttosto poligrafo, fornito di straordinaria capacità di assimilazione piuttosto che
di originalità di pensiero, egli «guarda di fuori» (Cantarella), narra episodi e avvenimenti
con ordine e chiarezza. Calvino scrive che da Senofonte si cita male, perché «quello che
conta è la successione continua di particolari visivi e d’azione». Sebbene sia stato additato
come modello di perfezione e purezza attica e sia divenuto il modello per i puristi atticiz-
zanti, in realtà i contatti anche prolungati con diversi ambiti linguistici e la frequentazione di
letterature non attiche conferiscono alla sua lingua e al suo stile caratteri di varietà che pre-
ludono alla koinè linguistica d’età ellenistica.
Polibio
Polibio nacque a Megalopoli in Arcadia alla fine del III secolo a.C. Il padre, stratego della La vita
Lega Achea, assicurò al figlio una formazione culturale e tecnica (soprattutto militare) di lar-
go respiro. Ben presto anche Polibio ebbe incarichi importanti nella Lega, partecipò a spe-
dizioni in Messenia e in Egitto.
Dopo la vittoria romana sulla Macedonia a Pidna (168 a.C.), Polibio fu deportato a Roma Il «circolo» degli Scipioni
con altri ostaggi accusati dal partito filoromano di ostilità verso i nuovi padroni. Ebbe fortu-
na e fu destinato alla casa del console L. Emilio Paolo, animatore del famoso «circolo» fi-
lellenico degli Scipioni. Nella casa del vincitore di Pidna, ebbe l’incarico di occuparsi dell’e-
ducazione dei figli, Scipione Emiliano e Quinto Fabio Massimo. Con questi strinse profondi
legami d’amicizia, accompagnando Scipione in varie spedizioni militari; in particolare parte-
cipò alla terza guerra punica, assistette alla distruzione di Cartagine (146 a.C.) e alla presa
di Numanzia (134-132 a.C.).
124 La storiografia greca
L’ammirazione per Roma Roma divenne per Polibio la nuova patria e l’irresistibile ascesa di questa città fu l’oggetto
della sua attività di storico. Traspare ovunque nelle Storie l’ammirazione per Roma, come
in questo passo in cui la potenza romana è posta a confronto con i grandi ma effimeri im-
peri precedenti:
I 2; trad. di C. Schick Quanto l’argomento della nostra trattazione sia grande e meraviglioso, apparirà
soprattutto evidente se con cura paragoneremo i più illustri imperi precedenti, le
cui vicende gli storici hanno più diffusamente trattato, alla dominazione romana.
Tra i più degni di essere messi a confronto con Roma, i Persiani in determinate
circostanze riuscirono a conquistarla, ma la conservarono intatta per soli dodici
anni. I Macedoni signoreggiarono sull’Europa dalle coste dell’Adriatico al fiume
Istro, ma aggiunsero poi a questo il dominio dell’Asia, dopo avere abbattuta la po-
tenza persiana. Benché possa sembrare che questi popoli abbiano conquistato vasti
territori e grande potere, essi lasciarono tuttavia ad altri il predominio su gran par-
te della terra abitata: neppure una volta aspirarono, infatti, alla conquista della Si-
cilia, della Sardegna, dell’Africa settentrionale, né conobbero le più bellicose po-
polazioni dell’Europa occidentale. I Romani invece assoggettarono quasi tutta la
terra abitata e instaurarono una supremazia irresistibile per i contemporanei, insu-
perabile per i posteri.
Gli ultimi anni Polibio ritornò in Grecia, dopo la dissoluzione della lega Achea, come mediatore tra vincito-
ri e vinti e partecipò alla spedizione di Scipione contro la città iberica di Numanzia. La mor-
te lo colse, a ottantadue anni, in seguito a una caduta da cavallo nel 124 a.C.
Le opere Restano i libri I-V delle Storie che, in 40 libri, trattavano gli avvenimenti della storia romana
dall’inizio della prima guerra punica (264 a.C.) al 144 a.C. Dei libri mancanti rimangono am-
pi estratti, provenienti da antiche antologie dell’opera o citati da altri autori.
Libri I e II Comprendono una sintesi degli avvenimenti degli anni 264-220 a.C. e si collegano alla Sto-
ria di Timeo di Tauromenio, che aveva trattato questioni inerenti la sua isola, la Sicilia.
Libri III, IV, V Trattano gli avvenimenti di Grecia e le vicende della guerra punica fino alla battaglia di
Canne (216 a.C.).
Nel Libro VI la narrazione s’interrompeva per lasciare il posto alla teoria delle costituzioni,
con particolare riguardo per quella romana, di cui è celebrata la superiorità. Dal libro VII in
poi erano narrati, secondo uno schema annalistico, gli avvenimenti in oriente e in occiden-
te fino all’anno 144. Il XII conteneva la polemica contro gli storici precedenti, soprattutto Ti-
meo. L’opera terminava con un riassunto conclusivo degli avvenimenti trattati e un quadro
generale. La divisione cronologica era in base alle Olimpiadi.
Delle opere minori ricordiamo la Vita di Filopemene, la Guerra di Numanzia, un trattato Sul-
la tattica, Sulla abitabilità della zona equatoriale, tutte perdute.
Le Storie
La storiografia pragmatica La storia deve essere «pragmatica» nel senso che deve poggiare su dati di fatto (pràgma-
ta), sulla realtà oggettiva. Una storiografia pragmatica non deve basarsi su minuzie erudite
di tipo antiquario (fondazioni, genealogie, ecc.) o curiosità peregrine, ma su avvenimenti
politici e militari dei quali si sia accertata la consistenza reale. Infatti scopo precipuo della
storia è la conoscenza della verità. La storia non ha per oggetto il diletto ma l’utile, e questo
s’identifica, come anche per Tucidide, nell’ammaestramento che ci viene dal confronto con
l’esperienza compiuta da altri uomini:
I 1; trad. di C. Schick Non soltanto alcuni storici incidentalmente, ma tutti senza distinzione, con tale
elogio [della storiografia] hanno dato inizio e posto termine alle loro opere, dichia-
rando lo studio della storia la migliore palestra e preparazione all’attività politica e
il ricordo delle peripezie altrui il solo e più efficace incitamento a sopportare con
fortezza i rivolgimenti della sorte: è evidente quindi che a nessuno, e meno che
agli altri a noi, sembrerebbe opportuno ripetersi intorno a un argomento già tratta-
to a fondo da molti altri.
L’utilità della storia è conseguente alla sua capacità di accertare le cause, laddove la sola
enunciazione dei fatti può al massimo avere un effetto psicagogico: «La pura e semplice
Polibio 125
esposizione di ciò che è accaduto può eccitare il sentimento (psychagogéi), ma non reca
alcun frutto; aggiungi la causa, e la confidenza con la materia della storia si fa immediata-
mente più utile» (XII 25b, 2).
Si può parlare di historia magistra vitae sia nel senso della formazione culturale del cittadi- Historia magistra vitae
no, sia nella prospettiva ancora più utilitaristica dell’acquisizione di un potente strumento
per orientarsi nella vita politica e prevedere gli eventi futuri: «Si può, sulla base di quanto è
già successo, fare previsioni certe sul futuro» (VI 3). In particolare la tesaurizzazione delle
altrui esperienze dolorose risulta proficua, consentendo di acquisire un insegnamento sen-
za ricevere i danni:
Io ho voluto ricordare queste vicende proprio in grazia degli insegnamenti che i I 35; trad. di C. Schick
lettori ne possono ricavare: per due vie infatti gli uomini possono divenire miglio-
ri: mediante le disgrazie proprie e mediante quelle degli altri: la prima è senz’altro
più efficace, ma la seconda è di gran lunga meno dolorosa. Mai si deve spontanea-
mente ricorrere a quella per trarne ammaestramento a prezzo di grandi travagli e
pericoli, mentre sempre si deve ricercare l’altro mezzo, che senza danno alcuno in-
segna a distinguere il partito migliore. Concludendo, la migliore preparazione al
vivere rettamente è l’esperienza che si ricava dalla storia delle vicende vissute: so-
lo questa infatti può, senza pericolo di danno, rendere sicuri giudici del partito pre-
feribile in ogni occasione o circostanza.
Una storiografia pragmatica e che mira all’ammaestramento dell’uomo politico e del cittadi- Diletto o utile?
no non può che affermare il primato dell’utile (ophélimon) sul diletto (térpsis). Tuttavia la
presenza del diletto, respinta in linea di principio, è garantita dall’importanza delle vicende
narrate, che proprio per la loro rilevanza storica hanno in sé anche la capacità di attrarre il
lettore.
Del resto il carattere meraviglioso delle vicende delle quali abbiamo intrapreso a I 1;
narrare, è di per sé tale da indurre e incoraggiare tutti, e giovani e vecchi, a inte- trad. di C. Schick
ressarsi a questo nostro lavoro. Chi infatti può essere tanto stolto o pigro da non
sentire il desiderio di sapere come e sotto quale forma di governo i Romani, in me-
no di 53 anni – fatto senza precedenti nella storia – abbiano conquistato quasi tut-
ta la terra abitata, o chi ancora potrebbe essere tanto appassionato ad altra forma di
studio o spettacolo, da considerarlo preferibile alla ricerca storica?
La polemica di Polibio era nei confronti della storiografia mimetica (vedi pag. 111) e contro Contro la storiografia
l’indirizzo isocrateo, rappresentato da Eforo e Teopompo, che aveva privilegiato gli argo- mimetica
menti di tipo etnografico e antropologico (tradizioni mitiche, fondazioni di città e colonie,
storie di famiglie, excursus sulla geografia e i costumi dei popoli):
Quasi tutti gli altri scrittori … attraggono molti alla loro opera. Infatti il discorso Proemio libro IX;
sulle genealogie attira chi ascolta per il puro piacere di ascoltare; chi ama possede- trad. di B. Gentili
re una molteplicità di conoscenze e notizie erudite è attratto dai racconti sulle co-
lonie, le fondazioni … come si legge anche in Eforo. Il politico volge il suo inte-
resse alle vicende dei popoli, delle città e di chi le governa. Questo è il solo argo-
mento che noi abbiamo affrontato e solo ad esso abbiamo dedicato la nostra tratta-
zione … preparando per la maggior parte degli ascoltatori una lettura priva di ogni
fine psicagogico.
La storia assolve alla finalità formativa suddetta solo a patto che si indaghino le cause di ciò Il metodo
che è realmente accaduto con metodo rigoroso, atto ad individuare la realtà oggettiva. Tale
metodo comporta un’indagine scientifica condotta sulle fonti scritte e sulle informazioni topo-
grafiche e geografiche controllate personalmente (visitando i luoghi teatro degli eventi) e la
sicura competenza di problemi politici e militari. Fondamentale è la distinzione di Polibio tra
causa vera (aitìa), causa apparente (pròfasis), inizio degli avvenimenti (arché).
Ma vi sono uomini che non vedono quanto il principio dei fatti è diverso dalle III 6, 6-7;
cause che li determinarono, e quanto siano tra loro lontani i motivi veri e i pretesti trad. di F. Brindesi
occasionali e come i motivi veri sono alle origini prima dei fatti, mentre il princi-
pio è quello che si verifica per ultimo. In generale io dico che sono «princìpi» i
primi attacchi e le prime forme di attuazione di cose già stabilite; «cause» invece
126 La storiografia greca
Violenta è la critica, in una digressione metodologica contenuta nel libro XII, nei confronti
degli storici precedenti tacciati d’incompetenza e superficialità. In particolare è contro Ti-
meo che Polibio rivolge i suoi strali.
La storia universale La storia concepita da Polibio è inoltre universale, cioè quella che trova la sua unità nell’in-
treccio non occasionale delle vicende, che non si limita a esporre un fatto isolato o un
evento marginale, ma collega gli avvenimenti in una visione generale e organica, in cui tut-
ti abbiano un centro generativo. Nel caso della storia recente questo centro è Roma, la sua
rapida ascesa nel Mediterraneo, la sua azione catalizzatrice e unificatrice del mondo cono-
sciuto. A partire dalla vittoria su Annibale, lo spirito di conquista romano unifica il mondo
mediterraneo e ne rende la storia intimamente unitaria. In particolare le vicende dal 264 al
220 a.C. sembrano appartenere a un disegno coerente (somatoeidés) teso a un solo obiet-
tivo, il governo di Roma. «Un siffatto impianto – questo sì davvero “universale” – supera
l’aporia insita in un racconto continuo che, come quella di Eforo, rischia continuamente di
frantumarsi in monografie, e al tempo stesso dà un senso alla successione narrativa, giac-
ché il “prima” e il “poi” non si presentano più nella casuale e falsa successione dovuta alla
mera trascrizione degli eventi»1.
I 4; trad. di B. Brindesi Ma ciò che è proprio della nostra storia ed è novità assoluta dei nostri tempi è que-
sto: come la fortuna volse in una sola direzione tutti gli eventi del mondo allora
abitato e li costrinse tutti a piegare verso un unico obiettivo, così sarà necessario
presentare al lettore in un unico quadro di insieme le vie di cui la fortuna si servì
per il compimento della sua opera. Proprio questo mi ha incitato e spinto alla com-
posizione di questa storia, e inoltre la constatazione che nessuno, ai nostri tempi,
ha posto mano a scrivere una storia universale: altrimenti non mi sarei sobbarcato
a questa impresa. Ma vedendo che anche più d’uno ha trattato le singole guerre e
alcuni avvenimenti particolari ad esse contemporanei, e che nessuno, a quanto al-
meno mi risulta, pensò neppure di indagare, nel complesso, l’insieme dei fatti e
quando e da che cosa quei fatti ebbero origine e come si conclusero, ho ritenuto
assolutamente necessario non traslasciare né permettere che passasse inosservata
l’opera più bella e più utile della fortuna.
La teoria dei cicli Nel VI libro, in cui sono studiate le costituzioni con le quali gli stati si reggono, Polibio enun-
cia sulle orme di Platone e Aristotele la cosiddetta «anaciclosi», cioè la teoria del ritorno ci-
clico delle forme di governo. Ci sono tre forme di governo positive che sono la monarchia,
l’aristocrazia e la democrazia a cui si oppongono le corrispondenti tre forme degenerate: la
tirannide, l’oligarchia e l’oclocrazia o potere delle masse. Alle prime seguono inevitabilmen-
te le altre secondo un ciclo discendente a cui non può sottrarsi nemmeno la costituzione
romana, che pure a Polibio sembra perfetta, in quanto in essa coesistono la monarchia (i
consoli), l’aristocrazia (il senato), la democrazia (i comitia del popolo).
La Tyche Legato a una visione laica della storia, Polibio nega che le divinità tradizionali abbiano un
peso negli eventi umani, le cui cause vanno ricercate unicamente in fatti concreti come le
condizioni geografiche, la situazione politica e militare, la ricerca dell’utile. Nondimeno è ri-
petutamente menzionata la Tyche, la forza irrazionale del caso ora provvidenziale ora osti-
le, personificazione dell’imponderabile e dei limiti dell’umana capacità di comprensione dei
fatti storici. Il ricorso alla Tyche è, in taluni casi, la sola spiegazione dell’avvicendarsi insen-
sato di imperi e di egemonie, dei bruschi capovolgimenti di fortuna, dei crolli imprevedibili
come quello dell’impero persiano. «Chi avrebbe potuto prevedere cinquant’anni fa, e antici-
pare ai Greci e ai Persiani che l’impero persiano sarebbe scomparso e che i Macedoni
avrebbero regnato al loro posto?»: con queste parole, tratte dal trattato Perì tyches di De-
metrio Falereo, Polibio commenta la fine di Perseo di Macedonia.
1. L. Canfora, Polibio, in «Lo spazio letterario della Grecia antica», Salerno, Roma 1993.
Plutarco 127
Nella visione pragmatica e utilitaristica di Polibio, è positiva la considerazione dell’impiego La religione
della religione a Roma, intesa come instrumentum regni, cioè come mezzo di potere e fat-
tore di coesione politica:
Ciò che presso gli altri popoli è oggetto di biasimo, cioè lo scrupolo religioso, VI 56; trad. di L. Canfora
mantiene la coesione dello stato romano. Questo elemento è stato introdotto in
ogni aspetto della vita privata e pubblica dei Romani, con ogni espediente per im-
pressionare paurosamente l’immaginazione, ad un punto oltre il quale non si po-
trebbe andare. Ciò potrebbe apparire stupefacente a molti. Ma a mio modo di ve-
dere i Romani hanno fatto ciò per impressionare le masse. Se fosse possibile for-
mare uno stato di soli uomini saggi, forse non sarebbe necessario ricorrere a que-
sto mezzo; ma, data la leggerezza, l’avidità sfrenata, la collera irragionevole e le
passioni violente delle masse, non rimane che tenerle a freno coi terrori dell’invi-
sibile o con altre imposture dello stesso tipo. Perciò gli antichi non a torto, ma se-
condo un preciso proposito, hanno inculcato nelle masse le nozioni relative agli
dei e le credenze sulla vita dell’aldilà. Sciocchi i moderni che cercano di disperde-
re queste illusioni!
La lingua delle Storie è quella fredda e volutamente arida dei documenti ufficiali, priva di or- Lingue e stile
namenti retorici, ricca di lessico tecnico impiegato con precisione e competenza. Lo stile è
conseguentemente «cancelleresco», formale, astratto. Il periodo risulta complesso, denso
di concetti, ricco di perifrasi e, a tratti, faticoso. Non è tuttavia nella ricercatezza dello stile
che troviamo la grandezza di Polibio, che è un sostenitore della concezione pragmatica
della storia, che risulta fondata cioè sull’analisi dei fatti politici e militari senza digressioni
narrative.
Plutarco
Per motivi di economia espositiva trattiamo in questo capitolo anche la figura di Plutarco,
sebbene sia vissuto due secoli dopo Polibio e pertanto rispecchi una concezione storiogra-
fica assai distante da quella degli storici greci sin qui considerati.
Nacque intorno al 45 d.C. a Cheronea in Beozia da famiglia benestante; studiò ad Atene La vita
alla scuola del filosofo platonico Ammonio, curando la matematica, le scienze, la retorica
e la filosofia. Viaggiò in Egitto, in Asia, a Roma e nell’Italia Meridionale, ma trascorse la
gran parte della vita a Cheronea che, ironicamente, diceva di non volere rendere più pic-
cola con la propria lontananza e dove esercitò i più alti uffici. Fece parte del collegio sa-
cerdotale del santuario di Delfi. Acquistata la cittadinanza romana, ricoprì alte cariche
onorifiche sotto Traiano e Adriano. È singolare che i contemporanei Plinio il Giovane e
Tacito non facciano menzione di lui. A Cheronea aprì una scuola, secondo l’esempio
platonico, nella quale provvedeva all’istruzione dei figli e di pochi discepoli. In essa si ce-
lebravano come festività i giorni natali di Socrate e Platone. Morì a Cheronea intorno al
125 d.C.
128 La storiografia greca
Le opere Plutarco fu scrittore assai produttivo. Un catalogo antico gli attribuisce ben 227 opere, di
cui soltanto 83 sono conservate in due grandi sezioni:
• le opere morali, note come Moralia a partire dal Medioevo,
• le Vite parallele, 22 coppie di Vite, 19 di esse con l’aggiunta del confronto (sýnkrisis), e
quattro Vite singole.
I Moralia
In questo raggruppamento sono contenuti scritti filosofici, pedagogici, teologici, retorici,
scientifici e letterari, accanto ad opere di contenuto etico che in forma di dialogo o di diatri-
ba – genere tipico del trattato filosofico-morale a scopo di divulgazione popolare – svilup-
pano argomenti di filosofia spicciola o forniscono precetti di vita quotidiana.
Scritti pedagogici e politici In questo repertorio del sapere antico hanno uno spazio rilevante gli scritti che vertono su
problemi dell’educazione e della vita politica. Ecco alcuni titoli: Come i giovani devono leg-
gere i poeti, Precetti politici, Se gli anziani debbano fare politica, ecc. Gli scritti sull’educa-
zione, che influenzarono la pedagogia cristiana e quella umanistica, affrontano le questioni
non da un punto di vista teorico, ma come guida per una condotta etica corretta. Anche gli
scritti politici sono veri e propri manuali indicanti i mezzi adeguati per conseguire determi-
nati obiettivi nella concreta pratica della vita cittadina.
Le opere religiose Un gruppo a parte sono le opere di carattere religioso, legate anche alla funzione sacerdo-
tale svolta dall’autore, che nel 95 d.C. ricoprì il più alto grado nella gerarchia dei sacerdoti
di Delfi. Ecco alcuni titoli: Sugli indugi della giustizia divina (che spiega l’enigma della pro-
sperità dei malvagi), Sulla lettera E in Delfi, cioè sulla lettera E incisa sul tempio di Apollo,
per la quale l’autore propone un’interpretazione pitagorica.
Scritti vari Ci sono poi le opere filosofiche, nelle quali l’autore espone il proprio punto di vista, fonda-
mentalmente platonico, moderatamente aperto allo stoicismo (Sulla tranquillità interiore, La
repressione dell’ira) e polemico verso l’epicureismo (Non è possibile vivere felici seguendo
Epicuro). Non mancano scritti bizzarri, come quelli sulla psicologia degli animali, sulla lo-
quacità, su come distinguere un adulatore da un amico. Altri sono di carattere astronomico
(Sulla faccia della Luna, una meditazione sul cosmo), consolatorio (Consolazione alla mo-
glie, per la morte della figlia), antiquario (Questioni greche, Questioni romane), letterario
(Confronto fra Aristotele e Menandro). Nell’ambito di quest’ultimo gruppo, è singolare come
l’autore ignori quasi completamente la letteratura latina.
Una miniera di citazioni I Moralia, oltre a documentare l’ampiezza degli interessi dell’autore, sono una fonte inesau-
ribile di frammenti di testi più antichi, noti solo per le citazioni di Plutarco. Inoltre vennero
letti durante tutto il Medioevo, furono il modello della saggistica morale a partire dai Saggi
di Montaigne (1533-1592), contribuirono potentemente a trasmettere all’Europa il pensiero
e la cultura del mondo antico.
Le Vite parallele
L’opera più propriamente storica di Plutarco sono le Vite parallele: 22 coppie di ritratti di per-
sonaggi illustri, nelle quali un greco e un romano sono accostati, in base a criteri spesso evi-
denti (Alessandro e Cesare, Demostene e Cicerone) e quasi sempre chiariti nella sýnkrisis.
Ecco le Vite a confronto: Teseo-Romolo, Solone-Publicola, Temistocle-Camillo, Aristide-
Catone maggiore, Cimone-Lucullo, Pericle-Fabio Massimo, Nicia-Crasso, Coriolano-Alci-
biade, Demostene-Cicerone, Focione-Catone minore, Dione-Bruto, Emilio Paolo-Timoleon-
te, Sertorio-Eumene, Filopemene-Tito Flaminino, Pelopida-Marcello, Alessandro-Cesare,
Demetrio Poliorcete-Antonio, Pirro-Mario, Agide e Cleomene-Tiberio e Caio Gracco, Licur-
go-Numa, Lisandro-Silla, Agesilao-Pompeo. Al di fuori delle biografie parallele sono le Vite
di Arato, Artaserse, Galba e Otone.
L’intento morale Ciò che interessa è il carattere dei protagonisti, e questo si rivela nel loro modo di rappor-
tarsi non solo alle grandi occasioni storiche, ma anche alle questioni spicciole della vita
Plutarco 129
quotidiana. La personalità, l’etos emerge nei tratti fisici, nelle battute memorabili, nel com-
portamento privato riscostruibile a partire anche dalle più minute notazioni aneddotiche, co-
m’è detto nella Vita di Alessandro:
… Io non scrivo un’opera di storia, ma delle vite; ora, noi ritroviamo una manife- trad. di C. Carena
stazione delle virtù e dei vizi degli uomini non soltanto nelle loro azioni più appa-
riscenti: spesso un breve fatto, una frase, uno scherzo rivelano il carattere di un in-
dividuo più di quanto non facciano battaglie ove caddero diecimila morti, i più
grandi schieramenti di eserciti e assedi. Insomma, come i pittori colgono la somi-
glianza di un soggetto nel volto e nell’espressione degli occhi, poiché lì si manife-
sta il carattere, e si preoccupano meno delle altre parti del corpo; così anche a me
deve essere concesso di addentrarmi maggiormente in quei fatti o in quegli aspetti
di ognuno, ove si rivela il suo animo, e attraverso di essi rappresentarne la vita, la-
sciando ad altri di raccontare le grandi lotte.
In questo passo, Plutarco distingue la vita dalla storia – quindi il carattere del personaggio
dai fatti politici e militari – optando per la biografia peripatetica, un genere con forte accen-
tuazione dei motivi etici. Si tratta di una prospettiva che esclude l’analisi rigorosa delle cau-
se e degli effetti e quella visione d’insieme che secondo Polibio deve caratterizzare la rico-
struzione storica. D’altronde, la priorità accordata alla dimensione etica caratterizza quasi
tutta la storiografia antica, più interessata a ricercare le cause dei fatti nei vizi e nelle virtù
dei protagonisti, che nei fattori economici e politici. Anche lo schema retorico della sýnkrisis
– già impiegato da Sallustio (è celebre la comparatio tra Cesare e Catone nel Bellum Cati-
linae) mira a educare il lettore. L’intento morale è enunciato in particolare nella Vita di Emi-
lio Paolo, dove l’autore dichiara di volere uniformare il proprio comportamento a quello dei
personaggi presentati, guardando nella storia come in uno specchio. In questa prospettiva
etico-pedagogica le Vitae hanno una funzione paradigmatica e i personaggi assumono la
fissità dell’archetipo psicologico e morale (éidos).
Un secondo intento dell’autore era di mostrare la complementarità tra mondo romano e La Grecia e Roma
greco, la compatibilità di Roma dominatrice e della Grecia educatrice, valorizzando le diffe-
renze tra le due civiltà ormai congiunte, ma distinte: «La formula delle Vite che introduce il
doppio principio di una corrispondenza e anche di una opposizione, esprime appunto
l’ambivalente senso della continuità culturale che collega Roma con la Grecia, e però an-
che della indipendenza con cui i Greci consideravano quel passato che era una eredità
esclusivamente loro» (D. Del Corno).
Il ritratto di Cesare.
Riportiamo dalla Vita di Cesare il paragrafo 17.
Chi suscitò e coltivò questa risolutezza e questo spirito di emulazione nelle sue truppe fu Cesare stesso. Egli anzi tut-
to elargì senza risparmio danaro e beneficenze. Così dava a vedere di non voler ricavare dalle campagne di guerra ric-
chezze che servissero al suo lusso e al suo benessere personale, ma tutto metteva da parte e conservava per premiare
chiunque compisse un atto di valore; la sua parte di ricchezza consisteva in ciò che dava ai suoi soldati meritevoli. In
secondo luogo si sottopose spontaneamente ad ogni loro rischio e non si sottrasse a nessuna delle loro fatiche. Che
amasse il pericolo, non stupiva i suoi uomini, perché sapevano quant’era ambizioso; ma la sua resistenza ai disagi, su-
periore alla forza apparente del suo corpo, li sbalordiva. Cesare era di costituzione fisica asciutta, di carnagione bian-
ca e delicata; subiva frequenti mal di capo e andava soggetto ad attacchi di epilessia: la prima manifestazione l’ebbe,
pare, a Cordova. Eppure non sfruttò la propria debolezza come un pretesto per essere trattato con riguardo; al contra-
rio, fece del servizio militare una cura della propria debolezza. Compiendo lunghe marce, consumando pasti frugali,
dormendo costantemente a cielo aperto, sottoponendosi ad ogni genere di disagi, sgominò i suoi malanni e serbò il
suo corpo ben difeso dai loro assalti. Si coricava la maggior parte delle notti su qualche veicolo o nella lettiga, sfrut-
tando il riposo per fare qualcosa. Durante il giorno si faceva portare in visita alle guarnigioni, alle città, agli accampa-
menti ed aveva seduto al fianco uno schiavo che era abituato a scrivere sotto dettatura anche in viaggio, e dietro, in
piedi, un soldato con la spada sguainata. Viaggiava così rapidamente, che la prima volta partì da Roma e compì il
viaggio fino al Rodano in otto giorni. Cavalcare era sempre stato facile per lui fin da bambino; sapeva persino mante-
nersi in sella col cavallo spinto a grande carriera, tenendo le mani riunite dietro il dorso. Durante la campagna milita-
re in Gallia si esercitò inoltre a dettare lettere mentre cavalcava, e a tenere testa contemporaneamente a due scrivani,
dice Oppio, o anche più. Si narra anzi che Cesare sia stato il primo ad usare la corrispondenza per tenersi in contatto
130 La storiografia greca
coi suoi amici, quando la massa dei suoi impegni e l’estensione di Roma non gli consentivano d’incontrarli di perso-
na per discutere affari urgenti.
A dimostrare quanto poco esigente fosse in tema di vitto, si cita di solito questo episodio. Un suo ospite, presso cui man-
giava a Milano, Valerio Leone, mise in tavola degli asparagi conditi con mirra, anziché con olio. Cesare li mangiò tran-
quillamente e rimbrottò i suoi amici che si sentivano offesi. «Bastava» disse «che coloro a cui non piacevano non se ne
servissero. Chi si lamenta di una zoticaggine come questa, è uno zotico anche lui». Un’altra volta, mentr’era in viaggio,
una tempesta lo costrinse a riparare nella capanna di un poveraccio; come vide che si componeva di non più di una stan-
za, capace d’ospitare a mala pena una sola persona, disse, rivolto agli amici: «Gli onori spettano ai più potenti, ma le co-
modità ai più deboli» e impose ad Oppio di riposare lui nell’interno, mentre egli dormì con gli altri sotto la gronda, da-
vanti alla porta.
(trad. di C. Carena)
La storiografia romana in lingua greca: Fabio Pittore e Cincio Alimento 131
Le Origines di Catone
La carriera Di modesta famiglia di agricoltori, Catone nasce a Tusculum (l’odierna Frascati) nel
234 a.C., combatte nella seconda guerra punica in Sicilia ricoprendo la carica di tri-
buno militare. Grazie all’appoggio di un potente esponente dell’aristocrazia, Valerio
Flacco, può intraprendere come homo novus (cioè di famiglia che non vantava ma-
gistrati) una carriera politica prestigiosa, ricoprendo la questura (nel 204, in Africa),
l’edilità, la pretura (198), il consolato (195), la censura (184).
L’antiellenismo Catone vive nel periodo in cui Roma diviene padrona del Mediterraneo e compie
importanti conquiste culturali. Nella contrapposizione che si viene a creare tra un
«partito» filellenico aperto alle novità del mondo greco e un partito conservatore,
egli è l’emblema dei difensori del mos maiorum, nemico giurato di ogni modifica
dell’assetto politico-culturale tradizionale. Nella sua persona si compendia la cultu-
ra propriamente romana, sicché la sua opera può essere vista come una specie di
«enciclopedia riassuntiva della tradizione nazionale» (Grimal).
La prevalenza Catone è la personificazione di una categoria antropologica squisitamente romana:
della tradizione la prevalenza culturale della tradizione basata sulla convinzione della superiorità
del passato sul presente (M. Bettini). Il suo bersaglio polemico è il cosiddetto «cir-
colo» filellenico degli Scipioni (in particolare l’Africano Maggiore, il vincitore di Car-
tagine) che propugnava una cultura ellenizzante non conciliabile con la moralità ar-
caica e contadina difesa da Catone.
Le Origines di Catone 133
Catone era convinto – e a giusta ragione – che il contatto con la filosofia e i costu- Il rischio «illuministico»
mi greci alterasse l’originaria fisionomia della società romana, mutando le mentali-
tà dei cittadini e le gerarchie sociali. Non era contrario alla cultura greca in sé della
quale anch’egli era imbevuto, ma ne temeva «l’aspetto illuministico» (La Penna), il
razionalismo che avrebbe potuto generare un movimento d’idee in grado di minare
l’assetto repubblicano.
Soprattutto la censura fu strumento della strenua battaglia conservatrice: «E que- «Il censore»
sta censura restò famosa e foriera di inimicizie» (Livio, XXXIX 44, 9). Nell’esercizio
di questa magistratura si distinse per il proverbiale rigore in difesa dell’austerità e
della frugalità, al punto da divenire nei secoli «il censore» per antonomasia. Fece
approvare varie leggi sumptuariae per arginare il lusso col quale esponenti dell’ari-
stocrazia cominciavano a imitare il fasto delle corti ellenistiche. Già nel 195, quan-
do era console, si era opposto all’abrogazione della Lex Oppia, che vietava alle
matrone romane di portare vesti lussuose e monili d’oro. Da censore, colpì la moda
di usare oggetti di lusso, imponendo su di essi una tassa dieci volte superiore al lo-
ro prezzo.
La furia moralizzatrice culmina in azioni e provvedimenti esemplari, che vanno dai L’opera «moralizzatrice»
processi intentati all’Africano accusato di malversazione all’emanazione di decreti
antiillenici e xenofobi. Nel 161 un decreto senatorio d’ispirazione catoniana vietava
ai retori e ai filosofi greci di risiedere a Roma. Nel 155 un provvedimento analogo
espelleva dalla capitale i filosofi greci Carneade, Diogene, Critolao che avevano
fatto pubblica dimostrazione di virtuosismo retorico, in particolare Carneade, che si
era esibito in una spregiudicata «antilogia» parlando prima in favore poi contro la
giustizia.
Contrasta con l’immagine del moralista integerrimo il fatto che avesse accumulato Una personalità
enormi ricchezze nel latifondo e si fosse dedicato ai commerci marittimi e all’usura, contraddittoria
attività che egli stesso critica nella prefazione al De agri cultura. Dei due ritratti di
Catone di cui disponiamo, quello idealizzato del De senectute di Cicerone e quello
di Plutarco che evidenzia le contraddizioni dell’uomo, è certamente più attendibile il
secondo.
Rappresentante e difensore degli interessi dei proprietari terrieri, sostenne con ac- Delenda Carthago
canimento la necessità di distruggere Cartagine (è famoso il motto delenda Car-
thago), considerata una temibile concorrente per i mercati italici. Spetterà a un
esponente del «partito» filellenico, Scipione Emiliano, di iniziare la terza guerra pu-
nica proprio nell’anno della morte di Catone, il 149. Ma l’iniziativa era stata voluta
dal Censore che negli ultimi anni si era riconciliato con la fazione avversa facendo
sposare al figlio Marco la sorella dell’Emiliano.
Oltre 150 Orazioni (secondo Cicerone) delle quali restano solo frammenti. Un’opera storica, Le opere
le Origines, in sette libri. Il trattato De agri cultura. I Praecepta ad filium, manuale (o serie di
manuali) per l’istruzione privata del figlio Marco. Il Carmen de moribus, di cui possediamo
pochi frammenti di carattere gnomico, e gli Apophthegmata, raccolta di massime e detti me-
morabili, di cui Cicerone ci ha conservato rare citazioni.
Le Origines
Le Origines fondano la storiografia latina superando sia le ricostruzioni dei poeti, La prima opera
sia le annotazioni degli annales pontificali, sia la narrazione in greco dei primi an- storica latina in prosa
nalisti romani, Fabio Pittore e Cincio Alimento. Questi sul modello degli annali pon-
tificali avevano tracciato, verso la fine del III secolo, scarne sintesi della storia di
134 Le origini della storiografia latina
Roma dalle origini al loro tempo. Come già abbiamo avuto occasione di precisa-
re, la scelta del greco, lingua «internazionale», era motivata dall’intento di pro-
pagandare l’emergente potenza romana in Oriente, per procurarle le simpatie
degli stati ellenistici. Ma ciò non era più necessario da quando, concluse le
guerre con Antioco III di Siria, i Romani erano ormai padroni del Mediterraneo
orientale.
ETÀ A RCAICA
I contenuti Delle Origines resta il riassunto che ne fa Cornelio Nepote nella Vita di Catone e
un centinaio di frammenti. Secondo Nepote, Catone avrebbe intrapreso la scrittura
dell’opera dopo i sessanta anni (Senex historias scribere instituit), quindi dopo il
174. È probabile che attendesse alla composizione dell’ultimo libro poco prima del-
la morte; infatti Cicerone, nel dialogo Cato maior che si immagina ambientato nel
150, fa dire a Catone: Septimus mihi liber Originum est in manibus (38).
Secondo Nepote, l’opera abbracciava in sette libri il periodo dalle origini di Roma
(libro I) e delle altre città italiche (II, III) alle guerre puniche (IV, V), fino alla pretura
di Sulpicio Galba vincitore dei Lusitani in Spagna nel 151 (VI, VII). Il maggiore spa-
zio è accordato agli avvenimenti recenti e contemporanei. Inoltre è posto in rilievo,
dall’homo novus e sabino Catone, il contributo alla potenza di Roma dato dalle cit-
tà italiche, per la prima volta considerate importanti come la capitale.
La prevalenza del Le Origines esprimono in modo particolare la citata categoria antropologica squisi-
«prima» sul «dopo» tamente romana della superiorità del passato, confermata anche dall’opposizione
lessicale maiores/ minores che designa gli antenati e i discendenti. In tale struttura
mentale è implicita la convinzione che, per conoscere un popolo, sia necessario ri-
salire alle sue «origini», ovvero che nel passato stia ogni spiegazione del presente
e che le regole per comportarsi bene vadano cercate nella tradizione.
L’anonimato Nelle Origines erano taciuti i nomi dei generali, indicati solo con la carica pubblica
in ossequio a un’ideologia che inibiva drasticamente il culto della personalità e
l’individualismo di matrice greca. Le vittorie erano presentate come il risultato di un
anonimo sforzo corale del populus Romanus. Neppure Annibale era nominato, ma
designato col titolo di dictator Carthaginiensium. Era una concezione opposta sia a
quella prosopografica cara ai filelleni, che giudicavano la storia come prodotto del-
l’azione di grandi personalità, sia alla tradizione annalistica, che celebrava le gesta
dei personaggi delle famiglie nobili.
Il confronto con la Grecia Un chiaro intento dell’opera è di dimostrare la pari dignità, se non la superiorità, dei
comandanti romani rispetto a quelli greci. In un passo riportato integralmente da
Gellio, un tribuno militare che consente col sacrificio della propria vita di salvare il
grosso delle truppe è paragonato a Leonida alle Termopili:
Noct. Att. II 36 La Grecia tutta onorò per il suo valore lo spartano Leonida, che alle Termopi-
li compì un atto simile, con busti, statue, epigrafi elogiative … invece al tri-
buno militare che pure aveva compiuto un’identica impresa e aveva salvato la
situazione, è stata assegnata una lode modesta in rapporto all’atto compiuto.
Superamento degli annales Rispetto all’impostazione degli annales pontifici, Catone è conscio della maggiore
profondità della propria trattazione, che non si ferma alla dimensione cronachistica,
ma coglie i movimenti profondi della storia, le articolazioni di lungo periodo. Già ab-
biamo citato il giudizio negativo che il censore rivolgeva all’arcaica storiografia itali-
ca, accusata di annotare fatti troppo legati all’attualità immediata (vedi p. 12). Al cri-
terio «anno per anno» della tradizione annalistica è sostituito quello, mutuato dalla
storiografia ellenica, dell’accorpamento per argomenti, pur posti in ordine prevalen-
temente cronologico.
Le Origines di Catone 135
Sempre all’influenza degli storici greci, soprattutto Eforo e Timeo, è dovuto L’interesse etnografico
l’interesse etnografico attestato da frammenti come questi: «Nella maggior parte
della Gallia, due sono le attività che riscuotono il massimo interesse: l’arte militare
e il parlare bene» (fr. 34 Peter); «Non danno dote alle loro figlie» (fr. 94 Peter). In
particolare il secondo frammento attesterebbe una sensibilità antropologica più in-
teressata alle differenze che alle somiglianze, già influenzata dalla letteratura paro-
dossografica greca dei mirabilia, cioè delle cose strane, inusitate, incomprensibili
alla nostra cultura e perciò affascinanti. Un frammento allude al carattere mendace
dei Liguri, un altro ai maiali dei Galli, così grossi che non riescono a muoversi. Il
primo dei frammenti seguenti descrive il metodo singolare per trasportare l’acqua
seguito dai Libui, gente gallica dell’Italia alpina; il secondo parla di miniere inesau-
ribili e di un vento insostenibile:
Libui, qui aquatum ut lignatum vi- Pare che i Libui vadano a prendere fr. 33 Peter
dentur ire, securim atque lorum fe- l’acqua come si fa con la legna: por-
runt, gelum crassum excidunt, eum tano sul posto una scure e una corda,
loro conligatum auferunt . tagliano un blocco di ghiaccio e se
lo portano via legato alla corda.
Sed in his regionibus ferrareae, ar- Ma in queste regioni vi sono minie- fr. 93 Peter
gentifodinae pulcherrimae, mons ex re di ferro e d’argento eccezionali,
sale mero magnus: quantum demas, c’è un gran monte di sale puro: tan-
tantum adcrescit. Ventus Cercius, to ne estrai, altrettanto ne ricresce.
cum loquare, buccam implet, arma- Il vento «Cercio», mentre parli, ti
tum hominem plaustrum oneratum riempie la bocca ed è in grado di
percellit. travolgere un uomo con tanto di co-
razza e un carro pieno.
Sempre dalla storiografia greca dipendono l’uso di inserire intere orazioni nel corpo Le ktìseis
della narrazione, come l’Oratio pro Rhodiensibus pronunciata nel 167 per impedire
la guerra contro Rodi, e l’interesse per le ktíseis o «fondazioni di città» (di qui forse
anche il titolo Origines).
Si è ipotizzato che i primi tre libri delle Origines fossero un adattamento nella lette-
ratura latina del genere delle ktìseis, cioè le storie di fondazione. Anche Fabio Pit-
tore all’inizio della sua opera aveva posto una ktìsis di Roma. Si è pensato che le
fonti di Catone riguardassero fondazioni di città italiche e che un modello possibile
fosse Timeo. In effetti si riscontrano nelle Origines punti di contatto con le leggende
di fondazione: nel fr. I 18 Chass. Servio descrive, riferendosi all’autorità di Catone,
un rito di fondazione secondo il modello etrusco. La procedura, nota anche da altre
fonti, prevedeva che si aggiogassero all’aratro un toro e una vacca, che si traccias-
se un solco in corrispondenza del tracciato delle mura, sollevando l’aratro in corri-
spondenza delle porte. Il frammento citato da Servio senza riferimento ad un libro
preciso delle Origines è di solito attribuito alla fondazione di Roma. In ogni caso il
passo testimonia l’attenzione di Catone per la descrizione degli adempimenti reli-
giosi legati alla fondazione.
La prosa di Catone storico, come anche dell’oratore – ma la distinzione è tenue, Lo stile di Catone storico
dato che le Origines includevano inserti delle orazioni realmente pronunciate dal-
l’autore – ha molti dei tratti che rileviamo più avanti per la prosa tecnica (brevità,
gravità arcaica, paratassi, parallelismi, anafore, allitterazioni, neologismi, ecc.). Tut-
tavia lo stile è più elaborato, più attento ai dettami di quella retorica greca alla qua-
136 Le origini della storiografia latina
Cicerone testimonia che, diversamente da Celio Antipatro, Asellione non avrebbe Primato dell’utile
avuto particolare interesse per il momento dell’elaborazione formale. L’opposizione sul diletto
alla «storiografia drammatica» ed «edonistica» di Celio Antipatro non potrebbe es-
sere più netta: gli abbellimenti ricercati per il diletto del lettore (digressioni fantasti-
che, discorsi, artifici retorici) sono solo un fabulas pueris narrare per Celio. Il quale
si pone sulla linea pragmatica e utilitaristica teorizzata da Polibio – che come Celio
frequentava il Circolo degli Scipioni – in base alla quale lo studio della storia deve
servire alla formazione politica e morale del cittadino.
Delle opere degli storici anteriori a Cesare vanno ricordate le Historiae di Cornelio Sisenna
Sisenna (120 circa, 67 a.C.), che narra gli avvenimenti contemporanei dalla guerra
sociale alla morte di Silla, di cui era partigiano. Della sua opera, che abbraccia una
dozzina d’anni e forse continua quella di Sempronio Asellione, restano solo fram-
menti. L’opera di Sallustio si riallaccerà a sua volta a questa di Sisenna. Il culto del-
la personalità per il dittatore caratterizzava la narrazione delle Historiae, che signi-
ficativamente Cicerone (De legibus I 7) avvicinava alla storia romanzesca di Ales-
sandro Magno scritta da Clitarco (vedi p. 123). Ai tratti romanzeschi (colpi di scena,
peripezie, ecc.) conformi ai canoni della storiografia «tragica» la narrazione ag-
giungeva particolari piccanti (turpis … iocos, dirà Ovidio in Trist. II 434).
L’ispirazione giocosa di Sisenna è confermata anche dalla traduzione che egli fece
delle Fabulae Milesiae di Aristìde di Mileto, un’opera piuttosto osée, che – come ri-
ferisce Plutarco – i Romani si portavano dietro nelle loro sarcinae durante la cam-
pagna di Crasso contro i Parti.
Cornelio Nepote
Cesare
Sallustio
Res Gestae
Livio
Francesco Piazzi, HORTUS APERTUS - Autori, testi e percorsi - Copyright © 2010 Cappelli Editore
196 Storiografia, biografia, antiquaria
Le opere Varrone scrisse oltre 620 libri e per tale produttività fu da Cicerone definito polygraphótatos
(«il più fecondo degli scrittori»). Di tale immensa produzione, che spaziava dalla filologia al-
la grammatica, dall’antiquaria alla letteratura tecnico-scientifica, restano solo:
• il De re rustica, trattato in prosa sull’agricoltura;
• 6 libri (su 25) del De lingua latina (vedi p. 228);
• frammenti delle altre opere.
L’opera Oltre agli accennati Chronica in tre libri interamente perduti – sinossi degli avvenimenti di
Grecia, Roma e Oriente esposti sincronicamente – sappiamo che Nepote scrisse una rac-
colta di Exempla contenenti aneddoti e curiosità varie e due ampie biografie di Catone il
Censore e di Cicerone, andate perdute. Plinio il Giovane ci informa che si dedicò anche al-
la poesia d’argomento amoroso, e ciò è verosimile data l’amicizia con Catullo.
La sola opera di cui conserviamo parti consistenti è il De viris illustribus (noto anche col titolo
di Vitae), raccolta di biografie sull’esempio delle Imagines di Varrone. Le Vitae erano probabil-
mente in 16 libri ripartiti in almeno otto categorie (re, generali, poeti, oratori, storici, filosofi,
giuristi, grammatici e scienziati), ciascuna delle quali affiancava il ritratto di un romano al ritrat-
to di uno straniero. Restano l’intero libro I contenente i profili di generali e re stranieri (De exe-
cellentibus ducibus exterarum gentium), le biografie di Catone il Censore (riassunto del profilo
autonomo perduto, citato sopra) e di Attico, entrambe appartenenti alla sezione degli storici.
La biografia L’intento delle Vitae è meramente divulgativo. L’opera mirava – in tempi in cui la ri-
flessione storiografica acquistava un peso crescente nella società romana – a sod-
disfare la domanda dei lettori di media cultura, ai quali le minute e dotte indagini di
Varrone sarebbero rimaste indigeste. Nepote manca di profondità d’analisi, ma non
è neppure interessato a compiere una riflessione storica rigorosa, consapevole
che il suo pubblico è ghiotto di aneddoti, di particolari curiosi e attinenti alla vita pri-
vata dei personaggi. L’intento di scrivere un’opera d’intrattenimento, destinata a let-
tori a digiuno di greco (expertes litterarum Graecarum) e bisognosi di un’esposizio-
ne semplificata e attraente, è chiarito dall’autore stesso, quando distingue tra bio-
grafia e storia scegliendo il genere della biografia peripatetica (più impegnata sul
piano letterario che su quello del rigore documentario):
Pelopidas I 1 Pelopida tebano è meglio conosciuto dagli storici che dai lettori comuni.
Non so bene come io possa meglio dare risalto alle sue virtù: se comincias-
Le biografie di Cornelio Nepote 199
si a narrare per filo e per segno le imprese, temo che darei l’impressione di
volere, invece di raccontare la sua vita, scrivere un’opera propriamente sto-
rica. Se tratterò solo gli aspetti politicamente più importanti della sua vita,
temo che, per chi non ha nozioni di letteratura greca, il personaggio non ri-
sulti in tutta la sua grandezza. Cercherò allora, come potrò, di tenermi lon-
tano da questi due estremi, cercando sia d’essere sintetico sia di tenere
conto delle modeste conoscenze del lettore.
Dunque altro è enarrare vitam, altro è scribere historiam. Lo storico si concentra Il moralismo
sui fatti, il biografo sui personaggi. Questi sono prescelti non in base alla loro im-
portanza storica, ma all’esemplarità etico-pedagogica. Analoga distinzione pro-
grammatica farà nel I secolo d.C. Plutarco, certo influenzato dalle Vitae di Nepote
(vedi p. 127). Diversamente dalla biografia coltivata dai filologi alessandrini, più
«scientifica» nella raccolta e selezione di materiali e più criticamente meditata, la
biografia di scuola aristotelica si caratterizza per la forte accentuazione dei motivi
etici. Così abbondano le notazioni moralistiche e le parti di testo che illustrano, ta-
lora in forma di encomio, le virtù del personaggio.
La cultura latina arcaica ebbe scarsa propensione a porre in primo piano l’individuo. Perciò La biografia a Roma
la biografia fu un genere inizialmente poco coltivato, anche se elementi autobiografici era-
no presenti nelle laudationes funebres e negli elogia (vedi p. 7), nei tituli (brevi note sulla
vita e le imprese) scritti sotto le statue di uomini famosi. In seguito all’affermarsi di grandi
personalità di generali e uomini politici, si crearono i presupposti ideologici della biografia,
che a Roma può considerarsi soprattutto l’evoluzione dei commentarii, cioè dei diari sui
quali i magistrati annotavano memorie personali, fatti rilevanti dell’anno in cui erano stati in
carica. Oltre che delle perdute Imagines di Varrone (dove le immagini dei personaggi erano
accompagnate da brevi profili) si ha notizia di un’autobiografia di Silla, elaborata da Corne-
lio Epicado liberto del dittatore, di una di biografia di Pompeo Magno redatta da un suo li-
berto, di una serie di vite di letterati curata da un certo Santra.
Quanto alla tecnica compositiva, la biografia greca offriva due modelli distinti: uno prevede-
va l’esposizione cronologica lineare dalla nascita alla morte, l’altro passava in rassegna i
vari aspetti della vita distinguendoli per species, cioè in base a categorie codificate: le origi-
ni familiari, le imprese civili o militari, le virtù, i difetti, ecc. Cornelio Nepote alterna le due
modalità narrative, talora le combina nel medesimo ritratto.
L’idea di accostare biografie di personalità romane e straniere, mentre apre una via Il confronto interculturale
che sarà seguita nel I secolo d.C. da Plutarco con le sue Vite parallele, riflette l’intento
di porre a confronto varie civiltà, soddisfacendo le curiosità dei lettori. Nel momento in
cui si aprono a culture diverse, i Romani sono interessati sia a conoscere le tradizioni
di altri popoli, sia a definire attraverso il confronto con l’«altro» la propria identità cul-
turale. L’atteggiamento di Nepote di fronte alle diversità pare aperto e non viziato da
pregiudizi etnocentrici. La selezione di vizi e virtù non è quasi mai funzionale alla tesi
della superiorità romana. Anzi, l’autore fa professione di relativismo etico nella prefa-
zione, quando afferma che le categorie morali non sono assolute: ciò che è virtù in un
dato contesto civile può diventare un vizio, se mutano i valori etici di riferimento
(maiorum instituta). Così musica e danza sarebbero disdicevoli nella formazione di un
giovane romano, mentre sono essenziali nell’educazione di un principe greco:
Epaminonda tebano, figlio di Polimnio. Prima di scriverne penso di dover I 1-3;
suggerire ai lettori di non giudicare col metro dei loro costumi le abitudini trad. di G. Pontiggia
straniere, e di non pensare che quanto a loro pare di scarso peso sia ritenu-
to tale anche presso tutte le altre nazioni. Sappiamo ad esempio che la mu-
sica, nel nostro costume, non si confà ad un personaggio autorevole e che
la danza è addirittura una sconvenienza: tutte cose che tra i Greci sono in-
vece bene accette e lodevoli. Se quindi vogliamo ritrarre dal vivo le con-
suetudini e la vita di Epaminonda, non dovremo – così ci pare – omettere
nulla di quanto valga ad approfondirne la conoscenza.
200 Storiografia, biografia, antiquaria
Lo stile Lo stile piano e disteso, l’abilità nel narrare in modo gradevole e disinvolto, la sintas-
si cordinativa priva di complessità (tranne i pochi casi in cui è imitato, con scarso
successo, lo stile ampio e ipotattico di Cicerone) hanno sempre contribuito alla for-
tuna di questo autore nei primi gradi della scuola. Ma la piattezza e l’uniformità mo-
notona dei profili attestano una qualità artistica modesta. Ai pochi passi veramente
brillanti, come la vita di Annibale, si affiancano testi incolori e ripetitivi. Non tanto di
profondità d’analisi storica – del resto esclusa programmaticamente dalla biografia –
si avverte la mancanza, quanto proprio di quella capacità di «riprodurre l’immagine
di una vita» (I 3), che sarebbe secondo Nepote stesso il vero obiettivo del biografo.
Moderazione e cultura di T. Pomponio Attico (Atticus, 13-14, 18). Tito Pomponio Attico (110-32 a.C.), amico e pro-
tettore di Nepote, fu personaggio di spicco nella vita intellettuale romana. Di orientamento epicureo in filosofia, amico e
editore di Cicerone, fu autore di opere perdute, tra le quali ricordiamo un Liber annalis del tipo dei Chronica di Nepote e
una raccolta di biografie probabilmente simile alle Imagines di Varrone. Dalla Vita di Attico, che occupava la sezione del
De viris illustribus dedicata agli storici, riportiamo un passo nel quale sono elogiate le doti di sobrietà ed erudizione del-
l’eminente personaggio.
[13] Anche il privato non fu inferiore al cittadi- [13] Neque vero ille minus bonus pater familias
TARDA REPUBBLICA, ETÀ AUGUSTEA
no. Per quanto fosse molto ricco, nessuno meno habitus est quam ciuis. Nam cum esset pecunio-
di lui era desideroso di comprare, nessuno meno sus, nemo illo minus fuit emax, minus aedifica-
proclive a costruire. Ciò non vuol dire che egli tor. Neque tamen non in primis bene habitauit
non avesse abitazioni signorili o che non si con- omnibusque optimis rebus usus est. Nam do-
cedesse le migliori comodità. 2. Infatti abitava mum habuit in colle Quirinali Tamphilianam,
sul colle Quirinale la casa Tamfiliana avuta in ab avunculo hereditate relictam, cuius amoeni-
eredità dallo zio materno, l’amenità della quale tas non aedificio, sed silva constabat: ipsum
consisteva non tanto nella costruzione quanto enim tectum antiquitus constitutum plus salis
nel giardino; l’edificio, che risaliva a tempi an- quam sumptus habebat: in quo nihil commu-
tichi, era più di buon gusto che lussuoso; ed egli tauit, nisi si quid vetustate coactus est. Usus est
non vi portò che i cambiamenti richiesti dal familia, si utilitate iudicandum est, optima, si
tempo. 3. La servitù era ottima dal punto di forma, vix mediocri. Namque in ea erant pueri
vista dell’utilità, appena mediocre da quello del- litteratissimi, anagnostae optimi et plurimi li-
la prestanza. Vi si trovavano infatti schiavi brarii, ut ne pedisequus quidem quisquam es-
coltissimi, lettori ottimi, moltissimi copisti: set, qui non utrumque horum pulchre facere
persino i camerieri erano addestrati a compiere posset, pari modo artifices ceteri, quos cultus
bene l’uno e l’altro ufficio: così pure abilissimi domesticus desiderat, adprime boni. Neque ta-
gli artigiani necessari al buon andamento della men horum quemquam nisi domi natum domi-
casa. 4. Non ne voleva che non fossero nati in que factum habuit: quod est signum non solum
casa o formati in casa, il che denota non solo continentiae, sed etiam diligentiae. Nam et non
misura, ma anche saggia amministrazione; per- intemperanter concupiscere, quod a plurimis
ché si può chiamare misura il non desiderare ec- videas, continentis debet duci, et potius diligen-
cessivamente ciò che si vede desiderato dai più; tia quam pretio parare non mediocris est indu-
ed è segno di non comune abilità procurarselo striae. elegans, non magnificus, splendidus,
con le proprie cure e non con il danaro. 5. Era non sumptuosus: omnique diligentia mundi-
elegante senza fasto, signorile senza osten- tiam, non affluentiam affectabat. Supellex mo-
tazione: tutte le sue cure miravano alla dis- dica, non multa, ut in neutram partem conspici
tinzione, non al lusso: l’arredamento era pro- posset. Nec praeteribo, quamquam nonnullis
porzionato ai suoi mezzi, non eccessivo, tale da leue visum iri putem, cum in primis lautus esset
non dar nell’occhio in nessun senso. 6. E non eques Romanus et non parum liberaliter do-
voglio omettere, ancorché sappia che a taluno mum suam omnium ordinum homines inuitaret,
sembrerà un perdersi nelle inezie, che egli, ric- non amplius quam terna milia peraeque in sin-
chissimo tra i cavalieri romani e largo d’inviti in gulos menses ex ephemeride eum expensum
casa a gente di ogni condizione, usava segnare sumptui ferre solitum. Atque hoc non auditum,
nel libro dei conti giornalieri una somma non sed cognitum praedicamus: saepe enim propter
eccedente i tremila sesterzi al mese per queste familiaritatem domesticis rebus interfuimus.
spese. 7. E lo affermo non per sentito dire ma
per cognizione diretta; spesso, infatti, la nostra
Le biografie di Cornelio Nepote 201
comune amicizia mi portò ad occuparmi del suo
andamento di casa.
[14] Alla sua tavola nessuno udì altri alletta- [14] Nemo in convivio eius aliud acroama au-
menti che la voce del lettore, che pare anche a divit quam anagnosten, quod nos quidem iu-
me la cosa più piacevole; non si pranzava mai cundissimum arbitramur; neque umquam sine
in casa sua che non si leggesse qualche cosa, di aliqua lectione apud eum cenatum est, ut non
modo che i convitati avessero modo di ricrearsi minus animo quam ventre conuivae delectaren-
non solo nel palato, ma anche nella mente; 2. e tur: namque eos vocabat, quorum mores a suis
appunto invitava quelli che la pensavano come non abhorrerent. Cum tanta pecuniae facta es-
lui. Anche quando il suo patrimonio si fu tanto set accessio, nihil de cotidiano cultu mutavit,
accresciuto, non cambiò nulla nelle sua abitudi- nihil de vitae consuetudine, tantaque usus est
ni quotidiane, nulla del suo tenore di vita; ed moderatione, ut neque in sestertio vicies, quod
ebbe sempre tanta misura che con i due milioni a patre acceperat, parum se splendide gesserit
di sesterzi ereditati dal padre non mostrò mai neque in sestertio centies affluentius vixerit,
grettezza, e con i dieci visse non più largamente quam instituerat, parique fastigio steterit in
di prima: nelle due diverse condizioni si man- utraque fortuna.
tenne negli stessi limiti. 3. Non ebbe grandi gi- Nullos habuit hortos, nullam suburbanam aut
ardini, non ville sfarzose fuori città o al mare, maritimam sumptuosam uillam, neque in Italia,
non vaste tenute in Italia, ma solo un podere in praeter Arretinum et Nomentanum, rusticum
quel di Arezzo e uno in quel di Nomento; tutti i praedium, omnisque eius pecuniae reditus con-
suoi redditi provenivano dai possedimenti in stabat in Epiroticis et urbanis possessionibus.
Epiro e da stabili in città: da ciò si può capire Ex quo cognosci potest usum eum pecuniae non
come fosse suo principio far uso del danaro non magnitudine, sed ratione metiri solitum.
secondo la quantità, ma secondo il buon senso. [18] Moris etiam maiorum summus imitator fuit
[18] Fu anche appassionato cultore delle costu- antiquitatisque amator, quam adeo diligenter
manze del passato, studioso dell’antichità: e ne habuit cognitam, ut eam totam in eo volu mine
acquistò sì vasta competenza da farne una com- exposuerit, quo magistratus ordinavit. Nulla
pleta esposizione in quel libro in cui diede enim lex neque pax neque bellum neque res il-
l’elenco dei magistrati: 2. non c’è legge o pace lustris est populi Romani, quae non in eo suo
o guerra o fatto importante del popolo romano tempore sit notata, et, quod difficillimum fuit,
che non vi sia ricordata alla giusta data; e seppe sic familiarum originem subtexuit, ut ex eo cla-
introdurvi – il che dové essere molto difficile – rorum virorum propagines possimus cognosce-
le origini delle varie famiglie, così da renderci re. Fecit hoc idem separatim in aliis libris, ut
possibile la conoscenza delle discendenze degli M. Bruti rogatu Iuniam familiam a stirpe ad
uomini celebri. 3. Trattò lo stesso argomento hanc aetatem ordine enumeraverit, notans, qui
anche in operette separate; così, richiesto da a quo ortus quos honores quibusque tempori-
Marco Bruto, stese la genealogia della famiglia bus cepisset: pari modo Marcelli Claudii de
Giunia dal capostipite fino ai nostri giorni, dan- Marcellorum, Scipionis Cornelii et Fabii Maxi-
do di ciascun membro la paternità, le magistra- mi Fabiorum et Aemiliorum. quibus libris nihil
ture esercitate e le date relative; 4. altrettanto potest esse dulcius iis, qui aliquam cupiditatem
fece per Claudio Marcello intorno alla famiglia habent notitiae clarorum virorum. Attigit poeti-
dei Marcelli, per Scipione Cornelio e per Fabio cen quoque, credimus, ne eius expers esset sua-
Massimo intorno a quelle dei Fabi e degli Emili. vitatis. Namque versibus, qui honore rerumque
Tutti quelli che hanno piacere di conoscere gestarum amplitudine ceteros Romani populi
qualche cosa degli uomini famosi non potreb- praestiterunt, exposuit ita, ut sub singulorum
bero trovare un libro più gradevole. 5. Si cimen- imaginibus facta magistratusque eorum non
tò anche con la poesia, per non rimanere amplius quaternis quinisque versibus descrip-
digiuno, almeno credo, di quella dolcezza: era- serit: quod uix credendum sit tantas res tam
no versi in onore di coloro che per dignità o per breviter potuisse declarari. Est etiam unus liber
importanza di azioni compiute si distinsero tra Graece confectus, de consulatu Ciceronis.
gli altri del popolo romano, così concepiti che, (trad. di C. Vitali)
6. riuniti in gruppi di quattro o cinque al massi-
mo sotto i ritratti di ciascuno, ne compendia-
vano fatti e magistrature: ed è appena credibile
come si possano conciliare tanta brevità e tanta
grandezza di cose. Ci rimane anche un libro, in
greco, sul consolato di Cicerone.
202 Storiografia, biografia, antiquaria
Giulio Cesare
La vita
Traiamo la maggior parte delle notizie sulla vita di Cesare da Plutarco e da Sveto-
nio, biografi l’uno greco, l’altro latino della fine I secolo - inizio II secolo d.C., nelle
cui opere figura una Vita di Cesare.
Nato a Roma verso il 100 a.C. dalla famiglia patrizia dei Giulii, che vantava una mi-
tica discendenza da Iulo, figlio di Enea, ebbe una giovinezza movimentata. I suoi
legami familiari con Mario (ne era il nipote) e con altri capi della fazione popolare
(aveva sposato la figlia di Cornelio Cinna, seguace del partito di Mario) lo rendeva-
no sospetto al dittatore Silla che lo osteggiò e ne arrivò a meditare l’uccisione. Co-
stretto ad una fuga rocambolesca e a nascondersi, fu risparmiato grazie all’inter-
cessione di Aurelio Cotta, fratello della madre, appartenente al partito aristocratico.
L’ostilità di Silla lo indusse, ventenne, ad allontanarsi da Roma, dove rientrerà solo
nel 78, dopo la sua morte. Partì quindi per l’Asia, dove si fece particolarmente ono-
Giulio Cesare. Musei Vaticani. re come ufficiale. Tornato a Roma, dove aveva avuto come maestro di retorica
TARDA REPUBBLICA, ETÀ AUGUSTEA
l’analogista Gnifone, celebre retore della Gallia, nel 77 si diede alla carriera foren-
se, strumento indispensabile per chi volesse dedicarsi alla vita politica: accusò di
concussione prima Dolabella per la sua gestione come proconsole in Macedonia,
poi Gaio Antonio Ibrida, entrambi di parte sillana. Non vinse (la parte politica avver-
sa era ancora molto forte), ma si fece conoscere ed apprezzare per le sue doti di
eloquenza. Altri discorsi, di cui ci sono pervenuti solo frammenti, terrà in diverse
occasioni: fra questi gli elogi funebri, secondo la tradizione, per la morte della zia
paterna Giulia, vedova di Gaio Mario e per quella della moglie Cornelia, morte a
poca distanza di tempo fra il 69 e l’inizio del 68. Nel 75 si recò a fare un viaggio
d’istruzione in Grecia a Rodi, luogo in cui si recavano i giovani delle classi elevate
per avere una buona formazione, e dove seguirà le lezioni del maestro di eloquen-
za Apollonio Molone, che fu maestro anche di Cicerone. Fu però catturato dai pira-
ti della Cilicia; rimase a lungo loro prigioniero e, dopo essere stato liberato dietro il
pagamento di un riscatto, diede loro la caccia e, catturatili, si vendicò facendoli cro-
cifiggere tutti. Tornato a Roma nel 72 fu eletto tribuno militare e si dedicò ad una
serie di battaglie peculiari della tradizione e dello schieramento dei populares, dive-
nendone il leader riconosciuto. Fra il 69 e il 60 percorse tutto il cursus honorum. In
questo periodo si impone all’attenzione della «grande» politica: a Roma, in partico-
lare con l’edilità (65) ottenne, con una politica di munificenza, feste e spettacoli,
una forte affermazione personale presso la plebe; fuori Roma si segnalò in diverse
campagne militari in Oriente (Asia Minore nel 63) e in Occidente (Penisola iberica
nel 61); ottenne il pontificato massimo (63), carica a vita di carattere religioso che
gli conferì ulteriore prestigio; strinse con Crasso e Pompeo il «primo triumvirato»,
accordo privato di reciproco sostegno politico.
La guerra gallica Nel 58 a.C. fu eletto proconsole per la Gallia meridionale dove condusse una lunga
guerra contro i Galli, conclusasi nel 52 a.C., che avrebbe portato Roma alla con-
quista di tutta la Gallia. Tali azioni sono da lui stesso narrate nei Commentarii de
bello Gallico in sette libri, uno per ogni anno. Mentre egli era in Gallia, a Roma, il
partito a lui avverso degli optimates (oligarchia senatoriale), di fronte al suo cre-
scente prestigio e potere, cercava di ostacolarne l’ascesa: temendone la popolari-
tà, dopo la morte di Crasso nel 53 a.C, affidò a Pompeo la difesa degli interessi e
dell’autorità del senato nominandolo nel 52 a.C. «console senza collega». Intanto a
Giulio Cesare 203
Cesare veniva negato il prolungamento del comando in Gallia fino alla fine del 49
nonché la possibilità di chiedere per quello stesso anno il consolato anche se as-
sente da Roma. Di fronte a queste azioni e alla richiesta di licenziare l’esercito e
cedere il comando della Gallia (il comando supremo veniva affidato a Pompeo),
Cesare, dopo aver invano tentato una conciliazione con il senato, disobbedendo
agli ordini ricevuti, entrò in Italia con truppe armate: con il passaggio del Rubicone,
piccolo fiume a sud di Ravenna che segnava il confine fra la Gallia Cisalpina e
l’Italia attraversando il quale, secondo il racconto di Svetonio, avrebbe pronunciato
la famosa frase Iacta alea est («Il dado è tratto»), cominciò la guerra civile, che La guerra civile
conclusasi con la sconfitta di Pompeo a Farsàlo (in Tessaglia, regione della Grecia)
nel 48 a.C. e dei suoi seguaci a Tapso (in Africa) nel 46 e a Munda (in Spagna) nel
marzo del 45, viene narrata da Cesare nei tre libri dei Commentarii de bello civili,
scritti forse nel 45 a.C. Nel 44 a.C. fu nominato dittatore a vita ma, nonostante la
sua politica di clemenza e la sua condotta, protese come sempre, alla ricerca del
consenso e al compromesso, fu ordita una congiura dalla nobiltà senatoriale che
mal vedeva il suo programma di riforme istituzionali che avrebbe limitato il potere
degli optimates. Cadde, secondo il racconto di Svetonio, trafitto da ventitré pugna-
late. Fra i cesaricidi Marco Bruto a cui, secondo uno dei drammatici aneddoti sulla
sua morte narrato, ancora una volta, da Svetonio, Cesare avrebbe rivolto le famose
parole: Tu quoque, Brute, fili mi? («Anche tu, Bruto, figlio mio», in Svetonio in gre-
co: kài su técnon?)1.
I commentarii
La forma dei commentarii (calco semantico dal greco upomnémata = «appunti,
pro-memoria») scelta da Cesare per le sue opere, si iscriveva nella più recente tra-
dizione storiografica romana. Fino ad allora il ricordo degli avvenimenti e delle im-
prese compiute era stata affidata ad opere annalistiche spesso scritte, a scopo
propagandistico, in greco, perché fossero conosciute anche al di là dell’Italia, ope-
re, dal punto di vista letterario, di scarso rilievo. Dalla fine del II secolo a.C. si ha
una larga fioritura di memorie particolarmente apprezzata dal pubblico romano che
in esse trovava la testimonianza «che ha per noi la stampa quotidiana e appassio-
nava il pubblico proprio per quello che a noi può dispiacere, la sua aggressività po-
lemica, la sua tendenziosità più o meno scoperta» (La Penna). Si era diffusa infatti
la consuetudine, da parte di chi aveva compiuto imprese ritenute memorabili, pre-
tori, censori, consoli, generali vittoriosi, di affidare a commentarii il ricordo delle
proprie gesta. Questi non rientravano per gli antichi fra le opere appartenenti al ge-
nere storiografico, che richiedeva un progetto letterario vero e proprio; erano solo
materiali da cui trarre eventualmente una vera e propria historia . Tuttavia quelli di
Cesare furono considerati anche dai contemporanei così ben scritti (Cic., Brutus
262: nudi … sunt, recti et venusti, «sono disadorni, semplici (puntuali, schietti) ed
eleganti»; Irzio, B. G. VIII praef. 6: bene atque emendate, «bene e correttamente»)
da distogliere chiunque dal metterci mano.
Con molta probabilità Cesare, nel mettere insieme i materiali riguardanti le due La dignità letteraria dei
guerre da lui condotte (i resoconti al senato delle campagne militari, i rapporti stesi commentari
dai suoi luogotenenti operanti sui vari fronti, i pro-memoria e le annotazioni perso-
1. Era opinione diffusa che Bruto fosse figlio di Cesare e Servilia, madre di Bruto, che, in
contrasto con lo schieramento politico della sua famiglia, aveva coltivato una forte passione
per Cesare.
204 Storiografia, biografia, antiquaria
nali), li rielaborò in vista di una loro pubblicazione. Scrivendo in un nuovo stile nar-
rativo «delle cui possibilità rinnovatrici forse non era del tutto consapevole lo stesso
Cesare» (La Penna), diede una diversa dignità letteraria ad un genere che fino ad
allora non aveva avuto pretese artistiche.
I commentarii di Cesare
Due i commentarii scritti da Cesare: il De bello Gallico e il De bello civili, la cui veri-
dicità già alcuni degli antichi misero in discussione. Riguardo la guerra gallica i suoi
avversari lo accusavano di aver condotto una campagna inutile e costosa sia in ter-
mini economici che di vite umane solo per la propria ambizione di potere; riguardo
la guerra civile l’accusa era di averla scatenata non per difendere la legalità, come
egli sosteneva, ma i propri interessi. Le opere scritte per raccontarle avrebbero
avuto solo intenti propagandistici (la verità sarebbe stata deformata, secondo Asi-
nio Pollione, vuoi «intenzionalmente», vuoi «per dimenticanza»), per giustificare il
proprio operato.
La questione si è protratta fino ad oggi ma è ancora irrisolta.
TARDA REPUBBLICA, ETÀ AUGUSTEA
Gli studi più recenti, forti della conoscenza dei mezzi della propaganda politica,
tendono a ridimensionare il problema riconoscendo alle opere sì uno scopo apolo-
getico, e quindi una visione parziale dei fatti, ma senza sostanziali falsificazioni che
d’altronde il pubblico contemporaneo avrebbe subito individuato.
Il De bello Gallico Oggetto del De bello Gallico è la descrizione particolareggiata della guerra con-
dotta contro i Galli dal 58 al 52 a.C., guerra che si iscrive nella politica romana di
espansione del I secolo a.C.
• Eletto proconsole per cinque anni nella provincia romana (Cisalpina e Narbonese) della
Gallia meridionale (incarico che gli verrà poi protratto per altri cinque anni), Cesare, ap-
profittando inizialmente di rivalità fra le tribù del luogo, e interpretando, a torto o a ragio-
ne, alcuni movimenti migratori come una possibile minaccia per la provincia romana, co-
stringe la tribù gallica degli Elvezi a tornare nei propri territori e ricaccia al di là del Reno
la tribù germanica degli Svevi guidati da Ariovisto, dopo averli sconfitti in Alsazia; Cesa-
re ottiene così il dominio della parte centrale della Gallia (58 a.C. – I libro).
• Cesare volge la sua campagna contro i Belgi nel nord-est della Gallia e ottiene un’im-
portante vittoria sulla loro tribù dei Nervi, per celebrare la quale dal senato viene decre-
tata una festa di ringraziamento (supplicatio) di quindici giorni (57 a.C. – II libro).
• Cesare combatte nel nord della Gallia: in Normandia, dove sottomette la popolazione
dei Venelli; in Bretagna, dove annienta i Veneti; frattanto il suo luogotenente Publio Lici-
nio Crasso, figlio del triumviro, sconfigge gli Aquitani stanziati a sud- ovest della Gallia.
Sulla costa settentrionale vengono sottomesse anche le popolazioni belgiche dei Mòrini
e dei Mènapi (56 a.C. – III libro).
• Le tribù germaniche dei Tèncteri e degli Usipeti, stanziati sulla riva destra del Reno (sui
Germani Cesare si sofferma in un lungo excursus), attraversano il fiume e passano in
territorio gallico, ma sono annientate da Cesare. Viene costruito un ponte sul Reno e i
Romani passano al di là e devastano alcuni territori della popolazione germanica dei Si-
gambri. Cesare si spinge in Britannia, ma, mentre egli è lì, le navi che devono raggiun-
gerlo con la cavalleria, vengono colte da una tempesta e sono costrette a tornare indie-
tro; il senato decreta nuove feste di ringraziamento, questa volta di venti giorni (maggio-
re era la durata, maggiore l’onore per il comandante) (55 a.C. – IV libro).
• Cesare compie una seconda spedizione in Britannia (su cui Cesare fa un breve excur-
sus etno-geografico) arrivando fino al Tamigi (Tamesis) dove vince il comandante dei
Britanni Cassivellauno. Tornato indietro, deve affrontare tentativi di ribellione nella Gallia
nord-orientale che riesce a reprimere, seppure con qualche iniziale insuccesso e grandi
perdite nell’esercito romano (54 a.C. – V libro).
• I Galli della Gallia Belgica e i Germani cisrenani tentano di ribellarsi al dominio romano,
ma Cesare assale i Mènapi e muove contro i Trèviri. Compie poi un’azione dimostrativa:
attraversa per la seconda volta il Reno e insegue la popolazione germanica dei Suebi.
Giulio Cesare 205
Fermatosi alla Foresta nera (silva Hercynia) torna in Gallia dove riesce ad annientare gli
Eburoni il cui territorio confinava con quello dei Mènapi (53 a.C. – VI libro).
• I Galli, messe da parte le loro reciproche ostilità, si uniscono contro i Romani sotto la
guida di Vercingetorige, capo degli Arverni. Dopo alcuni successi i Romani, in seguito
all’azione di Vercingetorige che taglia loro ogni possibilità di vettovagliamento bruciando
campi e villaggi, nonostante le difficoltà riescono a conquistare Avarico, capitale dei Bi-
turigi; pongono sotto assedio anche Gergovia, città degli Arverni, di cui tuttavia non
riescono a impadronirsi; infine assediano Alesia dove i Galli, presi per fame, vengono
definitivamente sconfitti. Il loro capo si arrende e si consegna a Cesare. Il senato decre-
ta una terza supplicatio di venti giorni (52 a.C. – VII libro).
• Dopo la morte di Cesare Aulo Irzio, suo luogotenente, aggiunge ai libri scritti da Cesare
un ottavo libro in cui descrive la campagna militare contro i Bellovaci ed espone gli an-
tefatti della guerra civile (51-50 a.C. – VIII libro).
In tal modo viene colmato l’intervallo di tempo intercorrente fra gli avvenimenti descritti
nel De bello Gallico e quelli del De bello civili.
La pubblicazione del racconto di questi avvenimenti avvenuta nel 51, quando si L’intento propagandistico
profilava la rottura fra Cesare e Pompeo, doveva avere, per Cesare, lo scopo di far
conoscere al popolo romano i «veri» motivi che lo avevano spinto a tale e così
aspra guerra. I suoi avversari infatti (fra cui Catone l’Uticense) lo accusavano di
aver voluto quella guerra solo per arricchirsi (effettivamente ne ricavò una grande
forza economica – ma questo era d’altronde ciò che spingeva ad andare a gover-
nare terre lontane – grazie alla quale poté poi affrontare i suoi avversari) e di aver
compiuto inutili stragi. Egli con la sua opera vuole dimostrare l’infondatezza di tali
accuse e al tempo stesso mettere in luce la sua abilità militare: la guerra era ne-
cessaria perché la situazione in Gallia era pericolosa per le province romane confi-
nanti. Il ricordo dell’invasione dei Cimbri favorì in molti la convinzione che le cose
stessero effettivamente così e il timore di una nuova minaccia germanica fece rite-
nere necessario l’intervento armato. Non si può negare comunque l’intento propa-
gandistico: la reticenza sugli insuccessi, l’enfasi sulle azioni di Cesare, pur nella lu-
cida analisi delle situazioni, dimostrano grande abilità nei resoconti cesariani. La
scelta di raccontare le sue imprese in terza persona con il conseguente effetto di
«spersonalizzazione della voce narrante è di incredibile rilievo … i maggiori van-
taggi vengono conseguiti a livello di credibilità … Cesare imperator affida ad un im-
parziale Cesare-scrittore il ruolo di testimone degli avvenimenti» (Cipriani). Ricor-
diamo d’altronde che per i Romani non era ritenuto opportuno autoelogiarsi: Cice-
rone (Ad fam. V, 12, 8) afferma che chi scrive del proprio operato deve farlo vere-
cundius («con toni sfumati») e comunque corre il rischio che la fides («credibili-
tà») e la auctoritas («autorevolezza») del suo racconto sia minore che se la narra-
zione fosse fatta da un altro (per questo egli aveva chiesto a più amici-scrittori di
narrare gli anni del suo consolato).
Mentre Cesare conduceva la guerra contro i Galli, a Roma si conduceva un’aspra Il De bello civili
contesa fra optimates e populares. Egli più volte era tornato a Roma per tenere la
situazione sotto controllo; e così fu finché restò in vita l’accordo con Pompeo da
cui entrambi avevano tratto vantaggi: Cesare aveva appoggiato Pompeo preceden-
temente, nel 67, per l’attribuzione del comando della guerra contro i pirati (lex Ga-
binia) e nel 66 per il conferimento del comando della guerra contro Mitridate (lex
Manilia); Pompeo aveva, insieme con Crasso, appoggiato Cesare nel 60 per
l’elezione al consolato e nel 56 per il rinnovo per un secondo quinquennio del suo
proconsolato in Gallia.
Ma i rapporti si faranno critici soprattutto quando, dopo la morte di Crasso sconfitto
dai Parti, il senato, nel 52, sceglierà Pompeo come tutore dell’ordine (in seguito ai
206 Storiografia, biografia, antiquaria
Bellum Alexandrinum, Il seguito delle vicende (48-47 a.C.) sarà materia del Bellum Alexandrinum, opera
Bellum Africanum, contenuta nel corpus cesariano.
Bellum Hispaniense
I codici che contengono il Bellum Gallicum e il Bellum civile ci hanno tramandato
infatti anche un ottavo libro del Bellum Gallicum scritto, come si è detto, dal luogo-
tenente di Cesare, Aulo Irzio, con l’intento di completarne l’opera dando il resocon-
to degli avvenimenti del 51 a.C. (in Gallia c’era stato qualche tentativo di ribellione),
il Bellum Alexandrinum, anch’esso forse opera di Irzio, il Bellum Africum che narra
gli avvenimenti del 46, il Bellum Hispaniense riguardante quelli del 45. Di questi ul-
timi due non conosciamo l’autore.
Lingua e stile
L’analogia Formatosi alla scuola del grammatico Gnifone, analogista, Cesare ne abbracciò
l’impostazione del pensiero da cui gli deriveranno le scelte in ambito linguistico e
2. Ricordiamo che già in questo tempo il legame fra esercito e comandante era fortissimo
andandosi a costituire come elemento di potere del comandante stesso che sulle sue forze
militari poteva contare, a livello personale, incondizionatamente.
Giulio Cesare 207
stilistico. È di quei tempi (I sec. a.C.) la polemica fra atticismo (scuola di Alessan-
dria) e asianesimo (scuola di Pergamo), due indirizzi che si contrapponevano nella
concezione della lingua e che diedero luogo a due teorie, quella dell’«analogia» e
quella dell’«anomalia». La prima, partendo dalla convinzione che la lingua è fonda-
ta sulla ratio, propugnava rigide norme grammaticali ed uno stile sobrio ed asciutto;
la seconda riteneva che la lingua fosse determinata dall’usus e accoglieva ogni li-
bertà espressiva, per cui ne risultava uno stile ridondante e ampolloso.
A determinare lo stile contribuiscono le scelte lessicali, morfologiche, sintattiche.
Cesare, obbedendo al principio da lui stesso espresso: tamquam scopulum, sic fu-
gias inauditum atque insolens verbum («evita, così come uno scoglio, le parole mai
sentite e inusuali»), non si serve di parole disusate ed evita arcaismi, barbarismi e
neologismi; le poche parole greche che si incontrano nella sua opera o sono già da
tempo radicate nella lingua latina o sono termini tecnici riguardanti soprattutto la
guerra.
Così nelle scelte di carattere morfologico usa le forme generalmente accettate;
d’altronde «le tendenze della scuola pergamena a favore dell’“anomalia” non anda-
vano d’accordo con le esigenze della lingua letteraria in via di sviluppo, cui era ne-
cessaria la stabilizzazione del sistema morfologico alquanto indebolito» (Tronskij).
Altrettanto normalizzata è la sintassi. Ciò che la caratterizza particolarmente è
l’uso frequente di ablativi assoluti con participi perfetti, caratteristica forse più che
di Cesare, del genere da lui scelto dei commentarii, che per loro stessa natura ten-
dono alla brevità.
Anche l’ampio uso del discorso indiretto in cui spesso ci imbattiamo nella sua ope-
ra «forse trae la stessa origine dal linguaggio di governo e dallo stile di cancelleria»
(Leeman).
Ma al di là dell’origine o dei motivi delle scelte, Cesare, grazie ad esse, raggiunge La semplicità
uno stile che al lettore risulta semplice eppure, senza fronzoli e ricercatezze erudi-
te, limpido ed elegante.
Questa semplicità, che, come è stato dimostrato (Perrotta), è in realtà frutto di una
profonda elaborazione, non gli ha impedito di permeare spesso di pathos – la
drammatizzazione gli derivava dalla storiografia ellenistica – gli avvenimenti narrati.
È questo che ha fatto dire a La Penna: «leggo sempre con piacere ed ammirazione
il suo racconto piano, tutto cose, le sue descrizioni precise, ma non sento lì la gran-
dezza di Cesare scrittore: essa è soprattutto là dove quello stile, senza nulla perde-
re della sua chiarezza e sobrietà, sa rendere la forza ed anche la complicatezza
d’una situazione drammatica. … Cesare drammatizza con vigore, ma senza gon-
fiezza; lascia da parte la drammatizzazione esteriore, scenografica dei suoi biogra-
fi … non esagera nei colori, rifugge dall’orrido … e qui si rivela in tutto il suo valore
la sua elaborata semplicità».
La fortuna
Già fra i contemporanei la figura di Cesare ha goduto di un grande prestigio che si Gli autori antichi
è conservato per lunghi secoli. Non era d’altronde personaggio che si potesse
ignorare, se ne fosse ammiratori o avversari. Sul duplice aspetto della sua perso-
nalità di scrittore e di uomo politico gli atteggiamenti e i giudizi, come sempre acca-
de soprattutto per il secondo aspetto, sono stati discordi fin dall’antichità. Giudicato
oratore brillante (Cic., Epist. a Cornelio Nepote: «Chi gli vorresti anteporre, anche
cercando fra quelli che non si dedicarono ad altro? Chi più arguto, più ricco di con-
208 Storiografia, biografia, antiquaria
cetti, più ornato, più elegante?», Quint., Inst. or., 114 C.: «Cesare, se si fosse dato
soltanto all’attività oratoria, sarebbe stato l’unico da contrapporre a Cicerone…»),
gli veniva per lo più riconosciuta capacità di scrittore se pur disadorno, asciutto ed
elegante (Cic., Brutus 262). Ma c’era anche chi discordava dall’atteggiamento di
ammirazione: Asinio Pollione giudicò i suoi commentarii poco curati e poco rispet-
tosi della verità e scriverà, una ventina di anni dopo la guerra civile, in cui aveva
militato dalla parte di Cesare, delle Historiae che volevano contrastare la «verità»
di Cesare e demolire i commentarii come fonte; Catullo gli dimostrò avversione at-
taccandolo più volte nei suoi carmi (11, 29, 54, 57, 93). Tuttavia le sue opere stori-
che furono fonte per Livio e Tacito, che, nella Germania (28, 1) lo definisce sum-
mus auctorum Divus Iulius («storico di somma autorità»).
Ne riconobbe la statura gigantesca Virgilio, che nelle Georgiche (I 463-488) affidò
l’annuncio della sua uccisione a prodigi naturali, come fosse un semidio. Una diver-
sa immagine di Cesare emergerà nel secolo seguente nell’opera di Lucano: avver-
sario di ogni forma di assolutismo, in Cesare ne vide il prototipo e il simbolo così
da rappresentarlo eroe superbo ed empio.
Così Cesare come personaggio conserverà questo duplice aspetto: eroe positivo
TARDA REPUBBLICA, ETÀ AUGUSTEA
Sallustio
La vita
I dati del Chronicon Le poche notizie sulla vita di Gaio Sallustio Crispo si traggono dal Chronicon (pro-
spetto sinottico di avvenimenti ordinati in base alla data delle olimpiadi) di Girolamo
(IV-V secolo d.C.), che le deriva probabilmente da una biografia scritta da Svetonio
(II secolo d.C.) per una serie De historicis (accanto a quelle De poetis, De gram-
maticis, ecc.).
L’origine municipale All’altezza della 173a olimpiade (celebrata nell’anno 86 a.C.) leggiamo: «Nasce ad
e agiata Amiterno, in Sabina, lo storico Sallustio Crispo».
All’altezza della 186a olimpiade (celebrata nel 36 a.C.) leggiamo: «Sallustio chiude
la sua vita quattro anni prima della battaglia di Azio», che si combatté nel 31 a.C.
Dunque Sallustio morì nel 34 o nel 35 (secondo che s’includa o no nei «quattro an-
ni» anche l’anno 31).
L’origine municipale (Amiternum era in Sabina e il suo territorio coincide con
l’odierna San Vittorino, in provincia dell’Aquila) accomuna Sallustio ai più importan-
TARDA REPUBBLICA, ETÀ AUGUSTEA
Le opere
Sallustio ha composto due monografie: Bellum Catilinae1 e Bellum Iugurthinum, Le due monografie
che pubblicò tra il 43 e il 40.
Dopo il 39 iniziò un’opera di più vasto respiro, le Historiae, che riguardano il periodo Le Historiae
dalla morte di Silla alla fine della guerra di Pompeo contro i pirati (dal 79 al 66) e della
quale restano, oltre a numerosi frammenti, i discorsi e le lettere che vi erano inseriti.
Sono probabilmente da considerarsi spurie due Epistulae ad Caesarem senem de Le opere spurie
re publica (lettere aperte che costituiscono, sotto la forma di consigli a Cesare, una
specie di manifesto politico del partito cesariano), e un’Invectiva in Ciceronem.
1. O anche Bellum Catilinarium o Liber Catilinarius, tutti titoli desunti dai codici. Sallu-
stio forse preferiva come titolo: De Catilinae coniuratione (B. C. 4, 3).
212 Storiografia, biografia, antiquaria
Le Historiae La decadenza del regime dei nobili s’era in seguito manifestata nella guerra contro
Sertorio, in quella contro i gladiatori e gli schiavi, in quella contro i pirati. E sono
questi per l’appunto gli avvenimenti narrati nella terza opera, le Historiae, che se-
gna un ridimensionamento dell’operato di Pompeo: «al quale gli adulatori avevano
fatto credere che avrebbe uguagliato Alessandro Magno, e lui ritenne che ciò fosse
la verità».
La progressiva Il legame con il presente è particolarmente forte nel Bellum Catilinae, di cui la criti-
«fuga dal presente» ca ha messo in evidenza il carattere di cronaca passionale, narrata con vivacità e
irruenza ancora «comunali».
Più distaccato dal presente e dalla politica corrente a Roma è il Bellum Iugurthi-
num. In tempi in cui la frode e il furto hanno preso il posto che un tempo occupava-
no le bonae artes, la professione dello storico appare sempre più un’evasione, un
procedere libero e alto nel disdegno per i costumi della città grande e corrotta.
Le Historiae, saldando narrativamente le due isole monografiche precedenti, se-
gnano un ulteriore passo in una progressiva «fuga dal presente» verso i lidi più se-
reni e appartati della storia.
TARDA REPUBBLICA, ETÀ AUGUSTEA
Il Bellum Catilinae
La congiura come sintomo La «congiura» di Catilina, repressa nel 63 da Cicerone console, mirava a sollevare
contro lo strapotere senatorio il proletariato urbano (e in parte municipale), alcuni
nobili indebitati, masse di schiavi. In questo episodio, tutto sommato marginale, ma
che destò nei ceti abbienti la paura di un sovvertimento sociale, Sallustio vede un
sintomo della malattia dello stato.
La diagnosi La diagnosi è nella cosiddetta «archeologia», un excursus che, sull’esempio dello
storico greco Tucidide, interrompe la narrazione della congiura: dopo la distruzione
di Cartagine, cessato il metus hostium, vennero meno i valori di concordia, sag-
gezza, giustizia, semplicità, onestà che avevano accompagnato e favorito la cresci-
ta della città. Così si ebbe in massimo onore il danaro e il lusso, la povertà fu
disonore, l’integrità beffeggiata. Lussuria, avarizia, arroganza e violenza contami-
narono la vita dei giovani. Al tempo di Silla – alla cui scuola si era formato Catilina,
macchiandosi di atroci delitti nelle proscrizioni – lo sfacelo morale raggiunse il cul-
mine. Allora l’avaritia, con il suo seguito di luxuria e superbia, regnò senza limiti:
non fu più la semplice soddisfazione, ma l’esasperazione e il raffinamento del vizio.
Su questo terreno germoglia e prende vigore la mala pianta catilinaria.
Il moralismo La visione unicamente moralistica marca la distanza di Sallustio dal modello tucidi-
deo. L’«archeologia», che in Tucidide era un’analisi critica del passato per spiegare
il presente, in Sallustio risponde al bisogno di cercare in un passato idealizzato il
modello etico-politico per il presente, e di affermare nella storia valori eterni.
I valori delle origini Il valore cardine che emerge nella descrizione delle remote origini è la concordia,
da cui dipende la sorprendente capacità di Roma antica di fondere le diversità: Ita
brevi multitudo dispersa atque vaga concordia civitas facta erat (B. C. 6, 1).
Indispensabili poi alla salute del regime repubblicano sono, oltre alla concordia
salda, la mancanza di avidità (minuma avaritia 9, 1) e la fides nei rapporti con gli
amici.
Una virtus agonistica Dopo la monarchia, che comprime l’esplicazione libera e piena della virtus e reca
connaturato in sé il pericolo della tirannia, il regime repubblicano pare il più adatto
a contenere la licentia popolare e soprattutto a valorizzare le energie individuali po-
ste al servizio della comunità. La virtus incorrotta dei padri assume, nel proemio,
Sallustio 213
connotazioni agonistiche, è energia irrefrenabile: virtus omnia domuerat (7, 5).
Più che l’aequitas, l’uguaglianza dei cittadini, sta cuore al «liberale» e «uomo nuo- Il «liberismo» dell’homo
vo» Sallustio la possibilità di aprire libero e vasto campo alle risorse dell’individuo: novus…
«La libertas, come facoltà di tutti gli uomini dotati di far valere il proprio talento, de-
v’essere stata un valore ideologico particolarmente caro agli homines novi romani
e italici contro le cricche dei casati gentilizi» (A. La Penna).
Per spiegare l’ideologia di Sallustio, si è dato risalto da un lato alla provenienza
dalla Sabina, famosa per aver conservato purezza e rigidità arcaiche, dall’altro alla
condizione certamente agiata della famiglia: «Sallustio riflette idee e interessi dei
ceti possidenti della penisola, che non coincidono con quelli della nobilitas romana,
ma ancor meno con quelli degli strati subalterni» (A. La Penna).
In realtà la militanza popolare di Sallustio al seguito di Cesare rispecchia gli inte- … e delle élites sociali
ressi delle élites sociali italiche, alle quali, pur detentrici di un considerevole potere italiche
economico, una nobiltà ottusamente legata ai suoi privilegi negava l’accesso alle
leve della decisione politica (le magistrature più importanti, il senato stesso).
Quanto all’ideologia arcaica dei boni mores è da credere, come ritiene Luca Cana- I boni mores: un locus
li, che a questa fede, che certamente avrà animato Sallustio in gioventù, si fossero communis?
poi sovrapposti, lacerandola e cancellandone i contorni, troppi eventi tragici: lo Particolare
di un affre-
scontro tra Mario e Silla, la dittatura sillana, la guerra sociale contro gli italici, la sol- sco di Ce-
levazione di Sertorio, la ribellione di Spartaco, la guerra con i pirati, il primo triumvi- sare Mac-
cari (Siena
rato, la lotta fra Cesare e Pompeo, la dittatura di Cesare, le avvisaglie del conflitto 1840 – Ro-
fra Ottaviano e Antonio. Avvenimenti, questi, che segnando l’agonia della «libera» ma 1919),
che raffigu-
polis romana preludevano al definitivo consolidamento autoritario sotto le dittature ra Catilina,
di Cesare e di Augusto. In quest’epoca tempestosa e feroce, il sembiante della res isolato nel
Senato,
publica maiorum doveva essere un’immagine stinta e l’ideologia della virtus e dei mentre Cicerone sta pronuncian-
boni mores trovava ormai solo in Catone il giovane il rigido e un po’ patetico paladi- do contro di lui l’infiammata
orazione (Catilinaria).
no: «[I boni mores] sembravano piuttosto un baluginante miraggio e, a un livello più
basso, un locus communis, di cui nel Bellum Catilinae non è documentata la validi-
tà, oltre la troppo rapida sintesi del proemio o i discorsi dei patres e le esortazioni
dei condottieri: tutto ciò che resta è corruzione, avidità, violenza» (L. Canali).
Secondo Canali il «progressismo» moderato di Sallustio altro non sarebbe allora Il «progressismo»
che l’illusione (o la malafede) di quanti, in tempi di forte tensione sociale, auspica- sallustiano
no un rinnovamento e una ridistribuzione dei beni e del potere, che scongiurino la
rivoluzione, quando le forze più retrive della società non vogliano rinunciare ai loro
privilegi. E la collocazione per così dire «di centro», equidistante fra optimates e
populares, non riflette la preoccupazione per il bene di uno stato super partes, ma
la paura che le forze sociali emarginate possano con le loro rivendicazioni econo-
miche mettere in forse la solidità della posizione sociale dei ceti benestanti.
Ma è difficile pensare che, intorno agli anni 40, quando scrisse il Bellum Catilinae, Un uomo ormai privo
Sallustio potesse ancora coltivare l’illusione di un pacifico riformismo. «Il suo ritiro dal- di ideali?
la vita politica deve essere inteso come il frutto della paura … più che come il disgusto
dell’uomo probo e valoroso che non era mai stato … Al più si può concedere la pre-
senza di entrambe le motivazioni, togliendo però alla seconda tutti gli orpelli di un mo-
ralismo in gran parte di stampo retorico … In questo senso si può dire che Sallustio
era un uomo privo di ideali, sgomento egli stesso di tale vuoto di valori» (L. Canali).
Capitoli 1-4. Nel proemio l’autore spiega d’essersi dedicato alla storia per il disgusto della Riassunto dell’opera
corruzione dei suoi tempi e per il desiderio, proprio della natura umana, di lasciare memoria
di sé con opere d’ingegno.
214 Storiografia, biografia, antiquaria
desiderio di novità, i tribuni per volontà di gloria e di potenza, i disonesti, i dissipatori, i cri-
minali confluiti a Roma da ogni parte. Contro costoro era schierata la nobiltà «in apparenza
in difesa del senato, in realtà per il proprio potere».
Capitoli 40-52. Riprende la narrazione. Gli ambasciatori Allobrogi, incautamente coinvolti
dai cospiratori, forniscono le prove tangibili del complotto a Cicerone, il quale fa arrestare i
congiurati presenti in città e convoca il senato per decidere la pena. Si avvicendano due
oratori, Cesare e Catone l’Uticense. Il primo sconsiglia la pena di morte proponendo la con-
fisca dei beni e la detenzione. Il secondo confuta gli argomenti di Cesare e chiede che i
colpevoli siano giustiziati.
Capitoli 53-54. «Ritratti» di Cesare e di Catone a confronto.
Capitoli 55-60. I congiurati sono condannati e giustiziati. Catilina con l’esercito male arma-
to di Manlio tenta di aprirsi la strada verso la Gallia, ma viene chiuso dalle truppe regolari di
Antonio e costretto a battersi sui colli di Pistoia.
Capitolo 61. Il dramma si chiude con l’immagine desolata del campo di battaglia e del ca-
davere di Catilina che spira ancora indomabile fierezza dal volto, in mezzo ai corpi massa-
crati dei suoi.
Il Bellum Iugurthinum
Un episodio esemplare Nel Bellum Iugurthinum Sallustio tratta un episodio più lontano nel tempo – la guer-
ra contro Giugurta, svoltasi in Numidia fra il 111 e il 105 a.C. – scelto per la rilevan-
za («perché fu grande e atroce e con alterna vittoria») e l’esemplarità in rapporto al
conflitto tra nobiles e populares («perché allora per la prima volta si affrontò
l’arroganza dei nobili»). Così uno dei bersagli polemici del Bellum Catilinae – lo
strapotere, la iattanza degli aristocratici e la cattiva gestione della res publica quale
origine dei guasti che avevano fecondato e nutrito la pianta della congiura – si pre-
cisa ulteriormente, nella narrazione dei fatti che seguirono la dura repressione della
politica popolare dei Gracchi. In quella guerra, che si era colorata delle tinte dello
scandalo (a causa del danaro profuso da Giugurta per condizionare a proprio van-
Moneta di Giugurta. Parigi, Bi- taggio la politica del senato), Sallustio scorge da un lato i segni più evidenti della
bliothèque Nationale.
corruzione della nobilitas, dall’altro l’occasione che si offrì ai democratici di alzare la
testa e contrastare la superbia di un’aristocrazia inadeguata a reggere con dignità
lo stato, eppure ostinatamente decisa a perpetuare l’oppressione sui ceti subalter-
Sallustio 215
ni. La tendenziosità
La tendenziosità è innegabile: l’infelice conduzione della guerra è da imputare uni-
camente alla venalità e all’inettitudine dei nobili, mentre l’esito sarà capovolto dalle
virtù di Mario, l’homo novus italico, rappresentante delle forze valide che costitui-
scono l’alternativa alla «cricca» senatoria.
In realtà gli insuccessi di questa guerra dipendevano, prima ancora che dalla corru-
zione, dalla riluttanza del senato a impegnarsi in un conflitto difficile (aggravato dai
vantaggi che la guerriglia concedeva alle genti indigene), concomitante con la mi-
naccia da nord di Cimbri e Teutoni, e soprattutto non rispondente ai propri interessi
di casta. Infatti non la nobilitas traeva vantaggi dalla politica d’espansione in Africa,
bensì gli equites e i ceti imprenditoriali e mercantili italici, in cerca di nuovi mercati Moneta coniata dal figlio di L.C.
e aree per uno sfruttamento coloniale. Tuttavia la faziosità dell’interpretazione mo- Silla, Fausto Silla, triumviro
monetario nel 64 a.C. In rilievo
ralistica – del resto condivisa dagli altri storici antichi (Livio, Appiano, Floro, Eutro- è raffigurato Silla vestito da ma-
pio) che pure riferirono in termini scandalistici l’affaire Giugurta – non impedisce a gistrato romano, assiso su un
piedistallo. Davanti a lui il re
Sallustio di riconoscere i meriti degli avversari: l’integrità morale e la perizia dell’ari- Bocco in ginocchio offre un rano
stocratico Metello, l’astuzia e l’abilità di Silla. E di Mario non sono celati i difetti: d’olivo, alle sue spalle è Giugur-
ta prigioniero, con le mani lega-
l’eccesso di ambizione e alcuni tratti meschini dell’indole. te dietro alla schiena.
In un excursus centrale della monografia e nel discorso del tribuno Memmio, Sallu-
stio stigmatizza il «regime dei partiti» condannando con giudizio «equidistante» sia Contro il «regime dei
i demagoghi populares che eccitano l’emotività delle masse per appagare la pro- partiti»
pria ambizione, sia l’egoismo dei nobili pervicacemente attaccati ai loro privilegi. In
particolare le parole di Memmio – che condanna la divisione in factiones e la «con-
flittualità» diffusa ed è vagamente consenziente con la politica dei Gracchi, della
quale approva la sostanza ideale ma non l’estremismo – riassumono l’ideologia
«centrista» dell’autore e si traducono in un invito alla moderazione. Un’opera matura
L’impressione complessiva è che in quest’opera, forse meno allettante della prece-
dente, ma più solida e organica, lo storico e il politico siano cresciuti di statura.
C’è qui una più sicura percezione del valore esemplare dei fatti, una meglio appro-
fondita ricerca degli sfondi sociali. I protagonisti del Bellum
Come nel Bellum Catilinae, il racconto si concentra intorno alle figure principali,
che però sono meno spettacolarmente sbalzate, ma più sottilmente analizzate e
chiaramente assunte come portatrici di un significato politico, di una mentalità che
è specchio di una condizione sociale o etnica. Giugurta appare abile e insensibile
alle più frivole seduzioni della vita, in grado di corrompere o tenere in scacco i fra-
gili e venali comandanti romani, ma soprattutto carico di quell’energia inquieta, in-
stancabile, che per Sallustio è una dimensione della virtus. Silla si presenta nobile,
colto, smanioso di onori ma controllato nei piaceri, astuto, dissimulatore. Mario, il
protagonista glorioso dell’intera guerra, è raffigurato ambizioso, ricolmo di pregi
«tranne l’antichità della famiglia». In lui s’incarna l’ideologia dell’homo novus. La coerenza artistica
Alla maturazione dello storico corrisponde una maggiore coerenza stilistica. La pa-
tetica varietà di toni del Catilina si smorza in quest’opera più compatta e monocro-
ma. L’ interesse artistico è ravvivato dal colorito esotico e a tratti pittoresco, che
conferisce un’impronta dominante agli intermezzi favolosi e romanzeschi, agli
eventi militari narrati con gusto epico, alle descrizioni del teatro desertico e selvag-
gio di queste avventure: il paesaggio africano, ben noto a Sallustio che deve esser-
ne rimasto affascinato dai tempi del suo governatorato in Numidia. «Il Giugurta è
un bel romanzo d’avventura, pieno di macchinazioni tenebrose, di imboscate, di
assassinii premeditati con freddezza, di arditi colpi di mano» (Bayet).
216 Storiografia, biografia, antiquaria
Riassunto dell’opera Capitoli 1-5. L’argomento è la guerra contro Giugurta, re di Numidia (l’odierna Algeria),
svoltasi tra il 111 e il 105 a.C. Dopo il proemio e la giustificazione della scelta del tema so-
no riassunte le vicende del regno numidico da Massinissa a Giugurta, le lotte tra questo e
l’imbelle cugino Aderbale (legittimo erede al trono) per il possesso del regno, l’intervento
dei Romani come mediatori, che verrebbero corrotti dall’oro di Giugurta, il quale infine inva-
de il territorio assegnato ad Aderbale e lo uccide.
Capitoli 6-26. In particolare, dopo il clamoroso massacro di una comunità di mercanti italici
ospiti del regno (già legato a Roma da una tradizione di alleanza risalente alla guerra anni-
balica), l’intervento militare contro l’usurpatore è giocoforza per il senato.
Capitoli 27-62. La guerra, condotta con scarsa convinzione, si trascina stancamente sotto
Moneta di Micipsa, Parigi. Bi- il comando di generali fragili e venali, che l’abile Giugurta tiene in scacco o corrompe. Men-
bliothèque Nationale. Succeduto tre a Roma si apre un’inchiesta sull’andamento delle operazioni – e qui s’inserisce
sul trono al padre Massinissa l’excursus in cui è condannato l’operato dei partiti – entra in scena l’aristocratico Metello,
insieme con in fratelli Mastana-
bale e Gulussa, alla loro morte valoroso e integerrimo, ai cui ordini il corpo di spedizione si riorganizza e infligge a Giugur-
rimase unico sovrano e fu fedele ta alcune dure sconfitte, ma non risolutive.
alleato di Roma. Adottò il nipote Capitoli 63-114. Nel corso di queste operazioni si distingue il democratico Mario, un «po-
Giugurta, nominandolo erede al
regno insieme con i propri figli polare» che la plebe elegge console affidandogli la missione di concludere finalmente il
Aderbale e Iempsale. conflitto. Mario, ottenuto il comando della campagna numidica, subentra a Metello e scon-
figge più volte, privandolo di forze e mezzi, Giugurta, a tal punto che suo suocero fino ad
TARDA REPUBBLICA, ETÀ AUGUSTEA
allora alleato, Bocco re di Mauritania, lo fa cadere con l’inganno nelle mani dei Romani.
Giugurta è portato a Roma e trascinato in catene davanti al carro trionfale di Mario, che ce-
lebra il trionfo e assume il secondo consolato.
Lo stile
Brevità e difficoltà Di Tucidide (vedi p. 115 ss.) Sallustio vuole ricreare la brevità e la densità, la diffi-
di Tucidide coltà e l’asprezza.
Abbondano le ellissi dei verba dicendi (ma anche di quelli d’opinione). Concorrono
a una densa brevità costruzioni come in e ablativo o accusativo: in maxuma fortuna
minuma licentia est. La variatio (imbecilla atque aevi brevis, «debole e di breve vi-
ta») rifiuta l’armonia troppo prevedibile derivante dalla concinnitas, frustra l’attesa
d’ogni parallelismo stilistico. Analoga è la funzione degli zeugmi: pacem an bellum
gerens (solo bellum gerere è nell’uso).
Ma, oltre a scuotere di continuo l’attenzione del lettore, Sallustio lo chiama a colla-
borare alla costruzione del senso stimolando la sua capacità interpretativa (e qui la
sua arte è vicina a quella neoterica). Ciò avviene ad esempio nelle frequenti co-
struzioni a senso, che rispondono anche al gusto della difficoltà: Coniuravere pauci
contra rem publicam, de qua quam verissume potero dicam (B. C. 18, 2), «Pochi
uomini avevano congiurato contro lo stato: di tale congiura dirò quanto più verace-
mente possibile» (de qua coniuratione si ricava da coniuravere).
Alla difficoltà e all’asprezza asimmetrica in funzione di un effetto di nobile gravitas,
concorrono, come in Tucidide, ma in forma più accentuata, l’asindeto, la frase no-
minale, l’infinito descrittivo e soprattutto l’arcaismo.
Differenza da Tucidide Ma in Sallustio i procedimenti tucididei assumono un senso nuovo, dato principal-
mente dal pathos inquieto, mentre di Tucidide mancano quella capacità
d’elaborazione di concetti generali e quella robustezza di logica che presuppongono
una cultura filosofica e scientifica: a Roma mancava la sofistica e la medicina greca.
L’influenza di Catone Al culto per Tucidide si unisce nel sabino Sallustio la venerazione per il grande con-
terraneo Catone (vedi p. 132 s.). Da questo, più ancora che da Tucidide, viene la
spinta all’arcaismo carico (il «catonismo» lessicale, che offrì l’esca alle critiche dei
contemporanei).
Sallustio 217
Catoniano è il gusto per l’accumulo dei sinonimi (fortibus strenuisque, ingenio malo
pravoque), per le antitesi: pessuma ac divorsa inter se mala, luxuria atque avaritia
(B. C. 5, 8), «due mali funesti e fra loro discordi: il lusso e l’avidità».
Ma quasi tutti i procedimenti arcaizzanti di Sallustio sono riscontrabili in Catone (ol- I procedimenti arcaizzanti
tre che nella precedente storiografia latina) e riguardano ogni livello d’espressione:
– ortografico e morfologico: optumus per optimus, maxume per maxime; novos (per
novus), arduom (per arduum, accus.), volt (per vult); fuere, invasere (per fuerunt,
invaserunt); quoi (per cui), quom (per cum); forma dissimilata nei composti, come
adpetere (per appetere), conruptus (per corruptus);
– lessicale: scelta di termini desueti, come i nomi in -mentum e in -tudo (cogno-
mentum, claritudo in luogo di cognomen, claritas), gli aggettivi in -osus e in -bun-
dus (discordiosus, furibundus); uso di parole di registro alto (mortales per homi-
nes), riecheggiamenti della poesia arcaica (cupidine caecus, metu perculsus, for-
midine attonitus) soprattutto in funzione del pathos; neologismi: loquentia (per elo-
quentia)2;
– sintattico: asindeto, paratassi, cambiamento di soggetto senza stretta necessità,
frequente ricorso al passivo, preferenza dell’indicativo rispetto al congiuntivo, predi-
lezione per l’infinito descrittivo.
L’obiettivo dell’impiego di questi procedimenti è un’espressione che ispiri nobiltà e di-
gnità, ma anche aspra rudezza: «Dignitas senatoria sì, ma dignitas che vuol far pen-
sare ai Cincinnati e ai Catoni e far disprezzare le eleganze della bella letteratura» (A.
La Penna).
Il risultato è quello di uno stile scabro, scattante, sintatticamente disarticolato, cari- Il linguaggio del pathos
co di pathos3.
C’è in Sallustio un vero e proprio «linguaggio del pathos» (A. La Penna), un ricco
lessico delle passioni definite nelle varie sfumature e gradazioni: la brama insazia-
bile (avaritia, avidus, affectare, exoptare); l’inquietudine e l’angoscia (anxius, in-
quies, trepidus, excitus); il divampare fulmineo (incendio, ardeo, l’espressione allit-
terante animun accendere); il rimorso (conscientia, conscius, come in B. C. 5, 7:
agitabatur conscientia scelerum «era agitato dal rimorso dei delitti»).
Un campo lessicale affine è quello delle parole che indicano l’attività energica, la
forza sana non ancora corrotta dal vizio (industrius, impiger, alacer, sollers, enitor);
la concitazione e il movimento rapido (festinare, maturare, effundere, erumpere,
ruere) che sconfina nella violenza distruttrice (vis è parola assai cara a Sallustio).
Ma il senso del movimento incessante – quella immortalis velocitas che Quintiliano L’immortalis velocitas
riconosceva a Sallustio – è dato, oltre che dal lessico, dai procedimenti sintattici
sopra ricordati, in particolare dall’uso dell’infinito storico. E ancora più dalla para-
tassi, che obbedisce anche a «un’intenzione di oggettività nuda, bruta, gettata din-
nanzi al lettore prima che il pensiero ne interpreti le relazioni» (A. La Penna).
Ma questa oggettività (cui concorre non poco la preferenza dell’indicativo nelle Lessico valutativo
subordinate) non riesce a controbilanciare i molti elementi di soggettività, evidenti e moralismo
soprattutto nel lessico per lo più valutativo (superbus, innocens, impudicus, immo-
2. Novator verborum è definito Sallustio dal grammatico Valerio Probo, citato da Gellio (I
15, 18).
3. Una definizione efficace dello stile di Sallustio si ha combinando i giudizi che ne diede-
ro Quintiliano e Seneca. Il primo parla di abruptum sermonis genus (Inst. Or. IV 2, 45), il
secondo di amputatae sententiae et verba ante exspectatum cadentia et obscura brevitas
(Epist. 114, 17), «pensieri troncati, parole che arrivano prima di quando sono aspettate,
concisione oscura».
218 Storiografia, biografia, antiquaria
La fortuna
I contemporanei I contemporanei lo giudicarono poco favorevolmente. Leneo lo definì «un ignoran-
tissimo ladro di parole di Catone» e l’eccesso di arcaismo gli fu rimproverato anche
dallo storico Asinio Pollione. Ma, per queste stesse ragioni, fu in gran voga quando,
nell’età antoniniana, il gusto arcaizzante riprese vigore.
Grande fu l’influenza di Sallustio sulla storiografia posteriore, che si colorò dei trat-
ti dominanti della psicologia e del pessimismo morale. Livio ne subì la lezione com-
binandola con il proprio fondamentale ciceronianesimo. Tacito lo reputò il maggior
storico romano (rerum Romanarum florentissimus auctor) e ne imitò i procedimenti
di stile. Fondamentale per la fortuna nei secoli fu il giudizio di Quintiliano, il quale
ne lodò la brevità (immortalem illam Sallustii velocitatem) e, considerandolo pari a
Tucidide e superiore a Livio, lo rese testo scolastico a tutti gli effetti: diffuso, com-
TARDA REPUBBLICA, ETÀ AUGUSTEA
B. C. 3, 1 Pulchrum est bene facere rei publi- «Bello è il giovar bene oprando alla
cae, etiam bene dicere haud absur- patria; bello altresì il ben dire: in
dum est; vel pace vel bello clarum pace come in guerra, fama si acqui-
fieri licet; et qui fecere, et qui facta sta; e lode ottenne chi oprava e chi
aliorum scripsere, multi laudantur. gli altrui fatti scriveva».
B. C. 61, 4 … ferociam … animi quam habue- «… tuttavia nell’esangue volto rite-
rat vivus in voltu retinens. nea la prisca ferocia».
Le Res gestae di Augusto 219
Stile e genere Lo stile atticista (vedi p. 207) è asciutto, conciso e lapidario, il periodare semplice
ma efficace. È evitato, per usare le parole di Augusto stesso, il «fetore delle parole
disusate». Quanto al genere cui le Res gestae apparterrebbero, vale per quest’o-
pera ciò che è vero per tutta la letteratura augustea, nella quale i confini tra i gene-
ri diventano quanto mai incerti. Canali ammette la parziale validità di tutte le inter-
pretazioni proposte: dall’elogio funebre al resoconto di gesta (Index secondo la de-
finizione di Svetonio), dal testamento politico all’autobiografia trionfale confrontabi-
le con le iscrizioni rupestri dei sovrani orientali (premessa della loro apoteosi). Tut-
tavia i modelli privilegiati dovettero essere gli antichi elogia dei grandi romani (vedi
pp. 7 ss.) e i commentari di Cesare.
L’auctoritas, fulcro del potere monarchico. Nel passo che proponiamo è messo a fuoco con grande lucidità il signifi-
cato rivoluzionario della propria assunzione del titolo di Augustus (nel 27 a.C.). Il termine – linguisticamente connesso
con augere («accrescere»), auctor, augur (il sacerdote che traeva gli auspici) – rinvia alla sfera sacrale e significa «ve-
nerabile», «santo». Alla radice di Augustus si lega anche auctoritas, che indica il fondamento e la leggittimità della nuo-
va monarchia, l’origine di tutte le prerogative del principe. L’auctoritas indica un potere di fatto, basato sul prestigio e sul
carisma personali, quindi non riconducibile a quello derivante dalla carica ricoperta (potestas). L’investitura sancisce la
TARDA REPUBBLICA, ETÀ AUGUSTEA
superiorità di Ottaviano (auctoritate omnibus praestiti), pur senza avergli conferito alcun potere istituzione in più rispetto
alle magistrature ordinarie.
Nel mio sesto e settimo consolato, dopo che ebbi estinto le guerre civili, assunto per universale consenso
(per consensum universorum) il controllo di tutti gli affari dello stato, trasmisi il governo della repubblica
dal mio potere (potestate) alla libera volontà del senato e del popolo romano. Per questa mia benemerenza,
con decreto del senato ebbi l’appellativo di Augusto, la porta della mia casa fu pubblicamente ornata di al-
loro, e sull’entrata fu affissa una corona civica; nella curia Giulia fu posto uno scudo d’oro con una iscri-
zione attestante che esso mi veniva offerto dal senato e dal popolo romano in riconoscimento del mio valo-
re, della mia clemenza, della mia giustizia e pietà. Da allora in poi fui superiore a tutti in autorità (auctori-
tate), sebbene non avessi maggior potere (potestatis) di tutti gli altri che furono miei colleghi in ciascuna
magistratura.
(34, trad. di L. Canali)
Livio
La vita
Scarse le notizie sulla vita di Tito Livio, che attingiamo soprattutto dal Chronicon di
Girolamo. Nacque nel 59 a.C. da famiglia, a quel che si presume dalla possibilità di
dedicare tutta la sua vita all’attività letteraria, di condizione agiata, nella Gallia Ci-
salpina, a Padova, cittadina in cui i costumi, a confronto di quelli di Roma, dove di-
lagavano dissolutezza e corruzione, si conservavano puri e severi. In questo am-
biente conservatore egli visse gran parte della sua vita e si formarono i suoi ideali
etici e politici. Lo sappiamo a Roma per un certo tempo dove fu a contatto con i
personaggi più autorevoli; strinse amicizia anche con lo stesso Augusto, del quale,
senza ombra di adulazione, ebbe a dire che aveva restituito la pace all’impero e
sedato le discordie interne (cfr. Liv. I 19, 3; modo sit perpetuus huius, qua vivimus
pacis amor et civilis cura concordiae «purché sia eterno l’amore per questa pace
nella quale viviamo e la cura della concordia fra i cittadini» IX 19, 17). Da Tacito
(Ann. IV 34) sappiamo che lodò a tal punto Gneo Pompeo che Augusto scherzosa-
mente lo chiamava Pompeianus, mentre verso la politica di Cesare, di cui Ottavia-
no amava presentarsi come continuatore, espresse un giudizio negativo afferman-
do che era dubbio se fosse stato più utile o dannoso alla patria (in incerto esse
utrum illum nasci magis rei publicae profuerit, an non nasci).
Durante la sua giovinezza si dedicò agli studi di filosofia e di retorica e compose al-
cuni dialoghi di argomento storico-filosofico, affini ai logistorici di Varrone. Cominciò
a scrivere la sua monumentale opera storica tra il 27 e il 25 a.C., ma non poté con-
durla a termine perché lo colse la morte a Padova nel 17 d.C.
L’opera
L’opera di Livio Ab urbe condita libri abbracciava oltre sette secoli di storia, dalle
origini di Roma, 754 a.C., fino alla morte di Druso, 9 a.C. Essa era divisa in 142 li-
bri, che lo scrittore pubblicò volta per volta in gruppi di cinque o di dieci libri. A noi
sono giunti soltanto 35 libri: la prima deca, libri I-X, dalla fondazione di Roma fino
alla III guerra sannitica (293 a.C.); la terza deca, libri XXI-XXX, seconda guerra pu-
nica (218-202 a.C.); la quarta deca, libri XXXI-XL, vicende dal 201 alla morte di Fi-
lippo V di Macedonia (179 a.C.); metà della quinta deca, con varie lacune: libri XLI-
XLV, avvenimenti dal 178 a.C. fino alla vittoria del console Lucio Emilio Paolo a Pid-
na nel 167 a.C. Di tutti i 142 libri, ad eccezione del CXXXVI e del CXXXVII, posse-
diamo brevi sommari, periochae, compilazioni scolastiche di scarso valore redatte
nei primi secoli dell’impero (forse fra il III e il IV) da autore ignoto, probabilmente su
precedenti epitomi.
La concezione storiografica
I criteri storiografici ai quali Livio si attenne sono quelli peculiari degli annalisti ro- Criteri storiografici
mani, ma solo esteriormente, dal momento che egli, intendendo dare ai Romani
«non tanto il documento preciso della loro storia, quanto il monumento glorioso del
loro passato», seguì l’onda commossa dei suoi stati d’animo. Non seguì quindi
l’impianto monografico dell’opera storica di Sallustio, dal quale tuttavia derivò sug-
gerimenti vitali: l’esposizione letteraria dei discorsi fittizi, che personaggi celebri
pronunciano in momenti particolarmente significativi della vicenda storica, i proemi,
222 Storiografia, biografia, antiquaria
che ci illuminano sulla sua concezione storiografica, i ritratti di uomini illustri, rapi-
damente sbozzati.
Teoria eroica Racconto storico, quello liviano, caratterizzato dalla sua teoria eroica della potenza
della potenza di Roma di Roma, non privo di accenti pessimistici soprattutto nella considerazione della
realtà contemporanea e nella accorata previsione dell’incombente decadenza dei
costumi romani, dopo gli esempi luminosi di probità, di sacrificio, di eroismo dei
cittadini antichi. Storia dunque magistra vitae, storia di un popolo maestro di mora-
lità, a cui dovevano guardare, come a modello da imitare, non solo i singoli indivi-
dui, ma anche gli stati che intendessero consolidarsi e prosperare.
Le fonti
La storia come Se ai nostri occhi lo storico è colui che consulta documenti ed archivi e da essi trae
opus oratorium materiale per la sua opera, nella quale essenziali risultano il lavoro di verifica, quel-
lo di vaglio e di critica che egli conduce, pochi furono fra gli scrittori antichi gli stori-
ci e Livio non fu fra essi. Si consideri d’altronde con quali finalità era nata la storia
TARDA REPUBBLICA, ETÀ AUGUSTEA
romana (propaganda politica) e qual era per molti letterati antichi la considerazione
del genere storiografico (opus oratorium): dunque Livio fu uno storico dei suoi tem-
pi, un narratore di storie, diremmo noi, a cui non si può riconoscere il rigore scien-
tifico secondo noi necessario ad un vero storico. L’elemento che induce a questa ri-
flessione è innanzitutto il fatto che Livio non ricercò per la sua narrazione più testi
mettendoli a confronto, ma si limitò per lo più ad uno solo utilizzandone qualche al-
tro solo per conferma; e, quand’anche vi fosse discordanza fra i testi presi in esa-
me, egli non procedeva nella ricerca della verità, magari attraverso documenti, né
proponeva una sua ricostruzione dei fatti, ma si limitava per lo più a segnalare tale
discrepanza senza prendere posizione. Inoltre non sottopose a vaglio critico le fon-
ti, quasi esclusivamente letterarie, ma riportò i fatti ivi narrati così come erano stati
presentati. Fonti per la sua opera furono gli annalisti (Fabio Pittore, Cincio Alimento
e i più recenti Valerio Anziate, Licinio Macro, Claudio Quadrigario) soprattutto per
la I deca, per la III Celio Antipatro e Polibio che utilizzò anche per i libri XXXI-XL;
soltanto per la storia più recente, per la quale dovevano scarseggiare fonti lettera-
rie, dovette ricorrere a documenti ufficiali.
Una visione obiettiva Livio però ebbe la piena consapevolezza dei limiti e delle difficoltà immanenti nell’in-
dagine storica e la coscienza della relatività della ricostruzione di avvenimenti di un
lontano passato; tuttavia bisogna riconoscergli notevole obiettività nel giudicare vi-
cende importanti come quelle delle lotte fra patrizi e plebei perché, se è vero che
egli mostrò propensione per la causa degli ottimati, non rivelò mai malanimo precon-
cetto nei riguardi della plebe, e, se fu tradizionalista e conservatore nella sua visione
della storia, manifestò anche, apertamente, la sua inclinazione alla libertà civile e
politica, incompatibile con la servitù e con la licenza, nelle quali suole cadere la mol-
titudine abbandonata a se stessa: ea natura multitudo est aut servit humiliter aut su-
perbe dominatur. Perciò le accuse rivolte a Livio di scarso rigore scientifico non ap-
paiono adeguate, perché bisogna tener conto del carattere artistico del suo racconto
storico, che lo portava a drammatizzare gli avvenimenti e a presentare i personaggi
in una luce di vita e di umanità, e che talvolta gli impediva di attenersi scrupolosa-
mente a quei rigidi canoni storiografici di aderenza alla realtà obiettiva, di imparziali-
tà e serenità di giudizio che gli valsero la definizione di candidus da parte degli auto-
ri antichi e, in particolare da parte di Tacito, quella di fidei praeclarus in primis.
Livio 223
Lo stile
I maggiori storici di età repubblicana, Cesare e Sallustio, avevano partecipato atti-
vamente alla vita politica di Roma ed avevano fatto rifluire nelle loro opere, seppu-
re diversamente, la propria esperienza personale. Livio invece, che non ricoprì mai
cariche pubbliche, fu uno storico letterato.
Da Cicerone, a cui guardava come al modello stilistico da imitare (ci narra Quinti-
liano che al figlio consigliava, per lo stile oratorio, la lettura di Cicerone e Demoste-
ne) egli ereditò la concezione dell’opera storica come opus oratorium maxime; co-
sì, diversamente da Sallustio, amante di un periodare conciso, adottò uno stile pia-
no e scorrevole che gli valse da parte di Quintiliano la definizione di lactea ubertas
ad indicare la ricchezza e la piacevolezza del linguaggio in contrapposizione con la
brevitas dello stile di Sallustio (senza peraltro implicare per questo un giudizio di
superiorità del primo rispetto al secondo).
Il lessico liviano talora si avvicina al linguaggio familiare (ci si avvia d’altronde ver- Il lessico
so la letteratura d’età imperiale), talora è ricco di parole arcaiche e poetiche che ri-
cordano da vicino Ennio. D’altra parte lo stesso Cicerone, che sconsigliava il ricor-
so a tali parole per l’oratoria, lo ammetteva per adornare anche un discorso in pro-
sa (De or. III 38, 153).
Tali arcaismi abbondano in particolare nella prima deca, forse anche per il tipo di
fonti alle quali Livio ricorse per essa, in cui doveva trovare leggende, formule di ca-
rattere giuridico e religioso che egli dovette riprendere nella sua opera; non ne so-
no però privi neppure gli altri libri in cui vengono utilizzati per dare un colore epico
alla narrazione e concorrono a determinare un tono solenne.
Il periodare di Livio è talvolta semplice ed essenziale, ma per lo più ampio e ricco Il periodo
di subordinate, non privo di ornamenti retorici, come d’altronde richiedeva un opus
oratorium; tuttavia non presenta preziosismi che rendano barocco il suo stile.
Particolarmente accurata risulta dal punto di vista retorico la costruzione dei I discorsi
discorsi in bocca ai personaggi della sua storia; essi furono ammirati fin dall’anti-
chità per la loro capacità di render conto ad un tempo della situazione e dello stato
d’animo di chi li pronunciava.
Il suo modo di render viva la storia, di «drammatizzare» gli avvenimenti narrati non Drammatizzazione della
raggiunge comunque la forza di un pathos intenso ed acceso come quello sallu- storia
stiano; è questo uno degli aspetti in cui Livio si distingue da Sallustio: raggiunge
un’armonia che contempera in un difficile equilibrio gravitas e intensità emotiva. In
tal modo egli fornisce un modello di stile diverso da quello sallustiano, ma non me-
no apprezzato.
Riguarda forse lo stile, ma non ne abbiamo certezza, l’accusa di patavinitas («pa- Patavinitas
dovanità») rivoltagli da Asinio Pollione. Dal brano di Quintiliano in cui ne abbiamo
testimonianza essa sembra far riferimento all’uso di forme di espressione intinte di
provincialismo dialettale (noi comunque non siamo in grado di individuarle), ma c’è
chi ritiene (Ronald Syme), considerando che spesso per l’autore antico lo stile ri-
fletteva una dimensione anche di contenuto, che l’accusa riguardasse la sua con-
cezione della storia eccessivamente moralistica.
La fortuna
Numquamne legisti gaditanum quemdam, Titi Livi nomine gloriaque commotum, ad
visendum eum ab ultimo terrarum orbe venisse, statimque, ut viderat, abiisse?
224 Storiografia, biografia, antiquaria
«Non hai mai letto di un tale di Cadice che, spinto dal nome e dalla fama di Tito Li-
vio, venne dalla parte più lontana della terra per vederlo e, appena l’ebbe visto, su-
bito ripartì?» Questo episodio narrato da Plinio il Giovane (Epist. 2, 3, 8) rivela che
grande era la fama di Livio quando egli era ancora in vita. Gli autori del I secolo con-
cordemente gli riconoscevano valore di storico e di artista cosicché attinsero alla
sua opera sia storici che poeti come Lucano e Silio Italico. Per la sua ampiezza la
lettura integrale dell’opera però non era agevole e presto, già al tempo di Tiberio, co-
me ci testimonia Marziale (14, 190), ne furono fatte epitomi da cui derivano numero-
si storici di età imperiale. Queste da un lato portarono alla conoscenza degli avveni-
menti narrati da Livio, dall’altra però, sentendosi sempre meno il bisogno di ricorrere
all’originale, ne favorirono la perdita, facilitata anche dalla divisione in deche.
Il Medioevo I numerosi codici medioevali, soprattutto della I deca, testimoniano la fortuna di Li-
vio in questo periodo. La sua fama è riflessa nel verso di Dante «Livio che non er-
ra» (Inf. 28, 12), anche se non è certa da parte del nostro poeta una conoscenza
diretta dello storico patavino. Comunque a lui ricorse Dante per le prove della san-
tità dell’impero romano, emanazione del volere divino nel De monarchia». Oltre
Dante ricevettero suggestioni da Livio Arnaldo da Brescia, che all’inizio del XII se-
TARDA REPUBBLICA, ETÀ AUGUSTEA
colo istituì un governo che si ispirava alla repubblica romana, e più tardi Cola di Ri-
enzo che nella prima metà del XIV secolo vagheggiò la restaurazione dell’antica
gloria di Roma.
Umanesimo Da Livio trasse ispirazione per la sua Africa il Petrarca, che dallo storico romano ri-
e Rinascimento prese episodi come quello di Magone morente e quello di Sofonisba e Massinissa
che, dopo il Petrarca, divenne argomento per i poeti drammatici, a cominciare dal
Trissino.
In epoca umanistica dunque Livio diventò uno degli autori più ammirati. I libri per-
duti vennero cercati con grande zelo e passione, ma inutilmente; soltanto verso la
metà del Cinquecento furono ritrovati i libri XLI-XLV. L’opera di Livio fu oggetto di
studio per Machiavelli, che scrisse i Discorsi sopra la I deca di Tito Livio da cui de-
rivò considerazioni sulle leggi politiche necessarie per governare una repubblica.
Età moderna Gli studi condotti su Livio in età moderna hanno visto un duplice atteggiamento: di
e contemporanea riconoscimento delle sue doti di artista, e di svalutazione della sua opera di storico.
Il secondo vede in tempi più recenti, anche se in varia misura, una rivalutazione di
Livio come storico e alla sua opera viene riconosciuta quella veridicità, in particola-
re nella tradizione antica da lui tramandata, negatagli.
Storici minori: Asinio Pollione, Pompeo Trogo, Tito Labieno 225