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LEZIONI DI DIRITTO TRIBUTARIO, SARTORI, 2020.

LEZIONE 1, I TRIBUTI
La prima domanda da porci in primis è PERCHE’ STUDIARE IL DIRITTO TRIBUTARIO.
La risposta più semplice è “perché siamo tutti contribuenti, soggetti passivi del tributo”, qualcuno invece
può pensare “io non ho reddito, quindi non sono un soggetto passivo”  in realtà siamo soggetti passivi
anche nel momento in cui beviamo un caffè in un bar, o acquistiamo qualsiasi bene, in quanto vi è una
imposta sul consumo, cioè l’“imposta sul valore aggiunto” , l’IVA, che ha meccanismi tali per cui a versare il
tributo sarà il venditore del bene acquistato ma il soggetto su cui grava il tributo è poi il consumatore finale
 ecco perché tutti devono avere conoscenza della materia tributaria.
Non solo siamo tutti contribuenti, ma qualsiasi cosa studiamo è verosimile che il diritto tributario ci
riguarderà. Ad esempio un’operazione straordinaria dal punto di vista societaria può esser fatta se si
conoscono le conseguenze fiscali, o magari si ha un avvocato tributarista che si occupa di queste questioni,
ma perlomeno bisogna sapere Quando chiamare l’avvocato tributarista, non si può chiedere il suo aiuto
ogni giorno, bisogna SAPER IDENTIFICARE UN PROBLEMA FISCALE.
L’art. 53 Cost. “Capacità contributiva” si occupa della materia tributaria, l’art 23 Cost. che riguarda la riserva
di legge, etc.  Qualsiasi cosa faremo nella nostra vita, saremo contribuenti, e avremo influenza del diritto
tributario.

DOMANDA: PERCHE’ SERVONO I TRIBUTI? A COSA SERVE UN TRIBUTO, UNA TASSA, UN IMPOSTA?
La risposta immediata è Per far fronte alle spese pubbliche, per accrescere il gettito statale (gettito =
reddito della prospettiva dello stato), occorre imporre il pagamento di TRIBUTI. Tutti contribuiscono
versando dei tributi che servono allo stato per far fronte alle spese pubbliche, come in questo caso
all’emergenza sanitaria. Quindi capiamo la loro importanza. Uno Stato senza tributi non può esistere; è
necessario per far fronte alle spese pubbliche, per avere un sistema di istruzione, un sistema sanitario, per
avere strade. 1 OBIETTIVO  Accrescere il gettito.
Esistono però altre due ragioni per cui sussistono i tributi.
2 OBIETTIVO/RAGIONE  Ridistribuzione della ricchezza. Tramite i tributi siamo in grado di ridistribuire
nella società ricchezza, questo lo facciamo tramite un sistema fiscale progressivo. Chi più ha, più paga, e
quindi significa ridistribuire in parte la ricchezza, in qualche modo anche garantendo le cd NO TAX AREA,
cioè delle ipotesi in cui un contribuente non può far fronte a tributi, ma può beneficiare dei servizi pubblici
essenziali in ogni caso, mentre chi può dare di più e sacrificarsi di più lo deve fare. Questo tramite i tributi
stessi in quasi tutti gli stati del mondo avviene una ridistribuzione della ricchezza, anche in quei stati che
hanno un sistema fiscale con aliquota fissa (se anche immaginiamo di adottare un’unica aliquota del 30% è
evidente che se il mio reddito è 1mln di euro verserò 300.000 euro, se il reddito è di 10.000 euro ne verserò
3.000, anche qui c’è una imposta proporzionale, seppur la redistribuzione sia INFERIORE rispetto a quella
che si ha con una aliquota proporzionale dove all’aumentare del reddito non aumenta solo il tributo come
in quel caso ma anche la percentuale del tributo/l’aliquota stessa, rispetto al proprio reddito).
3 FUNZIONE  Funzione di policy/regolamentare. Il tributo serve a regolamentare la condotta umana. Il
tributo a volte è istituito con lo scopo di modificare un certo comportamento umano, pensiamo alla Carbon
Tax, tributo che colpisce certe emissioni inquinanti, è un tributo che ha come scopo disincentivare quel
comportamento che comporta l’inquinamento, quindi obiettivo di policy: viene adottato un tributo per
ottenere un certo comportamento. Pensiamo anche all’area C di Milano, occorre versare un importo di
euro 5 per entrarvi. E’ un tributo che viene imposto non tanto per ottenere gettito, bensì per influenzare la
condotta umana: disincentivare l’uso dell’auto nel centro di Milano. Il contribuente cittadino quindi che
versa il tributo ha una scelta: o versa il tributo, o cammino e non inquino/non incremento traffico.
(Ce ne sono tanti, nel 1600 ad esempio nella Russia venivano assoggettati ad imposta tutti coloro con la
barba, l’idea era disincentivare i russi a non avere la barba, perché si voleva rendere i Russi in quel
momento storico più simili agli europei).
 QUESTI 3 OBIETTIVI SI MESCOLANO TRA DI LORO, può succedere che un tributo che ha come
scopo quello di incrementare il gettito influenzi indirettamente la condotta umana.
Es negli anni 40 l’aliquota marginale massima negli USA era il 94% (imposta sul reddito sulle
persone fisiche)  era una aliquota che disincentivava le persone fisiche ad avere un reddito
superiore a 300.000 euro. Da una parte lo scopo è aumentare il gettito, che però ha influenza
anche nella condotta umana.

Bisogna però anche pensare a delle ALTERNATIVE, quando pensiamo a queste 3 funzioni bisogna pensare
che ci sono delle alternative  il gettito si può accrescere anche con modalità diverse, uno stato ad
esempio può mettersi a fare attività d’impresa direttamente; per ridistribuire la ricchezza si possono
prevedere ipotesi di Social welfare che provvedano senza toccare il sistema tributario, pensiamo all’ipotesi
di abitazioni date in comodato di uso gratuito; oppure gli obiettivi di policy, posso prevedere dei divieti con
sanzioni senza natura tributaria per disincentivare i comportamenti  TUTTI E 3 GLI OBIETTIVI HANNO
ALTERNATIVE effettive e concrete.

NOZIONE DI TRIBUTO: non è una nozione semplice in quanto non è prevista da nessuna norma.
Il tributo non è definito dal legislatore, e quindi possiamo vedere come lo hanno definito la
giurisprudenza e la dottrina.

A. GIURISPRUDENZA.
Una sentenza importante a riguardo è la sentenza della Corte Costituzionale n. 73/2005 
prevede che, affinché si abbia un Tributo, sono necessarie 4 caratteristiche per la giurisprudenza:
1. IL TRIBUTO DEVE ESSERE IMPOSTO EX LEGE. Non è che il tributo è versato spontaneamente, né
sulla base di un contratto, deve essere imposto dalla legge. La sua fonte è LA LEGGE.
2. DEVE ESSERE COATTIVO. Non è su base volontaria che qualcuno decide di versarlo o meno, è
imposto coattivamente con un atto dell’autorità. Se il contribuente non dichiara e non versa,
l’amministrazione finanziaria (agenzia delle entrate) che con un atto di accertamento andrà ad
accertare e poi in seguito a riscuotere coattivamente il tributo.
3. DEVE FINANZIARE LE SPESE PUBBLICHE. Un tributo è raccolto per far fronte a spese pubbliche,
non individuali.
4. NON DEVE ESSERCI SINALLAGMATICITA’ TRA TRIBUTO VERSATO-SERVIZIO PUBBLICO RESO.
E’ chiaro che io verso un tributo per ottenere in cambio servizi pubblici, ma non c’è una equivalenza
economica tra il contributo che io verso e il valore dei servizi pubblici che ricevo in cambio. Si
contribuisce Non in ragione di ciò che ricambia lo Stato, ma lo si fa in ragione della proprietà
capacità contributiva.
B. DOTTRINA. (del manuale, come ha ricostruito la nozione di tributo Francesco Tesauro)
Ci sono dei tratti di similitudine con la nozione della giurisprudenza.
Anzitutto il Tributo comporta il sorgere di una obbligazione ex lege (come anche viene detto dalla
giurisprudenza), ma aggiunge anche che il tributo deve avere effetti definitivi: non è un prestito
forzoso, ma ha effetti definitivi. Questo non è che non viene detto dalla giurisprudenza,
probabilmente lo ha dato per implicito.
Deve essere imposta con un atto dell’autorità, non c’è un contratto alla base ne un rapporto di
sinallagmaticità (come abbiamo visto)  il tributo quindi non è un contributo previdenziale, non è
una espropriazione, è una obbligazione ex lege con effetti definitivi imposta con un atto
dell’autorità. Anche Tesauro sottolinea che il tributo è destinato a finanziare le spese pubbliche.
Quindi da ciò consegue che vi deve essere UN INDICE DI RIPARTO delle spese pubbliche:
la materia tributaria non è solo un rapporto come sembra apparentemente tra il contribuente e lo
stato, bensì è anche un rapporto TRA contribuente e contribuente. Le spese pubbliche
necessariamente devono essere divise tra i contribuenti, se qualcuno non versa il tributo, qualcun
altro dovrà farlo, quindi le regole relative all’ammontare di tributo che ciascuno di noi deve versare
sono regole che riguardano non solo rapporto stato-contribuente, ma anche regole di riparto della
spesa pubblica tra i contribuenti stessi.
 sintetizzando le caratteristiche,
- Obbligazione ex lege
- Carattere definitivo
- Deve essere coattivo
- Privo di natura sinallagmatica
- Finanziare le spese pubbliche.

 MACROCLASSIFICAZIONE DEI TRIBUTI.

Ora bisogna passare alla TERMINOLOGIA, andando a vedere le differenze tra


IMPOSTA - TASSA - CONTRIBUTO  SONO LE 3 CLASSIFICAZIONI CHE IL TRIBUTO ASSUME.
Il tributo è la macro-categoria, al cui interno vi sono 3 sottocategorie.
Queste 3 categorie si differenziano in relazione al PRESUPPOSTO, ossia IL FATTO GENERATORE DEL
TRIBUTO.
A. IMPOSTA: ha come presupposto un fatto economico posto in essere dal contribuente.
ES Nell’imposta sul reddito: il fatto economico è il possesso del reddito.
Nell’imposta sul valore aggiunto: il fatto economico posto in essere dal contribuente è il consumo.
Non ho in questo caso un servizio specifico reso a fronte del versamento di un tributo, quindi si dice che
L’IMPOSTA CONTRIBUISCE A FINANZIARE I SERVIZI INDIVISIBILI come una strada.

B. LA TASSA: ha come presupposto un atto o una attività della pubblica amministrazione.


Ad es. l’emanazione di un provvedimento o di un servizio che non necessariamente vanno a vantaggio del
soggetto destinatario.
Pensiamo al “contributo unificato”: è una tassa che si versa quando si deve andare in giudizio, e il
presupposto/fatto che genera il tributo è il servizio giudiziario reso, il servizio giustizia.
Pensiamo al “tributo sui rifiuti ambientali”, la TARI: è il tributo che si versa per il servizio di smaltimento
delle immondizie, è qualificato come Tassa perché ha come presupposto il servizio di smaltimento dei
rifiuti.
Il canone televisivo costituisce una imposta o una tassa? Qual è il suo presupposto?
Il canone Rai è una IMPOSTA che colpisce un fatto economico posto in essere dal contribuente, che è il
televisore. Possedere il televisore è un fatto economico.

C. IL CONTRIBUTO: ha come presupposto l’arricchimento che determinati soggetti traggono da un’opera


pubblica. Pensiamo agli impianti sciistici. Un contributo speciale potrebbe essere quello imposto a tutti
coloro che traggono arricchimento dagli impianti sciistici, pensiamo a coloro che hanno attività di
ristorante/baite in questi impianti, è chiaro che tramite l’opera pubblica gli stessi ristoranti traggono un
arricchimento (ovviamente se l’impianto è o meno un’opera pubblica).
Oggi però non molto comune.

 QUESTA TRIPARTIZIONE HA (oltre che terminologico) UN SIGNIFICATO GIURIDICO, che è quello che
riguarda la capacità contributiva. Difatti per la Corte Costituzionale il principio di capacità contributiva
secondo cui in breve tutti sono tenuti a contribuire alle spese pubbliche in ragione della capacità
contributiva, è un principio che si applica alle IMPOSTE, MA NON ALLE TASSE. Questo perché si ritiene che il
principio di capacità contributiva riguardi solo quei servizi indivisibili resi alla collettività, non al singolo
contribuente. In quest’ultimo caso il tributo non deve rispettare il canone della capacità contributiva.
Tesauro (così come anche il prof) è critico nei confronti di questa bipartizione perché bisogna distinguere
tra tassa e tassa. Pensiamo alla tassa che un bar deve versare per l’occupazione del suolo pubblico: è una
tassa che non deve necessariamente rispettare il canone della capacità contributiva perché il contribuente
versa il tributo per ottenere come servizio la possibilità di utilizzare il suolo pubblico.
Pensiamo invece al contributo unificato: è una tassa che si versa non tanto per ottenere un beneficio ma
PER AVERE GIUSTIZIA. Paradossalmente chi subisce un danno patrimoniale si trova a dover agire davanti ad
un giudice per ottenere giustizia/risarcimento, versa un contributo unificato e lo fa per potersi tutelare, qui
c’è un servizio indispensabile, un diritto fondamentale dell’individuo. Quindi si la distinzione tra imposta e
tassa va fatta ma con riferimento alle tasse bisogna distinguere tra i servizi.

Per quanto riguarda la giurisprudenza bisogna stare attenti perché la Corte ha dato definizioni diverse in
relazione all’art. della Costituzione che la corte si è trovata ad interpretare.
Un conto è l’art. 53 Cost., per cui tutti sono tenuti a contribuire alle spese pubbliche: qui la corte dice che
quell’art. si applica solo alle imposte.
Però ci sono altre nozioni di tributo, es data dall’art. 75 Cost., che vieta il referendum abrogativo in materia
tributaria, non si può abrogare un tributo con referendum, e qui ovviamente la Corte ne dà una nozione
molto ampia.
 ciò per dire che potremmo trovare sentenze della Corte costituzionale che danno una definizione diversa
di tributo rispetto alla funzione che l’articolo della costituzione coinvolto ha.

Cosa serve a capire se una certa somma che io verso all’amministrazione pubblica è un tributo o no? E’
fondamentale, serve ad esempio se una determinata controversia rientra nella giurisdizione tributaria.
Serve per sapere se si applicano i principi costituzionali in materia tributaria.
Lo statuto dei diritti del contribuente è la legge più importante in materia tributaria.
 Concludendo: il diritto tributario è quel settore dell’ordinamento che disciplina i tributi.
E qui distinguiamo una disciplina sostanziale (una disciplina che studia il presupposto del tributo, il
soggetto passivo, e la misura del tributo) da una disciplina formale (che riguarda l’attuazione del tributo, la
verifica che l’amministrazione finanziaria fa nei confronti dei contribuenti, la fase della dichiarazione dei
redditi, la fase d’accertamento, la fase del processo tributario).

LEZIONE 2, LE FONTI, L’INTERPRETAZIONE E L’INTEGRAZIONE


LE FONTI, L’INTERPRETAZIONE E L’INTEGRAZIONE

A) LE FONTI
Parlando di fonti, cioè di fatti che pongono in essere il diritto, nella specie quello tributario, non possiamo
che partire dalle FONTI PRIMARIE e dalla COSTITUZIONE. In Costituzione ci sono norme riguardanti
- Il diritto tributario e altre discipline
- Il diritto tributario in modo più specifico, e che riguardano esclusivamente esso
Distinguiamo le norme di diritto tributario in Costituzione in 2 grandi macrocategorie:
1. LE NORME DI PRODUZIONE DEL DIRITTO  quindi norme che riguardano la produzione di altre norme
di rango primario. Non facciamo riferimento alle norme che prevedono l’emanazione della legge (regole
comuni ad altre materie), bensì a quelle regole specifiche riguardanti il diritto tributario. In particolare
queste norme sono l’Art. 23 e l’Art. 75, co2.
2. LE NORME SOSTANZIALI DI VALUTAZIONE DEL DIRITTO TRIBUTARIO  in tal senso dobbiamo far
riferimento all’Art. 53 che prevede 2 principi:
a. CAPACITA’ CONTRIBUTIVA
b. PROGRESSIVITA’ DELL’IMPOSIZIONE

Partiamo anzitutto dalle (1)NORME DI PRODUZIONE DEL DIRITTO. Cioè,


-Art. 23  prevede una Riserva di legge relativa in materia tributaria, e ci dice che “Nessuna prestazione
personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge”.
Questa norma racchiude un principio di legalità/di democrazia, è il parlamento che rappresenta la volontà
popolare ed è il parlamento che istituisce tributi e agevolazioni fiscali.
Con “legge” si intende la legge statale, regionale, ma anche il decreto legge e decreto legislativo, quindi gli
atti aventi forza di legge  non legge formale ma anche atti aventi forza di legge
La riserva è RELATIVA  riguarda il DIRITTO SOSTANZIALE (non formale che disciplina l’attuazione del
tributo, attività istruttoria ecc), cioè quello che disciplina i tributi, il presupposto, i soggetti passivi e la
misura. La riserva di legge quindi riguarda il diritto tributario sostanziale, cioè queste categorie dette. Per
quanto riguarda la misura però bisogna precisare: ammesso che il legislatore primario ponga delle regole di
determinazione della misura e che con un regolamento si specifichi la misura specifica alla luce delle macro-
regole stabilite con la legge primaria.
Abbiamo parlato di “prestazione personale o patrimoniale”: è una nozione più ampia di quella di tributo.
Include ad esempio i corrispettivi di fonte contrattuale quando il prezzo è imposto unilateralmente
(pensiamo al prezzo dell’acqua, bene pubblico, che deve sottostare alle regole della riserva di legge; il
servizio militare è una prestazione personale)
Quindi quando si parla di PRESTAZIONE personale o patrimoniale parliamo di qualcosa di più grande del
tributo, di prestazioni che non hanno carattere tributario.
-Art. 75, co2  “Le leggi tributarie non possono essere abrogate con referendum”. Non è quindi ammesso
referendum abrogativo in materia tributaria, e la ragione è chiara: si vuole evitare che operazioni di
carattere politico vadano a ledere gli interessi erariali del paese. Non si possono abrogare né i tributi né
quelle norme che prevedono la riscossione dei tributi.
-Tra le fonti di produzione del diritto poi vi sono altre norme in Costituzione, come gli artt. 117, 119, che
riguardano il riparto della potestà legislativo tra Stato-Regioni.
(CAPITOLO 2 PARAGRAFO 4,5,6,7 NON IN PROGRAMMA i tributi locali).

Vi sono poi (2)NORME SOSTANZIALI DI VALUTAZIONE DI DIRITTO TRIBUTARIO


-Art 53, co1, co2  Principio di capacità contributiva; Principio di progressività dell’imposizione.

Dopo la Cost., abbiamo la LEGGE ORDINARIA come fonte.


La legge ordinaria più importante in materia tributaria è lo Statuto dei diritti del contribuente, legge del
2000/n. 212, fondamentale perché attua certi articoli della costituzione, racchiude i principi generali
dell’ordinamento nella Costituzione ma qui vengono esplicati ed attuati.
E’ pur sempre legge ordinaria, non sovraordinaria, ma lo Statuto contiene una prima auto-qualificazione: è
vincolante per l’interprete. Lo Statuto contiene poi una seconda auto-qualificazione: non può essere
abrogata una norma dello statuto se non espressamente, e mai con legge speciale.
La formazione delle leggi ordinarie non presenta peculiarità; l’unica cosa da sottolineare è che le leggi
tributarie che prevedono disposizioni di favore e che costituiscono degli aiuti di stato, devono essere
preventivamente autorizzate dalla Commissione europea.
Se una legge contrasta con la Costituzione, la questione è rimessa alla CC.

Oltre alla legge abbiamo ATTI AVENTI FORZA DI LEGGE pari-ordinati di grado: decreto legge e
decreto legislativo.
Il decreto legge è molto utilizzato in materia tributaria, seppur sia una patologia del sistema criticato da
tutti, ma è conseguenza di 2 fattori:
Anzitutto è conseguenza all’art 81 Cost, secondo cui ogni nuova spesa prevista deve prevedere la copertura
finanziaria  se un decreto legge prevede una nuova spesa per far fronte a necessità ed urgenza, è
necessario che ci sia anche la copertura finanziaria, e quindi possiamo trovare nei decreti legge anche delle
disposizioni fiscali.
In secundis il decreto legge è strumento efficace perché previene delle distorsioni inefficienti dei
comportamenti  cioè il decreto è immediatamente efficace quindi il fatto che una determinata disicplina
fiscale sia emanata con decreto legge, impedisce ai contribuenti di evitare quella disposizione in quanto
non può conoscere prima il suo contenuto, non ha il tempo per farlo.
E’ uno strumento però abusato in materia tributaria e l’abuso è superato perché c’è la conversione in legge,
quindi c’è l’abuso originario del decreto legge che poi viene convertito in legge che quindi rende
nuovamente legittimo lo strumento.
Ciò che invece è ILLEGITTIMO (e ce lo insegna la CC) è LA REITERAZIONE DEL DECRETO LEGGE.
La prassi adottata dai governi precedentemente era quella di emanare un decreto legge, nei 60 giorni
questo non veniva convertito, e il governo lo reiterava. E questo per più volte eludendo il sistema 
illegittima.
+Lo Statuto dei diritti dei contribuenti ci dice che non possono essere istituiti nuovi tributi con decreto
legge. Il problema sta nel ruolo dello statuto che resta nella forma una legge ordinaria, quindi c’è questa
norma che però resta una disposizione ordinaria e non ha valore sovraordinato rispetto ad un atto avente
forza di legge.

Il decreto legislativo è anche questo molto utilizzato in materia tributaria perché questa è molto tecnica e
non si presta facilmente ai lunghi passaggi parlamentari ma ad essere studiata in altro modo.
Le grandi riforme tributarie avvengono in questo modo: vi è una legge delega che stabilisce i criteri
fondamentali e poi ci sono i decreti legislativi.
Le grandi riforme sono proprio avvenute in questo modo tramite decreti legislativi.
Anch’essi sono in parte stati abusati perché invece che avere empi limitati i tempi fissati nella legge delega
sono spesso troppo lunghi, e invece che contenere principi specifici si hanno leggi delega in bianco, ed ecco
che anche qui si crea il fenomeno dell’abuso e del decreto legislativo in materia tributaria.

Oltre alle fonti primarie, di rango superiore, abbiamo anche FONTI SECONDARIE.
In particolare i REGOLAMENTI che sono produzione di norme generali ed astratte compiute dal
governo o da un'altra autorità amministrativa. Nell’ambito del diritto tributario queste norme però devono
restare nei limiti della riserva di legge imposta dall’art. 23 Cost.
In materia tributaria sono dei regolamenti attuativi e regolamenti esecutivi.
Esempio di regolamento  Il redditometro. Oggi non vi è il regolamento che lo prevede, si è in attesa di
quello nuovo; il redditometro è il regolamento dove il governo prevedeva una serie di indici patrimoniali e
di spesa che confrontati col reddito avrebbero potuto dar luogo ad accertamento Se sproporzionato, cioè
se vi è sproporzione tra patrimonio/indice di spesa – reddito dichiarato. Allora questo legittimava
l’amministrazione finanziaria/l’agenzia delle entrate a emettere un avviso di accertamento/un atto in
positivo nei confronti del contribuente.
La dottrina si è interrogata sulla natura di tale regolamento a lungo: esso è un regolamento, ma è legittimo?
Rientra nella riserva di legge? Ci si è chiesti; la maggioranza è a favore della sua legittimità, altri no per il
contrasto con l’art 23  il ragionamento qual è: se il redditometro collega l’imposta sul reddito al
patrimonio, questa imposta diventa patrimoniale, e se l’imposta diventa patrimoniale, il governo sta
istituendo un tributo nuovo che non può fare con decreto legge. Quindi non diventa più strumento di
accertamento ma strumento per determinare una nuova imposta.
E’ UNA TEORIA ESTREMA CHE DIMOSTRA PERO LA DELICATEZZA NELL’ADOZIONE DI STRUMENTI COME IL
REDDITOMETRO, seppur non condivisa.

Vi sono poi i TESTI UNICI. Essi non sono fonti del diritto in senso proprio ma sono raccolte di teti
legislativi/di norme. Il testo unico non ha rango primario o secondario, ma dipende se queste norme che
raccoglie sono norme di rango primario o secondario.
Se prendiamo il Testo unico delle imposte sui redditi (TUIR) raccoglie norme di rango primario perché è un
DPR 1986 che al tempo equivaleva ad un decreto legislativo (che è di rango primario).

EFFICACIA DELLE NORME TRIBUTARIE NEL TEMPO


In merito all’efficacia delle norme tributarie nel tempo, bisogna distinguere
- L’ENTRATA IN VIGORE DI UNA NORMA: si ha con la vacatio legis, quindi una volta che il legislatore es
modifica il TUIR lo fa con un testo legislativo che entra in vigore decorsi i 15 giorni decorsi dalla
pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. Questa modifica legislativa può però prevedere che l’efficacia della
modifica decorra da una certa data, es facendola valere dal 1 gennaio del 2021.
- LA SUA EFFICACIA: una norma può essere entrata in vigore ma non esplica la sua efficacia fino a quando
non raggiungiamo il tempo in cui deve esplicarla, il 1 gennaio 2021.

RETROATTIVITA’ DELLE NORME TRIBUTARIE


Una norma tributaria può essere retroattiva? Noi sappiamo che l’art. 11 delle preleggi ci dice che La legge
non dispone che per l’avvenire e non ha effetto retroattivo  ma ciò può essere derogato da una legge
ordinaria. Inoltre alcuni ritengono che questo non dia una soluzione alla problematica in materia tributaria
fiscale. La retroattività nelle norme tributarie può riguardare LA FATTISPECIE (quindi il presupposto), ad
esempio un fatto del passato che porta ad un tributo, e questo è legittimo purchè il presupposto del
passato sia ancora un indice attuale di capacità contributiva. Quindi se noi consideriamo come presupposto
un fatto del passato, lo possiamo fare, purchè quel fatto sia INDICE ATTUALE di capacità contributiva.
Non è espressamente vietata da una norma giuridica ma il divieto di una retroattività può derivare da una
norma riguardante la capacità contributiva.
Se il fatto del passato indica una capacità contributiva non attuale, allora quella norma è illegittima.
La retroattività delle norme può riguardare poi GLI EFFETTI (pensiamo ad una legge del condono), se
presento una dichiarazione di condono oggi, e gli effetti valgono per il passato.
Oppure abbiamo delle leggi tributarie riguardanti SIA IL PRESUPPOSTO SIA GLI EFFETTI, ad esempio una
legge che disciplina gli effetti dei decreti legge che non sono stati convertiti in legge  abbiamo una norma
che riguarda sia fatti che effetti nel passato.

NORME SOSTANZIALI  ci sono questi limiti per la retroattività.


INVECE, le norme procedurali e processuali (a differenza delle sostanziali) sono AD APPLICAZIONE
IMMEDIATA  cioè sono applicabili anche ai processi in corso. Ma ciò non vale per tutte le norme
processuali, ad esempio non valgono per le norme in materie di PROVA. E’ chiaro che queste norme non
possono trovare efficacia retroattiva, non possono applicarsi ai processi in corso perché se no
richiederebbero al contribuente di procurarsi una prova del passato che non può più fare.

La disciplina dell’ABROGAZIONE non subisce deroghe in materia tributaria.


In particolare si può abrogare una norma espressamente (incompatibilità) oppure perché la legge disciplina
l’intera materia. L’unico limite riguarda le norme dello Statuto dei diritti del contribuente di cui abbiamo
parlato, che possono essere abrogate Solo espressamente e MAI da leggi speciali.
Inoltre c’è il limite dell’ABROGAZIONE REFERENDARIA, cioè non possono essere abrogate con referendum.
Le norme sono anche abrogate per DICHIARAZIONE DI INCOSTITUZIONALITA’, EX TUNC, con il limite
ovviamente dei rapporti esauriti per le cause pendenti, i tributi versati a quel punto (dopo dichiarazione di
incostituzionalità) possono essere chiesti a rimborso, SALVO (CC) che non occorra salvaguardare l’equilibrio
di bilancio.

Per quanto riguarda lo SPAZIO delle norme tributarie, esse prendiamo ad esempio l’Imposta sul reddito si
estende sui residenti ovunque essi si trovino nel mondo, anche se si trova in un altro stato per un altro
lavoro, e anche ai non residenti che realizzano reddito nel nostro stato  L’efficacia dello spazio delle
norme tributarie riguarda quindi LO STATO da un lato e LA RESIDENZA FISCALE dall’altro.
I non residenti sono tassati in Italia sono se producono reddito in Italia.

B) L’INTERPRETAZIONE
Premessa: la materia tributaria e la legislazione tributaria hanno delle peculiarità.
Anzitutto il diritto tributario NON è sistematicamente raccolto in un codice. Non c’è un codice di diritto
tributario, abbiamo solo una RACCOLTA DI TESTI LEGISLATIVI. Questo vuol dire che LE NORME TRIBUTARIE
LE TROVIAMO IN TANTI TESTI LEGISLATIVI DIVERSI. Per studiare un’unica disciplina non basta un solo testo
legislativo. Abbiamo quindi un insieme di norme che sono sparpagliate in vari testi legislativi susseguitesi
nel tempo e che prevedono la disciplina di una determinata materia non sempre in maniera sistematica.
La difficoltà per l’interprete consiste quindi nell’IDENTIFICARE i testi legislativi prima di tutto.
Solo fare questo è un lavoro complesso e difficile.
Seconda peculiarità della legislazione tributaria è che E’ IN CONTINUA EVOLUZIONE. Viene modificata 2
volte al giorno circa, perché ci sono ragioni di gettito. Se bisogna pensare ad una spesa straordinaria,
bisogna raccogliere fondi per farvi fronte, quindi ragioni di gettito; oppure per adeguare una nuova
legislazione alle nuove realtà economiche. Poi c’è anche la POLITICA FISCALE: il fatto che ogni governo
adotti una certa politica nel legiferare la materia tributaria.
 MATERIA IN CONTINUA EVOLUZIONE. SPESSO LE NUOVE NORME NON SI COORDINANO CON QUELLE
PRECEDENTI, O COL SISTEMA, e questo rende complesso il lavoro dell’interprete che non solo deve
identificarle ma quelle stesse norme che deve ricercare continuano ad evolversi.
Poi come terza peculiarità, il diritto tributario è una MATERIA TECNICA che presuppone nozioni che non
sono solo di diritto tributario, ma nemmeno di diritto civile. Bisogna conoscere ad esempio i mercati
finanziari, il bilancio, tante branche dell’ordinamento giuridico. E’ difficile da capire.
Ultima peculiarità è il fatto che presenta dei DIFETTI DI TECNICA LEGISLATIVA: le norme non sono sempre
ben coordinate tra loro. Come le norme sulle vincite, ma ce ne sono tante.
 COME SI INTERPRETA ALLORA DATE QUESTE PECULIARITA’?
 PER QUANTO RIGUARDA IL METODO.
Non esiste una interpretazione pro fiscum o contra fiscum come si sosteneva anni fa, bensì si seguono le
REGOLE CLASSICHE DELL’INTERPRETAZIONE. Secondo un metodo classico,
Distinguiamo quindi per prima l’interpretazione letterale, art 12, co.1 delle preleggi: “Occorre attribuire
alla legge il senso fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse”.
A ciò seguono una serie di problemi semantici, sintattici, di comprensione dei termini tecnici. A volte stessi
termini indicano due concetti diversi a seconda del contesto utilizzato, es residenza civilistica/fiscale.
Abbiamo poi l’interpretazione logico-sistematica: cioè si segue la volontà del legislatore, che può essere il
legislatore storico, quindi il bravo interprete dovrebbe andare a vedere sempre i lavori preparatori di ogni
testo legislativo adottato perché si comprende cosa sta dietro, oppure il legislatore in astratto, quindi la
ratio legis/l’interpretazione che tiene conto del contesto giuridico.
Abbiamo poi l’interpretazione adeguatrice come terzo “metodo”: cioè una interpretazione conforme al
testo gerarchicamente sovraordinato. Ad esempio possiamo avere una interpretazione di una norma
costituzionalmente orientata. Si adotta una interpretazione che permette di considerare una determinata
disposizione legittima sotto il profilo della costituzionalità.
 Sentenza Lazio su e learning, giudice mette in evidenza questa interpretazione adeguatrice.

Poi peculiare al diritto tributario è l’interpretazione anti-elusiva, una interpretazione che include nella
fattispecie della norma elusa il comportamento elusivo. Pensiamo a una norma elusa come la colonna, il
comportamento elusivo è l’aggiramento della colonna, e l’interpretazione antielusiva permette di
considerare l’aggiramento della colonna come invece parte della fattispecie, come se non ci fosse il
raggiramento/come fosse parte della colonna.

PER QUANTO RIGUARDA I SOGGETTI CHE PONGONO IN ESSERE L’INTERPRETAZIONE.


Distinguiamo quindi l’interpretazione autentica cioè quella da parte dello stesso LEGISLATORE, che è una
interpretazione RETROATTIVA, quindi deve essere effettivamente interpretazione autentica non deve
trattarsi di una norma innovativa altrimenti introduciamo una norma retroattiva. Quindi bisogna capire se
una norma è di interpretazione autentica o innovativa, perché questa ha tutti i limiti della retroattività che
non ci sono invece se la norma è interpretativa. NB Nello Statuto dei diritti del contribuente n. 212, prevede
che “l’adozione di norme interpretative in materia tributaria può essere disposta soltanto in casi eccezionali
e con legge ordinaria qualificando come tali le disposizioni di interpretazione autentica”  quindi se c’è una
interpretazione autentica il legislatore lo deve dichiarare. NB “solo in casi eccezionali e con legge
ordinaria”: si ritiene che in questo modo una legge interpretativa non violi l’art. 53 Cost.
Poi abbiamo l’interpretazione da parte della giurisprudenza, in particolare la giurisprudenza di legittimità:
LA CASSAZIONE. La cassazione ha una funzione nomofilattica cioè assicurare l’esatta osservanza e
l’uniforme interpretazione del diritto; l’interprete in tal caso deve guardare i lavori preparatori e poi la
giurisprudenza soprattutto di Cassazione.
Poi abbiamo le interpretazioni da parte dell’avvocato; una interpretazione quindi di parte.
Infine da citare l’interpretazione della dottrina degli studiosi dei ricercatori dove non c’è una
interpretazione di parte ma uno studio scientifico di una disposizione per trarne il significato.

Una peculiarità del diritto tributario con riguardo ai soggetti che pongono in essere l’interpretazione, è
quella dell’AMMINISTRAZIONE FINANZIARIA.
Tra gli attori che propongono l’interpretazione di disposizioni normative tributarie c’è lei, in primis l’Agenzia
delle entrate. L’agenzia delle entrate spesso a seguito di una legge emana una circolare in cui spiega e
interpreta la nuova disposizione normativa; altre volte è interpellata dal contribuente e risponde con una
risoluzione, una risposta ad un interpello che viene pubblicata.
PECULIARITA’  è una interpretazione come le altre, non è vincolante, MA il contribuente può farci
affidamento. Se l’amministrazione finanziaria interpreta una disposizione in un modo, il contribuente può
ADEGUARSI ad essa, e l’agenzia non potrà nei suoi confronti sanzionarlo se si adegua all’interpretazione
data  tutela dell’affidamento.

Parliamo ora di ANALOGIA. L’articolo 12 delle preleggi prevede l’analogia legis, cioè l’applicazione di
norme dettate per casi simili in materie analoghe, e l’analogia iuris, cioè il ricorso ai principi generali
dell’ordinamento. Per quanto riguarda la iuris non ci sono molti problemi.
Più problematica è la legis: l’analogia serve quando sussiste una lacuna tecnica.
Pensiamo all’istituzione di un tributo se mancano le norme per la sua riscossione.
Ecco, occorre PRIMA DI VERIFICARE SE SI PUO APPLICARE L’ANALOGIA, VERIFICARE SE NEL DIRITTO
TRIBUTARIO C’E’ UNA LACUNA TECNICA  se non c’è, non si può ricorrere ad analogia.
Le norme tributarie abbiamo detto distinguersi in diritto sostanziale e formale.
Le norme tributarie impositrici o di esenzioni sono delle norme che per definizione non presentano lacune
tecniche. Sono complete per definizione.
Es nell’ordinamento abbiamo una imposta, IRPEF, che colpisce il possesso del reddito.
Ci sono una serie di categorie di reddito, che includono i redditi di lavoro, di impresa, diversi, ecc.
All’interno dei redditi diversi c’è una ipotesi di compravendita di immobili entro 5 anni, ma non c’è quella di
compravendita delle automobili entro 5 anni. Ad esempio c’è uno studente che vuole comprarla e
rivenderla a me, realizzando una plusvalenza. Questa plusvalenza è un guadagno, magari la compra a 5.000
e me la vende a 8.000. C’è un guadagno di 3.000. Questo reddito/guadagno NON è incluso nelle categorie
di reddito. Non è scritto da nessuna parte. L’eventuale lacuna quindi non è tecnica!!!
Se il legislatore decide di non includere nelle ipotesi di reddito imponibile la plusvalenza realizzata dallo
studente significa che non vuole considerare quella ipotesi come reddito imponibile.
 NON C’E’ ALLORA UNA LACUNA TECNICA CHE BISOGNA RIEMPIRE CON L’ANALOGIA.
Non posso applicare la norma applicata per le compravendite immobiliari a una compravendita di una
automobile singola. Semmai è una lacuna definibile ideologica, ma queste non si colmano con analogia.
 LE FATTISPECIE IMPONIBILI SONO TASSATIVE E INDICATE DAL LEGISLATORE.
LE LEGGI TRIBUTARIE IMPOSITRICI SONO COMPLETE PER DEFINIZIONE, NON SI COMPLETANO
ALTRIMENTI CREEREMMO UNA NUOVA IPOTESI REDDITUALE.
Nel diritto tributario SOSTANZIALE non è prevista l’analogia!! Non ci sono lacune tecniche.

Si può invece applicare l’analogia nelle norme FORMALI, perché qui ci può essere una lacuna tecnica.
Ad esempio la norma sul domicilio fiscale che vale per le imposte sui redditi è stata applicata anche alle
imposte di registro. Mancava una norma analoga a quella del domicilio fiscale (luogo dove vengono
notificati gli avvisi di accertamento), si può colmare la lacuna tecnica.
SI FORMALE, NO SOSTANZIALE.

Per la giurisprudenza, che non si è pronunciata su questo, si è però pronunciata sulle Esenzioni  dicendo
che non possono essere applicate analogicamente le norme di esenzione.
La sua ragione è che le norme di esenzione sono speciali e quindi per definizione non si applicano
analogicamente. Questa tesi è anche sostenuta nel libro e caratterizza il prof. Tesauro.
C’è chi ritiene che l’analogia sia applicabile anche al diritto tributario sostanziale.

LEZIONE 3, PRINCIPI COSTITUZIONALI IN MATERIA TRIBUTARIA


I PRINCIPI COSTITUZIONALI IN MATERIA TRIBUTARIA
In particolare ci soffermeremo sull’art. 53 Cost, che al co.1 prevede il principio di capacità contributiva, e al
co.2 prevede il principio di progressività.
1. PRINCIPIO DI CAPACITA’ CONTRIBUTIVA
E’ il principio cardine del sistema tributario, il più importante, da cui bisogna partire per studiare ogni
disposizione tributaria. L’art. 53 al co.1 ci dice che “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in
ragione della loro capacità contributiva”  Questo articolo 53 al co.1 va diviso in 2 parti
1 parte. “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche”  questa parte legittima l’imposizione
fiscale. E’ una norma che assicura la funzione solidaristica del tributo, la doverosità alla contribuzione, il
fatto che TUTTI siano tenuti a concorrere alle spese pubbliche, non solo cittadini o residenti, poi
ovviamente questo sarà declinato in base al tributo. ES: nell’Imposta sul reddito TUTTI I SOGGETTI I
FISCALMENTE RESIDENTI IN ITALIA E TUTTI I SOGGETTI NON RESIDENTI IN ITALIA PER I REDDITI PRODOTTI
IN ITALIA. Quindi vi è in primis una funzione SOLIDARISTICA.
2 parte. Vi è poi una seconda funzione GARANTISTA perché questo deve avvenire “In ragione della loro
capacità contributiva”  quindi si abbandona il principio del beneficio; non pago il tributo in relazione a un
beneficio che ottengo dallo stato bensì in ragione della mia capacità contributiva. Non verso il tributo in
relazione a ciò che ricevo dallo stato ma verso i tributi in relazione alla mia capacità contributiva.
Questa 2 parte della norma riguarda un limite che è un po’ il tema centrale della funzione tributaria 
FUNZIONE GARANTISTA E FUNZIONE DI REDISTRIBUZIONE DEI TRIBUTI.
Ricordiamo infatti come i tributi assolvono a 3 diverse funzioni e qui vediamo quella della redistribuzione
della ricchezza.
 PER SUA NATURA, QUESTA NORMA RIGUARDA LA DISCIPLINA SOSTANZIALE DELLA MATERIA.

LA CAPACITA’ CONTRIBUTIVA
Cosa significa capacità contributiva? Bisogna distinguere
-INDICI DI CAPACITA’ CONTRIBUTIVA DIRETTI: sono ad esempio il reddito, il patrimonio
-INDICI DI CAPACITA’ CONTRIBUTIVA QUALIFICATI COME INDIRETTI: il consumo, il trasferimento.
Entrambi sono dei fatti di natura economica che esprimono forza economica.
Ad esempio un indice di capacità contributiva non può essere il colore dei capelli, è un dato estraneo alla
natura economica del soggetto. Diverso è se io vado ad assoggettare alla tassazione tutti coloro con capelli
tinti, in questo caso c’è una forza economica (acquisto della tinta per i capelli).
(SI PUO ISTITUIRE UN TRIBUTO SU TUTTI QUELLI CHE HANNO ES CAPELLI NERI? RISPOSTA NO PER
CONTRASTO CON ART. 53 CAPACITA’ CONTRIBUTIVA).
La scelta degli indici spetta al LEGISLATORE, però questa non deve essere Arbitraria.
Può scegliere se assoggettare alla tassazione il consumo, il reddito ecc ma non in modo arbitrario.
L’INDICE DEVE POI ESSERE COLLEGATO AL SOGGETTO PASSIVO DEL TRIBUTO, quindi l’indice di capacità
contributiva che esprime un fatto economico deve essere realizzato da un soggetto passivo che poi viene
tassato. Quindi l’obbligazione tributaria è posta a carico di colui che realizza il presupposto, cioè
quell’indice che esprime una forza economica/la capacità contributiva.
Ci sono però casi in cui la legge pone a carico di soggetti terzi l’obbligazione tributaria  è legittimo,
PURCHE’ l’obbligato possa far ricadere su colui che ha realizzato l’indice di capacità contributiva l’onere del
tributo. Quindi è possibile, si pensi alla sostituzione di imposta. Il sostituto si rifà nei confronti del sostituito
tramite la rivalsa però. Quindi l’onere economico del tributo ricade sul sostituito, anche se il sostituto è il
soggetto passivo. Ci può essere invece regresso nel caso di solidarietà come nell’ipotesi del notaio.

La capacità contributiva deve poi avere 2 caratteristiche fondamentali:


1. Deve essere una capacità contributiva EFFETTIVA: sotto tale profilo ad esempio sono state valutate
legittime le norme che prevedono una forfetizzazione dei redditi. Es in materia di redditi fondiari il
legislatore prevede che sia tassato non il reddito effettivo ma uno determinato in misura media-ordinaria.
Trattandosi di un reddito forfettario ci si era posti in dubbio se la capacità contributiva fosse o meno
effettiva. A riguardo la CC ha detto che è indice effettivo di capacità contributiva non solo il reddito
effettivo ma anche quello medio-ordinario. Poi ci può basare su delle PRESUNZIONI relative: ad esempio è
stata giudicata illegittima la presunzione assoluta di liberalità di trasferimento immobiliare tra i coniugi,
perché in contrasto con il principio di capacità contributiva.
2. Deve essere una capacità contributiva ATTUALE: è un corollario dell’effettività. Quindi i tributi non
possono essere retroattivi, SALVO che l’indice di capacità contributiva non sia ancora attuale.
Se io colpisco un fatto che genera un tributo che è ancora attuale lo posso fare. Se è un fatto del passato
che non esprime forza economica attuale allora è incostituzionale.
Per valutare l’attualità rilevano 2 elementi:
a. la distanza temporale da quando si è verificato il fatto del passato. Cioè l’indice di capacità contributiva
del passato quanto si discosta da oggi/da quella attuale?
b. la prevedibilità del tributo  quanto era prevedibile che quel fatto sarebbe stato assoggettato ad un
tributo? Questo si collega al principio della certezza del tributo.

ALCUNI COROLLARI DEL PRINCIPIO DI CAPACITA’ CONTRIBUTIVA


1. Quello secondo cui occorre rispettare un cd. MINIMO EDITTALE, la NO TAX AREA  è necessario che non
si vada a tassare ciò che è essenziale per vivere. Esiste un minimo di ricchezza che non deve essere tassata
perché è necessario al contribuente per far fronte alle spese essenziali per la vita.
2. Quello che non solo c’è un limite minimo ma anche un cd. LIMITE MASSIMO  non si può tassare
eccessivamente, sempre se nei limiti della capacità contributiva. Se si prevedesse una aliquota del 94%
dell’Irpef, probabilmente questa aliquota sarebbe incostituzionale per violazione art. 53 comma 1.
E’ una aliquota che negli USA era stata adottata durante la II guerra mondiale.
3. Quello secondo cui il principio di capacità contributiva va letto insieme al principio di uguaglianza ex art.3
Cost., e da questo deriva un ulteriore principio di “equità orizzontale” : cioè a situazioni uguali devono
corrispondere uguali regimi in positivi e a situazioni diverse, diverse regimi in positivi.
Quali sono i modi per distinguere tali situazioni uguali o positive?
Una ipotesi è quella del RISPARMIO, la tassazione del risparmio è sempre stata più lieve rispetto a quella
del lavoro. In che senso? Se 2 soggetti hanno stesso identico reddito ma un soggetto ha un reddito che
deriva da investimento(reddito di capitali) mentre il secondo possiede solo reddito da lavoro, sono tassati
in modo diversi. Il soggetto che realizza reddito da lavoro è tassato più gravemente.
E’ incostituzionale che talune forme di reddito siano tassate in misura minore? Sotto questo profilo bisogna
valutare la sua legittimità costituzionale mediante il TERZIUM COMPARATIONIS, occorre confrontare la
norma di dubbia costituzionalità con un’altra disciplina per valutare se è giustificata o irragionevole la
disparità di disciplina. Bisogna valutare se le due forme di tassazione/se la differenza è ragionevole o no.
Come si verifica la ragionevolezza? Andando a vedere se ci sono altri interessi costituzionali in gioco, come
la tutela del risparmio o della famiglia, allora ci possono essere norme che agevolano la famiglia.

NB Attualmente abbiamo un sistema che predilige una maggiore redistribuzione della ricchezza.
Se una determinata agevolazione fiscale è irragionevole in quanto non bilanciato da un altro interesse
costituzionale, la norma è incostituzionale. Quindi bisogna sempre fare un ragionamento di bilanciamento
di interessi costituzionali, se violano il principio di equità orizzontale previsto dall’art. 53 e 3.
Per violarlo, è necessario che sussista un altro interesse costituzionale.
Il problema sorge in quanto le norme di favore generalmente non vengono contestate da coloro che
beneficiano della norma di favore stessa; se c’è una agevolazione fiscale, il contribuente che ne trae
vantaggio non solleva una questione di incostituzionalità della norma, quindi c’è poca giurisprudenza sulle
agevolazioni fiscali e sulla sua legittimità costituzionale.
La giurisprudenza in tal caso si crea non tanto per annullare una determinata agevolazione, spesso viene
creata da un soggetto che non ha diritto all’agevolazione ma che chiede in ogni caso di beneficiare di una
agevolazione, quindi di uno sconto fiscale, pur non rientrando nei presupposti della norma di favore.
Quindi solleva la questione di costituzionalità chiedendo alla Corte di estendere tale agevolazione ad altri
soggetti.

Un ultimo aspetto con riferimento alla capacità contributiva riguarda il fatto che PER LA Corte
Costituzionale, IL PRINCIPIO SI APPLICA SOLO ALLE IMPOSTE E NON ALLE TASSE.
Il ragionamento della Corte che richiamano gli studi di scienza delle finanze, è quello secondo cui le Imposte
finanzierebbero i servizi pubblici indivisibili -ove non è possibile identificare il fruitore del servizio, mentre le
Tasse finanzierebbero dei servizi divisibili. Nelle tasse secondo la corte, si identifica il singolo fruitore del
singolo servizio emesso dalla PA, e quindi si potrebbe applicare il principio del BENEFICIO, e non quello
della capacità contributiva.
Quindi se ci sono imposte si pone un problema di capacità contributiva perché non si individua il fruitore
del singolo servizio (es utilizzo strade, sanità), mentre nelle tasse in cambio si ottiene un beneficio vero e
proprio. QUESTO ORIENTAMENTO DELLA CORTE E’ CRITICATO, perché secondo molti non ha senso
totalmente per quanto riguarda il finanziamento dei servizi pubblici divisibili che però sono essenziali.
Pensiamo ai servizi che corrispondono ai diritti fondamentali per l’individuo (salute, istruzione, difesa): in
tali ipotesi è vero che si tratta di servizio divisibile ma è un servizio che lo stato rende al singolo ma in
quanto per il singolo c’è un diritto fondamentale sotto di ottenerlo. Quindi in tale ipotesi è difficile che la
capacità contributiva non debba applicarsi, altrimenti rischieremmo di andare a ledere in parte proprio la
tutela dei diritti fondamentali. Quindi il ragionamento della Corte è corretto per le tasse in generale ma non
quelle tasse che finanziano un servizio pubblico essenziale cui corrisponde dall’altro lato un diritto
fondamentale dell’individuo perché queste spese diventano spese pubbliche.

Ritenere applicabile il principio di capacità contributiva alle tasse significa necessariamente creare uno
scollamento tra il presupposto della tassa e l’indice di capacità contributiva. Il presupposto della tassa è un
servizio pubblico sappiamo mentre l’indice di capacità contributiva non può essere il fatto generatore del
servizio stesso, deve essere piuttosto un fatto economico che riguarda i contribuenti. Quindi avremo uno
scollamento applicando il principio di capacità contributiva alle tasse. Dovrei creare un indice ad hoc.
Per le imposte invece non ci sono problemi.

Nell’art. 52, co1 si estrapola quindi un DOVERE espressione di un interesse fiscale di solidarietà a cui tutti
son tenuti, e poi vi è una GARANZIA/LIMITE perché è in ragione alla capacità contributiva.

CO.2, ART 53  LA PROGRESSIVITA’


“Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”.
Cosa significa progressività? Significa che l’imposta cresce più che proporzionalmente rispetto al reddito.
Non c’è una crescita proporzionale, bensì PROGRESSIVA = PIU CHE PROPORZIONALE.
La progressività è come se esplicasse meglio il principio di capacità contributiva: più si ha, più si deve
contribuire, ma in base appunto al principio di Progressività.
Esempio: contribuente che ha reddito di 100 e un altro contribuente con reddito di 1000.
Se applichiamo un sistema proporzionale, significa che ciascuno contribuisce in misura proporzionale al
proprio reddito a versare il tributo. Con una aliquota del 20%, il contribuente con reddito di 100 versa un
tributo pari al 20, quello con reddito 1000 verserà un tributo di 200 cioè pari al 20% di 1000.
Questo sarebbe un tributo proporzionale.
Mentre un tributo è PROGRESSIVO quando la percentuale del reddito aumenta all’aumentare del reddito,
quindi in questo esempio: un contribuente con reddito 100 con aliquota del 20% e versa 20, ma il
contribuente con reddito 1000 avrà aliquota maggiore, es 30%, quindi verserà il 30% di 1000 ossia 300.
Ecco il tributo che aumenta in percentuale all’aumentare del reddito  NON AUMENTA L’IMPOSTA
all’aumentare del reddito.

NB Potremmo paradossalmente avere un tributo regressivo  cioè che diminuisce all’aumentare in


percentuale all’aumentare del reddito. Assumiamo che il contribuente con reddito 100 e aliquota del 20%
versa 20, contribuente con reddito 1000 ha aliquota del 10% e versa 100.
Quindi anche con un tributo regressivo possiamo avere redistribuzione della ricchezza (come con tributo
progressivo). Il soggetto con reddito maggiore dell’altro versa di più ma in modo regressivo.
ES IL TRIBUTO PER I NON RESIDENTI DI 100.000 CHE, è un tributo fisso, e maggiore è il reddito minore è in
percentuale il tributo.

UN TRIBUTO PROPORZIONALE CON ALIQUOTA SEMPRE FISSA E’ L’IRES  l’IMPOSTA SUL REDDITO DELLE
SOCIETA’.
UN TRIBUTO PROGRESSIVO INVECE E’ L’IRPEF  IMPOSTA SUL REDDITO DELLE PERSONE FISICHE.
AUMENTA ALL’AUMENTARE DEL REDDITO IN MISURA PIU CHE PROPORZIONALE.
Allora ci si può chiedere: PERCHE’ L’IRES NON E’ STATO DICHIARATO INCOSTITUZIONALE SE E’ UN
TRIBUTO PROPORZIONALE? NON E’ PROGRESSIVO E L’ART. 53 RICHIEDE PROGRESSIVITA.
LA RISPOSTA VA DATA LEGGENDO IL CO.2  NON CI DICE CHE TUTTI I SINGOLI TRIBUTI DEVONO ESSERE
PROGRESSIVI, ma ci dice che IL SISTEMA TRIBUTARIO NEL COMPLESSO DEVE ESSERE PROGRESSIVO.
La CC ad oggi ha sempre detto che l’IRPEF come tributo è quello che garantisce la progressività all’intero
sistema… non ha finito.

LEZIONE 4 L’OBBLIGAZIONE TRIBUTARIA, I SOGGETTI PASSIVI


IL TRIBUTO IN GENERALE SOTTO IL PROFILO TEORICO
Quando studiamo il tributo, ci soffermiamo su 3 elementi:
1. Il fatto generatore del tributo/l’evento che lo rende dovuto  che è il presupposto fissato dalla legge.
Al fine che il tributo sia dovuto, al fatto generatore del tributo si deve accompagnare un atto giuridico che
viene a volte posto in essere dal contribuente (la dichiarazione dei redditi), altre volte dall’amministrazione
finanziaria (avviso di accertamento es).
2. La misura. Che si compone da una base imponibile e da un tasso. Cioè come si determina il tributo?
Come si quantifica?
3. I soggetti passivi. Chi sono i soggetti colpiti dal tributi e tenuti a versarlo?
 ESAMIAMO QUESTI 3 ASPETTI.

1. IL PRESUPPOSTO.

Non è altro che il fatto che genera il tributo. Le norme giuridiche impositrici sono strutturate in modo tale
che da un lato vi sua un presupposto/una fattispecie o un fatto generatore, e dall’altro ci sono degli effetti.
Qual è l’effetto del presupposto? IL SORGERE DEL TRIBUTO, o meglio DELL’OBBLIGAZIONE TRIBUTARIA, che
però si rende dovuta SOLO se si accompagna con un ulteriore atto giuridico (vedi sopra).
In base al presupposto possiamo porre in essere poi una serie di distinzioni.
Abbiamo visto la differenza tra IMPOSTA e TASSA, basata sul diverso presupposto (fatto economico-
servizio). La distinzione tra IMPOSTA, TRIBUTO, TASSA quindi si basa sul PRESUPPOSTO, in relazione al
diverso presupposto creiamo delle diverse classificazioni a cui applichiamo principi diversi.
Vi è poi una distinzione sempre in base al presupposto tra IMPOSTE DIRETTE e IMPOSTE INDIRETTE (le
prime hanno come presupposto degli indici diretti di capacità contributiva, le seconde hanno come
presupposto un indice indiretto, come un’imposta sul consumo che è un indice indiretto di capacità
contributiva = non è una manifestazione di ricchezza diretta).
In base sempre al presupposto, distinguiamo anche le IMPOSTE PERSONALI dalle IMPOSTE REALI: cioè se il
presupposto tiene conto degli elementi soggettivi della persona, abbiamo una imposta personale. Ad
esempio l’IRPEF tiene conto della famiglia, o le spese mediche. Altrimenti se il presupposto non ne tiene
conto, l’imposta è reale. Ad esempio l’IMO.
Distinguiamo sempre in relazione al presupposto anche le IMPOSTE ISTANTANEE dalle IMPOSTE
PERIODICHE: se il presupposto è un singolo avvenimento che si verifica in un dato momento, l’imposta è
istantanea. Es l’Imposta di registro. Altrimenti se il presupposto è un fatto che si ripete nel tempo, l’imposta
è periodica. Es l’IRPEF che è l’imposta sul reddito che si realizza in un periodo di imposta che coincide con
l’anno solare. Quindi tutto il reddito realizzato in un certo periodo di un anno è reddito imponibile tassato
tramite Irpef.
In relazione al presupposto poi va detto che esso può essere AMPLIATO o RISTRETTO; viene ampliato
quando abbiamo delle cd. Assimilazioni (abbiamo quindi una fattispecie equiparata quando accanto a
quella tipica il legislatore ne equipara un’altra, perché le ritiene equivalenti). O viene ristretto quando
abbiamo una cd. Esenzione, o una Esclusione. L’esenzione sottrae dal tributo ipotesi che sono incluse
secondo la definizione generale del presupposto di quel tributo. Il presupposto includerebbe quell’ipotesi,
ma una norma di esenzione sottrae dal presupposto (con un’altra norma, quindi abbiamo 2 norme di cui
una di esenzione) l’ipotesi che invece rientrerebbe nel presupposto stesso.
L’esenzione può essere assoluta (l’imposta non è dovuta) oppure per sostituzione (l’imposta non è dovuta
in quanto è sostituita da un’altra).
L’esclusione invece fa parte del presupposto, cioè il legislatore non dice che una fattispecie è tassabile ed
esenta una fattispecie, bensì è una migliore chiarificazione del presupposto stesso. L’esclusione non
comporta mai una agevolazione però.
La distinzione tra esenzione e esclusione non è priva di significato  corrispondono conseguenze
giuridiche. In particolare accade in materia di imposta sui redditi. Se un certo reddito è esente da imposta, i
relativi costi (un costo per produrre un reddito che è esente) Non è deducibile. Se un certo reddito è
escluso da imposta, il relativo costo E’ deducibile  differenza non di poco conto.
Infine un accenno al rapporto esclusione-esenzione con le agevolazioni fiscali  non necessariamente una
esenzione è una agevolazione fiscale, a volte si ha esenzione proprio per evitare una doppia imposizione.
mentre le esclusioni non sono mai agevolazioni fiscale.
Vi è però una tendenza legislativa ad inquadrare le esenzioni come esclusioni per mascherare una
agevolazione fiscale.
Fattispecie alternative e Sovraimposte  A. Le fattispecie alternative si hanno quando uno stesso fatto è
generatore di 2 diversi tributi ma uno dei due prevale. B. Nella sovraimposta, la fattispecie di una imposta è
utilizzata come fattispecie di una ulteriore imposta o di una sovraimposta.

2. LA MISURA

La misura dell’imposta può essere fissa o variabile.


Essa è fissa quando è determinata da una somma fissa di denaro. ES Il tributo sostitutivo dei neo-residenti
Essa è variabile se si determina partendo da un punto di partenza chiamato BASE IMPONIBILE, a cui si
applica una aliquota. La base imponibile è però un concetto diverso dal presupposto(fatto generatore del
tributo) o da quello di indice di capacità contributiva(indice che garantisce la legittimità di una norma che
istituisce un tributo)  è quell’elemento che determina la Misura dell’imposta.
Anche l’ALIQUOTA può essere fissa (come l’imposta proporzionale, come l’IRES che è l’imposta con aliquota
fissa del 24%) o variabile (come l’IRPEF, che ha una base imponibile data dal reddito e una aliquota a sua
volta variabile che aumenta all’aumentare del reddito, perché l’IRPFEF è il tributo che garantisce la
progressività del sistema, quindi un tributo per sua natura progressivo che aumenta in percentuale
all’aumentare del reddito).
Vi sono ipotesi in cui un tributo viene sostituito da un altro tributo, e quindi anche la misura di conseguenza
cambia. Si parla di REGIMI FISCALI SOSTITUTIVI  cioè un meccanismo in positivo che per specifiche
fattispecie sostituisce a una normale imposta delle imposte sostitutive.
Ad esempio i redditi di capitale dovrebbero rientrare nell’IRPEF e dare luogo ad una imposta variabile, e
invece viene sostituita per la maggior parte dei casi da una “ritenuta alla fonte a titolo d'imposta”.

3. I SOGGETTI PASSIVI DEL TRIBUTO


- detti anche CONTRIBUENTI, cioè i soggetti passivi dell’obbligazione tributaria.

Possono essere soggetti residenti, non residenti, persone fisiche (in tal caso sono soggetti passivi dell’IRPEF,
imposta sul reddito delle persone fisiche), persone giuridiche (IRES, imposta sul reddito delle società).
I soggetti passivi anzitutto hanno tutti un DOMICILIO FISCALE, nozione diversa da RESIDENZA FISCALE.
- Domicilio fiscale: è una nozione di diritto formale che ci dice qual è l’ufficio delle agenzie delle entrate di
competenza, quale sarà la commissione tributaria da adire in caso di avvisi di accertamento, ci dice dove
vanno notificati gli avvisi di accertamento  identifica un luogo necessario per applicare il tributo.
- Residenza fiscale: è una nozione di diritto sostanziale in quanto essere residenti o non residenti comporta
una diversa tassazione del reddito. I residenti in Italia sono tassati sui redditi ovunque prodotti nel mondo,
mentre i non residenti sono tassati solo sui redditi che producono in Italia.

Sui soggetti passivi bisogna trattare il tema della SOLIDARIETA’: si ha solidarietà quando più soggetti sono
tenuti in solido ad adempiere alla medesima obbligazione tributaria.
Nel diritto tributario distinguiamo 2 tipi di solidarietà (nei rapporti TRA LE PARTI)
1. PARITARIA: abbiamo più soggetti tenuti all’obbligazione che concorrono indistintamente/allo stesso
modo a realizzare il presupposto, e sono per tanto debitori d’imposta. Come gli eredi. O nella
compravendita sia compratore che venditore sono pari a realizzare l’imposta di registro.
2. DIPENDENTE: vi è un solo soggetto che realizza il presupposto d’imposta, che è chiamato OBBLIGATO
PRINCIPALE, e un altro che seppur non lo realizza è obbligato al pagamento INSIEME CON COLUI CHE HA
REALIZZATO IL PRESUPPOSTO, chiamato RESPONSABILE D’IMPOSTA  Obbligato principale-responsabile
d’imposta. Ad esempio nel caso del Notaio, è lui responsabile per l’imposta di registro.
Cosa significa responsabile? Art. 64, DPR 600  è responsabile colui che è obbligato al pagamento insieme
con altri per fatti o situazioni riferibili a questi  rapporto di Pregiudizialità di pendenza.
Il notaio non pone in essere il presupposto, sono le parti a farlo nella compravendita, però è responsabile.

NB Nei rapporti tra CONTRIBUENTI-FISCO invece non c’è alcuna differenza ad avere a che fare con
solidarietà paritaria o dipendente, cioè tutti i soggetti sono responsabili IN SOLIDO per l’intero e non c’è
nessun beneficio di escussione, SONO TUTTI NELLO STESSO PIANO NEI CONFRONTI DEL FISCO.

Considerato che gli avvisi di accertamento devono essere sempre motivati, se ne viene emesso uno nei
confronti delle parti di una compravendita immobiliare, la motivazione deve far riferimento al fatto che la
parte ha posto in essere un atto e non è stata versata l’imposta di registro.
Se viene emesso invece un avviso di accertamento nei confronti del notaio, occorre una motivazione
doppia  che l’avviso di accertamento contenga una motivazione sul fatto che gli obbligati principali hanno
posto in essere un presupposto, ma poi ci vuole una motivazione per il notaio per spiegare che è il
responsabile d’imposta in quanto l’atto è stato redatto davanti a lui.
NB l’avviso di accertamento deve essere motivato o è nullo.

Diversa dalla responsabilità d’imposta che configura una ipotesi di solidarietà dipendente, è la
SOSTITUZIONE TRIBUTARIA  è sostituto d’imposta chi in forza di una disposizione di legge è obbligato al
pagamento di imposte IN LUOGO di altri (prima il responsabile d’imposta è obbligato al pagamento
INSIEME con altri)  adesso IN LUOGO di altri, abbiamo un Sostituto e un Sostituito (sostituzione).
Nei rapporti interni, il responsabile(Notaio) se versa il tributo ha diritto di regresso per intero nei confronti
dell’obbligato principale. Nella sostituzione, il sostituto ha diritto di rivalsa verso il sostituito.
 il legislatore prevede strumenti per traslare l’onere tributario dal sostituto/dal responsabile, agli altri
obbligati.
I rapporti interni sono però RAPPORTI DI DIRITTO PRIVATO, non tributario (qui solo tra contribuente-fisco)

DIFFERENZA SOSTITUZIONE A TITOLO D’IMPOSTA E SOSTITUZIONE A TITOLO DI ACCONTO


La sostituzione può essere di 2 tipi:
A. Sostituzione a titolo d’imposta: esaudisce l’obbligazione tributaria. Significa che il sostituto versa l’intero
tributo dovuto e il sostituito non deve nulla al fisco  il versamento dell’imposta esaurisce l’obbligazione.
L’unico soggetto passivo è il SOSTITUTO. Il sostituito invece, pur realizzando il presupposto e pur essendo
colui che pone in essere l’indice di capacità contributiva, non è un debitore d’imposta/contribuente.
La legge è costituzionalmente legittima perché permette al sostituto di RIVALERSI nei confronti del
sostituito. Questo viene attraverso la Rivalsa e tramite una RITENUTA ALLA FONTE A TITOLO D’IMPOSTA.
Nella ritenuta alla fonte succede che c’è un soggetto, ad esempio nelle Vincite, colui che eroga la vincita è il
sostituto e verserà la vincita al sostituito, ma effettua una Ritenuta alla fonte a titolo d’imposta  cioè anzi
che (se la vincita lorda è di 1000) versare 1000, verserà 1000 meno la Ritenuta, assumiamo che sia del 30%
 quindi verserà 700 al sostituito. E i 300 d’imposta all’erario.
Il soggetto passivo quindi di nuovo è il sostituito. MA QUANDE’ CHE IL SOSTIUITO PUO DIVENTARE
RESPONSABILE e DEBITORE D’IMPOSTA? SOLO SE RICORRONO 2 CIRCOSTANZE
1. Non viene effettuata la ritenuta (quindi versa 1000 al sostituito)
2. La ritenuta non è versata dal sostituto (non versa 300 all’erario)
 se entrambe le circostanze avvengono, IL SOSTITUITO DIVIENE ANCHE LUI SOGGETTO PASSIVO DEL
TRIBUTO (non lo diviene mai in altre ipotesi).
Cosa si crea in tali ipotesi? Una solidarietà tra sostituto e sostituito di tipo DIPENDENTE  un soggetto
pone in essere il presupposto e un altro non ha posto in essere il presupposto.
(che però nei confronti del fisco non cambia).

B. Sostituzione a titolo di acconto: non esaudisce l’obbligazione tributaria. Il sostituito versa un importo
all’erario che non è altro che un acconto dell’imposta che verserà il sostituito  il sostituto effettuerà una
RITENUTA ALLA FONTE A TITOLO DI ACCONTO (cambia nome), che costituisce un ACCONTO sull’IMPOSTA
che poi verserà il sostituito. Esempio: nel reddito dei lavoratori dipendenti.

PATTI DI ACCOLLO – L’ACCOLLO


I patti di accollo sono dei patti secondo cui un soggetto si impegna a far fronte a un determinato debito
d’imposta in favore di altri. Si pensi al mutuante che si accolla le imposte del mutuatario.
Questo è legittimo, si può fare, se non c’è una legge che lo vieta.
Ad esempio in materia di IVA è vietato. Non si può fare l’accollo dell’IVA, siccome la rivalsa dell’iva è
obbligatoria. Se acquisto un bene, il negoziante non può rinunciare a rivalersi su di me.
Invece nelle ipotesi in cui il patto d’accollo è legittimo, succede che il debitore originario non è mai liberato
nei confronti del fisco. L’accollo non è Mai liberatorio.
Il patto di accollo può avere rilievo esterno nell’ipotesi in cui le parti prevedono che abbia efficacia anche
nei confronti del fisco, e in tale ipotesi il fisco può riscuotere da entrambe le parti che diventano
solidalmente responsabili. L’accollante e l’accollato sono solidalmente responsabili nei confronti del fisco
dell’intero importo, non c’è mai la liberazione di un soggetto dal debito tributario.
COSTITUZIONALITA’ DEL PATTO DI ACCOLLO  alcuni sostengono che violi il principio di capacità
contributiva perché sposta l’onere tributario nei confronti di un soggetto che Non è colui che ha posto in
essere il presupposto. E’ incostituzionale ai sensi art. 53? NO, è legittimo, perché l’art. 53 Cost., è una
norma sostanziale di valutazione per valutare la legittimità delle leggi, è una norma che si riferisce al
rapporto verticale (contribuente-fisco), non al rapporto orizzontale (contribuente-contribuente), quindi non
vi è profilo di incostituzionalità del patto di accollo perché è un patto TRA PRIVATI, e il principio all’art.53
non va a vedere i rapporti tra i privati.

NB Infine, vi sono casi di Successione ex lege dei rapporti d’imposta  es gli eredi per i debiti del de cuius,
o i soci per i debiti della società estinta.

 CHIUSA LA PRIMA PARTE DEI PRINCIPI GENERALI.

NB CHIARIMENTO DISTINZIONE ESENZIONE, ESCLUSIONE, RAPPORTO CON AGEVOLAZIONE FISCALE


Per farlo dobbiamo partire dal PRESUPPOSTO, ossia il FATTO GENERATORE DEL TRIBUTO.
Quindi pensiamo al presupposto come ad un perimetro, all’interno del quale tutti i fatti che accadono
generano tributo/obbligazione tributaria, anche per il tramite di un atto giuridico (dichiarazione dei redditi
o se manca avviso di accertamento)  quindi ad un fatto si collega una conseguenza giuridica.
Questo insieme di fatti è delimitato da una norma, cioè la norma che definisce il presupposto.
L’ESCLUSIONE NON è una norma diversa, una nuova norma che esclude alcuna ipotesi che rientrerebbe nel
presupposto, bensì è una migliore specificazione del perimetro del presupposto stesso.
L’esclusione è una sorta di specificazione del perimetro, quindi si esclude una serie di ipotesi che non
rientrano.
L’ESENZIONE E’ una vera e propria norma giuridica DIVERSA da quella che definisce il presupposto, che
esenta alcune ipotesi dal tributo, che invece rientrerebbero certamente nella nozione di presupposto.
 abbiamo il presupposto come perimetro, l’esclusione delimita questo periodo ma rientra nella norma,
l’esenzione è una ulteriore norma che esenta ipotesi che rientrerebbero nel perimetro.
(PER RAGIONI VARIE, soggettive, oggettive, territoriali).

Spesso le norme di esenzione hanno lo scopo di agevolare un determinato comportamento (una delle
funzioni del tributo è infatti influenzare le condotte). L’esenzione ha proprio tale scopo: quando l’esenzione
ha natura agevolativa, l’idea è di incentivare un certo comportamento, far sì che la tassazione di quel
soggetto/fatto, non vada ad intralciare quel determinato comportamento che io intendo invece agevolare.
Ad esempio certe donazioni non sono reddito per le società che le riceve perché si vuole incentivare quel
comportamento.
Le esenzioni in genere hanno natura agevolativa, MA NON SEMPRE, come nel caso dell’esenzione delle
plusvalenze di impresa. Come regola generale tutte le plusvalenze realizzate dall’imprenditore sono reddito
imponibile; l’esenzione si ha perché il legislatore ci dice che la cessione di partecipazioni (che genera una
plusvalenza) non è tassata, non da luogo a plusvalenze tassabili, perché esse sono quasi totalmente esenti
dia costi. Questa esenzione Non ha come scopo agevolare la cessazione delle partecipazioni delle aziende,
bensì ha lo scopo di evitare una doppia imposizione, perché la partecipazione che l’imprenditore detiene in
una società ha già scontato l’imposta, che è l’imposta che la società partecipata ha versato quando ha
realizzato il reddito. Il presupposto quindi definisce il PERIMETRO dei fatti che generano tributo, per varie
ragioni, e l’esenzione è una ulteriore norma giuridica che esenta determinati fatti che rientrano nel
presupposto secondo la definizione generale.
Mentre l’ESCLUSIONE è una migliore specificazione del presupposto.
LEZIONE 5 PARTE SPECIALE  IMPOSTA SUL REDDITO DELLE PERSONE FISICHE (IRPEF)
Oggi iniziamo la parte speciale.
In particolare richiamiamo alcuni concetti che ci interessano:
Nella teoria dell’imposta, lo studio strutturale di un tributo si divide in 3 parti  Presupposto, misura, i
soggetti passivi. PER OGNI TRIBUTO ALLORA BISOGNA ESAMINARE TALI ELEMENTI. Ne studieremo 4.

Bisogna fare alcune considerazioni generali sul REDDITO: cos’è? Noi abbiamo 2 distinzioni da fare.
A. Modalità con cui in una legislazione fiscale definisce il reddito imponibile  abbiamo 2 approcci.
1. Abbiamo l’approccio italiano: approccio “per categorie” di reddito. Un elemento di reddito è “reddito
imponibile” se specificatamente in uso in una delle categorie di reddito previste dal legislatore.
In Italia ci sono 6 categorie di reddito. Se una componente reddituale rientra in una di queste categorie,
allora è reddito imponibile. Altrimenti non lo è.
2. Abbiamo l’approccio globale: adottato dalla legislazione statounitense. Dove è indicato che il reddito è
“qualsiasi reddito, salvo che non sia specificatamente escluso dal codice tributario” .
Quindi vediamo l’approccio diverso: mentre in Italia una componente di reddito è imponibile solo se
indicata nelle categorie di reddito, negli Stati Uniti e in altri ordinamenti, una componente di reddito è
sempre reddito, salvo che non sia escluso.
In Italia si definisce IN POSITIVO cos’è il reddito, cioè tutte le componenti di reddito sono indicate in
categorie, mentre negli USA è l’esatto opposto: TUTTO il reddito è imponibile, salvo esclusioni.

B. Nozione di reddito stessa --> molti ordinamenti non definiscono il reddito. Nemmeno in Italia.
Però ovviamente la dottrina si è interrogata ed è da più di 100 anni che si interrogano su che cosa sia dal
punto di vista teorico il reddito. I due grandi economisti degli anni 30, Haig e Simons, hanno studiato la
nozione di “Reddito di entrata”  per cui “ogni accrescimento di ricchezza, di qualsiasi natura, da qualsiasi
fonte provenga (vincita, fortuna, economica, eredità), è reddito imponibile”.
Addirittura nella versione più estrema si dice che anche un servizio che io mi presto diventa reddito.
Se ricevo un bene, questo è reddito, ho ricevuto in donazione un bene. Anche se ricevo un servizio.
Ma anche se io stesso mi attribuisco un bene o un servizio! “Anche farsi la barba la mattina” cit.
Nessun ordinamento adotta una nozione così pura.

La seconda nozione è quella adottata dall’Italia di “Reddito prodotto”  “un accrescimento di ricchezza è
un reddito purchè abbia una fonte produttiva” . Secondo questa definizione è chiaro che una donazione non
ha una fonte produttiva, e nemmeno una vincita la ha, non ci sono investimenti o lavori dietro di
economico. E’ contrapposta alla nozione di reddito di entrata.
Si può dire però che l’Italia adotta una nozione di reddito prodotto con delle aperture verso il reddito di
entrata, perché ad esempio nei “redditi diversi” (una delle 6 categorie) ci sono alcune ipotesi che hanno
natura di reddito anche se sono prive di fonte produttiva.

Esistono poi altre 2 nozioni di reddito. Una è il “Reddito consumo”  che indica la parte di reddito
prodotta destinata al consumo. Quindi è il reddito che si misura alla luce delle spese/consumo effettuato
dal reddito. E’ una nozione che in Italia abbiamo avuto col Reddittometro, ossia una determinazione del
reddito che parte dalle spese del contribuente.
L’altra individuata dalla dottrina è il “Reddito liquido”  cioè che va misurato solo quando si concretizza in
liquidità, ogni volta che c’è un giro di liquidità abbiamo reddito, altrimenti no.

Vediamo adesso l’IRPEF, una delle 6 categorie di reddito.


 IMPOSTA SUL REDDITO DELLE PERSONE FISICHE (IRPEF)

Si tratta di una IMPOSTA, e non di una tassa, perché il presupposto non è un servizio della pubblica
amministrazione bensì un fatto economico posto in essere dal contribuente.
Si tratta del tributo di una imposta personale, cioè di una imposta che tiene conto delle caratteristiche
personali; è un tributo periodico (non istantaneo) perché il presupposto è un fatto che si ripete nel
tempo  cioè il possesso del reddito in un arco temporale che per le persone fisiche coincide con
l’anno solare.
Da dove nasce? Prima di una grande riforma degli anni ’70, vi erano svariati tributi aventi natura semi-
reddituale (es tributo sui redditi di ricchezza mobile, imposta sulla famiglia..), una serie di tributi che
però creavano sovrapposizioni e non realizzavano la progressività dell’imposizione, ecco dunque che
nel 1973 tutti questi sono stati abrogati e sono stati creati 2 GRANDI IMPOSTE SUL REDDITO  IRPEF e
IRPEG (imposta sul reddito delle persone giuridiche; questa inizialmente chiamata così, poi a seguito
riforma del 2003, governo Tremonti, si chiama IRES)  Imposta sul reddito delle società  IRPEF E
IRES.

Per ogni categoria bisogna studiarne i 3 elementi (presupposto, misura, soggetti passivi)

Cominciamo ad entrare nel vivo dello studio del diritto tributario e dell’IRPEF.
Iniziamo guardando all’art. 1 del TUIR, cioè del Testo unico delle imposte sul reddito:
“Presupposto dell'imposta sul reddito delle persone fisiche è il possesso di redditi in denaro o in natura
rientranti nelle categorie indicate nell'articolo 6”.
Anzitutto, non c’è una definizione generale di reddito, bensì una DEFINIZIONE PER CATEGORIE.
Vengono indicate nell’art 6 e si tratta di: Redditi fondiari, di capitale, di lavoro dipendente, di lavoro
autonomo, di impresa, redditi diversi  6 categorie a cui fa riferimento.
Quindi da questa norma traiamo che Non c’è una definizione generale di reddito, vi è una definizione solo
categoria per categoria. Alcuna poi hanno una vera e propria definizione, altre una elencazione, altre nulla.
Le categorie hanno varie caratteristiche, e le più importanti sono:
- OMOGENEITA’, (salvo redditi diversi): le categorie di reddito all’interno della singola categoria presentano
elementi omogenei di reddito. Cioè i redditi fondiari hanno tutti caratteristiche comuni, così come i redditi
di capitale ecc. Ogni categoria è proprio un singolo aggregato, ogni categoria ha le sue regole.
Il reddito di impresa ad esempio presenta forza d’attrazione, cioè in una impresa (es spa), per definizione
tutti i suoi redditi sono redditi d’impresa  è il principio di attrazione, la fonte è sempre l’impresa
- OMNICOMPRENSIVITA’, cioè la nozione di reddito della singola categoria è una nozione che sempre è più
ampia di quella civilistica o commerciale. Se si parla di reddito di lavoro dipendente non ritorniamo alla
nozione del lavoratore dipendente del diritto del lavoro, la nostra sarà una nozione più ampia.
All’interno della categoria rientrano elementi ulteriori rispetto a quelli a cui si pensa facendo riferimento
alle categorie giuridiche generali di altre branche del diritto (del lavoro, commerciale ecc)  il diritto
tributario usa categorie proprie.
- CHIUSA, cioè le ipotesi reddituali sono tassativamente previste dal legislatore. Se si realizza quindi una
componente di reddito non indicata in nessuna delle 6 categorie, questa componente di reddito non è
reddito imponibile!!! E’ impossibile applicare analogia come sappiamo.

 NON CI SONO REGOLE COMUNI, OGNI CATEGORIA HA LE SUE.


Se analizziamo le 6 categorie però, da un punto di vista dottrinale, la nozione di Reddito del
legislatore è di Reddito prodotto, con delle aperture verso il Reddito entrata.

NB Il reddito è diverso dal patrimonio: il patrimonio è una fotografia della situazione patrimoniale di un
determinato soggetto, in un certo momento, e li si vede la sua ricchezza.
Il reddito invece è dinamico, si misura in un periodo di imposta, nell’anno solare, previsto dall’art. 7 TUIR.
Ogni periodo di imposta è autonomo, si cristallizza la situazione reddituale.
Conseguenza: E’ reddito l’accrescimento di ricchezza ma non il reintegro patrimoniale.
Se un contribuente consegue una indennità risarcitoria, occorre verificare se questa indennità risarcisce un
danno emergente o un lucro cessante.
Se il risarcimento riguarda il danno emergente, esso non è mai reddito. Risarcisce solo il danno emergente.
Se vado in universita, ho un incidente, l’auto ha un danno, devo sostituirla, e per colpa del fatto
dell’incidente non posso tenere la lezione e conseguire un reddito di 200 euro. Mentre il valore dell’auto è
di 10.000. Se la mia indennità risarcitoria mi risarcisce del danno emergente e del lucro cessante otterrò un
risarcimento per il danno emergente di 10.000 euro e per il lucro cessante di 200 euro, quindi in totale di
10.200 euro. Di questa somma 10.000 è un reintegro patrimoniale, non sarà reddito, mi hanno solo
restituito il valore dell’auto distrutta. Mentre 200 euro di risarcimento del lucro cessante sono reddito.
Ma per capire se è reddito imponibile, devo verificare se a sua volta il risarcimento del lucro cessante
rientrerebbe in una delle ipotesi di reddito imponibile. Se non vi rientra, quel risarcimento non è reddito.
IL RISACIMENTO DEL DANNO EMERGENTE NON E’ MAI REDDITO;
IL RISARCIMENTO DEL LUCRO CESSANTE E’ REDDITO SOLO SE IL REDDITO RISARCITO SAREBBE RIENTRATO
NELLE IPOTESI DI REDDITO IMPONIBILE NELLE 6 CATEGORIE DI REDDITO.
Il danno emergente consiste nella perdita economica che il patrimonio del creditore ha subito per colpa
della mancata, inesatta o ritardata prestazione del debitore. Il lucro cessante è, invece, il mancato
guadagno che si sarebbe prodotto se l'inadempimento non fosse stato posto in essere.

Per definizione, il reddito è una misura netta. Significa che è determinata al netto dei costi di produzione.
Nelle varie categorie ci sono dei costi di produzione differenti.
ES Assumiamo che sono un avvocato, devo stampare un certo atto su carta. Acquisto la carta, e poi ottengo
una parcella/compenso dal cliente. Predispongo un parere per un cliente e questo lo vuole cartaceo.
Per avere parere su carta devo per forza scriverlo e stamparlo. Devo quindi acquistare la carta: quello è un
costo di produzione del reddito. Acquisto la carta perché mi serve per ottenere un compenso.
Poniamo che ho speso 5 euro per comprarla, e la parcella è di 500 euro. IL REDDITO NETTO E’ DI 490
 500 EURO E’ IL COMPENSO MENO I COSTI DI PRODUZIONE DI 5 EURO.
Quando parliamo di reddito, intendiamo un REDDITO NETTO.
MA ALL’INTERNO DELLE SINGOLE CATEGORIE CI SONO REGOLE DIVERSE DI DEDUCIBILITA’ DEI COSTI!!
ESEMPIO: Nei redditi da lavoro autonomo (avvocato es), i costi di produzione sono deducibili.
Per l’impresa, i costi sono deducibili (purchè inerenti ad attività di impresa è implicito).
Per i redditi da lavoro DIPENDENTE, Non sono ammessi costi deducibili. Quindi il lavoratore dipendente (a
differenza da imprenditore e lavoratore autonomo) NON DEDUCE COSTI DI PRODUZIONE DEL REDDITO,
perché? Ce lo spiega la CORTE COSTITUZIONALE per cui è stata sollevata la questione di legittimità
costituzionale della norma che non prevede la deducibilità dei costi di produzione.
Non si può tassare un reddito non netto, perché contrasta col principio di capacità contributiva, perché il
suo indice è il reddito netto!! Dice la corte. Non è un reddito lordo, perché se per realizzare un reddito di
100 consumo 100, la mia ricchezza/indice di capacità contributivo è pari a 0.
 la norma che mi fa tassare un reddito lordo sarebbe difatti incostituzionale.
La CC ha LEGITTIMATO il fatto che per i lavoratori dipendenti non vi fosse deducibilità dei costi dicendo che
loro in realtà NON HANNO costi di produzione del reddito, perché tutto il materiale per lavorare è messo a
disposizione dal datore di lavoro. Quindi non c’è in realtà un costo deducibile per loro.
Quindi ritiene che il reddito da lavoratore dipendente è un reddito che nasce netto.
Stessa cosa per il REDDITO DI CAPITALE  il legislatore ritiene che non vi siano costi deducibili.
Per il REDDITO FONDIARIO  non è ammessa la deduzione dei costi perché il reddito è calcolato in misura
forfettaria. Il reddito fondiario non è effettivo, dato da un ricavo meno costi, bensì è un reddito
predeterminato dal legislatore in base a un sistema catastale.
QUINDI. Il legislatore adotta una nozione di reddito netto, anche nelle ipotesi in cui non è ammessa la
deducibilità dei costi.
Redditi di lavoro autonomo e d’impresa prevedono la deducibilità;
Redditi di lavoro dipendente non vi è deducibilità dei costi; vi è una DETRAZIONE FORFETTARIA (riduzione
dell’imposta ammessa forfettariamente per certi redditi di lavoro dipendente), mentre la deducibilità è una
riduzione della base imponibile.
Reddito fondiario non vi è deduzione dei costi;
Redditi di capitale non vi è deduzione dei costi, perché non ci sono costi di produzione per il legislatore;
Redditi diversi che hanno regole diverse all’interno delle sottotipologie di reddito diverso.

COSA SIGNIFICA TUTTO CIO’  LA NOZIONE DI REDDITO E’ LEGITTIMA SOTTO IL PROFILO DELLA
COSTITUZIONALITA PERCHE’ PER REDDITO SI INTENDE QUELLO NETTO, ANCHE QUANDO NON CI SONO
COSTI DEDUCIBILI C’E’ UNA LOGICA PER CUI QUEL REDDITO NASCE GIA NETTO.

Riprendiamo la norma, art 1. TUIR.


Il co.1 ci dice che “presupposto dell’IRPEF è il possesso di redditi in denaro o in natura”;
1) POSSESSO, BISOGNA FAR RIFERIMENTO AL PERIODO DI IMPUTAZIONE DEL REDDITO
Cosa significa possesso? Il possesso è una nozione DIVERSA da quella civilistica.
Sotto il profilo teorico, per avere POSSESSO deve esserci DISTACCO DAL REDDITO DALLA SUA FONTE
PRODUTTIVA, quindi che acquisti il reddito una sua autonomia/idoneità a produrre reddito.
Quindi col distacco del reddito dalla fonte produttiva abbiamo il Possesso del reddito.
Sotto il profilo pratico, ogni categoria di reddito ha la sua nozione di Possesso.
A. Per quanto riguarda le categorie che adottano il PRINCIPIO DI CASSA TUTTE LE CATEGORIE IN CUI IL
REDDITO E’ IMPUTATO AL PERIODO DI IMPOSTA, IN BASE AL PRINCIPIO DI CASSA, quando cioè si ha una
manifestazione numeraria, quando si percepisce effettivamente il compenso, quando si versa la somma di
denaro corrispondente al costo, POSSESSO SI INTENDE COME “PERCEZIONE” o “INCASSO” per i componenti
positivi di reddito, mentre per i componenti positivi di reddito conta il PAGAMENTO DELLE SPESE.
Quindi quando si ha possesso di reddito? Quando il reddito è percepito, incassato un determinato
componente di reddito.
Quali sono le categorie che adottano il principio di cassa?
IL REDDITO DI CAPITALE, LAVORO AUTONOMO, LAVORO DIPENDENTE, DIVERSI (in parte).

B. Invece abbiamo poi la categoria del REDDITO DI IMPRESA in cui vige il PRINCIPIO DI COMPETENZA  IL
REDDITO SI MANIFESTA/IMPUTATO NEL PERIODO DI IMPOSTA E DICHIARATO DAL CONTRIBUENTE quando
abbiamo una MATURAZIONE GIURIDICA secondo il principio di competenza.
Se un imprenditore cede un bene mobile proprio, egli realizza il reddito non nel momento in cui percepisce
e incassa il denaro, ma nel momento in cui si ha il passaggio di proprietà del bene mobile/avviene la
Consegna. Il possesso si realizza quando ho maturazione giuridica, il momento in cui si consegna il bene
mobile.

C. Per i REDDITI FONDIARI per possesso si intende il POSSESSO DEL TERRENO da parte del proprietario, IL
POSSESSO DEL FABBRICATO da parte del proprietario a titolo di proprietà, quindi il possesso è un
collegamento che non riguarda tanto il reddito (non c’è un reddito effettivo), piuttosto QUANTO CON QUEL
BENE DA CUI SI PRESUME IL REDDITO FORFETTARIO.

2) IN DENARO O IN NATURA
Cosa significa? In denaro lo sappiamo, è un compenso monetario.
In natura possiamo pensare a qualsiasi reddito in natura, cioè anziché ottenere un compenso monetario
ottengo un servizio.
Quando abbiamo a che fare con un reddito monetario la quantificazione è semplicissima, basta vedere la
monetizzazione. Quando abbiamo a che fare con un reddito percepito in natura, nella dichiarazione dei
redditi non posso scrivere di aver ricevuto un computer, devo quantificare il reddito, quindi devo
necessariamente trasformare quel bene in natura in un dato numero, e come faccio a tramutare un
servizio/bene in natura? Devo andare secondo la regola generale dettata dall’art. 9 TUIR, bisogna vedere
QUAL E IL PREZZO MEDIAMENTE PRATICATO.

Quindi vado a vedere il valore normale di quei beni così che nella mia dichiarazione riesco a monetizzare.

Ultimo spunto riguarda i REDDITI CHE HANNO PROVENIENZA ILLECITA.


L’art 14, CO.4 della Legge 537/93 dispone che SE SONO CLASSIFICABILI NELLE CATEGORIE DI REDDITO,
SONO TASSATI ANCHE I REDDITI CHE HANNO PROVENIENZA ILLECITA, cioè provenienti da fatti atti o attività
qualificate come illecito civile/penale/amministrativo.
Non sono una categoria diversa dalle 6 dell’art. 6, si tratta di REDDITI CHE RIENTRANO NELLA CATEGORIA DI
COMPETENZA. Se sono un imprenditore ma compro e vendo beni illeciti, realizzo un reddito illecito, viene
però qualificato come reddito d’impresa. Sono redditi rientranti nelle diverse 6 categorie.
Le vincite da gioco d’azzardo sono redditi diversi che provengono dalla categoria di Redditi diversi.
VI E’ UNA DEROGA: non vi è tassazione dei redditi illeciti se sono già stati sottoposti a sequestro o confisca
nel periodo d’imposta in cui realizzati.
Di per sé già tassare i redditi illeciti è peculiare. Non può essere legittimato, ma il legislatore vuole evitare
che questo soggetto sfugga ad ogni tassazione fiscale.
Per ragioni punitive inoltre si disconoscono i costi di produzione dei redditi illeciti, quindi i costi di
produzione di redditi illeciti non sono deducibili dal reddito illecito imponibile, e questo vale se il PM ha già
esercitato l’azione penale (ha già presentato cioè la richiesta di rinvio a giudizio).
Se il reddito è illecito, il costo di produzione non è deducibile. Ciò comporta una serie di problemi quando
una attività è in parte lecita e in parte illecita, bisogna ricostruire i costi deducibili o meno in base all’attività
lecita e illecita.

LEZIONE 6 IRPEF E SOGGETTI PASSIVI


Abbiamo iniziato a parlare del PRESUPPOSTO dell’Irpef esaminando l’art. 1 TUIR  DPR n.917 1986*
Abbiamo poi visto la nozione di “possesso di redditi in denaro o in natura”.
Il possesso abbiamo visto che coincide con il criterio di imputazione temporale del componente di reddito
(principio di cassa, principio di competenza, redditi in denaro o in natura –valore di mercato alla luce
dell’art.9,co3).
Abbiamo poi visto i redditi di provenienza illecita, legge 1993/537 art. 14.

Oggi vediamo i SOGGETTI PASSIVI IRPEF, ART 2. TUIR


Quando abbiamo visto la teoria dell’imposta abbiamo visto che la struttura del tributo è scomponibile in 3
elementi. Il presupposto (art. 1) lo abbiamo visto, la misura, e i soggetti passivi.
 CHI SONO I SOGGETTI PASSIVI? SIGNIFICA IMPOSTA SUL REDDITO DELLE PERSONE FISICHE,
quindi sono le PERSONE FISICHE. Non si applica alle società, agli enti non commerciali, solo a loro.
In particolare alle PERSONE FISICHE RESIDENTI FISCALMENTE IN ITALIA E ALLE PERSONE FISICHE
FISCALMENTE NON RESIDENTI IN ITALIA. In particolare, si applica
1. Alle persone fisiche residenti in Italia l’imposta sui redditi si applica OVUNQUE PRODOTTI NEL MONDO 
anche all’esterno, si parla di “principio di tassazione globale”, il reddito è globale, si sommano tutti i redditi
ovunque essi si realizzino a prescindere dalla fonte
2. Alle persone fisiche non residenti in Italia l’imposta sui redditi si applica SOLO SUI REDDITI CHE HANNO
FONTE NEL TERRITORIO DELLO STATO ITALIANO  se un non residente viene in Italia e realizza reddito in
Italia, è assoggettato ad Irpef in Italia.

Ma chi sono questi soggetti 1,2, fiscalmente residenti e fiscalmente non residenti in Italia?
La nozione di RESIDENZA del legislatore tributario NON COINCIDE con la nozione civilistica.
Sono “fiscalmente residenti” le persone fisiche che presentano 3 requisiti:
L’articolo 2 dice che SONO RESIDENTI LE PERSONE FISICHE CHE, PER LA MAGGIORPARTE DEL PERIODO DI
IMPOSTA(coincidente con anno solare, quindi per almeno più della metà dei giorni dell’anno), DETENGONO
IN ITALIA
1. O LA RESIDENZA CIVILISTICA: requisito sostanziale, dimora abituale
2. O IL DOMICILIO CIVILISTICO: requisito sostanziale centro dei propri affari ed interessi (lavoro, famiglia)
3. O SONO ISCRITTE NELL’ANAGRAFE DELLA POPOLAZONE RESIDENTE: requisito formale, è sufficiente
essere iscritti all’anagrafe di un comune per essere considerati residenti (sempre fiscalmente)
 al ricorrere di 1 di questi requisiti, alternativi tra loro, la persona fisica è residente fiscalmente in Italia.
Possono anche ricorrervi tutti e 3, ma ne basta 1.

NB Classico caso del cittadino italiano sempre fiscalmente residente, e poi decide di partire e andare
all’estero a studiare, lavorare, si ferma li qualche anno. La sua dimora abituale è all’estero, il centro degli
affarii è all’estero, però è iscritto all’anagrafe e dimentica di cancellarsi da li, rimane questo requisito e
rimane fiscalmente residente in Italia, vi è ancora collegata. E tale requisito è sufficiente.
I redditi che realizzerà negli altri Stati del mondo sono Redditi tassati in Italia (principio tass globale).

INDICI DI RESIDENZA, QUANDO POSSIAMO RITENRE UNA PERSONA FISCALMENTE RESIDENTE IN ITALIA?
C’è una circolare delle Agenzie delle entrate del 2008 n. 351 che ci dice che sono indici di residenza
l’abitazione permanente, la presenza della famiglia, il possesso di beni in Italia, l’iscrizione alla palestra, il
lavoro ecc  tutti questi elementi fanno intendere che una persona sia residente in Italia.
Spesso succede che la persona fisica Italiana vorrebbe sfuggire all’Irpef in Italia (magari perché produce
beni prevalentemente all’estero) e decide di trasferirsi all’estero. Se il trasferimento è effettivo e non
sussistono più quei 3 requisiti, non ci sono problemi. Dalla prospettiva Italiana non c’è problema ad
ammettere tale comportamento. E’ legittimo. Però lo deve fare davvero. Se andiamo a vedere alcuni casi
sui giornali (Valentino Rossi, Pavarotti…), hanno trasferito la loro residenza in Stati a fiscalità privilegiata per
sfuggire all’imposizione dei redditi globali da parte dell’Italia. Ad esempio Pavarotti era andato a
Montecarlo. Cosa succede però: prima che fosse introdotto il co.2-BIS TUIR, l’Agenzia delle entrate doveva
dimostrare che il contribuente manteneva in Italia il suo centro di affaro/dimora/non si era cancellato
dall’anagrafe. L’onere di provare la residenza della persona fisica GRAVA sull’Agenzia delle entrate prima
della fase del processo.
E’ chiaro però che per conoscere effettivamente se un soggetto si trasferisce o non si trasferisce in un certo
Stato, è opportuno conoscere il legame della persona fisica col nuovo stato. Assumiamo che la persona
fisica si cancella dall’anagrafe, concentriamoci sui requisiti sostanziali.
Come faccio a sapere se effettivamente ha dimora e centro d’affari in quello stato? Senza la sua
collaborazione, l’amministrazione finanziaria ha difficoltà a dimostrare che non ha legami con lo stato
estero. Allora succede che vi è uno SCAMBIO DI INFORMAZIONI, l’Italia chiede al paese estero se
effettivamente la persona fisica ha dimora, lavoro, una serie di attività in quel paese.
Problema: se questo paese non scambia informazioni con noi, l’amministrazione finanziaria è
impossibilitata a conoscere quelle informazioni. Allora nel 2007 è stata introdotta una nuova norma:
CO.2-BIS, art. 2 Tuir  si considerano altresì residenti, salvo prova contraria(quindi abbiamo a che fare
con presunzione legale relativa, suscettibile di prova contraria), i cittadini italiani cancellati dalle anagrafi
della popolazione residente e trasferiti in Stati o territori diversi da quelli individuati con decreto del
Ministro dell'economia e delle finanze, da pubblicare nella Gazzetta Ufficiale”
 quindi I cittadini italiani che si trasferiscono in un paradiso fiscale, indicato in un elenco, continuano ad
essere fiscalmente residenti, salvo che il contribuente non provi il contrario  PER SOPPERIRE
ALL’IMPOSSIBILITA DELL’AMMINISTRAZIONE FINANZIARIA DI FORNIRE LA PROVA CHE GRAVEREBBE SU DI
LEI NELLE IPOTESI IN CUI LO STATO ESTERO NON SCAMBI INFORMAZIONI, VI E’ UN RIBALTAMENTO
DELL’ONERE DELLA PROVA  GRAVA SUL CONTRIBUENTE dimostrare se è effettivamente trasferito.
Quindi quella famosa circolare può tornare utile (chiedere multe, scontrini, iscrizioni palestra, una serie di
dati che dimostrano effettivamente il trasferimento).
SE INVECE IL TRASFERIMENTO DELLA RESIDENZA AVVIENE IN UN PAESE CHE NON E’ PARADISO FISCALE,
L’ONERE DELLA PROVA/LE REGOLE DI DISTRIBUZIONE DELLA PROVA SONO ORDINARIE  E’
L’AMMINISTRAZIONE FINANZIARIA A DOVER DIMOSTRARE CHE IL CONTRIBUENTE HA LA DIMORA/IL
CENTRO AFFARI.

La nozione di DOMICILIO FISCALE:


diverso dalla Residenza fiscale o dalla Residenza civilistica o dal Domicilio civilistico.
Il DOMICILIO FISCALE è una nozione di diritto formale per indicare dove l’amministrazione finanziaria deve
notificare un eventuale atto in positivo, quindi qual è la competenza dell’Agenzia delle entrate ad accertare
un certo contribuente. Mentre la nozione di RESIDENZA FISCALE è di diritto sostanziale.

Ora dobbiamo spiegare:


- LE IMPRESE FAMILIARI: la famiglia non è un contribuente. Non è un soggetto passivo dell’Irpef, è il singolo
individuo fisico che è il soggetto passivo. Anche l’impresa familiare NON è un contribuente.
Resta difatti una impresa individuale con dei collaboratori che sono familiari.
Essa però assume rilevanza fiscale laddove viene costituita con atto pubblico o scrittura privata
autenticata dalla quale risultano i familiari partecipanti all’impresa familiare. Tale atto, firmato
dall’imprenditore, deve essere firmato da tutti i familiari coinvolti in essa.
Cosa ci dice la disciplina sull’impresa familiare  art. 5 TUIR. Questa norma ci dice che Per evitare che si
eluda la progressività dell’imposizione, il reddito d’impresa deve essere tassato per almeno il 51%
dall’imprenditore individuale. Il restante 49% va assoggettato a tassazione nei confronti dei collaboratori
familiari, a prescindere dalla effettiva percezione di questo reddito.
Si vuole evitare che con l’impresa familiare ci si distribuisca tra tutti i componenti dell’impresa un reddito
per eludere la progressività. E’ chiaro che non è indifferente avere in una famiglia di 5, averne uno che
realizza 200.000. Ci sarebbe convenienza fiscale ad avere 5 contribuenti che realizzano 40.000 euro
ciascuno, perché l’aliquota applicabile sarebbe inferiore.
La norma è anche elusiva, ci dice che almeno il 51% di quel reddito deve essere imputato all’imprenditore.

- LA SOCIETA’ DI PERSONE(IMPO PER ESAME): le società di persone sono la società semplice, la società in
nome collettivo, la società in accomandita semplice  3 tipologie caratterizzate dalla RESPONSABILITA’
ILLIMITATA DEI SOCI (salvo peculiarità di diritto commerciale). Oltre a questa caratteristica, I SOCI
GENERALMENTE SONO ANCHE AMMINISTRATORI, quindi c’è una coincidenza di fatto tra la figura del
socio-quella dell’amministratore. Le quote inoltre non possono essere trasferite senza consenso degli altri
(personalità delle quote).
Di tutto questo tiene conto il legislatore fiscale nell’art. 5 TUIR. Proprio alla luce del poco distacco tra soci
che sono anche amministratori – la società, il reddito della società di persone è considerato REDDITO
PERCEPITO DIRETTAMENTE DAI SOCI: si dice che la società di persone è fiscalmente trasparente.
E’ una entità fiscalmente trasparente perché il suo reddito è tassato direttamente in capo ai soci.
Infatti il co.1, art.5 ci dice chiaramente: “I redditi delle societa' semplici, in nome collettivo e in accomandita
semplice residenti nel territorio dello Stato sono imputati a ciascun socio indipendentemente dalla
percezione, proporzionalmente alla sua quota di partecipazione agli utili”

 norma chiara nel diritto tributario. Le società di persone quindi non sono soggetti passivi di alcuna
imposta sul reddito, ne del’Irpef ne dell’Ires!!! In virtù delle loro caratteristiche SONO SOGGETTI
TRASPARENTI E I LORO REDDITI, anche se non sono percepiti dal socio, SONO TASSATI E IMPUTATI PER
TRASPARENZA AI SOCI  i soci non li devono percepire, la società non deve distribuire quegli utili ai soci.
Il reddito è come se fosse realizzato direttamente dal socio, come se la società di persone non esistesse.

Anticipiamo un’altra cosa: il reddito che il socio ritrae dalla partecipazione NON E’ un reddito da
partecipazione inteso come categoria di reddito. Ha la stessa natura del reddito realizzato dalla società di
persone. Siccome la società di persone in nome collettivo e in accomandita semplice sono società
commerciali, la loro attività genera sempre e comunque reddito d’impresa. Quindi di regola le società di
persone commerciali REALIZZANO reddito d’impresa: quindi significa che PER TRASPARENZA il socio
realizzerà reddito d’impresa. Quindi non è una categoria di reddito diverso!!!
Non c’è un reddito “da partecipazione” come fosse una categoria residuale.

Ipotesi particolare è quella dei REDDITI DEL DE CUIUS. In caso vi sia un decesso chi ha realizzato il reddito
non ha ancora realizzato l’imposta. In tal caso l’imposta è dovuta dagli eredi.
Si verifica proprio un distacco tra il soggetto produttore di reddito(de cuius) – il soggetto passivo del reddito
(erede). Non c’è problema di capacità contributiva assumendo che lui è l’erede che percepisce l’eredità.

Ora vediamo COME SI DETERMINA IL REDDITO IMPONBILE.


ART. 8: “Il reddito complessivo si determina sommando i redditi di ogni categoria che concorrono a
formarlo” fermiamoci a questa prima parte.
 Il reddito da assoggettare ad IRPEF si determina come SOMMATORIA DEI REDDITI CHE ENTRANO NELLE
VARIE CATEGORIE DI REDDITO. (1)
Quindi la regola generale è quella secondo cui, assumendo di non avere perdite, IO PRENDO I REDDITI DI
TUTTE E 6 LE CATEGORIE VISTE PRIMA, E LI SOMMO. Sommo i redditi delle singole categorie.
UNA VOLTA SOMMATE LE CATEGORIE, OCCORRE SOTTRARRE LE PERDITE.(2)
Quali perdite? QUELLE CHE DERIVANO DALL’ESERCIZIO DI ARTI E PROFESSIONI, cioè la categoria del
reddito da lavoro autonomo. Molte categorie di reddito non possono generare una perdita.
Le perdite che derivano dalla categoria dei redditi diversi sono perdite che riguardano il mondo finanziario.
Le perdite nel reddito di capitale non ci sono perdite, o ci sono utili o non c’è reddito.
Nel lavoro dipendente non c’è perdita, non ci sono costi deducibili, al più si perde il lavoro.
Nemmeno nei redditi fondiari c’è una perdita intesa proprio come risultato negativo.
SI PUO AVERE RISULTATO NEGATIVO NEL REDDITO D’IMPRESA. Se ho perdite che derivano da imprese
commerciali, le perdite a quel punto sono scomputabili (co.2 e 3) soltanto dai redditi della stessa categoria
 se sono imprenditore e ho 2 imprese diverse, posso scomputare le perdite di una delle 2 con quelle
dell’altra. Le perdite quindi che derivano da imprese commerciali sono computate in diminuzione dai
relativi redditi conseguiti nel periodo d’imposta!! Quindi se io son socio di più societa, una realizza la
perdita e l’altra un’utile, allora io posso scomputare le perdite dal reddito della società di persone
commerciale. Non posso scomputare le perdite di impresa commerciale da altro.
Cosa succede se però io ho solo perdite in 1 anno? POSSO RIPORTARE LA PERDITA “A NUOVO”, cioè
trasportarla nell’anno successivo e dedurla dai redditi dell’anno successivo (della stessa categoria) MA
NEI LIMITI DELL’80% DEI REDDITI FUTURI.

Una volta fatta l’operazione (sommatoria dei redditi+tenendo conto delle perdite), DEVO TENER CONTO
DEGLI ONERI DEDUCIBILI. (3) Cosa sono? Sono delle DEDUZIONI DAL REDDITO  vado a ridurre il reddito
che ho determinato da quelle operazioni e da alcune spese (es spese mediche derivanti da invalidità, oneri
che riducono il REDDITO, una serie di casi/oneri deducibili  art. 10.
Vi sono quindi una serie di oneri deducibili, alcuni riconducibili a spese personali (l’IRPEF è una imposta
personale).
Una volta sottratti gli oneri deducibili, (4) VADO A DETERMINARE L’IMPOSTA.
CIOE’ PRENDO IL RISULTATO, A QUEL PUNTO APPLICO DELL’ALIQUOTA  art. 11.
L’aliquota è PROGRESSIVA PER SCAGLIONI, non per classi. Cosa significa? Se ho un reddito meno perdite
meno oneri deducibili pari ad importo fino a 15.000, l’IRPEF/L’IMPOSTA è data dal 23% di quell’importo.
Se invece il reddito è superiore a 15.000 e inferiore a 28.000 euro, l’aliquota è del 28%.

Ma cosa significa ALIQUOTA PROGRESSIVA PER SCAGLIONI e non per classi?


Se fosse per classi e assumiamo di avere reddito di 20.000 euro, io dovrei applicare il 27% all’intero 20.000
euro. In realtà le aliquote sono progressive PER SCAGLIONI. Se quindi ho reddito di 20.000 euro, ai miei
primi 15.000 applico l’aliquota del 23%, poi ai miei successivi 5.000 euro (avevo 20.000 euro abbiamo
assunto) applico il 27%. PER DETERMINARE L’IMPOSTA DI UN CONTRIBUENTE CON REDDITO DI 20.000
EURO, DEVO APPLICARE AI PRIMI 15.000 IL 13% E SOMMARE IL 27% di 5.000 CHE E’ DATO DALLA
DIFFERENZA TRA IL MIO REDDITO TOTALE (20.000) MENO IL 15.000 GIA TASSATO CON LO SCAGLIONE 1.

 QUESTO FINO A QUANDO? QUANDO ARRIVO OLTRE AI 75.000 AVRO’ ALIQUOTA DEL 43%.
Quindi se il mio reddito è di 80.000 euro non avrò aliquota sull’intera somma di 80.000 di 43, ma
avrò il 23% dei primi 15.000, poi per i successivi 13.000 data dalla la differenza tra 28 e 15 del 27%,
avrò il 38% sul successivo scaglione, il 41% sul successivo scaglione, e l’ultimo di 5.000 euro 43%.
NON E’ L’INTERO 43% CHE E’ PROGRESSIVO.

Poi abbiamo le DETRAZIONI DI IMPOSTA. (5) Una volta calcolata l’imposta, tramite le DETRAZIONI detraggo
degli importi dall’imposta  NB QUI C’E’ UNA DIFFERENZA TERMINOLOGICA FONDAMENTALE
DEDUZIONE: RIDUZIONE DELLA BASE IMPONIBILE DEL REDDITO
DETRAZIONE: RIDUZIONE DELL’IMPOSTA
Abbiamo quindi una serie di altre ipotesi che prevedono delle DETRAZIONI in certi casi.
La prima ipotesi è quella per i Carichi di famiglia  se abbiamo familiari a nostro carico, è prevista una
detrazione, che cambia a seconda che sia coniuge, figlio ecc.
Altra ipotesi è quella per Le spese mediche, le spese di istruzione  detrazioni che solitamente sono
limitate ad una certa percentuale.

 DETERMINO IN QUESTO MODO L’IMPOSTA NETTA.

A quel punto potrei avere da sottrarre crediti d’imposta. Sottratto il credito d’imposta, devo versare il
tributo al netto però degli acconti che ho già versato durante l’anno. Mi trovo quindi a trovare a versare
quello che dovrei pagare complessivamente meno gli acconti già versati (es con la ritenuta a titolo
d’acconto).
A questo punto verso l’imposta dovuta.

LA TASSAZIONE SEPARATA.
E’ una tassazione applicabile quando i redditi hanno provenienza pluriennale, maturati in tanti anni ma che
si manifestano in un unico esercizio. Da allora devo avere una aliquota che non è dell’ultimo anno ma è una
media di aliquote di anni precedenti. Troviamo nel libro questo capitolo.

LEZIONE 7 I REDDITI FONDIARI E DI CAPITALE


In questa lezione andiamo ad esaminare 2 delle 6 categorie di reddito: I REDDITI FONDIARI E DI CAPITALE.
Abbiamo esaminato la determinazione dell’IRPEF partendo dalla somma dei redditi delle varie categorie.
Ora esaminiamo categoria per categoria cosa ci dicono le norme relative, in particolare vedremo il
perimetro della categoria stessa/la definizione del reddito che entra in quella categoria.

Iniziamo con i REDDITI FONDIARI: è la prima categoria che troviamo descritta nel TUIR.
E’ disciplinata dagli artt. 25 – 41 del Testo unico delle imposte sui redditi.
Art. 25: “Sono redditi fondiari quelli inerenti ai terreni e ai fabbricati situati nel territorio dello Stato che
sono o devono essere iscritti, con attribuzione di rendita, nel catasto dei terreni o nel catasto edilizio
urbano”
 Dà la definizione generale di redditi fondiari.
Quindi vediamo nella definizione che sono i redditi inerenti a terreni e fabbricati situazioni in Italia che
devono essere iscritti nel catasto. Abbiamo quindi 2 caratteristiche fondamentali:
1. I terreni e i fabbricano devono essere situati in Italia: UBICAZIONE IN ITALIA
2. Iscrizione in catasto  2 requisiti che devono esservi entrambi!!

Abbiamo quindi questa categoria che al ricorrere dei requisiti è la prima categoria di reddito.
Se i fabbricati o i terreni non hanno queste caratteristiche previste (es un immobile è sito in Francia) o non
sono iscrivibili in catasto, NON GENERANO REDDITITI FONDIARI.
MA non significa che non siano reddito imponibile: bisogna verificare infatti se quell’immobile sito in
Francia genera reddito che rientra in altre categorie di reddito (rientrano nei Redditi diversi).

I redditi fondiari si distinguono in 2 categorie (ma in totale 3 tipologie)


1. Redditi dei terreni, cioè i redditi inerenti a terreni, distinguibili a loro volta in
- Redditi dominicali.
- Redditi agrari.
DIFFERENZA: Dal punto di vista teorico, i redditi dei terreni possono remunerare quali fattori?
La terra nel suo stato naturale, il capitale investito durevolmente di miglioramento nel terreno, il capitale
d’esercizio, e possono remunerare il lavoro.
Quindi se noi pensiamo di avere un terreno, questo genera reddito dal punto di vista teorico per il fatto di
essere proprietari noi di quel terreno, di investire con del capitale di miglioramento (es opera di bonifica o
di irrigazione), possiamo poi avere il capitale d’esercizio (es acqua utilizzata per irrigare), o avere il lavoro
(pensiamo al lavoro del coltivatore).
Quindi
- Il reddito dominicale (art. 27) è  Il reddito dominicale è costituito dalla parte domenicale del reddito
medio ordinario ritraibile dal terreno. La parte domenicale è la parte che remunera la terra nel suo stato
naturale e dalla parte che remunera il capitale di miglioramento investito durevolmente nel terreno.
- Il reddito agrario (art. 32) è  Il reddito agrario è costituito dalla parte del reddito medio ordinario dei
terreni imputabile al capitale d’esercizio e al lavoro. Quindi il reddito agrario è quella parte del reddito dei
terreni che remunera il capitale d’esercizio(es acqua) e il lavoro(es agricoltore).

Ma cos’è l’attività agricola? L’attività agricola può essere l’attività diretta alla coltivazione del terreno e alla
silvicoltura. Possiamo avere l’allevamento d’animali, purchè con mangimi ottenibili per almeno ¼ dal
terreno. Cosa significa? Se sono allevati animali a terra, probabilmente il terreno su cui sono allevati è
sufficiente per alimentare per almeno ¼ gli animali che vi sono allevati. Se invece il mio terreno è troppo
piccolo per potergli dare ¼ del mangime agli animali, allora non sarà reddito fondiario/agricolo.
Quando ho un allevamento devo verificare se gli animali sono potenzialmente alimentabili con mangimi
ottenibili per almeno ¼ sul terreno in cui insistono.
Non è necessario che gli animali siano alimentabili su quel terreno con mangime ottenibile da quello
specifico terreno, ma è necessario che Dal punto di vista teorico quel terreno sia grande a sufficienza per
alimentare per almeno ¼ gli animali presenti.
ESEMPIO: TORRE DI GALLINE. Pensiamo di avere galline che producono uova come allevamento.
Sono libere in giardino e sono alimentabili per almeno ¼ del mangime su quel terreno. Se però le galline
anziché essere coltivate sulla terra vengono inserite in delle gabbie e queste sono sovrapposte l’una
sull’altra come da creare una torre, a quel punto il pezzo di terra su cui le galline sono allevate diventa
molto piccolo in relazione al numero di galline. Quindi non è sufficiente per alimentare per almeno ¼ le
galline. Ecco allora in questo caso Il reddito realizzato in questo allevamento NON E’ REDDITO AGRIARIO.
(se si superano i limiti, l’attività diventa attività d’impresa e genererà reddito d’impresa).

2. Redditi dei fabbricati, cioè inerenti ai fabbricati.

CHI COLPISCONO I REDDITI FONDIARI?


A. REDDITI DEI TERRENI:
Colpiscono i proprietari e i titolari di altro diritto reale. Quindi usufrutto ma non nudo proprietario, oppure
l’enfiteusi. Se abbiamo un proprietario di terreno, lui realizzerà reddito fondiario (domenicale).
Ma c’è una ECCEZIONE  i redditi agrari non necessariamente devono essere dichiarati dal proprietario e
posseduti da proprietario del terreno, ma sono posseduti da colui che coltiva il terreno. Quindi il
proprietario che coltiva anche il terreno possiede redditi fondiari, e in particolare sia domenicale che
agrario. Se invece il proprietario decide di non coltivare il terreno ma di dare in affitto ad un coltivatore il
terreno, allora il proprietario realizza reddito domenicale dei terreni, mentre il coltivatore affittuario
realizza reddito agrario dei terreni.

B. REDDITI DEI FABBRICATI:


Colpiscono il proprietario o il titolare di diritto reale sui fabbricati.
Nel momento in cui ci si interroga nell’ipotesi in cui la proprietà è divisa tra nuda proprietà e usufrutto, il
reddito fondiario viene dichiarato/posseduto dall’usufruttuario e non dal nudo proprietario.

Domanda:
N. 1 Vi è un soggetto proprietario di un terreno che decide di cedere usufrutto sul terreno (rimane nudo
proprietario). Abbiamo quindi soggetto A nudo proprietario, soggetto B usufruttuario, B decide di affittare il
terreno ad un coltivatore C. CHI DICHIARA COSA?
Il reddito domenicale viene dichiarato da B, il reddito agrario da C.
N. 2 Nel caso di redditi dei fabbricati, posso avere un usufruttuario e un nudo proprietario, ed è
l’usufruttuario che è tenuto a dichiarare il reddito dei fabbricati.
N. 3 Nel caso di cessione durante l’anno: il reddito va diviso in che modo? Per il periodo in cui è stato
proprietario il cedente, il reddito va dichiarato da lui; per il periodo in cui è stato proprietario il cessionario,
sarà lui a dichiarare il reddito.

LA REGOLA PARTICOLAR CHE RIGUARDA I REDDITI FONDIARI E’ LA REGOLA DI DETERMINAZIONE:


I redditi fondiari sono quantificati in misura NON effettiva. Questa è una peculiarità.
Andiamo a determinare un reddito qui non in modo effettivo come regola generale, bensì in misura
FORFETTARIA  i redditi fondiaria non sono determinati in misura effettiva, non è il reddito effettivo a
dover essere dichiarato. E’ il reddito forfettario!!
E come si determina? E’ UN REDDITO MEDIO-ORDINARIO si dice, quindi va determinato alla luce di una
RENDITA CHE E’ DATA DAL CATASTO.
E perché è un reddito medio ordinario? Perché è predeterminato dal legislatore in misura forfettaria alla
luce delle caratteristiche che il terreno ha, e alla luce delle caratteristiche che un coltivatore medio può
avere. Quindi e’ un reddito determinato tenendo conto della media della produzione di più anni
( per un terreno ci sono i cicli di coltivazione, ci sono anni in cui la produzione è altissima, altri in cui è nulla,
altri in cui è media). Nella determinazione media-ordinaria si tiene conto anche nella sua ciclicità della
produzione dei terreni. Si dice ordinario perché si guardano anche le capacità ordinarie del buon padre di
famiglia inteso come coltivatore, colui che sa coltivare il terreno, non il più bravo ma tantomeno il più
scarso. Il legislatore quindi col metodo catastale predetermina il reddito medio-ordinario.
Perché si tiene conto di questo e non del reddito effettivo? Vi sono 2 sostanziali ragioni:
1. La semplicità. E’ più semplice una predeterminazione, io so che sono proprietario del terreno a
prescindere da quella che sarà la produzione dello stesso.
2. Per incentivare la produzione stessa. Si vuole evitare che ci siano persone che non producano/non
coltivino i terreni. Il reddito medio ordinario incentiva la produzione perché se non coltivo il terreno sono
comunque costretto a versare un’imposta sul reddito.

IL METODO CATASTALE, IL CATASTO


Come si determinano i redditi fondiari? Sono determinati in maniera forfettaria/media ordinaria.
Ma con quali passaggi? Al riguardo bisogna partire dal CATASTO: inventario nel quale sono descritti i
terreni, i fabbricati, i relativi proprietari e le rendite catastali appunto.
Il catasto si divide in unità catastali, che sono diverse per i fabbricati e per i terreni.
-Per quanto riguarda I FABBRICATI: esso si divide in UNITA’ IMMOBILIARI; quindi le unità catastali sono
chiamate unità immobiliari, che sono porzioni di immobili dello stesso proprietario idonee a produrre in
teoria del reddito, e sono divise in base alla zona e alla categoria. La zona sappiamo cos’è, la categoria si
dividono per lettere (alla categoria A corrispondono abitazioni, B ospedali, C negozi, B anche università..)
E queste categorie all’interno sono divise in classi, quindi avremo categoria A relativa all’abitazione (case di
lusso, quelle più economiche, i castelli ecc).
-Per quanto riguarda i TERRENI: l’unità catastale è chiamata PARTICELLA CATASTALE, sono porzioni
contigue di terreno, appartenenti al medesimo possessore, divise in base alla qualità (tipo di coltivazione) e
alla classe (grado di produttività). Un terreno può avere un grado di produttività diverso a seconda che sia
in pianura o in montagna. E il tipo di coltivazione ogni terreno può averlo diverso.

 AD OGNI UNITA’ CATASTALE, che sia una unità immobiliare o una particella catastale,
CORRISPONDE UNA RENDITA, DETTA QUESTA RENDITA POI TRAMITE UN CONTEGGIO SI
DETERMINA IL REDDITO MEDIO-ORDINARIO, che è un reddito che nasce NETTO, non tiene conto
di costi di produzione del reddito, è già determinato in misura netta. Il legislatore tiene già conto di
quelli che sono i costi di produzione.

Per i terreni avrò un reddito domenicale medio ordinario e un reddito agrario medio ordinario.
I due redditi variano in relazione alla rendita che dipende dal tipo di terreno e dallla qualità e classe del
terreno stesso.
Se un terreno non è affittato, l’IMU (imposta patrimoniale che colpisce terreni e fabbricati) sostituisce il
reddito domenicale  regola. Abbiamo quindi una IMPOSTA SOSTITUTIVA NOMINATA (l’IMU che
sostituisce l’imposta sul reddito).

QUALI TIPI DI REDDITI DERIVANTI DA TERRENI NON SONO CONSIDERATI REDDITO FONDIARIO
Ci sono 3 tipi di terreni che non generano reddito fondiario:
1. I terreni dati in affitto per usi non agricoli. Ad esempio un terreno dato in affitto per uso campeggio, non
si pratica attività agricola, si applicano invece le regole del reddito diverso.
2. Non generano reddito le pertinenze dei fabbricati. Ad esempio un giardino di una abitazione come
pertinenza di fabbricato.
3. I terreni strumentali all’esercizio di una impresa. Ad esempio il terreno su cui è effettuata una
produzione industriale di uova (es torre di gallina).

REDDITI DEI FABBRICATI: CI SONO REGOLE DIVERSE DI DETERMINAZIONE FORFETTARIA


Si calcola sempre il reddito medio-ordinario/forfettario derivante da catasto, ma occorre confrontarlo COL
REDDITO CHE DERIVA DALLA LOCAZIONE  Reddito effettivo della locazione dell’immobile ridotto del 5% a
titolo di copertura forfettaria dei costi. Quindi io confronto 2 redditi diversi: reddito forfettario ed effettivo
(decurtato forfettariamente del 5%).
IL MAGGIORE DEI DUE, IL PIU ALTO DEI DUE VALORI, E’ QUELLO CHE VA CONSIDERATO COME REDDITO
POSSEDUTO E QUINDI DEVO DICHIARARLO NELLA DICHIARAZIONE DEI REDDITI.
NB Altra eccezione: casa adibita ad immobile principale genera reddito fondiario ma è esente da imposta,
nella dichiarazione dei redditi devo inserire il reddito fondiario che deriva dalla 1 casa ma renderlo esente
da imposta(?).

 Regole di determinazione che riguardano i fabbricati.

PER SINTETIZZARE: per i terreni si applica reddito medio ordinario, per i fabbricati bisogna fare un
confronto.
QUINDI CHI PUO’ REALIZZARE REDDITI FONDIARI?
Una persona fisica, ma anche una società semplice, o anche società di persone srl agricole a ricorrere di
certe condizioni. Ma cosa succede se il reddito agrario è realizzato da una società semplice? Succede che
quel reddito sarà imputato per trasparenza ai soci.
Possono realizzare reddito fondiario anche gli enti non commerciali, che però non sono soggetti passivi
irpef, non sono trasparenti fiscalmente, ma sono passivi dell’IRES.
I REDDITI DI CAPITALE
Sono la seconda categoria di reddito che trattiamo.
La disciplina dei redditi di capitale è contenuta nel TUIR prevalentemente, artt. 44-48bis.
C’è da dire però che i redditi di capitale non sono disciplinati solo dal TUIR ma anche in altri testi legislativi,
il più importante dei quali il DPR 600/1973. Inoltre alcune regole che valgono per i redditi di capitale
valgono anche per i redditi diversi di natura finanziaria. Vi sono proprio regimi trasversali che riguardano i
redditi di capitale e alcuni di questi redditi diversi  è una disciplina particolare e complessa.
Differentemente dai redditi fondiari, NON vi è una definizione di redditi di capitale, bensì vi è una
definizione “per elencazione”  c’è un elenco di tipi di reddito riconducibili ai redditi di capitale.
Tra questi 3 sono i più importanti:
- Gli interessi attivi, che remunerano il capitale di debito, quindi gli interessi che derivano da un prestito (es
prestiti derivanti da mutui, interessi su conto corrente)
- I dividendi, la remunerazione del capitale di rischio, sono quindi la remunerazione ricevuta dai soci della
società quando la società decide di redistribuire i propri utili
- Una formula residuale alla lettera H: altri proventi derivanti da altri rapporti aventi per oggetto l’impiego
del capitale. Sono TUTTI gli altri proventi che derivano dall’impiego di capitale (omni-comprensività).

Le caratteristiche comuni di queste tipologie sono quelle di avere ad oggetto L’IMPIEGO DEL CAPITALE.
Sono invece escluse/non sono reddito di capitale i “rapporti attraverso cui possono essere realizzati
differenziali positivi e negativi in dipendenza di un certo evento”.
Questo è il caso delle plusvalenze e minusvalenze che derivano dalla compravendita dei titoli partecipativi.
Se io ho un titolo partecipativo acquistato per 100 che poi rivendo per 120, realizzo una plusvalenza di 20.
Quel differenziale positivo NON è reddito di capitale perché manca un elemento fondamentale avendo esso
natura aleatoria, non ha la certezza che deriva invece da un investimento.

I principi generali di determinazione dei redditi di capitale sono 2:


1. PRINCIPIO DI CASSA: con eccezioni, significa che i redditi sono imputati a periodo d’imposta quando
sono percepiti. Significa che vanno dichiarati e rientrano nel periodo d’imposta relativo alla percezione.
Questo si differenzia dal principio di competenza che guarda alla maturazione giuridica.
Vuol dire che se un interesse è percepito a novembre 2019, va dichiarato per l’anno d’imposta 2019.
2. TASSAZIONE AL LORDO: non sono deducibili i costi di produzione del reddito di capitale. Se per
realizzare il reddito di capitale il contribuente sostiene dei costi, questi non sono deducibili.
Questo perché il legislatore assume che non vi siano costi per realizzare reddito di capitale.

REGIME FISCALE DEI DIVIDENDI E DEGLI INTERESSI ATTIVI (2 principali componenti reddituali)
- Per capire la tassazione dei dividendi, bisogna dire chi è il Percettore.
Ora stiamo parlando di IRPEF, i percettori sono PERSONE FISICHE. I dividendi per la persona fisica che non
esercita attività d’impresa e non consegue dividendo nell’ambito di attività di impresa, i dividendi sono
redditi di capitale e sono tassati con una ritenuta alla fonte del 26%. Perché anziché in misura progressiva
fino ad aliquota del 43% (massima) sono tassati cosi? Per capirlo bisogna vedere le società di capitali.
Esse realizzano un utile, prima di distribuirlo, lo assoggettano ad imposizione (ires), e una volta tassato il
reddito d’impresa lo possono distribuire al netto delle imposte.
Esempio: assumiamo di avere società con reddito lordo di 100.
Si applica aliquota ires che è del 24% fissa, e imposta è pari al 24 e il residuo da distribuire a 73.
Il socio riceve il reddito però soggetto a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta. come si determina tale
ritenuta? E’ pari a 76 con aliquota del 26%. Circa pari a 19.
Quindi se vediamo la tassazione complessiva, la società versa una imposta di 24, il socio tramite quella
ritenuta ha versato imposta pari a 19. Se sommiamo 24 e 19, il totale versato per l’investimento è pari a 43
circa = pari all’aliquota massima applicabile per le persone fisiche.
Quindi vediamo come la ragione per cui il dividendo è tassato in maniera ridotta, è per evitare la cd. Doppia
imposizione economica  il fatto che un reddito d’impresa sia tassato due volte (impresa e socio).
NB PER LA SOCIETA’ IL DIVIDENDO DITRIBUITO, L’UTILE DISTRIBUITO (che per il socio è dividendo) NON
PUO ESSERE DEDOTTO DAL REDDITO D’IMPRESA DELLA SOCIETA.
Quindi la società verserà un tributo pari a 24 sul reddito di 100, il socio invece verserà tramite ritenuta alla
fonte a titolo d’imposta un tributo pari a 19, quindi nel complesso l’investimento avrà dato luogo ad un
gettito per l’erario pari a 24+19 = 43 circa.
Il socio inoltre non riceve 76 ma 76-19 pari a 57.
Quando invece il socio NON E’ PERSONA FISICA, vi sono regimi diversi. I dividendi possono essere realizzati
da soggetti passivi dell’IRES, quindi una stessa società di capitali può realizzare un dividendo.
In tal caso non sarà reddito di capitale BENSI DI IMPRESA in cui vige il principio della forza di attrazione
(lo vedremo).
Anche l’imprenditore individuale può realizzare il dividendo.
 il dividendo anche qui è reddito di impresa.
Poi abbiamo enti non commerciali che realizzano il dividendo.
(COSA SONO I DIVIDENDI: NON SONO SOLO REDDITO DI CAPITALE, MA ANCHE REDDITO DI IMPRESA,
DIPENDE DA CHI E’ IL PERCETTORE!!!).
Ciò vale sia se le partecipazioni sono qualificate o non sono qualificate, oggi non c’è più la distinzione come
nei vecchi libri.

- Per quanto riguarda gli Interessi attivi, sono la 2 tipologia di reddito di capitale.
Sono anch’essi reddito di capitale se percepiti non da imprenditore. Nel caso invece vengano percepiti da
imprenditore, vige il principio di attrazione del reddito d’impresa e diventano reddito di impresa.
Gli interessi sono quelli che derivano da mutui, prestiti, depositi, da titoli obbligazioni, NON invece quelli
legati alle more dai clienti.
Essi di regola sono differentemente dai dividendi DEDUCIBILI per chi paga gli interessi.
La società che emette titolo obbligazionale può dedurre il costo del debito (gli interessi passivi che paga)
Mentre quando distribuisce dividendi non può ridurre il costo, Perché gli interessi passivi sono un costo per
l’impresa di produzione del reddito.
Per quanto riguardano gli interessi poi valgono 2 presunzioni.
1. Anzitutto gli interessi si presumono percepiti alla scadenza e nella misura pattuita. Ciò significa che si
deroga in parte al principio di cassa, perché si presumono percepiti alla scadenza e nella misura pattuita nel
contratto. Se non è pattuita si presumono percepiti al saggio legale, salvo che il contribuente non offra la
prova contraria. ES Prestare somma a qualcuno senza pattuire tasso di interesse può essere un errore.
2. Le somme date da soci a società si presumono date a mutuo se dal bilancio non risulta diversamente.
Conta quindi il bilancio, le somme sono date a mutuo salvo diversamente.

Le regole generali di tassazione sono come quelle viste prima


- Tassazione al lordo
- Principio di cassa.

Anche gli interessi attivi sono tassati con aliquota del 26%. Per i titoli di stato l’aliquota è del 12,5%.
Perché vi è una aliquota inferiore rispetto a quella ordinaria? Mentre per i dividendi la logica sottostante
del 26% era per evitare la doppia imposizione economica sullo stesso reddito, qui si vuole garantire il
principio costituzionale che è la Tutela del risparmio  vera e propria agevolazione fiscale.
REGIMI FISCALI APPLICABILI CHE RIGUARDANO TRASVERSALMENTE I REDDITI DI CAPITALE-DIVERSI CON
NATURA FINANZIARIA
Il primo regime è quello del RISPARMIO AMMINISTRATO, che si ha quando un contribuente ha un conto
deposito presso l’intermediario ma gestisce in autonomia la propria posizione finanziaria.
E’ il caso più comune. In tali ipotesi si applica il PRINCIPIO DEL REALIZZO, il reddito è determinato secondo
le regole classiche, e le minusvalenze eventualmente realizzate sono deducibili e scomputabili solo dalle
plusvalenze entro 4 anni  Regime in cui ho un portafoglio titoli.
Le plusvalenze e le minusvalenze sono “redditi diversi”.
Nel regime sono io contribuente a disporre ordini all’intermediario (…)

Poi c’è il regime del RISPARMIO GESTITO, secondo cui il contribuente affida un determinato patrimonio ad
un intermediario e sarà questo a gestirlo! Non abbiamo più qui il contribuente investitore che spiega i
compiti all’intermediario. In tale caso la tassazione non colpisce più il REALIZZO, bensì il MATURATO (…)

Vi sono poi i FONDI COMUNI DI INVESTIMENTO, che non sono tassati sul maturato, ma si tassa soltanto
l’eventuale plusvalore che si realizza al momento dell’investimento del fondo (….)+

LEZIONE 8, I REDDITI DI LAVORO DIPENDENTE E REDDITI DI LAVORO AUTONOMO


Il REDDITO DI LAVORO DIPENDENTE è disciplinato agli artt. 49,51,51,52 del TUIR al capo IV.
L’art. 49 definisce il reddito di lavoro dipendente come il “reddito alle dipendenze di qualcuno”.
Art. 49: “Sono redditi di lavoro dipendente quelli che derivano da rapporti aventi per oggetto la prestazione
di lavoro, con qualsiasi qualifica, alle dipendenze e sotto la direzione di altri, compreso il lavoro a domicilio
quando è considerato lavoro dipendente secondo le norme della legislazione sul lavoro.
Costituiscono altresì reddito di lavoro dipendente a) le pensioni di ogni genere e gli assegni ad esse
equiparate, b) le somme di cui all’articolo 429, ultimo comma, del cpc”.
 il tratto caratteristico del reddito di lavoro dipendente è il vincolo di subordinazione tra lavoratore
dipendente(inteso come Colui che realizza il reddito di lavoro dipendente)-datore di lavoro.
A parte questa ipotesi classica, poi abbiamo una serie di ipotesi assimilate a quelle di lavoro dipendente:
le pensioni, di ogni genere e specie: sono reddito da lavoro dipendente Anche se derivano da rapporti di
lavoro di tipo diverso da quelli di lavoro dipendente, quindi le pensioni sono reddito di lavoro dipendente
anche di ex lavoratori autonomi, o di ex imprenditori, nonché le pensioni di invalidità.
Quindi sono tutte le pensioni di ogni genere e specie reddito da lavoro dipendente.

All’art. 50 poi vi sono una serie di altre ipotesi assimilate, sono assimilati ai redditi di lavoro dipendenti una
serie di ipotesi tra cui le borse di studio, le indennità parlamentari, assegni periodici per il mantenimento
del coniuge (non invece per il mantenimento dei figli), etc.
 Quindi noi abbiamo una ipotesi ordinaria di reddito (49) e una serie di ipotesi assimilate ad esso.

COME SI DETERMINA IL REDDITO DI LAVORO DIPENDENTE?


I principi generali di tassazione: come sempre riguardano il PRINCIPIO DI IMPUTAZIONE A PERIODO DEL
COMPONENTE DI REDDITO, LA DEDUCIBILITA’ DEI COSTI e RITENUTA A TITOLO D’ACCONTO.
1. Per quanto riguarda il principio di imputazione, al reddito di lavoro dipendente si applica il Principio di
cassa, quindi conta il momento della percezione del reddito. Cassa significa che, per dichiarare il reddito,
devo vedere con quale anno/quale periodo di imposta ho percepito il reddito in questione.
Se io come lavoratore dipendente maturo un reddito ma non viene pagato, il reddito non si è manifestato
quindi non devo dichiararlo finchè non si manifesta in modo numerario.

2. Per quanto riguarda i costi, i costi non sono deducibili. Non è deducibile alcun costo di produzione del
reddito da lavoro dipendente. Quindi i costi non sono ammessi: perché la CC ci insegna che i lavoratori
dipendenti non hanno costi di produzione del reddito perché è l’organizzazione di impresa/l’imprenditore
datore che ha una organizzazione tale per cui sussistono tutti i costi. Quindi il costo di produzione non è
sostenuto dal lavoratore dipendente ma dal datore di lavoro.
Se mi serve un computer, questo mi viene messo a disposizione dal datore di lavoro.
Si ritiene che MANCANDO L’ORGANIZZAZIONE da parte del lavoratore, egli non ha costi di produzione.
Sussiste però una DETRAZIONE FORFETTARIA DEI COSTI. Quando abbiamo esaminato le regole di
determinazione del reddito abbiamo visto l’art. 13 per cui se alla formazione del reddito complessivo
concorrono uno o più redditi di cui agli artt. 49 ecc, spetta una detrazione dall’imposta lorda. Gli articoli 49
sono questi in tema di reddito da lavoro dipendente  se un contribuente possiede redditi di lavoro
dipendente, questi redditi generano una detrazione forfettaria per gli importi indicati all’art 13.
Qualcuno ritiene che nell’articolo 13 queste detrazioni sostituiscano le deduzioni. In realtà non è cosi:
questa non è solo una questione di tecnicismo legislativo, il motivo è che la detrazione di cui all’art. 13 ha lo
scopo non tanto di garantire una deducibilità di garantire una attenuazione dell’onere tributario per una
categoria di reddito che non ha costi deducibili, quanto per garantire un livello di progressività maggiore
dell’imposizione. Si ritiene che questa categoria di redditi merita una maggiore redistribuzione della
ricchezza rispetto ad altre categorie di reddito. Questo comporta che nella valutazione di costituzionalità
della norma che non ammette la deducibilità dei costi, non si possa addurre come causa di giustificazione il
fatto che vi è una detrazione d’imposta. E la detrazione non sostituisce i costi deducibili anche perché è
ammessa solo per i redditi bassi.
Per i redditi più alti anzi la detrazione diminuisce. Non è pensabile che il lavoratore dipendente con reddito
alto abbia dei costi di produzione mentre quello con reddito basso li abbia.
La detrazione quindi operando solo per i redditi bassi non serve a sostituire i costi, altrimenti varrebbe
anche per i redditi alti. Ha quindi lo scopo di garantire maggiore progressività per questa categoria
considerata tassata in misura “ordinaria”, mentre altre hanno una tassazione agevolata come per la
categoria dei redditi fondiari.
Il legislatore ha previsto almeno per i redditi piu bassi una attenuazione della progressività.
QUINDI: No costi deducibili, e la detrazione forfettaria dei costi sussiste si ma non in sostituzione dei costi
non deducibili.

3. Per quanto riguarda la ritenuta a titolo d’acconto, i redditi da lavoro dipendente sono soggetti a ritenuta
alla fonte a titolo d’acconto e non d’imposta (che esauriscono l’obbligazione tributaria)  sono acconti
versati dal datore di lavoro per il lavoratore dipendente. Quindi se questo deve percepire uno stipendio
lordo di 1000 euro, il datore gli corrisponde non lo stipendio lordo di 1000 euro ma lo stipendio al netto di
una ritenuta alla fonte a titolo d’acconto. Se assumiamo questa ritenuta del 30%, significa che il lavoratore
dipendente non percepirà 1000 euro ma 1000 – il 30%  ossia 700 euro.
I 300 euro verranno versati dal datore di lavoro e il lavoratore quando dovrà versare il saldo dell’IRPEF terrà
conto di questo acconto versato dal datore di lavoro.

 REGOLE GENERALI DI TASSAZIONE DEL REDDITO DI LAVORO DIPENDENTE SONO QUESTE


1. PRINCIPIO DI CASSA
2. PRINCIPIO DI DETRAZIONE FORFETTARIA DEI COSTI E NO DEDUCIBILITA’ DEI COSTI (anche se la prima
non sostituisce la seconda)
3. RITENUTA ALLA FONTE A TITOLO D’ACCONTO

COME SI DETERMINA IL REDDITO DI LAVORO DIPENDENTE?


Art. 51 e seguenti. Il principio base è quello secondo cui: Il reddito da lavoro dipendente è costituito da tutte
le somme e i valori a qualunque titolo percepiti nel periodo d‘imposta anche sotto forma di erogazioni
liberali in relazione al rapporto di lavoro.  il principio quindi è quello dell’Onnicomprensività
Si tratta cioè di includere nel reddito di lavoro dipendente TUTTE LE SOMME RICONDUCIBILI AL RAPPORTO
DI LAVORO ricevute dal datore di lavoro. Sono reddito da lavoro dipendente dunque certamente il
compenso in denaro ma anche dei compensi in natura. Anche i fringe benefit sono reddito da lavoro
dipendente (solitamente erogati dal datore al lavoratore per aumentare la produttività del lavoratore
dipendente, come l’auto aziendale o il telefonino dato al lavoratore, o il computer portatile per lavorare da
casa). Chiaramente essi come regola generale sono reddito da lavoro ma non sono sempre fringe benefit
che servono per compensare il lavoratore dipendente (es se mi da pc vuol dire che lavorerò anche a casa e
di notte, se mi da telefono dovrò rispondere ad ogni chiamata anche se sono a casa)
Anche il fringe benefit quindi è reddito. MA COME SI DETERMINA IL REDDITO IN NATURA  occorre,
facendo riferimento all’art. 9, andare a vedere il valore normale del fringe benefit.

Quali sono alcuni esempi di fringe benefit esclusi dalla tassazione e che il legislatore considera escludi?
Li vediamo al comma 2: lettera c ad esempio “le somministrazioni di vitto da parte del datore..”
 cosa vuol dire: alcuni compensi in natura che secondo la regola generale sono reddito imponibile, non
vengono considerati tale ma sono esclusi da tassazione se hanno determinate caratteristiche.
Ad esempio i ticket restaurant. Il soggetto che paga con questo l’ha ricevuto dal datore e quel ticket non è
considerato reddito imponibile, quindi il lavoratore che lo riceve non deve indicare il reddito di 5, 29 euro al
giorno (valore del ticket) nella dichiarazione dei redditi.
 ci sono vari fringe benefit e varie ragioni per cui il legislatore ne esclude alcuni dalla tassazione.
Per verificarli bisogna guardare l’art. 51, co2.

Abbiamo detto che tutte le somme e i beni collegati al rapporto di lavoro sono reddito di lavoro
dipendente, salvo che non vengano espressamente esentate da una disposizione. Solitamente i fringe
benefit specificatamente indicati tra quelli che non concorrono, possono dirsi esenti da imposta, mentre
quelli non specificati rientrano nell’ambito di reddito imponibile.

Vediamo ora LE INDENNITA’ RISARCITORIE e I RIMBORSI SPESE.


1. LE INDENNITA’ RISARCITORIE: occorre dire che esse sono escluse da tassazione se il risarcimento
riguarda un danno emergente, mentre se riguardano un lucro cessante (reintegro da reddito da lavoro)
queste sono reddito imponibile. Quindi quello che occorre effettuare è una valutazione civilistica se
abbiamo a che vedere con un reintegro di un reddito oppure con un danno emergente.
Questo vale a prescindere da quello che dice l’art. 17 in materia, il quale dice che, laddove prevede la
tassazione separata per le indennità risarcitorie deve essere interpretato nel senso che quella disposizione
dell’art. 17 determina una modalità di tassazione, NON un perimetro di tassazione.
L’art. 17 dice che tutte le indennità risarcitorie sono reddito e vanno tassate separatamente, ma l’art 17 ci
dice che solo le indennità risarcitorie CON NATURA REDDITUALE vanno tassate. Mentre quelle prive di
natura reddituale non sono tassate ne in modo separato ne ordinario.
Quindi non sono tassati ad esempio i risarcimenti per incidenti sul lavoro.
A riguardo c’è un caso su e learning.

2. I RIMBORSI SPESE: spesso accade che un lavoratore dipendente è rimborsato per determinate spese che
ha posto in essere. Bisogna distinguere:
- se sono poste in essere IN FAVORE del datore di lavoro, sono spese sostenute dal lavoratore per interesse
del datore, queste NON sono da considerarsi reddito. Si tratta di un risarcimento di un pregiudizio subito
dal lavoratore dipendente, che ha anticipato spese che riguardano il rapporto e nell’esclusivo interesse del
datore.
- se sono poste in essere PER PROPRIE ragioni dal lavoratore, si tratta di una remunerazione/di reddito.

Una particolarità è data dal rimborso spese che riguarda il trasferimento della sede del lavoro per il
dipendente. Il rimborso delle spese di trascolo NON è reddito imponibile quando anche questo ha natura
reddituale perché questo non impone necessariamente al lavoratore dipendente di trasferirsi, il legislatore
decide di non considerarlo reddito imponibile.
Prima di questa norma la Cassazione invece considerava il rimborso delle spese di trasloco per il cambio di
sede come reddito imponibile perché erano spese considerate non nell’interesse del datore di lavoro, anzi
considerava che fosse nell’interesse del lavoratore essere vicino al luogo di lavoro.
Ora passiamo al REDDITO DA LAVORO AUTONOMO: esso è definito negli artt. 53 e 54 TUIR.
L’art. 53 ci da la definizione: “Sono redditi da lavoro autonomo quelli che derivano dall’esercizio di arti e
professioni”. Per esercizio di arti e professioni si intende l’esercizio per professione abituale ancorchè non
esclusiva di attività di lavoro autonomo, diverse da quelle considerate nel capo 6, compreso l’esercizio in
forma associata di cui alla lettera c, co.3 art. 55.

Anzitutto il reddito da lavoro è quello derivante dall’esercizio di arti e professioni, che abbiano determinate
caratteristiche:
- occorre che vi sia una natura intellettuale dell’attività svolta, perché se non ha natura intellettuale ma
prevale il capitale umano, ovviamente abbiamo a che fare con reddito di altra natura. Ad esempio
l’avvocato realizza un reddito da lavoro autonomo, così come il commercialista, il ragioniere esercitano arti
e professione.
- deve essere autonomo, non deve esser un lavoro alle dipendenze di qualcuno. L’autonomia è un requisito
fondamentale.
- deve essere abituale, significa che non può essere una prestazione occasionale (in tal caso rientra nel
reddito diverso).
 Mentre l’autonomia serve da confine tra reddito lavoro autonomo-dipendente, l’abitualità serve da
confine tra reddito lavoro autonomo-reddito diverso.
- deve essere una attività diversa da quella considerata nel capo sesto: deve essere una attività DIVERSA DA
UNA ATTIVITA’ CHE GENERA REDDITO DI IMPRESA, ossia non deve essere attività commerciale, cioè quella
che rientra nella categoria delle categorie previste 2195 cc, quindi attività di produzione di beni e di servizi,
di scambio di beni e servizi, di trasporto, bancarie, assicurative e ausiliari alle precedenti.
Un reddito da lavoro autonomo non è una attività commerciale.
- un reddito da lavoro autonomo non deve essere organizzata in forma di impresa: quando studieremo la
nozione di reddito di impresa vedremo che è di impresa il reddito quando è esercitata una attività di natura
commerciale, o che se non ha natura commerciale è organizzata in forma di impresa.

PER DEFINIZIONE, LE PROFESSIONI INTELLETTUALI SONO PRESTAZIONI DOVE L’OPERA/L’ARTE/LA


PRESTAZIONE PROFESSIONALE PREVALE RISPETTO ALL’ORGANIZZAZIONE. Se ci rivolgiamo al notaio lo
facciamo per la sua opera intellettuale. Diverso se andiamo da un prestatore di servizi che è organizzato in
forma di impresa allora ci rivolgiamo all’impresa.
Esempio docente che presta regolarmente lezioni private, che generano reddito di lavoro autonomo se non
sono occasionali ma abituali. Questa sicuramente è una opera intellettuale, prevale il capitale intellettuale
NON quello umano. Se questo docente che presta l’opera si mette invece d’accordo con altri docenti e crea
una rete/struttura/si compra computer/assume dipendenti al fine che gestiscano le lezioni, crea una
organizzazione di impresa e qui in questa ipotesi comincia a prevalere il capitale rispetto alla prestazione
intellettuale  ipotesi diverse
Anche il lavoratore autonomo si serve di beni strumentali fondamentali (banche dati, computer, segretaria)
ma la linea di confine è: verificare se l’opera intellettuale prevale. Se prevale, e per le professioni
intellettuali coperte da Albo prevale è un conto, se invece non c’è l’iscrizione ad esempio all’Albo il confine
è molto sottile e può prevalere l’organizzazione di impresa.

Anche nel reddito da lavoratore autonomo abbiamo le ipotesi di fattispecie assimilate.


Ad esempio i redditi che derivano da diritti d’autore sono assimilati a quelli di lavoro dipendente.
Pensiamo al prof universitario che cede il diritto d’autore su un articolo che ha scritto su una rivista,
abbiamo un reddito assimilato a quelli di lavoro dipendente.
Sono assimilate anche le cariche di sindaco esercitate da un dottore commercialista che non esercita un
reddito da lavoratore dipendente esercitando il sindaco ma realizza reddito di lavoro autonomo.
COME SI DETERMINA IL REDDITO DA LAVORO AUTONOMO? Vediamone le regole.
Prima vediamo sempre i principi generali: le 2 regole principali sono PRINCIPIO DI IMPUTAZIONE A
PERIODO e DEDUCIBILITA’ DEI COSTI.
- Nel reddito da lavoratore autonomo vale il PRINCIPIO DI CASSA: il componente di reddito
positivo/negativo viene imputato a periodo secondo principio di cassa, cioè quando è percepito il
compenso o quando viene pagato un determinato costo, quindi nel momento dell’uscita/entrata monetaria
che fa manifestare il reddito.
- I costi sono deducibili. Sono deducibili per intero, salvo che non riguardino beni strumentali e nel qual
caso sono deducibili per quote di ammortamento. La regola generale è di deducibilità.
Cosa sono le quote di ammortamento? Art. 54.
Il reddito da lavoro autonomo è dato dalla differenza tra componenti positivi e componenti negativi di
reddito. Quali sono i componenti positivi e negativi di reddito?
- COMPONENTI POSITIVI: Sono componenti positivi i compensi derivante dall’attività professionale.
Pensiamo ad un avvocato che in relazione ad un determinato ricorso, riceve un compenso professionale dal
cliente. Il compenso rientra nel reddito da lavoro autonomo. Pensiamo al commercialista che predispone la
dichiarazione dei redditi per un cliente e riceve un compenso.
Poi sono componenti positivi anche le PLUSVALENZE che derivano dalla CESSIONE DI BENI STRUMENTALI,
che sono quei beni strumentali all’esercizio del lavoro autonomo.
Le plusvalenza si realizzano o mediante cessione del bene strumentale o mediante il risarcimento per la
perdita del bene strumentale (che viene perso o distrutto o danneggiato) o mediante la destinazione del
bene strumentale al consumo personale o familiare del lavoratore autonomo.
ESEMPIO DI BENE STRUMENTALE CHE OGGI L’AVVOCATO DEVE AVERE: IL COMPUTER, assumendo che non
vi siano ammortamenti.
Il computer è un bene strumentale all’attività di lavoro autonomo. Se questo è acquistato per 100 e viene
rivenduto per 300, il professionista realizza una plusvalenza di 200.
Oppure il computer viene distrutto da un incendio e mi viene risarcito con un valore maggiore rispetto a
quello d’acquisto. Ancora abbiamo una plusvalenza di 200 (mi hanno dato 300 e l’avevo preso a 100).
A QUESTI 2 COMPONENTI POSITIVI DI REDDITO, DEVO SOTTRARRE 2 COMPONENTI NEGATIVI
- COMPONENTI NEGATIVI: sono le minusvalenze, cioè ho un bene strumentale che viene ceduto/o viene
distrutto (solo 2 opzioni, mentre non realizzo una plusvalenza destinando il bene a consumo personale);
in queste 2 ipotesi di CESSIONE o RISARCIMENTO PER DISTRUZIONE O DANNEGGIAMENTO se il prezzo di
vendita o il risarcimento è inferiore al valore fiscalmente riconosciuto del bene (sempre pc, sempre 100,
sempre senza ammortamenti, e il prezzo ora di mercato del pc è di 40) allora la minusvalenza è di 60.
E’ un componente negativo di reddito, va a ridurre il reddito da lavoro autonomo.
E’ poi componente negativo/riducono il reddito da lavoro autonomo anche i costi di produzione del
reddito, purchè inerenti. Cosa vuol dire questo?
Per fare l’avvocato tributarista ho bisogno del ct, che costa 20 euro, lo acquisto per 20 euro senza sconti:
questo è un bene che serve alla mia attività, è un bene inerente alla mia attività perché è necessario un
codice tributario. Quindi il costo di acquisto del ct di euro 20 è DEDUCIBILE dal reddito, cioè va a ridurre il
reddito lordo. Cosi anche se acquisto penne, fogli, ho bisogno della cancelleria; ho bisogno poi di spese per
una segretaria lavoratrice dipendente che realizza il suo reddito, e per me diventa un costo deducibile
perché inerente all’attività di impresa.
Tra i costi deducibili ci sono anche i Beni strumentali. Se acquisto un ct lo utilizzo per 1 anno, poi la
legislazione cambia, ne prendo uno nuovo. Mentre il computer mi dura più anni. Assumiamo che acquisto
un pc per 100 euro e ha durata di 5 anni. Vuol dire che il computer lo posso dedurre per quote di
ammortamento, cioè non deduco il costo di 100, ma IN DEROGA AL PRINCIPIO DI CASSA IO PAGO 100 IL
PRIMO ANNO, E POI DEDUCO OGNI ANNO, se assumiamo che sono 5 anni, DEDUCO UNA QUOTA PARI AL
20% , QUINDI 1/5 DI CIASCUN ANNO PER OGNI ANNO. OGNI ANNO DEDUCO 20% DI COSTO.
Quindi il mio pc è dedotto PER QUOTE DI AMMORTAMENTO, in un arco temporale di 5 anni, il mio costo
viene frazionato ed inserito il costo ogni anno nei successivi 4 anni + il 1.
E COME FACCIO A SAPERE QUAL E’ LA VITA UTILE E DI OGNI BENE STRUMENTALE? CE LO DICE UNA
TABELLA MINISTERIALE, ci dice qual è la vita utile di ciascun bene, si segue questo approccio.

Introduciamo un concetto: nel momento in cui un bene strumentale è acquistato e io ne deduco il costo,
significa che sto anche riducendo il valore fiscalmente riconosciuto quel bene , cioè quell’importo/dato che
mi serve per determina una minusvalenza o una plusvalenza quando io rivendo il bene.
Quando lo rivendo, per sapere se ho determinato una minus/una plus valenza, farò la differenza tra il
prezzo di vendita meno il valore fiscalmente riconosciuto.
E il valore fiscalmente riconosciuto è dato dal COSTO DI ACQUISTO DEL BENE – L’AMMONTARE DEDOTTO
DEL COSTO DI ACQUISTO. Se acquisto un bene e lo deduco interamente questo avviene per tutti quanti i
beni il cui costo unitario non è superiore a 516 euro. Se non è superiore, il contribuente non deve dedurre
il bene per quote di ammortamento, ma può dedurlo Totalmente. Se lo deduce totalmente, il mio valore
fiscale andrà ridotto a 0. Quando io rivenderò il mio bene strumentale, realizzerò una plusvalenza data dal
prezzo di vendita – 0, che è il mio nuovo valore fiscalmente riconosciuto.
Se invece acquisto un computer per 1000 e lo ammortizziamo in quote del 20%, 1/5 ciascun anno quindi,
ogni anno allora 20. Nel momento in cui al terzo anno ho dedotto 3 quote, quindi ho dedotto 60, e vendo il
bene, significa che il bene ha valore fiscale di 40 dato da 100 – le quote fiscalmente dedotte del costo, che
nel caso sono pari a 60. Quindi valore fiscale è 100 – 60 = 40.
Se lo vendo per 80 il pc, significa che realizzo una plusvalenza di 40.
IL VALORE FISCALMENTE RICONOSCIUTO E’ IL COSTO DI ACQUISTO – AMMONTARE DI QUEL COSTO
FISCALMENTE DEDOTTO DAL REDDITO.

Una delle difficoltà che si hanno riguarda la DEDUCIBILITA’ DEI COSTI. Quando si può dire che un
determinato bene è inerente all’attività di lavoratore autonomo e quindi può essere dedotto?
Se acquisto un codice o un computer l’inerenza è evidente. Ma ci sono casi in cui bisogna riflettere
sull’inerenza o meno. Ad esempio un caso dibattuto è il Costo di acquisto della cravatta.
Alcuni avvocati la acquistano per fare l’avvocato e vogliono dedurre tale costo di acquisto.
E’ possibile dedurla? Tendenzialmente no; un conto è un camicie di un farmacista, questo bene è utilizzato
esclusivamente per l’attività di lavoro esercitato, o anche la toga in aula per l’avvocato, non la indosserà
fuori. Il costo per loro sarà deducibile. Per una cravatta invece, la cosa è diversa: sicuramente c’è quel
signore che dirà che lui indossa la cravatta SOLO per fare l’avvocato altrimenti non la indossa, ma è anche
vero che il legislatore non può fare una valutazione soggettiva caso per caso, ma una Prevalutazione dei
beni “inerenti” ad una determinata professione.
Se l’indumento non è necessario per esercitare la propria attività di lavoro autonomo non si può dedurre
quel costo. Ma qualcuno può dire: ma allora almeno sia ammessa la deducibilità per il 50% del costo.
Qualsiasi indumento può divenire necessario per lavorare, necessariamente i vestiti sono acquistati non
solo per lavorare ma PER USCIRE DI CASA, non solo per il lavoro. BISOGNA VEDERE SE DAL LAVORO è
RICHIESTO UN DETERMINATO INDUMENTO. SE QUELL’INDUMENTO E’ NECESSARIO PER IL LAVORO ALLORA
IL COSTO E’ DEDUCIBILE AL 50% MAGARI PERCHE’ QUELL’INDUMENTO POSSO INDOSSARLO SIA FUORI CHE
AL LAVORO. Altrimenti non posso chiedere la deducibilità nemmeno del 50% per quegli indumenti non
essenziali per la professione.

Nb. ALCUNE REGOLE PARTICOLARI DI DEDUCIBILITA’


Vi sono dei beni che sono utilizzati per definizione sia per attività di lavoro autonomo che per attività
personali, come il telefonino, non necessariamente ne acquisto 2, oppure l’auto la uso per entrambe le
cose. I beni AD USO PROMISCUO presentano una PERCENTUALE DI DEDUCIBILITA’, cioè il bene ad uso
promiscuo si dice, per evitare di andare a definire per ogni bene per quanto tempo l’ho utilizzato sia nella
mia professione sia al di fuori di essa, si dice che IL COSTO DEL BENE E’ DEDUCIBILE SOLTANTO NEL LIMITE
DEL 50%.
Mentre per alcuni BENI SPECIFICI ci sono PERCENTUALI SPECIFICHE, ad esempio il telefono è deducibile
all’80%, l’auto nel limite del 20%.. etc.
A seconda dell’attività e dei costi e delle spese il legislatore interviene fissando alcune percentuali di
deducibilità.

ULTIMO ASPETTO: GLI OBBLIGHI CONTABILI


Il reddito da lavoro autonomo richiede la tenuta di alcune scritture contabili. Il lavoratore autonomo ha la
necessità anche di tenere determinati registri e scritture contabili  obblighi formali
Tra questi vi è anche la famosa ritenuta a titolo d’acconto, perché nel momento in cui un
avvocato/lavoratore autonomo riceve il compenso, deve versare al netto di una ritenuta a titolo d’acconto.

LEZIONE 9, REDDITI DI IMPRESA E REDDITI DIVERSI


Parliamo delle ultime 2 categorie di redditi che ci rimangono.
Abbiamo visto come il presupposto dell’IRPEF sia il possesso dei redditi che rientrano in 6 categorie di
reddito: fondiario, di capitale, da lavoro dipendente e autonomo, diversi e di impresa.

I REDDITI DI IMPRESA
La normativa sui redditi di impresa è contenuta in 3 distinti gruppi di norme, che esaminiamo in modo
distinto.
1 GRUPPO, è un'unica disposizione: l’art. 55 del TUIR che prevede la definizione di reddito di impresa,
stabilisce quello che è il PERIMETRO della categoria, ci dice cosa entra in questa categoria di reddito
Per quanto riguarda la DETERMINAZIONE del reddito della categoria, abbiamo altri 2 gruppi di norme.
2 GRUPPO: di norme si applica soltanto alle società di capitali e agli enti commerciali.
Questo gruppo di norme è contenuto dagli artt. 81 e seguenti del TUIR.
(“Determinazione della base imponibile delle società e degli enti commerciali residenti”)  determiniamo il
reddito di impresa seguendo le regole degli artt. 81 e seguenti per quanto riguarda le società di capitali e
enti commerciali, che NON sono soggetti passivi IRPEF.
3 GRUPPO: di norme, che è previsto dagli artt. 56-66 TUIR, che invece riguarda soggetti passivi IRPEF.
Se guardiamo all’art. 56 però, vediamo che è prevista una norma di rinvio: il reddito di impresa è
determinato secondo le disposizioni della sezione 1 del capo 2 del titolo 2, cioè reddito di impresa per le
società ed enti commerciali, SALVO, quanto stabilito nel presente capo.
Quindi cosa abbiamo:
l’art. 55, primo gruppo, definisce il perimetro;
poi abbiamo gli artt. 81 e seguenti, secondo gruppo, che prevedono e regole di determinazione del reddito
di impresa sicuramente per le società ed enti commerciali, ma con una eccezione: per i soggetti passivi Irpef
si applicano le disposizioni dall’artt. 56-66 quando stabiliscono diversamente rispetto a quanto stabilito
dagli artt. 81 e seguenti.

 Quindi abbiamo l’art. 55 che definisce il perimetro;


Negli artt. 81 e seguenti abbiamo la normativa di determinazione del reddito di impresa per le
società ed enti commerciali;
Negli artt. 56-66 abbiamo la determinazione per il reddito d’impresa per i soggetti passivi Irpef
dove però vi è una norma di rinvio che ci dice che si applicano le regole previste dagli artt. 81 e
seguenti del TUIR, salvo quanto stabilito nel presente capo.

Quindi in questa lezione esaminiamo la nozione di reddito di impresa, poi vedremo soltanto quali sono le
principali regole stabilite “nel presente capo” che si applicano per le persone fisiche che sono diverse dalle
società e dagli enti commerciali, poi in un successivo momento in cui esamineremo i soggetti passivi
dell’Ires, esamineremo le regole specifiche di determinazione del reddito d’impresa (salvo quanto stabilito
nel capo che esaminiamo oggi che si applicano anche i redditi di impresa delle persone fisiche  situazione
un po’ intrecciata, esaminiamo 2 di questi gruppi oggi).
-Adesso vediamo LA DEFINIZIONE DI REDDITO DI IMPRESA:
Chi realizza reddito di impresa? Chi possiede reddito di impresa?
Realizzano reddito di impresa 2 categorie di soggetti:
1) Coloro che esercitano una attività commerciale, prevista dall’art. 2195 cc, con alcune estensioni
2) Coloro che, pur non realizzando una attività commerciale prevista dall’art. 2195 cc o una estensione,
prestano una attività comunque organizzata in forma d’impresa.

PRIMA CATEGORIA: ATTIVITA’ COMMERCIALE ED ESTENSIONI


1) Art. 2195 cc: si tratta di coloro che esercitano attività di produzione di beni e servizi, attività di scambio
di beni e servizi, attività di trasporto per terra aria ed acqua, attività bancarie e assicurative, attività ausiliari
alle precedenti  quindi abbiamo queste sottocategorie di attività commerciale.
Chiunque eserciti una di queste attività REALIZZERA’ REDDITO DI IMPRESA.
Una banca realizza sempre reddito di impresa, non realizzerà mai reddito di capitale; coloro che producono
un determinato bene o servizio come un falegname o un parrucchiere realizzano reddito di impresa.

2) Poi abbiamo anche quelle attività agricole che eccedono i limiti previsti per produrre reddito fondiario.
Abbiamo fatto l’esempio della torre di galline, abbiamo detto come se creiamo questa torre, significa che
gli animali presenti non sono alimentati per almeno ¼ dai prodotti ottenibili dal terreno su cui insistono, e
quindi diventa reddito di impresa. L’attività che esercitano genererà reddito di impresa.
Quando abbiamo una attività agraria che supera quei limiti previsti per l’attività agraria (art. 32) abbiamo
una attività di impresa che genera reddito di impresa, ANCHE SE NON E’ ORGANIZZATA IN FORMA
D’IMPRESA.

3) Inoltre abbiamo reddito di impresa quando abbiamo una attività di sfruttamento di cave, di miniere, di
saline ecc.  quindi significa che tutte queste attività producono e generano reddito di impresa, non
fondiario o di altro tipo. E ciò vale anche se queste attività NON SONO ORGANIZZATE IN FORMA
D’IMPRESA.

Quindi non è necessario che colui che produce un certo prodotto eserciti una attività per forza assicurativa
o bancaria, o colui che esercitando una attività agricola superi il limite per quella attività sia organizzato in
forma di impresa  E’ SUFFICIENTE CHE PONGANO IN ESSERE QUELLA DETERMINATA ATTIVITA’, SI
GUARDA ALL’ATTIVITA’ EFFETTIVAMENTE PRESTATA.

2 CATEGORIA: COLORO CHE NON PRESTANO NON ATTIVITA’ COMMERCIALE, MA ORGANIZZATA IN


FORMA DI IMPRESA  si parla di ATTIVITA’ DI PRESTAZIONE DI SERVIZI (e NON “produzione di beni e
servizi” perché questa è attività di impresa), come quello dell’avvocato che abbiamo visto produce reddito
da lavoro autonomo.
Ma quando L’ATTIVITA’ DI PRESTAZIONE DI SERVIZI RISCHIA DI DIVENTARE ATTIVITA’ CHE GENERA REDDITO
DI IMPRESA? QUANDO QUESTA E’ ORGANIZZATA IN FORMA DI IMPRESA, cioè?
E’ organizzata in forma d’impresa quell’attività in cui L’ORGANIZZAZIONE DI IMPRESA PREVALE SUL
CAPITALE UMANO. L’organizzazione dei mezzi e del capitale prevale sul capitale umano.
(Quando abbiamo a che fare invece con una professione intellettuale iscritta in un Albo (es architetti,
commercialisti, avvocati) abbiamo sempre un lavoro autonomo, perché il capitale umano è prevalente
rispetto all’organizzazione di impresa. Mentre invece la CEPU realizza reddito di impresa perché
l’organizzazione prevale sul capitale umano, lo abbiamo già visto ma a specchio).

Quindi è sufficiente che una attività sia


- vuoi commerciale o con una estensione suddetta
- vuoi organizzata in forma di impresa
 che si genera reddito di impresa.
Questi sono i 2 requisiti principali, può sussistere l’uno o l’altro.
In realtà esiste un 3 requisito previsto dall’art. 55 “per l’esercizio di imprese commerciali si intende
l’esercizio PER PROFESSIONE ABITUALE ancorché non esclusiva”  è necessario che ci sia una professione
abituale, cioè che questa attività o commerciale o organizzata in forma di impresa sia effettuata per
professione abituale. Non deve essere una attività occasionale altrimenti rientrerà nei redditi diversi.

(Troviamo già ora la disposizione che riguarda i redditi di impresa occasionali:


Lettera 1, art. 77: sono redditi diversi i redditi derivanti da attività commerciali non esercitate abitualmente
 l’abitualità è il confine tra reddito di impresa e reddito diverso)

NB.
Chi può realizzare reddito di impresa? Noi ora stiamo parlando sempre di persone fisiche perché
esaminiamo l’IRPEF, e i soggetti passivi dell’Irpef sono solo loro. Anticipiamo però che il reddito di impresa
in realtà può essere realizzato anche da altri soggetti, anche le società realizzano reddito di impresa. Anzi,
le società commerciali realizzano SEMPRE E COMUNQUE reddito di impresa, con l’eccezione delle società
agricole. Quindi le società di capitali TUTTE (srl, spa, sapa) , e le società di persone NON SEMPLICI (quindi
solo in accomandita semplice e in nome collettivo, che sono le due società di persone commerciali)
Perché questo? Perché 1. ce lo dice l’art. 81, ma 2. anche senza questa norma in realtà basta pensare che
all’art. 55 ci viene detto che le attività organizzate in forma d’impresa generano reddito d’impresa.
 è per definizione.
1) Quindi società di capitali, di persone commerciali, enti commerciali REALIZZANO SEMPRE E COMUNQUE
REDDITO DI IMPRESA.
2) Poi abbiamo le persone fisiche che possono realizzare reddito di impresa.
3) Abbiamo gli enti non commerciali che possono realizzare anche reddito di impresa, purchè non
prevalente o esclusivo altrimenti diventano enti commerciali.

-ADESSO VEDIAMO LE REGOLE DI DETERMINAZIONE DEL REDDITO DI IMPRESA PER LE PERSONE FISICHE
Come sempre, prima le regole generali di IMPUTAZIONE A PERIODO e DEDUCIBILITA’ DEI COSTI.
1) Il reddito va imputato a periodo secondo il PRINCIPIO DI COMPETENZA, non il principio di cassa: conta
cioè la maturazione giuridica. Un componente positivo di reddito si manifesta/va dichiarato/va tassato
quando si manifesta giuridicamente. ESEMPIO:
-Nel caso in cui un imprenditore produca e venda beni mobili, il momento in cui si manifesta il componente
positivo di reddito non è quando riceve il denaro vendendo il mobile, bensì nel momento in ci vi è lo
SCAMBIO, LA CONSEGNA DEL BENE MOBILE, quando vi è il PASSAGGIO DI PROPRIETA, in quel momento
matura giuridicamente il componente positivo di reddito.
-Invece per le prestazioni di servizi, il momento di maturazione giuridica è il momento della DATA DI
ULTIMAZIONE DEL SERVIZIO.

2) I COSTI SONO DEDUCIBILI DAL REDDITO, purché inerenti all’attività di impresa e purché dedotti nel
periodo di competenza ovviamente.

 QUESTE LE REGOLE GENERALI.

QUALI SONO LE DIFFERENZE PRINCIPALI PER LA DETERMINAZIONE DEL REDDITO TRA


- IMPRENDITORE INDIVIDUALE
- SOCIETA’ ED ENTI COMMERCIALI ? LE REGOLE SONO 6.
Premessa (vista): è quella secondo cui l’art. 56 ci dice che per le persone fisiche (parliamo di IRPEF) “il
reddito di impresa per i soggetti passivi Irpef è determinato secondo le disposizioni della sezione 1, del capo
2, del titolo 2, Salvo quanto stabilito nel presente capo.” Vediamo quindi cosa significa questo salvo
quanto stabilito nel presente capo, quali sono quelle regole particolari degli imprenditori individuali
rispetto alle società ed enti commerciali:
La prima norma da vedere è l’art. 57 TUIR: ci dice che tra i ricavi rientrano non solo la cessione di un bene o
la prestazione di un servizio a fronte di un corrispettivo ecc, ma anche I beni destinati al consumo personale
e familiare dell’imprenditore. Se ricordiamo, quando abbiamo visto il reddito da lavoro autonomo, abbiamo
visto come nel momento in cui il lavoratore autonomo decide di destinare al proprio consumo personale un
suo bene strumentale destinato ad attività d’impresa, questa destinazione genera plusvalenza.
Stessa cosa succede per i redditi d’impresa con riferimento ai Ricavi. I ricavi sono componenti positivi che
derivano dalla compravendita dei beni merce, i beni cioè che costituiscono oggetto d’attività di impresa.
Quindi nel momento in cui un bene è destinato al consumo personale, abbiamo un ricavo, pari al valore
normale del bene destinato a consumo personale o del familiare dell’imprenditore.
QUESTA E’ UNA DIFFERENZA RISPETTO ALLE SOCIETA’, PERCHE’ LE SOCIETA’ NATURALMENTE NON HANNO
CONSUMO PERSONALE, ma abbiamo piuttosto la destinazione dei beni Ai soci della società.

SECONDA DIFFERENZA: riguarda l’artt. 58 e 59, relativi alle PLUSVALENZE e ai DIVIDENDI.


Plusvalenze che derivano dalla cessione di una partecipazione in una società;
Dividendi sono la distribuzione dell’utile di una società partecipata dall’imprenditore.
Quando l’imprenditore detiene una partecipazione nell’ambito della sua attività di impresa, gli eventuali
dividendi ricevuti o le eventuali plusvalenze non saranno reddito di capitale i dividendi, e redditi diversi le
plusvalenze, MA siccome rientrano nell’attività di impresa per il principio di ATTRAZIONE DEI COMPONENTI
DEL REDDITO DI IMPRESA AL REDDITO DI IMPRESA, abbiamo appunto dividendi che diventano redditi di
impresa e plusvalenze che diventano redditi di impresa.
Entrambi però abbiamo già visto perlomeno per i dividendi come questi, quali reddito di capitale, sono
tassati con una ritenuta alla fonte del 26%. Quindi in misura ridotta rispetto alle aliquote ordinarie Irpef che
raggiungono il 43%; stessa cosa vale per i dividendi o le plusvalenze quando sono realizzate
dall’imprenditore, rientrano nel reddito di impresa. In particolare si ha una tassazione del 58, 14%.
Ad oggi la quota parte del dividendo e la quota parte della plusvalenza che rientra nella base imponibile è
del 58,14%, quindi se io ricevo un dividendo di 100, il 58,14% del dividendo (ossia 58, 14), rientra nella base
imponibile e sarà tassato secondo l’aliquota Irpef mia come imprenditore individuale.

TERZA DIFFERENZA: abbiamo l’art. 60, che prevede una specificità. E’ quella che non può valere per le
società di capitali, abbiamo l’art. 60 “spese per prestazioni di lavoro”  l’art. si dice che non sono ammesse
in deduzione i compensi pagati per il lavoro prestato dall’imprenditore stesso, dal coniuge, figli e familiari
partecipanti all’impresa. L’imprenditore individuale quindi non può dedurre l’opera svolta da lui stesso o
l’opera svolta dai suoi familiari. Questa regola non vale quindi per una società di capitali perché essa non ha
figli, non è una impresa familiare.

QUARTA DIFFERENZA: riguarda gli Interessi passivi. Gli interessi passivi sono deducibili nei limiti del
rapporto tra componenti positivi tassati o non tassati perché esclusi, e tutti i componenti positivi di reddito.
Perchè? Perché si collega a qualcosa che abbiamo visto nell’ambito dell’esenzione ed esclusione.
Abbiamo visto come i costi relativi a componenti positivi di reddito esenti non sono deducibili, mentre i
costi relativi a componenti di reddito esclusi sono deducibili, cosi come lo sono i costi relativi a componenti
di reddito tassati.
Quindi se io imprenditore ho un costo che mi serve per ottenere un certo componente positivo di reddito
esente, questo costo non lo posso dedurre dal reddito imponibile.
Sono ad esempio esenti le plusvalenze derivanti dalla cessione delle partecipazioni.
Ci sono però, dei casi in cui non vi è la possibilità di ricondurre specificatamente un costo ad un
componente positivo di reddito esente, peerchè ci sono delle spese generali, come gli interessi
passivi=cioè costi per produrre reddito, ma non sono costi che servono solo per produrre reddito tassato,
ma anche dei costi per produrre tutti i suoi componenti positivi di reddito, sia che siano esenti che tassati.
Ecco allora che è necessario di questa parte di componenti negativi, considerare deducibili solo la quota
parte riferibile ai redditi tassati o esclusi, mentre non deducibile la quota parte riferibile ai redditi esenti.
E come lo faccio? Con una proporzione, con una percentuale. Considero solo la frazione tra tutti i
componenti di reddito tassati ed esclusi, fratto tutti i componenti inclusi quelli esenti.
Quindi troverò la percentuale di componenti positivi tassati ed esclusi rispetto al totale dei componenti
positivi di reddito  trovo la percentuale dei componenti negativi (interessi passivi) che sono deducibili
dal reddito. GLI INTERESSI TASSIVI INERENTI ALL’ESERCIZIO DI IMPRESA QUINDI SONO DEDUCIBILI SOLO
PER LA PARTE CORRISPONDENTE AL RAPPORTO TRA L’AMMONTARE DEI RICAVI E ALTRI PROVENTI, E
L’AMMONTARE COMPLESSIVO DI TUTTI I RICAVI E PROVENTI (art. 61).

QUINTA DIFFERENZA: riguarda l’art. 58 e le Plusvalenze che derivano da cessione d’azienda. Se realizzate
da imprenditore individuale, possono essere tassate Separatamente. Abbiamo parlato della tassazione
separata, che riguarda i componenti di reddito a formazione pluriennale, tra cui c’è anche una plusvalenza
derivante da cessione d’azienda. La plusvalenza può essere maturata in tutto l’arco di vita dell’azienda.
Riguarda solo le persone fisiche e non riguarda società ed enti commerciali.

SESTA DIFFERENZA/SPECIFICITA: riguarda la Deducibilità dei beni ad uso promiscuo = quei beni che
l’imprenditore individuale utilizza in parte per il suo consumo personale e in parte per l’attività di impresa,
come un computer usato anche in famiglia per il figlio oltre che in ufficio. Questi costi ci dice l’art. 64, co2,
sono deducibili solo nel limite del 50%. Quindi solo il 50%.

 6 TIPOLOGIE DI DIFFERENZE RISPETTO ALLA DETERMINAZIONE DEL REDDITO DI IMPRESA DELLE


SOCIETA’ ED ENTI COMMERCIALI.

Ultimo cenno: LE IMPRESE MINORI E I CONTRIBUENTI MINIMI


Le imprese minori sono imprese quando l’imprenditore individuale o le società di persone hanno ricavi
inferiori a determinate soglie, come 400.000 euro per chi presta servizi. In tali ipotesi esistono regole
semplificate, come una contabilità semplificata.
I contribuenti minimi, la famosa flat tax che riguarda solo le partite IVA. Cioè alcuni contribuenti sotto
determinate soglie possono versare e avere agevolazioni fiscali in termini di aliquote e di adempimento
fiscali.

I REDDITI DIVERSI=ultima categoria.


Non è una categoria residuale, nel senso che ogni tipologia di reddito che non rientra nelle precedenti
allora rientra in questa categoria dei redditi diversi. NO!
Nella categoria di redditi diversi invece vi è una definizione per elencazione: le singole tipologie di reddito
sono definite secondo un elenco di tipi di reddito che rientrano in quella categoria.
Qual è la caratteristica comune? Sono eterogenee tra di loro queste tipologie, abbiamo vincite, redditi di
lavoro autonomo non abituale, redditi di impresa non abituale, insomma tutta una serie di tipologie di
reddito diverse tra loro, ma che hanno una CARATTERISTICA COMUNE >>> HANNO DELLE
CARATTERISTICHE MOLTO SIMILI AD UNA DELLE PRECEDENTI CATEGORIE DI REDDITO CHE MANCANO DI
1 REQUISITO PER RIENTRARE IN QUELLA SPECIFICA CATEGORIA DI REDDITO.
Ad esempio rientrano nei redditi diversi I redditi da lavoro autonomo occasionali/redditi di impresa
occasionali. Pur essendo attività commerciali in un caso, arti e professioni in un altro, MANCA UN
REQUISITO FONDAMENTALE  L’ABITUALITA’, che è un requisito fondamentale sia nel reddito di lavoro
autonomo che nel reddito di impresa. Quindi rientrano in quest’altra categoria, perché specificatamente
indicati però!!! E’ specificato nelle norme che rientrano in quest’ultima categoria.

Poi abbiamo redditi molto simili ai redditi Fondiari, ad esempio le Plusvalenze relative alla lottizzazione dei
terreni generano redditi diversi. Abbiamo la proprietà di un terreno ma c’è una ALEATORIETA’ che non c’è
nei redditi fondiari e quindi diventano redditi diversi.

(…)
Poi abbiamo dei redditi che derivano da investimenti finanziari, in particolare le plusvalenze derivanti dalla
cessione di una partecipazione finanziaria in una società. Queste plusvalenze sono redditi diversi, che
vengono però tassati con una imposta sostitutiva del 26%. Parliamo sempre di persona fisica che acquista
titolo azionario e lo rivende realizzando plusvalenza. Questa plusvalenza non è tassata secondo regole
ordinarie ma secondo una tassazione sostitutiva del 26%.
Sono redditi DIVERSI e NON di capitale, perché nei redditi di capitale ci sono 2 requisiti: certi nella loro
esistenza e che derivino dall’impiego di capitale.
Ma quando ho una plusvalenza io ho una aleatorietà, non ho la certezza nell’esistenza di quel reddito. Alla
fonte c’è un evento aleatorio, cioè la crescita di un valore di un titolo azionario.
Essendo un evento aleatorio, non rientra nei redditi di capitale. E’ un reddito simile a quello di un'altra
categoria ma non c’è certezza dell’AN, e quindi è reddito diverso.

Anche i redditi fondiari che riguardano immobili all’estero sono in realtà redditi diversi.
Beni immobili siti all’estero generano infatti reddito diverso e non fondiario.

ABBIAMO BREVEMENTE VISTO LE TIPOLOGIE DI REDDITI DIVERSI CHE ASSOMIGLIANO A QUELLE DI ALTRE
CATEGORIE (più o meno).
MA sussistono 2 tipi di redditi diversi che invece NON hanno collegamenti con altri redditi.
1) LE VINCITE: tutte le vincite lecite costituiscono reddito diverso. Perché? Perché non hanno alcuna fonte
produttiva, derivano prevalentemente da FORTUNA, non c’è collegamento con nessuna categoria.
2) REDDITI DERIVANTI DALL’ASSUNZIONE DI OBBLIGHI DI FARE, NON FARE, PERMETTERE: è una clausola
residuale a cui va fatta attenzione; potrebbero rientrarvi varie ipotesi infatti che in realtà non rientrano in
nessuna categoria di reddito.

 Possiamo concludere che nella categoria dei redditi diversi rientrano una serie di ipotesi di reddito
SIMILI ad altre categorie in tanti casi, PER NULLA SIMILI ad altre, ma comunque sono una
categoria/elencazione che non è esaustiva ma ha una CLAUSOLA DI CHIUSURA, questa di redditi
derivanti dall’assunzione di obblighi di fare, non fare, permettere, a cui bisogna prestare
attenzione.
 E’ una categoria NON residuale, non è che ogni tipo non rientrante entra qui dentro, ma è una
categoria per elencazione, solo quelle determinate sono reddito diverso.
 Ma con la clausola di chiusura bisogna far attenzione se per caso una ipotesi non inclusa vi possa
rientrare, caso per caso dalla giurisprudenza.

Abbiamo visto quindi il perimetro del reddito diverso;


Ora guardiamo la DETERMINAZIONE DEL REDDITO DIVERSO: come si determina?
Abbiamo delle regole diverse a seconda del tipo di reddito, quindi possiamo fare degli esempi.
-L’art 69 che riguarda le vincite: le vincite si determinano senza considerare deduzioni dal reddito.
Si applica il principio di cassa alle vincite, senza deduzione.
-L’art 71 che riguarda l’art. 67 (prima era art. 81) redditi derivanti da attività commerciali non esercitati
abitualmente e redditi di lavoro autonomo non esercitato abitualmente: la determinazione si fa attraverso
la differenza tra l’ammontare percepito nel periodo d’imposta e le spese specificamente inerenti alla
produzione. Quindi in questo caso abbiamo una Deducibilità dei costi, a differenza delle vincite.
Inoltre vige il principio di cassa.

 I REDDITI DIVERSI HANNO REGOLE DI DETERMINAZIONE CHE VARIANO A SECONDA DEL TIPO DI
REDDITO DIVERSO.
LEZIONE 10, IRES: IMPOSTA SUL REDDITO DELLE SOCIETA’, DISPOSIZIONI GENERALI
Vediamo oggi LE DISPOSIZIONI GENERALI e I SOGGETTI PASSIVI DELL’IRES.
L’IRES è l’imposta sul reddito delle società, ed è la seconda imposta che studiamo.
Abbiamo visto l’IRPEF che ha come presupposto il possesso dei redditi che rientrano nelle 6 categorie di
reddito esaminate, i soggetti passivi sono le persone fisiche residenti e non residenti, e ora vediamo
l’IRES.
La prima norma da leggere è l’art. 72 e seguenti del TUIR che riguardano I SOGGETTI
PASSIVI+DISPOSIZIONI GENERALI.
L’art. 72 prevede che: “Presupposto dell’imposta sul reddito delle società è il possesso dei redditi in denaro
o in natura rientranti nelle categorie indicate all’articolo 6.”
 IL PRESUPPOSTO DELL’IRES E’ COINCIDENTE COL PRESUPPOSTO DELL’IRPEF, possiamo quindi dire le
stesse cose che abbiamo visto per il possesso; per possesso bisogna fare riferimento a quando il reddito
matura, quando effettivamente va imputato ad un determinato periodo di imposta.
- “in denaro o in natura”  abbiamo visto come il reddito può manifestarsi in denaro, oppure in natura e in
tal caso il reddito dovrà essere quantificato secondo il valore normale, art. 9 TUIR.
- “rientranti nelle categorie indicate all’art. 6”  il possesso dei redditi che rientra in una di queste
categorie fa scattare l’Imposta sul reddito delle società.
C’è da dire però una cosa riguardo all’IRES: ALCUNI SOGGETTI PASSIVI (di quelli che vedremo) PER
DEFINIZIONE NON POSSONO POSSEDERE REDDITI CHE RIENTRANO IN ALCUNE CATEGORIE DI REDDITO
INDICATE NELL’ART.6.
Ad esempio, tra i soggetti passivi dell’IRES, ci sono le società di capitali e gli enti commerciali.
Queste due realizzano per definizione SOLO REDDITO DI IMPRESA, e questo vale anche se realizzano un
reddito che avrebbe natura di reddito fondiario/di capitale/ecc, perché?
Perché PER IL PRINICIPIO DI ATTRAZIONE DELLA CATEGORIA DEL REDDITO DI IMPRESA, tutti i redditi
realizzati da colui che esercita attività di impresa sono reddito di impresa (come società di capitali ed enti
commerciali).
INVECE, gli enti non commerciali che sono un’altra categoria, o gli enti non residenti che sono un’altra
categoria ancora, soggetti passivi dell’IRES, possono realizzare reddito che rientra in tutte le categorie salvo
che per natura non possano realizzare alcuna tipologia di reddito.
Ad esempio un ente non commerciale non potrà mai realizzare reddito di lavoro dipendente, perché solo
una persona fisica può essere lavoratore dipendente.

QUALI SONO ALLORA I SOGGETTI PASSIVI DELL’IRES


Sono dettati dall’art 73 TUIR: ci dice al co.1, diviso in 4 lettere, le 4 tipologie di soggetti passivi IRES, cioè i
soggetti debitori di tale imposta.
a) Le società di capitali residenti nel territorio dello Stato (..)
b) Gli enti commerciali residenti nel territorio dello Stato (..)
c) Gli enti non commerciali residenti nel territorio dello Stato (..)
d) Le società e gli enti di ogni tipo, con o senza personalità giuridica, non residenti nel territorio dello Stato.

(I soggetti passivi IRPEF erano solo le persone fisiche, NEL MEZZO invece rientrano le società di persone:
non sono né soggetto passivo IRPEF né soggetto passivo IRES, non sono né persone fisiche ne una di queste
4 categorie; sono invece FISCALMENTE TRASPARENTI, il reddito è imputato per trasparenza ai soci. Se sono
persone fisiche, i soci saranno soggetti ad IRPEF, se invece sono una di queste 4 categorie sono soggetti ad
IRES, se invece a loro volta i soci saranno società di persone, a loro volta realizzano reddito PER
TRASPARENZA imputato ai loro soci, finchè non si trova un soggetto passivo Irpef o Ires).
L’art. 73 distingue minuziosamente 4 tipologie diverse di soggetti passivi perché a queste sottocategorie si
collegano discipline differenti, soprattutto ai fini della determinazione della base imponibile.
Se prendiamo l’art. 75, fa un po' da SPARTIACQUE: ci dice quali sono le disposizioni normative applicabili a
ciascuna delle 4 sottocategorie di soggetti passivi IRES. .

 L’imposta si applica sul reddito complessivo netto, determinato secondo le disposizioni della sezione 1 del
capo II, per le società ed enti di cui alle lettere a) e b) del comma 1, art 73,
= PER LE SOCIETA DI CAPITALI E GLI ENTI COMMERCIALI SI APPLICA LA SEZIONE 1 CAPO 2
del capo III, per gli enti non commerciali di cui alla lettera c)
= SI APPLICA LA SEZIONE 1 CAPO 3
dei capi IV e V, per le società ed enti non residenti di cui alla lettera d)
= SI APPLICA LA SEZIONE 1 CAPO IV E V.

 Prima bisogna verificare che tipo di soggetto passivo siamo, poi andiamo nel gruppo di disposizioni
normative che riguarda la mia sottocategoria di soggetto passivo.

In realtà, considerando che le società di capitali ed enti commerciali sono trattati nello stesso modo (l’art.
75 rinvia ad una stessa sezione e capo per la determinazione del reddito per entrambi, lettera a e b),
potremmo andare a considerare SOCIETA’ DI CAPITALI ED ENTI COMMERCIALI COME UNO STESSO
GRUPPO DI SOGGETTI PASSIVI (1 gruppo);
poi prendiamo gli ENTI NON COMMERCIALI (2 gruppo);
poi prendiamo SOCIETA’ ED ENTI NON RESIDENTI (3 gruppo);

 ABBIAMO ALLORA UNA TRIPARTIZIONE.


La prima categoria sono enti commerciali residenti, la seconda categoria enti non commerciali
residenti, la terza categoria enti NON residenti.
QUINDI LA TRIPARTIZIONE CREATASI che nell’art. 73 è quadripartizione, SI FONDA SU 2 ELEMENTI
1. LA RESIDENZA FISCALE = società ed enti residenti, commerciali o non, sono disciplinati dall’art.
73, co,1, lettera a)b)c), mentre i non residenti sono alla lettera d).
2. LA COMMERCIALITA’ DELL’ATTIVITA’ = e questo fa distinguere le lettere a)b) dalla lettera c),
mentre la lettera d) non distingue perché prende non residenti.

PER CAPIRE IN QUALCHE CATEGORIA UN SOGGETTO PASSIVO SI TROVA, BISOGNA PORRE 2 DOMANDE
1 DOMANDA  E’ FISCALMENTE RESIDENTE?
2 DOMANDA  ESERCITA ATTIVITA’ COMMERCIALE O MENO?
In questo modo possiamo incanalare in qualche sottocategoria ci troviamo e quindi quale sono di
conseguenza le regole di determinazione che si applicano per il reddito a quel soggetto.
= Esaminiamo allora queste 2 domande, ad esempio se prendiamo la prima bisogna conoscere la nozione di
residenza fiscale, e se prendiamo la seconda bisogna conoscere la nozione di attività commerciale.

1. LA RESIDENZA FISCALE, rimaniamo nell’art. 73 TUIR che la disciplina al comma 3.


“Ai fini dell’IRES, si considerano fiscalmente residenti, le società e gli enti che per la maggior parte
del periodo di imposta hanno la sede legale o la sede dell’amministrazione o l’oggetto principale nel
territorio dello Stato”. Quindi sono fiscalmente residenti se hanno almeno 1 di questi 3 elementi
nel territorio dello Stato.
- sede legale: la sede fissata nell’atto costitutivo. E’ un po’ l’equivalente della nozione di iscrizione
all’anagrafe per la popolazione residente, è un requisito formale. Se è in Italia, a prescindere dagli
altri 2 elementi, la mia società/ente è residente fiscalmente in Italia.
- sede amministrazione: è il luogo in cui si forma la volontà relativa agli atti di amministrazione della
società o dell’ente, da dove vengono gli impulsi volitivi della società, dove sono prese le decisioni
relative all’amministrazione (ordinaria). [NO capogruppo, a cui spetta la direzione coordinamento]
- oggetto principale: l’oggetto sociale è quello indicato nell’atto costitutivo o quello effettivamente
esercitato. Bisogna verificare dov’è esercitata l’attività principale della società. Se è una attività di
produzione di un certo bene, sarà facile capirlo. Più difficile è capire l’oggetto di una attività quando
la società è una cd società holding, cioè società che non esercitano una attività di produzione
classica di beni ma hanno come oggetto sociale la detenzione di partecipazioni in altre società, sono
delle società che come redditi avranno dividendi, plusvalenze, eventualmente interessi, sono
società holding. In questo caso dov’è l’oggetto principale? E’ più complicato capire dov’è la
partecipazione.

QUESTE SONO LE 3 REGOLE PRINCIPALI, MA A CHI SPETTA L’ONERE DI PROVARE LA RESIDENZA FISCALE IN
ITALIA? L’ONERE GRAVA SULL’AMMINISTRAZIONE FINANZIARIA. E’ LEI CHE DEVE DIMOSTRARE CHE UNA
SOCIETA’ O UN ENTE SONO FISCALMENTE RESIDENTI IN ITALIA. Anche qui è semplice come per l’IRPEF
dimostrare che una società ha sede legale in Italia, è un requisito formale; se però manca il 1 requisito,
nell’attività istruttoria effettuata dall’Agenzia delle entrate, bisogna spiegare perché pur non essendoci
sede legale in Italia quella determinata società o ente è considerato fiscalmente residente con gli uno degli
altri 2 requisiti  attività istruttoria/di pre-costituzione delle prove è podromica alla motivazione
dell’avviso di accertamento, è quindi fondamentale.

MA. La regola generale è quella secondo cui per una società con uno di questi 3 requisiti, l’onere di
provarlo spetta all’Amministrazione finanziaria. Vi sono però ipotesi previste dal legislatore dove questa
regola di distribuzione dell’onere della prova è INVERTITA. A ricorrere di determinate ipotesi, la prova
della residenza fiscale o della non residenza fiscale in Italia grava sul contribuente  C’è quindi una
presunzione di residenza che opera nei confronti di alcuni contribuenti/alcune società od enti.
ES. Se abbiamo una società non residente che ha una partecipazione di controllo in Italia, si presume che
questa società non residente sia a sua volte residente fiscalmente in Italia se ricorre una delle 2 condizioni
A) O è a sua volta controllata dall’Italia: abbiamo quindi società italiana che controlla società all’estero che
controlla la società italiana
B) O è amministrata da amministratori per la maggioranza Italiana: abbiamo quindi società estera che
controlla società italiana e che è amministrata da amministratori italiani.

IN QUESTE 2 IPOTESI LA SOCIETA’ ESTERA SI PRESUME FISCALMENTE RESIDENTE IN ITALIA SALVO PROVA
CONTRARIA (CIOE CHE IL CONTRIBUENTE NON DIMOSTRI CHE PUR ESSENDOCI TALE SITUAZIONE DI FATTO)
CHE LA SOCIETA’ E’ AMMINISTRATA ALL’ESTERO.

QUAL E’ LA CONSEGUENZA SE UN SOGGETTO IRES E’ FISCALMENTE RESIDENTE?


E’ lo stesso visto per le persone fisiche, cioè SE LE SOCIETA’/L’ENTE E’ FISCALMENTE RESIDENTE, SI APPLICA
IL PRINCIPIO DELLA WORLDWIDE TAXATION  i redditi ovunque prodotti nel mondo dalla società
residente sono tassati in Italia. In caso contrario sono tassati in Italia solo se prodotti in Italia (conta nel
caso di non residenza, la fonte del reddito).

2. LA COMMERCIALITA’. Chi sono gli enti commerciali e non commerciali?


Gli enti commerciali sono gli enti (ce lo dice l’art. 73, co1, lett.b) che hanno per oggetto esclusivo o
principale l’esercizio di attività commerciale.
Chi enti non commerciali (ce lo dice la lett.c) sono quegli enti pubblici o privati che non hanno per
oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciale.
 Quindi bisogna distinguere in base all’oggetto esclusivo o principale per l’esercizio di attcomm.
- oggetto: è quello determinato nell’atto costitutivo si si forma in atto pubblico o scrittura privata
autenticata; o in subordine è l’attività effettivamente esercitata.
- oggetto esclusivo o principale: quell’oggetto (determinato come visto sopra) è esclusivo o
principale quando è ESSENZIALE PER REALIZZARE DIRETTAMENTE GLI SCOPI DELL’ENTE. Ce lo dice
il co.4, art. 73: “l’oggetto principale è l’attività essenziale per realizzare direttamente gli scopri
primari indicati dalla legge, dall’atto costitutivo o nello statuto”
- quando l’attività è commerciale: quando ho questa attività essenziale e commerciale? Perché sia
commerciale, deve essere UNA DELLE ATTIVITA’ CHE GENERANO REDDITO DI IMPRESA: l’attività
che genera reddito di impresa è attività commerciale, l’attività di cui all’art. 2195 cc o le attività
organizzate in forma di impresa quindi.
Vi è infine una ultima disposizione che riguarda l’ente commerciale: art. 149 TUIR;
Esso ci dice che INDIPENDENTEMENTE dalle previsioni statutarie, un ente perde la qualifica di ente
non commerciale qualora eserciti prevalentemente attività commerciale per un intero periodo di
imposta.

E cosa succede nell’ipotesi


A) in cui l’ente è commerciale: qualsiasi provento che concorra a formare il reddito dell’ente
commerciale, è reddito d’impresa, da qualsiasi fonte esso provenga  Principio di attrazione del
reddito di impresa: quando un imprenditore con società o ente commerciale esercita una
qualsiasi attività, tutto il reddito è reddito d’impresa, anche se un reddito è utilizzato diciamo per
finalità “estranee” all’impresa. E COME SI CALCOLA? Sulla base del bilancio apportando variazioni in
aumento o in diminuzione in applicazione della normativa fiscale.
B) in cui l’ente non è commerciale: quali sono le sue conseguenze? Che, come le persone fisiche,
potrebbero essere titolari/possedere reddito che rientrano in tutte e 6 le categorie di reddito a
livello teorico. (anche se ad esempio non può possedere reddito rientrante nella categoria da
lavoro). In particolare, se un ente non commerciale possiede un immobile che utilizza per finalità
estranee a quelle proprie istituzionali, realizzerà non reddito d’impresa come l’ente commerciale,
bensì realizzerà reddito fondiario tanto come le persone fisiche.
Se decide di cedere una partecipazione al di fuori della sua attività istituzionale, si genererà una
plusvalenza che è reddito diverso, e così via.
Il reddito complessivo degli enti non commerciali è dato dalla sommatoria dei redditi delle
singole categorie. Perché è una sommatoria in questo caso? Perché gli enti non commerciali sono
trattati alla stregua delle persone fisiche, sono i destinatari finali delle attività che pongono in
essere. L’ente non commerciale non ha una finalità di distribuzione di utile ai propri associati, ma è
come se fosse l’ultimo destinatario delle attività, non c’è distribuzione di utili.
Inoltre oltre alla sommatoria, sono previste agevolazioni fiscali per gli enti non commerciali.
Ad esempio c’è il Codice del 3 settore, nuova riforma che coinvolge tutti gli enti del 3 settore, che
prevede per determinati enti sostanzialmente di beneficiare di alcune agevolazioni, abbiamo una
serie di enti non commerciali che in relazione alla loro natura hanno determinate agevolazioni
fiscali. Oggi il codice cerca di uniformare tutta la materia e deve essere ancora attuato.
INFINE, anche gli enti non commerciali possono realizzare reddito d’impresa purché quella attività
di impresa non sia attività essenziale per le finalità istituzionali dell’ente. Quindi significa che l’ente
non commerciale dovrà tenere 2 contabilità, l’anima impresa dell’ente non commerciale e l’anima
istituzionale dell’ente non commerciale. Se l’anima istituzionale prevale su quella d’impresa, l’ente
rimane non commerciale.

ADESSO GUARDIAMO IL PERIODO DI IMPOSTA NELL’IRES


A livello teorico, soltanto alla fine della vita di una impresa si può effettivamente stabilire se ha prodotto un
reddito nel corso della sua vita o meno. I conti andrebbero fatti alla fine, sempre a livello teorico.
(“Pongo in essere un investimento e alla fine verifico se ha dato dei frutti o meno”).
Questo però NON può essere il caso in materia tributaria, le imprese hanno una vita troppo lunga, bisogna
quindi dividere il periodo di vita di una impresa in sotto-periodi, chiamati “periodi di imposta”.
Questa suddivisione in periodi è necessaria sia per ragioni contabili (devo tenere i conti della mia impresa)
sia per ragioni di gettito (lo stato e l’erario non può attendere la fine della vita dell’impresa per stabilire se
c’è reddito, bisogna mantenere le spese dello stato).
Il reddito è la DIFFERENZA TRA UN CAPITALE FINALE E UN CAPITALE INIZIALE  sempre però guardando
questa differenza non nella vita totale dell’impresa ma nei sotto-periodi di impresa.
Ce lo dice l’art. 76 TUIR: “L’imposta è dovuta per periodi di imposta, a ciascuno dei quali corrisponde una
obbligazione tributaria autonoma, salvo quanto stabilito negli artt. 80 e 84”
 La regola generale è che I PERIODI DI IMPOSTA SONO AUTONOMI  PRINCIPIO DI AUTONOMIA
DELL’IMPOSTA. Quindi ogni periodo di imposta ha una propria obbligazione tributaria, e sarà autonoma
rispetto a quella del periodo precedente o futuro.
Questa è la regola generale.

Il periodo di imposta non necessariamente però qui coincide con l’anno solare, ma coincide con l’esercizio
sociale, che non deve mai essere più lungo di 2 anni ma deve avere una coerenza in relazione all’attività di
impresa esercitata: se ad es l’attività di impresa è di gestione di impianti sciistici, necessariamente non
posso avere un periodo di imposta che coincide con l’anno solare, altrimenti il 31 di dicembre nel pieno
della stagione sciistica io devo andare a chiudere il bilancio ma mi viene difficile.
Quindi gli impianti sciistici verosimilmente avranno un periodo di imposta che inizierà alla fine della
primavera/inizio estate e finirà nell’anno successivo nel medesimo periodo.
Però la suddivisione però potrebbe ledere il principio di effettività della capacità contributiva: pensiamo alla
società che manifesta al primo anno una perdita di 200, e al secondo anno un reddito di 200. Di fatto la
società ha un risultato effettivo dopo 2 anni pari a 0. E per garantire quindi il principio di effettività della
capacità contributiva, è necessario creare dei COLLEGAMENTI tra i singoli periodi di imposta che
avvengono ovviamente al fine di evitare di attenuare questo principio di autonomia del periodo di imposta.
Questo tema si ricollega a quello del Riporto delle perdite. La regola generale, come anche oggi per le
persone fisiche, è quella secondo cui UNA PERDITA PUO ESSERE RIPORTATA IN AVANTI.
Una perdita fiscale invece NON VA MAI ALL’INDIETRO.
Se al primo anno ho un reddito di 200, e al secondo una perdita di 200: sul primo anno avrò una
obbligazione tributaria autonoma e al secondo anno potrò avere invece una perdita che eventualmente
potrà essere scomputata (nel limite dell’80% che vediamo) da redditi di anni successivi  la mia perdita
non può andare retroattivamente a compensare dei redditi passati ma solo in avanti.
CON CHE LIMITI? Non temporali sicuramente. La perdita può essere portata in avanti sine die.
Abbiamo però un limite generale per cui LA PERDITA, riportata in avanti e senza limiti di tempo, PUO’
ESSERE COMPENSATA NEL LIMITE DELL’80% DELL’UTILE DELL’ANNO IN QUESTIONE.
Quindi dell’utile futuro.
L’Art. 84 TUIR riguarda Il Riporto delle perdite  ci dà subito la regola generale.
Per quanto riguarda l’esempio di prima quindi: Nell’esercizio futuro quindi abbiamo un reddito imponibile
di 200, l’80% di 200 è 160, quindi la mia perdita di 200 posso scomputarla solo da un massimo utile di 160.
Mi rimane poi una perdita di 40 che la riporterò nell’anno successivo per vedere ancora se posso
compensarla.
SE LA PERDITA E’ REALIZZATA DA SOGGETTI NEOCOSTITUITI, NON CI SONO LIMITI STABILITI.

Poi abbiamo delle REGOLE CHE SERVONO PER EVITARE LA CIRCOLAZIONE DELLE BARE FISCALI
Anni fa vi era il fenomeno per cui una società in perdita, ricca di perdite fiscali, che però non avrebbe mai
più generato un utile perché aveva esaurito le sue capacità di realizzare un utile, diventava
paradossalmente attrattiva sul mercato perché poteva essere acquistata sul mercato e risultava avere
valore economico in modo tale da compensare utili e redditi di altre società.
Per evitare ciò, IL RIPORTO DELLE PERDITE NON E’ AMMESSO SE RICORRONO 2 CONDIZIONI
1) Se muta la maggioranza delle partecipazioni con diritto di voto
2) Se modifica l’attività principale.
Quindi se assumiamo che io produco codici tributari e trovo una società che produce penne, ricca di perdite
fiscali. Io potrei essere tentato dall’acquistare questa società per scomputare quelle perdite fiscali della
società con la mia società che produce utili perché vendo parecchi codici.
A questo punto scatta il limite: se acquisto una società che produceva penne e ora cambia la propria attività
principale e produce anche lei codici tributari e cambiano le partecipazioni con diritto di voto (perché ho
acquistato la società e sarò io nuovo socio della società), allora ci sono le condizioni per NON AVER PIU
RIPORTO DELLE PERDITE.

Una seconda regola particolare che riguarda il riporto delle perdite è quella secondo cui LA PERDITA E’
DIMINUITA DEI PROVENTI ESENTI DALL’IMPOSTA PER LA PARTE DEL LORO AMMONTARE CHE ECCEDE I
COMPONENTI NEGATIVI NON DEDOTTI.
Le perdite quindi devono essere diminuiti dei proventi esenti che eccedono i costi non dedotti in relazione a
tali proventi esenti. Abbiamo detto in precedenza che i costi relativi ai proventi esenti non sono deducibili,
quindi la parte in eccedenza dei redditi esenti rispetto ai costi non dedotti le perdite fiscali nel limite di
quell’ammontare non sono riportabili.

NB ORA POSSIAMO GIA INIZIARE A FARE UN QUADRO GENERALE DI COLLEGAMENTO TRA SOGGETTI
PASSIVI IRPEF E IRES-IMPOSTA-CATEGORIA DI REDDITO. Bisogna creare una sorta di tabella in cui mettiamo
insieme tutte le dinamiche. Tutti i possibili soggetti che tipo di reddito producono e a quale imposta sono
sottoposti. NON CONFONDIAMO L’IMPOSTA CON IRES E IRPEF. TENIAMO DISTINTI 3 ELEMENTI!!

LEZIONE 11, PRINCIPI GENERALI SULLA DETERMINAZIONE DEL REDDITO D’IMPRESA


Oggi iniziamo a parlare della determinazione del reddito d’impresa per le società di capitali e gli enti
commerciali. Ricordiamo come in tema abbiamo distinto le norme in materia in 3 gruppi di norme
- Un primo gruppo relativo alla nozione di reddito di impresa, art 55 TUIR
- Un secondo relative agli imprenditori individuali al cui interno vi è una norma di rinvio che ci dice che si
applicano agli imprenditori individuali le norme relative alla determinazione del reddito di impresa delle
società di capitali ed enti commerciali, salvo disposto diversamente dal titolo relativo al reddito degli
imprenditori individuali
- Un terzo gruppo relativo alle regole generali che riguardano: società capitali, enti commerciali, e in virtù
del rinvio imprenditori individuali e società di persone commerciali.

Quindi iniziamo dalle REGOLE DI DETERMINAZIONE E DEI PRINCIPI GENERALI


Il principio più importante da cui si muove per determinare il reddito di impresa è il PRINCIPIO DI
DERIVAZIONE, il che ha diverse declinazioni a seconda della tipologia di soggetto.
Il principio di derivazione si distingue dal principio del “doppio binario” presente negli Stati Uniti.
Questo ci dice che il reddito di impresa, che poi va dichiarato e assoggettato ad IRES per i soggetti passivi
IRES o ad IRPEF per i soggetti passivi IRPEF, si determina partendo dal risultato di bilancio (civilistico) ed
apportando variazioni in aumento o in diminuzione  art. 83 del TUIR, rubricato “determinazione del
reddito complessivo”.
Occorre però effettuare una distinzione: tale principio di derivazione, a seconda che abbiamo a che fare con
una micro-impresa, con un soggetto che applica i principi contabili internazionali o che applica i principi
contabili nazionali, si è esplica in modo diverso.
I soggetti cd. OIC (ossia i principi contabili domestici) o i soggetti IAS (soggetti che adottano i principi
contabili internazionali) seguono un principio di derivazione cd. RAFFORZATO, cioè si applicano le norme
civilistiche salvo alcune specifiche ipotesi in cui si apportano variazioni in aumento e in diminuzione.
In particolare valgono anche ai fini fiscali i criteri di qualificazione, imputazione temporale e di
classificazione previsti dalle regole contabili  per coloro che devono applicare i principi contabili
internazionali o nazionali, valgono le regole dei principi contabili in tema di qualificazione imputazione
temporale e classificazione in bilancio.
Invece per le micro-imprese cioè che hanno un sistema contabile semplificato, abbiamo invece un principio
di derivazione CLASSICA, cioè si determina il reddito sempre partendo da bilancio civilistico, però
apportano tutte le variazioni in aumento e in diminuzione previste dal TUIR.
(Prima invece in tema di qualificazione imputazione temporale e di classificazione in bilancio, valgono i
principi civilistici a prescindere dal nostro legislatore fiscale).
 Quindi quello che dobbiamo fare è PARTIRE DAL BILANCIO, e poi andare a vedere quali sono le
variazioni in aumento e in diminuzione dal reddito civilistico.

IL BILANCIO
Il bilancio si compone tradizionalmente di Stato patrimoniale e Conto economico.
-Lo Stato patrimoniale = è una fotografia effettuata del patrimonio di un soggetto in un determinato
momento. Solitamente questo momento è misurato al termine dell’esercizio, al termine del periodo di
imposta. Il nostro stato patrimoniale vrà quindi un attivo, un passivo, e un patrimonio netto.
Nell’attivo ci saranno tutti i crediti che la società/impresa ha (crediti soci, immobilizzazioni finanziarie..).
Abbiamo poi l’attivo circolante, cioè le rimanenze, pensiamo ad una impresa che compra e vende tazze, si
trova alla fine del periodo di imposta in magazzino altre tazze, e questo magazzino costituisce attivo
circolante.
Nel passivo troviamo anzitutto il patrimonio netto, in cui vediamo la misura di ciò che è stato conferito dai
soci (il capitale sociale) e anche le riserve (dal capitale sociale, l’attività è iniziata, ha prodotto reddito che
alimenta certe riserve). Poi abbiamo i debiti. La società magari si è indebitata nei confronti di una banca o
di un proprio fornitore. Poi abbiamo dei fondi per rischi. Siccome il bilancio è redatto secondo il principio di
“prudenza”, significa che se vi è un potenziale costo, il rischio di un costo che potrebbe manifestarsi in
futuro, il redattore “prudente” del bilancio indica questo costo. Manifesta un potenziale debito futuro il
fondo rischi.
-Il Conto economico = è una misura dinamica, un po' come quando pensiamo al reddito (mentre patrimonio
è misura statica). Avrà una parte dove si misura il valore della produzione (tutti i ricavi), poi avrò i costi della
produzione (costi per dipendenti o altro bene acquistato), avremo i proventi e gli oneri finanziari, ecc.
 LA DIFFERENZA TRA I COMPONENTI POSITIVI DEL REDDITO CIVILISTICO E I COMPONENTI NEGATIVI DEL
REDDITO CIVILISTICO CHE EMERGE DAL CONTO ECONOMICO, DA LUOGO AD UN RISULTATO, CHE E’
QUELLO CIVILISTICO, A CUI SI APPLICHERANNO LE IMPOSTE.
Per determinare le imposte si parte quindi dal risultato civilistico che emerge sia nello stato patrimoniale
sia nello stato economico. Si dice che i componenti positivi e negativi “pareggiano”.
Se ad esempio nel conto economico i componenti positivi sono maggiori di quelli negativi, avrò un risultato
positivo. Se invece vale viceversa, avrò risultato negativo. E questo mi va a pareggiare i conti.
Partendo dal risultato civilistico, si apportano le variazioni IN AUMENTO (per aumentare un ricavo, per
escludere un costo) e IN DIMINUZIONE (per escludere un ricavo ad esempio).

ESEMPI DI QUESTE VARIAZIONI IN AUMENTO O IN DIMINUZIONE


Assumiamo che il redattore del bilancio ha indicato in bilancio un costo che fiscalmente non è ammesso in
deduzione. Ad esempio un costo per un rischio futuro. Allora il redattore prudente indica questo costo;
fiscalmente però ridurre un costo significa ridurre un reddito imponibile. Quindi il costo che civilisticamente
è deducibile per prudenza ma fiscalmente non è deducibile, darà luogo a una VARIAZIONE IN AUMENTO.
Civilisticamente il mio risultato sarà un risultato inferiore rispetto a quello effettivo, perché ho tenuto conto
di un costo che non si è manifestato, fiscalmente invece devo andare a ripristinare questo costo,
aumentare il risultato civilistico, e determino così una variazione in aumento che mi da un risultato fiscale.

Altro esempio di variazione in diminuzione è quello in cui indico nel bilancio un dividendo. Esso è indicato
come componente positivo di reddito nella sua interezza nel bilancio. Fiscalmente sappiamo che i dividendi
sono per le società di capitali ed enti commerciali ESCLUSI DALLA TASSAZIONE PER IL 95%, quindi il mio
risultato civilistico non terrà conto di questa esclusione. Per determinare il risultato fiscale devo tener
conto della regola per cui i dividendi sono esclusi da tassazione per 95%. Quindi dal risultato civilistico devo
apportare una VARIAZIONE IN DIMINUZIONE dal reddito del 95%. A quel punto applicherò l’IRES del 24%
sul mio risultato di 5.
Altra variazione in diminuzione si ha nell’ipotesi in cui vado fiscalmente ad includere un costo da dedurre
che non è stato inserito nel bilancio. Ciò accade quando in precedenza era stato dedotto civilisticamente un
costo: pensiamo all’accantonamento a fondo rischi. Se ho un costo che si manifesterà in futuro,
probabilmente, civilisticamente bisogna indicarlo subito nel bilancio per prudenza. Mi va a ridurre il
risultato. L’anno in cui si manifesta quel costo, civilisticamente io non lo devo inserire un’altra volta, l’ho già
inserito precedentemente. Fiscalmente devo però tener conto che questo costo si manifesta.
Il mio risultato civilistico sarà più elevato l’anno dopo perché non ne terrò più conto, dato che l’ho gia
inserito l’anno prima, Però fiscalmente avrò una variazione in diminuzione per tener conto della
deducibilità di quel costo.

 SINTESI DELLE VARIAZIONI.

Adesso esaminiamo i 3 PRINCIPI FONDAMENTALI DI DETERMINAZIONE DEL REDDITO D’IMPRESA


1) PRINCIPIO DI COMPETENZA: che si applica sia a componenti positivi che negativi di reddito (costi e ricavi)
2) PRINCIPIO DI INERENZA: che si applica solo ai componenti negativi di reddito, vale solo per i costi
3) PRINCIPIO DI PREVIA IMPUTAZIONE A CONTO ECONOMICO: che vale solo per i costi.

1. PRINCIPIO DI COMPETENZA.
La sua ratio deriva dall’esigenza di dividere il periodo di vita dell’impresa (pluriennale, decennale,
potrebbe durare 50 anni) e frazionarlo in periodi di imposta. Questo frazionamento, che vale sia
per l’IRPEF che per L’IRES in quanto il reddito va misurato per periodi, fa sorgere una esigenza.
Cioè quella di IMPUTARE TEMPORALMENTE UN COMPONENTE DI REDDITO (positivo o negativo se
siamo nel reddito d’impresa) NEL PERIODO CORRETTO.
Il principio di competenza(così come il principio di cassa) ci dice in quale periodo il componente di
reddito positivo deve essere tassato e in quale periodo il componente di reddito negativo deve
essere dedotto.
Abbiamo visto che nella maggior parte delle categorie reddituali in materia di IRPEF, il principio che
si applica è quello di CASSA (=un componente di reddito si imputa nel periodo in cui vi è la
movimentazione finanziaria, in cui vi è la percezione/incasso per il componente positivo, o il
pagamento per il componente negativo). La competenza economica invece è un principio diverso:
NON CONTA LA MANIFESTAZIONE FINANZIARIA MA IL MOMENTO IN CUI SI PERFEZIONA LA
FATTISPECIE DA CUI IL COMPONENTE DI REDDITO TRAE ORIGINE. Quindi quando si parla di
competenza si parla di CONSEGUIMENTO di un componente positivo di reddito, non si parla di
incasso di componente positivo di reddito per esempio.
E’ un perfezionamento giuridico economico.
La competenza è regolata dall’art. 109 TUIR in cui vi è una regola generale di competenza e poi vi
sono delle regole specifiche che vanno a meglio declinarlo in casi specifici.
In generale il principio di competenza ci dice che
-I RICAVI SONO IMPUTATI NELL’ESERCIZIO IN CUI SONO CONSEGUITI in senso economico-
giuridico. -I COSTI INVECE (e questo è già una prima deroga) VANNO IMPUTATI SECONDO SI IL
PRINICPIO DI COMPETENZA MA TENENDO CONTO DEL PRINCIPIO DI CORRELAZIONE DEI COSTI
CON I RICAVI.
Vediamo ora le regole particolari, art. 109, co2: bisogna distinguere a seconda che il componente
positivo/negativo di reddito sia costituito da bene mobile, immobile, azienda, prestazione di servizi
o periodica. Cioè il legislatore, una volta stabilito il principio generale visto prima, poi DECLINA il
principio generale con regole più nel dettaglio che danno certezza all’imprenditore.
Queste regole di dettaglio sono diverse appunto per i diversi beni.
- Per beni mobili: es io cedo tasse, quando realizzo il ricavo derivante da cessione della tazza?
essendo bene mobile, ci dice l’art. 109, conta il “momento della consegna o della spedizione”.
Perché? Perché l’effetto traslativo della proprietà si ha nel caso di beni mobili con la consegna del
bene mobile. Ciò significa che se un imprenditore cede la tazza al 20 dicembre 2019, ma viene
pagato nel 2020, ha realizzato un reddito che si è manifestato nel periodo di imposta 2019!
Se fosse stato un lavoratore autonomo invece avrebbe realizzato reddito nel 2020 perché li conta la
percezione monetaria per il lavoratore autonomo (ovviamente non cedendo tazze).
- Per beni immobili: conta la stipulazione dell’atto o una data successiva in cui si verifica l’effetto
traslativo se così è concordato. Ecco in tali ipotesi la componente (positiva/negativa) si manifesta
col rogito, quando è stipulato l’atto di compravendita.
- Per la compravendita dell’azienda: anche qui conta la stipulazione dell’atto, come per immobili.
- Per la prestazione di servizi: conta la data di ultimazione di servizio. Quindi devo verificare in quale
periodo di imposta cade la data di ultimazione del servizio. ESEMPIO: Prestazione servizi ultimata
nel 2019, viene iniziata nel 2018, e pagata nel 2020. Qual è il periodo di competenza? 2019.
E questo vale sia per il componente positivo (chi presta il servizio) sia per il componente negativo
(di chi acquista la prestazione di servizio)
- Per la prestazione periodica: qui conta la data di maturazione dei corrispettivi. Quindi vado a
vedere ad esempio nel contratto di locazione di mese in mese maturano i corrispettivi quindi avrò
un reddito mese per mese.

NB Prima abbiamo detto che il principio di competenza si lega ad un altro principio(che in parte
deroga in parte completa quello di competenza): quello di CORRELAZIONE DEI COSTI CON I RICAVI.
Cosa ci dice? Ci dice che i costi devono essere dedotti negli esercizi (periodi di imposta) in cui sono
conseguiti i ricavi che concorrono a produrli. Questo principio trova consacrazione in alcune regole
specifiche. In particolare quando abbiamo parlato di componenti negativi di reddito da lavoro
autonomo abbiamo visto come vi sono anche i costi di produzione, e questi (costi di produzione o
di acquisto di beni strumentali) si deducono non interamente nel periodo di imposta, bensì PER
QUOTE DI AMMORTAMENTO. Perché? Questa regola opera anche per gli imprenditori, ma perché?
Si adotta la regola proprio per rispondere al principio generale di correlazione di costi e ricavi.
Siccome il bene strumentale concorre a formare i ricavi in più periodi di imposta, il legislatore
prevede che il relativo costo sia dedotto nei vari periodi di imposta in cui concorre a formare i
componenti positivi di reddito. L’ammortamento quindi permette di applicare tale principio.
Ma vi sono altre regole per l’ordinamento. Oltre all’ammortamento esistono anche i “beni merce”,
con la tecnica delle rimanenze vengono dedotti fiscalmente i costi d’acquisto nell’anno in cui il
bene merce concorre a formare il ricavo.
Le norme in tema di competenza possono determinare delle VARIAZIONI IN AUMENTO O IN
DIMINUZIONE per le micro-imprese, mentre per le altre imprese non ci saranno perché in tal caso
di applica la derivazione rafforzata.

DEROGHE AL PRINCIPIO DI COMPETENZA


A. DEROGA GENERALE
Per cui, secondo un costo non è certo nella sua esistenza o nel suo ammontare, non può essere
fiscalmente dedotto. Così vale anche per un ricavo (se non è certo….).
L’imputazione a periodo allora è rinviato in tal caso al periodo di imposta in cui il costo o il ricavo
sono certi nella loro esistenza o nel loro ammontare.
(anche se questo vale per le microimprese, per le altre imprese abbiamo il bilancio).
B. DEROGHE PARTICOLARI: Alcune riguardano i costi, altre i ricavi. Utilizzare codice.
Si applica non il principio di competenza ma il principio di cassa: PER I COMPENSI DEGLI
AMMINISTRATORI, art. 95 co 5, anche PER GLI ONERI FISCALI CONTRIBUTIVI, art 99, poi per LE
EROGAZIONI LIBERALI, art. 100, co2, e AGLI INTERESSI DI MORA, art 109, co7.
Per quanto riguarda invece i componenti positivi abbiamo una deroga per i DIVIDENDI: i dividendi
sono componente positivo di reddito che si imputa secondo il principio di cassa.
Si deroga anche nel caso di RATEIZZAZIONE DI PLUSVALENZA, e anche con riguardo alle
SOPRAVVENIENZE ATTIVE.

Ultima cosa in tema di COMPETENZA, riguarda gli ERRORI CHE PUO’ COMMETTERE UN
CONTRIBUENTE  egli potrebbe porre in essere un errore, cioè imputare per errore un
componente di reddito positivo es nel 2019 anzi che nel 2020. Chiaramente un errore di
competenza non comporta un danno per l’erario, perché di regola il reddito non imputato nel 2019
sarà tassato nel 2020, in un periodo di imposta diverso  generalmente non comporta danno per
l’erario e ciò è riconosciuto dal legislatore stesso.
Ma se viene emesso un avviso di accertamento per correggere ed inserire nell’anno 2020 un
componente non imputato a periodo nel 2019, ovviamente il contribuente verserà il contributo e le
relative sanzioni, ma potrà chiedere rimborso per le maggiori imposte versate nel 2020 in ragione
del fatto che quel componente di reddito è stato imputato nel 2020.
L’ERRORE CHE COMMETTE COMPORTA SI UN MAGGIOR TRIBUTO E SANZIONI, MA PUO ESSERE
COMPENSATO IL TRIBUTO COL RIMBORSO PER QUANTO RIGUARDA IL SUCCESSIVO PERIODO DI
IMPOSTA. (CIRCOLARE 2012 AGENZIE DELLE ENTRATE CHE NE TRATTA)

2. PRINCIPIO DI INERENZA.
La competenza opera con riguardo a componenti positivi e negativi, mentre L’INERENZA RIGUARDA
SOLO IL COSTO, il componente negativo.
Cosa ci dice? Che UN COSTO E UNA SPESA SONO FISCALMENTE DEDUCIBILI (riducendo la base
imponibile) SE SONO INERENTI ALL’ATTIVITA’ DI IMPRESA. Ci vuole quindi un NESSO FUNZIONALE
TRA IL COSTO DI PRODUZIONE-L’ATTIVITA’ DI IMPRESA. Non tra costo-ricavo, non confondiamo
l’inerenza con il principio di correlazione costi-ricavi che è invece legato al principio di competenza.
Perché? Perché io posso avere un costo inerente ad attività di impresa CHE NON GENERA ALCUN
RICAVO. Questa valutazione di inerenza (dato estremamente importante in sede di accertamento)
è una valutazione che deve essere fatta EX ANTE. Bisogna valutare ex ante se quel costo era
inerente ad attività di impresa, non importa se ex post quel costo è stato vantaggioso, fa parte del
rischio imprenditoriale questo. BISOGNA VERIFICARE IL NESSO EX ANTE, QUANDO LA SPESA VIENE
COMPIUTA!!! Va valutato nella fase iniziale.
Tale principio non trova però consacrazione in una norma di legge, è “priva di disposizione”.
Però la giurisprudenza fa rientrare tale principio nell’art. 109, co5, (per cui le spese e gli altri
componenti negativi (..) sono deducibili se e nella misura in cui si riferiscono ad attività o beni da
cui provengono ricavi..)  da questa norma di ricava una regola, cioè che IL GIUDIZIO DI INERENZA
NON SI APPLICA AGLI INTERESSI PASSIVIper questi vi è una disposizione a parte che limita la
deducibilità degli interessi passivi.
Quindi per concludere occorre analizzare questo nesso funzionale e non bisogna confondere
l’attività di impresa con la produzione dei ricavi.
NON SONO INERENTI/DEDUCIBILI I COSTI SOSTENUTI DALL’IMPRENDITORE PER RAGIONI
PERSONALI O NELL’INTERESSE DEI SOCI DELLA SOCIETA’  sono spese che non rientrano nel
concetto di inerenza.
Quando pensiamo all’inerenza pensiamo a 2 tipi di valutazione:
- Inerenza “quantitativa”: ci dice che non posso dedurre dei costi che sono completamente
antieconomici. L’anti-economicità significa avere costi sproporzionati rispetto all’oggetto
dell’attività. Pensiamo al barbiere che acquista un lavello in oro massiccio, è un costo
sproporzionato, ne basta uno in materiali meno costosi. Ecco che però c’è un limite: la
discrezionalità imprenditoriale. L’amministrazione finanziaria non può dire che non è inerente il
costo di acquisto di un biglietto in 1 classe rispetto alla 2, questo rientra nella discrezionalità
dell’imprenditore. Il confine dell’anti economicità è la sua discrezionalità.
Se la discrezionalità però sfocia nell’arbitrarietà, avremo sproporzione.
- Inerenza “qualitativa”: ad esempio sono barbiere e posso acquistare le forbici. Tendenzialmente
non posso acquistare invece beni del tutto estranei come macchinari che servono al falegname.
Quindi concludendo, è fondamentale che l’inerenza sia valutata ex ante e secondo un giudizio
qualitativo e quantitativo SENZA ENTRARE NELLE SCELTE DEL CONTRIBUENTE/IMPRENDITORE CHE
SONO INSINDACABILI.

NB. L’art. 109, co5, ci dice anche che I costi sono deducibili se si riferiscono a proventi tassati o
esclusi, mentre non sono deducibili se si riferiscono a proventi esenti.
Chiaramente se sostengo un costo strettamente correlato ad un componente positivo che è esente,
questo non è deducibile. Se invece ho un costo collegato ad un provento tassato o escluso, questo
è deducibile. Questa valutazione però ESULA dal principio di inerenza.
Il problema si pone per quei costi che sono indistintamente riferiti a proventi esenti o tassati ed
esclusi, quindi le spese generali. In questo caso occorre dedurre le spese in ragione di una
percentuale, determinata con RAPPORTO TRA TOTALE DEI PROVENTI TASSATI ED ESCLUSI
FRATTO IL TOTALE DEI PROVENTI (tassati, esclusi, esenti) (come per interessi passivi per
imprenditore individuale).

Regole particolari di inerenza concernono anche i GRUPPI DI SOCIETA’:


Accade se una spesa sia sostenuta da una società in favore di un’altra società del gruppo. In tal caso
non può essere dedotto interamente il costo dalla società che sostiene il costo, bensì va ripartito
tra le società che ne traggono beneficio, e ciò avviene tra addebiti tra le società (tema che dà luogo
a tantissimi contenziosi, inerenza e ripartizione costi del gruppo, ideale per tesi)

3. PRINCIPIO DI PREVIA IMPUTAZIONE A CONTO ECONOMICO.


Terzo principio che riguarda anch’esso solo i costi. Art 109, co4.
L’articolo prevede una
A) Regola generale: per cui i costi possono essere dedotti solo se imputati al periodo di imposta in
cui sono stati indicati in bilancio. Quindi previa imputazione a conto economico significa che un
costo può essere fiscalmente dedotto se si trova anche nel conto economico. E ciò deriva dal
principio di derivazione naturalmente.
B) 3 Deroghe specifiche:
- possono esserci dei costi che sono stati iscritti nei conti economici degli esercizi precedenti ma la
cui deducibilità era stata rinviata, e ora mi trovo una deducibilità che non si trova nel conto
economico dell’anno ma in quelli degli anni precedenti
- potremmo avere dei costi che pur non nel conto economico, sono deducibili per disposizione di
legge, come i compensi e i soci fondatori
- poi abbiamo dei costi che sono correlati a dei ricavi certi e precisi, ad esempio l’ipotesi in cui si
abbia un imprenditore che non dichiara alcun reddito, si effettua un accertamento nei suoi
confronti, e si deve individuare un reddito netto.
LEZIONE 12, REDDITI DI IMPRESA: COMPONENTI POSITIVE E NEGATIVE
Abbiamo visto i principi generali della determinazione del reddito d’impresa; principio di competenza che
riguarda componenti positivi e negativi, il principio di inerenza e di previa imputazione a conto economico
riguardano solo il componente negativo.
ANALIZZIAMO ORA I SINGOLI COMPONENTI POSITIVI E NEGATIVI DI REDDITO.
Per farlo bisogna introdurre 2 nozioni importantissime (che abbiamo già incrociato)
1) LA NOZIONE DI BENE RELATIVO ALL’IMPRESA, CHE RIENTRA NEL REGIME FISCALE DEI BENI D’IMPRESA
 I beni di impresa sono di 3 categoria
A. BENI MERCE, che sono nel bilancio iscritti nell’attivo circolante, sono quei beni alla cui produzione e
scambio è diretta l’attività di impresa. La cessione di beni merce genera Ricavi.
Abbiamo fatto l’esempio della compravendita di tazze, la tazza acquistata e venduta è un bene merce.
Quindi i beni merce cambiano da impresa a impresa.
Inoltre titoli di partecipazioni in società di capitali o in enti commerciali fanno parte dell’attivo circolante
quando costituiscono un impiego transitorio di liquidità, per cui sono destinati ad essere rivenduti in tempi
brevi. In tal caso quindi quando sono destinati ad esser rivenduti in tempi brevi sono equiparati ai beni
merce, rientrano nell’attivo circolante, e anche la loro cessione genera Ricavi.
B. BENI STRUMENTALI, sono beni che nel bilancio sono iscritti nell’immobilizzazione, e sono inseriti nel
processo produttivo dell’impresa in modo durevole. Proprio in ragione della durevolezza dell’impiego sono
destinati a produrre reddito d’impresa per più periodi di imposta.
La cessione di un bene strumentale genera plusvalenze o minusvalenze a seconda che il prezzo di
cessione/di vendita sia superiore o inferiore rispetto al costo di acquisto (decurtato degli ammortamenti).
Anche qui possiamo avere dei titoli di partecipazione in società ed enti commerciali che come abbiamo
visto fanno parte delle immobilizzazioni finanziarie quando costituiscono un investimento durevole.
Quali sono? Ad esempi beni strumentali sono il fabbricato utilizzato come magazzino, oppure un computer
utilizzato da un imprenditore, i mobili utilizzati per la sede dell’amministrazione di una società.
C. BENI MERAMENTE PATRIMONIALI, anch’essi sono iscritti nel bilancio nell’immobilizzazione, ed è una
categoria residuale. La loro cessione anche qui genera plus e minus valenze, e sono quei beni che Non sono
collegati al processo produttivo (quindi non concorrono a generare reddito di impresa in modo durevole) e
Non sono nemmeno quei beni al cui scambio o alla cui produzione è diretta l’attività di impresa.
Ad esempio pensiamo all’attività di impresa che utilizza un fabbricato ma in questo momento non lo utilizza
perché non ha bisogno di quel magazzino e lo concede in affitto.
 PER CAPIRE SE PARLIAMO DI BENE MERCE, BENE STRUMENTALE O BENE MERAMENTE PATRIMONIALE,
OCCORRE VEDERE LA RELAZIONE DEL BENE CON L’ATTIVITA’ DI IMPRESA.
Dipenderà quindi da impresa a impresa se un bene è di un certo tipo o no, non possiamo generalizzare e
dire che i beni merce sono una categoria che vale per tutte le imprese in modo uguale, perché a seconda
dell’attività d’impresa ci saranno diversi beni merce e diversi beni strumentali.

2) LA NOZIONE DI VALORE FISCALMENTE RICONOSCIUTO CHE VIENE ATTRIBUITO AD UN BENE


La nozione di valore fiscalmente riconosciuto attribuito ad un bene è il secondo concetto di cui parliamo.
All’inizio coincide con il COSTO inclusivo degli oneri di diretta imputazione, e poi questo valore fiscalmente
riconosciuto negli anni diminuisce per tenere conto dell’ammortamento, ossia della quota che è stata
dedotta. Se invece vi è una rivalutazione del bene in bilancio, questo non avrà un effetto fiscale.
Il fiscalista ha un vantaggio ad avere un valore fiscale elevato per un bene attivo, perché? Perché valore
fiscale elevato significa maggiori ammortamenti e minore plusvalenze future (=minore imposte generali).
Quindi quando vi è una rivalutazione di bilancio ci sarebbe una convenienza a rivalutare fiscalmente i beni!
Però il legislatore fiscale non lo ammette, salvo in alcuni casi particolari, ma si tratta di norme di
agevolazione quelle che lo permettono. Quindi il valore fiscale è FONDAMENTALE, ogni bene d’impresa ha
il suo valore fiscale. Ad esempio prendiamo un bene strumentale: quando viene venduto la plusvalenza è
data dalla DIFFERENZA TRA PREZZO DI VENDITA / VALORE FISCALMENTE RICONOSCIUTO del bene.
I beni merce per definizione invece hanno valore fiscale pari a 0 perché quando vengono acquistati,
vengono dedotti integralmente.

QUALI SONO I PRINCIPALI COMPONENTI POSITIVI DI REDDITO:


I principali componenti positivi sono
a. I RICAVI  I ricavi sono:
-i corrispettivi che derivano dalla cessione dei beni merce.
-le indennità conseguite per il risarcimento derivante dalla perdita di un bene merce.
-il valore normale dei beni merce che fuoriescono dal regime dei beni di impresa.
-i contributi in conto esercizio.
= I RICAVI SI DIVIDONO IN QUESTE 4 SOTTOTIPOLOGIE.
La fuoriuscita dei beni dal regime dei beni di impresa di può avere anche con eventi quali il trasferimento di
sede di una società all’estero (qui tocchiamo la fiscalità internazionale), salvo che non rimangano in una
stabile organizzazione in Italia dei soggetti non residenti. La stabile organizzazione è una sede fissa di affari
che permette all’Italia di assoggettare a tassazione i redditi in impresa in Italia realizzati da soggetto estero.
b. LE PLUSVALENZE  Le plusvalenze derivano da:
- vendita.
- indennità derivante dalla perdita.
- fuoriuscita dal regime dei beni di impresa NON di un bene merce ma di un bene strumentale o
meramente patrimoniale.
= GLI STESSI EVENTII (TOLTI I CONTRIBUTI) CHE GENERANO RICAVI, GENERANO UNA PLUSVALENZA
QUANDO RIGUARDANO BENI STRUMENTALI O MERAMENTE PATRIMONIALI.
La plusvalenza si determina come differenza tra prezzo di vendita (o valore normale del bene in caso di
fuoriuscita del bene dal regime) e il valore fiscalmente riconosciuto.
Ecco perché maggiore è il valore fiscalmente riconosciuto, minore è la plusvalenza. Quindi il fiscalista ha
vantaggio ad avere valore fiscale elevato.
Le plusvalenze, se i beni d’impresa sono stati detenuti per più di 3 anni, (lo abbiamo accennato) possono
essere RATEIZZATE in 5 ANNI. Ciò significa che quando si realizza una plusvalenza, questa non rientra
interamente nella base imponibile ma viene rateizzata. Ciò cosa comporta in termini di variazioni in
diminuzione ed in amento? Che nel bilancio, dato che devo dare una rappresentazione veritiera, non posso
assoggettare a tassazione un pezzettino/una parte della plusvalenza ma devo imputarla interamente, devo
far vedere a chi legge il bilancio che la plusvalenza è stata realizzata e in che anno.
Fiscalmente però viene rateizzata in 5 anni.
ESEMPIO: Quindi assumiamo che ci sia una plusvalenza di 100 che emerge dal bilancio. Nel primo anno
dovrò fare una variazione in diminuzione, perché nel 1 anno la plusvalenza di 100 dovrà incidere
fiscalmente solo per 20, 1/5 della plusvalenza dato che si rateizza in 5 anni.
Quindi al primo anno avrò una variazione in diminuzione di 80.
Il secondo anno avrò perciò una variazione in aumento di 20, per assoggettare a tassazione quella quota
parte di plusvalenza che sto rateizzando. Così come nel 3, nel 4 e nel 5 anno.
Così ho 5 anni, l’anno in questione più i 4 successivi in cui vado a rateizzare la plusvalenza realizzata.

Tra le plusvalenze importanti vi è quella che Deriva dalla cessione di partecipazioni: abbiamo già
anticipato che è una plusvalenza parzialmente esente  è esente per il 95%; cioè quando viene ceduta una
partecipazione, la plusvalenza es pari a 100 realizzata, civilisticamente è indicata per 100, genera però
materia imponibile solo per il 5%, perché il 95% è ESENTE.
Quel 5% parteciperà al reddito imponibile. Che variazione occorre porre in essere?
Siccome nel bilancio è stato indicato un componente positivo intero di 100, ma fiscalmente devo indicare
una parte inferiore di questo componente positivo, avrò una VARIAZIONE IN DIMINUZIONE per 95.
Questa variazione in diminuzione mi permette di assoggettare a tassazione soltanto 5 della plusvalenza.
Al fine che però le plusvalenze siano esenti, devono ricorrere 4 condizioni, previste all’art. 87 TUIR.
Viene detto che NON CONCORRONO ALLA FORMAZIONE DEL REDDITO IMPONIBILE IN QUANTO ESENTI
NELLA MISURA DEL 95% LE PLUSVALENZE REALIZZATE IN SOCIETA’ DI CAPITALI ED ENTI COMMERCIALI.
Tra le 4 condizioni, indicate alle lettere a,c,b,d; 2 condizioni riguardano il soggetto che detiene la
partecipazione, mentre 2 condizioni riguardano la società partecipata.
1  occorre che la partecipazione sia posseduta ininterrottamente dal 1 giorno del 12esimo mese
precedente (requisito del Holding period). La partecipazione deve essere detenuta per 12 mesi, quindi non
posso acquistarla e rivenderla 8 mesi dopo pensando di godere dell’esenzione del 95%. Per beneficiare di
questo principio bisogna detenerla ininterrottamente per almeno 12 mesi.
2  la partecipazione nel primo bilancio in cui è stata acquistata deve esser stata iscritta nelle
immobilizzazioni finanziarie. Quindi quando acquisto la partecipazione che rivendo dopo 12 mesi, devo
averla iscritta nel 1 bilancio nell’immobilizzazione finanziaria, perché? Perché il fatto che l’abbia iscritta li,
denota che il mio intento non era speculativo di breve termine ma era un intento di DETENZIONE della
partecipazione a lungo termine (altrimenti non la iscriverei nelle immobilizzazioni ma la iscriverei nell’attivo
circolante perché intendo venderla). Si vuole rendere esenti solo quelle partecipazioni laddove non ci sia un
intento speculativo di breve termine.
3 e 4  riguardano invece la società partecipata e devono durare entrambi per 36 mesi i requisiti.
il 3 riguarda la residenza fiscale. La società partecipata deve essere residente in un paese che non è un
paradiso fiscale.
il 4 riguarda il fatto che la società partecipata deve esercitare una impresa commerciale.
= questi requisiti devono sussistere per almeno per 3 anni/36 mesi.

 HOLDING PERIOD, ISCRIZIONE NELL’IMMOBILIZZAZIONE FINANZIARIA NEL 1 ESERCIZIO,


RESIDENZA FISCALE, ESERCIZIO DI ATTIVITA’ COMMERCIALE EFFETTIVA.

Ora vi sono delle particolarità per quanto riguarda le società partecipate holding.
Cosa sono? Lo abbiamo già detto, non esercitano una attività commerciale effettiva. Per queste, il
legislatore ci dice che non dobbiamo andare a vedere le 2 caratteristiche che riguardano la società
partecipata in capo alla società holding stessa, ma dobbiamo andare a vederle in relazione alle società
partecipate dalla società holding. ES: Abbiamo società residente in Belgio, partecipata da una Italiana.
Quella in Belgio è una società holding, non devo vedere se le caratteristiche dei 36 mesi sono realizzata
dalla società belga, ma devo andare a vedere se le caratteristiche sono realizzate dalle società partecipate
dalla società belga. Così, nel caso in cui vi fosse una sola società partecipata alle Bahamas che è paradiso
fiscale, allora la plusvalenza che deriva dalla cessione della società residente in Belgio, NON E’ ESENTE
perché la società non ha i requisiti previsti dall’art. 89 lettere c e d.

Ulteriore caso particolare è quello delle Società immobiliari, il cui patrimonio è costituito prevalentemente
da immobili. La lettera d, art, 87, II periodo, ci dice a riguardo che senza possibilità di prova contraria
(abbiamo una presunzione assoluta), si presume che questo requisito (che la società partecipata eserciti
una attività commerciale) non sussista relativamente alle partecipazioni in società il cui valore del
patrimonio è prevalentemente costituito da beni immobili diversi da beni immobili alla cui produzione o
scambio è effettivamente diretta l’attività dell’impresa.
Queste società non danno luogo a plusvalenze esenti!

c. I DIVIDENTI  parliamo qui di società di capitali e di enti commerciali che ricevono dividendo quindi una
distribuzione di utili da una società di capitali loro partecipata, da un’altra società di capitali o di un altro
ente commerciale partecipato. I dividendi sono esclusi da tassazione per il 95% del loro reddito.
Ce lo dice l’art. 89 TUIR con una condizione: che la società non sia residenze in un paradiso fiscale, che il
dividendo sia ricevuta da una società anche estera va bene ma non che sia in un paradiso fiscale.
Abbiamo parlato dei dividendi quando abbiamo visto le persone fisiche; facciamo però una scaletta in
quanto ora abbiamo un po’ chiuso il quadro coi dividendi.
IL REGIME DI TASSAZIONE DEI DIVIDENDI SI DISTINGUE IN RELAZIONE AL PERCETTORE
A) Se il percettore è una persona fisica, al di fuori della sua attività di impresa, realizzerà reddito di capitale,
e i dividendi sono tassati alla ritenuta alla fonte a titolo di imposta del 26%.
B) Se il dividendo è ricevuto da un imprenditore individuale o da una società di persone commerciale, il
dividendo è assoggettato a tassazione per un importo pari a 58, 14%.
 Abbiamo quindi un reddito di impresa, realizzato dall’imprenditore individuale o da una società di
persone commerciale, e la parte del dividendo che rientra nella base imponibile e concorre a formare
reddito di impresa è del 58,14%
C) Se il dividendo è ricevuto da società di capitali ed enti commerciali, il reddito è reddito di impresa e
rientra in base imponibile per il 5% dell’ammontare perché il 95% è escluso.
D) Se il dividendo è ricevuto da società semplici ed enti non commerciali, i dividendi sono generalmente
reddito di capitale e rientrano per il 100%.
 CHIUSO QUADRO DEI DIVIDENDI.

Stesso discorso per IL REGIME DELLE PLUSVALENZE DERIVANTI DALLA CESSIONE DI TITOLI PARTECIPATIVI
A) Quando il precettore è una persona fisica, o anche una società semplice in questo caso, abbiamo una
tassazione sostitutiva del 26%.
B) Se è imprenditore individuale, la base imponibile rientra per il 58, 14%
C) Per le società di capitali ed enti commerciali abbiamo visto rientra nella base imponibile per il 5%, quindi
il 5% non è una aliquota ma è la quota che rientra nella base imponibile, che poi diventa reddito di impresa
in tal caso perché realizzano solo reddito di impresa
D) Per le società di persone commerciali rientra nella base imponibile il 49, 72%.
E) Le plusvalenze realizzate da enti non commerciali sono tassate con il 26% ritenuta alla fonte a titolo di
imposta se sono reddito di capitale, mentre il 58,14% che rientra in base imponibile se l’ente non
commerciale realizza plusvalenza nell’ambito della sua ANIMA commerciale (anima commerciale purchè
non sia esclusiva o prevalente)

d. LE SOPRAVVENIENZE ATTIVE  cioè dei maggiori ricavi conseguiti o dei maggior costi conseguiti.
Ad esempio in seguito ad una revisione contrattuale ottengo un ricavo maggiore rispetto a quello che avevo
pattuito (=ho una sopravvenienza attiva), oppure riscuoto dei crediti dopo aver dedotto delle perdite.

e. LE RIMANENZE DI ESERCIZIO  la differenza tra le rimanenze finali e le rimanenze iniziali è un


componente positivo se le rimanenze finali sono maggiori rispetto a quelle iniziali. Mentre se le rimanenze
finali sono inferiori di quelle iniziali, allora è un componente negativo. Per capire le rimanenze bisogna
ricollegarci a quanto dicevamo in tema di Correlazione costi-ricavi. La ratio del regime delle rimanenze è
garantire tale principio di correlazione costi-ricavi per i beni merce. Assumiamo che la mia impresa che
compra e vende tazze, acquisti e venda 1 euro per tazza a giugno 2019. Questa tazza non viene rivenduta a
dicembre 2019, ma verrà rivenduta nel 2020. Cosa succede nel 2019: quando acquisto la tazza, deduco il
costo di acquisto della tazza. Assumiamo che nel mio magazzino non avevo nessuna tazza. Ne acquisto
quindi solo 1 nell’anno 2019, ho un costo di un solo euro, quindi deduco un anno. Al 31 di dicembre se io
non ho rivenduto la tazza, la trovo nel magazzino. Nell’anno successivo io rivendo per 5 euro la mia tazza
nel maggio del 2020. (acquistato tazza 2019 giugno per 1 euro, la rivendo a maggio 2020 per 5).
Ora, il principio di correlazione costi-ricavi mi dice che i costi dei beni merce e dei beni strumentali
dovrebbero essere dedotti nell’anno in cui si realizzano i ricavi. Allora con la mia tazza io, che mi ritrovo a
fine dicembre 2019, HO UNA RIMANENZA FINALE. La rimanenza finale è un componente positivo di reddito
in tal caso perché la rimanenza iniziale era 0, la rimanenza finale è di 1, visto che è maggiore quella finale
ho un componente positivo pari a 1 tazza a cui attribuisco il valore di 1 euro in questo caso.
Ma visto che il mio scopo è di traslare il mio costo all’anno successivo, attribuirò 1 euro come valore alle
rimanenze finali che costituiranno un componente positivo di reddito che mi pareggia il componente
negativo di 1 euro, in modo tale che io ho dedotto 1 euro quando acquistavo la tazza, quindi ho -1, ma ho 1
euro come componente positivo come rimanenza finale alla fine dell’anno e quindi il mio risultato è pari a
0. Le rimanenze al 31 dicembre prima della 00.00 sono rimanenze finali, dopo la 00.00 diventano rimanenze
iniziali. Le rimanenze iniziali sono componenti negativi di reddito, quindi avrò una rimanenza iniziale i 1
euro (1 tazza) che costituisce un componente negativo (come se fosse un costo di 1 euro).
In quell’anno poi a maggio la vendo a 5, ho quindi un componente positivo di 5 euro, un componente
negativo di 1 euro, quindi avrò un reddito netto di 4 euro al 31.12.2020. (5 euro ricavo da vendita beni
merce meno 1 euro rimanenze finali). In questo caso non abbiamo rimanenze finali a 31.12.2020, quindi se
le rimanenze finali sono > di quelle iniziali abbiamo un componente positivo di reddito.
Nel 2020 abbiamo rimanenze finali (componente positivo) di 0.
E sempre nel 2020 abbiamo rimanenze iniziali (componente negativo) di 1.
Abbiamo invece un componente positivo di 5 euro che è il ricavo e quindi il mio reddito netto nel 2020 è
pari a 4. Nel 2019 quindi ho un reddito netto di 0, in quanto le rimanenze finali sono 1 e sono componente
positivo, le rimanenze iniziali del 2019 sono 0, però ho un costo di acquisto di 1 della tazza e quindi avrò nel
2019 reddito 0, nel 2020 reddito 4. COSA HO FATTO TRAMITE LE RIMANENZE: SPOSTARE UN COSTO
DALL’ANNO 2019 IN CUI NON HA CONCORSO A REALIZZARE RICAVI, ALL’ANNO 2020 IN CUI INVECE IL
BENE REALIZZA/CONCORRE A REALIZZARE UN RICAVO, UN COMPONENTE POSITIVO DI REDDITO.
 Quindi le rimanenze garantiscono in questo senso il principio di correlazione costi-ricavi.
Ci può essere un problema però di rivalutazione delle rimanenze: a seconda della rivalutazione che io faccio
delle rimanenze, ho un componente di positivo di reddito diverso. Nell’esempio fatto io ho acquistato 1
unica tazza per 1 euro, assumiamo che nel 1 anno io acquisto 1 tazza x 1 euro nel marzo 2019.
Acquisto una seconda tazza x 2 euro a giugno 2019. Quindi ho 2 tazze a giugno 2019. Quindi ho un costo di
3 euro in tutto. Le due tazze sono identiche. Una delle due però la rivendo a ottobre 2020 x 5 euro, l’altra
tazza ad ottobre 2019 x 5 euro. Proviamo a ragionare: ho 2 tazze x1x2euro, rimanenze iniziali del 2019 sono
0 perché non avevo nulla, poi acquisto 1 tazza a marzo e l’altra a giugno; la seconda (non so quale, sono
beni fungibili tra loro) la rivendo ad ottobre per 5 euro. Al 31 di dicembre nel magazzino ho quindi 1 tazza.
Qual è il valore che attribuirò alla mia rimanenza finale alla mia tazza? e quindi qual è il componente
positivo di reddito al 31.12.2019? (per farmi capire il reddito netto che ho?)
Ci sono 3 metodi
A) LAST IN, FIRST OUT = l’ultimo entrato, è il primo che è uscito. La mia rimanenza al 31 dicembre avrà
valori pare ad 1, perché l’ultima tazza che ho acquistato quindi quella a giugno è stata la prima che ho
venduto, e quella tazza è quella che ho acquistato a 3 euro, quindi il metodo last in first out mi dice che le
mie rimanenze finali sono pari a 1 euro. Applicando il metodo lifo, che mi permette di dare valore alle
rimanenze finali, nell’anno 2020 avrò una rimanenza iniziale di 1 euro (così come l’avevo il 31 dicembre una
rimanenza finale di 1 euro, ho sempre una rimanenza iniziale di 1 euro il 1 gennaio, quindi un componente
negativo di 1 euro) = quindi quale sarà il reddito netto nel 2020 e nel 2019?
Nel 2020 ho una rimanenza iniziale ossia un componente negativo di 1 euro, un ricavo di 5 euro, quindi il
mio risultato finale di reddito netto è di 4 euro.
Nel 2019 invece ho un costo di 1 euro, un costo di 2 euro (totale costi 3), avrò un ricavo di 5 euro, che mi
porta a 2 euro, e poi avrò un componente positivo di reddito, ossia le rimanenze finali di reddito di 1 euro.
Quindi avrò 3 euro di componente positivo di reddito.
B) FIRST IN, FIRST OUT = il primo che entra, il primo che esce. Manteniamo che acquistiamo la 1 tazza x1
euro a marzo nel 2019, la 2 tazza x2 euro a giugno, poi una delle due tazze la vendo ad ottobre 2019 per 5
euro, l’altra a maggio del 2020 per 5 euro. Applichiamo il fifo per applicare le rimanenze finali: la tazza che
ho venduto è la prima che ho acquistato, quindi le rimanenze finali le dovrò valutare con importo di 2 euro,
perché la prima tazza acquistata a 1 euro l’ho venduta ad ottobre quindi nel magazzino avrò la tazza che ho
acquistato per 2 euro. Al 1 gennaio avrò quindi rimanenza iniziale, ossia componente negativo di reddito, di
2 euro. E la tazza ancora in magazzino al 31.12.2019 la rivendo a maggio del 2020 per 5 euro.
Quindi il risultato nel 2020: ho un componente positivo, ricavo, di 5 euro; e un componente negativo, le
rimanenze, di 2 euro. Totale reddito netto assumendo che non faccio altre operazioni: 3 euro.
Il risultato nel 2019: ho un costo di acquisto di 1 tazza ossia 1 euro, di acquisto della 2 tazza ossia di 2 euro,
quindi avrò un costo di 3 euro di componente negativo di reddito. Poi ho un componente positivo di ricavo
derivante dalla vendita della tazza ad ottobre di 5 euro, quindi da -3 passo a +2, e poi aggiungo 2 euro di
componente positivo che sono le rimanenze finali valutate col metodo fifo.
C) MEDIA PONDERATA = la media ponderata vado a valutare le rimanenze come media.
Ad esempio qui avevo acquistato per 1 euro e per 2 euro le due tazze A e B, quindi la mia media è di 1,50
cent.

 LA REGOLA GENERALE DELLE RIMANENZE E’ QUELLA SECONDO CUI LE RIMANENZE FINALI SONO
COMPONENTI POSITIVI, LE RIMANENZE INIZIALI COMPONENTI NEGATIVI, E QUINDI VADO A
VEDERE IL DIFFERENZIALE TRA LE DUE E LA RATIO E’ GARANTIRE IL PRINCIPIO DI CORRELAZIONE
COSTI-RICAVI.

e. GLI INTERESSI ATTIVI  quelli di mora abbiamo già visto che si applica il principio di cassa; poi abbiamo i
proventi immobiliari cioè derivanti da cessione di immobili che hanno un regime diverso a seconda che io
abbia un immobile bene merce/bene strumentale/bene meramente patrimoniale.
I beni merce generano ricavi, quindi un’impresa che come oggetto sociale compra e vende immobili genera
ricavi. Se invece abbiamo un provento immobiliare che è un bene strumentale, questo bene genera reddito
d’impresa perché deduco quote di ammortamento.
Quando invece ho un bene meramente patrimoniale e genera un reddito derivante ad es dall’affitto
dell’ufficio che non mi serve, mi genera un reddito d’impresa che secondo il TUIR però si determina
secondo le regole del reddito fondiario.

VEDIAMO ORA QUALI SONO I COMPONENTI NEGATIVI DI REDDITO:


I principali componenti negativi di reddito sono:
a. I DIVIDENDI  quando non vengono distribuiti, non danno luogo ad alcuna deduzione. Perché i dividendi
sono una distribuzione di utile già tassato, è quindi la distribuzione del reddito netto il dividendo.
b. I COSTI PER GLI AMMINISTRATORI  deducibili però per principio di cassa
c. IL COSTO DEL LAVORO  alcuni fringe benefit attribuiti ai lavorator dipendenti sono deducibili nei limiti
in cui sono tassati per coloro che li ricevono. Altri sono soggetti a determinate limitazioni.
d. GLI INTERESSI PASSIVI  sono deducibili nei limiti degli interessi attivi. La quota parte di interessi passivi
che eccede gli interessi attivi è invece deducibile nel limite del 30% del cd. RISULTATO OPERATIVO LORDO,
che ha un indice di bilancio che identifica il risultato che deriva dalla gestione ordinaria della mia impresa.
La ratio di tale limitazione è evitare la sottocapitalizzazione delle imprese, perché le imprese hanno un
vantaggio ad essere finanziate con capitale di debito piuttosto che con capitale di rischio. La remunerazione
del capitale di reddito è per l’impresa deducibile dal reddito di impresa, mentre il dividendo non è
deducibile, quindi si vuole evitare che le società solo per ragioni fiscali siano sovra-indebitate
/sottocapitalizzate (cioè che abbiano poco capitale di rischio e tanto di debito)
Se vi è eccedenza del 30%, questa parte non è deducibile ma può essere riportata in avanti.
e. LE IMPOSTE  non è ovviamente deducibile l’imposta sul reddito. Però è deducibile l’imposta di registro
(non è deducibile l’IVA). Quando un tributo è deducibile, lo è secondo il principio di cassa.
f. LE SOPRAVVENIENZE PASSIVE
g. LE MINUSVALENZE  un po' il contrario delle plusvalenze ma con particolarità: mentre quando abbiamo
parlato di come si formano le plusvalenze, queste possono formarsi con quei 3 famosi eventi come per i
ricavi, la 3 ipotesi NON GENERA MAI MINUSVALENZE. Per evitare manovre elusive!! No da fuoriuscita dal
regime de beni di impresa.
h. LE PERDITE SU BENI E CREDITI
i. GLI AMMORTAMENTI  sui beni strumentali che deperiscono. Abbiamo già visto cosa sono gli
ammortamenti (deducibilità per quote). Quando acquisto un bene strumentale non va dedotto
interamente nell’anno in cui l’ho acquistato ma solo per quote di ammortamento per tener conto del
principio di correlazione costi-ricavi.
NB Vale anche qui la regola che valeva per i lavoratori autonomi: se un bene strumentale che ha un costo di
acquisto inferiore a 516 euro circa, può essere integralmente dedotto nell’anno di imposta anche se è un
bene strumentale che andrebbe dedotto per quote di ammortamento. Questo per semplicità.
i. SPESE DI RAPPRESENTANZA  che vanno distinte
- se sono di pubblicità è ammessa la deduzione integrale
- se sono di rappresentanza pura vi sono de limiti particolari
l. GLI ACCANTONAMENTI  in particolare gli accantonamenti a fondi rischi sono delle “spese future”
indicate nel bilancio, l’accantonamento misura una spesa che forse si verificherà il futuro.

PICCOLO QUADRO RIEPILOGATIVO


Soggetti passivi-imposte-categorie di reddito.
Abbiamo visto che i soggetti passivi IRPEF sono persone fisiche, soggetti passivi IRES le società di capitali,
enti commerciali, enti non commerciali, società ed enti non residenti.
Poi le società di persone sono soggetti fiscalmente trasparenti.
 questi sono i possibili soggetti che realizzano reddito.
Quindi abbiamo una serie di categorie che sono soggetti passivi di certe imposte (tranne di persone).
Quali redditi possono realizzare?
Le persone fisiche: i redditi che rientrano in tutte le categorie di reddito. Anche un imprenditore
individuale, persona fisica, può essere allo stesso tempo titolare di redditi fondiari e di capitale.
Le persone fisiche quindi possono realizzare tutti i redditi.
PERO vige il principio di attrazione del reddito di impresa: se la persona fisica è anche imprenditore, può si
realizzare altri redditi, ma tutti i redditi che afferiscono all’impresa e che sono correlati all’attività di
impresa, diventano reddito di impresa!
Può ben darsi però che la persona fisica tenga ben distinta l’attività di impresa da un’altra attività di
investimento personale e realizzare reddito di capitale che non c’entrano con l’impresa.
Poi abbiamo le società di capitale e gli enti commerciali che realizzano per definizione SOLO reddito di
impresa per definizione sono SOLO soggetti passivi IRES.
Poi abbiamo gli enti non commerciali che possono realizzare TUTTE le categorie di reddito tranne quella di
lavoro dipendente e autonomo, e sono soggetti passivi IRES.
Poi abbiamo le società e gli enti non residenti che possono realizzare tutte le categorie anche loro in realtà,
e sono soggetti passivi IRES.
Poi abbiamo le società di persone: abbiamo quelle semplici che realizzano redditi nelle varie categorie e
sono soggetti passivi di nessun tributo perché sono trasparenti (sono i soci che per trasparenza dovranno
dichiarare il reddito della società semplice), quelle di persone commerciali che realizzano solo reddito
d’impresa (per definizione esercitano attività commerciale e per principio di attrazione tutto il reddito è
reddito di impresa) e sono soggetti passivi di Nessun tributo perché sono fiscalmente trasparenti.
Se questi soci saranno società di capitali saranno soggetti passivi IRES, se sono persone fisiche IRPEF.
LEZIONE 13, L’IVA
L’IVA = L’IMPOSTA SUL VALORE AGGIUNTO.
Dopo aver parlato di IRPEF e di IRES, parliamo di un 3 tributo  l’IVA.
L’IVA è una imposta sul consumo, ossia colpisce (per lo meno economicamente) il consumo.
Si tratta di una imposta sul consumo. Nello studio strutturale del tributo, abbiamo distinto gli eventi che
generano il tributo (il presupposto), i soggetti passivi e la misura.
Anche per l’IVA compiamo questo esame.

A. IL PRESUPPOSTO
In relazione al presupposto, vi sono una serie di classificazioni. Anzitutto l’IVA è una IMPOSTA e non una
tassa. L’imposta quindi colpisce il fatto economico, quindi il presupposto è un fatto economico posto in
essere dal contribuente. Da un punto di vista economico, questo fatto economico posto in essere dal
contribuente, è il CONSUMO.
Distinguendo poi tra IMPOSTE DIRETTE ed IMPOSTE INDIRETTE  l’IVA e’ una imposta INDIRETTA, mentre
l’IRPEF e l’IRES sono imposte dirette. Questo perché l’IVA colpisce un indice indiretto di capacità
contributiva: il consumo è un indice indiretto di capacità contributiva (mentre il possesso del reddito è un
indice diretto di capacità contributiva!).
Ricordiamo anche come l’imposta possa essere PERSONALE quando tiene conto degli elementi soggettivi
della persona, e REALE se invece il presupposto non ne tiene conto  l’IVA è una imposta REALE.
(Salvo piccoli aspetti).
Sappiamo anche che abbiamo un tributo ISTANTANEO quando il presupposto è un singolo avvenimento,
mentre abbiamo un’imposta PERIODICA quando il presupposto è un fatto che si ripete nel tempo  l’IVA è
una imposta PERIODICA, anche se potrebbe sembrare istantanea considerando che il consumo si manifesta
in un certo istante: però per come è strutturata in realtà è un’imposta che i soggetti passivi devono
determinare la base imponibile per periodi di imposta.

L’ORIGINE DELL’IVA  L’imposta sul consumo è un imposta derivante dal diritto dell’UE. E’ disciplinata da
una direttiva, e quando vi sono controversie in materia di imposta sul valore aggiunto si legge la direttiva.
Essa è stata recepita in Italia col DPR n. 633/1972. Questo è tutt’ora il testo legislativo di riferimento con le
modifiche del caso per l’Iva. Parte del gettito, che deriva dall’imposta sul valore aggiunto, viene attribuito
all’UE per far fronte alle spese comuni dell’UE.
Prima di entrare nel vivo del meccanismo, dobbiamo fare una premessa di carattere economico.
Quali sono le principali imposte sul consumo? Sono 2 categorie e la seconda categoria divisa in 2 ulteriori
sottocategoria. L’imposta sul consumo si divide in (e abbiamo una sorta di tripartizione)
1) IMPOSTA SUL CONSUMO MONOFASE  L’imposta sul consumo è monofase quando colpisce soltanto
l’ultimo passaggio, un’unica fase dei passaggi del bene, che è quella fase di passaggio del bene al
consumatore finale. Quindi monofase è un’unica fase, cioè l’ultima fase. E’ l’imposta applicata negli stati
appartenenti agli Stati uniti (E’ una imposta sul consumo statale e non federale, viene applicata sul
consumo finale, la cui aliquota varia a seconda dello stato in cui ci troviamo. Se sono a New York o in
California ci saranno aliquote diverse).
2) IMPOSTA SUL CONSUMO PLURIFASE  L’imposta sul consumo è plurifase quando colpisce tutte la fasi di
passaggio del bene, non solo la fase in cui il bene passa al consumatore finale, ma anche in quelle
intermedie! (produttore, distributore, estrazione materia prima ecc). Ogni fase viene colpita.
L’imposta sul consumo plurifase è distinta in:
b. Imposta sul consumo plurifase A CASCATA/CUMULATIVA: colpisce ogni singola fase come se fosse la
vendita ad un consumatore finale, quindi è cumulativa perché l’imposta su ogni singolo passaggio si
cumula. Quindi maggiori sono i passaggi, allora più alto sarà il carico fiscale della mia
commercializzazione/vendita del bene.
b. Imposta sul consumo plurifase SUL VALORE AGGIUNTO: si colpisce si ogni singola fase, però solamente
per quanto riguarda il valore aggiunto che si produce ad ogni fase.
Quindi se nel primo passaggio ad esempio di produzione, assumiamo che abbiamo un soggetto produttore
che cede un bene per 100 al distributore, questo lo cede per 120 ad un altro distributore, nel secondo
passaggio avremo solo un’imposta sul 20, perché 20 è il valore aggiunto. Si colpisce ogni passaggio ma solo
il valore aggiunto, con un meccanismo però di detrazione e rivalsa per cui alla fine l’imposta graverà
interamente sul consumatore finale (ma lo vedremo successivamente).

ESEMPIO CONCRETO.
Abbiamo 3 soggetti: produttore A che produce tazze, che vende a distributore B, il quale poi vende le tazze
al consumatore finale C. (ovviamente potremmo avere tanti altri soggetti ma semplifichiamo).
Nella cessione delle tazze produttore-distributore abbiamo un prezzo di 100;
nella vendita distributore-consumatore finale abbiamo un prezzo di 150.
Assumiamo una imposta del 10%.
A. Applichiamo l’imposta sul consumo monofase: in tal caso abbiamo un primo passaggio che non è
soggetto ad imposta, mentre il passaggio successivo/finale è soggetto ad imposta: quindi 150 sarà soggetto
ad imposta, sarà la base imponibile su cui determinare la mia imposta (che qui assumiamo del 10%, ma in
realtà vedremo quali sono le aliquote). Quindi 10% di 150 = 15 sarà la mia imposta.
Quindi se acquisto una tazza negli USA sarà il negozio al distributore che incassa da noi l’imposta e la versa
all’erario (non dobbiamo tornare in Italia a dichiararlo). Quindi il distributore applica una RIVALSA al
consumatore finale, tanto che il prezzo indicato è 150 a cui va aggiunto un 15 quando arriviamo in cassa,
che poi il distributore verserà all’erario.
B. Applichiamo la plurifase a cascata: colpisce ogni passaggio. Quindi nel primo passaggio il prezzo era 100,
se assumiamo sempre l’imposta di 10% allora avremo 10 euro di imposta per la vendita da produttore-
distributore. A si rivale su B che non dovrà pagare 100, bensì 100+10 euro di imposta.
Abbiamo però la seconda fase, colpita anche qui da 10%, quindi B cede a C per un prezzo di 150, quindi
avremo 15 come imposta sul consumo al consumatore finale. Quindi l’erario non incamera solamente 15
come nel consumo monofase, bensì INCAMERA 10 + 15 = 25 IN TUTTO.
Da un punto di vista economico qui vi è una distorsione ovviamente perché MENO PASSAGGI HO,
MINORE E’ IL CARICO TRIBUTARIO  ciò potrebbe comportare dei cambiamenti di comportamento
economico razionale da parte degli operatori commerciali e quindi una inefficienza
(I tributi però sappiamo essere efficienti quando sono NEUTRALI, quando NON INFLUENZANO il
comportamento. Lo scopo del diritto tributario è influenzare il meno possibile i comportamenti razionali,
salvo per quei tributi che vogliono invece incentivare un comportamento).
Quindi quest’imposta fa si che gli operatori si uniscano gli uni con gli altri per avere una società che faccia
tutti i passaggi in un unico modo, ma questo non va bene. Quindi l’UE ha optato di utilizzare anche
C. Una imposta plurifase sul valore aggiunto: abbiamo il produttore A che vende per 100 a B, a cui
applichiamo l’imposta sul consumo di 10% che assumiamo, abbiamo quindi A che si rivale nei confronti di B
per un importo pari a 10. A quindi verserà all’erario 10.
B allora applicherà l’imposta sul consumatore finale C, abbiamo isto il 10% di 150 che è 15, ma tale imposta
di 15 non sarà interamente versata, perché
- sì, applica il meccanismo di rivalsa e ottiene 15 dal consumatore finale C
- ma non verserà 15 all’erario! HA DIRITTO A UNA DETRAZIONE SULL’IVA VERSATA SUGLI ACQUISTI.
E questa detrazione andrà a compensare parte del tributo che deve versare.
Anziché versare 15 verserà 15 che è la cd. L’IVA “A DEBITO”, che ha ottenuto in via di rivalsa dal
consumatore finale, -10 che è l’IVA “A CREDITO” che è stata versata/che attribuisce ad A un diritto di
detrazione per aver versato al proprio fornitore l’IVA di 10.
 NEL COMPLESSO VERSERA’ 5 ALL’ERARIO. 10 LI VERSA AD A, 5 LI VERSA A B, NEL COMPLESSO L’ERARIO
INCAMERA 15  Esattamente come nella monofase.

Perché si dice “sul valore aggiunto”? Perchè 5 corrisponde al 10% di 50, e di 50 è proprio il valore aggiunto
dato dalla differenza tra prezzo di vendita 150 – prezzo di acquisto 100, quindi è come se io avessi applicato
l’imposta del 10% sul valore aggiunto soltanto sul 50, soltanto sul valore aggiunto.
Il risultato è colpire solo il valore aggiunto.

 IL PERNO ALLORA DELL’IVA SI BASA SU QUESTO MECCANISMO CHIAMATO “DI DETRAZIONE E


RIVALSA”. La RIVALSA è un diritto ma anche un obbligo che viene esercitato nei confronti del
cliente, di colui che acquista i miei beni.
La DETRAZIONE è invece il diritto che ho per aver versato al mio fornitore l’IVA richiesta.

B. I SOGGETTI PASSIVI
Il soggetto passivo non è il consumatore finale (che invece è colui che è gravato dall’imposta in ragione del
meccanismo detrazione-rivalsa), bensì sono:
a. GLI IMPRENDITORI COMMERCIALI
b. LE IMPRESE AGRICOLE
c. I LAVORATORI AUTONOMI
Mentre il consumatore finale NON è soggetto passivo IVA. Se acquisto un bene usato da un consumatore
non si applicherà l’IVA perché quel consumatore è già stato gravato dall’IVA quando ha acquistato il bene
nuovo. Se acquistiamo un bene da un imprenditore o un servizio da una impresa agricola o un servizio da
un lavoratore autonomo, si applica l’IVA, mentre non si applica se acquistiamo da un consumatore finale
(che può vendere solo beni “usati” che hanno già scontato l’imposta sul consumo)
(Quindi nell’esempio visto, abbiamo A e B come soggetti passivi, mentre C consumatore finale no).
Quali sono le operazioni colpite/il fatto generatore dall’IVA? Sono sostanzialmente 2:
1) LE CESSIONI DEI BENI + costituzioni di diritti reali
2) LE PRESTAZIONI DI SERVIZI
Queste 2 operazioni sono contenute all’art. 2 e 3 del DPR/633.
1.L’art. 2, co1, ci da la definizione di cessione di beni: “Costituiscono cessioni di beni gli atti a titolo oneroso
che importano trasferimento della proprietà ovvero costituzione o trasferimento di diritti reali di godimento
su beni di ogni genere”. Quindi cessione di beni sono questi.
Poi abbiamo nel co.2 delle ipotesi assimilate: sono ad esempio le vendite con riserva di proprietà (rent to
buy), le locazioni con clausola di trasferimento della proprietà vincolante per ambedue le parti, la cessione
di beni merce di tipo gratuito, l’autoconsumo. Quindi abbiamo una serie di ipotesi
Nel co.3 abbiamo delle ipotesi escluse: ipotesi non considerate cessione di beni, e vi è un elenco.
Ad esempio le cessioni di azienda, le operazioni straordinarie (fusione, scissione), cessione di terrei non
edificabili, sono ipotesi escluse da operazioni colpite da IVA.

2. Altra categoria di operazioni rilevanti ai fini dell’IVA sono le prestazioni di servizi,


disciplinate all’art. 3 del DPR/’72: cosa sono le prestazioni di servizi? Abbiamo un articolo strutturato in 3
diverse disposizioni
Co1: abbiamo la definizione generale. Sono prestazioni di servizi le prestazioni verso corrispettivo (emerge
l’onerosità), dipendenti da contratti d’opera, appalto, trasporto, mediazione, deposito.. qualsiasi
OBBLIGAZIONE DI FARE, NON FARE O DI PERMETTERE, quale che sia la fonte.
Co2: ipotesi assimilate: costituiscono inoltre prestazioni di servizio una serie di ipotesi, come la cessione dei
beni immateriali, somministrazioni di beni e bevande..
Co3: ipotesi escluse: cessione di diritto d’autore, contratti con oggetto terreni non edificabili..

 Se l’operazione è esclusa, sono operazioni che non rientrano nel campo di applicazione dell’IVA, quindi
non occorrerà emettere fattura, non occorreranno vari adempimenti, nelle operazioni escluse NON
ABBIAMO ADEMPIMENTI. Però NON INCIDONO SULLA DETRAZIONE A MONTE.

E’ importante distinguere le OPERAZIONI ESCLUSE dalle OPERAZIONI ESENTI.


Quelle esenti sono elencate dall’art. 10 del DPR/633, che prevede un elenco di operazioni da qualificarsi
come esenti  sono operazioni che sono “ad aliquota 0” , ossia che danno origine ad un debito di imposta
pari a 0. Cosa vuol dire: CHE TUTTI GLI ADEMPIMENTI RELATIVI FORMALI NON VENGONO MENO (es andrà
emessa la fattura, con aliquota 0).
A differenza di quelle escluse però, LIMITANO IL DIRITTO DI DETRAZIONE A MONTE.
ESEMPIO  Tra le operazioni esenti vi è il trasporto di feriti, effettuato da determinate associazioni
abilitate; è chiaro che se ho una operazione di esenzione dei tributi, a monte non è ammessa la detrazione.
Cosa vuol dire questo?
Pensiamo a questa associazione di trasporto di feriti che acquista l’ambulanza. Il costo dell’ambulanza sarà
dato da UN PREZZO+IVA che verserà al venditore dell’ambulanza. Ecco questa IVA in una operazione
ordinaria sarebbe detraibile, ma ora non è detraibile perché a valle viene eseguita l’operazione di trasporto
di feriti che è esente  quindi a monte tutti quei costi posti in essere per acquistare beni che servono per
realizzare operazioni esenti, non danno luogo a detrazione di IVA.
NB. Quando parliamo di IVA parliamo di DETRAZIONE non di DEDUZIONE.
Quando parliamo di detrazione è una riduzione dell’imposta, non una riduzione della base imponibile.
E QUALI SONO ALCUNE OPERAZIONI ESENTI TIPICHE?
Trasporto di feriti, operazioni di carattere finanziario, di riscossione di tributi, una serie di ipotesi elencate
all’art. 10.

E’ FONDAMENTALE CAPIRE CHE LE OPERAZIONI ESCLUSE


1. NON DANNO LUOGO AD ADEMPIMENTI FORMALI,
2. E TANTO MENO LIMITANO LA DETRAIBILITA A MONTE.
Invece le OPERAZIONI ESENTI
1. Danno luogo ad adempimenti formali, sono operazioni ad aliquota 0
2. Limitano per di più le detrazioni sulle operazioni a monte.

QUAL E’ POI IL MOMENTO IN POSITIVO DELL’IVA, QUANDO L’IVA E’ ESIGIBILE


(In tema di Reddito abbiamo parlato d IMPUTAZIONE A PERIODO,
quando parliamo di IVA si parla di ESIGIBILITA’ DELL’IVA)
 Anche qui, per capire quando l’IVA è esigibile, occorre distinguere
1) Beni mobili: conta la consegna, come anche per il principio di competenza nel reddito d’impresa
2) Beni immobili: conta il rogito, l’atto di compravendita dell’immobile
3) Prestazione di Servizi: conta il pagamento.
Queste regole sono DEROGATE dal fatto che, SE EMESSA LA FATTURA o è pagato il corrispettivo prima, l’IVA
DIVENTA ESIGIBILE.
Esempio: prendiamo il bene immobile. Qui conta il rogito. Se però viene prima del rogito pagato il
corrispettivo, ad esempio un acconto sul prezzo, quella parte di IVA sul prezzo pagato diventa esigibile.
Quindi quando si paga l’acconto per acquistare l’immobile, si verserà l’acconto + IVA.
Per i servizi cosa succede, pensiamo gli avvocati che emettono la fattura. Se l’emissione della fattura o il
pagamento precede il momento in positivo, l’IVA diventa esigibile. Ma qui nella prestazione di servizi che
esegue l’avvocato (soggetto passiva) se questo emette al fattura, nei confronti del cliente, che chiede es
10.000 + IVA del 22%, dovrà poi versare l’IVA all’erario anche se il cliente NON PAGA la fattura, l’importo
indicato dalla fattura (dato dal compenso professionale + iva)  quindi in questi casi si può suggerire a un
professionista DI EMETTERE PRIMA DEL PAGAMENTO una nota pro forma, non rilevante ai fini dell’IVA, per
richiedere denaro, e quando riceve il pagamento effettuerà la fattura.
Vediamo come la regola del momento in positivo può essere derogata. SE PRIMA DI QUEI 3 MOMENTI, VI E’
EMISSIONE DELLA FATTURA O PAGAMENTO DEL CORRISPETTIVO, ALLORA L’ESIGIBILITA’ DELL’IVA AVVIENE
PRIMA.
Esempio tazza: contribuente A che vende tazza a B che la vende a C consumatore finale.
Il momento esigibile in queste operazioni è la consegna della tazza, ma se prima di questa avviene o il
pagamento o emissione fattura, allora l’IVA è esigibile in quel momento e colui che sta effettuando la
rivalsa deve comunque versare l’IVA. Se A emette fattura prima della consegna della tazza, verserà
all’erario l’IVA di 10. Stessa cosa per quanto riguarda B verso C, se prima di consegnare la tazza emette
fattura, dovrà versare il tributo all’erario.

C. LA MISURA DELL’IVA
LA BASE IMPONIBILE DELL’IVA E’ IL CORRISPETTIVO PATTUITO; se non vi è un corrispettivo o se questo è in
natura, conta invece il valore normale. Se vi è autoconsumo, l’IVA si misura sul valore normale del bene che
sto dando ai soci per l’autoconsumo.
Una volta determinata la base imponibile, APPLICO LE ALIQUOTE.
Vi sono più aliquote IVA, alcune sono ordinarie per cui si applica del 22%, e poi in relazione al tipo di bene vi
sono altre aliquote ridotte.
Come si fanno a sapere quali sono le aliquote? Allegato al DPR/633, vi sono delle TABELLE.
Nella tabella A sono indicate tutte le aliquote IVA applicabili alle tipologie di beni.
Ci saranno aliquote ridotte per beni e servizi di prima necessità, poi dei beni non di prima necessità ma che
si vogliono agevolare che avranno aliquota ridotta ma non così tanto come il latte che si acquista al
supermercato ecc.

 RIVEDIAMO IL MECCANISMO DI DETRAZIONE E RIVALSA


SULLE OPERAZIONI A VALLE: Abbiamo visto che la rivalsa si effettua sulle operazioni a valle, sulle vendite di
beni o prestazioni di servizi effettuate dall’imprenditore che si RIVALE verso l’acquirente, del bene o della
prestazione di servizio. La rivalsa è un diritto si, ma anche un OBBLIGO, non vi può essere accollo di
imposta: le parti non possono mettersi d’accordo di non richiedere l’IVA. Quindi se acquisto un
elettrodomestico non può il venditore dirmi che non applica l’IVA, potrà magari fare uno sconto dal punto
di vista economico, ma dal punto di vista giuridico la rivalsa è OBBLIGATORIA, non può venire meno.
Questa IVA che diventa IVA A DEBITO, io ottengo dall’acquirente non solo il prezzo del bene che ho ceduto
+ IVA, questa diventa una IVA DEBITO che l’imprenditore deve versare all’erario.
Però SUGLI ACQUISTI il soggetto passivo ha versato a sua volta l’IVA al proprio fornitore, e QUESTA IVA CHE
HA VERSATO AL RIFORNITORE, che per questo è IVA a debito, PER LUI INVECE E’ UNA IVA A CREDITO che da
luogo a una detrazione. Io imprenditore acquisto una tazza per 100+IVA 10% che mettiamo come aliquota
per semplicità, quel 10 diventerà una DETRAZIONE, non sarà un costo deducibile.
10 diventa IVA DETRAIBILE, DA COSA? DALL’IVA STESSA. L’iva detraibile viene detratta dall’IVA A DEBITO.
E L’IVA DEBITO NASCE COL MECCANISMO DI RIVALSA  quando soggetto B cede la tazza a consumatore C,
il consumatore finale verserà 150+15 di IVA che è IVA A DEBITO, ottenuto in via di rivalsa, e verserà
all’erario un importo pari a IVA A DEBITO MENO IVA A CREDITO, pari all’importo quindi che ho ottenuto in
rivalsa con la detrazione dell’IVA detraibile (15-10=5).
Però abbiamo visto che la detrazione è LIMITATA se l’acquisto è collegato ad una vendita o prestazione di
servizi che è ESENTE.
Assumiamo allora che la vendita delle tazze sia per qualche ragione una operazione ESENTE DA IVA.
L’imprenditore B che acquista da A la tazza con l’Iva a credito di 10, non avrà più diritto a detrarre quel 10
di IVA. Quindi B che ha venduto la tazza a C per 150+IVA a 0%, ha acquistato il bene per 100+IVA (stavolta
l’iva la applico), quell’IVA sull’acquisto NON è detraibile.
(Chiaramente per le tazze non esiste esenzione).
SE riesco a collegare l’acquisto con la vendita esente, ovviamente posso collegare in maniera precisa la non
detrazione a monte con l’operazione esente a valle. Questo però non è sempre possibile.
PRO RATA: si utilizza quando l’imprenditore non riesce a collegare gli acquisti, quindi l’IVA detraibile, alle
singole operazioni esenti. E’ la percentuale di indetraibilità. E’ il rapporto tra le operazioni esenti e il totale
delle operazioni attive  mi indicherà la quota parte dell’iva detraibile a monte che non può essere
detratta.
Ultimo cenno sulla detrazione  al fine che si abbia IVA detraibile è necessario che il bene/servizio che ho
acquistato, mi genera un IVA a credito detraibile, deve essere INERENTE ALL’ATTIVITA’ DI IMPRESA.
Non deve trattarsi di una operazione non inerente.

PRINCIPALI ADEMPIMENTI FORMALI IN TEMA DI IVA


1. Quando si inizia una attività di impresa o di lavoro autonomo, bisogna dichiarare all’Agenzia delle entrate
l’inizio dell’attività. A quel punto mi verrà attribuita una Partita IVA che non è altro che un numero che
determina la mia posizione ai fini dell’IVA.
2. Si cominciano a porre in essere operazioni attive: si iniziano a vendere beni, si iniziano a prestare servizi
se siamo liberi professionisti, e in tal caso l’adempimento sarà l’EMISSIONE DELLA FATTURA (=Un
documento rilevante ai fini dell’IVA) per appunto i soggetti passivi dell’IVA.
Ovviamente ci sono delle deroghe per il commercio al minuto. Però i soggetti passivi dell’IVA come regola
generale emettono la fattura quando pongono in essere una operazione imponibile, quando vendono beni
o prestano servizio.
Cosa va indicato nella fattura, quel documento che rende dovuta l’IVA/rende esigibile l’IVA, anche se
precede il pagamento o la consegna del bene mobile? Ecco la fattura contiene
- SOGGETTI CON LA P. IVA, cioè il cedente e il fornitore
- OGGETTO DELLA PRESTAZIONE (sta cedendo una tazza)
- LA BASE IMPONIBILE
- ALIQUOTA
- IMPOSTA.
Esiste anche l’ipotesi in cui un venditore NON EMETTE FATTURA  in tal caso sussiste la cd.
AUTOFATTURA, che è la fattura che ci si auto-emette quando il cedente per ragioni varie non la emette.
3. Registri IVA: ci sono una serie di registri, REGISTRO IVA ACQUISTI e REGISTRO IVA SULLE VENDITE.
Ecco, Se la fattura contiene qualche errore, ci può essere una nota di variazione (=una nota che corregge
l’IVA. Ad esempio si aumenta l’imponibile IVA o ci può essere una risoluzione del contratto). Ci possono
essere ragioni civilistiche per cui devo modificare la fattura e la fattura la modifico attraverso la nota di
variazione che si effettua entro l’anno per modificare anche l’IVA, se si effettua l’anno dopo si modifica solo
l’imponibile.
4. Liquidazione dell’IVA: può essere MENSILE (entro il 16 del mese successivo, l’IVA di gennaio deve essere
versata entro il 16 febbraio) o TRIMESTRALE. Vi è un ACCONTO: che si versa a dicembre. Vi è un SALDO: che
si versa a marzo.
5. Il rimborso dell’IVA, quando sono A CREDITO, è ammesso solo in casi particolari. Nel caso di cessione
delle attività, nel caso in cui la società sia a credito per 3 anni, ci sono una serie di ipotesi specifiche ed
eccezionali in cui l’IVA è rimborsata.
Mentre come regola ordinaria l’IVA A CREDITO è riportata in avanti.
Se non può essere detratta con IVA DEBITO, l’iva è riportata in avanti.
6. La dichiarazione annuale da parte dei soggetti passivi

+PRESUNZIONE LEGALE RELATIVA CHE SUSSISTE IN MATERIA DI IVA


Si presumono CEDUTI i beni acquistati da n imprenditore ma che non sono rinvenuti nel magazzino, salva
prova contraria. Quindi se viene effettuata una verifica in un magazzino e si vede che questa acquista una
serie di beni ma che non sono stati venduti e non si trovano in magazzino, si presume che siano stati
venduti. Dovrà essere quindi il contribuente a fornire la prova contraria a dimostrare perché i beni non si
trovano li. Altrimenti, i beni acquistati, si presumono ceduti. Salvo appunto prova contraria.
LEZIONE 14, L’IMPOSTA DI REGISTRO
Parliamo ora di un quarto tributo, il TRIBUTO DI REGISTRO: disciplinato dal DPR n. 131/1986, noto anche
come “Testo unico del registro”.
E’ un tributo che COLPISCE GLI AFFARI  è chiamata IMPOSTA/IMPOSIZIONE SUGLI AFFARI, ed è di natura
INDIRETTA. Il tributo di registro, a differenza delle altre imposte viste (IRPEF, IRES, IVA) è bene chiamarlo
TRIBUTO in quanto può assumere natura di
1.TASSA o di 2. IMPOSTA, a seconda del presupposto.
Dunque parla di imposizione sugli affari, ma il presupposto può essere duplice.
1) E’ TASSA QANDO IL PRESUPPOSTO E’ IL SERVIZIO DI REGISTRAZIONE DELL’ATTO.
E ciò avviene quando il tributo è dovuto in misura fissa: quindi quando il tributo di registro è dovuto in
misura fissa, pari ad euro 200, che quindi non ha collegamento col contenuto dell’atto registrato, allora il
presupposto del tributo è il servizio pubblico reso dall’amministrazione pubblica di registrazione di un atto.
La registrazione è un servizio che ha notevole importanza, perché attribuisce data certa ad un documento e
ne assicura la conservazione.
2) E’ IMPOSTA/ASSUME NATURA DI IMPOSTA QUANDO E’ DOVUTO IN MSURA PROPORZIONALE.
In tali ipotesi il presupposto non è tanto più la registrazione dell’atto (che comunque avviene) quanto la
formazione e la stipulazione di un atto a contenuto economico, quale è il contratto o una sentenza.
In tale ipotesi quindi si colpisce il TRASFERIMENTO  il presupposto è un atto a contenuto economico.
Quindi è la formazione dell’atto che prevale rispetto al servizio reso di registrazione.
QUINDI  o si applica la tassa (in genere) o si applica l’imposta.

NB Anche quando si registra un atto con contenuto economico e si applica l’imposta di registro (in misura
proporzionale), viene reso il servizio di registrazione dell’atto da parte della amministrazione pubblica 
quindi in realtà si integrano entrambi i presupposti, solo che prevale, in ragione della misura del tributo che
appunto è proporzionale in relazione al valore dell’atto, prevale il 2 presupposto rispetto al 1 (cioè prevale
la formazione dell’atto a contenuto economico come presupposto, come indice anche di capacità
contributiva rispetto al servizio di registrazione dell’atto.)
Quando invece il tributo di registro è dovuto in misura fissa e si parla di tassa di registro, allora
evidentemente prevale il presupposto del servizio reso di registrazione .
Ricordiamoci in generale che
-la tassa ha come presupposto un servizio pubblico reso dalla PA nei confronti del contribuente o un atto
emesso dalla PA, mentre
-l’imposta ha come presupposto un fatto economico posto in essere dal contribuente.
 la formazione di un atto a contenuto economico è un fatto economico posto in essere dal contribuente,
mentre la registrazione di un atto effettuato dalla pubblica amministrazione è un servizio pubblico reso
dalla PA nei confronti del contribuente, quindi il tributo assume una duplice natura in relazione al
presupposto. E PREVALE il presupposto che fa emergere una tassa (legato al servizio della registrazione)
quando il tributo di registro è dovuto in misura fissa, lo diciamo ancora; mentre quando il tributo è dovuto
in misura proporzionale in relazione al valore economico di un atto, PREVALE il presupposto della
formazione di un atto a contenuto economico e diventa imposta.

Se ricordiamo il presupposto dell’IVA (prestazione di servizi o cessione di ben, art 2-3 DPR 1972), vi può
essere una sovrapposizione tra presupposti:
ad esempio l’atto di compravendita immobiliare è un atto che deve essere registrato in termine fisso. E’ un
atto che è presupposto dell’imposta di registro, in misura proporzionale. Tuttavia la compravendita
immobiliare è anche presupposto dell’IVA quando colui che cede l’immobile è un soggetto passivo
(costruttore di immobili ad esempio che costruisce palazzo e vende gli appartamenti nel palazzo, è soggetto
passivo IVA). Quindi LO STESSO FATTO (compravendita immobiliare da imprenditore-consumatore finale, e
la formazione dell’atto che deve essere registrato a contenuto economico) GENERA 2 TRIBUTI DIVERSI.
Il legislatore ovviamente si accorge di questa sovrapposizione e la risolve nel senso che laddove il
presupposto genererebbe entrambi i tributi (IVA E IMPOSTA di registro), si applica l’IVA, cioè l’imposta sul
valore aggiunto > prevale sull’ imposta di registro.
TUTTAVIA all’IVA si aggiunge la TASSA FISSA DI REGISTRO = questo perché resta il presupposto della
registrazione dell’atto da parte della PA.
Quindi nell’ipotesi in cui lo stesso fatto generi Imposta di registro e Iva, prevale questa, ma si applica la
tassa di registro. Infatti l’atto di compravendita immobiliare, se acquistiamo da un privato, versiamo
l’imposta di registro; se invece l’atto/l’immobile è acquistato da un imprenditore, si applicherà l’IVA ma il
notaio chiede anche la tassa fissa di registro perché c’è comunque la registrazione.
+ L’IVA è un tributo armonizzato.

TIPO DI ATTI CHE DEVONO ESSERE REGISTRATI


Abbiamo 3 tipologie di registrazione degli atti:
1. Vi sono atti che devono essere registrati in termini fissi: ossia vi è un obbligo di registrazione, di norma
in un termine di 20 giorni, bisogna vedere di volta in volta. C’è un obbligo di registrazione per alcuni atti.
 obbligo di registrazione
2. Vi sono atti poi che devono essere registrati solo se vengono utilizzati in un procedimento
amministrativo: in tal caso abbiamo un ONERE di registrazione, perché deve essere effettuata solo laddove
l’atto si intende utilizzarlo in un procedimento amministrativo(non invece per uso giudiziario, oggi la
produzione in giudizio di un documento non comporta il sorgere dell’onere di registrazione).
 onere di registrazione
3. Vi sono poi atti che possono essere registrati dal contribuente su base volontaria: lui decide su base
volontaria di registrare. Perché ha convenienza a farlo? Perché essa attribuisce data certa all’atto e anche
aiuta nella conservazione giuridica di questo atto. Nella certezza del rapporto giuridico la registrazione può
dare un contributo.

L’OBBLIGAZIONE TRIBUTARIA CHE DERIVA DALLA REGISTRAZIONE è diversa dall’ONERE/OBBLIGO DI


REGISTRAZIONE: La registrazione è preceduta dalla auto-liquidazione del tributo: quindi una cosa è la
registrazione dell’atto, un’altra è l’obbligazione tributaria. Inoltre dove vi è obbligo di registrazione, se l’atto
non viene registrato, non è che non è dovuto il tributo di registro, anzi è dovuto comunque, perché il
contribuente ha posto in essere una duplice violazione: non ha liquidato il tributo di registro e non ha
registrato l’atto quando vi era obbligo di registrazione.
COME SI FA A SAPERE SE UN ATTO A CONTENUTO ECONOMICO SI DEVE REGISTRARE IN TERMINI FISSI O VI
E’ SOLO UN ONERE DI REGISTRAZIONE PER USO AMMINISTRATIVO, O SE E’ SU BASE VOLONTARIA?
Al DPR 131, vi è una tariffa (parte 1 e parte 2) e una tabella allegate. In questa tariffa parte 1, sono indicati
tutti gli atti che devono essere registrati in termini fissi; nella tariffa parte 2 vi sono gli atti che devono
essere registrati in caso d’uso; nella tabella ci sono gli atti che non devono essere registrati se non su base
volontaria. IN CALCE AL TESTO UNICO DEL REGISTRO ABBIAMO QUINDI LE INDICAZIONI SUGLI ATTI DA
REGISTRARE.

ESEMPI DEI VARI ATTI


- Deve essere registrato in termine fisso:
L’atto di compravendita immobiliare: però soggetto all’imposta di registro, salvo con tutte le agevolazioni
come se è la prima casa ecc. E’ soggetta all’imposta di registro in misura proporzionale.
Gli atti societari: soggetti alla tassa fissa di registro. Così come anche l’atto di compravendita immobiliare
QUANDO E’ DOVUTA L’IVA  vediamo come una cosa è l’obbligo di registrazione (che vi è sempre),
un’altra è l’obbligazione tributaria che può avere una misura diversa e assumere il tributo natura diversa di
tassa o imposta.
Alcuni contratti verbali: come locazione o affitto di beni immobili, o affitto di aziende, devono essere
registrati in termini fissi.
- Vanno registrati in caso d’uso:
I contratti formati per corrispondenza: nei contratti formati per corrispondenza non si firma lo stesso atto,
ma vi è una proposta e poi una accettazione della proposta, come se vi fossero 2 atti distinti, quindi in
questi contratti si può evitare l’obbligo di registrazione, che vi è solo in caso di uso. Quindi non vi è nessun
tributo di registro se quell’atto formato per corrispondenza non viene utilizzato.

Altra norma fondamentale nel Testo unico del registro è l’art. 22: al primo comma, ci dice che SE IN UN
ATTO SONO ENUNCIATE DELLE DISPOSIZIONI CONTENUTE IN UN ALTRO ATTO (posto in essere dalle
stesse parti intervenute) SI APPLICA L’IMPOSTA ANCHE ALLE DISPOSIZIONI ENUNCIATE  questa è la
TASSAZIONE PER ENUNCIAZIONE: un atto che viene enunciato in un altro atto.
Pensiamo alla sentenza dichiarativa di fallimento di una società di fatto, che non ha mai visto l’atto
costitutivo registrato. In questo caso l’enunciazione nella sentenza dichiarativa di fallimento della società di
fatto, comporta che si tassi sia la sentenza di fallimento sia l’atto enunciato (atto costitutivo della società di
fatto).

 La registrazione va fatta all’Agenzia delle entrate, che:


- attesta l’esistenza dell’atto e garantisce la conservazione
- attribuisce data certa all’atto.
 CERTEZZA MAGGIORE.
 Se vi è un obbligo di registrazione ma questa non viene effettuata, allora la registrazione avviene
d’UFFICIO dall’agenzia delle entrate.

Abbiamo visto il presupposto, abbiamo visto la differenza con l’obbligazione tributaria da cui va tenuta
distinta seppur letti congiuntamente, abbiamo accennato alla misura (nella tassa di registro il tributo è
dovuto in misura fissa e nella imposta di registro il tributo è dovuto in misura proporzionale, cioè si applica
una determinata aliquota ad una base imponibile. Come si determina l’aliquota? Ce lo dice la tariffa
allegata al testo unico di registro. La base imponibile è determinata dal valore economico dell’atto che si sta
registrando. Adesso vediamo i

SOGGETTI PASSIVI DELL’IMPOSTA DI REGISTRO


Chi è che deve chiedere la registrazione dell’atto, e chi sono i soggetti tenuti all’obbligazione tributaria?
Abbiamo 3 categorie di soggetti che occorre distinguere.
1. LE PARTI CHE REDIGONO NON UNA SCRITTURA PRIVATA (un atto a contenuto economico di contenuto
patrimoniale) AUTENTICATA, CHE DEVE ESSERE REGISTRATO SECONDO LA TABELLA.
2. Abbiamo I NOTAI, che devono registrare l’atto, sono responsabili di imposta se l’atto invece viene
autenticato.
3. I SOGGETTI OBBLIGATI AL SOLO VERSAMENTO, non alla registrazione, come ad esempio le parti che
stipulano un atto che viene autenticato dal notaio.
 PARTI SENZA NOTAIO: pongono in essere atto che non deve essere autenticato, che devono registrare
l’atto e auto-liquidare il tributo di registro
 IL NOTAIO: che quando si redige un atto è sia debitore di imposta che obbligato alla registrazione
 LE PARTI: che possono essere, quando l’atto viene registrato dal notaio, obbligate al versamento del
tributo ma non obbligate alla registrazione perché è il notaio che lo fa, salvo casi particolari
 E POI 4. ABBIAMO DEI SOGGETTI CHE DEVONO REGISTRARE L’ATTO MA NON SONO TENUTI
ALL’OBBLIGAZIONE TRIBUTARIA, cioè la GUARDIA DI FINANZA e AMMINISTRAZIONE FINANZIARIA che
chiedono la registrazione di atti che non sono stati registrati in precedenza (es cancelleria tribunale).
Quando parliamo di soggetti passivi allora dobbiamo tenere conto di quei 2 obblighi distinti
- Obbligo di registrazione
- Obbligo di versamento del tributo, che a volte coincidono.
(risenti)
L’imposta di registro, il tributo di registro meglio, è un tributo che colpisce UN ATTO; soprattutto l’imposta
ha come presupposto la formazione di un atto a contenuto economico.
L’imposta, ci dice una norma in tema di tributo di registro, che è l’art. 20, che ha subito una modifica
importante negli ultimi anni: è applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici dell’atto
presentato alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente, sulla base di
elementi desumibili dall’atto medesimo, e da atti ad esso collegati, salvo quanto disposto dagli articoli
successivi. Questa norma, l’art. 20, ci indica una strada per interpretare gli atti giuridici: ci dice che non
conta il nomen iuris dell’atto giuridico, ma la sostanza giuridica/effetto giuridico dell’atto.
Quindi la sostanza secondo l’art. 20 PREVALE sulla forma: non devo registrare se nell’atto c’è scritto
“contratto di locazione” ma che in realtà è un atto di compravendita se leggo il contenuto, dovrò registrare
e liquidare l’imposta su un atto di compravendita, non su un atti di locazione perché il titolo dell’atto è
“contratto di locazione”  l’interprete deve riferirsi alla tipologia e agli effetti giuridici dell’atto.
La giurisprudenza interpreta questa norma, soprattutto in passato, quando era scritta in forma diversa
(quando si parlava “degli atti presentati”, mentre oggi è “dell’atto presentato”). La giurisprudenza allora
cosa faceva con questa disposizione: la applicava nel senso che laddove vi fosse ad esempio una cessione di
azienda MASCHERATA con più cessioni di beni (+ atti che però letti congiuntamente diventavano una
cessione di azienda), per la giurisprudenza questa attività e questa lettura congiunta dei due atti,
comportava il tributo di registro secondo il contratto di cessione d’azienda  riconduceva le cessioni dei
singoli beni ad un unico atto di cessione d’azienda. DAVA PREVALENZA ALLA SOSTANZA DICENDO CHE SI
TRATTAVA DI CESSIONE DI AZIENDA.
Altro caso che fece discutere fu quello del conferimento di azienda e successiva cessione di quote ricevute.
1 operazione  conferimento di azienda, 2 operazione  cessione di quote, 3 operazione  una fusione.
Le 3 operazioni non danno luogo a imposta di registro in misura proporzionale.
Ma il risultato ottenuto è che avevo una società A che aveva una azienda in pancia, e al seguito
dell’operazione avrò una società C, che ha la stessa azienda, e la società A che avrà invece il denaro
derivante dalla vendita della partecipazione. Di fatto è posto in essere una CESSIONE DI AZIENDA, e tale
cessione è soggetto all’imposta proporzionale di registro, quindi è estremamente gravosa.
Da questo è sorto un enorme contenzioso tra Amministrazione finanziaria-Contribuente, che per
“raggirare” l’imposta di registro ponevano in essere tale operazione. E secondo la giurisprudenza, per la
precedente disposizione, riconduceva la trilogia di operazioni ad un UNICUM, ossia la cessione di azienda,
che richiedeva una imposta di registro in misura proporzionale.

 OGGI QUESTE OPERAZIONI COME SONO COLPITE?

Da un punto di vista dell’imposta di registro, un conto è cedere una azienda, un conto è cedere una
partecipazione. L’operazione che veniva posta in essere, se venisse vagliata oggi, probabilmente non si
applicherebbe più l’art. 20 ma si potrebbe applicare la norma antielusiva generale di cui parleremo..
L’ART. 20 NON SI POTREBBE PIU APPLICARE.

QUALI SONO LE TIPOLOGIE DI IMPOSTA DI REGISTRO


Essa si distingue in 3 sottocategorie
A) IMPOSTA PRINCIPALE: quella imposta liquidata sulla base dell’atto da registrare e di eventuali
dichiarazioni complementari. Ad esempio posso applicare l’imposta di registro alla luce di un atto di
compravendita immobiliare dove vi è la dichiarazione complementare con cui chiedo di applicare i benefici
per l’acquisto della prima casa. Questa imposta è riscossa con auto-liquidazione in sede di registrazione
dell’atto.
B) IMPOSTA SUPPLETIVA: quella richiesta DOPO la registrazione di un atto quando è diretta a correggere
errori od omissioni dell’ufficio dell’Agenzia dell’entrata. Si tratta dell’imposta che avrebbe dovuto
richiedere, ma non lo fa, e lo fa in seguito quando capisce l’errore o l’omissione. E’ diretta quindi a
correggere errori od omissioni dell’ufficio.
C) IMPOSTA COMPLEMENTARE: è residualmente ogni altra imposta richiesta dopo la registrazione che non
ha carattere suppletivo; ad esempio l’agenzia delle entrate accerta una base imponibile diversa da quella
dichiarata dalle parti a seguito di accertamento con cui l’Agenzia ridetermina l’imposta di registro.
Non è principale, non è suppletiva, ma è residuale e complementare perché richiesta in quanto l’Agenzia
verifica che il valore dell’atto portato alla registrazione ad esempio non è di 100 ma è pari a 150.
Quindi sul maggior valore di 50 chiederà l’imposta di registro, chiamata appunto imposta complementare.
(AI FINI ESAME, CONTA SOLO QUANTO DETTO A LEZIONE, NO LIBRO).

 CONCLUSO LO STUDIO DEI 4 TRIBUTI DI PARTE SPECIALE.

TORNIAMO ALLA PARTE GENERALE


LEZIONE 15, LA DICHIARAZIONE DEI REDDITI E L’AZIONE AMMINISTRATIVA
1. LA DICHIARAZIONE (L’essenziale ai fini dell’esame, no manuale)
Quando parliamo di DICHIARAZIONE, faremo riferimento soprattutto alla DICHIARAZIONE DEI REDDITI, la
principale dichiarazione.
Il prelievo tributario si attua in buona parte attraverso l’adempimento dell’obbligo da parte dei soggetti
passivi stessi di presentare una dichiarazione e di versare il tributo.
Pensiamo all’imposta sul reddito.
Quindi non è che se possiedo un reddito devo attendere l’Agenzia delle entrate o l’Amministrazione
finanziaria che mi mandi un bollettino di pagamento: E’ IL CONTRIBUENTE STESSO CHE ATTUA IL PRELIEVO
TRIBUTARIO, adempiendo l’obbligo di presentare la dichiarazione dei redditi o la dichiarazione IVA,
VERSANDO IL RELATIVO TRIBUTO.
Solo QUANDO e SE il contribuente non dichiara il tributo dovuto, l’amministrazione deve, entro dei termini
previsti a pena di decadenza, determinare il maggior tributo ed irrogare la sanzione amministrativa
pecuniaria.
Prima di presentare però la dichiarazione dei redditi, molti contribuenti sono tenuti ad ALTRI obblighi, in
particolare agli OBBLIGHI DI NATURA CONTABILE.
Abbiamo già visto parlando di lavoratori autonomi ma soprattutto per gli imprenditori, come questi
determinino il reddito d’impresa secondo il principio di DERIVAZIONE, per cui il reddito d’impresa ai fini
fiscali deriva dal reddito civilistico. E’ chiaro che affinchè questo sia possibile, è necessario che anche ai fini
fiscali il contribuente adempi ad obblighi invece di natura contabile.
L’obbligo degli adempimenti contabili deriva dal cc, ma per alcuni soggetti deriva dalle norme fiscali (come
lavoratori autonomi o per coloro che non sono per il cc imprenditori).
Sappiamo che c’è la possibilità di tenere un regime di contabilità ordinaria in cui si tengono tutti i libri
contabili previsti dal cc e dal DPR 633, poi alcuni soggetti applicano un regime di contabilità semplificata e
avranno sostanzialmente i registri IVA e dei cespiti.
Diciamo che ci sono una serie di adempimenti contabili per gli imprenditori e i lavoratori autonomi, che
vanno dai più rigorosi a quelli più semplificati, che sono NECESSARI COME FASE PODROMICA PER
DETERMINARE IL REDDITO DI IMPRESA e quindi per presentare la Dichiarazione dei redditi.
 LA DICHIARAZIONE DEI REDDITI VA PRESENTATA DA TUTTI COLORO CHE REALIZZANO UN REDDITO.
COLORO CHE POSSIEDONO UN REDDITO, O ANCHE DA COLORO CHE SONO TENUTI AGLI OBBLIGHI
CONTABILI E NON REALIZZANO ALCUN REDDITO.
Quindi obbligati alla presentazione
- TUTTI coloro che realizzano reddito
- COLORO che pur non realizzando reddito hanno adempimento contabili (imprenditori e lavoratori
autonomi).
- Vi sono poi dei CASI DI ESCLUSIONE (sito Agenzia delle entrate in cui troviamo i modelli di dichiarazione
dei redditi e istruzioni di compilazione). Nel sito sono specificati anche i casi di esclusione come coloro che
realizzano solo reddito fondiario derivante da prima casa (…).

Nelle dichiarazioni bisogna indicare tutti quei dati che servono per determinare l’imposta, quindi per i
contribuenti che devono presentare le dichiarazioni si indicano tutti i dati che servono per determinare
l’IRPEF, o l’IRES, o l’IVA, inclusi oneri deducibili, detrazione di imposta, acconti, insomma si sintetizzano tutti
gli elementi.
Vi sono nelle dichiarazioni anche delle OPZIONI: il contribuente esprime delle opzioni, come i neo-residenti
per applicare un regime della tassazione forfettaria di 100.000 euro, opzione esercitabile in dichiarazione
dei redditi come regola generale. Si indica in una determinata casella che si intende optare per un certo
regime fiscale.
Si sceglie poi ad esempio se riportare a nuovo un credito, se chiederlo a rimborso, si sceglie per un
determinato regime contabile..  SERIE DI OPZIONI DA PARTE DEL CONTRIBUENTE ESPRIMIBILI NELLA
DICHIARAZIONE DI REDDITO.
Ci sono poi opzioni che riguardano i SINGOLI COMPONENTI di reddito: quando parlammo delle plusvalenze
derivanti dalla cessione di beni strumentali del reddito d’impresa, se questi sono detenuti da più di 3 anni è
possibile rateizzare in 5 quote la plusvalenza realizzata.
Questa rateizzazione è opzionale e va espressa nella Dichiarazione dei redditi.
Vi sono poi delle QUOTE DI IMPOSTA (5X1000, 8X1000..): in questi casi si esprime nella dichiarazione
l’opzione perché una percentuale delle imposte che comunque si verserebbero, sono devolute a
determinati enti o per determinate finalità.
L’8x1000 può essere devoluto allo stato o a una istituzione religiosa;
Il 5x1000 può essere devoluto per spese e finalità di interesse generale (si può dare il 5x1000 all’università
bicocca);
Il 2x1000 è invece riservato ad un determinato partito politico, e non è necessario indicare nella casella la
quota di imposta da devolvere al partito. Se si vuole farlo, si compila la dichiarazione in quella parte.

 LA DICHIARAZIONE E’ COMPOSTA SOSTANZIALMENTE DI 2 ANIME


1) ESPOSIZIONE DI FATTI E UNA RELATIVA QUALIFICAZIONE GIURIDICA, che però è una
qualificazione giuridica voluta dal legislatore: mi limito a indicare un fatto e l’effetto giuridico è
stabilito dalla legge. Se indico di possedere un reddito, l’effetto giuridico di possederlo è
determinato dal legislatore stesso. Quindi gli effetti giuridici dell’esposizione dei fatti e la relativa
qualificazione giuridica non sono voluti dal contribuente ma dalla legge. La dichiarazione dei redditi
è un mero atto, non è una dichiarazione di volontà.
2) IL CONTRIBUENTE ESPRIME DELLE OPZIONI, e qui si che invece il contribuente esprime delle
volontà.
QUINDI IL CONTENUTO DELLA DICHIARAZIONE DEI REDDITI E’ MISTO, DICHIARAZIONE DI
VOLONTA+MERO ATTO.

QUANDO OCCORRE PRESENTARE LA DICHIARAZIONE DEI REDDITI E LA DICHIARAZIONE IVA:


Si presentano PERIODICAMENTE una volta chiuso il periodo di imposta.
-Per coloro che hanno un periodo di imposta coincidente con l’anno solare, la dichiarazione va presentata
entro fine Settembre dell’anno di imposta successivo.
Quindi entro fine settembre 2019 è stata presentata la dichiarazione dell’anno 2018 che racchiude i redditi
realizzati nell’anno di imposta 2018.
Si presenta annualmente in quanto si tratta di tributi periodici come sono IVA e IMPOSTE SU REDDITI; Si
presenta su MODULI PRESTAMPATI, non in forma libera, e occorre predisporre moduli che poi sono
approvati con provvedimento pubblicato in Gazzetta Ufficiale e si trasmettono per via TELEMATICA tramite
una banca/soggetti abilitati a trasmettere le dichiarazione dei redditi.
Oggi, in realtà da alcuni anni, è possibile produrre una Dichiarazione unica che comprende sia l’imposta sul
reddito, sia l’IVA, tutta una serie di opzioni..  Si parla di “modello unico”, proprio per esprimere questa
dichiarazione unificata.
-Per i lavoratori dipendenti invece vi sono dei MODELLI SEMPLIFICATI, cioè per quei lavoratori dipendenti
che devono presentare la dichiarazione, possono produrre un “modello semplificato” di dichiarazione.

Cosa succede se le dichiarazioni sono prodotte comunque ma in RITARDO/OLTRE LA SCADENZA?


A questo punto va distinto il RITARDO
1) INFERIORE A 90 GIORNI: si applica una sanzione, ma la dichiarazione si considera prodotta.
2) SUPERIORE A 90 GIORNI: la dichiarazione si considera OMESSA, come se non fosse stata presentata, ma
costituisce TITOLO per riscuotere le somme in essa contenute. Cioè per riscuotere, se il contribuente
presenta una dichiarazione dove indica di aver posseduto per quel certo periodo di imposta un reddito di
100.000 euro a cui corrisponde una imposta di 35.000 euro poniamo, cosa succede: la dichiarazione è
omessa ma l’Amministrazione finanziaria potrà riscuotere le somme di 35.000 di imposta indicate nella
dichiarazione dei redditi.
Potrà riscuotere tramite una ISCRIZIONE AL RUOLO, non serve nemmeno un avviso di accertamento. Potrà
riscuotere tramite una iscrizione al ruolo, iscrivendo il contribuente al ruolo e chiedendo a lui di versare le
somme che lui stesso ha dichiarato.

Vi sono anche ipotesi in cui LA DICHIARAZIONE NON SI PRESENTA ANNUALMENTE: pensiamo al caso delle
operazioni straordinarie, che comportano una rottura del periodo di imposta (es. trasformo una società di
persone in società di capitali, dovrò dividere il periodo di imposta in 2)

Abbiamo parlato di IRES, IRPEF, IVA, e per quanto riguarda il Tributo di registro NON VI E’ UNA VERA E
PROPRIA DICHIARAZIONE  la dichiarazione in realtà è implicita nell’atto che viene registrato. Quando si
porta a registrare un atto, è implicito nell’atto anche la dichiarazione.
Il tributo di registro è ISTANTANEO, non periodico, sarà il singolo atto a contenere implicitamente la
dichiarazione. E’ come se vi fosse una dichiarazione ma implicita nell’atto che si registra.

LE DICHIARAZIONI PRECOMPILATE: dal 2015 alcuni contribuenti hanno il privilegio di avere una
dichiarazione già precompilata nel proprio cassetto fiscale, per semplificare e ridurre i cd. “Costi di
compliance”, i costi ossia che il contribuente sostiene per adempiere all’obbligazione tributaria, considerato
che l’amministrazione finanziaria è in possesso di gran parte delle informazioni per precompilare la
dichiarazione di redditi di molti contribuenti. Questi dovranno verificare che siano indicati tutti i dati,
firmare la dichiarazione e produrla.

QUALI SONO LE CONSEGUENZE GIURIDICHE DELLA DICHIARAZIONE


In base alla sua compilazione, la Dichiarazione comporta le modalità di accertamento da parte dell’Agenzia
delle entrate e dell’Amministrazione finanziaria (lo vedremo negli avvisi di accertamento). Se la
dichiarazione non contiene certi elementi, si può procedere a determinate modalità di accertamento che
altrimenti non utilizzerebbe.
E’ poi un ELEMENTO COSTITUTIVO DELL’OBBLIGAZIONE TRIBUTARIA  ciò si contrappone invece alla
“teoria dichiarativa” per cui il presupposto di legge determina da solo il sorgere di una obbligazione
tributaria.
Quindi  Secondo la TEORIA COSTITUTIVA: la dichiarazione è un elemento della fattispecie costitutiva
dell’obbligazione tributaria, in assenza della dichiarazione la legge di per sé non è sufficiente per far
scattare l’obbligazione tributaria, è necessario un atto giuridico intermedio (dichiarazione; e se non c’è,
l’accertamento).
E’ poi TITOLO PER LA RISCOSSIONE DELLE SOMME in essa contenute  se il contribuente si dichiara
debitore del fisco per un certo importo, la dichiarazione è titolo che ti permette di riscuotere le somme
tramite iscrizione al ruolo.
La dichiarazione infine è anche TITOLO COSTITUTIVO DI CREDITO SE LA DICHAIRAZIONE SI CHIUDE CON
UN CREDITO  se da una dichiarazione dei redditi emerge un credito, la dichiarazione anche titolo
costitutivo di questo credito.

 UNA VOLTA PRESENTATA LA DICHIARAZIONE DEI REDDITI, QUESTA E’ DI REGOLA DEFINITIVA. Ma


può essere modificata tenendo conto che sono però previste delle sanzioni: se presento una
dichiarazione, non indico un reddito, ma poi voglio ravvedermi dell’errore, posso farlo attraverso
l’istituto del “ravvedimento operoso” però posso correggere l’errore nella dichiarazione
VERSANDO UNA SANZIONE (che è ridotta/minore, o è maggiore in base al ravvedimento, prima lo
fai maggiore è lo sconto sanzionatorio).
Se invece è già iniziata una verifica/un accertamento, la sanzione sarà si ridotta ma non così tanto
come se il contribuente spontaneamente ha corretto la dichiarazione.
 Si possono modificare le dichiarazioni anche per correggere ERRORI A SFAVORE del contribuente:
ma entro i termini di decadenza, cioè entro 5 anni dalla presentazione dei redditi.

2. L’ATTIVITA’ AMMINISTRATIVA (qui vedere libro)


L’attività dell’amministrazione finanziaria è una attività VINCOLATA NEL CONTENUTO: l’attività
amministrativa posta in essere dall’amministrazione finanziaria è vincolata, cioè i provvedimenti emessi
sono provvedimenti vincolati nel contenuto: è la legge che ne regola i contenuti.
L’amministrazione finanziaria è l’Agenzia delle entrate per i tributi erariali (ires, irpef, tributo di registro,
iva); poi abbiamo l’Agenzia delle dogane per i tributi doganali, l’ iva all’importazione; poi abbiamo i Comuni
per i tributi locali.
Perché l’attività dell’amministrazione finanziaria non è discrezionale nel contenuto nei propri atti? E’
vincolata in ragione dell’art. 23 Cost: “nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta
se non in base alla legge”. E’ la legge che determina il carico tributario: l’amministrazione finanziaria deve
solo limitarsi ad APPLICARE la legge. Se il contribuente pone in essere un fatto generatore di un tributo e
non dichiara il fatto, l’amministrazione finanziaria quando accerta il contribuente, accerterà quel fatto e
quel tributo. Il contenuto è predeterminato di fatto dall’accertamento posto in essere dalla
amministrazione finanziaria.
Vi sarà invece discrezionalità sulle MODALITA’ relative all’attività di verifica, modalità istruttorie, con
determinati limiti li si può parlare di “discrezionalità amministrativa”
 MA NON NEL CONTENUTO DEGLI ATTI.
Per alcuni questo deriverebbe anche dal principio di capacità contributiva, quindi dall’art. 53 Cost, per cui
tutti sono tenuti a contribuire alle spese pubbliche in ragione della capacità contributiva.
Se l’amministrazione andasse a derogare alla legge e a determinare discrezionalmente il contenuto dei
propri atti, violerebbe tale articolo. L’art. 53 si rivolge al LEGISLATORE inoltre non all’amministrazione.
Ecco perché l’attività dell’amministrazione finanziaria è vincolata in ragione dell’art. 23 Cost.
Esempio:
E’ nulla una clausola contrattuale con cui il comune rinuncia all’applicazione della tassa sui rifiuti;
oppure l’obbligazione tributaria non si può mai estinguere per remissione del debito.
L’amministrazione può e anzi DEVE annullare gli atti viziati perché ad esempio ha emesso un avviso di
accertamento che non rispondeva alla legge, in tal caso annullerà quell’atto.

REGOLE E PROCEDURE CHE DEVE SEGUIRE L’AMMINISTRAZIONE FINANZIARIA


Si applica IN PARTE la legge sui procedimenti amministrativi, si applica ad esempio i principi in tema di
motivazione degli atti, in tema di responsabile del procedimento, la disciplina in tema di invalidità degli atti.
Quando si predispone un ricorso contro un avviso di accertamento è comune leggere riferimenti a sentenze
amministrative. Occorre inoltre considerare che l’art. 1 della legge sul procedimento amministrativo
prevede un RINVIO ai principi dell’UE, dell’ordinamento dell’UE  anche al procedimento tributario si
applicano alcuni principi generali dell’UE come la buona fede o l’obbligo di motivazione, contraddittorio
etc.  QUINDI DA UN PUNTO DI VISTA PROCESSUALE NEGLI ATTI DEL CONTIBUENTE (ATTI E RICORSI) VI
SARANNO CITATE ANCHE SENTENZE DELLA CORTE DI GIUSTIZIA.
La legge più importante che disciplina l’attività amministrativa è lo Statuto dei diritti del contribuente, la
legge 212/2000.

 ABBIAMO LA LEGGE SUI PROCEDIMENTI AMMINISTRATIVI (241/1990, che si applica IN PARTE);


ABBIAMO I PRINCIPI DEL DIRITTO DELL’UE PER UN RINVIO DELL’ART. 1 DELLA LEGGE 241;
ABBIAMO LO STATUTO DEI DIRITTI DEL CONTRIBUENTE  principali riferimenti normativi.

IL PRINCIPIO PIU IMPORTANTE DELL’ATTIVITA’ DELL’AMMINISTRAZIONE FINANZIARIA E DEL SUO


RAPPORTO COL CONTRIBUENTE E’ QUELLO DI “BUONA FEDE E COLLABORAZIONE” (unico principio).
Buona fede e collaborazione è un principio che riguarda proprio il RAPPORTO tra amministrazione-
contribuente, non tanto il contenuto degli atti. Il contenuto degli atti è vincolato dalla legge, mentre il
principio riguarda il rapporto parte pubblica-contribuente: è un principio che era immane all’ordinamento
tributario già prima dell’adozione dello Statuto dei diritti del contribuente (che lo disciplina).
Già prima del 2000 in varie sentenze si faceva riferimento alla buona fede del rapporto.
Ad esempio si citava la buona fede per imporre che l’AF correggesse gli errori commessi, o in tema di
affidamento che il contribuente poteva riporre su atti o provvedimenti dell’AF  e il principio si faceva
discendere dall’art. 97 della Costituzione.
Si applica quindi anche all’AF quel principio di IMPARZIALITA’ E BUON ANDAMENTO che contraddistingue
tutta la pubblica amministrazione.
Dal macro principio di buona fede e collaborazione discendono una serie di corollari: che sono
espressamente disciplinati nei testi legislativi.
1) LA PARTECIPAZIONE DEL PRIVATO AL PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO TRIBUTARIO.
Le norme sul procedimento amministrativo in generale che riguardano la partecipazione del privato al
procedimento NON si applicano al diritto tributario.
Però il principio per cui il contribuente deve partecipare all’attività della PA finanziaria, è un principio che
deriva dalla buona fede. Vi sono infatti singole norme che richiedono la partecipazione del contribuente.
Una norma fondamentale che richiede la partecipazione del privato è l’art. 12, co.7, dello Statuto dei diritti
del contribuente  ci dice che DOPO che è stato emesso un processo verbale di constatazione, quell’atto
emesso al termine di una fase di verifica/attività istruttoria da parte dell’agenzia delle entrate o della
guardia di finanzia, (che fa il resoconto delle attività poste in essere, risultanze attività di verifica), il
contribuente ha 60 giorni di tempo per presentare delle proprie osservazioni richieste all’ufficio impositore.
Cosa significa: va letto al contrario, l’amministrazione finanziaria non può emettere un avviso di
accertamento prima del decorso di 60 giorni altrimenti l’AVVISO DI ACCERAMENTO E’ NULLO, salvo casi di
motivata urgenza  quali sono questi casi di urgenza? Vediamo un caso che NON è di motivata urgenza.
ESEMPIO: Assumiamo che l’attività dell’amministrazione e l’avviso di accertamento debba essere emesso
entro un termine di decadenza di 5 anni. Se l’avviso non è emesso entro 5 anni ma viene emesso dopo, è
nullo. Se l’avviso di accertamento viene emesso PRIMA DI 60 GIORNI ovvero senza aver dato tempo al
contribuente dii partecipare al procedimento amministrativo, è altresì nullo.
Assumiamo che il periodo di decadenza sia il 31 dicembre 2020, e il processo verbale di constatazione è
prodotto il 1 dicembre 2020. A questo punto l’agenzia delle entrate si trova ad un bivio:
- o emette l’avviso di accertamento entro il 31 dicembre, non viola la norma in termine di decadenza ma
viola quella dell’art. 12, co 7.
- oppure emette l’avviso di accertamento aspettando il decorso dei 60 giorni, aspetta fino a fine gennaio
2021, ma l’avviso di accertamento ancora è nullo perché non ha rispettato i termini di decadenza.
ALLORA COSA SUCCEDEVA QUANDO L’AF NELLE PRIME FASI DI INTERPRETAZIONE DI QUESTA NORMA (che
ha avuto travaglio giurisprudenziale)  L’amministrazione inizialmente affermava di trovarsi in una ipotesi
di necessità ed urgenza, prevista dall’art. 12 co. 7, che legittimasse quindi la Deroga al termine di 60 giorni,
e che quindi potesse emettere l’avviso di accertamento il 31 di dicembre e quindi entro i termini di
decadenza perché altrimenti non sarebbe rimasta nei termini di decadenza previsti.
La Cassazione dopo una serie di sentenze ci dice che questa NON è una ragione di motivata urgenza,
perché l’AF deve anche programmare la propria attività di verifica.
DIVERSO sarebbe se, la verifica si conclude, quindi il 1 di dicembre, non per una negligenza
dell’amministrazione finanziaria che arriva tardi nell’espletare l’attività di verifica, quando per un
comportamento poco collaborativo in sede di verifica del contribuente che ha RALLENTATO le procedure di
verifica  questo si che è un caso di necessità ed urgenza per violare il termine di 60 giorni legittimamente
ed emettere un avviso che non è nullo: è il contribuente che non ha permesso all’AF di rispettarlo.
Negli alti casi è nullo l’avviso di accertamento emesso prima del termine di 60 giorni.

Oltre a questi casi particolari c’è stata una controversia giurisprudenziale molto lunga su: SE il
contraddittorio fosse obbligatorio per tutte anche le altre ipotesi in cui non c’è un processo verbale di
constatazione, quindi non c’è quel termine di 60 giorni.
Ci si è chiesti se ci fosse un OBBLIGO DI CONTRADDITTORIO generalizzato preventivo, cioè se l’AF prima di
emettere un avviso di accertamento debba SEMPRE sentire in contraddittorio il contribuente.
 RISPOSTA: inizialmente la Cassazione a SU ha stabilito che il contraddittorio è obbligatorio, pena la
nullità dell’atto emesso in violazione del contraddittorio. E’ sempre necessario, richiamando insegnamenti
del diritto dell’UE. Però poi la stessa Cassazione a SU ha “corretto” il tiro dicendo che SI, E’ OBBLIGATORIO,
MA SOLO PER I TRIBUTI ARMONIZZATI cioè derivanti dall’Unione europea, come l’IVA.
Non è invece obbligatorio per i tributi erariali come IRPEF, IRES, in via generalizzata intendiamo.
Questa doppia anima comporta un problema perché lo stesso avviso di accertamento spesso contiene un
maggiore accertamento sia dell’IVA sia dell’IRPEF, quindi bisogna sostenere che il contraddittorio è
obbligatorio solo per quella parte di avviso di accertamento riguardante l’IVA e non per quella parte
riguardante l’IRPEF (tesi difficile da sostenere).
 SECONDO LA CASSAZIONE IN CONCLUSIONE IL CONTRADDITTORIO E’ SEMPRE OBBLIGATORIO NEI CASI
RPEVISTI (art. 12, co7, accertamento antielusivo, accertamento sintetico), OPPURE IN VIA GENERALIZZATA
NEL CASO DI TRIBUTI ARMONIZZATI.
PER GLI ALTRI TRIBUTI ERARIALI, NEL CASO IN CUI NON E’ SPECIFICATO, E’ UN PRINCIPIO CHE NON TROVA
APPLICAZIONE.

Con il decreto legge n. 34 del 2019, il cd. “decreto crescita”, è stato però previsto un OBBLIGO
GENERALIZZATO DEL CONTRADDITTORIO  l’AF anche nei casi in cui non vi è processo verbale di
constatazione, prima di emettere un avviso di accertamento, deve invitare il contribuente ad un
contraddittorio. Se manca l’invito, L’ATTO E’ NULLO, solo se il contribuente nel ricorso
- deduce che non vi è stato l’invito
- deduce quali sarebbero state le ragioni che il contribuente avrebbe potuto addurre per modificare il
contenuto dell’atto in positivo che poi è stato impugnato.
A QUESTO OBBLIGO DI CONTRADDITTORIO, e per questo è molto criticato perché sembra si tratti di un
obbligo generalizzato nonostante abbia molto limiti, NON SI APPLICA L’ACCERTAMENTO PARZIALE.
Questa norma dovrebbe applicarsi da luglio 2020.

2) L’AF DEVE CORREGGERE GLI ERRORI MACROSCOPICI IN CUI SIA INCORSO IL CONTRIBUENTE.
Se nella determinazione dell’imposta per errore aggiunge uno 0 e fa diventare una imposta 10.000, è un
errore macroscopico riconoscibile, e l’AF deve necessariamente correggerlo.
3) L’AF DEVE GARANTIRE L’EFFETTIVA CONOSCENZA DEGLI ATTI NOTIFICATI DEL CONTRIBUENTE.
Questo vale soprattutto per i contribuenti residenti all’estero. Lo Statuto dice di tentare una notifica anche
all’estero.
4) L’AF NON DEVE RICHIEDERE DOCUMENTI CHE SONO GIA IN SUO POSSESSO.
Quindi non può chiedere al contribuente un documento che già è in suo possesso perché i documenti che
già possiede l’amministrazione pubblica non devono essere chiesti.
5) L’AF NON DEVE TURBARE L’ATTIVITA’ DEL CONTRIBUENTE IN SEDE DI VERIFICA.
Vi sono dei limiti in termini di durata delle verifiche che non devono superare un certo numero di giorni.
Vi sono anche dei limiti proprio in base al tipo di verifica. Se ad esempio si effettua una verifica fiscale verso
un bar, difficilmente si presenteranno 10 finanzieri armati, ma saranno piuttosto in borghese per non
turbare l’attività di impresa. Non si vuol paralizzare l’attività del contribuente.

Oggi inoltre vi è un regime di COLLABORAZIONE PREVENTIVA TRA CONTRIBUENTE DI GRANDI


DIMENSIONI-FISCO, per valutare INSIEME ex ante i cd. “RISCHI FISCALI” dell’imprenditore.
I vantaggi di adesione a questo regime sono pari:
- c’è la possibilità di avere una risposta agli interpelli in 45 giorni anziché 90 o 120 (tempi ordinari)
- vi è una riduzione eventualmente di sanzioni amministrative
- vi è possibilità di ottenere rimborso
 SI CREA UN CLIMA DI COLLABORAZIONE TRA AMMINISTRAZIONE FINANZIARIA-IMPRESE DI GRANDI
DIMENSIONI.
Inoltre c’è la possibilità di stipulare ACCORDI PREVENTIVI tra Agenzia delle entrate-Contribuente con
riguardo ai prezzi di trasferimento dei beni tra società di uno stesso gruppo fiscale che appartengono a Stati
diversi.

6) PRINCIPIO DEL LEGITTIMO AFFIDAMENTO.


E’ regolato dall’art. 10, co2 dello Statuto dei diritti del contribuente (leggi 212/2000)  dispone che NON
sono irrogate sanzioni e computati interessi muratori nei confronti del contribuente che si sia uniformato a
interpretazioni dell’amministrazione finanziaria.
ESEMPIO: Vi è una circolare dell’Agenzia delle entrate che dice che una certa disposizione normativa va
interpretata nel senso che i contribuenti che pongono in essere quella operazione non sono soggetti ad
alcun tributo. Il contribuente pone in essere quella operazione, non versa alcun tributo, e l’AF poi modifica
la propria opinione/cambia ed emette un avviso di accertamento nei confronti del contribuente in cui gli
chiede maggiore imposta che non ha versato, gli irroga una sanzione e computa gli interessi moratori.
Ecco il principio di legittimo affidamento ci dice che NON possono, può essere richiesta solamente
l’imposta. Secondo alcune pronunce inoltre non può essere richiesta nemmeno l’imposta.
Sono pronunce del tutto minoritarie, ma l’idea che sottendono è che il principio di buona fede più generale
del legittimo affidamento PRECLUDE di applicare l’imposta quando il contribuente ha posto in essere
quell’operazione proprio perché SAPEVA che non vi sarebbe stata una imposizione.
Se lui avesse saputo dell’imposta magari avrebbe posto in essere un’altra operazione, tassata in misura
diversa, e nulla impedisce al contribuente di scegliere il comportamento economico (purchè effettivo)
Anche in relazione al carico fiscale che ne consegue.
Il legittimo affidamento opera nel senso appena detto QUANDO L’AF NON DA RISPOSTE SPECIFICHE AL
CONTRIBUENTE. Difatti vi sono ipotesi in cui è il contribuente pone una specifica domanda all’AF.
Questa domanda posta si chiama INTERPELLO. E’ il contribuente con l’INTERPELLO, che può assumere varie
forme (prendiamo quello ordinario), presenta una domanda all’Agenzia delle entrate (alla direzione
regionale quindi per chi è in Lombardia, lo chiederà alla direzione della Lombardia che ha sede a Milano)
che in presenza di una disposizione normativa DUBBIA/di un comportamento economico che il
contribuente deve ancora porre in essere ma che lo porrà in essere, quindi allora il contribuente presenta
un INTERPELLO quando vi è una disposizione normativa DUBBIA e quando deve porre in essere una
determinata operazione a cui non sa come applicare la disposizione normativa dubbia
Quindi non posso io nell’ambito della mia attività ad esempio di studente presentare un INTERPELLO
all’Agenzie delle entrate  si può presentare solo qualora vi è una disposizione dubbia, l’Agenzia delle
entrate non si è ancora pronunciato su quella disposizione chiara.
Ci vuole anche il fatto che il contribuente andrà a porre in essere il comportamento che poi vedrà applicata
quella determinata disposizione dubbia.
Quindi va presentato anticipatamente con riferimento alla disposizione, ed è una domanda in cui il
contribuente chiede come va interpretata quella disposizione  il contribuente propone a sua volta una
SUA interpretazione della disposizione e l’AF risponde entro 90 giorni per gli interpelli ordinari.
(mentre per interpelli speciali è di 120 giorni).
Risponde entro 90 giorni e se non risponde IL SILENZIO VALE COME ASSENSO  ossia assenso
dell’interpretazione prospettata del contribuente: ecco perché p necessario che quando il contribuente
presenta l’Interpello dia anche una propria interpretazione della disposizione dubbia.
IL PARERE, UNA VOLTA RILASCIATO (tramite una risposta o tramite silenzio assenso), E’ VINCOLANTE
 il contribuente che fa affidamento alla risposta ricevuta specifica non solo non potrà vedere irrogate
sanzioni e computati interessi moratori, ma non potrà vedere nemmeno emesso l’avviso di accertamento
nei suoi confronti. L’AF NON PUO PIU DISCOSTARSI DA QUEL PARERE EMESSO VERSO CONTRIBUENTE.
Quindi le condizioni per presentare l’interpello sono:
- è necessario avere disposizione di natura incerta
- deve essere preventivo l’interpello e riguardare un caso personale e concreto, un comportamento che il
contribuente andrà a porre in essere a cui si applica quella disposizione normativa
- il contribuente deve prospettare la propria interpretazione.
Una volta che ha risposta, essa è VINCOLANTE PER L’AF. Mentre per il contribuente NON E’ VINCOLANTE!!
Il contribuente può fare legittimo affidamento sull’Interpello (ecco perché è vincolante per l’AF), ma non
deve necessariamente adeguarsi all’Interpello. PUO’ DISCOSTARSI DALLA RISPOSTA DATA DALLA AGENZIA
DELLE ENTRATE, sapendo che verosimilmente l’agenzia emetterà un avviso di accertamento nei suoi
confronti e dovrà poi difendersi impugnandolo davanti alla commissione tributaria.

OLTRE ALL’INTERPELLO ORDINARIO, CHE E’ UN INTERPELLO INTERPRETATIVO, VI SONO ALTRI INTERPELLI:


- INTERPELLO PROBATORIO: è quell’intervento che si ha nell’ipotesi in cui il contribuente vuole vedere
applicato un determinato regime. Ad esempio: quando il neo-residente che intende optare per una
tassazione forfettaria di 100.000 euro, può presentare un interpello in cui PROVA di avere le condizioni
(trasferimento di residenza da estero > Italia) per beneficiare di quella norma particolare.
- INTERPELLO ANTIABUSO: è quell’interpello in cui il contribuente presenta una operazione che sta per
porre in essere e chiede all’Agenzia delle entrate se quella operazione è a suo modo di vedere una
operazione che può dar luogo ad abuso di diritto (elusione fiscale, secondo la norma generale antielusiva).
- INTERPELLO DISAPPLICATIVO: è quell’interpello che il contribuente chiede di disapplicare una norma
antielusiva specifica. Davanti ad una norma che ha ratio antielusiva, il contribuente nel momento in cui non
pone in essere alcun comportamento elusivo, può chiedere di disapplicare la norma antielusiva.

7) L’ISTITUTO DELL’AUTOTUELA-ANNULLAMENTO IN AUTOTUELA.


Dell’annullamento in autotutela (annullamento che l’AF pone in essere in un proprio atto) non vi sono
valutazioni di convenienza: l’atto illegittimo DEVE essere annullato. Può essere riemesso, salvo che non
siano spirati termini di decadenza, fermi i limiti previsti dal principio di unicità dell’avviso di accertamento.
Un nuovo accertamento può essere emesso solo per la sopravvenuta conoscenza di nuovi elementi.
E NON CI SONO LIMITI PER L’ANNULLAMENTO IN AUTOTUTELA DI UN ATTO EMESSO DALL’AF. Anche
quando vi è una sentenza passata in giudicato che conferma, l’atto impugnato può essere annullato.
SALVO (unico limite) che lo specifico motivo di annullamento non contrasti con la ragione per cui l’atto di
accertamento è stato confermato nella sentenza di un giudice, con sentenza passata in giudicato.
Quindi nel momento in cui una sentenza si pronuncia su uno specifico aspetto, allora l’AF non può più
annullare l’avviso di accertamento, c’è già una sentenza passata in giudicato.
 Annullamento che contrasta con un giudicato è l’unico limite.

8) IL GARANTE DEL CONTRIBUENTE.


Per i contribuenti esiste un garante, che è una figura con funzione persuasiva e conoscitiva; ci si rivolge a lui
un po’ come ultima spiaggia quando si vuole sollecitare qualcosa che non accade (l’agenzia delle entrate
che non ci risponde). Il garante non ha funzione di annullamento o altro, ma di tutela nel senso di
persuasione dell’attività dell’amministrazione finanziaria.

NB IL PRINCIPIO DI BUONA FEDE E COLLABORAZIONE riguarda sì l’AF principalmente, ma riguarda anche


l’attività del contribuente  in ragione del principio di buona fede lui deve collaborare in sede di verifica
con l’AF. SE NON COLLABORA, esiste l’art. 32 del DPR 600/1973 che preclude al contribuente di presentare
documenti in sede contenziosa o amministrativa che gli sono stati richiesti specificatamente dall’AF ma che
lui non ha prodotto in risposta alla domanda dell’AF. Se l’AF (agenzia, comune) ci chiede un documento –
CHE NON DEVE ESSERE GIA IN POSSESSO DEL’AF – con una richiesta specifica (quindi deve chiedere un
documento PRECISO), il contribuente deve rispondere.
Se il contribuente non produce questo documento, l’effetto sarà che il documento non potrà più essere
utilizzato. E’ come se non esistesse ne nel procedimento amministrativo ne nella fase processuale.
Inoltre se non collabora rischia di ricevere degli “accertamenti potenziati”, “induttivi”; in particolare
l’imprenditore che non risponde ad un questionario rischia di ricevere un avviso di accertamento cd.
INDUTTIVO PURO, che è un accertamento che si può basare anche su presunzioni non precise e non
concordanti. Quindi un accertamento estremamente pericoloso perché determina il reddito su
PRESUNZIONI e non su dati certi.

LEZIONE 16, L’ISTRUTTORIA


L’attività istruttoria: è l’attività di controllo da parte dell’amministrazione finanziaria degli adempimenti
fiscali posti in essere dal contribuente.
Abbiamo visto come l’attuazione dell’obbligazione tributaria sia principalmente demandata all’attività del
contribuente stesso, è lui cioè il soggetto passivo che deve Presentare la dichiarazione e Autoliquidare il
tributo. Questa è la situazione fisiologica del contribuente che dichiara ciò che deve essere dichiarato e che
liquida in misura corretta il tributo dovuto. A questa prima fase di “attuazione della dinamica tributaria”,
segue una fase “dell’istruttoria”, che è la fase di controllo da parte dell’AF, che si divide in 3 sotto-fasi.
Alla attività istruttoria PUO’ far seguito l’attività di “emissione di atti in positivo” (avviso di accertamento o
la cartella di pagamento)  è quindi una fase ponte tra la dichiarazione e l’adempimento della dinamica
tributaria ed una eventuale correzione con un atto in positivo dell’AF.
Vi sono 3 sotto-fasi di controllo/l’attività istruttoria è divisa in 3 fasi. Non tutti i contribuenti sono soggetti
a queste 3 fasi di controllo.
1) FASE DEL CONTROLLO AUTOMATICO  la procedura automatica (1 fase) è una procedura che riguarda
TUTTE LE DICHIARAZIONI PRESENTATE, è un controllo automatico diretto a correggere errori presenti nella
dichiarazione. Questa fase è disciplinata dall’art. 36-bis del DPR 600/1973. Spesso si parla di “controllo 36-
bis” nel gergo professionale, proprio per richiamarlo. E’ un controllo che riguarda tutte le dichiarazioni
presentate e viene effettuato in modo informatizzato ed automatico, non c’è una persona fisica che
dichiarazione x dichiarazione leggono e stabiliscono gli errori, ma è un controllo effettuato da un computer
in maniera automatica. Vi è un termine ordinatorio entro cui deve essere effettuato, che è quello dell’inizio
del periodo di presentazione della dichiarazione relativa all’anno successivo, si tratta però di un termine
ordinatorio. Dalla natura di questo controllo, che è automatico, possiamo capire che non può esservi una
verifica sostanziale su quali dati il contribuente ha o non ha dichiarato, è sicuramente un controllo che è
fatto da un computer quindi correggerà ERRORI RICONOSCIBIL in maniera informatizzata.
Sulla base di questo controllo, quali dati possono essere corretti:
- Sono corretti gli errori materiali e di calcolo: che vengono commessi dal contribuente, possono essere
errori di calcolo dell’imposta, errore di calcolo dei contributi, dei premi ecc, o anche delle eccedenze che
risultano dalle precedenti dichiarazioni  tutto quello che riguarda errori materiali o di calcolo
- Sono corretti gli errori relativi alle detrazioni: quando parlammo di detrazione di imposta abbiamo visto
che sono prestabilite delle percentuali da parte del legislatore, ad esempio le spese di istruzione sono il
22%, cioè sono detraibili nel limite del 22%. Se il contribuente nella dichiarazione indica una spesa di
istruzione di 2.000 euro e lascia interamente in detrazione, il sistema in maniera automatica SE NE
ACCORGE, perché la detrazione è ammessa nei limiti della percentuale prevista dal legislatore.
- Si riducono deduzioni dal reddito: quando una deduzione è esposta in misura superiore rispetto a quella
prevista dalla legge, ed è una cosa riconoscibile dal sistema, allora vi sarà una riduzione automatica.
Oppure possiamo avere una riduzione dei crediti di imposta esposti in maniera superiore a quelli previsti
dalla legge, pensiamo all’ipotesi in cui dichiaro di aver versato imposte estere per 50.000 euro e questo mi
dovrebbe attribuire un credito di imposta di 50.000 euro, e io invece indico un credito di imposta di 60.000
euro. Il sistema in maniera informatica LEGGE LA DISCREPANZA E CORREGGE.
- Pensiamo ai redditi fondiari derivanti dalla prima casa: i redditi fondiari derivanti dalla prima casa deve
essere indicato tra questi, e poi vi è un onere deducibile che riduce a 0 il reddito fondiario della prima casa
(e solo quella). Ad un contribuente che indica come reddito derivante dalla prima casa euro 1.000, la
deduzione relativa indica 1.500 euro, il sistema se ne accorge in modo automatico e corregge.
- Poi può esserci un problema legato non solo ad errori materiali ma anche di RISPONDENZA tra la
dichiarazione e il versamento del tributo vero e proprio  se dalla dichiarazione emerge un tributo da
versare di 100 e poi il contribuente versa 20, vi è naturalmente una discrepanza e il sistema lo riconosce in
maniera automatica che il contribuente versa meno di quanto dovuto.
 PROCEDURA AUTOMATICA CHE CORREGGE QUESTA TIPOLOGIA DI ERRORI E CHE RIGUARDA TUTTE LE
DICHAIRAZIONI PRESENTATE, EX ART 36-BIS.

E DOPO che la macchina rileva un errore, COSA SUCCEDE:


Deve essere emesso un cd. AVVISO BONARIO (non è un atto in positivo/avviso di accertamento): è una
comunicazione effettuata dall’AF in cui viene fatto presente al contribuente l’errore commesso e gli si dà la
possibilità di ravvedersi di questo errore. Può adeguarsi all’errore.
Se si riceve l’avviso bonario ma il contribuente non è d’accordo con l’errore? Vi sono varie ipotesi, spesso
magari l’avviso bonario nasce si da un errore del contribuente ma magari è un errore formale. Pensiamo se
il contribuente ha una imposta da versare di 1.000 e nella dichiarazione per errore aggiunge uno 0 e risulta
che dovrebbe versare 10.000. il sistema rileva il mancato versamento di 9.000 euro, lui riceve l’avviso
bonario, informa l’AF che vi è stato un errore suo di indicare 10.000 nella dichiarazione in quanto avrebbe
invece dovuto indicare 1.000)  viene annullato l’avviso bonario e non è emessa cartella di pagamento.
Se invece il contribuente CONTESTA e l’AF non è d’accordo, non si trova una giusta imposta/accordo, se
dunque il contribuente non verserà l’importo richiesto dall’avviso bonario, l’AF non procede ad emettere
un avviso di accertamento, ma procede ad iscrivere al ruolo il contribuente tra i debitori dell’erario e a
notificare questa iscrizione al ruolo tramite una cartella di pagamento (atto autonomamente impugnabile
che se non impugnato è definitivo) a quel punto il contribuente si trova davanti un atto impugnabile e se
intende contestarne il contenuto deve presentare RICORSO CONTRO LA CARTELLA DI PAGAMENTO
RICEVUTO E LA RELATIVA ISCRIZIONE A RUOLO.

2) FASE DEL CONTROLLO FORMALE  non riguarda, come nel caso di controllo automatico tutte le
dichiarazioni presentate dai contribuenti, ma RIGUARDA SOLO UNA SELEZIONE DI DICHIARAZIONE ALLA
LUCE DEI CRITERI SELETTIVI FISSATI DAL MINISTERO, in particolare l’Agenzia alla luce di questi criteri
selezionerà quali sono le dichiarazioni da controllare e andrà ad effettuare il controllo formale.
Il controllo formale in cosa consiste: è disciplinato dall’art. 36-ter del DPR 600/1973.
Il controllo formale consiste nella verifica di alcune singole voci della dichiarazione sulla base di dati
esterni alla dichiarazione stessa. Esempio: abbiamo visto per il controllo automatico ad esempio per le
spese di istruzione/mediche che il sistema in via automatica rileva un errore quando il contribuente pone in
detrazione un importo maggiore rispetto alla detrazione massima ammessa.
Assumiamo che il contribuente invece indichi la detrazione corretta nella percentuale massima indicata
dalla legge, però l’AF intende controllare che effettivamente il contribuente abbia posto in essere delle
spese mediche, e allora chiede in un controllo formale di fornire la documentazione sottostante di prova
delle spese mediche sostenute. Oggi tra l’altro dovrebbero in via automatica dovrebbero essere
riconosciute. Si controllano poi le ritenute d’acconto alla luce di quanto ha dichiarato il sostituto.
Pensiamo alla ritenuta d’acconto nel reddito da lavoro dipendente: abbiamo visto come il reddito da lavoro
dipendente è soggetto ad una ritenuta alla fonte a TITOLO D’ACCONTO (ritorna indietro, prof aveva
sbagliato, è giusto titolo d’acconto, non titolo d’imposta). E il sostituto, cioè il datore, effettua una
dichiarazione. Assumiamo che il sostituto dichiari di aver effettuato ritenute per 100. Il sostituito, il
lavoratore dipendente, quando predispone la propria dichiarazione, indicherà l’importo di 100. Se però
dichiara un importo di 120 c’è DISCREPANZA tra quanto dichiara il sostituto e quanto indica come acconto il
sostituito. Allora in tal caso c’è una verifica attraverso un controllo formale.
Può essere un controllo che riguarda gli oneri deducibili che non sono spettanti in relazione ai documenti
richiesti al contribuente. Può essere anche che venga disconosciuto un credito di imposta.
 E’ UNA FASE PIU AVANZATA PERCHE’ CI SI AIUTA SI CON UNA MACCHINA PERO’ E’ NECESSARIO
L’INTERVENTO DI UNA PERSONA, NON C’è LA POSSIBLITA DI CONTROLLARE IN VIA FORMALE TUTTE LE
DICHIARAZIONI.
Come si conclude questo controllo? Anche qui con un cd. Avviso bonario; in caso il contribuente non sia
d’accordo, con una iscrizione al ruolo e la notifica al contribuente tramite cartella di pagamento.
Può porsi un PROBLEMA: di cosa succede quando l’AF proceda direttamente l’iscrizione al ruolo tramite
cartella SENZA INVIARE l’avviso bonario. Ci sono delle sentenze in tema di controllo formale che
stabiliscono che la cartella di pagamento non preceduta da questa fase di confronto bonario tra
contribuente e AF sarebbe NULLA  è nulla la cartella e l’iscrizione al ruolo. (Non tutte sentenze però)

3) FASE DEL CONTROLLO SOSTANZIALE  Il controllo sostanziale, come quello formale, è un controllo
che viene effettuato non su tutti i contribuenti ma su una selezione alla luce di criteri selettivi fissati a
livello ministeriale. E’ la terza fase; è svolta dall’Agenzia delle entrate o dalla Guardia di finanza. E’ una fase
fondamentale perché è la fase di controllo più invasiva e abbiamo una vera e propria attività di verifica nei
confronti del contribuente (accessi, ispezioni, verifiche poste dall’AF per verificare la correttezza di quanto
indicato dai contribuenti). Si usa in primo luogo per il controllo l’Anagrafe fiscale: è una banca dati a
disposizione dell’AF che contiene tantissime informazioni sui contribuenti. E’ indicato residenza, domicilio,
ma più in generale tutte le informazioni possedute (proprietà, beni mobili o immobili registrati che l
contribuente detiene, sono elencate varie spese ecc)  utilizzando queste informazioni è possibile dunque
procedere all’accertamento del contribuente. Come attività di verifica, la meno invasiva all’interno di tale
controllo sostanziale, è la verifica dell’anagrafe fiscale (principale banca dati).
Successivamente poi con strumenti maggiormente invasivi, c’è la possibilità per l’AF di inviare al
contribuente dei questionari: il questionario sarà ricevuto presso il proprio domicilio fiscale dal
contribuente e contiene una serie di domande. Ad esempio se assumiamo che un contribuente ha posto in
essere delle spese eccessive e non ha un reddito per acquistare quelle cose (es immobile) ed è stato
assunto un credito per farlo, allora l’AF può andare al contribuente una domanda/questionario in cui chiede
di giustificare come il contribuente ha potuto acquistare l’immobile. A tal punto egli deve rispondere al
questionario (altrimenti sanzionato); se risponde può ad esempio dire che l’immobile l’ha acquistato
tramite una donazione indiretta da parte di sua madre per esempio. E allora è del tutto legittimo.
Oppure non risponde, o risponde in modo insoddisfacente  terminata questa fase l’AF allora potrebbe
convincersi ad emettere un Avviso di accertamento, che è l’atto in positivo che contiene la pretesa fisale,
oppure può continuare con una attività di verifica.
NB. Cosa succede se l’AF in sede di verifica chiede al contribuente un documento specifico o chiede una
informazione specifica? La conseguenza, se il contribuente non la fornisce, è che
quell’informazione/documento non può più essere prodotta in seguito!!! Ne nella fase procedimentale ne
in quella successiva processuale. Questo ovviamente PURCHE’ la richiesta sia SPECIFICA (non deve essere
un questionario generico, es di mostrare il singolo movimento bancario è specifico da cui è stato acquistato
un immobile).
Inoltre altra situazione è quella per cui l’AF chiede un documento specifico ma che è già in possesso della
pubblica amministrazione: la preclusione non opera perché a monte l’AF non può chiedere quel documento
perché è già in possesso di questo.
ANCHE I SOGGETTI TERZI POSSONO ESSERE CHIAMATI A COLLABORARE: coloro che svolgono funzioni
pubbliche come il notaio ad esempio può essere chiamato, o anche terzi in relazione ai rapporti che questi
hanno avuto col contribuente. Questi soggetti possono essere interpellati dall’AF per collaborare
all’indagine che stanno ponendo in essere nei confronti del contribuente.

Proseguendo nelle tipologie di controllo sostanziale poi, ulteriore tipologia di controllo molto importante è
il controllo o la verifica bancaria (premettendo che il segreto bancario non esiste per l’AF).
Come avviene il controllo bancario: assumiamo che l’AF intenda procedere ad un controllo bancario di un
singolo contribuente. Invia una richiesta a tutti gli istituti di credito per chiedere quale istituto bancario ha
rapporti con questo contribuente e di dargli tutte le informazioni. allora risponderanno gli istituti finanziari
obbligatoriamente, produrranno conti correnti, le movimentazioni finanziarie, tutto ciò che serve per
mostrare la posizione finanziaria del contribuente. A questo punto il contribuente ancora non sa nulla
perché viene informato in questa fase dall’intermediario finanziario che ha l’obbligo di informare il
contribuente: è la banca che informa lui. Una volta che l’amministrazione finanziaria ha raccolto i dati
bancari del singolo, sono previste/può applicare 2 presunzioni legali ex art. 32 DPR 600/1073
1) Presunzione che opera con riferimento a tutti i contribuenti: sono ambedue presunzioni legali RELATIVE,
cioè suscettibili di prova contraria da parte del contribuente. La presunzione suddetta è quella secondo cui
“le entrate finanziarie si considerano reddito salvo prova contraria”  se vi è una entrata, è depositato un
certo ammontare di denaro in un conto corrente, o un soggetto terzo opera un bonifico nei confronti del
contribuente, quegli importi si considerano reddito salvo prova contraria. Come può superare la
presunzione il contribuente? Può dimostrare che quegli importi si sono reddito, ma che sono stati dichiarati
già nella dichiarazione. Oppure può dimostrare che quel versamento o quella somma ricevuta non è
ricevuta a titolo di reddito ma per altre ragioni, può essere un prestito, che quindi dovrà essere restituito,
oppure può essere una donazione da parte di una nonna e il contribuente versa tale somma sul conto
corrente, ecco è chiaro che essendoci una presunzione questa è correlata con la materia della prova,
perché in base alla presunzione legale è sufficiente dimostrare che c’è il versamento e l’onere a quel punto
sta sul contribuente DIMOSTRARLO  ogni volta che si movimenta in entrata il conto corrente bisogna
tenere conto che il contribuente può essere chiamato a dare una giustificazione delle somme entrate.
2) Presunzione che opera con riferimento solo agli imprenditori(coloro che realizzano reddito d’impresa):
la presunzione è che “le uscite finanziarie sono reddito salvo che il contribuente non dimostri chi è il
destinatario delle somme di denaro che sono state prelevate”. Questa presunzione è molto particolare, è
molto intuitivo il ragionamento del legislatore per le entrate: se c’è un arricchimento c’è un reddito
potenziale. Mentre più complesso è questo caso delle uscite, perché da una uscita conseguirebbe un
reddito. Esempio: imprenditore che va in banca, preleva 10.000 euro, e l’AF presume da questo prelievo
che quell’imprenditore abbia un reddito di 10.000 euro. Perché? Perché il legislatore di fatto applica
implicitamente una doppia presunzione: presume che
1) che da quel prelievo di 10.000 euro sia effettuato un acquisto in nero
2) che dall’acquisto in nero presume poi che sia ottenuto un ricavo in nero.
Esempio: assumiamo il meccanismo che intende cambiare i cilindri di un auto in nero. Verosimilmente ha
bisogno di acquistare dei cilindri in nero per rivenderli in nero. Cosa può fare il meccanismo che vuole
effettuare questa prestazione: deve appunto acquistarli in nero, se invece li acquistasse in maniera
legittima rimarrebbero nelle scritture contabili come abbiamo visto tempo fa. Allora va in banca, preleva il
denaro sufficiente per effettuare l’acquisto, poniamo 1.000 euro, e poi li acquista per 1.000, e poi rivenderà
il servizio in nero per 2.000. Ecco, questo è il fenomeno che il legislatore ha in mente con la presunzione: un
soggetto imprenditore che preleva del denaro e che ha una uscita finanziaria e che effettua un acquisto in
nero per ottenere ricavo in nero. Ecco perché da un prelevamento il legislatore presume un reddito.
Come si supera questa presunzione? Si può superare andando ad indicare e dimostrare i beneficiari delle
somme di denaro prelevate. Se io dimostro di aver prelevato 10.000 e lo stesso giorno mostro di aver
acquistato beni e vestiti per 10.000 euro, dimostrerò il flusso di denaro, come l’ho utilizzato.
Quindi questa presunzione opera solo per gli imprenditori mentre in passato operava anche per i lavoratori
autonomi (poi dichiarato CC incostituzionale).
Il legislatore però si accorge del problema: l’imprenditore non può più andare a prelevare 500 euro per le
spese es del bar/ristorante perché si applica la presunzione. Allora ha previsto dei LIMITI per cui
l’imprenditore può prelevare fino a 1.000 per ciascun giorno, e nell’ambito di un mese può prelevare fino a
5.000 euro!!! Al di sotto non opera la presunzione. Al di sopra si (che è sempre relativa, sicuramente
l’imprenditore deve però stare attento perché può essere chiamato a dimostrare l’uscita bancaria).
 Queste le indagini bancarie.
Però poi vi sono le VERIFICHE vere e proprie: accessi, ispezioni, controlli. Questa attività di verifica si
conclude con un processo verbale di constatazione. E’ un documento redatto a fine verifica per fare un
resoconto di tutte le attività di verifica poste in essere. Tale processo verbale è richiesto in una serie di
ipotesi e contiene tutti i fatti e anche qualche qualificazione giuridica. NON è un atto impugnabile dal
contribuente, per ottenere giustizia deve attendere di ricevere un avviso di accertamento e impugnare
questo atto positivo. Il processo verbale di constatazione non è un atto in positivo.
NB Il domicilio è inviolabile: l’AF non può effettuare la verifica presso l’abitazione di un determinato
soggetto salvo autorizzazione motivata da parte dell’autorità giudiziaria.
Cosa succede se la verifica è effettuata lo stesso? La conseguenza è che tutta la documentazione e le
informazioni reperitevi, non possono essere utilizzate dall’AF.
Non serve invece l’autorizzazione per accedere presso la sede legale dell’impresa.
Ciò per tutelare il segreto professionale.
Anche per aprire una cassaforte serve un provvedimento dell’autorità giudiziaria, diciamo che è necessario
in sede di verifica stare molto attenti che l’AF abbia le adeguate autorizzazioni altrimenti la sanzione per
l’AF è appunto non poter utilizzare le prove raccolte. L’art. 12 dello Statuto è un articolo che regola proprio
l’accesso in modo tale che non sia turbata l’attività lavorativa (orari prestabiliti, giorni prestabiliti, no
turbare attività di impresa ecc). una volta terminata l’attività di accesso vi è il processo verbale di
constatazione da cui poi decorrono quei 60 giorni per presentare osservazioni o richieste.
Se il contribuente le presenta, l’AF ne deve tenere conto quanto emette l’avviso di accertamento.
Se non le presenta, decorsi 60 giorni, l’AF riceve il processo verbale di constatazione redatto dai verificatori
e deciderà se emettere l’avviso di accertamento.

LEZIONE 17, AVVISO DI ACCERTAMENTO: CONTENUTO


Il tema dell’avviso di accertamento è centrale nella dinamica dell’imposta e in generale per il diritto
tributario. Abbiamo visto come la dinamica dell’imposta si divida in più fasi:
in una prima fase abbiamo parlato dell’attività amministrativa in generale, dei rapporti amministrazione
finanziaria-contribuente (1), poi abbiamo visto gli obblighi del contribuente (2), abbiamo poi esaminato
l’attività istruttoria (3 fase). Ora vediamo la fase dell’avviso di accertamento: cioè l’attività conclusiva da
parte dell’amministrazione finanziaria (4).
Tutte le fasi poi si accompagnano alla RISCOSSIONE delle imposte che vedremo successivamente (5).

Che cos’è l’AVVISO DI ACCERTAMENTO  che natura ha?


E’ l’eventuale ultima fase del procedimento amministrativo tributario; “eventuale” perché potrebbe essere
che il contribuente ha presentato la dichiarazione, viene effettuata una attività istruttoria, e
l’amministrazione finanziaria non rileva alcun che.
Se invece rileva uno scostamento tra un reddito accertato-quello che è stato dichiarato, allora si ha questa
ultima fase del procedimento.
NATURA:
L’avviso di accertamento è un atto amministrativo, espressione però di una funzione vincolata.
Sotto questo profilo, l’avviso di accertamento si discosta dagli altri atti amministrativi DISCREZIONALI,
quindi non abbiamo nell’avviso discrezionalità. Lo abbiamo visto quando abbiamo parlato dell’attività
amministrativa, che è una attività vincolata nel contenuto, alla luce dell’art. 23 Cost, per cui nessuna
prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge.
Ciò significa ad esempio che non esiste in materia di avviso di accertamento il vizio di potere come invece
esiste per gli atti amministrativi che hanno contenuto discrezionale.
Nella normalità dei casi, la dichiarazione esaurisce da sola la fattispecie dell’obbligazione tributaria, perché
alla dichiarazione non segue un atto dell’amministrazione finanziaria. Quando però si presenta una
dichiarazione inesatta o non si presenta una dichiarazione che sarebbe dovuta essere presentata, allora l’AF
a seguito di attività istruttoria emette avviso di accertamento in rettifica della dichiarazione presentata o
in sua vece in caso di omessa dichiarazione. Secondo la teoria costitutiva di cui abbiamo parlato in
relazione all’obbligazione tributaria, l’accertamento è COSTITUTIVO dell’obbligazione tributaria: cioè
quell’atto che insieme al presupposto rende dovuta l’obbligazione tributaria.
Quando infatti abbiamo parlato di presupposto abbiamo visto come è il fatto generatore di tributo, ma al
fine che l’obbligazione tributaria sia dovuto è necessario un atto giuridico intermedio (dichiarazione o
accertamento). Parliamo anche di “ATTO IN POSITIVO”, “ATTO DI IMPOSIZIONE” perché si impone il
pagamento del tributo in supplenza della dichiarazione.
DI COSA SI COMPONE:
L’avviso di accertamento si compone di 2 parti:
1) IL DISPOSITIVO  Nelle imposte sui redditi, il dispositivo è la Determinazione quantitativa della
maggiore imposta. Ovviamente in una imposta sul reddito capiamo subito in cosa consiste il dispositivo.
Avremo quindi l’Imponibile (dato dalla sommatoria dei redditi delle varie categorie o la perdita se abbiamo
una perdita), gli Oneri deducibili, l’Aliquota applicata (a quel punto si determina l’imposta). Poi abbiamo le
Detrazioni, poi gli Acconti, e poi i Crediti di imposta  E’ COME SI DETERMINA L’IMPOSTA DA VERSARE IN
SEDE DI ACCERTAMENTO, E’ L’AMMINISTRAZIONE FINANZIARIA CHE RIDETERMINA L’IMPOSTA DA
VERSARE.
+ Fondamentale però è sapere che vi siano degli avvisi definiti “senza imposta”, cioè parliamo di avvisi che
non hanno nel dispositivo la determinazione dell’imposta ma si limitano ad una prima parte di
determinazione dell’imponibile o della perdita. Abbiamo dispositivi senza imposta
A. Nelle imprese in perdita.
B. In tutti gli accertamenti emessi nei confronti delle società di persone  soggetti fiscalmente trasparenti,
abbiamo visto come queste società di persone devono determinare il reddito imponibile che per le società
commerciali è un reddito di impresa nella maggior parte dei casi, e una volta determinato il reddito sono i
soci che devono dichiarare l’imposta. Quindi l’accertamento emesso nei confronti delle società di persone
sarà un accertamento senza imposta, che determina soltanto il maggior imponibile ma che non può
determinare una imposta perché non c’è una imposta che si applica alle società di persone.
Vi saranno poi ulteriori avvisi di accertamento che saranno emessi nei confronti dei soci della società di
persone, in cui si determina -alla luce del maggior imponibile determinato nei confronti della società di
persone- la imposta.

La parte dispositiva nelle imposte DIVERSE da quella sui redditi ad esempio nell’IVA sarà diversa: qui
avremo una ricostruzione delle operazioni imponibili ai fini dell’IVA, una ricostruzione delle operazioni
escluse, delle operazioni esenti, e poi una determinazione dell’IVA a debito e dell’IVA a credito.

Nell’imposta di registro un eventuale avviso di accertamento si sostanzia nella determinazione di un valore


del bene o del diritto sottoposto alla registrazione diverso. Ad esempio abbiamo nell’imposta di registro
una compravendita immobiliare, e un avviso di accertamento potrebbe determinare un maggior valore
dell’immobile e quindi una diversa imposta di registro.
2) LA MOTIVAZIONE  come ogni provvedimento amministrativo, anche l’avviso di accertamento deve
indicare le ragioni di fatto e di diritto della pretesa fiscale, cioè le ragioni giuridiche che hanno determinato
la decisione dell’amministrazione finanziaria. Questo ovviamente deve essere collegato con le risultanze
dell’attività istruttoria. Una volta terminata questa, si motiva l’avviso di accertamento.
Quindi si conterranno tutti i fatti che hanno dato luogo alla rettifica e ovviamente le disposizioni normative
che secondo l’agenzia delle entrate sono state erroneamente applicate dal contribuente.
La motivazione è richiesta A PENA DI NULLITA’ dell’avviso di accertamento: se non è motivato, è nullo;
Nullo non significa però nullità civilistica, ma significa che il contribuente dovrà comunque impugnare
davanti a una commissione tributaria l’avviso di accertamento e chiederne la dichiarazione di nullità, cioè
chiede di annullare l’atto (annullamento e nullità sotto tale profilo considerati sinonimi).
La motivazione perché è necessaria? Il contribuente deve conoscere le motivazioni per esercitare il proprio
diritto di difesa, deve essere in grado di adottare la migliore strategia difensiva (che può essere prestare
acquiescenza, presentare un ricorso, chiedere annullamento in autotutela). Tramite una motivazione può
conoscere le ragioni ed esercitare il suo diritto di difesa. E nel momento in cui sceglie la sua strategia e
quindi ricorre contro un avviso di accertamento chiedendone l’annullamento, deve conoscere la
motivazione della pretesa per esporre al giudice dell’annullamento i motivi della domanda.
Quindi la necessità che sia tutelato il diritto di difesa è il parametro che serve per determinare se la
motivazione è sufficientemente ampia o meno: quando ci si chiede se una motivazione di un attivo è
sufficiente per garantirne la legittimità dell’avviso, (sotto il profilo della motivazione, non del contenuto)
allora bisogna chiedersi se quella motivazione è sufficiente per esercitare il diritto di difesa.
Se la motivazione non è sufficiente perché non permette di esercitare il diritto di difesa, l’atto è nullo e va
impugnato.
La motivazione è richiesta, a pena di nullità, da una serie di norme:
Art. 3 legge 241/1990  Legge sui procedimenti amministrativi, applicabile anche al diritto tributario.
Art. 7, co1, Statuto dei diritti del contribuente  Legge 212/2000
Le singole leggi di imposta: es in materia di imposta sui redditi Art. 42, DPR 600/1973.
 SERIE DI NORME CHE FANNO RIFERIMENTO ALLA MOTIVAZIONE.
Quando si parla di motivazione si fa spesso riferimento a 2 motivazioni diverse
1) Motivazione per relationem  motivazione che rinvia ad un altro atto.
Ed è legittima solo a determinate condizioni. La motivazione per relationem di un avviso di accertamento si
ha quando all’interno dell’avviso di accertamento si indica che in relazione alla motivazione della pretesa si
rinvia ad un atto diverso. E’ legittima, si, se ricorrono certe condizioni: cioè se l’Atto a cui si rinvia deve
essere conosciuto al contribuente e questo avviene in 2 modi
- o è già stato portato a conoscenza del contribuente
- o viene allegato all’avviso di accertamento stesso.
CASO TIPICO: quello al cui al termine di una verifica di redige un processo verbale di constatazione che già
contiene una serie di fatti ed argomenti, e nell’avviso di accertamento si fa riferimento al processo verbale
di constatazione. Questa motivazione per relationem è legittima purchè il processo verbale di
constatazione sia conosciuto al contribuente (notificato o controfirmato perché ne ha presa copia,
altrimenti deve essere allegato ad avviso di accertamento).
+ E’ prevista anche la possibilità di riportarne il contenuto essenziale, ma il tal caso conta la motivazione
nella sua essenzialità, cioè conta la motivazione come è stata esposta nell’avviso di accertamento.
Se il contribuente non ha conoscenza dell’atto a cui si rinvia, la motivazione è illegittima.
Esempio: avviso di accertamento che fa riferimento alle risposte date ad un questionario che però non era
rivolto al contribuente accertato (destinatario dell’avviso) ma inviato ad un contribuente terzo.
Siccome queste risposte non erano conosciute dal contribuente la motivazione dell’avviso è nulla.
2) Motivazione rafforzata  è una motivazione che viene data “rafforzata” in risposta a degli argomenti
esposti dal contribuente in sede di contraddittorio. La motivazione rafforzata si deve avere quando il
contribuente ha partecipato al contraddittorio. Una volta ad esempio consegnato il processo verbale di
constatazione nei 60 giorni a disposizione il contribuente presenta delle osservazioni. Ecco che l’Agenzia
delle entrate ne deve tenere conto di queste, quindi nell’avviso di accertamento non si deve limitare a
rinviare a processo verbale di constatazione o riportarne il contenuto essenziale, ma deve anche dare
risposta alle osservazioni fatte dal contribuente!!
Un avviso di accertamento senza motivazione rafforzata è sempre, a modo di vedere del prof, nullo.
Non permette infatti l’esercizio del diritto di difesa pienamente.

La motivazione è in un certo senso il collegamento tra ATTIVITA’ ISTRUTTORIA-PROCESSO TRIBUTARIO:


La motivazione trova la sua fonte nell’attività istruttoria, ed essa costituisce anche un collegamento col
successivo processo tributario. Nel processo tributario l’onere della prova ricade sull’amministrazione
finanziaria: è lei che deve provare un maggior reddito rispetto a quello dichiarato dal contribuente, oppure
rispetto al reddito che non è stato del tutto dichiarato.
Sarebbe assurdo pensare che sia consentito all’AF semplicemente di denunciare ed affermare un maggior
reddito senza darne la dimostrazione, perché in tal caso si addossa al contribuente la prova che un tale
reddito non è stato realizzato, ma la prova di un fatto negativo è una prova diabolica, quindi non potrebbe
essere fornita e ci sarebbe lesione di diritto di difesa  ecco perché l’onere ricade sull’AF.
Questo significa che la prova deve essere precostituita dall’AF nella fase istruttoria. In questa logica se
valutiamo la motivazione sotto questo profilo di collegamento, la motivazione è una serie di passaggi logici
concatenati che devono chiudersi con dei riferimenti a dei documenti che non sono necessariamente
allegati all’avviso di accertamento (perché già conosciuti). A quel punto se tutti i documenti e i fatti non
sono contestati dal contribuente, la motivazione assolve all’onere della prova, se invece sono contestati il
fisco in giudizio deve fornire la prova (ecco il collegamento) presentando documenti che comprovano i
propri ragionamenti. Abbiamo quindi una attività istruttoria dove l’AF si dovrà precostituire alla prova in
giudizio, e la motivazione che descrive gli argomenti giuridici e descrive perché alla luce di quella prova
precostituita si è convinta che vi sia una maggiore pretesa fiscale.

Se i fatti non sono contestati, la motivazione assolve anche all’onere della prova in un certo senso: l’onere
della prova è assolto. Quando si riceve quindi l’avviso di accertamento è necessario leggere con attenzione
per contestare tutti gli elementi di fatto che non corrispondono al vero. E’ chiaro che in realtà è difficile che
vi siano dei fatti completamenti non corrispondenti al vero, e in una logica difensiva non ha senso
contestare dei documenti o dei fatti di cui non si può negare l’esistenza, perché poi l’AF si troverebbe a
fornire la prova in giudizio. Se l’AF come presupposto di fatto della sua motivazione ad esempio mi dice che
la mia impresa ha 10 dipendenti e io so che è vero, è inutile contestare che ci sono 10 dipendenti, perché in
giudizio l’AF proverà che ci sono 10 dipendenti e negare l’evidenza è sintomo di scarsa buona fede ed è
controproducente.
Cosa deve contestare il contribuente quando invece i fatti sono veri? Deve contestare l’interpretazione
delle circostanze di fatto. Sempre assumendo es che ci sia una officina di riparazione di auto e l’AF ci dice
che l’officina ha un maggior reddito rispetto a quanto dichiarato, moltiplicando le tariffe orarie x numero di
addetti secondo una media di 6h lavorative: cioè l’agenzia delle entrate fa questo ragionamento, dice che ci
sono 10 dipendenti, lavorano 6h al giorno ciascuno, assumiamo che la tariffa oraria sia di 50h, allora
abbiamo 60h al giorno dei 10 dipendenti che moltiplicate per tariffa oraria fa 3000 euro al giorno di ricavi.
Il contribuente si trova questa motivazione: la motivazione non fornisce che vi sono 10 addetti, perché la
prova è stata precostituita dall’amministrazione in sede di verifica, allora il contribuente che in effetti ha 10
addetti non ha un vantaggio a contestare questo dato di fatto e smontare la motivazione, altrimenti l’AF
quando si costituisce in giudizio formerà la prova che si era precostituita nell’attività istruttoria. Potrebbe
allora smontare il ragionamento dell’amministrazione dicendo che gli studi di settore sono in realtà
coerenti quindi da un esame delle caratteristiche complessive della impresa i redditi sono assolutamente
sufficienti e che quindi le conclusioni sono opposte rispetto a quelle a cui è arrivata l’AF, oppure si può dire
che si ci sono 10 dipendenti ma lavorano in maniera occasionale quindi non 6h al giorno tutti, ecco che si
cerca di smontare il ragionamento più che contestare il fatto che è certamente vero  piuttosto quindi si
contestano i fatti che non sono veri e si contestano i ragionamenti.
Quindi la motivazione deve permettere queste contestazioni.

L’avviso di accertamento, oltre alla motivazione e al dispositivo, i 2 contenuti essenziali,


contiene altresì anche se non a pena di nullità, altri elementi minori:
- Deve contenere l’ufficio al quale rivolgersi per ottenere un riesame dell’atto notificato
- Deve contenere il responsabile del procedimento
- Deve contenere l’organo presso il quale è possibile promuovere un riesame in autotutela dell’atto
- Deve contenere le diverse ipotesi di conteggio che l’avviso di accertamento comporta ecc.
 Serie di informazioni contenute in calce nell’ultima parte dell’avviso di accertamento, anche se non a
pena di nullità. Quindi 1. Motivazione 2. Dispositivo, 3. Elementi minori ma non richiesti a pena di nullità.

COME VIENE AD ESISTENZA L’AVVISO DI ACCERTAMENTO:


L’avviso di accertamento viene ad esistenza con la notificazione. La notificazione è la procedura che porta
a conoscenza del contribuente l’atto in positivo, ed è regolata dall’art. 60 del DPR 600/’73, che in realtà
rinvia al codice di procedura civile, salvo alcune deroghe.
La deroga più rilevante è quella di permettere la possibilità di notificare l’avviso di accertamento tramite
messi comunali o messi speciali autorizzati dall’agenzia delle entrate.
La notificazione deve avvenire presso il domicilio fiscale (nozione diversa sia dal domicilio civilistico sia dalla
residenza fiscale), cioè una nozione di diritto formale (per i residenti è il comune dove vi è l‘iscrizione
anagrafica, per i non residenti è il comune dove è stato prodotto il reddito. Per i residenti il collegamento è
basato quindi su un dato di natura personale, per i non residenti conta il luogo di produzione del reddito
perché non sono iscritti all’anagrafe della popolazione residente ecc), salvo il caso della consegna a mano.
Questo significa che il legislatore presuppone che vi sia sempre un domicilio fiscale.
Se nel comune del domicilio fiscale non esiste un luogo dove può esser recapitato l’avviso di accertamento,
si applica la procedura di “notifica per gli irreperibili”: l’atto è depositato in comune, l’avviso è depositato
presso l’albo comunale, e viene inviata una raccomandata al destinatario.
Questa è l’irreperibilità definitiva. Mentre l’irreperibilità provvisoria del contribuente che non si trova a
casa quando gli viene notificato un determinato atto, non si applica la stessa procedura, si può lasciare
copia dell’avviso presso l’ufficio comunale lasciando un avviso un’altra nella casella di posta e inviando un
ulteriore raccomandata al contribuente specificando che è stata lasciata copia di avviso di accertamento
presso l’ufficio postale. In tal caso la notifica di ha per avvenuta quando il contribuente ritira l’avviso di
accertamento o se precedente 10 giorni successivi alla notifica della seconda raccomandata.
 Vi è un termine il dies a quo da cui decorrono i termini di accertamento appunto quello in cui il
contribuente a conoscenza, che è o quello in cui ritira l’atto presso l’ufficio postale o se successivo il 10
giorno successivo a quello cui in cui è stata notificata l’avviso che è stata depositata la raccomandata.

L’avviso, per essere esistente, 1. Deve Essere notificato


2. Deve anche contenere gli ELEMENTI ESSENZIALI per essere riconoscibile come avviso di accertamento.
Devono esserci il mittente, il destinatario (se il destinatario è ignoto, l’avviso di accertamento non esiste),
deve avere le caratteristiche fondamentali, deve essere riconoscibile.
La notifica, il fatto che viene portato a conoscenza, deve avvenire ENTRO UN CERTO TERMINE previsto a
PENA DI DECADENZA  questo vuol dire che se l’agenzia delle entrate notifica un avviso di accertamento
fuori termine, il contribuente deve impugnare l’avviso di accertamento e denunciare la decadenza della
agenzie delle entrate dal potere di emettere l’avviso di accertamento.
Quindi non può chi riceve un avviso fuori termine semplicemente “ignorare” l’avviso, in realtà l’avviso
notificato fuori termine ESISTE e deve essere impugnato per denunciare il vizio dell’avviso stesso.
Qual è il termine? Negli anni ci sono state varie modifiche, al momento la regola generale è quella secondo
cui l’avviso di accertamento va notificato entro il 31 dicembre del 5 anno successivo a quello della
presentazione della dichiarazione, o se la dichiarazione non è stata presentata, entro il 31 dicembre del 7
anno successivo a quello in cui la dichiarazione avrebbe dovuto essere presentata.
Quindi c’è questo termine entro cui l’agenzia per una questione di certezza dei rapporti giuridici deve
notificare un eventuale avviso di accertamento.

Gli avvisi di accertamento possono avere vari vizi: l’atto esistente sia nullo o annullabile (non conta molto
la differenza) va comunque impugnato. Diverso è invece il caso dell’atto che non esiste, perché non ha gli
elementi essenziali per essere qualificato come avviso di accertamento.
L’atto non notificato non deve essere impugnato, il contribuente non ne è venuto a conoscenza.
L’atto che non è riconoscibile come tale perché manca magari il mittente o il destinatario ecc non va
impugnato.
L’atto invece PRIVO DI MOTIVAZIONE è invece un atto che ha i suoi elementi essenziali ma presenta un
vizio, che rende nullo l’atto impugnato, CHE PERO’ DEVE ESSERE IMPUGNATO.
Quindi ricordiamoci che
-quando l’atto è inesistente, l’atto non esiste nel mondo giuridico e non deve essere impugnato;
-quando l’atto presenta un vizio che comporta nullità o annullabilità, è necessario impugnarlo;
(come il caso dell’atto notificato fuori dal termine di decadenza, l’atto privo di motivazione ecc).
Quando abbiamo un vizio di contenuto, sostanziale, di merito e così via, pensiamo all’agenzia delle entrate
che interpreta in modo errato a giudizio del contribuente una disposizione normativa e giunge a conclusioni
errate  è un vizio che si denuncia impugnando l’avviso di accertamento e chiedendo l’annullamento
dell’avviso di accertamento per violazione di una norma di legge mal interpretata dall’agenzia delle entrate.
Per i vizi invece formali (che riguardano la FORMA dell’atto di accertamento, come il vizio di motivazione
per eccellenza) bisogna distinguere
A) Ipotesi in cui la legge prevede come sanzione di un determinato vizio la nullità dell’atto  es l’atto non
motivato è nullo e ce lo dice la legge stessa
B) Casi in cui il legislatore non dice nulla  non prevede le conseguenze del vizio, allora occorre valutare di
volta in volta. Ad esempio sappiamo che il legislatore prevede un termine di 60 giorni tra il processo verbale
di constatazione di chiusura della verifica e l’avviso di accertamento (art 12 Statuto), perché bisogna dare il
tempo al contribuente di fornire le osservazioni. Ecco in quel caso il legislatore prevede un Vizio possibile
dell’atto, cioè l’atto notificato prima del decorso dei 60 giorni, ma non prevede/dispone una nullità
testuale, non è indicato nel testo della norma che se non è rispettato il termine vi è nullità.
La giurisprudenza si è interrogata al riguardo e poi ci fu una sentenza delle SU che definisce che l’avviso
notificato prima del termine di 60 giorni (che non sia di necessità e di urgenza) è un avviso nullo e che
quindi va annullato. Perché questo? Si tratta di un vizio che riguarda una norma procedurale a tutela del
contribuente. Ecco che per tutti i vizi che riguardano norme procedurali a tutela del contribuente la
conseguenza non può che essere una conseguenza che comporta l’invalidità dell’atto in positivo.
Per altre violazioni procedurali invece non vi è invalidità, per violazioni procedurali che non hanno a che
vedere con la tutela del contribuente ma riguardano magari metodologie interne dell’AF, allora queste non
comportano la nullità dell’atto, ma al più comporterà una sanzione sotto il profilo della responsabilità
dell’autore di questa.

ALTRA PECULIARITA CHE SPESSO ACCADE: è quella di denunciare un vizio di notifica.


Supponiamo che un mio cliente viene da me con un avviso di accertamento notificato in modo irrituale
(senza seguire quelle procedure, ad esempio spedito per posta ordinaria senza notifica e senza le
necessarie procedure d’invio). Il contribuente potrebbe dire “c’è una notifica irrituale”.
Allora cosa fare: l’avvocato poco attento denuncia un vizio di notifica e impugna l’atto.
MA in realtà è poco attento perché l’IMPUGNAZIONE DI UN ATTO NOTIFICATO IRRITUALMENTE SANA LA
NOTIFICA IRRITUALE EX NUNC  dal momento in cui impugno l’atto secondo la giurisprudenza viene
sanato il vizio di notifica, perché impugnando l’atto stiamo dando prova di conoscerne il contenuto.
Quindi se si ha un vizio di notifica
- o non si impugna l’atto ma bisogna esser certi che il vizio di notifica comporta inesistenza dell’atto
- o se si ha il dubbio che questo comporti inesistenza dell’atto e si impugna il vizio di notifica, il ricorso
SANA il vizio di notifica ex nunc (dal momento in cui si presenta il ricorso), bisogna stare attenti.
Quindi una strategia difensiva quale può essere  se si riceve l’avviso di accertamento in procinto della
scadenza del termine di notifica (visto prima), assumiamo che il 20 dicembre mi viene notificato l’avviso ma
la notifica è irrituale (e questo è un caso tipico), in tal caso il contribuente può impugnare l’avviso di
accertamento nel gennaio dell’anno successivo, quando i termini sarebbero decaduti dell’AF per notificare
l’avviso di accertamento, denunciando 2 vizi
- non solo quello di notifica irrituale
- ma anche la tardività della notifica (che lede il diritto di difesa perché il contribuente non conosce atto)
Siccome la notifica viene sanata ex nunc, è quello il momento in cui conta l’effettiva conoscenza. E se quel
momento è successivo al 31 dicembre quindi al di fuori del termine di decadenza, allora significa che
l’avviso di accertamento sarà dichiarato nullo denunciando questi due vizi, da un giudice tributario perché
appunto quando il contribuente lo impugna (e in quel momento prova di conoscerne il contenuto), in realtà
il termine per notificare l’avviso di accertamento era già scaduto.
Quindi denunciando questi doppi vizi si supera il problema.

L’atto di accertamento diventa definitivo quando sono decorsi i termini di impugnazione.


L’avviso di accertamento deve essere impugnato entro 60 giorni (termine ordinario di impugnazione); se
decorre tale termine, l’avviso è definitivo.
Diventa altresì definitivo quando viene impugnato ma una sentenza passata in giudicato conferma l’avviso
di accertamento, o meglio rigetta il ricorso contro l’avviso di accertamento.
UNA VOLTA DEFINITIVO, NON VI SONO PIU RIMEDI. L’unico rimedio resta l’annullamento in autotutela,
quindi una richiesta di annullare in autotutela un determinato atto, che può essere sempre presentata
purchè non ci sia un giudicato su quello specifico profilo su cui si chiede l’annullamento in autotutela.
Vi è una UNICA deroga alla definitività, che è quella in caso di obbligazioni solidali: il giudicato favorevole
nei confronti di un co-obbligato ha effetto anche nei propri confronti. Se ci sono 2 co-obbligati e uno
ottiene una sentenza favorevole che passa in giudicato, il giudicato favorevole si estende anche all’altro.

DA POCHI ANNI  L’avviso di accertamento in materia di IRPEF, IRES e IRAP è anche “TITOLO ESECUTIVO”
 cioè l’avviso di accertamento conterrà una intimazione ad adempiere e conterrà altresì l’avviso che se
entro 30 giorni dal termine di pagamento non avviene il pagamento, la riscossione è affidata all’agenzia
delle entrate. In caso invece di impugnazione, questa di per sé non sospende la riscossione, ma è previsto
dalla legge che ci siano 180 giorni di sospensione ex lege.
 Quindi abbiamo:
-Avviso di accertamento in materia di IRPEF, IRES, IRAP, che è anche titolo esecutivo.
-Però deve contenere l’intimazione ad adempiere e l’avviso che entro 30 giorni dal termine di pagamento la
riscossione è affidata all’agenzia della riscossione.
-In caso di impugnazione dell’avviso, l’impugnazione non sospende la riscossione.
-Però vi è una sospensione ex lege delle procedure di pignoramento per 180 giorni.
Ovviamente il contribuente che impugna un ricorso e ritiene completamente infondata la pretesa fiscale,
può chiedere ad un giudice di sospendere la riscossione (allo stesso giudice).

QUANDO SI RICEVE UN AVVISO DI ACCERTAMENTO:


Cosa fare quando si riceve un avviso di accertamento? Quali sono le strategie difensive del contribuente?
Una 1 strategia è quella di impugnarlo: si decide di proporre ricorso entro 60 giorni.
Una 2 strategia è quella di prestare acquiescenza: si aderisce al contenuto dell’avviso di accertamento e si
versa l’importo (o si può anche rateizzare l’importo) richiesto entro il termine di impugnazione dell’atto, 60
giorni, verso l’importo e comunico alle agenzie delle entrate che intendo prestare acquiescenza.
Si può prestare acquiescenza all’intero avviso di accertamento o solamente alle sanzioni.
Cosa si ottiene se si presta acquiescenza? Uno sconto sanzionatorio!!
Se la si presta all’intero avviso di accertamento, il rapporto tributario si definisce  si verserà il tributo
richiesto interamente + le sanzioni ridotte. Se la si presta solo alle sanzioni, si versano le sanzioni ridotte,
ma resta viva la pretesa fiscale. A quel punto il contribuente deve impugnare l’avviso di accertamento con
riguardo solo all’imposta e non alle sanzioni, e se risulta vincitore in giudizio (quindi l’avviso annullato dal
giudice) le sanzioni non vengono più restituite.
Se invece risulta soccombente dovrà versare il tributo ma non le sanzioni in misura piena.
 c’è la possibilità di definire l’avviso nella sua interezza o solo le sanzioni.
Una 3 strategia è quella di presentare istanza di accertamento con adesione: questo però può esser fatto
solamente se non è già stato in precedenza espletata il tentativo di accertamento con adesione.
Abbiamo detto che l’accertamento con adesione può essere attivato dalla agenzia delle entrate o dal
contribuente, sia nella fase prima dell’emissione di un avviso di accertamento, sia nella fase successiva.
Se è già stato attivato nella fase precedente all’emissione dell’accertamento non può essere poi chiesta
l’istanza di accertamento con adesione a seguito della notifica di un avviso di accertamento.
Ricordiamo come la presentazione di una istanza di accertamento con adesione (quando possibile) dopo la
notifica dell’avviso di accertamento, sospende i termini di impugnazione di 90 giorni.
Quindi anziché avere 60 giorni per proporre ricorso, il contribuente avrà a disposizione 60 giorni + 90 giorni
(150gg) per presentare ricorso, perchè in questi 90 giorni ci sarà il tentativo di trovare quel famoso accordo
che non ha natura privatistica (accertamento con adesione) con l’agenzia delle entate.

Per concludere:
ACCERTAMENTO DELLE OBBLIGAZIONI SOLIDALI:
In caso di solidarietà, (in cui abbiamo co-obbligati in solido) l’AF non deve notificare l’avviso di
accertamento a tutti i co-obbligati, cioè non è tenuta a farlo. Può tranquillamente notificarlo ad 1 di loro o a
2 di 3 ecc. Quindi l’unico aspetto è che SE NON NOTIFICA L’avviso di accertamento ad 1 degli obbligati, non
può poi procedere alla riscossione nei confronti di quel co-obbligato. Quindi l’AF è libera di notificare
l’avviso di accertamento a chi vuole tra i co-obbligati, fermo restando che può procedere alla riscossione
solo nei confronti di quei co-obbligati nei cui confronti è stato emesso avviso di accertamento.
Nei confronti degli altri co-obbligati, non può procedere alla riscossione degli avvisi di accertamento,
altrimenti vi sarebbe lesione del diritto di difesa.
“Prassi della supersolidarietà”: quella prassi per cui si procede alla riscossione di tutti, è una teoria
illegittima, dichiarata tale dalla CC svariati decenni fa, proprio per questo.

DIVIETO DI DOPPIA IMPOSIZIONE:


Abbiamo già parlato a riguardo rispetto alla tassazione dei dividenti (divieto di doppia imposizione ma
economica). Qui parliamo di divieto di doppia imposizione giuridica, cioè uno stesso tributo non può essere
applicato 2 volte nei confronti dello stesso soggetto. Non posso assoggettare a tassazione 2 volte il reddito
nei confronti del medesimo soggetto. Questo divieto cosa comporta in materia di accertamento: non si può
accertare 2 volte lo stesso soggetto. L’avviso di accertamento è unico (ex art. 38, co 2, DPR 600/’73).
La notifica deve essere fatta con un unico atto, un secondo atto sarebbe illegittimo.
LEZIONE 18, AVVISO DI ACCERTAMENTO: TIPOLOGIE
Parliamo ora delle TIPOLOGIE DI AVVISO DI ACCERTAMENTO: abbiamo visto la natura, il contenuto, una
serie di caratteristiche, ora invece vediamo i tipi diversi di avvisi.
Ci sono 2 tipologie di classificazioni:
La 1 tipologia è in relazione ai MODI in cui viene determinato l’imponibile da parte dell’AF.
La 2 tipologia è in relazione alle REGOLE che presiedono l’emissione dell’avviso di accertamento stesso.
In base alle regole (2) che presiedono l’emissione dell’avviso, abbiamo 4 macro-categorie:
1. L’accertamento ordinario: l’accertamento che si basa sulle regole ordinarie, cioè a seguito di una verifica
generale effettuata nei confronti di un contribuente viene emesso un avviso di accertamento unico,
complessivo, globale. Questo accertamento si chiama “avviso di accertamento di rettifica” quando è stata
presentata la dichiarazione che viene rettificata, corretta cioè; oppure si chiama “avviso di accertamento
d’ufficio” quando invece non è stata presentata la dichiarazione che avrebbe dovuto essere presentata.
Una volta emesso, non si può più emettere avviso di accertamento, per il principio del divieto di doppia
imposizione, salvo casi particolari.
L’AF esaurisce la sua azione emettendo l’avviso di accertamento ordinario.
2. L’accertamento parziale: l’accertamento che non presuppone un esame complessivo, ma si basa su dati
parziali che provengono da soggetti qualificati, come un accertamento che si basa su dati che provengono
dalla Guardia di finanza. Conseguenza principale di questa tipologia di accertamento è quella che resta
impregiudicata l’ulteriore attività istruttoria dell’ufficio, e quindi la possibilità di emettere un nuovo avviso
di accertamento, anche in base ad elementi già acquisiti dall’ufficio al momento dell’emissione del primo
avviso. “Parziale” significa che viene emesso un accertamento alla luce di un rilievo che viene emesso a
seguito della verifica della guardia di finanza (parziale, non unico). E’ un accertamento che corrisponde ad
una deroga a quella ordinario.
3. L’accertamento integrativo: e qui vediamo quali sono le deroghe dell’accertamento unico.
Questo accertamento è quello secondo cui, entro i termini di decadenza, l’ufficio emette un accertamento
appunto integrativo o modificativo di un precedente avviso di accertamento. Questo può essere fatto
sempre nell’accertamento parziale (a cui può seguire un ulteriore accertamento, sempre però nei termini di
decadenza) mentre nel caso di accertamento ordinario, può essere emesso accertamento integrativo o
modificativo SOLO nell’ipotesi in cui sopravviene la conoscenza di nuovi elementi.
Deve trattarsi di elementi non conosciuti, ne conoscibili quando è stato emesso il precedente
accertamento. Ad esempio se l’AF aveva già esaminato la contabilità del contribuente, non può accorgersi
dopo che nella contabilità stessa non aveva dato importanza ad alcuni elementi, bensì deve trattarsi di
documenti NUOVI che non potevano essere conosciuti durante la verifica.
E’ un accertamento che modifica una determinata qualificazione, modificativo.
NB) Nulla impedisce di rettificare invece l’avviso di accertamento a favore del contribuente, cioè di
annullare parzialmente o totalmente un avviso di accertamento già emesso, nei limiti ovviamente della
funzione vincolata dell’A.A (purchè non ci sia il passaggio in giudicato di quel profilo per cui si intende
annullare in autotutela). Però se vi è un errore formale, entro i termini di accertamento l’AF potrebbe
sempre annullare e riemettere un avviso di accertamento nei termini.
4. L’accertamento con adesione: è un avviso di accertamento formato in contraddittorio tra le parti e
firmato contestualmente dalle parti. E’ un avviso che NASCE DEFINITIVO, che non può essere impugnato.
Chi può proporre di attivare la fase di tentativo di stipulare un accertamento con adesione?
- L’agenzia delle entrate
- Il contribuente.
Quando? L’agenzia può proporlo prima di emettere avviso di accertamento; Il contribuente può proporlo
sia prima di ricevere l’avviso di accertamento (al termine di una verifica fiscale in particolare), sia a seguito
del ricevimento di un avviso di accertamento.
Se il contribuente presenta l’istanza DOPO aver ricevuto l’avviso, questo però comporta che i termini di
impugnazione dell’avviso di accertamento sono sospesi per 90 giorni.
(lo abbiamo visto, la presentazione della mera istanza di accertamento con adesione purchè non sia
pretestuosa sospende i termini della presentazione del ricorso. Se si riceve un avviso di accertamento in
data X, il contribuente ha 60 giorni per impugnare, ma se durante i 60 giorni presenta istanza di
accertamento con adesione, si sommano 90 giorni, così in totale ha 150 giorni per impugnare l’avviso).
Dopo aver avviato la procedura, i 90 giorni:
- sospendono il termine di impugnazione
- ma danno anche il termine alle parti per trovare questo accordo.
Quindi le parti dopo la presentazione dell’istanza per una delle 2 parti si incontrano per un
CONFRONTO/CONTRADDITTORIO  nella prassi c’è un invito da parte dell’AF che invita il contribuente per
presentarsi in ufficio a parlare col funzionario. Il contribuente produrrà argomenti ulteriori, cercherà di
trovare una strada intermedia per una ridefinizione dell’avviso di accertamento originariamente emesso.
Se invece non era stato emesso avviso di accertamento si trova un accordo per un accertamento che sia
condiviso dalle parti. Se dal contraddittorio esce un “accordo” (non di natura privatistica) che redige
l’avviso di accertamento con adesione, che ha lo stesso contenuto dell’avviso di accertamento normale, e
viene firmato dal contribuente, ma lo fa sempre nei limiti della sua funzione vincolata dalla legge ex art. 23.
Non si deroga con l’adesione il principio secondo cui l’A.A. è vincolata, cioè quando si attiva un
contraddittorio non si contratta davvero, è un contraddittorio in cui il contribuente porta a conoscenza
dell’AF una serie di documenti magari non considerati e cerca in base a questi di trovare un accordo per
una “riduzione parziale” dell’avviso di accertamento. Non e’ un annullamento in autotutela.
 Firmato da entrambi, si tratta di un avviso di accertamento che nasce come DEFINITIVO, quindi non è
impugnabile dal contribuente, e non può essere modificato nemmeno dalle Agenzia delle entrate salvo casi
particolarissimi. L’unica differenza con quello normale di accertamento è che NON VIENE NOTIFICATO!!!
E’ firmato dalle parti, nasce definitivo, non ci sono termini di impugnazione.
L’adesione cosa comporta: un evidente sconto sanzionatorio. Vengono meno le sanzioni accessorie, si
riducono a metà le pene previste per i reati tributari, e le sanzioni amministrative si riducono ad 1/3 del
minimo, calcolato sulla imposta evasa stabilito nell’accertamento con adesione stesso. (le sanzioni sono
determinate infatti alla luce dell’imposta evasa nel diritto tributario)
L’adesione si perfeziona col VERSAMENTO delle somme entro 20 giorni da quando è firmato l’accertamento
stesso, non con la firma. Entro 20 giorni il contribuente deve versare l’importo dovuto o almeno una prima
rata (si può suddividere importo per legge in 8 rate trimestrali o in 16 rate se importo complessivo supera i
150.000 euro). Perché questo? Solitamente quando si firma l’adesione, non la firma il contribuente stesso
ma il suo difensore, quindi un certo senso la legge vuole responsabilizzare il contribuente vero e proprio
piuttosto che l’avvocato difensore.
Una volta firmato, l’agenzia non ne rilascia copia però al contribuente che non se lo porta a casa (per
evitare che lo possa utilizzare in un contenzioso), il contribuente paga e poi va in agenzia delle entrate a
ritirare l’atto di adesione già firmato 20 giorni prima dalle parti.

In base ai modi (1) di determinazione dell’imponibile da parte dell’Agenzia delle entrate, dobbiamo
distinguere
1) Tipologie che riguardano la determinazione del reddito complessivo delle persone fisiche;
A. Accertamento analitico(diretto), dove vi è una ricostruzione analitica del reddito complessivo del
contribuente. “Ricostruzione analitica” significa che l’agenzia delle entrate deve ricostruire analiticamente
fonte per fonte le categorie di reddito e quindi muove dalle fonti reddituali. Tale ricostruzione può basarsi
anche su presunzioni, purchè siano presunzioni gravi, precise e concordanti (ex art 38, co 3, DPR 600/73).
Quindi non necessariamente su prove certe e dirette, l’accertamento analitico può fondarsi anche su
presunzioni. Quello che è fondamentali è che DEVE MUOVERE DALLE FONTI REDDITUALI.
Ad esempio si verifica che un contribuente ha tenuto es delle lezioni o ha esercitato una attività di lavoro in
nero senza dichiararla perché sono stati ravvisati una serie di documenti da cui emerge l’esercizio dell’
attività.  questo è il CASO ORDINARIO di ricostruzione del reddito delle persone fisiche ed è disciplinato
dall’art. 38, co dal 1 al 3, DPR 600/73.
B. Accertamento sintetico(a ritroso), ex art. 38, co 4. Nell’accertamento sintetico il reddito si determina
sempre complessivamente, ma SENZA PASSARE DALLE FONTI DEL REDDITO delle singole categorie.
Quindi mentre nell’accertamento analitico la metodologia muove dalle fonti reddituali, e passa dalle
categorie di reddito per determinare il reddito complessivo, qui si determina direttamente il reddito
complessivo senza fare dei passaggi intermedi dalle fonti reddituali alle singole categorie di reddito.
In particolare, il comma 4, dispone che: “l’amministrazione finanziaria può determinare il reddito in
maniera sintetica sulla base delle SPESE” quindi l’accertamento sintetico ha ad oggetto il reddito globale
del contribuente, che però viene ricostruito con una determinazione unitaria e globale non per categorie, e
non viene individuato partendo dalla fonte del reddito, ma parte sulla base dell’UTILIZZO DEL REDDITO
STESSO, tramite le SPESE  si effettua un ragionamento a ritroso, si parte dalle spese del reddito per
ricostruire il reddito (non dalle fonti reddituali!)
Chiaro che se un contribuente spende 100.000 euro durante un anno di imposta allora da qualche parte
deve aver la disponibilità finanziaria per spenderli: con un accertamento sintetico l’agenzia delle entrate
presume che il contribuente abbia realizzato un reddito almeno pari a 100.000 euro, perché le spese sono
pari a 100.000. (DA NON CONFONDERE CON METODO DELL’ACCERTAMENTO BANCARIO, che è diverso e
muove dalle movimentazioni finanziarie/uscite bancarie/entrate bancarie per determinare il reddito)
Essendo una presunzione relativa è possibile che il contribuente muova la prova contraria, quindi nel
momento in cui l’AF presume che il contribuente abbia un reddito di 100.000 euro perché ha sostenuto
spese di 100.000 euro, il contribuente può dimostrare che quella spesa di 100.000 è stata sostenuta e
finanziata con una donazione, con prestiti, con delle somme di denaro che non avevano alla fonte origine
natura reddituale/di reddito imponibile.
In una logica di onere della prova, l’AF dimostra la spesa (onere della prova arriva fino alla spesa), il
contribuente deve fornire la prova contraria (dimostrando che quella spesa non è sostenuta con redditi
realizzati e non dichiarati), che è sostenuta con disponibilità finanziarie di altro tipo (donazione, reddito
esente).
DIFETTO PRINCIPALE  anzitutto questa tipologia di accertamento non determina in realtà il reddito
imponibile ma piuttosto un reddito effettivo. E’ chiaro che quello che spendo certamente mi deve essere
entrato con qualche fonte, ma è entrato, altrimenti non avrei capacità di spesa (sia con prestito sia con
fonte reddituale, qualcuno mi ha finanziato). Quindi le spese determinano un reddito “effettivo” ,
determinano la disponibilità effettiva monetaria, per cassa, MA IL REDDITO IMPONIBILE (e lo sappiamo)
NON E’ SEMPRE DETERMINATO PER CASSA, NON E’ SEMPRE UN REDDITO EFFETTIVO.
Pensiamo al reddito di impresa: esso è determinato per competenza, non per cassa, quindi potrei avere un
imprenditore che ha dichiarato 80.000 euro in dichiarazione dei redditi ma ha un reddito effettivo di
100.000 euro, perché per il principio di competenza quel 20.000 non è stato ancora dichiarato, verrà
dichiarato in periodi di imposta successivi  scostamento evidente reddito imponibile-reddito accertato
muovendo dalle spese. Il reddito accertato muovendo dalle spese non determina il reddito imponibile.
Le spese possono essere DESUNTE anche da degli indici redditometrici  il cd. Redditometro.
Per anni vi è stato un regolamento che è stato anche modificato più volte, ora non c’è un regolamento, in
cui le spese non venivano determinate in misura analitica ma alla luce di alcuni indici di spesa.
Venivano ad esempio desunte dalla proprietà immobiliare, venivano desunte dalla sottoscrizione di un
mutuo, dalla proprietà di imbarcazioni ecc, alla luce di una serie di indici e dati da cui si desumevano le
spese. C’è stato un regolamento storico fino al 2009, poi modificato un paio di volte, ora non c’è.
Il redditometro è volto a costruire un reddito secondo una doppia presunzione: dall’indice di spesa
presumo la spesa, dalla spesa presumo il reddito, quindi è uno strumento molto efficace, però non è
preciso. Se non sono precise le spese come abbiamo visto prima, figuriamoci le spese presunte..
 ecco perché si pensa ad un regolamento più preciso ora.
Si stanno studiando una serie di strumenti algoritmici per determinare il reddito imponibile, basati anche
sul risparmiometro, lo spesometro, non solo sul redditometro. Il problema è che comportano una serie di
criticità motivazionali. L’avviso di accertamento deve essere motivato, ma se la motivazione si basa su un
algoritmo, come ci insegna la giurisprudenza amministrativa l’algoritmo deve essere comprensibile del
contribuente, ecco allora che l’algoritmo ha senso dolo laddove diventa uno strumento talmente semplice
da essere compreso per ammettere un effettivo diritto di difesa. Si sta lavorando in questi anni.

 Se l’amministrazione adotta la metodologia di accertamento sintetico, è obbligata a un


contraddittorio preventivo: l’accertamento sintetico deve essere oggi preceduto da un
contraddittorio preventivo. E ciò ha senso laddove nell’accertamento sintetico vi è una applicazione
presuntiva, una presunzione per determinare il reddito, quindi c’è un’inversione dell’onere della
prova e quindi è giusto che il contribuente sia sentito in contraddittorio in modo che l’avviso di
accertamento sia “partecipato” dal contribuente. E’ inutile emettere un atto in positivo per poi
scoprire che il contribuente ha ricevuto una donazione di cui l’AF non si è avveduta.
Ciò significa che la motivazione non sarà solo ordinaria (quindi presupposti di fatto e ragioni
giuridiche della pretesa fiscale) ma anche rafforzata (conterrà le ragioni per cui gli argomenti
esposti dal contribuente in contraddittorio non sono condivisibili).

2) Tipologie che riguardano specificatamente solo il reddito di impresa e da lavoro autonomo;


Sono disciplinate dall’art. 39 DPR 600/1973, e sono 3 diverse tipologie.
A. Accertamento analitico-contabile, art. 39 co 1, lett. A,B,C: è l’accertamento ordinario di rettifica del
reddito di impresa. E’ un accertamento analitico, richiama quello del reddito delle persone fisiche, con la
differenza che qui lo applichiamo solo per la determinazione del reddito d’impresa. L’accertamento di tal
tipo opera solo nei confronti di una società, di un imprenditore individuale a cui si determina solo il reddito
di impresa, solo per coloro quindi che realizzano reddito di impresa o da lavoro autonomo.
Quali sono le rettifiche analitiche del reddito d’impresa: anzitutto si può rettificare la dichiarazione, ossia
emettere un accertamento analitico contabile, quando gli elementi della dichiarazione non corrispondono
agli elementi contenuti nel bilancio. Ad esempio pensiamo ad un contribuente che determina il reddito di
impresa non partendo dal bilancio di esercizio, cioè applica erroneamente il principio di derivazione, ma
non determina appunto il reddito di impresa muovendo dal risultato civilistico ma sbaglia prendendo un
altro dato. Non c’è allora corrispondenza tra quegli elementi.
Ad esempio il reddito civilistico era pari a 100 ma il contribuente per apportare le variazioni in aumento e in
diminuzione assume che il reddito sia 20 erroneamente. C’è una discrepanza tra dichiarazione-bilancio, e
ciò comporta una rettifica da parte dell’AF.
Posso avere una errata applicazione del TUIR (e questo è un caso evidente), tutte quelle norme che
prevedono variazioni in aumento e in diminuzione. Ad esempio le plusvalenze derivanti dalla cessione delle
partecipazioni, al ricorrere di alcuni requisiti (4), le plusvalenze sono esenti al 95%.
Ecco, aggiungiamo però che al ricorrere delle condizioni, le eventuali minusvalenze non sono deducibili.
Così come non è tassata la plusvalenza, non è dedotta la minusvalenza se ricorrono quei requisiti della PEX
(Per Participation exemption, o più semplicemente PEX, si intendono le plusvalenze realizzate e relative ad azioni o quote di
partecipazioni in società od enti, che, in presenza di determinati requisiti, possono essere escluse dal calcolo del reddito fiscale
imponibile).
Se non ricorrono i requisiti della PEX, invece abbiamo una plusvalenza non esente (tassata) però una
minusvalenza deducibile. Allora cosa succede  un contribuente realizza una plusvalenza che dovrebbe
essere esente al 95% ma applicando erroneamente l’art. 87 del TUIR la indica esente al 100%.
Ecco allora che applica erroneamente le norme del TUIR, e quindi vi sarà un accertamento!!!
Abbiamo una applicazione errata tutte quelle volte in cui violiamo le norme sul reddito di impresa che
abbiamo visto quando abbiamo parlato di componenti positivi e negativi.
Abbiamo una rettifica (e quindi un accertamento analitico contabile) anche quando le incompletezze o
l’inesattezza dei dati dichiarativi emergono in modo certo dalla documentazione in possesso dell’AF.
 Questo accertamento si presta principalmente nei confronti delle grandi imprese, sono loro che
eventualmente se intendono eludere o evadere il pagamento dei tributi pongono in essere delle violazioni
di norme tributarie, prevalentemente. Una grande impresa di solito non occulta ricavi (pensiamo al
supermercato, non ci capita mai che il cassiere non emetta scontrino). Invece se pensiamo ad un piccolo
negozio a conduzione familiare dove è più facile che non si batta lo scontrino, piccoli fruttivendoli, piccole
gelaterie, piccoli esercizi commerciali che vendono generi alimentari.
Un accertamento sulla grande impresa e sul grande supermercato molto spesso sarà un accertamento
analitico, mentre per le piccole imprese hanno più senso gli accertamenti che vedremo ora.
B. Accertamento analitico-induttivo, art. 39, co 1, lett. D: è una via intermedia tra l’accertamento contabile
e quello extra contabile; la rettifica in questo accertamento si basa sulla INCOMPLETEZZA, FALSITA O
INESATTEZZA degli elementi che sono indicati nella dichiarazione, come risultano dalle scritture contabili.
L’inesattezza e questo errore che commette il contribuente risulta dalle stesse scritture contabili, o risulta
(e questo è il caso >) da presunzioni gravi, precise e concordanti. Un esempio classico di tale accertamento
è il tovagliometro, pensiamo ad un ristorante che ha un consumo di tovagliette di carta e non usa quelle di
stoffa, che all’inizio dell’anno acquista 10.000 tovagliette. A fine dell’anno dichiara un reddito che non è
coerente con le 10.000 tovagliette di carta (assumiamo che nel magazzino a fine dell’anno non ci siano più
quindi sono state consumate 10.000 tovagliette). Assumiamo come numero più semplice 100 tovagliette.
L’AF potrebbe utilizzare una presunzione grave precisa e concordante dicendo: bene, avendo una media di
ogni pasto pari a 15 euro, sono state consumate 100 tovagliette quindi 100 pasti, allora il reddito
imponibile sarà dato da 1.500 euro (100x15). Questa è una applicazione del tovagliometro.
Oppure spesso per i ristoranti il reddito è ricostruito alla luce del consumo delle materie prime (quanto
caffè ad esempio è stato acquistato). Sono ricostruzioni però presuntive, non analitiche, non vi sono
discrepanze troppo evidenti. Abbiamo una ricostruzione analitico-induttiva. Qui vengono fatti rientrare
anche gli studi di settore, che sono in via di sostituzione con gli indicatori di affidabilità fiscale.
Gli studi di settore sono algoritmi tramite cui dalle caratteristiche esteriori di una certa attività di impresa si
ricostruisce il reddito (calcoli complessi, però si ricostruisce il reddito di ciascuna attività). Lo studio di
settore è un accertamento che veniva emesso quando vi era uno scostamento tra il reddito dichiarato e
quello ricostruito tramite questo strumento algoritmico. Ora questi sono in via di sostituzione (avendo
evidenziato una serie di difetti) con gli “indicatori di affidabilità fiscale”, sempre algoritmi, ma lo scopo è
diverso: lo scopo non è determinare un maggior reddito ma identificare i contribuenti che hanno un
maggior rischio di evasione fiscale. Quindi se dalle caratteristiche esteriori della mia attività di impresa
desumo e determino un rischio elevato di evasione fiscale, allora l’AF deve controllare quel contribuente.
Quindi questi indicatori sono dei criteri di selezione del contribuente da accertare. Non tanto un tipo di
accertamento. Sta cambiando un po’ la prospettiva.
C. Accertamento induttivo extra contabile, art. 39, co 2: può essere utilizzato al ricorrere di alcune
condizioni, e in particolare: deve esserci una contabilità che nel suo complesso è inattendibile (perché ci
sono talmente tanti errori che la rendono inattendibile, non un singolo errore!). Oppure se la contabilità è
omessa o è data distrutta, cioè non ci si può quindi affidare ad una contabilità attendibile (1 requisito).
(2 requisito) Il contribuente NON risponde ad un questionario. Quindi il contribuente riceve un questionario
e non collabora perché non da risposta all’AF. E poi (3 requisito) il contribuente NON indica il reddito
d’impresa in dichiarazione dei redditi  3 diverse cause che comportano tale accertamento
NB Sono 3 requisiti alternativi, basta che ne sussista 1 su 3 (mentre nel DPR ne sono però previste 4 perchè
il primo requisito in realtà è sdoppiato 1 nella distruzione di contabilità e nell’omissione, e 2 negli errori che
la rendono inattendibile).
CONSEGUENZE al ricorrere di una di queste 3 ipotesi  l’AF può accertare il reddito di impresa
PRESCINDENDO dalla contabilità (dato fondamentale, completamente disattendere alla contabilità),
ricostruendo il reddito di impresa come crede; può utilizzare presunzioni anche se sono prive di requisiti di
gravità, precisione e concordanza (quindi presunzioni semplici!!). E può utilizzare addirittura informazioni,
dati e notizie comunque raccolte, come una segnalazione anonima ricevuta!!!
L’AF ha dei poteri esorbitanti rispetto al potere che ha in un accertamento analitico.
Però ovviamente sono necessarie quelle condizioni.

 Da ciò, si desume che un tale accertamento DEVE AVERE una duplice motivazione:
1) “Distruttiva”, molto rigorosa, in cui si tende a dimostrare le condizioni per poter accedere allo
strumento ex art. 39, co 2. L’AF deve dimostrare che il contribuente non ha collaborato.
2) “Costruttiva”, cioè prima l’AF demolisce la contabilità e il contribuente, poi bisogna ricostruire il
reddito, e a quel punto una parte di motivazione costruttiva è più tenue perché a quel punto l’AF
può utilizzare presunzioni semplici, dati e informazioni comunque raccolti. Quindi ha un metodo
che gli permette di determinare il reddito basandosi però su dati molti semplici, lontani dal
ricostruire un reddito effettivo.

Vediamo come dalla ricostruzione di un reddito effettivo, preciso, analitico, siamo passati a una
ricostruzione che è sempre più grossolana, ma ammessa alla luce di alcune condizioni.
Questi ultimi strumenti (analitico induttivo e extra contabile) si rendono molto più adeguati nei confronti
dei piccoli imprenditori che possono porre in essere evasione fiscale tramite occultamento dei ricavi.
Questi strumenti saranno essenziali per ricostruire il reddito imponibile.
NB ASSOLUTAMENTE INTEGRAZIONE CON MANUALE, e’ una delle parti più importanti del diritto tributario.

LEZIONE 19, LA RISCOSSIONE E IL RIMBORSO (CENNI). Essenziale ai fini esame questo.


LA RISCOSSIONE: accompagna tutte le fasi della dinamica dell’imposta.
Abbiamo visto gli obblighi del contribuente, l’attività amministrativa, istruttoria, l’avviso di accertamento, e
la riscossione si accompagna a questi momenti, in quanto prevalentemente la riscossione avviene in modo
spontaneo tramite una auto-liquidazione del tributo da parte del contribuente, quindi si accompagna a
quegli obblighi del contribuente (contabili, di dichiarazione e di versamento).
 Si verifica autoliquidazione del tributo in una situazione fisiologica.
In una situazione invece patologica, la riscossione si accompagna con la fase dell’attività istruttoria e
dell’accertamento, e quindi qui avremo una riscossione alla luce degli avvisi di accertamento esecutivi, o
alla luce delle iscrizioni al ruolo quando il contribuente dichiara un importo o non versa, o vi è un
accertamento di un maggiore importo dovuto rispetto a quanto dichiarato.
 QUANDO E COME AVVIENE LA RISCOSSIONE: anche la riscossione si può dividere in diverse fasi
1. LA RISCOSSIONE SPONTANEA/AUTOLIQUDIDAZIONE: (è una riscossione ordinaria, non patologica)
suddivisa a sua volta in più sottocategorie
a. Anzitutto le cd. Ritenute dirette, che non sono le ritenute a titolo d’acconto/d’imposta, bensì sono delle
ritenute molto simili a quelle ma non effettuate da un soggetto terzo sostituto d’imposta, bensì vengono
effettuate dallo stesso ente creditore, l’erario, quindi dalla PA. Quando vi è un dipendente pubblico vi sono
quindi delle ritenute dirette, non c’è un rapporto trilaterale come in una ritenuta tradizionale di cui
abbiamo parlato (in cui abbiamo un sostituto d’imposta che è solitamente datore di lavoro, colui che eroga una
vincita ecc, abbiamo il sostituito che invece è il soggetto che pone in essere il presupposto e quindi possiede il reddito,
e poi abbiamo l’erario che riceverà il tributo stesso). In questo caso il rapporto si riconduce a solo 2 soggetti,
cioè il soggetto che pone in essere il presupposto (dipendente pubblico in questo caso) e l’erario, allora
abbiamo una ritenuta che definiamo “diretta”, che è una ritenuta (che può essere a titolo d’acconto e di
imposta a seconda delle circostanze) ma viene definita diretta perché non c’è un rapporto trilaterale ma è
l’erario stesso/la PA che trattiene un importo del compenso che va a versare al lavoratore dipendente, e
quindi trattiene quella somma che è già parte del gettito.
Quindi una prima sotto-fase della riscossione spontanea è la ritenuta diretta.
b. Poi abbiamo le ritenute di cui abbiamo parlato, le Ritenute tramite sostituzione/un sostituto, e anche in
tal caso la ritenuta può essere anche qui a titolo d’imposta o di acconto. La prima esaurisce l’obbligazione
tributaria (il sostituto è il vero e proprio soggetto passivo del tributo, e il sostituito è colui che pone in
essere il presupposto, e abbiamo visto come si rispetta il principio di capacità contributiva perché vi è la
ritenuta qui, quindi il sostituto trattiene un importo che dovrebbe versare al sostituito ma ne trattiene una
parte che verserà all’erario. Non c’è violazione del principio di capacità contributiva), la seconda non
esaurisce l’obbligazione tributaria (ritenuta effettuata datore di lavoro che trattiene un importo, lo verserà
all’erario ma a titolo di acconto, cioè il contribuente che rimane il soggetto passivo rimane il sostituito,
dovrà poi versare il saldo all’erario, tenendo conto dell’acconto. Calcolerà quindi l’IRPEF e una volta
calcolato sottrarrà la ritenuta alla fonte a titolo di acconto che ha subito dal sostituto a titolo d’acconto dal
datore di lavoro nell’esempio fatto).
c. Poi abbiamo i Versamenti diretti, che vengono effettuati dallo stesso contribuente. Anche questi
possono essere a titolo d’acconto o di saldo. Il versamento diretto, come le ritenute dirette, hanno uno
scopo fondamentale in materia di imposizione del reddito: avvicinare il più possibile il momento in cui si
realizza il presupposto e quello in cui si versa il tributo. Gli acconti (ad esempio gli acconti per l’anno di
imposta 2020) vengono versati in 2 momenti dell’anno: a giugno e a novembre sono versati gli acconti per
l’anno 2020. Quindi vengono versati quando si realizza il presupposto del tributo, quando si possiede il
reddito. Durante il periodo di imposta si manifestano i fatti che generano il tributo, è un tributo periodico, e
quindi la riscossione diretta in corso d’anno è volta ad avvicinare il più possibile il momento del pagamento-
momento in cui si realizza il presupposto. Stessa cosa per l’IVA, abbiamo una liquidazione mensile o
trimestrale, e nel momento in cui si effettua il versamento mensile, ci si avvicina al momento in positivo in
ci sorge l’IVA a debito.
 ecco perché per evitare che ci sia scostamento temporale, si evita che il contribuente debba versare
tutto a saldo. Il legislatore dice che durante l’anno il contribuente versa degli acconti, alla fine dell’anno
certamente farà un conteggio definitivo, e a giugno dell’anno successivo determinerà l’Irpef alla luce del
reddito effettivo realizzato nel 2020 e sottrarrà dall’Irpef dovuta gli acconti che ha già versato.
COME SI DETERMINANO GLI ACCONTI? CI SONO 2 MODALITA’:
- La modalità “storica”: si va a vedere l’IRPFEF versata l’anno precedente, quindi si vedono gli acconti alla
luce dell’Irpef versata l’anno prima. Chiaro che nell’anno 2020 non è detto che io possegga un reddito
esattamente coincidente a quello del 2019, quindi gli acconti saranno una approssimazione dell’Irpef
dovuta.
- La modalità “previsionale” che guarda all’anno futuro: si calcolano cioè gli acconti alla luce di una
previsione che il contribuente fa dei redditi che possiede in quel determinato anno. Ci si discosta dal
passato ma si fa una previsione dei redditi. Soprattutto per evitare che quando un contribuente nel 2019
realizza redditi estremamente elevati per circostanze casuali e sa che nel 2020 realizzerà molto meno,
applicando il metodo storico si troverà a dover versare degli acconti esagerati rispetto al reddito che sta
realizzando durante l’anno. E allora potrebbe applicare questo metodo previsionale, fare una previsione
dell’imposta dovuta nell’anno 2020. Ma se gli acconti versati non sono sufficienti, sono inferiori al saldo
dovuto, il contribuente dovrà versare una sanzione in questo caso.
Quindi acconti e saldo l’anno successivo.

L’obbligazione tributaria si può estinguere anche tramite COMPENSAZIONE.


Come le altre obbligazioni, anche l’obbligazione tributaria si estingue con compensazione. Ce lo dice l’art. 8
dello Statuto dei diritti del contribuente, in linea generale. Esso ci dice sostanzialmente che l’obbligazione
tributaria può essere estinta anche per compensazione  quindi diventa una regola generale.
Il problema è che la norma di tale statuto ha bisogno di un decreto attuativo, ma sono 20 anni che non è
ancora stato emanato. Quindi abbiamo questa norma generale che richiede un decreto attuativo che non è
mai stato emanato, e allora valgono le regole più speciali relative alla compensazione. In particolare l’art.
17 del d.lgs. 241/97. Che prevede 2 tipi di compensazione: orizzontale e verticale.
La prima è una compensazione che si effettua tra tributi diversi (credito Irpef e debito iva sono
compensabili per esempio se sono di pari importo). Posso effettuare un pagamento in cui dico che estinguo
l’obbligazione tributaria IVA tramite credito IRPEF.
La seconda è una compensazione in cui ho un credito Irpef 2020, nell’anno 2021 manifesto un debito, ecco
che posso compensare questo debito con il credito precedente.

2. LA RISCOSSIONE IN BASE A RUOLO (riscossione patologia, non ordinaria).


Cos’è l’iscrizione a ruolo  l’iscrizione a ruolo è l’iscrizione di una somma di un elenco di importi dovuti da
un determinato soggetto. E’ l’erario che “iscrive a ruolo” cioè indica in una lista le somme dovute da
ciascun contribuente/debitore d’imposta. Può avere 2 titoli che legittimano questa iscrizione:
- La dichiarazione del contribuente: il caso in cui si ha una iscrizione al ruolo a seguito di una dichiarazione è
il caso che abbiamo già incontrato quando parlammo dell’istruttoria. Abbiamo visto come nel controllo
automatico e formale se il contribuente dichiara e non versa un importo, vi è iscrizione al ruolo
immediatamente. Quindi può essere basata sulla dichiarazione dei redditi l’iscrizione al ruolo.
(Inutile che venga emesso un avviso di accertamento).
- Gli atti dell’AF: Il ruolo può essere basato anche su avvisi di accertamento non esecutivi, ad esempio in
materia di imposta di registro. In materia di imposta di registro questa sarà poi riscossa tramite ruolo,
quindi il titolo esecutivo con cui l’erario può riscuotere il tributo, se l’avviso di accertamento non è
esecutivo, è l’iscrizione a ruolo. In questo caso ha come pilastro l’avviso di accertamento.

Come si notifica l’iscrizione a ruolo al contribuente? Tramite la cartella di pagamento. Questa cartella è un
atto che va letto insieme all’iscrizione al ruolo, è semplicemente il veicolo che permette di notificare al
contribuente l’iscrizione a ruolo.
Chi si occupa della riscossione? Dalla fase dell’iscrizione a ruolo in avanti, se ne occupa un ente pubblico
economico. Prima chiamato Equitalia, oggi l’”agenzia delle entrate riscossione”.
Non vi è più la famosa nota Equitalia, ma oggi ha cambiato denominazione, gli uffici rimangono quelli.
La cartella di pagamento che porta a conoscenza il ruolo è ovviamente un atto/costituisce un titolo
esecutivo che deve essere motivato. La motivazione del ruolo è però diversa dall’avviso di accertamento (in
cui vi è la pretesa fiscale); nel ruolo la motivazione risiede nell’identificazione dell’atto presupposto.
Anticipiamo anche che quando si impugna la cartella di pagamento, non si possono più denunciare i vizi di
merito della pretesa fiscale. L’eventuale denuncia di vizi non deve essere avanzata nel momento in cui si
impugna un ruolo basato sull’avviso di accertamento, ma bisogna impugnare il prodromico avviso di
accertamento.

3. LA RISCOSSIONE IN BASE AGLI AVVISI DI ACCERTAMENTO ESECUTIVI  avvisi di accertamento esecutivi


sono quelli in materia di imposta sul reddito delle persone fisiche, delle società e sul valore aggiunto (IRPEF,
IRES, IVA). Gli avvisi di accertamento emessi oggi in materia di IRPEF, IRES, IVA sono avvisi esecutivi.
Non sono quindi succeduti da cartella di pagamento, sono già esecutivi.
Contengono L’INTIMAZIONE AD ADEMPIERE. Diverso è invece l’avviso di accertamento di altri tributi che
non conterrà tale intimazione e quindi non è titolo esecutivo.
Vuol dire cosa da un punto di vista pratico: che se il contribuente riceve un avviso di accertamento
esecutivo, questo ha natura di 1. Avviso di atto in positivo 2. Atto della riscossione, quindi potrà l’agenzia
delle entrate, se l’avviso diviene definitivo, procedere alla riscossione forzata (se viene impugnato, secondo
le regole della riscossione provvisoria).

Altro tema fondamentale è quello della RISCOSSIONE PROVVISORIA in pendenza di giudizio 


La impugnazione di un atto (NON sospende la riscossione.
Parliamo dell’avviso di accertamento: l’impugnazione contro l’avviso di accertamento non sospende la
riscossione, però è prevista una riscossione “parziale” e “provvisoria”.
Provvisoria perché bisogna fare i conti alla fine del giudizio, quando vi è una sentenza che passa in
giudicato.
Parziale perché in realtà è vero che non sospende la riscossione, ma non tutto l’importo contenuto
nell’avviso di accertamento deve essere versato.
In particolare in pendenza del giudizio di 1 grado è necessario versare 1/3 dell’imposta.
Se l’avviso di accertamento quindi mi chiede una imposta pari a 90, prima di presentare ricorso occorre
versare l’importo di 30.
Dopo la sentenza di 1 grado, il contribuente (assumendo che la sentenza confermi l’avviso di accertamento
e rigetti il ricorso) dovrà versare 2/3 delle imposte e delle sanzioni.
Ha già versato 30, verserà ulteriore 30 e anche 2/3 delle sanzioni dovute.
Dopo la sentenza di 2 grado (assumendo che..), dovrà versare l’intero importo contenuto nell’avviso di
accertamento. In tal caso la riscossione non è più parziale ma totale, ma pur sempre provvisoria, e se
dovesse intervenire una sentenza della Cassazione definitiva che annulla nel merito l’avviso di
accertamento originariamente emesso, tutti gli importi versati in via provvisoria sono restituiti al
contribuente.

Vi è la possibilità per il contribuente di chiedere la SOSPENSIONE della riscossione: 2 tipologie


- sospensione processuale: la si chiede contestualmente al ricorso generalmente, o in un atto successivo, al
giudice nei cui confronti si impugna l’atto  quindi tale sospensione presuppone anche l’impugnazione
dell’atto. Presupposti per ottenere una sospensione della riscossione sono il fumus boni iuris e il periculum
in mora. Il primo ci dice che il mio ricorso deve avere perlomeno un certo fondamento, un certo fumo/una
certa sostanza secondo il giudice; in calce si inserisce l’istanza di sospensione e si fa una sintesi incisiva con
frasi brevissime in cui si descrivono e si richiamano i diritti del ricorso Il secondo requisito è più complesso,
per il periculum in mora deve sussistere un pericolo per la riscossione.
- sospensione amministrativa: è chiesta in via amministrativa (alla stessa agenzia delle entrate che ha
emesso l’atto) quando sussistono anche qui due elementi, il fumus boni iuris e il periculum in mora ma
quest’ultimo non come quello processuale. Il contribuente che chiede all’amministrazione finanziaria di
sospendere in via amministrativa la riscossione deve dimostrare che la sospensione non comporta alcun
danno per l’erario!!

SE sussiste un fondato pericolo per la riscossione, se l’AF si rende conto che quel contribuente per le
condotte adottate sussiste un fondato pericolo per la riscossione, può emanare il cd. Ruolo straordinario, o
nell’avviso di accertamento esecutivo la riscossione straordinaria. Cioè anziché riscuotere le somme in vie
parziale, riscuote le somme in via totale (pur sempre provvisoria).

Per concludere.
Non vi può essere riscossione coattiva se il contribuente impugna per un periodo di 180 giorni. I primi 180
giorni di impugnazione del contribuente, l’AF non può procedere alla riscossione forzata/coattiva.
Vi è una sospensione ex lege per 180 giorni dopo la presentazione del ricorso del contribuente.
Non si può procedere a pignoramento prima di 180 giorni, se il contribuente ovviamente non versa le
somme che deve versare.
Infine, esistono delle “misure cautelari” a favore del fisco, che possono essere chieste come ipoteca o il
sequestro, al giudice tributario. Sussiste poi il fermo amministrativo dei rimborsi. Oppure il fermo dei beni
mobili registrati (fermo autoveicolo, del motociclo ecc).

I RIMBORSI: vediamo ora il rimborso.


Quando parliamo di rimborso, parliamo di una posizione di credito che il contribuente vanta nei confronti
dell’erario  posizione esattamente inversa rispetto a quanto visto fin ora. Parliamo sempre di un credito
fiscale, non un qualsiasi credito. I crediti di diritto tributario possono sorgere alla luce di 3 eventi:
a) Un credito “rimborso” da indebito: vi è un contribuente che versa un importo maggiore rispetto a quanto
doveva versare. Un contribuente è magari in dubbio se gli spettano i benefici di una certa agevolazione
fiscale. Sarebbe estremamente rischioso procedere autoliquidando il tributo alla luce dell’agevolazione,
perché se l’agenzia delle entrate valuta che il contribuente non ne ha diritto, procederà a riscuotere la
maggiore imposta ma anche ad irrogare una sanzione!
Per evitare questo, il contribuente si comporta allora come se non avesse diritto ad agevolazione, versa
l’importo intero del tributo, e poi chiede un rimborso. Si evita così l’irrogazione delle sanzioni.
Oppure il contribuente che per errore versa un importo maggiore rispetto a quanto dovuto, deve versare
100, versa 130. O si versano 2 volte lo stesso tributo pensando che il primo non fosse stato preso.
Quindi vi è un versamento di indebito: comporta allora che il contribuente può chiedere rimborso da
indebito dell’importo maggiore rispetto a quello dovuto e versato dal contribuente.
b) Un credito “da dichiarazione”: abbiamo visto esaminando la dichiarazione che questa si chiude con un
importo a debito ma anche con importo a credito da versare, perché io potrei aver versato come
contribuente più acconti rispetto al dovuto. Assumiamo di versare gli acconti col metodo storico, nell’anno
2019 avevo versato imposta di 100, verso acconti per 100 nel 2020, ma nel 2020 ho reddito esattamente
inferiore, quindi faccio i miei conti finali nel 2021 per versare il saldo e mi accorgo che in realtà avrei dovuto
versare 70 ma ho versato di acconti 100. Quindi ho un credito di 30 che nasce per i meccanismi dichiarativi.
c) Un credito “in senso stretto”: credito agevolativo vero e proprio, per ricerca e sviluppo, per un
determinato investimento, tutti quei crediti che sorgono in senso stretto per ragioni decise dal legislatore.

Per ottenere il rimborso di uno di questi crediti, ci sono 2 modalità


 In alcuni casi è possibile chiedere rimborso nella stessa dichiarazione dei redditi.
(in altre ipotesi posso anche non chiedere il rimborso e riportarlo all’anno successivo e compensarlo con
debiti futuri secondo la compensazione verticale).
 in altri casi è possibile chiedere rimborso tramite istanza da presentare all’agenzia delle entrate entro
termini di decadenza. Ad esempio per le imposte dirette il termine di decadenza è di 4 anni dal versamento
del tributo. A questo punto se il contribuente non chiede il rimborso entro i termini, non potrà più farlo.
La decadenza preclude la possibilità di nuovo rimborso fondato.
Se invece presenta istanza entro il termine, l’agenzia è tenuta a rispondere.
Se l’ufficio rimborsa l’importo dovuto, non si pongono problemi; se invece NON rimborsa l’importo dovuto,
rispondendo negando il rimborso, tale diniego di rimborso è un atto impugnabile  entro 60 giorni di
tempo il contribuente deve impugnare il diniego di rimborso e chiedere ad un giudice di annullare il diniego
di rimborso. Contestualmente chiederà anche di accertare il proprio credito e di condannare l’AF al
rimborso. Quindi una domanda che si compone ben di 3 elementi!

L’agenzia delle entrate potrebbe anche NON rispondere: si forma, dopo 90 giorni in tal caso dopo la
presentazione dell’istanza di rimborso, il SILENZIO-RIFIUTO.
Quindi è come se avesse rifiutato il rimborso. In tal caso anche il provvedimento di diniego tacito è
impugnabile dal contribuente, chiedendo l’annullamento del diniego tacito, accertamento del credito,
condanna al rimborso, dopo però da quando si forma tale silenzio rifiuto dopo 90 giorni.
Però con una particolarità  in tal caso non decorrono i termini di 60 giorni per impugnare siccome non c’è
un atto che è stato espressamente emanato, ma è un atto implicito dell’AF. Quindi la normativa ammette la
possibilità per il contribuente di impugnare il silenzio rifiuto anche passati 2,5,9 anni, purchè non oltre i
termini di prescrizione insomma.

 Se il contribuente ha un credito, e vuole chiederlo a rimborso, vi sono termini di decadenza: per le


imposte dirette sono di 4 anni;
Se il contribuente entro 4 anni presenta istanza di imborso, l’amministrazione finanziaria può
rispondere (se risponde si o

 vviamente non risponde nemmeno, rimborsa direttamente; se risponde di NO è comunque una
risposta) o non rispondere. Se risponde e si forma un diniego esplicito (perché dice NO), allora il
contribuente ha 60 giorni per impugnarlo, e se non lo fa il diniego consolida la pretesa fiscale e poi
non potrà più chiedere rimborso se sono decorsi 4 anni.
Se l’AF lascia decorrere i 90 giorni e non risponde e si forma un silenzio rifiuto, che non è un atto
impugnato entro 60 giorni ma che può essere impugnato quando il contribuente lo ritiene
opportuno, PURCHE’ prima del termine di prescrizione.
LEZIONE 20, L’ELUSIONE FISCALE
L’elusione fiscale richiama e ricorda un risparmio d’imposta, e quando pensiamo ad un risparmio di
imposta, dobbiamo pensare a 3 diversi tipi di comportamenti che comportano risparmio d’imposta
1. E’ il cd. Legittimo risparmio d’imposta: cioè un contribuente che davanti a 2 scelte opta per quella
fiscalmente meno gravosa; o il contribuente che legittimamente decide di costituire una società per
realizzare reddito d’impresa tramite uno schermo societario, una srl, anche per ragioni fiscali; oppure un
contribuente che decide di beneficiare di una certa agevolazione fiscale e trasferirsi n una zona d’Italia che
in quel momento permette di ottenere una certa agevolazione finanziaria.
Questo primo comportamento lo troviamo in parte descritto nell’art. 10-bis dello Statuto dei diritti del
contribuente, al co.4, viene indicato infatti che: “resta ferma la libertà di scelta del contribuente tra regimi
opzionali diversi offerti dalla legge e tra operazioni comportanti un diverso carico fiscale”. Quindi questo
comma all’interno di una norma che tratta dell’elusione fiscale, ci dice che il contribuente può liberamente
scegliere, e lo può fare per ragioni fiscali  tutti quei comportamenti che assicurano al contribuente un
risparmio di imposta in modo legittimo, laddove non vi è ne violazione di norme tributarie ne aggiramento
di queste.
2. E’ l’Evasione fiscale: la violazione diretta di norme tributarie. Ad esempio pone in essere evasione fiscale
il contribuente che non emette lo scontrino e non dichiara il reddito realizzato; il professionista che non
dichiara la prestazione lavorativa ad esempio. C’è una violazione diretta di una norma tributaria.
L’art. 10-bis, al comma 12, ci dice che: “in sede di accertamento di abuso del diritto (abuso ed elusione sono
sinonimi), può essere configurato solo se i vantaggi fiscali non possono essere disconosciuti contestando la
violazione di specifici disposizioni tributarie”  in sostanza Prima occorre verificare se vi è evasione fiscale,
se non c’è evasione e non vi è violazione delle norme tributarie, si può verificare se il comportamento è un
comportamento elusivo o meno.
Quindi come primo approccio l’AF deve verificare se vi è evasione fiscale.
3. La cd. Elusione fiscale/abuso del diritto: mentre l’evasione richiama la violazione, l’elusione fiscale
richiama l’AGGIRAMENTO delle norme tributarie. L’aggiramento delle norme tributarie non deve essere
inteso come “la norma come una colonna e io che ci giro intorno”, ma deve essere inteso come una sorta di
violazione della RATIO delle norme: non c’è violazione diretta specifica ma violo un la ratio del sistema.
ESEMPIO: pensiamo ad un contribuente che intende donare un immobile al figlio. Scopre che sulla
donazione dell’immobile vi è imposta di donazione reputata troppo gravosa da lui.
Sa anche che la donazione dei btp, cioè dei titoli di stato, non dà luogo a tassazione. Il padre però non ha
del denaro da donare, l’unica cosa che ha da donare è l’immobile, e allora va presso un istituto finanziario e
prende a prestito del denaro, con cui acquista (ponendo a garanzia l’immobile) i buoni del tesoro (titoli di
stato). A questo punto dona al figlio i btp in totale esenzione d’imposta.
Il figlio si trova ora a ricevere i titoli di stato che decide di vendere sul mercato e acquisire in cambio del
denaro. Con il denaro il figlio va ad acquistare l’immobile dal padre e diventa proprietario dell’immobile.
A questo punto il padre avrà il debito nei confronti della banca, avrà il denaro che deriva dalla
compravendita al figlio di immobile, e quindi può restituire il denaro alla banca, sarà cancellata l’eventuale
ipoteca sulla casa, e al termine di questa operazione abbiamo il padre che non ha più l’immobile e ce l’ha il
figlio. Vediamo qui che NON sono state violate disposizioni normative, i contribuenti non hanno posto in
essere alcuna violazione, ma hanno aggirato la norma che prevede che la donazione degli immobili è
soggetta ad una imposta di donazione. In una operazione di questo tipo, tramite una concatenazione di
singole operazioni, con cui si aggirano le norme, si raggiunge il risultato che è quello di donare l’immobile
da padre a figlio con un atto non oneroso. E questo è quello che sono riusciti a fare (giusto per capire
questa concatenazione di eventi posti in essere in elusione del sistema).

PREMESSA STORICA: il comportamento dell’elusione fiscale storicamente non era/non è contrastato. Se


parliamo con economisti o studiosi esteri, un certo comportamento tributario, se andiamo ad esempio
negli USA era così fino a pochi anni fa, è O illecito (ossia vi è violazione) o c’è una Creatività da parte dei
contribuenti, e non vi è alcuna violazione e non dovrebbe esserci reazione da parte del sistema.
Quindi per gli economisti: o un comportamento è legittimo e non viola alcuna norma, oppure è illegittimo e
viola una norma  quindi l’elusione fiscale non violerebbe alcuna norma.
Chiaro però che questo comporta la possibilità di raggirare qualsiasi disposizione quindi il legislatore ha
previsto in passato con un articolo contenuto nel DPR 600 n. 37-bis, aveva previsto l’elusione fiscale,
contrastandola. Quindi di fatto contrastava con una disposizione normativa l’elusione. Poi il sistema
prevedeva una serie di norme specifiche con ratio anti-elusiva (che non tratteremo, ad esempio la norma
sul riporto delle perdite che prevede dei limiti a tale riporto).
Quindi avevamo l’art. 37-bis, una norma “generale”, e delle norme specifiche. Il problema del 37-bis era
che si occupava solo di una serie di ipotesi tassativamente previste. Tutte le altre operazioni invece non
vedevano l’applicazione dell’art. 37-bis, quindi era una norma generale ma monca.
Interviene allora la Corte di Giustizia che ritiene che vi sia un principio generale di contrasto all’abuso del
diritto (noto caso della Corte Halifax, leading case) e quindi la Cassazione si adegua al principio sostenendo
che effettivamente esiste un principio generale sull’abuso del diritto, che va al di la anche rispetto a quei
casi dell’art. 37-bis, che però opera solo per i tributi armonizzati: che derivano dall’UE, come l’IVA.
A quel punto la Cassazione nel 2008 fa un salto ulteriore di ragionamento in quanto sostiene che il principio
di divieto dell’abuso del diritto sia un principio immanente anche nel sistema italiano, per il diritto
tributario fa discendere questo principio da una lettura allargata dell’art. 53 Cost  cioè quello della
capacità contributiva. Quindi dal 37-bis la Cassazione estende il principio anti-abuso.
E’ come se il principio anti-abuso fosse il sistema immunitario di un determinato sistema fiscale.
Quindi estende oltre alle ipotesi indicate all’art. 37-bis tale principio in contrasto all’elusione fiscale a
QUALSIASI GENERE DI OPERAZIONE in quanto veniva collegato tale principio alla capacità contributiva.
(Prima solo tributi armonizzati, ora tutti i tributi grazie ad estensione art. 53)
Nello stesso tempo è curioso notare come negli stati uniti sia stato fatto il percorso contrario (common law,
basati sul precedente): vi era una sentenza, il caso Gregory della I metà del 900, e la giurisprudenza aveva
applicato il principio generale di abuso del diritto. Nello stesso periodo in cui in Italia la giurisprudenza
creava una norma anti-abuso, e si comportava come se fosse una Corte americana, negli stati uniti la norma
anti elusiva generale viene codificata nel codice tributario. Si abbandona la regola di common law e si ri-
disciplina la norma anti elusiva (INVERSIONE).

 QUESTO PRIMA DELL’ART. 10-BIS in vigore dal 2010!!!

L’elusione cos’era: era considerata ELUSIVA una operazione che comportava risparmio d’imposta in
debito. Queste erano le caratteristiche dell’art. 37-bis e dell’estensione della giurisprudenza che doveva
avere una operazione di elusione fiscale. Cioè risparmio d’imposta, e in debito perché deve essere un
vantaggio che contrasta con le finalità del sistema.
Se vi è una disposizione normativa che agevola un certo comportamento (es la norma sui calciatori o sui
neo residenti che trasferiscono la residenza in Italia) è chiaro che si ottiene un beneficio fiscale, che non è in
debito, anzi è proprio voluto dal sistema italiano che cerca di incentivare persone fisiche non residenti a
trasferire la residenza in Italia.

Nel 2016 le cose cambiano e si decide di RICODIFICARE la disciplina dell’abuso del diritto nell’art. 10 bis.
Dal 2016 abbiamo una nuova disposizione all’interno dello Statuto dei diritti del contribuente, una
disciplina generale dell’abuso e/o elusione fiscale, che li consideriamo (per noi) sinonimi.
Abbiamo dato una definizione generale di elusione. Ora in modo criticato è stato deciso si abrogare l’art.
37-bis del DPR 600 per ri-disciplinare la norma sull’elusione, introducendo l’art. 10-bis.
In dottrina ciò è stato molto criticato da studiosi perché non era necessaria una operazione di tal tipo,
perché l’art. 37-bis comunque aveva avuto una storia, una interpretazione, bastava abrogare le ipotesi
tassative e lasciare l’articolo come norma generale anti elusiva.
L’art. 37-bis è abrogato dal DPR 600, non lo si trova più, mentre è stato introdotto il nuovo articolo 10-bis
dello Statuto dei diritti del contribuente, che in parte prevede una terminologia nuova e in parte riprende la
terminologia della Corte di Giustizia, insomma un lavoro nuovo per l’interprete.
PREMESSA: perché è stato inserito nello Statuto dei diritti del contribuente? E’ curioso che una norma di
contrasto all’elusione fiscale si trovi in un testo legislativo/legge del 2000 che prevede le garanzie, dei
principi a tutela del contribuente, che danno certezza al rapporto giuridico!
Perché? Perché si vuole dare all’abuso del diritto un connotato sì di disconoscere determinati
comportamenti elusivi, ma di farlo FERME RESTANDO DELLE GARANZIE previste per il contribuente  la
collocazione dell’articolo quindi è volta a far sì che siano enfatizzate le garanzie previse in caso di
accertamento anti elusivo per il contribuente.
Che cos’è l’elusione fiscale o l’abuso del diritto per l’art. 10bis, co1: “Configurano abuso del diritto una o
più operazioni prive di sostanza economica che, pur nel rispetto formale delle norme fiscali, realizzano
essenzialmente vantaggi fiscali in debiti. Tali operazioni non sono opponibili all’AF, che ne disconosce i
vantaggi, determinando i tributi sulla base dei principi elusi e tenuto conto di quanto versato dal
contribuente per effetto di dette operazioni”. In caso quindi in cui ricorrano quelle 3 situazioni, l’AF può
appunto disconoscere tutti i vantaggi fiscali e rideterminare il tributo secondo le regole che sarebbero state
applicate in assenza dell’aggiramento.
 la definizione dell’elusione fiscale deve avere 3 caratteristiche/si basa su 3 elementi
1. NON DEVE ESSERCI SOSTANZA ECONOMICA: la nozione di sostanza economica viene descritta nel co2,
lettera a  operazioni prive di sostanza economica i fatti, gli atti, i contratti, anche tra loro collegati
INIDONEI a produrre effetti significativi diversi dai vantaggi fiscali. Quindi l’unico scopo è quello di produrre
vantaggi fiscali. Sono indici di mancanza di sostanza economica in particolare la NON coerenza della
qualificazione delle singole operazioni col fondamento giuridico del loro insieme (Esempio: quando
abbiamo parlato di imposta di registro, pensiamo a un contribuente che intende cedere l’azienda ma sa che
la cessione d’azienda è soggetta a imposta di registro in misura proporzionale, quindi al posto di cedere
l’azienda che è una operazione gravosa ai fini dell’imposta, decide di cedere l’azienda suddividendola in
singoli beni. Non cede il complesso unitario ma i singoli beni d’impresa. Allora l’operazione non è coerente
perché le singole operazioni sono singole cessioni di beni, ma il fondamento giuridico del loro insieme è una
cessione d’azienda. Ecco che quindi una operazione di questo tipo è una elusione fiscale, priva di sostanza
economica, perchè lo scopo di questa cessione dei singoli beni era solo ottenere un vantaggio fiscale.
Le singole cessioni di beni sono infatti soggette all’IVA ma per il meccanismo di detrazione e rivalsa non
grava economicamente sui soggetti passivi dell’IVA.

2. L’ELUSIONE FISCALE DEVE COMPORTARE UN VANTAGGIO FISCALE: il vantaggio fiscale deve essere un
risparmio d’imposta. nel caso suddetto, è chiaro che vi è un vantaggio di imposta: anziché versare una
imposta di registro in misura proporzionale, vado a versare l’IVA, ma che col meccanismo di detrazione e
rivalsa non è un costo fiscale per l’imprenditore. Quindi ho un vantaggio fiscale.

3. IL VANTAGGIO FISCALE CHE L’ELUSIONE COMPORTA DEVE ESSERE IN DEBITO: in debito cosa significa,
vuol dire che viene realizzato in contrasto con le finalità fiscali, e ce lo dice la lettera b.
Si considerano vantaggi fiscali in debito i benefici anche non immediati realizzati in contrasto con le finalità
delle norme fiscali o coi principi dell’ordinamento tributario  quindi abbiamo un contrasto non tanto con
una specifica disposizione (perché avremo violazione e quindi evasione) ma abbiamo un contrasto con le
finalità delle norme fiscali, contrasto coi principi generali.
Nel caso della cessione dei singoli beni abbiamo certamente tale contrasto. Abbiamo un vantaggio in debito
perché sto spezzettando la mia azienda e la cedo a pezzettini per evitare l’imposta di registro.
Le finalità del sistema sono invece assoggettare a tassazione la circolazione delle aziende ad una imposta
indiretta di registro proporzionale.

 QUANDO ABBIAMO UN VANTAGGO FISCALE NON IN DEBITO?


Quando un contribuente si comporta in un certo modo, pone in essere una determinata operazione, per
ottenere una agevolazione fiscale. Assumiamo che venga detto che tutte le imprese che si trasferiscono in
Lombardia a seguito di una crisi, beneficiano di una riduzione dell’IRES del 50%.
Allora abbiamo una serie di imprese che si trasferiscono e lo fanno per ragioni fiscali, ma non in debito!!
Perché non contrasta con le finalità, che sono proprio quelle di riportare delle imprese in Lombardia.
Per verificare se vi è un vantaggio fiscale, devo confrontare 2 comportamenti:
quello posto in essere col comportamento che sarebbe stato posto in essere nella situazione fisiologica.

 QUESTE 3 CONDIZIONI, devono essere provate dall’AF. L’onere della prova grava sull’AF. Se l’AF è in
grado di dimostrarne la presenza, il contribuente può SUPERARE la norma anti elusiva fornendo
una prova, cioè che sussistono delle valide ragioni extrafiscali per porre in essere quella operazione.
Il co. 3 ci dice che: non si considerano abusive, in ogni caso, le operazioni giustificate da valide
ragioni extra fiscali non marginali, anche di ordine organizzativo gestionale, che rispondano a
finalità di miglioramento strutturale o funzionale dell’impresa ovvero dell’attività professionale del
contribuente. Quindi se il contribuente dimostra che sussistono valide ragioni EXTRA FISCALI, che
non hanno natura fiscale (ma di altro genere), allora a questo punto l’operazione pur avendo il
connotato di elusione fiscale, paralizza l’operatività dell’art. 10 bis e non viene considerata elusiva.
 Unica differenza: mentre le 3 condizioni devono essere provate dall’AF, le valide ragioni extrafiscali
devono essere provate dal contribuente.

ESEMPIO di ipotesi di difesa in una operazione reale dove l’AF ha contestato una elusione fiscale:
Assumiamo di avere una srl (1) che acquista da srl (2) un immobile per 100.000 euro. L’operazione è esente
da IVA, si applica una imposta di registro ridotta dell’1%  1.000 euro su 100.000 euro, quindi una aliquota
con imposta agevolata (quindi non il 9% ma 1%) ed è una aliquota agevolata perché la srl 1, la società che
acquista, si impegna a rivendere entro 3 anni l’immobile a terzi.
(diritto ad aliquota agevolata in tal caso). Quindi versa un tributo di registro dell’1% impegnandosi a
rivendere l’immobile. In procinto della scadenza dei 3 anni non trova acquirente per immobile e decide di
vendere l’immobile ai soci per mantenere viva l’agevolazione originaria. Perché in caso contrario, se la
società avesse mantenuto l’immobile, sarebbe tornata applicabile l’imposta del 9% e avrebbe dovuto
versare srl1 ulteriori 8.000 euro (avendone già versati 1.000). Lo vende quindi ai soci con aliquota del 9%
che si applica però non al prezzo di acquisto (assumiamo che lo abbia venduto per 120.000 ero), ma sul
valore catastale (che assumiamo sia 10.000 euro). Dopo il triennio i soci vendono a terzi, al 5 anni, che lo
acquistano con agevolazione prima casa. Quindi abbiamo
srl 1 che acquista da srl 2 immobile con impegno di rivenderlo entro 3 anni
nei 3 anni non vende e vende ai soci, e i soci vendono a terzi finiti i 3 anni, dopo 5 anni lo vendono.
PER L’AF QUESTA E’ UNA OPERAZIONE ELUSIVA  per l’AF Abbiamo una agevolazione fiscale, un risparmio
di imposta, l’operazione di vendita ai soci è priva di sostanza economica, il vantaggio fiscale è in debito, e
quindi vi è elusione fiscale.
QUALE PUO ESSERE LA DIFESA DEL CONTRIBUENTE?
A. Come prima cosa DEVE FARE I CONTI di qual è il tributo versato dalle varie operazioni poste in essere e
quale sarebbe stato il tributo nell’operazione fisiologica  Deve verificare se effettivamente vi è risparmio
d’imposta: allora cosa fa, bisogna verificare quale sarebbe stata la tassazione se i soci avessero acquistato
direttamente l’immobile in origine e rivenduto dopo i 5 anni.
E facendo i conteggi ai fini dell’imposta di registro, assumiamo che emerga che se i soci avessero acquistato
direttamente l’immobile da srl 2, e poi rivenduto entro 5 anni a terzi acquirenti, non vi sarebbe stato alcun
risparmio/non vi sarebbe stata tassazione più gravosa rispetto a quella che hanno posto in essere  in
questo caso possiamo già superare la norma anti elusiva!!! SE MANCA IL RISPARMIO D’IMPOSTA, MANCA
L’ELUSIONE FISCALE.
B. Poi può provare a dire che il vantaggio fiscale non è in debito, si può dimostrare l’assenza di violazione
della ratio del sistema, ma occorre qui spiegare perché è stato venduto prima del 3 anno ai soci. Allora ci
potrebbero essere ragioni ad esempio se i soci che volevano davvero acquistare l’immobile per andarci a
vivere, sono magari marito e moglie e quindi volevano andarci a vivere. Poi l’hanno rivenduto
semplicemente perché magari hanno trovato un immobile migliore.
 Davanti a una operazione che palesemente sembra di elusione fiscale, non è detto che vi sia, bisogna
fare dei ragionamenti difensivi (risparmio d’imposta c’è? se si, è in debito o no? E capire se ci sono delle
valide ragioni extrafiscali!! Di tipo magari finanziarie).
Dietro ad una operazione elusive ci sono magari ragioni di diritto del lavoro, di diritto civile, bisogna
studiare bene le ragioni extrafiscali per porre in essere quella determinata operazione.

GARANZIE A FAVORE DEL CONTRIBUENTE


Ci sono in particolare 5 garanzie.
1) Prevista dal co.5, art. 10-bis: possibilità per il contribuente di interpellare (presentare interpello)
all’agenzia delle entrate in cui intende conoscere se le operazioni che porrà in essere costituiscono abuso
del diritto. E’ un interpello la cui risposta permette al contribuente di avere una certezza sulle operazioni,
sapere in anticipo se le operazioni che porrà in essere sono operazioni che l’AF considererebbe elusive o
meno.
2) Prevista dal co. 6: è richiesto che l’AF richieda al contribuente spiegazioni PRIMA di emettere avviso di
accertamento. Il co.6 ci dice che senza pregiudizio dell’ulteriore azione accertatrice l’abuso del diritto è
accertato con singolo atto, PRECEDUTO A PENA DI NULLITA’ dalla notifica al contribuente di una richiesta di
chiarimenti da fornire entro il termine di 60 giorni in cui sono indicati i motivi per i quali si ritiene
configurabile un abuso del diritto. Quindi il contribuente non può ricevere direttamente un avviso di
accertamento che contesta l’elusione fiscale! deve prima ricevere una apposita comunicazione in cui l’AF
chiede quali sono i chiarimenti che lui può fornire in relazione all’operazione, e nello stesso avviso vanno
indicati i motivi per i quali l’AF ritiene che le operazioni siano da configurare come operazioni di abuso del
diritto. Perché la norma prevede ciò? Proprio perché nel caso dell’abuso del diritto l’AF deve provare le 3
caratteristiche principali, mentre il contribuente può superare l’elusione dimostrando le valide ragioni
extrafiscali.
3) Strettamente collegato alla garanzia di chiarimento suddetta, vi è una ulteriore garanzia che è quella
della “motivazione rafforzata”. In particolare, l’avviso di accertamento che sarà emesso dall’agenzia elle
entrate (qualsiasi avviso di accertamento anti elusivo) deve contenere le ragioni per le quali l’AF ha
disconosciuto gli argomenti del contribuente esposti in contraddittorio (che è obbligatorio!). anche la
motivazione rafforzata è obbligatoria a pena di nullità.
Il co. 8 ci dice che l’atto in positivo è specificatamente motivato a pena di nullità, in relazione alla condotta
elusiva, alle norme e ai principi elusi, agli indebiti vantaggi fiscali realizzati, nonché ai chiarimenti forniti dal
contribuente nel termine di cui al co. 6 . Quindi l’AF. Propone una richiesta di chiarimenti, e se il
contribuente risponde entro 60 giorni, l’avviso di accertamento dovrà necessariamente contenere A PENA
DI NULLITA’.
- la motivazione prevista per tutti gli avvisi di accertamento (ordinaria)
- la motivazione rafforzata (le ragioni per le quali l’AF ha deciso di non dare conto delle argomentazioni del
contribuente).
4) Prevista dal co. 10: è previsto che possa essere riscossa le somme derivanti dall’avviso di accertamento
solo a seguito della sentenza di 1 grado. In altre parole se il contribuente impugna l’avviso di accertamento
anti elusivo, l’AF non può riscuotere alcuna somma sino alla sentenza di 1 grado.
Quindi il contribuente, in deroga a quanto visto in tema di riscossione, quando vi è un avviso di
accertamento anti elusivo, potrà versare le somme solo a seguito della sentenza di 1 grado
(Se assumiamo che la sentenza rigetti il ricorso e accolga l’avviso di accertamento anti elusivo soltanto 2/3
dovrà versare dell’imposta + sanzioni).
5) Prevista dal co. 11: se l’AF considera elusiva una determinata operazione (e quindi la riqualifica nel senso
lineare e quindi nei confronti del contribuente che è il soggetto passivo e il destinatario dell’avviso vi è una
richiesta di una maggiore imposta in relazione ad una determinata operazione) gli altri soggetti contribuenti
coinvolti (terzi) possono chiedere un rimborso delle imposte che hanno pagato in relazione all’operazione
che è stata disconosciuta.

 Queste sono le 5 garanzie, ed è la ragione per cui questa disposizione in tema di elusione fiscale è
stata inserita nella legge 212/2000, per enfatizzare queste garanzie, addirittura previste a pena di
nullità per evitare equivoci.

A tutto ciò si deve aggiungere che nell’ipotesi in cui il contribuente ponga in essere una operazione dove vi
è una norma anti elusiva specifica (come il riporto sulle perdite), è da ritenere che questa norma generale
non trovi più applicazione. Quindi in materia di perdite fiscali, ricordiamo quando abbiamo parlato delle
condizioni previste per il riporto delle perdite, nel momento in cui quelle condizioni sono rispettate dal
contribuente, non ci può essere più elusione fiscale; o meglio, ci può essere elusione fiscale SOLO SE il
contribuente ha raggiunto quelle condizioni richieste MEDIANTE una operazione elusiva.
Ma nel momento in cui il contribuente rispetta legittimamente le condizioni richieste per il riporto delle
perdite (che sono di per sé già anti elusive) non si applica più la norma generale anti elusiva.
Le norme di carattere anti elusivo (come quella sul riporto delle perdite) sono sparse nell’ordinamento, ce
ne sono delle altre, e sono norme di cui si può chiedere la DISAPPLICAZIONE.
L’elusione fiscale, se viene accettata tramite una norma specifica disapplicativa, può essere questa norma
disapplicata se il contribuente dimostra che non vi è alcuna ratio elusiva nell’operazione che pone in essere.
Quindi per contrastare l’elusione, l’ordinamento usa varie armi (norma generale art. 10-bis ma poi abbiamo
norme specifiche con ratio anti elusiva, e in questo caso il contribuente può chiederne la disapplicazione
nel momento in cui ritiene di non aver posto in essere una operazione di carattere elusivo).

INTERPOSIZIONE E SIMULAZIONE
E’ un tema diverso dall’elusione fiscale.
L’interposizione può essere fittizia (e nel qual caso è una evasione) o reale (e nel qual caso è una elusione).
In generale la simulazione in materia tributaria può riguardare svariati elementi dell’obbligazione tributaria:
può riguardare l’esistenza stessa dell’obbligazione tributaria, la misura dell’obbligazione tributaria, un bene
acquistato e venduto, una categoria di reddito (come un bene d’impresa qualificato come bene personale
per sfuggire alla tassazione dell’eventuale plusvalenza quando il bene d’impresa viene ceduto).
Oppure la simulazione può riguardare l’inerenza (deduce un costo un soggetto diverso da me, ad esempio
acquisto un bene come il telefonino per ragioni personali e faccio dedurre il costo d’acquisto del telefonino
al fratello che invece è un libero professionista).
Quando invece parliamo di simulazione sui soggetti, parliamo di “interposizione”: il caso più tipico è quello
che riguarda vari calciatori dove venivano costituite delle società estere interposte che sfruttavano
l’immagine del calciatore. Tramite lo sfruttamento di quell’immagine il reddito veniva realizzato dalla
società che era estera localizzata in un paradiso fiscale, e quindi la gran parte della tassazione sui calciatori
veniva spostata sulla società estera e non si versava alcuna imposta.
L’interposizione è chiaramente contrastata dall’ordinamento, può essere elusione od elusione a seconda
che sia reale o fittizia, e nell’interposizione abbiamo un soggetto INTERPONENTE e un soggetto
INTERPOSTO.
Il primo è colui che viene tassato in ragione dell’accertamento dell’interposizione, mentre il secondo è colui
che ha versato il tributo in luogo dell’interponente (ovviamente in misura ridotta altrimenti non ci sarebbe
vantaggio a fare interposizione) e a quel punto potrà, secondo l’art. 37 del DPR 600 che disciplina
l’interposizione, l’interposto potrà chiedere un RIMBORSO delle somme che ha versato.
LEZIONE 21, IL PROCESSO TRIBUTARIO, CONCLUSIONE (Manuale importante, ottemperanza e revocazione)
Parliamo ora del processo tributario, soffermandoci sul cuore del processo, cioè la disciplina delle prove.
Anzitutto il processo tributario è disciplinato dal d.lgs. 546/1992, che rinvia, ove compatibile, alle norme
del codice di procedura civile. In particolare l’art. 1, co.2 del d.lgs. ci dice che “i giudici tributari applicano le
norme del presente decreto e, per quanto da esse non disposto e con esse compatibili le norme del codice di
procedura civile”. Quindi il modello processuale che abbiamo come riferimento è il modello de processo
civile, con tutte le peculiarità relative al processo tributario.

Iniziamo dalla GIURISDIZIONE: la giurisdizione tributaria, come ci insegna l’art. 1, co.1 d.lgs. 546, è
esercitata dalle commissioni tributarie, che si articolano in:
- commissioni tributarie provinciali (commissioni di 1 grado, che accolgono i ricorsi contro gli avvisi di
accertamento o le cartelle di pagamento di cui abbiamo parlato)
- commissioni tributarie regionali (commissioni di appello).
Solo in Trentino Alto Adige abbiamo la Commissione di I grado di Trento, e la Commissione di II grado di
Trento; stessa cosa per Bolzano, I grado di Bolzano e II grado di Bolzano.

CONTROVERSIE TRATTATE che rientrano nella giurisdizione: ce lo dice l’art. 2, d.lgs. 546,
le controversie aventi ad oggetto TUTTI i tributi, di ogni genere e specie.
Su questo possiamo dire svariate cose, ai tributi si aggiungono anche le sanzioni tributarie.
E’ fondamentale però sottolineare che NON è un giudizio di merito, il contribuente non può adire la
commissione tributaria in via preventiva per richiedere l’applicazione di una disposizione normativa
tributaria o per chiedere quale sia la giusta imposta: è pur sempre un processo di ANNULLAMENTO, è
necessario che ci sia un atto impugnabile per adire la commissione tributaria.
 Deve essere ricevuto quindi un atto di quelli impugnabili, che vedremo a breve.

I COMPONENTI DELLE COMMISSIONI TRIBUTARIE: è uno degli elementi più dolenti perché non sono
selezionati per concorso, ma sono scelti per titoli dal consiglio di presidenza della giustizia tributaria, e
possono farne parte anche soggetti che non hanno prettamente competenza fiscali. Le composizioni delle
commissioni sono del tutto variegate, e la logica di questo qual è: non è del tutto sbagliata, in quanto le
controversie tributarie presentano elementi che toccano materie diverse.
Se parliamo di redditi fondiari è chiaro che solo un geometra o un architetto possono comprendere
esattamente cosa c’è sotto una determinazione catastale; o solo un commercialista laureato in economia
può comprendere cosa c’è sotto a dei profili legati al reddito di impresa.
Questo vale per i giudici, magistrati, i membri delle commissioni: non hanno necessariamente preparazione
di diritto tributario.
Se la controversia riguarda l’esecuzione forzata, usciamo dalla commissione tributaria e dalla sua
giurisdizione e rientriamo nella GIURISDIZIONE DEL GIUDICE ORDINARIO, così come anche nel caso delle
controversie tra sostituto-sostituito, cioè controversie di diritto privato.
 Per tracciare un confine della giurisdizione tributaria dobbiamo pensare alle controversie con oggetto
tributi di ogni genere e specie che arrivano “fino” al titolo esecutivo (cartella di pagamento, iscrizione di
ipoteca, avviso di accertamento esecutivo), all’impugnazione de titolo esecutivo, ma la procedura
dell’esecuzione forzata riguardano il giudice ordinario.
La giurisdizione e le norme a riguardo vanno lette congiuntamente all’art. 19 d.lgs. 546, che prevede 1. Gli
atti impugnabili e 2. L’oggetto del ricorso.
E’ vero che le controversie rientrano nella giurisdizione tributaria quando hanno ad oggetto tributi, MA
l’azione può essere proposta dal contribuente SOLO se riceve un atto impugnabile.
E gli atti impugnabili sono disciplinati da quell’articolo.
GLI ATTI IMPUGNABILI (ex art. 19) si distinguono in:
- Atti autonomamente impugnabili: atti lesivi per il contribuente, espressamente elencati nell’art. 19, al
co.1., come l’avviso di accertamento del tributo, il ruolo e la cartella di pagamento, l’avviso di mora, il
rifiuto ad un rimborso, il fermo dei beni mobili ecc.  atti comunque espressamente elencati e lesivi per il
contribuente. Quindi se non sono impugnati entro il termine di impugnazione di 60 giorni, DIVENTANO
DEFINITIVI e non possono più essere contestati nel merito se non tramite istanze di annullamento in auto
tutela che però ovviamente non è una fase giurisdizionale ma riguarda il procedimento e il rapporto tra
contribuente-AF. Se l’atto non viene impugnato, diventa definitivo.
ESEMPIO: Assumo di ricevere avviso di accertamento non esecutivo: non lo impugno, l’atto diviene
definitivo, la pretesa fiscale si consolida e l’AF mi notificherà il titolo esecutivo, cioè la cartella di pagamento
previa iscrizione a ruolo. La cartella di pagamento è il titolo esecutivo ed è tra gli atti autonomamente
impugnabile, ma io contribuente non posso impugnare la cartella di pagamento denunciando vizi che
riguardano la pretesa fiscale contenuta nell’avviso di accertamento, perché una volta che questi atti non
sono impugnati DIVENTANO NEL LORO CONTENUTO DEFINITIVI  io contribuente potrò allora impugnare
la cartella di pagamento ricevuta, ma solo per vizi PROPRI DELLA CARTELLA ricevuta, non posso far valere
vizi che riguardano la precedente pretesa fiscale.
E ciò vale in tutte le fasi, se l’atto lesivo autonomamente impugnabile non è impugnato, diventa definitivo.
- Atti ad impugnazione differita: se vediamo il co.3, art. 19, questo ci dice che gli atti diversi da quelli
indicati (autonomamente impugnabili) non sono impugnabili autonomamente  quindi se il contribuente
riceve un atto che non è rientrante in quegli atti, non può impugnare quell’atto autonomamente.
Ecco in realtà, su questa norma, la giurisprudenza ha avuto una interpretazione estensiva tale per cui Ogni
volta che vi è un atto in cui è contenuta la pretesa fiscale, quindi è quantificata la pretesa fiscale, il
contribuente potrebbe impugnare l’atto. Se non impugnato, ovviamente non consolida i propri effetti,
perché non è un atto autonomamente impugnabile, ma si da la possibilità al contribuente di impugnarlo
comunque  anche gli atti non espressamente indicati al co1, possono essere impugnati, fermo restando
che non opera quell’effetto giuridico della definitività del contenuto dell’atto, se, questo atto che non è
autonomamente impugnabile, viene impugnato (orientamento molto criticato in dottrina).

Diciamo che la mancata notificazione di atti autonomamente impugnabili oppure degli atti che non sono
autonomamente impugnabili, possono essere pur sempre impugnati, ma non in via autonoma.
Il co.3 ci dice che  gli atti che non sono quelli autonomamente impugnabili, possono essere impugnati in
via differita, nel momento in cui si impugna l’atto successivo.
Quindi ad esempio la risposta negativa ad un interpello anti elusivo(che non è un atto impugnabile tale
risposta) può essere impugnata INSIEME/contestualmente all’avviso di accertamento che si riceve.
NON è invece un atto ad impugnazione nemmeno differita (oltre che non autonoma) il processo verbale di
costatazione.

AZIONI PROPONIBILI NEL PROCESSO TRIBUTARIO: sono sostanzialmente 2


a. Azione di annullamento  in cui si chiede l’annullamento dell’atto lesivo ricevuto. Ad esempio ricevo un
avviso di accertamento, lo impugno, presento ricorso per il suo annullamento.
b. Azione di condanna  lo abbiamo visto, nell’azione di condanna la domanda è triplice: viene chiesto
- annullamento del diniego di rimborso
- accertamento del credito da parte del giudice che il contribuente vanta verso l’AF
- condanna dell’AF al rimborso.
Quindi tale azione si sostanzia in 3 sotto-domande.
Le azioni sono proposte con un atto che è il RICORSO, in cui vi sarà ovviamente la domanda (o di condanna
o di annullamento). Il ricorso è l’atto iniziale del processo.
Per le cause sotto i 50.000 euro vi è una fase prodromica al ricorso che è il ricorso cd. “reclamo”, in cui si
attribuiscono 90 giorni di tempo alla agenzia delle entrate per fornire eventualmente una proposta di
accordo tra le parti.
L’atto invece del ricorso, un atto in cui il contribuente indica una serie di elementi:
- Domanda
- I motivi della domanda, il petitum e la causa petendi (Cioè le ragioni per cui chiede al giudice le ragioni di
illegittimità ad esempio di un avviso di accertamento notificato da una agenzia delle entrate non
competente, non dove il contribuente ha domicilio fiscale)
- La commissione tributaria provinciale competente, nella cui circoscrizione è stato emesso l’atto
impugnato.
- Il ricorrente e il difensore se non si difende in proprio
- Il soggetto contro cui è proposto il ricorso (es Agenzia delle entrate direzione provinciale di Firenze).
- Codice fiscale del contribuente, il valore della lite, l’eventuale istanza di pubblica udienza se riteniamo
utile che la causa non sia discussa in camera di consiglio ma in pubblica udienza
- L’istanza eventuale di sospensione dell’atto, se vogliamo ottenere anche la sospensione della riscossione.

 Una volta che il ricorso è predisposto, occorre NOTIFICARLO alla controparte.


Oggi con il processo telematico la notifica, che va fatta entro 60 giorni dal ricevimento dell’atto
impugnata, si fa via PEC, e a quel punto bisognerà costituirsi in giudizio sempre in via telematico.
Bisognerà poi (con procura se c’è difensore) depositare l’atto alla commissione tributaria entro 30
giorni. Da quel momento decorre il tempo di costituzione in giudizio, sempre di 60 giorni, per
l’agenzia delle entrate, che si deve costituire nel termine ordinatorio.
20 giorni liberi prima dell’udienza occorre presentare eventuali documenti ulteriori;
10 giorni liberi prima dell’udienza occorre presentare eventuali memorie.
(giorni liberi significa che nel conteggio di 10 giorni non devo considerare nè il giorno dell’udienza
nè il giorno del deposito dei documenti, devono decorrere almeno 10 giorni tra questi due giorni
per le memorie, e almeno 20 giorni per i documenti).
A quel punto vi sarà l’udienza in camera di consiglio (salvo la pubblica udienza in cui ci si presenta in
commissione tributaria e si discute davanti a loro, formata da 3 membri).
Nella commissione vi sono 3 persone di cui 1 è il presidente, l’altro il relatore, l’altro il giudice a
latere, abbiamo quindi una commissione che una volta discussa l’udienza decidono in camera di
consiglio e poi non comunicano immediatamente l’esito, ma non appena la sentenza verrà
depositata sarà comunicato.

Sia in I che in II grado oggi è emessa la CONCILIAZIONE.


Questo accordo tra le parti, con eventuale sconto sanzionatorio, è ammesso sia in 1 che in 2 grado.

Inoltre nel ricorso può anche essere richiesta la sospensione al giudice tributario: in tal caso prima della
fissazione dell’udienza di merito viene fissata una udienza in cui si discute la sospensione (fumus boni iuris
e periculum in mora). Discussione molto rapida.
Teniamo conto però che l’esecuzione forzata, anche se non venisse richiesta la sospensione, è sospesa per
180 giorni. Se sussiste il periculum in mora e il fumus boni iuris, il giudice con una ordinanza ammette la
sospensione della riscossione e poi fissa l’udienza di merito.

TEMA DELLE PROVE: il cuore del processo tributario.


Nel processo amministrativo ci sono svariati articoli in tema di prova; nel processo tributario invece non c’è
una disciplina organica e completa della prova.
L’unica norma che riguarda la prova è l’art. 7 del d.lgs. 546, ma occorre leggere la disposizione in raccordo
col codice di procedura civile (laddove compatibili, le norme del processo tributario sono integrabili con le
norme del processo civile).
Così, nel processo tributario si applica l’art. 115 cpc, che prevede che anche il giudice tributario deve porre
a fondamento della decisione e prove proposte dalle parti.
Dalle disposizioni, anche se scarne, emerge però come il processo tributario abbia natura DISPOSITIVA e
non inquisitoria  cioè il giudice non avvia un processo in assenza dell’attività delle parti.
E’ il contribuente che col ricorso avvia il processo dopo aver ricevuto un atto impugnabile.
Sono poi le parti che fissano i termini del processo, e i fatti che il giudice può conoscere.
L’art. 115 dice appunto che il giudice deve porre a fondamento le prove PROPOSTE dalle parti.
Quindi la raccolta delle prove è nelle mani principalmente delle parti.
I poteri di acquisizione probatoria da parte del giudice tributario sono invece circoscritti.
PASSO INDIETRO: il processo tributario è un processo di impugnazione principalmente (tranne azioni di
condanna), ma per formare un avviso di accertamento abbiamo visto c’è un atto amministrativo vincolato
nel contenuto che non è discrezionale e che determina autoritativamente l’obbligazione tributaria, e
l’amministrazione deve precostituirsi la prova nell’attività istruttoria. E ciò va collegato col fatto che nelle
regole di distribuzione dell’onere della prova è l’AF che ha in linea generale l’onere di provare la pretesa
fiscale, salvo casi contrari in cui è il contribuente.
La conseguenza qual è  l’AF che forma l’atto in positivo è l’ATTORE IN SENSO SOSTANZIALE, mentre il
contribuente che riceve e impugna è l’ATTORE IN SENSO FORMALE.
Quindi abbiamo questa distinzione.
Sotto questa prospettiva, la motivazione non è altro che la descrizione del fondamento probatorio della
pretesa fiscale. Tendenzialmente, salvo casi patologici, gli elementi di prova dell’AF non sono contraffatti o
alterati, l’agenzia delle entrate è una PA, ha un obbligo di imparzialità e trasparenza, infatti difficilmente il
contribuente contesta l’elemento materiale della prova cioè i dati fisici o gli elementi documentari.
In un accertamento bancario non si vede mai che il contribuente contesti la veridicità di un estratto conto.
Piuttosto è oggetto di contestazione il fatto che da quella prova si desuma un maggior imponibile, cioè una
pretesa fiscale. Quindi viene contestato non tanto dal contribuente la validità di un documento prodotto
dall’agenzia delle entrate, quanto gli elementi di collegamento tra DOCUMENTO-PRETESA FISCALE!!
Quindi a sua volta il contribuente potrà produrre dei documenti a sostegno delle sue argomentazioni.
L’oggetto quindi del processo tributario deriva si dalla domanda, ma prima ancora dal CONTENUTO
dell’avviso di accertamento  è la sua motivazione, il suo dispositivo che determinano il contenuto del
processo, NEI LIMITI DEL PETITUM E DELLA CAUSA PETENDI DEL CONTIRBUENTE.
Quindi nel processo tributario l’AF non può estendere oltre l’avviso di accertamento la pretesa fiscale, ma
semplicemente limitarsi a difenderne il contenuto, fornendo i documenti di prova che supportano la
motivazione dell’avviso.
Però è importante tenere conto che l’oggetto del processo può essere ridotto dal contribuente, ad esempio
ricevo un avviso di accertamento in materia di IVA e IRAP e impugno soltanto l’avviso di accertamento nella
parte riguardante IRAP, mentre l’altra parte diventa definitivo e non più contestabile.
I motivi di illegittimità dell’atto devono essere TUTTI esposti e dedotti nel corso di giudizio di 1 grado.
Il contribuente non può, salvo casi particolarissimi (motivi aggiunti), non può aggiungere motivi in seguito o
in appello creare motivi nuovi perché cambia difensore e si accorge di vizi dell’atto non denunciati.
Sotto quel profilo quindi l’avviso di accertamento non si può più contestare.

Il giudice tributario però dispone anche di poteri istruttori, disciplinati dall’art. 7, co1, del d.lgs.
Le commissioni cosa possono fare in sintesi: hanno gli stessi poteri dell’AF, possono disporre accessi,
richiedere informazioni, dati, chiarimenti, possono disporre lo svolgimento di una consulenza tecnica,
quindi questi poteri sono modellati su quelli dell’AF e sono però esercitati nei limiti dei fatti dedotti dalle
parti (art. 7). Il giudice quindi non può esercitare poteri istruttori al di là di quanto richiesto delle parti al
fine di scoprire dei fatti che non sono stati accertati e dedotti dall’ente impositore, non può andare a
supportare con elementi di prova ulteriori una pretesa fiscale con elementi non dedotti dalle parti nel
giudizio.

Abbiam poi visto come sussistano in materia tributaria delle PRECLUSIONI: l’art. 32 del DPR 600 ci dice che
le notizie o i dati non addotti o gli atti e documenti non esibiti e non trasmessi in risposta agli inviti
dell’ufficio, non possono essere più essere presi in considerazione a favore del contribuente in sede
amministrativa o contenziosa. Abbiamo visto come si tratti di preclusione probatoria, che limita il diritto di
difesa e come tale va interpretata in senso restrittivo. La richiesta dell’AF deve essere specifica, l’ufficio
deve informare inoltre il contribuente della preclusione!!
Se il contribuente invece si trova nella impossibilità di fornire il documento, nel momento in cui deposita il
ricorso, il contribuente può depositare il documento che non ha prodotto in risposta all’istanza della
agenzia delle entrate, specificando i motivi per cui era nell’impossibilità di produrli.
Può essere quindi superata la preclusione alla produzione dei documenti dal fatto che il contribuente in
origine fosse impossibilitato dal produrlo e lo produce in sede di ricorso spiegando le ragioni per cui non
aveva potuto farlo prima.
Inoltre la preclusione non opera laddove l’AF chieda al contribuente un documento che è già nelle sue
mani.

LE PROVE ESCLUSE: nel processo tributario sussistono delle prove escluse


In particolare, GIURAMENTO e TESTIMONIANZA non sono prove ammesse  il processo tributario è
prevalentemente documentale e scritto. Anche la dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà non ha
efficacia probatoria.
Da alcune norme emerge questo carattere documentale del processo, come l’art. 61 del DPR 600, per cui i
contribuenti obbligati alle scritture contabili non possono provare circostanze omesse nelle scritture
contabili stesse!!!
La Corte costituzionale si è pronunciata e non ha ritenuto fondata la questione di costituzionalità del divieto
di testimonianza  quindi non vi è lesione del diritto di difesa.
E’ invece AMMESSA come PROVA la CONFESSIONE, seppur non è espressamente disciplinata.
Occorre però considerare che si la confessione è considerabile come prova ma nel caso di tributi si tratta di
diritti non disponibili, per cui non può essere considerata una piena prova che va al di là dell’indisponibilità
dell’obbligazione tributaria, deve pur sempre esserci un fondamento giuridico, si deve trattare dei fatti
incerti per cui si applica la confessione, non certamente per tassare un reddito che non sarebbe imponibile
:’)

Sono invece PROVE liberamente valutabili dal giudice, le Dichiarazioni rese al di fuori del processo anche da
terzi in atti extra processuali  le dichiarazioni di terzi non costituiscono una prova ma un INDIZIO.
Per il principio di parità delle armi, se si ammettono delle dichiarazioni di terzi che sono raccolte dall’AF in
sede di verifica, si devono ammettere anche dichiarazioni di terzi prodotte dal contribuente durante il
processo: resta il fatto che hanno valore indiziario. E questo vale anche se rese all’interno di un processo
penale o civile, all’interno quindi di un altro processo.

Diverse dalle prove escluse, sono le prove ammesse ma che sono state acquisite in maniera IRRITUALE, o
addirittura le PROVE ILLECITE.
Come si valuta se una prova che è acquisita illecitamente è utilizzabile o meno?
Si pensi ad un documento rinvenuto durante un accesso privo delle autorizzazioni;
Ecco in tema di processo penale, vi è una norma, l’art. 191 del cpp che prevede che le prove acquisite in
violazione dei divieti stabiliti dalla legge non possono essere utilizzate  nel processo tributario non c’è
una simile disposizione e non può essere utilizzata in materia tributaria la disposizione del codice di pp in
materia tributaria.
In materia civile invece si divide tra prova costituenda (acquisita nel processo, e se acquisita irritualmente
non è efficace, ad esempio la testimonianza da persona non ammessa a testimoniare) e la prova costituita
(quella procurata al di fuori del processo)  non esiste in materia civile un divieto espresso di utilizzo di
tale prove, anche se vi è un illecito commesso durante il reperimento della prova.
La tesi più accreditata è quella della utilizzabilità di queste prove, salvo che non vi sia una violazione di un
principio costituzionale(in una causa di separazione sono stati ritenuti utilizzabili i messaggi di posta
elettronica che un coniuge che aveva illecitamente prelevato all’altro per dimostrare la relazione extra
coniugale).
Anche in materia tributaria, occorre effettuare un bilanciamento: non qualsiasi irritualità nell’acquisizione
di elementi rilevanti ai fini dell’accertamento fiscale comporta l’inutilizzabilità degli elementi in mancanza di
una specifica previsione in tal senso.
Ovviamente salvo i casi in cui è in discussione la tutela dei diritti fondamentali di rango costituzionale come
la libertà personale o il domicilio ecc.
Ad esempio nel caso Falciani: caso di dipendente di banca svizzera che ha sottratto alla banca una serie di
documenti finanziari commettendo reato, riconducibili a vari contribuenti europei, e ha inviato e venduto
questa lista all’AF francese. Questa tramite legittimo scambio di informazioni ha inviato all’AF italiana i dati
relativi ai contribuenti italiani, e quindi l’AF italiana ha emesso degli avvisi di accertamento nei confronti dei
contribuente italiani destinatari di questo invio.
Alla base del documento rinvenuto, c’era un lecito scambio di informazioni con la Francia, ma se andiamo a
monte c’era un furto commesso da un dipendente. La Cassazione in caso ha deciso che l’interesse fiscale
dell’erario prevale sull’interesse del contribuente al segreto bancario, e quindi ha effettuato un
bilanciamento di interessi dando prevalenza all’interesse fiscale >> segreto bancario.
Per contro non sono utilizzabili le prove acquisite senza le necessarie autorizzazioni da parte dell’autorità
giudiziaria.
Sono invece utilizzabili le prove che vengono acquisite in sede penale e trasmesse all’amministrazione
senza l’autorizzazione dell’autorità giudiziaria, perché? Ce lo dice la Cassazione, perché l’autorizzazione è
prevista a tutela del segreto investigativo, non a tutela del contribuente. Non essendoci una violazione dei
diritti fondamentali del contribuente, perciò, quell’eventuale documento è utilizzabile anche senza
autorizzazione  bilanciamento di interessi.

Le prove possono anche provenire da ALTRI PROCESSI, come da un processo penale potrebbero provenire
delle intercettazioni; le regole del processo tributario sono regole proprie e non opera il divieto del cpp per
cui i risultati delle intercettazioni non possono essere utilizzate in altri procedimenti.
Si pone poi una questione rispetto alle sentenze del giudice penale: la statuizione su di un reato non è una
prova di evasione fiscale, ma le statuizioni contenute in una sentenza possono costituire prova.
Ma mentre nel processo penale sono ammesse prove non ammissibili nel processo tributario, occorre
considerare questi limiti propri del processo tributario, e concludere che un giudicato penale NON
necessariamente vincola il giudice tributario, i due processi sono infatti retti da regole processuali diverse
(penale e tributario da due parti distinte). Ad esempio nel processo tributario si fa largo uso delle
presunzioni che non sono invece essere utilizzate nel processo penale.
 Una volta che le prove sono prodotte al giudice, il giudice le valuta secondo il suo prudente
apprezzamento, salvo che la legge non disponga diversamente.
Valgono per il giudice tributario le norme sull’efficacia probatorio dell’atto pubblico e della scrittura privata.
In part., interesse ha destato il valore di prova del processo verbale di constatazione.
Il processo verbale di constatazione è un atto pubblico e l’atto pubblico fa piena prova, ma fa piena prova
soltanto della provenienza del documento dal pubblico ufficiale che lo ha formato e delle dichiarazioni delle
parti o dei fatti avvenuti in sua presenza. Quindi tale processo verbale di constatazione non è una prova di
una pretesa fiscale, ma fa prova con riguardo a ciò che colui che lo ha redatto ha indicato essere avvenuto
in sua presenza!!!
Non fa piena prova invece in relazione alle risultanze del processo verbale di constatazione stesso.

APPLICAZIONE DEL PRINCIPIO DI ALLEGAZIONE: il giudice può valutare TUTTE le prove dedotte in giudizio,
ossia tutte le prove acquisite nel fascicolo di causa, indipendentemente da chi sia la parte che le ha
prodotte. Quindi ad esempio se il contribuente produce un documento che è a favore dell’agenzia delle
entrate, può essere utilizzato nella decisione della controversia.
Invece il processo verbale di constatazione è uno di quegli atti che non si produce mai nel ricorso, che
solitamente è un atto a favore del contribuente, ed è un documento che il contribuente non è tenuto a
depositare in giudizio. Altrimenti il giudice può considerare il pvc contro il contribuente anche se è prodotto
dal contribuente stesso.

Abbiamo poi visto tutte una serie di presunzioni applicabili di volta in volta, nel diritto tributario ve ne sono
moltissime. Alcune di queste sono contenute nel diritto sostanziale, altre nel diritto formale (come la
presunzione legata all’accertamento sintetico di determinazione del reddito basata sulle spese del
contribuente basato sugli studi di settore).
All’interno del processo quindi entrano a far parte anche le presunzioni, ma vi è una differenza
fondamentale: se le presunzioni sono presunzioni LEGALI (in quel caso hanno valore per il giudice) o
SEMPLICI ( e in questo caso ne va valutata la precisione la gravità e la concordanza).

Abbiamo anche visto oltre alle presunzioni l’Onere della prova: grava sull’amministrazione finanziaria.
Il fatto non provato è considerato dal giudice come non avvenuto. Se di un fatto non esiste la prova che è
avvenuto, la decisione risulta sfavorevole alla parte interessata all’avverarsi del fatto non provato.
L’AF è l’attore in senso sostanziale, cioè colui che emette l’avviso di accertamento, che è l’atto che
determina l’oggetto del processo nei limiti della domanda.
Vi sono poi dei casi in cui vi è un inversione dell’onere della prova che grava sul contribuente, o casi in cui
per una questione di vicinanza all’onere della prova è richiesto al contribuente di fornire lui determinate
prove (es prova di inerenza di un costo).

Nel processo tributario, si applica anche il PRINCIPIO DI NON CONTESTAZIONE ex art. 115, per cui il giudice
deve porre a fondamento della decisione
- le prove dedotte dalle parti
- ma ANCHE i fatti non specificatamente contestati dalla parte costituita.
Ciò rende essenziale cosa: che tutti i fatti che sono contenuti nell’avviso di accertamento che non
corrispondono al vero devono essere contestati.
Così come l’AF nell’atto di costituzione in giudizio deve contestare tutti i fatti contenuti nel ricorso che non
sono corrispondenti al vero, altrimenti opera il principio di non contestazione.

Per concludere il processo tributario: prima eravamo arrivati alla discussione in pubblica udienza o in
camera di consiglio. Una volta discussa la sentenza, questa poi viene pubblicata.
La sentenza può essere una sentenza di rigetto del ricorso o di accoglimento del ricorso: se la sentenza
accoglie il ricorso, annulla l’atto impugnato. Se la sentenza rigetta il ricorso, implicitamente conferma la
validità dell’atto impugnato. Ovviamente è ammesso l’APPELLO in commissione tributaria regionale da
parte della parte soccombente. Quindi il contribuente a cui viene rigettato il ricorso può presentare
appello, cosi come l’agenzia delle entrate se il ricorso viene accolto e annullato l’atto.
 L’APPELLO E’ UNA IMPUGNAZIONE SOSTITUTIVA, la sentenza d’appello quindi SOSTITUISCE la sentenza
di I grado.
Nell’appello devono essere proposti (onere di riproposizione) i motivi di ricorso, occorre però che siano
riproposti in una logica di impugnazione di sentenza di 1 grado. La difficoltà di redigere appello è data da 2
elementi: da un lato il contribuente non deve dimenticarsi i motivi dedotti in 1 grado, bisogna riproporli se
intende riproporli; dall’altro lato non può essere però una mera riproposizione così come era nel giudizio di
1 grado, perché deve trattarsi di una critica alla sentenza appellata, bisogna quindi riproporre i motivi di 1
grado SOTTO UNA ANGOLAZIONE DI CRITICA DELLA SENTENZA DI APPELLO.
Nel giudizio d’appello non possono essere prodotti e sostenuti nuovi motivi, aggiunti nuovi motivi non
dedotti in 1 grado, ma solo rivisitare e ri-argomentare. Una volta che abbiamo la sentenza d’appello di II, la
sentenza di II è impugnabile SOLTANTO per un giudizio di legittimità davanti alla Cassazione e in tal caso si
applicano le regole del cpc. La Cassazione allora potrà cassare con rinvio la sentenza di appello, o senza
rinvio. Se con rinvio, si ripropone il giudizio d’appello davanti alla commissione tributaria regionale.

 CONCLUSIONE CORSO.

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