LEZIONE 1, I TRIBUTI
La prima domanda da porci in primis è PERCHE’ STUDIARE IL DIRITTO TRIBUTARIO.
La risposta più semplice è “perché siamo tutti contribuenti, soggetti passivi del tributo”, qualcuno invece
può pensare “io non ho reddito, quindi non sono un soggetto passivo” in realtà siamo soggetti passivi
anche nel momento in cui beviamo un caffè in un bar, o acquistiamo qualsiasi bene, in quanto vi è una
imposta sul consumo, cioè l’“imposta sul valore aggiunto” , l’IVA, che ha meccanismi tali per cui a versare il
tributo sarà il venditore del bene acquistato ma il soggetto su cui grava il tributo è poi il consumatore finale
ecco perché tutti devono avere conoscenza della materia tributaria.
Non solo siamo tutti contribuenti, ma qualsiasi cosa studiamo è verosimile che il diritto tributario ci
riguarderà. Ad esempio un’operazione straordinaria dal punto di vista societaria può esser fatta se si
conoscono le conseguenze fiscali, o magari si ha un avvocato tributarista che si occupa di queste questioni,
ma perlomeno bisogna sapere Quando chiamare l’avvocato tributarista, non si può chiedere il suo aiuto
ogni giorno, bisogna SAPER IDENTIFICARE UN PROBLEMA FISCALE.
L’art. 53 Cost. “Capacità contributiva” si occupa della materia tributaria, l’art 23 Cost. che riguarda la riserva
di legge, etc. Qualsiasi cosa faremo nella nostra vita, saremo contribuenti, e avremo influenza del diritto
tributario.
DOMANDA: PERCHE’ SERVONO I TRIBUTI? A COSA SERVE UN TRIBUTO, UNA TASSA, UN IMPOSTA?
La risposta immediata è Per far fronte alle spese pubbliche, per accrescere il gettito statale (gettito =
reddito della prospettiva dello stato), occorre imporre il pagamento di TRIBUTI. Tutti contribuiscono
versando dei tributi che servono allo stato per far fronte alle spese pubbliche, come in questo caso
all’emergenza sanitaria. Quindi capiamo la loro importanza. Uno Stato senza tributi non può esistere; è
necessario per far fronte alle spese pubbliche, per avere un sistema di istruzione, un sistema sanitario, per
avere strade. 1 OBIETTIVO Accrescere il gettito.
Esistono però altre due ragioni per cui sussistono i tributi.
2 OBIETTIVO/RAGIONE Ridistribuzione della ricchezza. Tramite i tributi siamo in grado di ridistribuire
nella società ricchezza, questo lo facciamo tramite un sistema fiscale progressivo. Chi più ha, più paga, e
quindi significa ridistribuire in parte la ricchezza, in qualche modo anche garantendo le cd NO TAX AREA,
cioè delle ipotesi in cui un contribuente non può far fronte a tributi, ma può beneficiare dei servizi pubblici
essenziali in ogni caso, mentre chi può dare di più e sacrificarsi di più lo deve fare. Questo tramite i tributi
stessi in quasi tutti gli stati del mondo avviene una ridistribuzione della ricchezza, anche in quei stati che
hanno un sistema fiscale con aliquota fissa (se anche immaginiamo di adottare un’unica aliquota del 30% è
evidente che se il mio reddito è 1mln di euro verserò 300.000 euro, se il reddito è di 10.000 euro ne verserò
3.000, anche qui c’è una imposta proporzionale, seppur la redistribuzione sia INFERIORE rispetto a quella
che si ha con una aliquota proporzionale dove all’aumentare del reddito non aumenta solo il tributo come
in quel caso ma anche la percentuale del tributo/l’aliquota stessa, rispetto al proprio reddito).
3 FUNZIONE Funzione di policy/regolamentare. Il tributo serve a regolamentare la condotta umana. Il
tributo a volte è istituito con lo scopo di modificare un certo comportamento umano, pensiamo alla Carbon
Tax, tributo che colpisce certe emissioni inquinanti, è un tributo che ha come scopo disincentivare quel
comportamento che comporta l’inquinamento, quindi obiettivo di policy: viene adottato un tributo per
ottenere un certo comportamento. Pensiamo anche all’area C di Milano, occorre versare un importo di
euro 5 per entrarvi. E’ un tributo che viene imposto non tanto per ottenere gettito, bensì per influenzare la
condotta umana: disincentivare l’uso dell’auto nel centro di Milano. Il contribuente cittadino quindi che
versa il tributo ha una scelta: o versa il tributo, o cammino e non inquino/non incremento traffico.
(Ce ne sono tanti, nel 1600 ad esempio nella Russia venivano assoggettati ad imposta tutti coloro con la
barba, l’idea era disincentivare i russi a non avere la barba, perché si voleva rendere i Russi in quel
momento storico più simili agli europei).
QUESTI 3 OBIETTIVI SI MESCOLANO TRA DI LORO, può succedere che un tributo che ha come
scopo quello di incrementare il gettito influenzi indirettamente la condotta umana.
Es negli anni 40 l’aliquota marginale massima negli USA era il 94% (imposta sul reddito sulle
persone fisiche) era una aliquota che disincentivava le persone fisiche ad avere un reddito
superiore a 300.000 euro. Da una parte lo scopo è aumentare il gettito, che però ha influenza
anche nella condotta umana.
Bisogna però anche pensare a delle ALTERNATIVE, quando pensiamo a queste 3 funzioni bisogna pensare
che ci sono delle alternative il gettito si può accrescere anche con modalità diverse, uno stato ad
esempio può mettersi a fare attività d’impresa direttamente; per ridistribuire la ricchezza si possono
prevedere ipotesi di Social welfare che provvedano senza toccare il sistema tributario, pensiamo all’ipotesi
di abitazioni date in comodato di uso gratuito; oppure gli obiettivi di policy, posso prevedere dei divieti con
sanzioni senza natura tributaria per disincentivare i comportamenti TUTTI E 3 GLI OBIETTIVI HANNO
ALTERNATIVE effettive e concrete.
NOZIONE DI TRIBUTO: non è una nozione semplice in quanto non è prevista da nessuna norma.
Il tributo non è definito dal legislatore, e quindi possiamo vedere come lo hanno definito la
giurisprudenza e la dottrina.
A. GIURISPRUDENZA.
Una sentenza importante a riguardo è la sentenza della Corte Costituzionale n. 73/2005
prevede che, affinché si abbia un Tributo, sono necessarie 4 caratteristiche per la giurisprudenza:
1. IL TRIBUTO DEVE ESSERE IMPOSTO EX LEGE. Non è che il tributo è versato spontaneamente, né
sulla base di un contratto, deve essere imposto dalla legge. La sua fonte è LA LEGGE.
2. DEVE ESSERE COATTIVO. Non è su base volontaria che qualcuno decide di versarlo o meno, è
imposto coattivamente con un atto dell’autorità. Se il contribuente non dichiara e non versa,
l’amministrazione finanziaria (agenzia delle entrate) che con un atto di accertamento andrà ad
accertare e poi in seguito a riscuotere coattivamente il tributo.
3. DEVE FINANZIARE LE SPESE PUBBLICHE. Un tributo è raccolto per far fronte a spese pubbliche,
non individuali.
4. NON DEVE ESSERCI SINALLAGMATICITA’ TRA TRIBUTO VERSATO-SERVIZIO PUBBLICO RESO.
E’ chiaro che io verso un tributo per ottenere in cambio servizi pubblici, ma non c’è una equivalenza
economica tra il contributo che io verso e il valore dei servizi pubblici che ricevo in cambio. Si
contribuisce Non in ragione di ciò che ricambia lo Stato, ma lo si fa in ragione della proprietà
capacità contributiva.
B. DOTTRINA. (del manuale, come ha ricostruito la nozione di tributo Francesco Tesauro)
Ci sono dei tratti di similitudine con la nozione della giurisprudenza.
Anzitutto il Tributo comporta il sorgere di una obbligazione ex lege (come anche viene detto dalla
giurisprudenza), ma aggiunge anche che il tributo deve avere effetti definitivi: non è un prestito
forzoso, ma ha effetti definitivi. Questo non è che non viene detto dalla giurisprudenza,
probabilmente lo ha dato per implicito.
Deve essere imposta con un atto dell’autorità, non c’è un contratto alla base ne un rapporto di
sinallagmaticità (come abbiamo visto) il tributo quindi non è un contributo previdenziale, non è
una espropriazione, è una obbligazione ex lege con effetti definitivi imposta con un atto
dell’autorità. Anche Tesauro sottolinea che il tributo è destinato a finanziare le spese pubbliche.
Quindi da ciò consegue che vi deve essere UN INDICE DI RIPARTO delle spese pubbliche:
la materia tributaria non è solo un rapporto come sembra apparentemente tra il contribuente e lo
stato, bensì è anche un rapporto TRA contribuente e contribuente. Le spese pubbliche
necessariamente devono essere divise tra i contribuenti, se qualcuno non versa il tributo, qualcun
altro dovrà farlo, quindi le regole relative all’ammontare di tributo che ciascuno di noi deve versare
sono regole che riguardano non solo rapporto stato-contribuente, ma anche regole di riparto della
spesa pubblica tra i contribuenti stessi.
sintetizzando le caratteristiche,
- Obbligazione ex lege
- Carattere definitivo
- Deve essere coattivo
- Privo di natura sinallagmatica
- Finanziare le spese pubbliche.
QUESTA TRIPARTIZIONE HA (oltre che terminologico) UN SIGNIFICATO GIURIDICO, che è quello che
riguarda la capacità contributiva. Difatti per la Corte Costituzionale il principio di capacità contributiva
secondo cui in breve tutti sono tenuti a contribuire alle spese pubbliche in ragione della capacità
contributiva, è un principio che si applica alle IMPOSTE, MA NON ALLE TASSE. Questo perché si ritiene che il
principio di capacità contributiva riguardi solo quei servizi indivisibili resi alla collettività, non al singolo
contribuente. In quest’ultimo caso il tributo non deve rispettare il canone della capacità contributiva.
Tesauro (così come anche il prof) è critico nei confronti di questa bipartizione perché bisogna distinguere
tra tassa e tassa. Pensiamo alla tassa che un bar deve versare per l’occupazione del suolo pubblico: è una
tassa che non deve necessariamente rispettare il canone della capacità contributiva perché il contribuente
versa il tributo per ottenere come servizio la possibilità di utilizzare il suolo pubblico.
Pensiamo invece al contributo unificato: è una tassa che si versa non tanto per ottenere un beneficio ma
PER AVERE GIUSTIZIA. Paradossalmente chi subisce un danno patrimoniale si trova a dover agire davanti ad
un giudice per ottenere giustizia/risarcimento, versa un contributo unificato e lo fa per potersi tutelare, qui
c’è un servizio indispensabile, un diritto fondamentale dell’individuo. Quindi si la distinzione tra imposta e
tassa va fatta ma con riferimento alle tasse bisogna distinguere tra i servizi.
Per quanto riguarda la giurisprudenza bisogna stare attenti perché la Corte ha dato definizioni diverse in
relazione all’art. della Costituzione che la corte si è trovata ad interpretare.
Un conto è l’art. 53 Cost., per cui tutti sono tenuti a contribuire alle spese pubbliche: qui la corte dice che
quell’art. si applica solo alle imposte.
Però ci sono altre nozioni di tributo, es data dall’art. 75 Cost., che vieta il referendum abrogativo in materia
tributaria, non si può abrogare un tributo con referendum, e qui ovviamente la Corte ne dà una nozione
molto ampia.
ciò per dire che potremmo trovare sentenze della Corte costituzionale che danno una definizione diversa
di tributo rispetto alla funzione che l’articolo della costituzione coinvolto ha.
Cosa serve a capire se una certa somma che io verso all’amministrazione pubblica è un tributo o no? E’
fondamentale, serve ad esempio se una determinata controversia rientra nella giurisdizione tributaria.
Serve per sapere se si applicano i principi costituzionali in materia tributaria.
Lo statuto dei diritti del contribuente è la legge più importante in materia tributaria.
Concludendo: il diritto tributario è quel settore dell’ordinamento che disciplina i tributi.
E qui distinguiamo una disciplina sostanziale (una disciplina che studia il presupposto del tributo, il
soggetto passivo, e la misura del tributo) da una disciplina formale (che riguarda l’attuazione del tributo, la
verifica che l’amministrazione finanziaria fa nei confronti dei contribuenti, la fase della dichiarazione dei
redditi, la fase d’accertamento, la fase del processo tributario).
A) LE FONTI
Parlando di fonti, cioè di fatti che pongono in essere il diritto, nella specie quello tributario, non possiamo
che partire dalle FONTI PRIMARIE e dalla COSTITUZIONE. In Costituzione ci sono norme riguardanti
- Il diritto tributario e altre discipline
- Il diritto tributario in modo più specifico, e che riguardano esclusivamente esso
Distinguiamo le norme di diritto tributario in Costituzione in 2 grandi macrocategorie:
1. LE NORME DI PRODUZIONE DEL DIRITTO quindi norme che riguardano la produzione di altre norme
di rango primario. Non facciamo riferimento alle norme che prevedono l’emanazione della legge (regole
comuni ad altre materie), bensì a quelle regole specifiche riguardanti il diritto tributario. In particolare
queste norme sono l’Art. 23 e l’Art. 75, co2.
2. LE NORME SOSTANZIALI DI VALUTAZIONE DEL DIRITTO TRIBUTARIO in tal senso dobbiamo far
riferimento all’Art. 53 che prevede 2 principi:
a. CAPACITA’ CONTRIBUTIVA
b. PROGRESSIVITA’ DELL’IMPOSIZIONE
Oltre alla legge abbiamo ATTI AVENTI FORZA DI LEGGE pari-ordinati di grado: decreto legge e
decreto legislativo.
Il decreto legge è molto utilizzato in materia tributaria, seppur sia una patologia del sistema criticato da
tutti, ma è conseguenza di 2 fattori:
Anzitutto è conseguenza all’art 81 Cost, secondo cui ogni nuova spesa prevista deve prevedere la copertura
finanziaria se un decreto legge prevede una nuova spesa per far fronte a necessità ed urgenza, è
necessario che ci sia anche la copertura finanziaria, e quindi possiamo trovare nei decreti legge anche delle
disposizioni fiscali.
In secundis il decreto legge è strumento efficace perché previene delle distorsioni inefficienti dei
comportamenti cioè il decreto è immediatamente efficace quindi il fatto che una determinata disicplina
fiscale sia emanata con decreto legge, impedisce ai contribuenti di evitare quella disposizione in quanto
non può conoscere prima il suo contenuto, non ha il tempo per farlo.
E’ uno strumento però abusato in materia tributaria e l’abuso è superato perché c’è la conversione in legge,
quindi c’è l’abuso originario del decreto legge che poi viene convertito in legge che quindi rende
nuovamente legittimo lo strumento.
Ciò che invece è ILLEGITTIMO (e ce lo insegna la CC) è LA REITERAZIONE DEL DECRETO LEGGE.
La prassi adottata dai governi precedentemente era quella di emanare un decreto legge, nei 60 giorni
questo non veniva convertito, e il governo lo reiterava. E questo per più volte eludendo il sistema
illegittima.
+Lo Statuto dei diritti dei contribuenti ci dice che non possono essere istituiti nuovi tributi con decreto
legge. Il problema sta nel ruolo dello statuto che resta nella forma una legge ordinaria, quindi c’è questa
norma che però resta una disposizione ordinaria e non ha valore sovraordinato rispetto ad un atto avente
forza di legge.
Il decreto legislativo è anche questo molto utilizzato in materia tributaria perché questa è molto tecnica e
non si presta facilmente ai lunghi passaggi parlamentari ma ad essere studiata in altro modo.
Le grandi riforme tributarie avvengono in questo modo: vi è una legge delega che stabilisce i criteri
fondamentali e poi ci sono i decreti legislativi.
Le grandi riforme sono proprio avvenute in questo modo tramite decreti legislativi.
Anch’essi sono in parte stati abusati perché invece che avere empi limitati i tempi fissati nella legge delega
sono spesso troppo lunghi, e invece che contenere principi specifici si hanno leggi delega in bianco, ed ecco
che anche qui si crea il fenomeno dell’abuso e del decreto legislativo in materia tributaria.
Oltre alle fonti primarie, di rango superiore, abbiamo anche FONTI SECONDARIE.
In particolare i REGOLAMENTI che sono produzione di norme generali ed astratte compiute dal
governo o da un'altra autorità amministrativa. Nell’ambito del diritto tributario queste norme però devono
restare nei limiti della riserva di legge imposta dall’art. 23 Cost.
In materia tributaria sono dei regolamenti attuativi e regolamenti esecutivi.
Esempio di regolamento Il redditometro. Oggi non vi è il regolamento che lo prevede, si è in attesa di
quello nuovo; il redditometro è il regolamento dove il governo prevedeva una serie di indici patrimoniali e
di spesa che confrontati col reddito avrebbero potuto dar luogo ad accertamento Se sproporzionato, cioè
se vi è sproporzione tra patrimonio/indice di spesa – reddito dichiarato. Allora questo legittimava
l’amministrazione finanziaria/l’agenzia delle entrate a emettere un avviso di accertamento/un atto in
positivo nei confronti del contribuente.
La dottrina si è interrogata sulla natura di tale regolamento a lungo: esso è un regolamento, ma è legittimo?
Rientra nella riserva di legge? Ci si è chiesti; la maggioranza è a favore della sua legittimità, altri no per il
contrasto con l’art 23 il ragionamento qual è: se il redditometro collega l’imposta sul reddito al
patrimonio, questa imposta diventa patrimoniale, e se l’imposta diventa patrimoniale, il governo sta
istituendo un tributo nuovo che non può fare con decreto legge. Quindi non diventa più strumento di
accertamento ma strumento per determinare una nuova imposta.
E’ UNA TEORIA ESTREMA CHE DIMOSTRA PERO LA DELICATEZZA NELL’ADOZIONE DI STRUMENTI COME IL
REDDITOMETRO, seppur non condivisa.
Vi sono poi i TESTI UNICI. Essi non sono fonti del diritto in senso proprio ma sono raccolte di teti
legislativi/di norme. Il testo unico non ha rango primario o secondario, ma dipende se queste norme che
raccoglie sono norme di rango primario o secondario.
Se prendiamo il Testo unico delle imposte sui redditi (TUIR) raccoglie norme di rango primario perché è un
DPR 1986 che al tempo equivaleva ad un decreto legislativo (che è di rango primario).
Per quanto riguarda lo SPAZIO delle norme tributarie, esse prendiamo ad esempio l’Imposta sul reddito si
estende sui residenti ovunque essi si trovino nel mondo, anche se si trova in un altro stato per un altro
lavoro, e anche ai non residenti che realizzano reddito nel nostro stato L’efficacia dello spazio delle
norme tributarie riguarda quindi LO STATO da un lato e LA RESIDENZA FISCALE dall’altro.
I non residenti sono tassati in Italia sono se producono reddito in Italia.
B) L’INTERPRETAZIONE
Premessa: la materia tributaria e la legislazione tributaria hanno delle peculiarità.
Anzitutto il diritto tributario NON è sistematicamente raccolto in un codice. Non c’è un codice di diritto
tributario, abbiamo solo una RACCOLTA DI TESTI LEGISLATIVI. Questo vuol dire che LE NORME TRIBUTARIE
LE TROVIAMO IN TANTI TESTI LEGISLATIVI DIVERSI. Per studiare un’unica disciplina non basta un solo testo
legislativo. Abbiamo quindi un insieme di norme che sono sparpagliate in vari testi legislativi susseguitesi
nel tempo e che prevedono la disciplina di una determinata materia non sempre in maniera sistematica.
La difficoltà per l’interprete consiste quindi nell’IDENTIFICARE i testi legislativi prima di tutto.
Solo fare questo è un lavoro complesso e difficile.
Seconda peculiarità della legislazione tributaria è che E’ IN CONTINUA EVOLUZIONE. Viene modificata 2
volte al giorno circa, perché ci sono ragioni di gettito. Se bisogna pensare ad una spesa straordinaria,
bisogna raccogliere fondi per farvi fronte, quindi ragioni di gettito; oppure per adeguare una nuova
legislazione alle nuove realtà economiche. Poi c’è anche la POLITICA FISCALE: il fatto che ogni governo
adotti una certa politica nel legiferare la materia tributaria.
MATERIA IN CONTINUA EVOLUZIONE. SPESSO LE NUOVE NORME NON SI COORDINANO CON QUELLE
PRECEDENTI, O COL SISTEMA, e questo rende complesso il lavoro dell’interprete che non solo deve
identificarle ma quelle stesse norme che deve ricercare continuano ad evolversi.
Poi come terza peculiarità, il diritto tributario è una MATERIA TECNICA che presuppone nozioni che non
sono solo di diritto tributario, ma nemmeno di diritto civile. Bisogna conoscere ad esempio i mercati
finanziari, il bilancio, tante branche dell’ordinamento giuridico. E’ difficile da capire.
Ultima peculiarità è il fatto che presenta dei DIFETTI DI TECNICA LEGISLATIVA: le norme non sono sempre
ben coordinate tra loro. Come le norme sulle vincite, ma ce ne sono tante.
COME SI INTERPRETA ALLORA DATE QUESTE PECULIARITA’?
PER QUANTO RIGUARDA IL METODO.
Non esiste una interpretazione pro fiscum o contra fiscum come si sosteneva anni fa, bensì si seguono le
REGOLE CLASSICHE DELL’INTERPRETAZIONE. Secondo un metodo classico,
Distinguiamo quindi per prima l’interpretazione letterale, art 12, co.1 delle preleggi: “Occorre attribuire
alla legge il senso fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse”.
A ciò seguono una serie di problemi semantici, sintattici, di comprensione dei termini tecnici. A volte stessi
termini indicano due concetti diversi a seconda del contesto utilizzato, es residenza civilistica/fiscale.
Abbiamo poi l’interpretazione logico-sistematica: cioè si segue la volontà del legislatore, che può essere il
legislatore storico, quindi il bravo interprete dovrebbe andare a vedere sempre i lavori preparatori di ogni
testo legislativo adottato perché si comprende cosa sta dietro, oppure il legislatore in astratto, quindi la
ratio legis/l’interpretazione che tiene conto del contesto giuridico.
Abbiamo poi l’interpretazione adeguatrice come terzo “metodo”: cioè una interpretazione conforme al
testo gerarchicamente sovraordinato. Ad esempio possiamo avere una interpretazione di una norma
costituzionalmente orientata. Si adotta una interpretazione che permette di considerare una determinata
disposizione legittima sotto il profilo della costituzionalità.
Sentenza Lazio su e learning, giudice mette in evidenza questa interpretazione adeguatrice.
Poi peculiare al diritto tributario è l’interpretazione anti-elusiva, una interpretazione che include nella
fattispecie della norma elusa il comportamento elusivo. Pensiamo a una norma elusa come la colonna, il
comportamento elusivo è l’aggiramento della colonna, e l’interpretazione antielusiva permette di
considerare l’aggiramento della colonna come invece parte della fattispecie, come se non ci fosse il
raggiramento/come fosse parte della colonna.
Una peculiarità del diritto tributario con riguardo ai soggetti che pongono in essere l’interpretazione, è
quella dell’AMMINISTRAZIONE FINANZIARIA.
Tra gli attori che propongono l’interpretazione di disposizioni normative tributarie c’è lei, in primis l’Agenzia
delle entrate. L’agenzia delle entrate spesso a seguito di una legge emana una circolare in cui spiega e
interpreta la nuova disposizione normativa; altre volte è interpellata dal contribuente e risponde con una
risoluzione, una risposta ad un interpello che viene pubblicata.
PECULIARITA’ è una interpretazione come le altre, non è vincolante, MA il contribuente può farci
affidamento. Se l’amministrazione finanziaria interpreta una disposizione in un modo, il contribuente può
ADEGUARSI ad essa, e l’agenzia non potrà nei suoi confronti sanzionarlo se si adegua all’interpretazione
data tutela dell’affidamento.
Parliamo ora di ANALOGIA. L’articolo 12 delle preleggi prevede l’analogia legis, cioè l’applicazione di
norme dettate per casi simili in materie analoghe, e l’analogia iuris, cioè il ricorso ai principi generali
dell’ordinamento. Per quanto riguarda la iuris non ci sono molti problemi.
Più problematica è la legis: l’analogia serve quando sussiste una lacuna tecnica.
Pensiamo all’istituzione di un tributo se mancano le norme per la sua riscossione.
Ecco, occorre PRIMA DI VERIFICARE SE SI PUO APPLICARE L’ANALOGIA, VERIFICARE SE NEL DIRITTO
TRIBUTARIO C’E’ UNA LACUNA TECNICA se non c’è, non si può ricorrere ad analogia.
Le norme tributarie abbiamo detto distinguersi in diritto sostanziale e formale.
Le norme tributarie impositrici o di esenzioni sono delle norme che per definizione non presentano lacune
tecniche. Sono complete per definizione.
Es nell’ordinamento abbiamo una imposta, IRPEF, che colpisce il possesso del reddito.
Ci sono una serie di categorie di reddito, che includono i redditi di lavoro, di impresa, diversi, ecc.
All’interno dei redditi diversi c’è una ipotesi di compravendita di immobili entro 5 anni, ma non c’è quella di
compravendita delle automobili entro 5 anni. Ad esempio c’è uno studente che vuole comprarla e
rivenderla a me, realizzando una plusvalenza. Questa plusvalenza è un guadagno, magari la compra a 5.000
e me la vende a 8.000. C’è un guadagno di 3.000. Questo reddito/guadagno NON è incluso nelle categorie
di reddito. Non è scritto da nessuna parte. L’eventuale lacuna quindi non è tecnica!!!
Se il legislatore decide di non includere nelle ipotesi di reddito imponibile la plusvalenza realizzata dallo
studente significa che non vuole considerare quella ipotesi come reddito imponibile.
NON C’E’ ALLORA UNA LACUNA TECNICA CHE BISOGNA RIEMPIRE CON L’ANALOGIA.
Non posso applicare la norma applicata per le compravendite immobiliari a una compravendita di una
automobile singola. Semmai è una lacuna definibile ideologica, ma queste non si colmano con analogia.
LE FATTISPECIE IMPONIBILI SONO TASSATIVE E INDICATE DAL LEGISLATORE.
LE LEGGI TRIBUTARIE IMPOSITRICI SONO COMPLETE PER DEFINIZIONE, NON SI COMPLETANO
ALTRIMENTI CREEREMMO UNA NUOVA IPOTESI REDDITUALE.
Nel diritto tributario SOSTANZIALE non è prevista l’analogia!! Non ci sono lacune tecniche.
Si può invece applicare l’analogia nelle norme FORMALI, perché qui ci può essere una lacuna tecnica.
Ad esempio la norma sul domicilio fiscale che vale per le imposte sui redditi è stata applicata anche alle
imposte di registro. Mancava una norma analoga a quella del domicilio fiscale (luogo dove vengono
notificati gli avvisi di accertamento), si può colmare la lacuna tecnica.
SI FORMALE, NO SOSTANZIALE.
Per la giurisprudenza, che non si è pronunciata su questo, si è però pronunciata sulle Esenzioni dicendo
che non possono essere applicate analogicamente le norme di esenzione.
La sua ragione è che le norme di esenzione sono speciali e quindi per definizione non si applicano
analogicamente. Questa tesi è anche sostenuta nel libro e caratterizza il prof. Tesauro.
C’è chi ritiene che l’analogia sia applicabile anche al diritto tributario sostanziale.
LA CAPACITA’ CONTRIBUTIVA
Cosa significa capacità contributiva? Bisogna distinguere
-INDICI DI CAPACITA’ CONTRIBUTIVA DIRETTI: sono ad esempio il reddito, il patrimonio
-INDICI DI CAPACITA’ CONTRIBUTIVA QUALIFICATI COME INDIRETTI: il consumo, il trasferimento.
Entrambi sono dei fatti di natura economica che esprimono forza economica.
Ad esempio un indice di capacità contributiva non può essere il colore dei capelli, è un dato estraneo alla
natura economica del soggetto. Diverso è se io vado ad assoggettare alla tassazione tutti coloro con capelli
tinti, in questo caso c’è una forza economica (acquisto della tinta per i capelli).
(SI PUO ISTITUIRE UN TRIBUTO SU TUTTI QUELLI CHE HANNO ES CAPELLI NERI? RISPOSTA NO PER
CONTRASTO CON ART. 53 CAPACITA’ CONTRIBUTIVA).
La scelta degli indici spetta al LEGISLATORE, però questa non deve essere Arbitraria.
Può scegliere se assoggettare alla tassazione il consumo, il reddito ecc ma non in modo arbitrario.
L’INDICE DEVE POI ESSERE COLLEGATO AL SOGGETTO PASSIVO DEL TRIBUTO, quindi l’indice di capacità
contributiva che esprime un fatto economico deve essere realizzato da un soggetto passivo che poi viene
tassato. Quindi l’obbligazione tributaria è posta a carico di colui che realizza il presupposto, cioè
quell’indice che esprime una forza economica/la capacità contributiva.
Ci sono però casi in cui la legge pone a carico di soggetti terzi l’obbligazione tributaria è legittimo,
PURCHE’ l’obbligato possa far ricadere su colui che ha realizzato l’indice di capacità contributiva l’onere del
tributo. Quindi è possibile, si pensi alla sostituzione di imposta. Il sostituto si rifà nei confronti del sostituito
tramite la rivalsa però. Quindi l’onere economico del tributo ricade sul sostituito, anche se il sostituto è il
soggetto passivo. Ci può essere invece regresso nel caso di solidarietà come nell’ipotesi del notaio.
NB Attualmente abbiamo un sistema che predilige una maggiore redistribuzione della ricchezza.
Se una determinata agevolazione fiscale è irragionevole in quanto non bilanciato da un altro interesse
costituzionale, la norma è incostituzionale. Quindi bisogna sempre fare un ragionamento di bilanciamento
di interessi costituzionali, se violano il principio di equità orizzontale previsto dall’art. 53 e 3.
Per violarlo, è necessario che sussista un altro interesse costituzionale.
Il problema sorge in quanto le norme di favore generalmente non vengono contestate da coloro che
beneficiano della norma di favore stessa; se c’è una agevolazione fiscale, il contribuente che ne trae
vantaggio non solleva una questione di incostituzionalità della norma, quindi c’è poca giurisprudenza sulle
agevolazioni fiscali e sulla sua legittimità costituzionale.
La giurisprudenza in tal caso si crea non tanto per annullare una determinata agevolazione, spesso viene
creata da un soggetto che non ha diritto all’agevolazione ma che chiede in ogni caso di beneficiare di una
agevolazione, quindi di uno sconto fiscale, pur non rientrando nei presupposti della norma di favore.
Quindi solleva la questione di costituzionalità chiedendo alla Corte di estendere tale agevolazione ad altri
soggetti.
Un ultimo aspetto con riferimento alla capacità contributiva riguarda il fatto che PER LA Corte
Costituzionale, IL PRINCIPIO SI APPLICA SOLO ALLE IMPOSTE E NON ALLE TASSE.
Il ragionamento della Corte che richiamano gli studi di scienza delle finanze, è quello secondo cui le Imposte
finanzierebbero i servizi pubblici indivisibili -ove non è possibile identificare il fruitore del servizio, mentre le
Tasse finanzierebbero dei servizi divisibili. Nelle tasse secondo la corte, si identifica il singolo fruitore del
singolo servizio emesso dalla PA, e quindi si potrebbe applicare il principio del BENEFICIO, e non quello
della capacità contributiva.
Quindi se ci sono imposte si pone un problema di capacità contributiva perché non si individua il fruitore
del singolo servizio (es utilizzo strade, sanità), mentre nelle tasse in cambio si ottiene un beneficio vero e
proprio. QUESTO ORIENTAMENTO DELLA CORTE E’ CRITICATO, perché secondo molti non ha senso
totalmente per quanto riguarda il finanziamento dei servizi pubblici divisibili che però sono essenziali.
Pensiamo ai servizi che corrispondono ai diritti fondamentali per l’individuo (salute, istruzione, difesa): in
tali ipotesi è vero che si tratta di servizio divisibile ma è un servizio che lo stato rende al singolo ma in
quanto per il singolo c’è un diritto fondamentale sotto di ottenerlo. Quindi in tale ipotesi è difficile che la
capacità contributiva non debba applicarsi, altrimenti rischieremmo di andare a ledere in parte proprio la
tutela dei diritti fondamentali. Quindi il ragionamento della Corte è corretto per le tasse in generale ma non
quelle tasse che finanziano un servizio pubblico essenziale cui corrisponde dall’altro lato un diritto
fondamentale dell’individuo perché queste spese diventano spese pubbliche.
Ritenere applicabile il principio di capacità contributiva alle tasse significa necessariamente creare uno
scollamento tra il presupposto della tassa e l’indice di capacità contributiva. Il presupposto della tassa è un
servizio pubblico sappiamo mentre l’indice di capacità contributiva non può essere il fatto generatore del
servizio stesso, deve essere piuttosto un fatto economico che riguarda i contribuenti. Quindi avremo uno
scollamento applicando il principio di capacità contributiva alle tasse. Dovrei creare un indice ad hoc.
Per le imposte invece non ci sono problemi.
Nell’art. 52, co1 si estrapola quindi un DOVERE espressione di un interesse fiscale di solidarietà a cui tutti
son tenuti, e poi vi è una GARANZIA/LIMITE perché è in ragione alla capacità contributiva.
UN TRIBUTO PROPORZIONALE CON ALIQUOTA SEMPRE FISSA E’ L’IRES l’IMPOSTA SUL REDDITO DELLE
SOCIETA’.
UN TRIBUTO PROGRESSIVO INVECE E’ L’IRPEF IMPOSTA SUL REDDITO DELLE PERSONE FISICHE.
AUMENTA ALL’AUMENTARE DEL REDDITO IN MISURA PIU CHE PROPORZIONALE.
Allora ci si può chiedere: PERCHE’ L’IRES NON E’ STATO DICHIARATO INCOSTITUZIONALE SE E’ UN
TRIBUTO PROPORZIONALE? NON E’ PROGRESSIVO E L’ART. 53 RICHIEDE PROGRESSIVITA.
LA RISPOSTA VA DATA LEGGENDO IL CO.2 NON CI DICE CHE TUTTI I SINGOLI TRIBUTI DEVONO ESSERE
PROGRESSIVI, ma ci dice che IL SISTEMA TRIBUTARIO NEL COMPLESSO DEVE ESSERE PROGRESSIVO.
La CC ad oggi ha sempre detto che l’IRPEF come tributo è quello che garantisce la progressività all’intero
sistema… non ha finito.
1. IL PRESUPPOSTO.
Non è altro che il fatto che genera il tributo. Le norme giuridiche impositrici sono strutturate in modo tale
che da un lato vi sua un presupposto/una fattispecie o un fatto generatore, e dall’altro ci sono degli effetti.
Qual è l’effetto del presupposto? IL SORGERE DEL TRIBUTO, o meglio DELL’OBBLIGAZIONE TRIBUTARIA, che
però si rende dovuta SOLO se si accompagna con un ulteriore atto giuridico (vedi sopra).
In base al presupposto possiamo porre in essere poi una serie di distinzioni.
Abbiamo visto la differenza tra IMPOSTA e TASSA, basata sul diverso presupposto (fatto economico-
servizio). La distinzione tra IMPOSTA, TRIBUTO, TASSA quindi si basa sul PRESUPPOSTO, in relazione al
diverso presupposto creiamo delle diverse classificazioni a cui applichiamo principi diversi.
Vi è poi una distinzione sempre in base al presupposto tra IMPOSTE DIRETTE e IMPOSTE INDIRETTE (le
prime hanno come presupposto degli indici diretti di capacità contributiva, le seconde hanno come
presupposto un indice indiretto, come un’imposta sul consumo che è un indice indiretto di capacità
contributiva = non è una manifestazione di ricchezza diretta).
In base sempre al presupposto, distinguiamo anche le IMPOSTE PERSONALI dalle IMPOSTE REALI: cioè se il
presupposto tiene conto degli elementi soggettivi della persona, abbiamo una imposta personale. Ad
esempio l’IRPEF tiene conto della famiglia, o le spese mediche. Altrimenti se il presupposto non ne tiene
conto, l’imposta è reale. Ad esempio l’IMO.
Distinguiamo sempre in relazione al presupposto anche le IMPOSTE ISTANTANEE dalle IMPOSTE
PERIODICHE: se il presupposto è un singolo avvenimento che si verifica in un dato momento, l’imposta è
istantanea. Es l’Imposta di registro. Altrimenti se il presupposto è un fatto che si ripete nel tempo, l’imposta
è periodica. Es l’IRPEF che è l’imposta sul reddito che si realizza in un periodo di imposta che coincide con
l’anno solare. Quindi tutto il reddito realizzato in un certo periodo di un anno è reddito imponibile tassato
tramite Irpef.
In relazione al presupposto poi va detto che esso può essere AMPLIATO o RISTRETTO; viene ampliato
quando abbiamo delle cd. Assimilazioni (abbiamo quindi una fattispecie equiparata quando accanto a
quella tipica il legislatore ne equipara un’altra, perché le ritiene equivalenti). O viene ristretto quando
abbiamo una cd. Esenzione, o una Esclusione. L’esenzione sottrae dal tributo ipotesi che sono incluse
secondo la definizione generale del presupposto di quel tributo. Il presupposto includerebbe quell’ipotesi,
ma una norma di esenzione sottrae dal presupposto (con un’altra norma, quindi abbiamo 2 norme di cui
una di esenzione) l’ipotesi che invece rientrerebbe nel presupposto stesso.
L’esenzione può essere assoluta (l’imposta non è dovuta) oppure per sostituzione (l’imposta non è dovuta
in quanto è sostituita da un’altra).
L’esclusione invece fa parte del presupposto, cioè il legislatore non dice che una fattispecie è tassabile ed
esenta una fattispecie, bensì è una migliore chiarificazione del presupposto stesso. L’esclusione non
comporta mai una agevolazione però.
La distinzione tra esenzione e esclusione non è priva di significato corrispondono conseguenze
giuridiche. In particolare accade in materia di imposta sui redditi. Se un certo reddito è esente da imposta, i
relativi costi (un costo per produrre un reddito che è esente) Non è deducibile. Se un certo reddito è
escluso da imposta, il relativo costo E’ deducibile differenza non di poco conto.
Infine un accenno al rapporto esclusione-esenzione con le agevolazioni fiscali non necessariamente una
esenzione è una agevolazione fiscale, a volte si ha esenzione proprio per evitare una doppia imposizione.
mentre le esclusioni non sono mai agevolazioni fiscale.
Vi è però una tendenza legislativa ad inquadrare le esenzioni come esclusioni per mascherare una
agevolazione fiscale.
Fattispecie alternative e Sovraimposte A. Le fattispecie alternative si hanno quando uno stesso fatto è
generatore di 2 diversi tributi ma uno dei due prevale. B. Nella sovraimposta, la fattispecie di una imposta è
utilizzata come fattispecie di una ulteriore imposta o di una sovraimposta.
2. LA MISURA
Possono essere soggetti residenti, non residenti, persone fisiche (in tal caso sono soggetti passivi dell’IRPEF,
imposta sul reddito delle persone fisiche), persone giuridiche (IRES, imposta sul reddito delle società).
I soggetti passivi anzitutto hanno tutti un DOMICILIO FISCALE, nozione diversa da RESIDENZA FISCALE.
- Domicilio fiscale: è una nozione di diritto formale che ci dice qual è l’ufficio delle agenzie delle entrate di
competenza, quale sarà la commissione tributaria da adire in caso di avvisi di accertamento, ci dice dove
vanno notificati gli avvisi di accertamento identifica un luogo necessario per applicare il tributo.
- Residenza fiscale: è una nozione di diritto sostanziale in quanto essere residenti o non residenti comporta
una diversa tassazione del reddito. I residenti in Italia sono tassati sui redditi ovunque prodotti nel mondo,
mentre i non residenti sono tassati solo sui redditi che producono in Italia.
Sui soggetti passivi bisogna trattare il tema della SOLIDARIETA’: si ha solidarietà quando più soggetti sono
tenuti in solido ad adempiere alla medesima obbligazione tributaria.
Nel diritto tributario distinguiamo 2 tipi di solidarietà (nei rapporti TRA LE PARTI)
1. PARITARIA: abbiamo più soggetti tenuti all’obbligazione che concorrono indistintamente/allo stesso
modo a realizzare il presupposto, e sono per tanto debitori d’imposta. Come gli eredi. O nella
compravendita sia compratore che venditore sono pari a realizzare l’imposta di registro.
2. DIPENDENTE: vi è un solo soggetto che realizza il presupposto d’imposta, che è chiamato OBBLIGATO
PRINCIPALE, e un altro che seppur non lo realizza è obbligato al pagamento INSIEME CON COLUI CHE HA
REALIZZATO IL PRESUPPOSTO, chiamato RESPONSABILE D’IMPOSTA Obbligato principale-responsabile
d’imposta. Ad esempio nel caso del Notaio, è lui responsabile per l’imposta di registro.
Cosa significa responsabile? Art. 64, DPR 600 è responsabile colui che è obbligato al pagamento insieme
con altri per fatti o situazioni riferibili a questi rapporto di Pregiudizialità di pendenza.
Il notaio non pone in essere il presupposto, sono le parti a farlo nella compravendita, però è responsabile.
NB Nei rapporti tra CONTRIBUENTI-FISCO invece non c’è alcuna differenza ad avere a che fare con
solidarietà paritaria o dipendente, cioè tutti i soggetti sono responsabili IN SOLIDO per l’intero e non c’è
nessun beneficio di escussione, SONO TUTTI NELLO STESSO PIANO NEI CONFRONTI DEL FISCO.
Considerato che gli avvisi di accertamento devono essere sempre motivati, se ne viene emesso uno nei
confronti delle parti di una compravendita immobiliare, la motivazione deve far riferimento al fatto che la
parte ha posto in essere un atto e non è stata versata l’imposta di registro.
Se viene emesso invece un avviso di accertamento nei confronti del notaio, occorre una motivazione
doppia che l’avviso di accertamento contenga una motivazione sul fatto che gli obbligati principali hanno
posto in essere un presupposto, ma poi ci vuole una motivazione per il notaio per spiegare che è il
responsabile d’imposta in quanto l’atto è stato redatto davanti a lui.
NB l’avviso di accertamento deve essere motivato o è nullo.
Diversa dalla responsabilità d’imposta che configura una ipotesi di solidarietà dipendente, è la
SOSTITUZIONE TRIBUTARIA è sostituto d’imposta chi in forza di una disposizione di legge è obbligato al
pagamento di imposte IN LUOGO di altri (prima il responsabile d’imposta è obbligato al pagamento
INSIEME con altri) adesso IN LUOGO di altri, abbiamo un Sostituto e un Sostituito (sostituzione).
Nei rapporti interni, il responsabile(Notaio) se versa il tributo ha diritto di regresso per intero nei confronti
dell’obbligato principale. Nella sostituzione, il sostituto ha diritto di rivalsa verso il sostituito.
il legislatore prevede strumenti per traslare l’onere tributario dal sostituto/dal responsabile, agli altri
obbligati.
I rapporti interni sono però RAPPORTI DI DIRITTO PRIVATO, non tributario (qui solo tra contribuente-fisco)
B. Sostituzione a titolo di acconto: non esaudisce l’obbligazione tributaria. Il sostituito versa un importo
all’erario che non è altro che un acconto dell’imposta che verserà il sostituito il sostituto effettuerà una
RITENUTA ALLA FONTE A TITOLO DI ACCONTO (cambia nome), che costituisce un ACCONTO sull’IMPOSTA
che poi verserà il sostituito. Esempio: nel reddito dei lavoratori dipendenti.
NB Infine, vi sono casi di Successione ex lege dei rapporti d’imposta es gli eredi per i debiti del de cuius,
o i soci per i debiti della società estinta.
Spesso le norme di esenzione hanno lo scopo di agevolare un determinato comportamento (una delle
funzioni del tributo è infatti influenzare le condotte). L’esenzione ha proprio tale scopo: quando l’esenzione
ha natura agevolativa, l’idea è di incentivare un certo comportamento, far sì che la tassazione di quel
soggetto/fatto, non vada ad intralciare quel determinato comportamento che io intendo invece agevolare.
Ad esempio certe donazioni non sono reddito per le società che le riceve perché si vuole incentivare quel
comportamento.
Le esenzioni in genere hanno natura agevolativa, MA NON SEMPRE, come nel caso dell’esenzione delle
plusvalenze di impresa. Come regola generale tutte le plusvalenze realizzate dall’imprenditore sono reddito
imponibile; l’esenzione si ha perché il legislatore ci dice che la cessione di partecipazioni (che genera una
plusvalenza) non è tassata, non da luogo a plusvalenze tassabili, perché esse sono quasi totalmente esenti
dia costi. Questa esenzione Non ha come scopo agevolare la cessazione delle partecipazioni delle aziende,
bensì ha lo scopo di evitare una doppia imposizione, perché la partecipazione che l’imprenditore detiene in
una società ha già scontato l’imposta, che è l’imposta che la società partecipata ha versato quando ha
realizzato il reddito. Il presupposto quindi definisce il PERIMETRO dei fatti che generano tributo, per varie
ragioni, e l’esenzione è una ulteriore norma giuridica che esenta determinati fatti che rientrano nel
presupposto secondo la definizione generale.
Mentre l’ESCLUSIONE è una migliore specificazione del presupposto.
LEZIONE 5 PARTE SPECIALE IMPOSTA SUL REDDITO DELLE PERSONE FISICHE (IRPEF)
Oggi iniziamo la parte speciale.
In particolare richiamiamo alcuni concetti che ci interessano:
Nella teoria dell’imposta, lo studio strutturale di un tributo si divide in 3 parti Presupposto, misura, i
soggetti passivi. PER OGNI TRIBUTO ALLORA BISOGNA ESAMINARE TALI ELEMENTI. Ne studieremo 4.
Bisogna fare alcune considerazioni generali sul REDDITO: cos’è? Noi abbiamo 2 distinzioni da fare.
A. Modalità con cui in una legislazione fiscale definisce il reddito imponibile abbiamo 2 approcci.
1. Abbiamo l’approccio italiano: approccio “per categorie” di reddito. Un elemento di reddito è “reddito
imponibile” se specificatamente in uso in una delle categorie di reddito previste dal legislatore.
In Italia ci sono 6 categorie di reddito. Se una componente reddituale rientra in una di queste categorie,
allora è reddito imponibile. Altrimenti non lo è.
2. Abbiamo l’approccio globale: adottato dalla legislazione statounitense. Dove è indicato che il reddito è
“qualsiasi reddito, salvo che non sia specificatamente escluso dal codice tributario” .
Quindi vediamo l’approccio diverso: mentre in Italia una componente di reddito è imponibile solo se
indicata nelle categorie di reddito, negli Stati Uniti e in altri ordinamenti, una componente di reddito è
sempre reddito, salvo che non sia escluso.
In Italia si definisce IN POSITIVO cos’è il reddito, cioè tutte le componenti di reddito sono indicate in
categorie, mentre negli USA è l’esatto opposto: TUTTO il reddito è imponibile, salvo esclusioni.
B. Nozione di reddito stessa --> molti ordinamenti non definiscono il reddito. Nemmeno in Italia.
Però ovviamente la dottrina si è interrogata ed è da più di 100 anni che si interrogano su che cosa sia dal
punto di vista teorico il reddito. I due grandi economisti degli anni 30, Haig e Simons, hanno studiato la
nozione di “Reddito di entrata” per cui “ogni accrescimento di ricchezza, di qualsiasi natura, da qualsiasi
fonte provenga (vincita, fortuna, economica, eredità), è reddito imponibile”.
Addirittura nella versione più estrema si dice che anche un servizio che io mi presto diventa reddito.
Se ricevo un bene, questo è reddito, ho ricevuto in donazione un bene. Anche se ricevo un servizio.
Ma anche se io stesso mi attribuisco un bene o un servizio! “Anche farsi la barba la mattina” cit.
Nessun ordinamento adotta una nozione così pura.
La seconda nozione è quella adottata dall’Italia di “Reddito prodotto” “un accrescimento di ricchezza è
un reddito purchè abbia una fonte produttiva” . Secondo questa definizione è chiaro che una donazione non
ha una fonte produttiva, e nemmeno una vincita la ha, non ci sono investimenti o lavori dietro di
economico. E’ contrapposta alla nozione di reddito di entrata.
Si può dire però che l’Italia adotta una nozione di reddito prodotto con delle aperture verso il reddito di
entrata, perché ad esempio nei “redditi diversi” (una delle 6 categorie) ci sono alcune ipotesi che hanno
natura di reddito anche se sono prive di fonte produttiva.
Esistono poi altre 2 nozioni di reddito. Una è il “Reddito consumo” che indica la parte di reddito
prodotta destinata al consumo. Quindi è il reddito che si misura alla luce delle spese/consumo effettuato
dal reddito. E’ una nozione che in Italia abbiamo avuto col Reddittometro, ossia una determinazione del
reddito che parte dalle spese del contribuente.
L’altra individuata dalla dottrina è il “Reddito liquido” cioè che va misurato solo quando si concretizza in
liquidità, ogni volta che c’è un giro di liquidità abbiamo reddito, altrimenti no.
Si tratta di una IMPOSTA, e non di una tassa, perché il presupposto non è un servizio della pubblica
amministrazione bensì un fatto economico posto in essere dal contribuente.
Si tratta del tributo di una imposta personale, cioè di una imposta che tiene conto delle caratteristiche
personali; è un tributo periodico (non istantaneo) perché il presupposto è un fatto che si ripete nel
tempo cioè il possesso del reddito in un arco temporale che per le persone fisiche coincide con
l’anno solare.
Da dove nasce? Prima di una grande riforma degli anni ’70, vi erano svariati tributi aventi natura semi-
reddituale (es tributo sui redditi di ricchezza mobile, imposta sulla famiglia..), una serie di tributi che
però creavano sovrapposizioni e non realizzavano la progressività dell’imposizione, ecco dunque che
nel 1973 tutti questi sono stati abrogati e sono stati creati 2 GRANDI IMPOSTE SUL REDDITO IRPEF e
IRPEG (imposta sul reddito delle persone giuridiche; questa inizialmente chiamata così, poi a seguito
riforma del 2003, governo Tremonti, si chiama IRES) Imposta sul reddito delle società IRPEF E
IRES.
Per ogni categoria bisogna studiarne i 3 elementi (presupposto, misura, soggetti passivi)
Cominciamo ad entrare nel vivo dello studio del diritto tributario e dell’IRPEF.
Iniziamo guardando all’art. 1 del TUIR, cioè del Testo unico delle imposte sul reddito:
“Presupposto dell'imposta sul reddito delle persone fisiche è il possesso di redditi in denaro o in natura
rientranti nelle categorie indicate nell'articolo 6”.
Anzitutto, non c’è una definizione generale di reddito, bensì una DEFINIZIONE PER CATEGORIE.
Vengono indicate nell’art 6 e si tratta di: Redditi fondiari, di capitale, di lavoro dipendente, di lavoro
autonomo, di impresa, redditi diversi 6 categorie a cui fa riferimento.
Quindi da questa norma traiamo che Non c’è una definizione generale di reddito, vi è una definizione solo
categoria per categoria. Alcuna poi hanno una vera e propria definizione, altre una elencazione, altre nulla.
Le categorie hanno varie caratteristiche, e le più importanti sono:
- OMOGENEITA’, (salvo redditi diversi): le categorie di reddito all’interno della singola categoria presentano
elementi omogenei di reddito. Cioè i redditi fondiari hanno tutti caratteristiche comuni, così come i redditi
di capitale ecc. Ogni categoria è proprio un singolo aggregato, ogni categoria ha le sue regole.
Il reddito di impresa ad esempio presenta forza d’attrazione, cioè in una impresa (es spa), per definizione
tutti i suoi redditi sono redditi d’impresa è il principio di attrazione, la fonte è sempre l’impresa
- OMNICOMPRENSIVITA’, cioè la nozione di reddito della singola categoria è una nozione che sempre è più
ampia di quella civilistica o commerciale. Se si parla di reddito di lavoro dipendente non ritorniamo alla
nozione del lavoratore dipendente del diritto del lavoro, la nostra sarà una nozione più ampia.
All’interno della categoria rientrano elementi ulteriori rispetto a quelli a cui si pensa facendo riferimento
alle categorie giuridiche generali di altre branche del diritto (del lavoro, commerciale ecc) il diritto
tributario usa categorie proprie.
- CHIUSA, cioè le ipotesi reddituali sono tassativamente previste dal legislatore. Se si realizza quindi una
componente di reddito non indicata in nessuna delle 6 categorie, questa componente di reddito non è
reddito imponibile!!! E’ impossibile applicare analogia come sappiamo.
NB Il reddito è diverso dal patrimonio: il patrimonio è una fotografia della situazione patrimoniale di un
determinato soggetto, in un certo momento, e li si vede la sua ricchezza.
Il reddito invece è dinamico, si misura in un periodo di imposta, nell’anno solare, previsto dall’art. 7 TUIR.
Ogni periodo di imposta è autonomo, si cristallizza la situazione reddituale.
Conseguenza: E’ reddito l’accrescimento di ricchezza ma non il reintegro patrimoniale.
Se un contribuente consegue una indennità risarcitoria, occorre verificare se questa indennità risarcisce un
danno emergente o un lucro cessante.
Se il risarcimento riguarda il danno emergente, esso non è mai reddito. Risarcisce solo il danno emergente.
Se vado in universita, ho un incidente, l’auto ha un danno, devo sostituirla, e per colpa del fatto
dell’incidente non posso tenere la lezione e conseguire un reddito di 200 euro. Mentre il valore dell’auto è
di 10.000. Se la mia indennità risarcitoria mi risarcisce del danno emergente e del lucro cessante otterrò un
risarcimento per il danno emergente di 10.000 euro e per il lucro cessante di 200 euro, quindi in totale di
10.200 euro. Di questa somma 10.000 è un reintegro patrimoniale, non sarà reddito, mi hanno solo
restituito il valore dell’auto distrutta. Mentre 200 euro di risarcimento del lucro cessante sono reddito.
Ma per capire se è reddito imponibile, devo verificare se a sua volta il risarcimento del lucro cessante
rientrerebbe in una delle ipotesi di reddito imponibile. Se non vi rientra, quel risarcimento non è reddito.
IL RISACIMENTO DEL DANNO EMERGENTE NON E’ MAI REDDITO;
IL RISARCIMENTO DEL LUCRO CESSANTE E’ REDDITO SOLO SE IL REDDITO RISARCITO SAREBBE RIENTRATO
NELLE IPOTESI DI REDDITO IMPONIBILE NELLE 6 CATEGORIE DI REDDITO.
Il danno emergente consiste nella perdita economica che il patrimonio del creditore ha subito per colpa
della mancata, inesatta o ritardata prestazione del debitore. Il lucro cessante è, invece, il mancato
guadagno che si sarebbe prodotto se l'inadempimento non fosse stato posto in essere.
Per definizione, il reddito è una misura netta. Significa che è determinata al netto dei costi di produzione.
Nelle varie categorie ci sono dei costi di produzione differenti.
ES Assumiamo che sono un avvocato, devo stampare un certo atto su carta. Acquisto la carta, e poi ottengo
una parcella/compenso dal cliente. Predispongo un parere per un cliente e questo lo vuole cartaceo.
Per avere parere su carta devo per forza scriverlo e stamparlo. Devo quindi acquistare la carta: quello è un
costo di produzione del reddito. Acquisto la carta perché mi serve per ottenere un compenso.
Poniamo che ho speso 5 euro per comprarla, e la parcella è di 500 euro. IL REDDITO NETTO E’ DI 490
500 EURO E’ IL COMPENSO MENO I COSTI DI PRODUZIONE DI 5 EURO.
Quando parliamo di reddito, intendiamo un REDDITO NETTO.
MA ALL’INTERNO DELLE SINGOLE CATEGORIE CI SONO REGOLE DIVERSE DI DEDUCIBILITA’ DEI COSTI!!
ESEMPIO: Nei redditi da lavoro autonomo (avvocato es), i costi di produzione sono deducibili.
Per l’impresa, i costi sono deducibili (purchè inerenti ad attività di impresa è implicito).
Per i redditi da lavoro DIPENDENTE, Non sono ammessi costi deducibili. Quindi il lavoratore dipendente (a
differenza da imprenditore e lavoratore autonomo) NON DEDUCE COSTI DI PRODUZIONE DEL REDDITO,
perché? Ce lo spiega la CORTE COSTITUZIONALE per cui è stata sollevata la questione di legittimità
costituzionale della norma che non prevede la deducibilità dei costi di produzione.
Non si può tassare un reddito non netto, perché contrasta col principio di capacità contributiva, perché il
suo indice è il reddito netto!! Dice la corte. Non è un reddito lordo, perché se per realizzare un reddito di
100 consumo 100, la mia ricchezza/indice di capacità contributivo è pari a 0.
la norma che mi fa tassare un reddito lordo sarebbe difatti incostituzionale.
La CC ha LEGITTIMATO il fatto che per i lavoratori dipendenti non vi fosse deducibilità dei costi dicendo che
loro in realtà NON HANNO costi di produzione del reddito, perché tutto il materiale per lavorare è messo a
disposizione dal datore di lavoro. Quindi non c’è in realtà un costo deducibile per loro.
Quindi ritiene che il reddito da lavoratore dipendente è un reddito che nasce netto.
Stessa cosa per il REDDITO DI CAPITALE il legislatore ritiene che non vi siano costi deducibili.
Per il REDDITO FONDIARIO non è ammessa la deduzione dei costi perché il reddito è calcolato in misura
forfettaria. Il reddito fondiario non è effettivo, dato da un ricavo meno costi, bensì è un reddito
predeterminato dal legislatore in base a un sistema catastale.
QUINDI. Il legislatore adotta una nozione di reddito netto, anche nelle ipotesi in cui non è ammessa la
deducibilità dei costi.
Redditi di lavoro autonomo e d’impresa prevedono la deducibilità;
Redditi di lavoro dipendente non vi è deducibilità dei costi; vi è una DETRAZIONE FORFETTARIA (riduzione
dell’imposta ammessa forfettariamente per certi redditi di lavoro dipendente), mentre la deducibilità è una
riduzione della base imponibile.
Reddito fondiario non vi è deduzione dei costi;
Redditi di capitale non vi è deduzione dei costi, perché non ci sono costi di produzione per il legislatore;
Redditi diversi che hanno regole diverse all’interno delle sottotipologie di reddito diverso.
COSA SIGNIFICA TUTTO CIO’ LA NOZIONE DI REDDITO E’ LEGITTIMA SOTTO IL PROFILO DELLA
COSTITUZIONALITA PERCHE’ PER REDDITO SI INTENDE QUELLO NETTO, ANCHE QUANDO NON CI SONO
COSTI DEDUCIBILI C’E’ UNA LOGICA PER CUI QUEL REDDITO NASCE GIA NETTO.
B. Invece abbiamo poi la categoria del REDDITO DI IMPRESA in cui vige il PRINCIPIO DI COMPETENZA IL
REDDITO SI MANIFESTA/IMPUTATO NEL PERIODO DI IMPOSTA E DICHIARATO DAL CONTRIBUENTE quando
abbiamo una MATURAZIONE GIURIDICA secondo il principio di competenza.
Se un imprenditore cede un bene mobile proprio, egli realizza il reddito non nel momento in cui percepisce
e incassa il denaro, ma nel momento in cui si ha il passaggio di proprietà del bene mobile/avviene la
Consegna. Il possesso si realizza quando ho maturazione giuridica, il momento in cui si consegna il bene
mobile.
C. Per i REDDITI FONDIARI per possesso si intende il POSSESSO DEL TERRENO da parte del proprietario, IL
POSSESSO DEL FABBRICATO da parte del proprietario a titolo di proprietà, quindi il possesso è un
collegamento che non riguarda tanto il reddito (non c’è un reddito effettivo), piuttosto QUANTO CON QUEL
BENE DA CUI SI PRESUME IL REDDITO FORFETTARIO.
2) IN DENARO O IN NATURA
Cosa significa? In denaro lo sappiamo, è un compenso monetario.
In natura possiamo pensare a qualsiasi reddito in natura, cioè anziché ottenere un compenso monetario
ottengo un servizio.
Quando abbiamo a che fare con un reddito monetario la quantificazione è semplicissima, basta vedere la
monetizzazione. Quando abbiamo a che fare con un reddito percepito in natura, nella dichiarazione dei
redditi non posso scrivere di aver ricevuto un computer, devo quantificare il reddito, quindi devo
necessariamente trasformare quel bene in natura in un dato numero, e come faccio a tramutare un
servizio/bene in natura? Devo andare secondo la regola generale dettata dall’art. 9 TUIR, bisogna vedere
QUAL E IL PREZZO MEDIAMENTE PRATICATO.
Quindi vado a vedere il valore normale di quei beni così che nella mia dichiarazione riesco a monetizzare.
Ma chi sono questi soggetti 1,2, fiscalmente residenti e fiscalmente non residenti in Italia?
La nozione di RESIDENZA del legislatore tributario NON COINCIDE con la nozione civilistica.
Sono “fiscalmente residenti” le persone fisiche che presentano 3 requisiti:
L’articolo 2 dice che SONO RESIDENTI LE PERSONE FISICHE CHE, PER LA MAGGIORPARTE DEL PERIODO DI
IMPOSTA(coincidente con anno solare, quindi per almeno più della metà dei giorni dell’anno), DETENGONO
IN ITALIA
1. O LA RESIDENZA CIVILISTICA: requisito sostanziale, dimora abituale
2. O IL DOMICILIO CIVILISTICO: requisito sostanziale centro dei propri affari ed interessi (lavoro, famiglia)
3. O SONO ISCRITTE NELL’ANAGRAFE DELLA POPOLAZONE RESIDENTE: requisito formale, è sufficiente
essere iscritti all’anagrafe di un comune per essere considerati residenti (sempre fiscalmente)
al ricorrere di 1 di questi requisiti, alternativi tra loro, la persona fisica è residente fiscalmente in Italia.
Possono anche ricorrervi tutti e 3, ma ne basta 1.
NB Classico caso del cittadino italiano sempre fiscalmente residente, e poi decide di partire e andare
all’estero a studiare, lavorare, si ferma li qualche anno. La sua dimora abituale è all’estero, il centro degli
affarii è all’estero, però è iscritto all’anagrafe e dimentica di cancellarsi da li, rimane questo requisito e
rimane fiscalmente residente in Italia, vi è ancora collegata. E tale requisito è sufficiente.
I redditi che realizzerà negli altri Stati del mondo sono Redditi tassati in Italia (principio tass globale).
INDICI DI RESIDENZA, QUANDO POSSIAMO RITENRE UNA PERSONA FISCALMENTE RESIDENTE IN ITALIA?
C’è una circolare delle Agenzie delle entrate del 2008 n. 351 che ci dice che sono indici di residenza
l’abitazione permanente, la presenza della famiglia, il possesso di beni in Italia, l’iscrizione alla palestra, il
lavoro ecc tutti questi elementi fanno intendere che una persona sia residente in Italia.
Spesso succede che la persona fisica Italiana vorrebbe sfuggire all’Irpef in Italia (magari perché produce
beni prevalentemente all’estero) e decide di trasferirsi all’estero. Se il trasferimento è effettivo e non
sussistono più quei 3 requisiti, non ci sono problemi. Dalla prospettiva Italiana non c’è problema ad
ammettere tale comportamento. E’ legittimo. Però lo deve fare davvero. Se andiamo a vedere alcuni casi
sui giornali (Valentino Rossi, Pavarotti…), hanno trasferito la loro residenza in Stati a fiscalità privilegiata per
sfuggire all’imposizione dei redditi globali da parte dell’Italia. Ad esempio Pavarotti era andato a
Montecarlo. Cosa succede però: prima che fosse introdotto il co.2-BIS TUIR, l’Agenzia delle entrate doveva
dimostrare che il contribuente manteneva in Italia il suo centro di affaro/dimora/non si era cancellato
dall’anagrafe. L’onere di provare la residenza della persona fisica GRAVA sull’Agenzia delle entrate prima
della fase del processo.
E’ chiaro però che per conoscere effettivamente se un soggetto si trasferisce o non si trasferisce in un certo
Stato, è opportuno conoscere il legame della persona fisica col nuovo stato. Assumiamo che la persona
fisica si cancella dall’anagrafe, concentriamoci sui requisiti sostanziali.
Come faccio a sapere se effettivamente ha dimora e centro d’affari in quello stato? Senza la sua
collaborazione, l’amministrazione finanziaria ha difficoltà a dimostrare che non ha legami con lo stato
estero. Allora succede che vi è uno SCAMBIO DI INFORMAZIONI, l’Italia chiede al paese estero se
effettivamente la persona fisica ha dimora, lavoro, una serie di attività in quel paese.
Problema: se questo paese non scambia informazioni con noi, l’amministrazione finanziaria è
impossibilitata a conoscere quelle informazioni. Allora nel 2007 è stata introdotta una nuova norma:
CO.2-BIS, art. 2 Tuir si considerano altresì residenti, salvo prova contraria(quindi abbiamo a che fare
con presunzione legale relativa, suscettibile di prova contraria), i cittadini italiani cancellati dalle anagrafi
della popolazione residente e trasferiti in Stati o territori diversi da quelli individuati con decreto del
Ministro dell'economia e delle finanze, da pubblicare nella Gazzetta Ufficiale”
quindi I cittadini italiani che si trasferiscono in un paradiso fiscale, indicato in un elenco, continuano ad
essere fiscalmente residenti, salvo che il contribuente non provi il contrario PER SOPPERIRE
ALL’IMPOSSIBILITA DELL’AMMINISTRAZIONE FINANZIARIA DI FORNIRE LA PROVA CHE GRAVEREBBE SU DI
LEI NELLE IPOTESI IN CUI LO STATO ESTERO NON SCAMBI INFORMAZIONI, VI E’ UN RIBALTAMENTO
DELL’ONERE DELLA PROVA GRAVA SUL CONTRIBUENTE dimostrare se è effettivamente trasferito.
Quindi quella famosa circolare può tornare utile (chiedere multe, scontrini, iscrizioni palestra, una serie di
dati che dimostrano effettivamente il trasferimento).
SE INVECE IL TRASFERIMENTO DELLA RESIDENZA AVVIENE IN UN PAESE CHE NON E’ PARADISO FISCALE,
L’ONERE DELLA PROVA/LE REGOLE DI DISTRIBUZIONE DELLA PROVA SONO ORDINARIE E’
L’AMMINISTRAZIONE FINANZIARIA A DOVER DIMOSTRARE CHE IL CONTRIBUENTE HA LA DIMORA/IL
CENTRO AFFARI.
- LA SOCIETA’ DI PERSONE(IMPO PER ESAME): le società di persone sono la società semplice, la società in
nome collettivo, la società in accomandita semplice 3 tipologie caratterizzate dalla RESPONSABILITA’
ILLIMITATA DEI SOCI (salvo peculiarità di diritto commerciale). Oltre a questa caratteristica, I SOCI
GENERALMENTE SONO ANCHE AMMINISTRATORI, quindi c’è una coincidenza di fatto tra la figura del
socio-quella dell’amministratore. Le quote inoltre non possono essere trasferite senza consenso degli altri
(personalità delle quote).
Di tutto questo tiene conto il legislatore fiscale nell’art. 5 TUIR. Proprio alla luce del poco distacco tra soci
che sono anche amministratori – la società, il reddito della società di persone è considerato REDDITO
PERCEPITO DIRETTAMENTE DAI SOCI: si dice che la società di persone è fiscalmente trasparente.
E’ una entità fiscalmente trasparente perché il suo reddito è tassato direttamente in capo ai soci.
Infatti il co.1, art.5 ci dice chiaramente: “I redditi delle societa' semplici, in nome collettivo e in accomandita
semplice residenti nel territorio dello Stato sono imputati a ciascun socio indipendentemente dalla
percezione, proporzionalmente alla sua quota di partecipazione agli utili”
norma chiara nel diritto tributario. Le società di persone quindi non sono soggetti passivi di alcuna
imposta sul reddito, ne del’Irpef ne dell’Ires!!! In virtù delle loro caratteristiche SONO SOGGETTI
TRASPARENTI E I LORO REDDITI, anche se non sono percepiti dal socio, SONO TASSATI E IMPUTATI PER
TRASPARENZA AI SOCI i soci non li devono percepire, la società non deve distribuire quegli utili ai soci.
Il reddito è come se fosse realizzato direttamente dal socio, come se la società di persone non esistesse.
Anticipiamo un’altra cosa: il reddito che il socio ritrae dalla partecipazione NON E’ un reddito da
partecipazione inteso come categoria di reddito. Ha la stessa natura del reddito realizzato dalla società di
persone. Siccome la società di persone in nome collettivo e in accomandita semplice sono società
commerciali, la loro attività genera sempre e comunque reddito d’impresa. Quindi di regola le società di
persone commerciali REALIZZANO reddito d’impresa: quindi significa che PER TRASPARENZA il socio
realizzerà reddito d’impresa. Quindi non è una categoria di reddito diverso!!!
Non c’è un reddito “da partecipazione” come fosse una categoria residuale.
Ipotesi particolare è quella dei REDDITI DEL DE CUIUS. In caso vi sia un decesso chi ha realizzato il reddito
non ha ancora realizzato l’imposta. In tal caso l’imposta è dovuta dagli eredi.
Si verifica proprio un distacco tra il soggetto produttore di reddito(de cuius) – il soggetto passivo del reddito
(erede). Non c’è problema di capacità contributiva assumendo che lui è l’erede che percepisce l’eredità.
Una volta fatta l’operazione (sommatoria dei redditi+tenendo conto delle perdite), DEVO TENER CONTO
DEGLI ONERI DEDUCIBILI. (3) Cosa sono? Sono delle DEDUZIONI DAL REDDITO vado a ridurre il reddito
che ho determinato da quelle operazioni e da alcune spese (es spese mediche derivanti da invalidità, oneri
che riducono il REDDITO, una serie di casi/oneri deducibili art. 10.
Vi sono quindi una serie di oneri deducibili, alcuni riconducibili a spese personali (l’IRPEF è una imposta
personale).
Una volta sottratti gli oneri deducibili, (4) VADO A DETERMINARE L’IMPOSTA.
CIOE’ PRENDO IL RISULTATO, A QUEL PUNTO APPLICO DELL’ALIQUOTA art. 11.
L’aliquota è PROGRESSIVA PER SCAGLIONI, non per classi. Cosa significa? Se ho un reddito meno perdite
meno oneri deducibili pari ad importo fino a 15.000, l’IRPEF/L’IMPOSTA è data dal 23% di quell’importo.
Se invece il reddito è superiore a 15.000 e inferiore a 28.000 euro, l’aliquota è del 28%.
QUESTO FINO A QUANDO? QUANDO ARRIVO OLTRE AI 75.000 AVRO’ ALIQUOTA DEL 43%.
Quindi se il mio reddito è di 80.000 euro non avrò aliquota sull’intera somma di 80.000 di 43, ma
avrò il 23% dei primi 15.000, poi per i successivi 13.000 data dalla la differenza tra 28 e 15 del 27%,
avrò il 38% sul successivo scaglione, il 41% sul successivo scaglione, e l’ultimo di 5.000 euro 43%.
NON E’ L’INTERO 43% CHE E’ PROGRESSIVO.
Poi abbiamo le DETRAZIONI DI IMPOSTA. (5) Una volta calcolata l’imposta, tramite le DETRAZIONI detraggo
degli importi dall’imposta NB QUI C’E’ UNA DIFFERENZA TERMINOLOGICA FONDAMENTALE
DEDUZIONE: RIDUZIONE DELLA BASE IMPONIBILE DEL REDDITO
DETRAZIONE: RIDUZIONE DELL’IMPOSTA
Abbiamo quindi una serie di altre ipotesi che prevedono delle DETRAZIONI in certi casi.
La prima ipotesi è quella per i Carichi di famiglia se abbiamo familiari a nostro carico, è prevista una
detrazione, che cambia a seconda che sia coniuge, figlio ecc.
Altra ipotesi è quella per Le spese mediche, le spese di istruzione detrazioni che solitamente sono
limitate ad una certa percentuale.
A quel punto potrei avere da sottrarre crediti d’imposta. Sottratto il credito d’imposta, devo versare il
tributo al netto però degli acconti che ho già versato durante l’anno. Mi trovo quindi a trovare a versare
quello che dovrei pagare complessivamente meno gli acconti già versati (es con la ritenuta a titolo
d’acconto).
A questo punto verso l’imposta dovuta.
LA TASSAZIONE SEPARATA.
E’ una tassazione applicabile quando i redditi hanno provenienza pluriennale, maturati in tanti anni ma che
si manifestano in un unico esercizio. Da allora devo avere una aliquota che non è dell’ultimo anno ma è una
media di aliquote di anni precedenti. Troviamo nel libro questo capitolo.
Iniziamo con i REDDITI FONDIARI: è la prima categoria che troviamo descritta nel TUIR.
E’ disciplinata dagli artt. 25 – 41 del Testo unico delle imposte sui redditi.
Art. 25: “Sono redditi fondiari quelli inerenti ai terreni e ai fabbricati situati nel territorio dello Stato che
sono o devono essere iscritti, con attribuzione di rendita, nel catasto dei terreni o nel catasto edilizio
urbano”
Dà la definizione generale di redditi fondiari.
Quindi vediamo nella definizione che sono i redditi inerenti a terreni e fabbricati situazioni in Italia che
devono essere iscritti nel catasto. Abbiamo quindi 2 caratteristiche fondamentali:
1. I terreni e i fabbricano devono essere situati in Italia: UBICAZIONE IN ITALIA
2. Iscrizione in catasto 2 requisiti che devono esservi entrambi!!
Abbiamo quindi questa categoria che al ricorrere dei requisiti è la prima categoria di reddito.
Se i fabbricati o i terreni non hanno queste caratteristiche previste (es un immobile è sito in Francia) o non
sono iscrivibili in catasto, NON GENERANO REDDITITI FONDIARI.
MA non significa che non siano reddito imponibile: bisogna verificare infatti se quell’immobile sito in
Francia genera reddito che rientra in altre categorie di reddito (rientrano nei Redditi diversi).
Ma cos’è l’attività agricola? L’attività agricola può essere l’attività diretta alla coltivazione del terreno e alla
silvicoltura. Possiamo avere l’allevamento d’animali, purchè con mangimi ottenibili per almeno ¼ dal
terreno. Cosa significa? Se sono allevati animali a terra, probabilmente il terreno su cui sono allevati è
sufficiente per alimentare per almeno ¼ gli animali che vi sono allevati. Se invece il mio terreno è troppo
piccolo per potergli dare ¼ del mangime agli animali, allora non sarà reddito fondiario/agricolo.
Quando ho un allevamento devo verificare se gli animali sono potenzialmente alimentabili con mangimi
ottenibili per almeno ¼ sul terreno in cui insistono.
Non è necessario che gli animali siano alimentabili su quel terreno con mangime ottenibile da quello
specifico terreno, ma è necessario che Dal punto di vista teorico quel terreno sia grande a sufficienza per
alimentare per almeno ¼ gli animali presenti.
ESEMPIO: TORRE DI GALLINE. Pensiamo di avere galline che producono uova come allevamento.
Sono libere in giardino e sono alimentabili per almeno ¼ del mangime su quel terreno. Se però le galline
anziché essere coltivate sulla terra vengono inserite in delle gabbie e queste sono sovrapposte l’una
sull’altra come da creare una torre, a quel punto il pezzo di terra su cui le galline sono allevate diventa
molto piccolo in relazione al numero di galline. Quindi non è sufficiente per alimentare per almeno ¼ le
galline. Ecco allora in questo caso Il reddito realizzato in questo allevamento NON E’ REDDITO AGRIARIO.
(se si superano i limiti, l’attività diventa attività d’impresa e genererà reddito d’impresa).
Domanda:
N. 1 Vi è un soggetto proprietario di un terreno che decide di cedere usufrutto sul terreno (rimane nudo
proprietario). Abbiamo quindi soggetto A nudo proprietario, soggetto B usufruttuario, B decide di affittare il
terreno ad un coltivatore C. CHI DICHIARA COSA?
Il reddito domenicale viene dichiarato da B, il reddito agrario da C.
N. 2 Nel caso di redditi dei fabbricati, posso avere un usufruttuario e un nudo proprietario, ed è
l’usufruttuario che è tenuto a dichiarare il reddito dei fabbricati.
N. 3 Nel caso di cessione durante l’anno: il reddito va diviso in che modo? Per il periodo in cui è stato
proprietario il cedente, il reddito va dichiarato da lui; per il periodo in cui è stato proprietario il cessionario,
sarà lui a dichiarare il reddito.
AD OGNI UNITA’ CATASTALE, che sia una unità immobiliare o una particella catastale,
CORRISPONDE UNA RENDITA, DETTA QUESTA RENDITA POI TRAMITE UN CONTEGGIO SI
DETERMINA IL REDDITO MEDIO-ORDINARIO, che è un reddito che nasce NETTO, non tiene conto
di costi di produzione del reddito, è già determinato in misura netta. Il legislatore tiene già conto di
quelli che sono i costi di produzione.
Per i terreni avrò un reddito domenicale medio ordinario e un reddito agrario medio ordinario.
I due redditi variano in relazione alla rendita che dipende dal tipo di terreno e dallla qualità e classe del
terreno stesso.
Se un terreno non è affittato, l’IMU (imposta patrimoniale che colpisce terreni e fabbricati) sostituisce il
reddito domenicale regola. Abbiamo quindi una IMPOSTA SOSTITUTIVA NOMINATA (l’IMU che
sostituisce l’imposta sul reddito).
QUALI TIPI DI REDDITI DERIVANTI DA TERRENI NON SONO CONSIDERATI REDDITO FONDIARIO
Ci sono 3 tipi di terreni che non generano reddito fondiario:
1. I terreni dati in affitto per usi non agricoli. Ad esempio un terreno dato in affitto per uso campeggio, non
si pratica attività agricola, si applicano invece le regole del reddito diverso.
2. Non generano reddito le pertinenze dei fabbricati. Ad esempio un giardino di una abitazione come
pertinenza di fabbricato.
3. I terreni strumentali all’esercizio di una impresa. Ad esempio il terreno su cui è effettuata una
produzione industriale di uova (es torre di gallina).
PER SINTETIZZARE: per i terreni si applica reddito medio ordinario, per i fabbricati bisogna fare un
confronto.
QUINDI CHI PUO’ REALIZZARE REDDITI FONDIARI?
Una persona fisica, ma anche una società semplice, o anche società di persone srl agricole a ricorrere di
certe condizioni. Ma cosa succede se il reddito agrario è realizzato da una società semplice? Succede che
quel reddito sarà imputato per trasparenza ai soci.
Possono realizzare reddito fondiario anche gli enti non commerciali, che però non sono soggetti passivi
irpef, non sono trasparenti fiscalmente, ma sono passivi dell’IRES.
I REDDITI DI CAPITALE
Sono la seconda categoria di reddito che trattiamo.
La disciplina dei redditi di capitale è contenuta nel TUIR prevalentemente, artt. 44-48bis.
C’è da dire però che i redditi di capitale non sono disciplinati solo dal TUIR ma anche in altri testi legislativi,
il più importante dei quali il DPR 600/1973. Inoltre alcune regole che valgono per i redditi di capitale
valgono anche per i redditi diversi di natura finanziaria. Vi sono proprio regimi trasversali che riguardano i
redditi di capitale e alcuni di questi redditi diversi è una disciplina particolare e complessa.
Differentemente dai redditi fondiari, NON vi è una definizione di redditi di capitale, bensì vi è una
definizione “per elencazione” c’è un elenco di tipi di reddito riconducibili ai redditi di capitale.
Tra questi 3 sono i più importanti:
- Gli interessi attivi, che remunerano il capitale di debito, quindi gli interessi che derivano da un prestito (es
prestiti derivanti da mutui, interessi su conto corrente)
- I dividendi, la remunerazione del capitale di rischio, sono quindi la remunerazione ricevuta dai soci della
società quando la società decide di redistribuire i propri utili
- Una formula residuale alla lettera H: altri proventi derivanti da altri rapporti aventi per oggetto l’impiego
del capitale. Sono TUTTI gli altri proventi che derivano dall’impiego di capitale (omni-comprensività).
Le caratteristiche comuni di queste tipologie sono quelle di avere ad oggetto L’IMPIEGO DEL CAPITALE.
Sono invece escluse/non sono reddito di capitale i “rapporti attraverso cui possono essere realizzati
differenziali positivi e negativi in dipendenza di un certo evento”.
Questo è il caso delle plusvalenze e minusvalenze che derivano dalla compravendita dei titoli partecipativi.
Se io ho un titolo partecipativo acquistato per 100 che poi rivendo per 120, realizzo una plusvalenza di 20.
Quel differenziale positivo NON è reddito di capitale perché manca un elemento fondamentale avendo esso
natura aleatoria, non ha la certezza che deriva invece da un investimento.
REGIME FISCALE DEI DIVIDENDI E DEGLI INTERESSI ATTIVI (2 principali componenti reddituali)
- Per capire la tassazione dei dividendi, bisogna dire chi è il Percettore.
Ora stiamo parlando di IRPEF, i percettori sono PERSONE FISICHE. I dividendi per la persona fisica che non
esercita attività d’impresa e non consegue dividendo nell’ambito di attività di impresa, i dividendi sono
redditi di capitale e sono tassati con una ritenuta alla fonte del 26%. Perché anziché in misura progressiva
fino ad aliquota del 43% (massima) sono tassati cosi? Per capirlo bisogna vedere le società di capitali.
Esse realizzano un utile, prima di distribuirlo, lo assoggettano ad imposizione (ires), e una volta tassato il
reddito d’impresa lo possono distribuire al netto delle imposte.
Esempio: assumiamo di avere società con reddito lordo di 100.
Si applica aliquota ires che è del 24% fissa, e imposta è pari al 24 e il residuo da distribuire a 73.
Il socio riceve il reddito però soggetto a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta. come si determina tale
ritenuta? E’ pari a 76 con aliquota del 26%. Circa pari a 19.
Quindi se vediamo la tassazione complessiva, la società versa una imposta di 24, il socio tramite quella
ritenuta ha versato imposta pari a 19. Se sommiamo 24 e 19, il totale versato per l’investimento è pari a 43
circa = pari all’aliquota massima applicabile per le persone fisiche.
Quindi vediamo come la ragione per cui il dividendo è tassato in maniera ridotta, è per evitare la cd. Doppia
imposizione economica il fatto che un reddito d’impresa sia tassato due volte (impresa e socio).
NB PER LA SOCIETA’ IL DIVIDENDO DITRIBUITO, L’UTILE DISTRIBUITO (che per il socio è dividendo) NON
PUO ESSERE DEDOTTO DAL REDDITO D’IMPRESA DELLA SOCIETA.
Quindi la società verserà un tributo pari a 24 sul reddito di 100, il socio invece verserà tramite ritenuta alla
fonte a titolo d’imposta un tributo pari a 19, quindi nel complesso l’investimento avrà dato luogo ad un
gettito per l’erario pari a 24+19 = 43 circa.
Il socio inoltre non riceve 76 ma 76-19 pari a 57.
Quando invece il socio NON E’ PERSONA FISICA, vi sono regimi diversi. I dividendi possono essere realizzati
da soggetti passivi dell’IRES, quindi una stessa società di capitali può realizzare un dividendo.
In tal caso non sarà reddito di capitale BENSI DI IMPRESA in cui vige il principio della forza di attrazione
(lo vedremo).
Anche l’imprenditore individuale può realizzare il dividendo.
il dividendo anche qui è reddito di impresa.
Poi abbiamo enti non commerciali che realizzano il dividendo.
(COSA SONO I DIVIDENDI: NON SONO SOLO REDDITO DI CAPITALE, MA ANCHE REDDITO DI IMPRESA,
DIPENDE DA CHI E’ IL PERCETTORE!!!).
Ciò vale sia se le partecipazioni sono qualificate o non sono qualificate, oggi non c’è più la distinzione come
nei vecchi libri.
- Per quanto riguarda gli Interessi attivi, sono la 2 tipologia di reddito di capitale.
Sono anch’essi reddito di capitale se percepiti non da imprenditore. Nel caso invece vengano percepiti da
imprenditore, vige il principio di attrazione del reddito d’impresa e diventano reddito di impresa.
Gli interessi sono quelli che derivano da mutui, prestiti, depositi, da titoli obbligazioni, NON invece quelli
legati alle more dai clienti.
Essi di regola sono differentemente dai dividendi DEDUCIBILI per chi paga gli interessi.
La società che emette titolo obbligazionale può dedurre il costo del debito (gli interessi passivi che paga)
Mentre quando distribuisce dividendi non può ridurre il costo, Perché gli interessi passivi sono un costo per
l’impresa di produzione del reddito.
Per quanto riguardano gli interessi poi valgono 2 presunzioni.
1. Anzitutto gli interessi si presumono percepiti alla scadenza e nella misura pattuita. Ciò significa che si
deroga in parte al principio di cassa, perché si presumono percepiti alla scadenza e nella misura pattuita nel
contratto. Se non è pattuita si presumono percepiti al saggio legale, salvo che il contribuente non offra la
prova contraria. ES Prestare somma a qualcuno senza pattuire tasso di interesse può essere un errore.
2. Le somme date da soci a società si presumono date a mutuo se dal bilancio non risulta diversamente.
Conta quindi il bilancio, le somme sono date a mutuo salvo diversamente.
Anche gli interessi attivi sono tassati con aliquota del 26%. Per i titoli di stato l’aliquota è del 12,5%.
Perché vi è una aliquota inferiore rispetto a quella ordinaria? Mentre per i dividendi la logica sottostante
del 26% era per evitare la doppia imposizione economica sullo stesso reddito, qui si vuole garantire il
principio costituzionale che è la Tutela del risparmio vera e propria agevolazione fiscale.
REGIMI FISCALI APPLICABILI CHE RIGUARDANO TRASVERSALMENTE I REDDITI DI CAPITALE-DIVERSI CON
NATURA FINANZIARIA
Il primo regime è quello del RISPARMIO AMMINISTRATO, che si ha quando un contribuente ha un conto
deposito presso l’intermediario ma gestisce in autonomia la propria posizione finanziaria.
E’ il caso più comune. In tali ipotesi si applica il PRINCIPIO DEL REALIZZO, il reddito è determinato secondo
le regole classiche, e le minusvalenze eventualmente realizzate sono deducibili e scomputabili solo dalle
plusvalenze entro 4 anni Regime in cui ho un portafoglio titoli.
Le plusvalenze e le minusvalenze sono “redditi diversi”.
Nel regime sono io contribuente a disporre ordini all’intermediario (…)
Poi c’è il regime del RISPARMIO GESTITO, secondo cui il contribuente affida un determinato patrimonio ad
un intermediario e sarà questo a gestirlo! Non abbiamo più qui il contribuente investitore che spiega i
compiti all’intermediario. In tale caso la tassazione non colpisce più il REALIZZO, bensì il MATURATO (…)
Vi sono poi i FONDI COMUNI DI INVESTIMENTO, che non sono tassati sul maturato, ma si tassa soltanto
l’eventuale plusvalore che si realizza al momento dell’investimento del fondo (….)+
All’art. 50 poi vi sono una serie di altre ipotesi assimilate, sono assimilati ai redditi di lavoro dipendenti una
serie di ipotesi tra cui le borse di studio, le indennità parlamentari, assegni periodici per il mantenimento
del coniuge (non invece per il mantenimento dei figli), etc.
Quindi noi abbiamo una ipotesi ordinaria di reddito (49) e una serie di ipotesi assimilate ad esso.
2. Per quanto riguarda i costi, i costi non sono deducibili. Non è deducibile alcun costo di produzione del
reddito da lavoro dipendente. Quindi i costi non sono ammessi: perché la CC ci insegna che i lavoratori
dipendenti non hanno costi di produzione del reddito perché è l’organizzazione di impresa/l’imprenditore
datore che ha una organizzazione tale per cui sussistono tutti i costi. Quindi il costo di produzione non è
sostenuto dal lavoratore dipendente ma dal datore di lavoro.
Se mi serve un computer, questo mi viene messo a disposizione dal datore di lavoro.
Si ritiene che MANCANDO L’ORGANIZZAZIONE da parte del lavoratore, egli non ha costi di produzione.
Sussiste però una DETRAZIONE FORFETTARIA DEI COSTI. Quando abbiamo esaminato le regole di
determinazione del reddito abbiamo visto l’art. 13 per cui se alla formazione del reddito complessivo
concorrono uno o più redditi di cui agli artt. 49 ecc, spetta una detrazione dall’imposta lorda. Gli articoli 49
sono questi in tema di reddito da lavoro dipendente se un contribuente possiede redditi di lavoro
dipendente, questi redditi generano una detrazione forfettaria per gli importi indicati all’art 13.
Qualcuno ritiene che nell’articolo 13 queste detrazioni sostituiscano le deduzioni. In realtà non è cosi:
questa non è solo una questione di tecnicismo legislativo, il motivo è che la detrazione di cui all’art. 13 ha lo
scopo non tanto di garantire una deducibilità di garantire una attenuazione dell’onere tributario per una
categoria di reddito che non ha costi deducibili, quanto per garantire un livello di progressività maggiore
dell’imposizione. Si ritiene che questa categoria di redditi merita una maggiore redistribuzione della
ricchezza rispetto ad altre categorie di reddito. Questo comporta che nella valutazione di costituzionalità
della norma che non ammette la deducibilità dei costi, non si possa addurre come causa di giustificazione il
fatto che vi è una detrazione d’imposta. E la detrazione non sostituisce i costi deducibili anche perché è
ammessa solo per i redditi bassi.
Per i redditi più alti anzi la detrazione diminuisce. Non è pensabile che il lavoratore dipendente con reddito
alto abbia dei costi di produzione mentre quello con reddito basso li abbia.
La detrazione quindi operando solo per i redditi bassi non serve a sostituire i costi, altrimenti varrebbe
anche per i redditi alti. Ha quindi lo scopo di garantire maggiore progressività per questa categoria
considerata tassata in misura “ordinaria”, mentre altre hanno una tassazione agevolata come per la
categoria dei redditi fondiari.
Il legislatore ha previsto almeno per i redditi piu bassi una attenuazione della progressività.
QUINDI: No costi deducibili, e la detrazione forfettaria dei costi sussiste si ma non in sostituzione dei costi
non deducibili.
3. Per quanto riguarda la ritenuta a titolo d’acconto, i redditi da lavoro dipendente sono soggetti a ritenuta
alla fonte a titolo d’acconto e non d’imposta (che esauriscono l’obbligazione tributaria) sono acconti
versati dal datore di lavoro per il lavoratore dipendente. Quindi se questo deve percepire uno stipendio
lordo di 1000 euro, il datore gli corrisponde non lo stipendio lordo di 1000 euro ma lo stipendio al netto di
una ritenuta alla fonte a titolo d’acconto. Se assumiamo questa ritenuta del 30%, significa che il lavoratore
dipendente non percepirà 1000 euro ma 1000 – il 30% ossia 700 euro.
I 300 euro verranno versati dal datore di lavoro e il lavoratore quando dovrà versare il saldo dell’IRPEF terrà
conto di questo acconto versato dal datore di lavoro.
Quali sono alcuni esempi di fringe benefit esclusi dalla tassazione e che il legislatore considera escludi?
Li vediamo al comma 2: lettera c ad esempio “le somministrazioni di vitto da parte del datore..”
cosa vuol dire: alcuni compensi in natura che secondo la regola generale sono reddito imponibile, non
vengono considerati tale ma sono esclusi da tassazione se hanno determinate caratteristiche.
Ad esempio i ticket restaurant. Il soggetto che paga con questo l’ha ricevuto dal datore e quel ticket non è
considerato reddito imponibile, quindi il lavoratore che lo riceve non deve indicare il reddito di 5, 29 euro al
giorno (valore del ticket) nella dichiarazione dei redditi.
ci sono vari fringe benefit e varie ragioni per cui il legislatore ne esclude alcuni dalla tassazione.
Per verificarli bisogna guardare l’art. 51, co2.
Abbiamo detto che tutte le somme e i beni collegati al rapporto di lavoro sono reddito di lavoro
dipendente, salvo che non vengano espressamente esentate da una disposizione. Solitamente i fringe
benefit specificatamente indicati tra quelli che non concorrono, possono dirsi esenti da imposta, mentre
quelli non specificati rientrano nell’ambito di reddito imponibile.
2. I RIMBORSI SPESE: spesso accade che un lavoratore dipendente è rimborsato per determinate spese che
ha posto in essere. Bisogna distinguere:
- se sono poste in essere IN FAVORE del datore di lavoro, sono spese sostenute dal lavoratore per interesse
del datore, queste NON sono da considerarsi reddito. Si tratta di un risarcimento di un pregiudizio subito
dal lavoratore dipendente, che ha anticipato spese che riguardano il rapporto e nell’esclusivo interesse del
datore.
- se sono poste in essere PER PROPRIE ragioni dal lavoratore, si tratta di una remunerazione/di reddito.
Una particolarità è data dal rimborso spese che riguarda il trasferimento della sede del lavoro per il
dipendente. Il rimborso delle spese di trascolo NON è reddito imponibile quando anche questo ha natura
reddituale perché questo non impone necessariamente al lavoratore dipendente di trasferirsi, il legislatore
decide di non considerarlo reddito imponibile.
Prima di questa norma la Cassazione invece considerava il rimborso delle spese di trasloco per il cambio di
sede come reddito imponibile perché erano spese considerate non nell’interesse del datore di lavoro, anzi
considerava che fosse nell’interesse del lavoratore essere vicino al luogo di lavoro.
Ora passiamo al REDDITO DA LAVORO AUTONOMO: esso è definito negli artt. 53 e 54 TUIR.
L’art. 53 ci da la definizione: “Sono redditi da lavoro autonomo quelli che derivano dall’esercizio di arti e
professioni”. Per esercizio di arti e professioni si intende l’esercizio per professione abituale ancorchè non
esclusiva di attività di lavoro autonomo, diverse da quelle considerate nel capo 6, compreso l’esercizio in
forma associata di cui alla lettera c, co.3 art. 55.
Anzitutto il reddito da lavoro è quello derivante dall’esercizio di arti e professioni, che abbiano determinate
caratteristiche:
- occorre che vi sia una natura intellettuale dell’attività svolta, perché se non ha natura intellettuale ma
prevale il capitale umano, ovviamente abbiamo a che fare con reddito di altra natura. Ad esempio
l’avvocato realizza un reddito da lavoro autonomo, così come il commercialista, il ragioniere esercitano arti
e professione.
- deve essere autonomo, non deve esser un lavoro alle dipendenze di qualcuno. L’autonomia è un requisito
fondamentale.
- deve essere abituale, significa che non può essere una prestazione occasionale (in tal caso rientra nel
reddito diverso).
Mentre l’autonomia serve da confine tra reddito lavoro autonomo-dipendente, l’abitualità serve da
confine tra reddito lavoro autonomo-reddito diverso.
- deve essere una attività diversa da quella considerata nel capo sesto: deve essere una attività DIVERSA DA
UNA ATTIVITA’ CHE GENERA REDDITO DI IMPRESA, ossia non deve essere attività commerciale, cioè quella
che rientra nella categoria delle categorie previste 2195 cc, quindi attività di produzione di beni e di servizi,
di scambio di beni e servizi, di trasporto, bancarie, assicurative e ausiliari alle precedenti.
Un reddito da lavoro autonomo non è una attività commerciale.
- un reddito da lavoro autonomo non deve essere organizzata in forma di impresa: quando studieremo la
nozione di reddito di impresa vedremo che è di impresa il reddito quando è esercitata una attività di natura
commerciale, o che se non ha natura commerciale è organizzata in forma di impresa.
Introduciamo un concetto: nel momento in cui un bene strumentale è acquistato e io ne deduco il costo,
significa che sto anche riducendo il valore fiscalmente riconosciuto quel bene , cioè quell’importo/dato che
mi serve per determina una minusvalenza o una plusvalenza quando io rivendo il bene.
Quando lo rivendo, per sapere se ho determinato una minus/una plus valenza, farò la differenza tra il
prezzo di vendita meno il valore fiscalmente riconosciuto.
E il valore fiscalmente riconosciuto è dato dal COSTO DI ACQUISTO DEL BENE – L’AMMONTARE DEDOTTO
DEL COSTO DI ACQUISTO. Se acquisto un bene e lo deduco interamente questo avviene per tutti quanti i
beni il cui costo unitario non è superiore a 516 euro. Se non è superiore, il contribuente non deve dedurre
il bene per quote di ammortamento, ma può dedurlo Totalmente. Se lo deduce totalmente, il mio valore
fiscale andrà ridotto a 0. Quando io rivenderò il mio bene strumentale, realizzerò una plusvalenza data dal
prezzo di vendita – 0, che è il mio nuovo valore fiscalmente riconosciuto.
Se invece acquisto un computer per 1000 e lo ammortizziamo in quote del 20%, 1/5 ciascun anno quindi,
ogni anno allora 20. Nel momento in cui al terzo anno ho dedotto 3 quote, quindi ho dedotto 60, e vendo il
bene, significa che il bene ha valore fiscale di 40 dato da 100 – le quote fiscalmente dedotte del costo, che
nel caso sono pari a 60. Quindi valore fiscale è 100 – 60 = 40.
Se lo vendo per 80 il pc, significa che realizzo una plusvalenza di 40.
IL VALORE FISCALMENTE RICONOSCIUTO E’ IL COSTO DI ACQUISTO – AMMONTARE DI QUEL COSTO
FISCALMENTE DEDOTTO DAL REDDITO.
Una delle difficoltà che si hanno riguarda la DEDUCIBILITA’ DEI COSTI. Quando si può dire che un
determinato bene è inerente all’attività di lavoratore autonomo e quindi può essere dedotto?
Se acquisto un codice o un computer l’inerenza è evidente. Ma ci sono casi in cui bisogna riflettere
sull’inerenza o meno. Ad esempio un caso dibattuto è il Costo di acquisto della cravatta.
Alcuni avvocati la acquistano per fare l’avvocato e vogliono dedurre tale costo di acquisto.
E’ possibile dedurla? Tendenzialmente no; un conto è un camicie di un farmacista, questo bene è utilizzato
esclusivamente per l’attività di lavoro esercitato, o anche la toga in aula per l’avvocato, non la indosserà
fuori. Il costo per loro sarà deducibile. Per una cravatta invece, la cosa è diversa: sicuramente c’è quel
signore che dirà che lui indossa la cravatta SOLO per fare l’avvocato altrimenti non la indossa, ma è anche
vero che il legislatore non può fare una valutazione soggettiva caso per caso, ma una Prevalutazione dei
beni “inerenti” ad una determinata professione.
Se l’indumento non è necessario per esercitare la propria attività di lavoro autonomo non si può dedurre
quel costo. Ma qualcuno può dire: ma allora almeno sia ammessa la deducibilità per il 50% del costo.
Qualsiasi indumento può divenire necessario per lavorare, necessariamente i vestiti sono acquistati non
solo per lavorare ma PER USCIRE DI CASA, non solo per il lavoro. BISOGNA VEDERE SE DAL LAVORO è
RICHIESTO UN DETERMINATO INDUMENTO. SE QUELL’INDUMENTO E’ NECESSARIO PER IL LAVORO ALLORA
IL COSTO E’ DEDUCIBILE AL 50% MAGARI PERCHE’ QUELL’INDUMENTO POSSO INDOSSARLO SIA FUORI CHE
AL LAVORO. Altrimenti non posso chiedere la deducibilità nemmeno del 50% per quegli indumenti non
essenziali per la professione.
I REDDITI DI IMPRESA
La normativa sui redditi di impresa è contenuta in 3 distinti gruppi di norme, che esaminiamo in modo
distinto.
1 GRUPPO, è un'unica disposizione: l’art. 55 del TUIR che prevede la definizione di reddito di impresa,
stabilisce quello che è il PERIMETRO della categoria, ci dice cosa entra in questa categoria di reddito
Per quanto riguarda la DETERMINAZIONE del reddito della categoria, abbiamo altri 2 gruppi di norme.
2 GRUPPO: di norme si applica soltanto alle società di capitali e agli enti commerciali.
Questo gruppo di norme è contenuto dagli artt. 81 e seguenti del TUIR.
(“Determinazione della base imponibile delle società e degli enti commerciali residenti”) determiniamo il
reddito di impresa seguendo le regole degli artt. 81 e seguenti per quanto riguarda le società di capitali e
enti commerciali, che NON sono soggetti passivi IRPEF.
3 GRUPPO: di norme, che è previsto dagli artt. 56-66 TUIR, che invece riguarda soggetti passivi IRPEF.
Se guardiamo all’art. 56 però, vediamo che è prevista una norma di rinvio: il reddito di impresa è
determinato secondo le disposizioni della sezione 1 del capo 2 del titolo 2, cioè reddito di impresa per le
società ed enti commerciali, SALVO, quanto stabilito nel presente capo.
Quindi cosa abbiamo:
l’art. 55, primo gruppo, definisce il perimetro;
poi abbiamo gli artt. 81 e seguenti, secondo gruppo, che prevedono e regole di determinazione del reddito
di impresa sicuramente per le società ed enti commerciali, ma con una eccezione: per i soggetti passivi Irpef
si applicano le disposizioni dall’artt. 56-66 quando stabiliscono diversamente rispetto a quanto stabilito
dagli artt. 81 e seguenti.
Quindi in questa lezione esaminiamo la nozione di reddito di impresa, poi vedremo soltanto quali sono le
principali regole stabilite “nel presente capo” che si applicano per le persone fisiche che sono diverse dalle
società e dagli enti commerciali, poi in un successivo momento in cui esamineremo i soggetti passivi
dell’Ires, esamineremo le regole specifiche di determinazione del reddito d’impresa (salvo quanto stabilito
nel capo che esaminiamo oggi che si applicano anche i redditi di impresa delle persone fisiche situazione
un po’ intrecciata, esaminiamo 2 di questi gruppi oggi).
-Adesso vediamo LA DEFINIZIONE DI REDDITO DI IMPRESA:
Chi realizza reddito di impresa? Chi possiede reddito di impresa?
Realizzano reddito di impresa 2 categorie di soggetti:
1) Coloro che esercitano una attività commerciale, prevista dall’art. 2195 cc, con alcune estensioni
2) Coloro che, pur non realizzando una attività commerciale prevista dall’art. 2195 cc o una estensione,
prestano una attività comunque organizzata in forma d’impresa.
2) Poi abbiamo anche quelle attività agricole che eccedono i limiti previsti per produrre reddito fondiario.
Abbiamo fatto l’esempio della torre di galline, abbiamo detto come se creiamo questa torre, significa che
gli animali presenti non sono alimentati per almeno ¼ dai prodotti ottenibili dal terreno su cui insistono, e
quindi diventa reddito di impresa. L’attività che esercitano genererà reddito di impresa.
Quando abbiamo una attività agraria che supera quei limiti previsti per l’attività agraria (art. 32) abbiamo
una attività di impresa che genera reddito di impresa, ANCHE SE NON E’ ORGANIZZATA IN FORMA
D’IMPRESA.
3) Inoltre abbiamo reddito di impresa quando abbiamo una attività di sfruttamento di cave, di miniere, di
saline ecc. quindi significa che tutte queste attività producono e generano reddito di impresa, non
fondiario o di altro tipo. E ciò vale anche se queste attività NON SONO ORGANIZZATE IN FORMA
D’IMPRESA.
Quindi non è necessario che colui che produce un certo prodotto eserciti una attività per forza assicurativa
o bancaria, o colui che esercitando una attività agricola superi il limite per quella attività sia organizzato in
forma di impresa E’ SUFFICIENTE CHE PONGANO IN ESSERE QUELLA DETERMINATA ATTIVITA’, SI
GUARDA ALL’ATTIVITA’ EFFETTIVAMENTE PRESTATA.
NB.
Chi può realizzare reddito di impresa? Noi ora stiamo parlando sempre di persone fisiche perché
esaminiamo l’IRPEF, e i soggetti passivi dell’Irpef sono solo loro. Anticipiamo però che il reddito di impresa
in realtà può essere realizzato anche da altri soggetti, anche le società realizzano reddito di impresa. Anzi,
le società commerciali realizzano SEMPRE E COMUNQUE reddito di impresa, con l’eccezione delle società
agricole. Quindi le società di capitali TUTTE (srl, spa, sapa) , e le società di persone NON SEMPLICI (quindi
solo in accomandita semplice e in nome collettivo, che sono le due società di persone commerciali)
Perché questo? Perché 1. ce lo dice l’art. 81, ma 2. anche senza questa norma in realtà basta pensare che
all’art. 55 ci viene detto che le attività organizzate in forma d’impresa generano reddito d’impresa.
è per definizione.
1) Quindi società di capitali, di persone commerciali, enti commerciali REALIZZANO SEMPRE E COMUNQUE
REDDITO DI IMPRESA.
2) Poi abbiamo le persone fisiche che possono realizzare reddito di impresa.
3) Abbiamo gli enti non commerciali che possono realizzare anche reddito di impresa, purchè non
prevalente o esclusivo altrimenti diventano enti commerciali.
-ADESSO VEDIAMO LE REGOLE DI DETERMINAZIONE DEL REDDITO DI IMPRESA PER LE PERSONE FISICHE
Come sempre, prima le regole generali di IMPUTAZIONE A PERIODO e DEDUCIBILITA’ DEI COSTI.
1) Il reddito va imputato a periodo secondo il PRINCIPIO DI COMPETENZA, non il principio di cassa: conta
cioè la maturazione giuridica. Un componente positivo di reddito si manifesta/va dichiarato/va tassato
quando si manifesta giuridicamente. ESEMPIO:
-Nel caso in cui un imprenditore produca e venda beni mobili, il momento in cui si manifesta il componente
positivo di reddito non è quando riceve il denaro vendendo il mobile, bensì nel momento in ci vi è lo
SCAMBIO, LA CONSEGNA DEL BENE MOBILE, quando vi è il PASSAGGIO DI PROPRIETA, in quel momento
matura giuridicamente il componente positivo di reddito.
-Invece per le prestazioni di servizi, il momento di maturazione giuridica è il momento della DATA DI
ULTIMAZIONE DEL SERVIZIO.
2) I COSTI SONO DEDUCIBILI DAL REDDITO, purché inerenti all’attività di impresa e purché dedotti nel
periodo di competenza ovviamente.
TERZA DIFFERENZA: abbiamo l’art. 60, che prevede una specificità. E’ quella che non può valere per le
società di capitali, abbiamo l’art. 60 “spese per prestazioni di lavoro” l’art. si dice che non sono ammesse
in deduzione i compensi pagati per il lavoro prestato dall’imprenditore stesso, dal coniuge, figli e familiari
partecipanti all’impresa. L’imprenditore individuale quindi non può dedurre l’opera svolta da lui stesso o
l’opera svolta dai suoi familiari. Questa regola non vale quindi per una società di capitali perché essa non ha
figli, non è una impresa familiare.
QUARTA DIFFERENZA: riguarda gli Interessi passivi. Gli interessi passivi sono deducibili nei limiti del
rapporto tra componenti positivi tassati o non tassati perché esclusi, e tutti i componenti positivi di reddito.
Perchè? Perché si collega a qualcosa che abbiamo visto nell’ambito dell’esenzione ed esclusione.
Abbiamo visto come i costi relativi a componenti positivi di reddito esenti non sono deducibili, mentre i
costi relativi a componenti di reddito esclusi sono deducibili, cosi come lo sono i costi relativi a componenti
di reddito tassati.
Quindi se io imprenditore ho un costo che mi serve per ottenere un certo componente positivo di reddito
esente, questo costo non lo posso dedurre dal reddito imponibile.
Sono ad esempio esenti le plusvalenze derivanti dalla cessione delle partecipazioni.
Ci sono però, dei casi in cui non vi è la possibilità di ricondurre specificatamente un costo ad un
componente positivo di reddito esente, peerchè ci sono delle spese generali, come gli interessi
passivi=cioè costi per produrre reddito, ma non sono costi che servono solo per produrre reddito tassato,
ma anche dei costi per produrre tutti i suoi componenti positivi di reddito, sia che siano esenti che tassati.
Ecco allora che è necessario di questa parte di componenti negativi, considerare deducibili solo la quota
parte riferibile ai redditi tassati o esclusi, mentre non deducibile la quota parte riferibile ai redditi esenti.
E come lo faccio? Con una proporzione, con una percentuale. Considero solo la frazione tra tutti i
componenti di reddito tassati ed esclusi, fratto tutti i componenti inclusi quelli esenti.
Quindi troverò la percentuale di componenti positivi tassati ed esclusi rispetto al totale dei componenti
positivi di reddito trovo la percentuale dei componenti negativi (interessi passivi) che sono deducibili
dal reddito. GLI INTERESSI TASSIVI INERENTI ALL’ESERCIZIO DI IMPRESA QUINDI SONO DEDUCIBILI SOLO
PER LA PARTE CORRISPONDENTE AL RAPPORTO TRA L’AMMONTARE DEI RICAVI E ALTRI PROVENTI, E
L’AMMONTARE COMPLESSIVO DI TUTTI I RICAVI E PROVENTI (art. 61).
QUINTA DIFFERENZA: riguarda l’art. 58 e le Plusvalenze che derivano da cessione d’azienda. Se realizzate
da imprenditore individuale, possono essere tassate Separatamente. Abbiamo parlato della tassazione
separata, che riguarda i componenti di reddito a formazione pluriennale, tra cui c’è anche una plusvalenza
derivante da cessione d’azienda. La plusvalenza può essere maturata in tutto l’arco di vita dell’azienda.
Riguarda solo le persone fisiche e non riguarda società ed enti commerciali.
SESTA DIFFERENZA/SPECIFICITA: riguarda la Deducibilità dei beni ad uso promiscuo = quei beni che
l’imprenditore individuale utilizza in parte per il suo consumo personale e in parte per l’attività di impresa,
come un computer usato anche in famiglia per il figlio oltre che in ufficio. Questi costi ci dice l’art. 64, co2,
sono deducibili solo nel limite del 50%. Quindi solo il 50%.
Poi abbiamo redditi molto simili ai redditi Fondiari, ad esempio le Plusvalenze relative alla lottizzazione dei
terreni generano redditi diversi. Abbiamo la proprietà di un terreno ma c’è una ALEATORIETA’ che non c’è
nei redditi fondiari e quindi diventano redditi diversi.
(…)
Poi abbiamo dei redditi che derivano da investimenti finanziari, in particolare le plusvalenze derivanti dalla
cessione di una partecipazione finanziaria in una società. Queste plusvalenze sono redditi diversi, che
vengono però tassati con una imposta sostitutiva del 26%. Parliamo sempre di persona fisica che acquista
titolo azionario e lo rivende realizzando plusvalenza. Questa plusvalenza non è tassata secondo regole
ordinarie ma secondo una tassazione sostitutiva del 26%.
Sono redditi DIVERSI e NON di capitale, perché nei redditi di capitale ci sono 2 requisiti: certi nella loro
esistenza e che derivino dall’impiego di capitale.
Ma quando ho una plusvalenza io ho una aleatorietà, non ho la certezza nell’esistenza di quel reddito. Alla
fonte c’è un evento aleatorio, cioè la crescita di un valore di un titolo azionario.
Essendo un evento aleatorio, non rientra nei redditi di capitale. E’ un reddito simile a quello di un'altra
categoria ma non c’è certezza dell’AN, e quindi è reddito diverso.
Anche i redditi fondiari che riguardano immobili all’estero sono in realtà redditi diversi.
Beni immobili siti all’estero generano infatti reddito diverso e non fondiario.
ABBIAMO BREVEMENTE VISTO LE TIPOLOGIE DI REDDITI DIVERSI CHE ASSOMIGLIANO A QUELLE DI ALTRE
CATEGORIE (più o meno).
MA sussistono 2 tipi di redditi diversi che invece NON hanno collegamenti con altri redditi.
1) LE VINCITE: tutte le vincite lecite costituiscono reddito diverso. Perché? Perché non hanno alcuna fonte
produttiva, derivano prevalentemente da FORTUNA, non c’è collegamento con nessuna categoria.
2) REDDITI DERIVANTI DALL’ASSUNZIONE DI OBBLIGHI DI FARE, NON FARE, PERMETTERE: è una clausola
residuale a cui va fatta attenzione; potrebbero rientrarvi varie ipotesi infatti che in realtà non rientrano in
nessuna categoria di reddito.
Possiamo concludere che nella categoria dei redditi diversi rientrano una serie di ipotesi di reddito
SIMILI ad altre categorie in tanti casi, PER NULLA SIMILI ad altre, ma comunque sono una
categoria/elencazione che non è esaustiva ma ha una CLAUSOLA DI CHIUSURA, questa di redditi
derivanti dall’assunzione di obblighi di fare, non fare, permettere, a cui bisogna prestare
attenzione.
E’ una categoria NON residuale, non è che ogni tipo non rientrante entra qui dentro, ma è una
categoria per elencazione, solo quelle determinate sono reddito diverso.
Ma con la clausola di chiusura bisogna far attenzione se per caso una ipotesi non inclusa vi possa
rientrare, caso per caso dalla giurisprudenza.
I REDDITI DIVERSI HANNO REGOLE DI DETERMINAZIONE CHE VARIANO A SECONDA DEL TIPO DI
REDDITO DIVERSO.
LEZIONE 10, IRES: IMPOSTA SUL REDDITO DELLE SOCIETA’, DISPOSIZIONI GENERALI
Vediamo oggi LE DISPOSIZIONI GENERALI e I SOGGETTI PASSIVI DELL’IRES.
L’IRES è l’imposta sul reddito delle società, ed è la seconda imposta che studiamo.
Abbiamo visto l’IRPEF che ha come presupposto il possesso dei redditi che rientrano nelle 6 categorie di
reddito esaminate, i soggetti passivi sono le persone fisiche residenti e non residenti, e ora vediamo
l’IRES.
La prima norma da leggere è l’art. 72 e seguenti del TUIR che riguardano I SOGGETTI
PASSIVI+DISPOSIZIONI GENERALI.
L’art. 72 prevede che: “Presupposto dell’imposta sul reddito delle società è il possesso dei redditi in denaro
o in natura rientranti nelle categorie indicate all’articolo 6.”
IL PRESUPPOSTO DELL’IRES E’ COINCIDENTE COL PRESUPPOSTO DELL’IRPEF, possiamo quindi dire le
stesse cose che abbiamo visto per il possesso; per possesso bisogna fare riferimento a quando il reddito
matura, quando effettivamente va imputato ad un determinato periodo di imposta.
- “in denaro o in natura” abbiamo visto come il reddito può manifestarsi in denaro, oppure in natura e in
tal caso il reddito dovrà essere quantificato secondo il valore normale, art. 9 TUIR.
- “rientranti nelle categorie indicate all’art. 6” il possesso dei redditi che rientra in una di queste
categorie fa scattare l’Imposta sul reddito delle società.
C’è da dire però una cosa riguardo all’IRES: ALCUNI SOGGETTI PASSIVI (di quelli che vedremo) PER
DEFINIZIONE NON POSSONO POSSEDERE REDDITI CHE RIENTRANO IN ALCUNE CATEGORIE DI REDDITO
INDICATE NELL’ART.6.
Ad esempio, tra i soggetti passivi dell’IRES, ci sono le società di capitali e gli enti commerciali.
Queste due realizzano per definizione SOLO REDDITO DI IMPRESA, e questo vale anche se realizzano un
reddito che avrebbe natura di reddito fondiario/di capitale/ecc, perché?
Perché PER IL PRINICIPIO DI ATTRAZIONE DELLA CATEGORIA DEL REDDITO DI IMPRESA, tutti i redditi
realizzati da colui che esercita attività di impresa sono reddito di impresa (come società di capitali ed enti
commerciali).
INVECE, gli enti non commerciali che sono un’altra categoria, o gli enti non residenti che sono un’altra
categoria ancora, soggetti passivi dell’IRES, possono realizzare reddito che rientra in tutte le categorie salvo
che per natura non possano realizzare alcuna tipologia di reddito.
Ad esempio un ente non commerciale non potrà mai realizzare reddito di lavoro dipendente, perché solo
una persona fisica può essere lavoratore dipendente.
(I soggetti passivi IRPEF erano solo le persone fisiche, NEL MEZZO invece rientrano le società di persone:
non sono né soggetto passivo IRPEF né soggetto passivo IRES, non sono né persone fisiche ne una di queste
4 categorie; sono invece FISCALMENTE TRASPARENTI, il reddito è imputato per trasparenza ai soci. Se sono
persone fisiche, i soci saranno soggetti ad IRPEF, se invece sono una di queste 4 categorie sono soggetti ad
IRES, se invece a loro volta i soci saranno società di persone, a loro volta realizzano reddito PER
TRASPARENZA imputato ai loro soci, finchè non si trova un soggetto passivo Irpef o Ires).
L’art. 73 distingue minuziosamente 4 tipologie diverse di soggetti passivi perché a queste sottocategorie si
collegano discipline differenti, soprattutto ai fini della determinazione della base imponibile.
Se prendiamo l’art. 75, fa un po' da SPARTIACQUE: ci dice quali sono le disposizioni normative applicabili a
ciascuna delle 4 sottocategorie di soggetti passivi IRES. .
L’imposta si applica sul reddito complessivo netto, determinato secondo le disposizioni della sezione 1 del
capo II, per le società ed enti di cui alle lettere a) e b) del comma 1, art 73,
= PER LE SOCIETA DI CAPITALI E GLI ENTI COMMERCIALI SI APPLICA LA SEZIONE 1 CAPO 2
del capo III, per gli enti non commerciali di cui alla lettera c)
= SI APPLICA LA SEZIONE 1 CAPO 3
dei capi IV e V, per le società ed enti non residenti di cui alla lettera d)
= SI APPLICA LA SEZIONE 1 CAPO IV E V.
Prima bisogna verificare che tipo di soggetto passivo siamo, poi andiamo nel gruppo di disposizioni
normative che riguarda la mia sottocategoria di soggetto passivo.
In realtà, considerando che le società di capitali ed enti commerciali sono trattati nello stesso modo (l’art.
75 rinvia ad una stessa sezione e capo per la determinazione del reddito per entrambi, lettera a e b),
potremmo andare a considerare SOCIETA’ DI CAPITALI ED ENTI COMMERCIALI COME UNO STESSO
GRUPPO DI SOGGETTI PASSIVI (1 gruppo);
poi prendiamo gli ENTI NON COMMERCIALI (2 gruppo);
poi prendiamo SOCIETA’ ED ENTI NON RESIDENTI (3 gruppo);
PER CAPIRE IN QUALCHE CATEGORIA UN SOGGETTO PASSIVO SI TROVA, BISOGNA PORRE 2 DOMANDE
1 DOMANDA E’ FISCALMENTE RESIDENTE?
2 DOMANDA ESERCITA ATTIVITA’ COMMERCIALE O MENO?
In questo modo possiamo incanalare in qualche sottocategoria ci troviamo e quindi quale sono di
conseguenza le regole di determinazione che si applicano per il reddito a quel soggetto.
= Esaminiamo allora queste 2 domande, ad esempio se prendiamo la prima bisogna conoscere la nozione di
residenza fiscale, e se prendiamo la seconda bisogna conoscere la nozione di attività commerciale.
QUESTE SONO LE 3 REGOLE PRINCIPALI, MA A CHI SPETTA L’ONERE DI PROVARE LA RESIDENZA FISCALE IN
ITALIA? L’ONERE GRAVA SULL’AMMINISTRAZIONE FINANZIARIA. E’ LEI CHE DEVE DIMOSTRARE CHE UNA
SOCIETA’ O UN ENTE SONO FISCALMENTE RESIDENTI IN ITALIA. Anche qui è semplice come per l’IRPEF
dimostrare che una società ha sede legale in Italia, è un requisito formale; se però manca il 1 requisito,
nell’attività istruttoria effettuata dall’Agenzia delle entrate, bisogna spiegare perché pur non essendoci
sede legale in Italia quella determinata società o ente è considerato fiscalmente residente con gli uno degli
altri 2 requisiti attività istruttoria/di pre-costituzione delle prove è podromica alla motivazione
dell’avviso di accertamento, è quindi fondamentale.
MA. La regola generale è quella secondo cui per una società con uno di questi 3 requisiti, l’onere di
provarlo spetta all’Amministrazione finanziaria. Vi sono però ipotesi previste dal legislatore dove questa
regola di distribuzione dell’onere della prova è INVERTITA. A ricorrere di determinate ipotesi, la prova
della residenza fiscale o della non residenza fiscale in Italia grava sul contribuente C’è quindi una
presunzione di residenza che opera nei confronti di alcuni contribuenti/alcune società od enti.
ES. Se abbiamo una società non residente che ha una partecipazione di controllo in Italia, si presume che
questa società non residente sia a sua volte residente fiscalmente in Italia se ricorre una delle 2 condizioni
A) O è a sua volta controllata dall’Italia: abbiamo quindi società italiana che controlla società all’estero che
controlla la società italiana
B) O è amministrata da amministratori per la maggioranza Italiana: abbiamo quindi società estera che
controlla società italiana e che è amministrata da amministratori italiani.
IN QUESTE 2 IPOTESI LA SOCIETA’ ESTERA SI PRESUME FISCALMENTE RESIDENTE IN ITALIA SALVO PROVA
CONTRARIA (CIOE CHE IL CONTRIBUENTE NON DIMOSTRI CHE PUR ESSENDOCI TALE SITUAZIONE DI FATTO)
CHE LA SOCIETA’ E’ AMMINISTRATA ALL’ESTERO.
Il periodo di imposta non necessariamente però qui coincide con l’anno solare, ma coincide con l’esercizio
sociale, che non deve mai essere più lungo di 2 anni ma deve avere una coerenza in relazione all’attività di
impresa esercitata: se ad es l’attività di impresa è di gestione di impianti sciistici, necessariamente non
posso avere un periodo di imposta che coincide con l’anno solare, altrimenti il 31 di dicembre nel pieno
della stagione sciistica io devo andare a chiudere il bilancio ma mi viene difficile.
Quindi gli impianti sciistici verosimilmente avranno un periodo di imposta che inizierà alla fine della
primavera/inizio estate e finirà nell’anno successivo nel medesimo periodo.
Però la suddivisione però potrebbe ledere il principio di effettività della capacità contributiva: pensiamo alla
società che manifesta al primo anno una perdita di 200, e al secondo anno un reddito di 200. Di fatto la
società ha un risultato effettivo dopo 2 anni pari a 0. E per garantire quindi il principio di effettività della
capacità contributiva, è necessario creare dei COLLEGAMENTI tra i singoli periodi di imposta che
avvengono ovviamente al fine di evitare di attenuare questo principio di autonomia del periodo di imposta.
Questo tema si ricollega a quello del Riporto delle perdite. La regola generale, come anche oggi per le
persone fisiche, è quella secondo cui UNA PERDITA PUO ESSERE RIPORTATA IN AVANTI.
Una perdita fiscale invece NON VA MAI ALL’INDIETRO.
Se al primo anno ho un reddito di 200, e al secondo una perdita di 200: sul primo anno avrò una
obbligazione tributaria autonoma e al secondo anno potrò avere invece una perdita che eventualmente
potrà essere scomputata (nel limite dell’80% che vediamo) da redditi di anni successivi la mia perdita
non può andare retroattivamente a compensare dei redditi passati ma solo in avanti.
CON CHE LIMITI? Non temporali sicuramente. La perdita può essere portata in avanti sine die.
Abbiamo però un limite generale per cui LA PERDITA, riportata in avanti e senza limiti di tempo, PUO’
ESSERE COMPENSATA NEL LIMITE DELL’80% DELL’UTILE DELL’ANNO IN QUESTIONE.
Quindi dell’utile futuro.
L’Art. 84 TUIR riguarda Il Riporto delle perdite ci dà subito la regola generale.
Per quanto riguarda l’esempio di prima quindi: Nell’esercizio futuro quindi abbiamo un reddito imponibile
di 200, l’80% di 200 è 160, quindi la mia perdita di 200 posso scomputarla solo da un massimo utile di 160.
Mi rimane poi una perdita di 40 che la riporterò nell’anno successivo per vedere ancora se posso
compensarla.
SE LA PERDITA E’ REALIZZATA DA SOGGETTI NEOCOSTITUITI, NON CI SONO LIMITI STABILITI.
Poi abbiamo delle REGOLE CHE SERVONO PER EVITARE LA CIRCOLAZIONE DELLE BARE FISCALI
Anni fa vi era il fenomeno per cui una società in perdita, ricca di perdite fiscali, che però non avrebbe mai
più generato un utile perché aveva esaurito le sue capacità di realizzare un utile, diventava
paradossalmente attrattiva sul mercato perché poteva essere acquistata sul mercato e risultava avere
valore economico in modo tale da compensare utili e redditi di altre società.
Per evitare ciò, IL RIPORTO DELLE PERDITE NON E’ AMMESSO SE RICORRONO 2 CONDIZIONI
1) Se muta la maggioranza delle partecipazioni con diritto di voto
2) Se modifica l’attività principale.
Quindi se assumiamo che io produco codici tributari e trovo una società che produce penne, ricca di perdite
fiscali. Io potrei essere tentato dall’acquistare questa società per scomputare quelle perdite fiscali della
società con la mia società che produce utili perché vendo parecchi codici.
A questo punto scatta il limite: se acquisto una società che produceva penne e ora cambia la propria attività
principale e produce anche lei codici tributari e cambiano le partecipazioni con diritto di voto (perché ho
acquistato la società e sarò io nuovo socio della società), allora ci sono le condizioni per NON AVER PIU
RIPORTO DELLE PERDITE.
Una seconda regola particolare che riguarda il riporto delle perdite è quella secondo cui LA PERDITA E’
DIMINUITA DEI PROVENTI ESENTI DALL’IMPOSTA PER LA PARTE DEL LORO AMMONTARE CHE ECCEDE I
COMPONENTI NEGATIVI NON DEDOTTI.
Le perdite quindi devono essere diminuiti dei proventi esenti che eccedono i costi non dedotti in relazione a
tali proventi esenti. Abbiamo detto in precedenza che i costi relativi ai proventi esenti non sono deducibili,
quindi la parte in eccedenza dei redditi esenti rispetto ai costi non dedotti le perdite fiscali nel limite di
quell’ammontare non sono riportabili.
NB ORA POSSIAMO GIA INIZIARE A FARE UN QUADRO GENERALE DI COLLEGAMENTO TRA SOGGETTI
PASSIVI IRPEF E IRES-IMPOSTA-CATEGORIA DI REDDITO. Bisogna creare una sorta di tabella in cui mettiamo
insieme tutte le dinamiche. Tutti i possibili soggetti che tipo di reddito producono e a quale imposta sono
sottoposti. NON CONFONDIAMO L’IMPOSTA CON IRES E IRPEF. TENIAMO DISTINTI 3 ELEMENTI!!
IL BILANCIO
Il bilancio si compone tradizionalmente di Stato patrimoniale e Conto economico.
-Lo Stato patrimoniale = è una fotografia effettuata del patrimonio di un soggetto in un determinato
momento. Solitamente questo momento è misurato al termine dell’esercizio, al termine del periodo di
imposta. Il nostro stato patrimoniale vrà quindi un attivo, un passivo, e un patrimonio netto.
Nell’attivo ci saranno tutti i crediti che la società/impresa ha (crediti soci, immobilizzazioni finanziarie..).
Abbiamo poi l’attivo circolante, cioè le rimanenze, pensiamo ad una impresa che compra e vende tazze, si
trova alla fine del periodo di imposta in magazzino altre tazze, e questo magazzino costituisce attivo
circolante.
Nel passivo troviamo anzitutto il patrimonio netto, in cui vediamo la misura di ciò che è stato conferito dai
soci (il capitale sociale) e anche le riserve (dal capitale sociale, l’attività è iniziata, ha prodotto reddito che
alimenta certe riserve). Poi abbiamo i debiti. La società magari si è indebitata nei confronti di una banca o
di un proprio fornitore. Poi abbiamo dei fondi per rischi. Siccome il bilancio è redatto secondo il principio di
“prudenza”, significa che se vi è un potenziale costo, il rischio di un costo che potrebbe manifestarsi in
futuro, il redattore “prudente” del bilancio indica questo costo. Manifesta un potenziale debito futuro il
fondo rischi.
-Il Conto economico = è una misura dinamica, un po' come quando pensiamo al reddito (mentre patrimonio
è misura statica). Avrà una parte dove si misura il valore della produzione (tutti i ricavi), poi avrò i costi della
produzione (costi per dipendenti o altro bene acquistato), avremo i proventi e gli oneri finanziari, ecc.
LA DIFFERENZA TRA I COMPONENTI POSITIVI DEL REDDITO CIVILISTICO E I COMPONENTI NEGATIVI DEL
REDDITO CIVILISTICO CHE EMERGE DAL CONTO ECONOMICO, DA LUOGO AD UN RISULTATO, CHE E’
QUELLO CIVILISTICO, A CUI SI APPLICHERANNO LE IMPOSTE.
Per determinare le imposte si parte quindi dal risultato civilistico che emerge sia nello stato patrimoniale
sia nello stato economico. Si dice che i componenti positivi e negativi “pareggiano”.
Se ad esempio nel conto economico i componenti positivi sono maggiori di quelli negativi, avrò un risultato
positivo. Se invece vale viceversa, avrò risultato negativo. E questo mi va a pareggiare i conti.
Partendo dal risultato civilistico, si apportano le variazioni IN AUMENTO (per aumentare un ricavo, per
escludere un costo) e IN DIMINUZIONE (per escludere un ricavo ad esempio).
Altro esempio di variazione in diminuzione è quello in cui indico nel bilancio un dividendo. Esso è indicato
come componente positivo di reddito nella sua interezza nel bilancio. Fiscalmente sappiamo che i dividendi
sono per le società di capitali ed enti commerciali ESCLUSI DALLA TASSAZIONE PER IL 95%, quindi il mio
risultato civilistico non terrà conto di questa esclusione. Per determinare il risultato fiscale devo tener
conto della regola per cui i dividendi sono esclusi da tassazione per 95%. Quindi dal risultato civilistico devo
apportare una VARIAZIONE IN DIMINUZIONE dal reddito del 95%. A quel punto applicherò l’IRES del 24%
sul mio risultato di 5.
Altra variazione in diminuzione si ha nell’ipotesi in cui vado fiscalmente ad includere un costo da dedurre
che non è stato inserito nel bilancio. Ciò accade quando in precedenza era stato dedotto civilisticamente un
costo: pensiamo all’accantonamento a fondo rischi. Se ho un costo che si manifesterà in futuro,
probabilmente, civilisticamente bisogna indicarlo subito nel bilancio per prudenza. Mi va a ridurre il
risultato. L’anno in cui si manifesta quel costo, civilisticamente io non lo devo inserire un’altra volta, l’ho già
inserito precedentemente. Fiscalmente devo però tener conto che questo costo si manifesta.
Il mio risultato civilistico sarà più elevato l’anno dopo perché non ne terrò più conto, dato che l’ho gia
inserito l’anno prima, Però fiscalmente avrò una variazione in diminuzione per tener conto della
deducibilità di quel costo.
1. PRINCIPIO DI COMPETENZA.
La sua ratio deriva dall’esigenza di dividere il periodo di vita dell’impresa (pluriennale, decennale,
potrebbe durare 50 anni) e frazionarlo in periodi di imposta. Questo frazionamento, che vale sia
per l’IRPEF che per L’IRES in quanto il reddito va misurato per periodi, fa sorgere una esigenza.
Cioè quella di IMPUTARE TEMPORALMENTE UN COMPONENTE DI REDDITO (positivo o negativo se
siamo nel reddito d’impresa) NEL PERIODO CORRETTO.
Il principio di competenza(così come il principio di cassa) ci dice in quale periodo il componente di
reddito positivo deve essere tassato e in quale periodo il componente di reddito negativo deve
essere dedotto.
Abbiamo visto che nella maggior parte delle categorie reddituali in materia di IRPEF, il principio che
si applica è quello di CASSA (=un componente di reddito si imputa nel periodo in cui vi è la
movimentazione finanziaria, in cui vi è la percezione/incasso per il componente positivo, o il
pagamento per il componente negativo). La competenza economica invece è un principio diverso:
NON CONTA LA MANIFESTAZIONE FINANZIARIA MA IL MOMENTO IN CUI SI PERFEZIONA LA
FATTISPECIE DA CUI IL COMPONENTE DI REDDITO TRAE ORIGINE. Quindi quando si parla di
competenza si parla di CONSEGUIMENTO di un componente positivo di reddito, non si parla di
incasso di componente positivo di reddito per esempio.
E’ un perfezionamento giuridico economico.
La competenza è regolata dall’art. 109 TUIR in cui vi è una regola generale di competenza e poi vi
sono delle regole specifiche che vanno a meglio declinarlo in casi specifici.
In generale il principio di competenza ci dice che
-I RICAVI SONO IMPUTATI NELL’ESERCIZIO IN CUI SONO CONSEGUITI in senso economico-
giuridico. -I COSTI INVECE (e questo è già una prima deroga) VANNO IMPUTATI SECONDO SI IL
PRINICPIO DI COMPETENZA MA TENENDO CONTO DEL PRINCIPIO DI CORRELAZIONE DEI COSTI
CON I RICAVI.
Vediamo ora le regole particolari, art. 109, co2: bisogna distinguere a seconda che il componente
positivo/negativo di reddito sia costituito da bene mobile, immobile, azienda, prestazione di servizi
o periodica. Cioè il legislatore, una volta stabilito il principio generale visto prima, poi DECLINA il
principio generale con regole più nel dettaglio che danno certezza all’imprenditore.
Queste regole di dettaglio sono diverse appunto per i diversi beni.
- Per beni mobili: es io cedo tasse, quando realizzo il ricavo derivante da cessione della tazza?
essendo bene mobile, ci dice l’art. 109, conta il “momento della consegna o della spedizione”.
Perché? Perché l’effetto traslativo della proprietà si ha nel caso di beni mobili con la consegna del
bene mobile. Ciò significa che se un imprenditore cede la tazza al 20 dicembre 2019, ma viene
pagato nel 2020, ha realizzato un reddito che si è manifestato nel periodo di imposta 2019!
Se fosse stato un lavoratore autonomo invece avrebbe realizzato reddito nel 2020 perché li conta la
percezione monetaria per il lavoratore autonomo (ovviamente non cedendo tazze).
- Per beni immobili: conta la stipulazione dell’atto o una data successiva in cui si verifica l’effetto
traslativo se così è concordato. Ecco in tali ipotesi la componente (positiva/negativa) si manifesta
col rogito, quando è stipulato l’atto di compravendita.
- Per la compravendita dell’azienda: anche qui conta la stipulazione dell’atto, come per immobili.
- Per la prestazione di servizi: conta la data di ultimazione di servizio. Quindi devo verificare in quale
periodo di imposta cade la data di ultimazione del servizio. ESEMPIO: Prestazione servizi ultimata
nel 2019, viene iniziata nel 2018, e pagata nel 2020. Qual è il periodo di competenza? 2019.
E questo vale sia per il componente positivo (chi presta il servizio) sia per il componente negativo
(di chi acquista la prestazione di servizio)
- Per la prestazione periodica: qui conta la data di maturazione dei corrispettivi. Quindi vado a
vedere ad esempio nel contratto di locazione di mese in mese maturano i corrispettivi quindi avrò
un reddito mese per mese.
NB Prima abbiamo detto che il principio di competenza si lega ad un altro principio(che in parte
deroga in parte completa quello di competenza): quello di CORRELAZIONE DEI COSTI CON I RICAVI.
Cosa ci dice? Ci dice che i costi devono essere dedotti negli esercizi (periodi di imposta) in cui sono
conseguiti i ricavi che concorrono a produrli. Questo principio trova consacrazione in alcune regole
specifiche. In particolare quando abbiamo parlato di componenti negativi di reddito da lavoro
autonomo abbiamo visto come vi sono anche i costi di produzione, e questi (costi di produzione o
di acquisto di beni strumentali) si deducono non interamente nel periodo di imposta, bensì PER
QUOTE DI AMMORTAMENTO. Perché? Questa regola opera anche per gli imprenditori, ma perché?
Si adotta la regola proprio per rispondere al principio generale di correlazione di costi e ricavi.
Siccome il bene strumentale concorre a formare i ricavi in più periodi di imposta, il legislatore
prevede che il relativo costo sia dedotto nei vari periodi di imposta in cui concorre a formare i
componenti positivi di reddito. L’ammortamento quindi permette di applicare tale principio.
Ma vi sono altre regole per l’ordinamento. Oltre all’ammortamento esistono anche i “beni merce”,
con la tecnica delle rimanenze vengono dedotti fiscalmente i costi d’acquisto nell’anno in cui il
bene merce concorre a formare il ricavo.
Le norme in tema di competenza possono determinare delle VARIAZIONI IN AUMENTO O IN
DIMINUZIONE per le micro-imprese, mentre per le altre imprese non ci saranno perché in tal caso
di applica la derivazione rafforzata.
Ultima cosa in tema di COMPETENZA, riguarda gli ERRORI CHE PUO’ COMMETTERE UN
CONTRIBUENTE egli potrebbe porre in essere un errore, cioè imputare per errore un
componente di reddito positivo es nel 2019 anzi che nel 2020. Chiaramente un errore di
competenza non comporta un danno per l’erario, perché di regola il reddito non imputato nel 2019
sarà tassato nel 2020, in un periodo di imposta diverso generalmente non comporta danno per
l’erario e ciò è riconosciuto dal legislatore stesso.
Ma se viene emesso un avviso di accertamento per correggere ed inserire nell’anno 2020 un
componente non imputato a periodo nel 2019, ovviamente il contribuente verserà il contributo e le
relative sanzioni, ma potrà chiedere rimborso per le maggiori imposte versate nel 2020 in ragione
del fatto che quel componente di reddito è stato imputato nel 2020.
L’ERRORE CHE COMMETTE COMPORTA SI UN MAGGIOR TRIBUTO E SANZIONI, MA PUO ESSERE
COMPENSATO IL TRIBUTO COL RIMBORSO PER QUANTO RIGUARDA IL SUCCESSIVO PERIODO DI
IMPOSTA. (CIRCOLARE 2012 AGENZIE DELLE ENTRATE CHE NE TRATTA)
2. PRINCIPIO DI INERENZA.
La competenza opera con riguardo a componenti positivi e negativi, mentre L’INERENZA RIGUARDA
SOLO IL COSTO, il componente negativo.
Cosa ci dice? Che UN COSTO E UNA SPESA SONO FISCALMENTE DEDUCIBILI (riducendo la base
imponibile) SE SONO INERENTI ALL’ATTIVITA’ DI IMPRESA. Ci vuole quindi un NESSO FUNZIONALE
TRA IL COSTO DI PRODUZIONE-L’ATTIVITA’ DI IMPRESA. Non tra costo-ricavo, non confondiamo
l’inerenza con il principio di correlazione costi-ricavi che è invece legato al principio di competenza.
Perché? Perché io posso avere un costo inerente ad attività di impresa CHE NON GENERA ALCUN
RICAVO. Questa valutazione di inerenza (dato estremamente importante in sede di accertamento)
è una valutazione che deve essere fatta EX ANTE. Bisogna valutare ex ante se quel costo era
inerente ad attività di impresa, non importa se ex post quel costo è stato vantaggioso, fa parte del
rischio imprenditoriale questo. BISOGNA VERIFICARE IL NESSO EX ANTE, QUANDO LA SPESA VIENE
COMPIUTA!!! Va valutato nella fase iniziale.
Tale principio non trova però consacrazione in una norma di legge, è “priva di disposizione”.
Però la giurisprudenza fa rientrare tale principio nell’art. 109, co5, (per cui le spese e gli altri
componenti negativi (..) sono deducibili se e nella misura in cui si riferiscono ad attività o beni da
cui provengono ricavi..) da questa norma di ricava una regola, cioè che IL GIUDIZIO DI INERENZA
NON SI APPLICA AGLI INTERESSI PASSIVIper questi vi è una disposizione a parte che limita la
deducibilità degli interessi passivi.
Quindi per concludere occorre analizzare questo nesso funzionale e non bisogna confondere
l’attività di impresa con la produzione dei ricavi.
NON SONO INERENTI/DEDUCIBILI I COSTI SOSTENUTI DALL’IMPRENDITORE PER RAGIONI
PERSONALI O NELL’INTERESSE DEI SOCI DELLA SOCIETA’ sono spese che non rientrano nel
concetto di inerenza.
Quando pensiamo all’inerenza pensiamo a 2 tipi di valutazione:
- Inerenza “quantitativa”: ci dice che non posso dedurre dei costi che sono completamente
antieconomici. L’anti-economicità significa avere costi sproporzionati rispetto all’oggetto
dell’attività. Pensiamo al barbiere che acquista un lavello in oro massiccio, è un costo
sproporzionato, ne basta uno in materiali meno costosi. Ecco che però c’è un limite: la
discrezionalità imprenditoriale. L’amministrazione finanziaria non può dire che non è inerente il
costo di acquisto di un biglietto in 1 classe rispetto alla 2, questo rientra nella discrezionalità
dell’imprenditore. Il confine dell’anti economicità è la sua discrezionalità.
Se la discrezionalità però sfocia nell’arbitrarietà, avremo sproporzione.
- Inerenza “qualitativa”: ad esempio sono barbiere e posso acquistare le forbici. Tendenzialmente
non posso acquistare invece beni del tutto estranei come macchinari che servono al falegname.
Quindi concludendo, è fondamentale che l’inerenza sia valutata ex ante e secondo un giudizio
qualitativo e quantitativo SENZA ENTRARE NELLE SCELTE DEL CONTRIBUENTE/IMPRENDITORE CHE
SONO INSINDACABILI.
NB. L’art. 109, co5, ci dice anche che I costi sono deducibili se si riferiscono a proventi tassati o
esclusi, mentre non sono deducibili se si riferiscono a proventi esenti.
Chiaramente se sostengo un costo strettamente correlato ad un componente positivo che è esente,
questo non è deducibile. Se invece ho un costo collegato ad un provento tassato o escluso, questo
è deducibile. Questa valutazione però ESULA dal principio di inerenza.
Il problema si pone per quei costi che sono indistintamente riferiti a proventi esenti o tassati ed
esclusi, quindi le spese generali. In questo caso occorre dedurre le spese in ragione di una
percentuale, determinata con RAPPORTO TRA TOTALE DEI PROVENTI TASSATI ED ESCLUSI
FRATTO IL TOTALE DEI PROVENTI (tassati, esclusi, esenti) (come per interessi passivi per
imprenditore individuale).
Tra le plusvalenze importanti vi è quella che Deriva dalla cessione di partecipazioni: abbiamo già
anticipato che è una plusvalenza parzialmente esente è esente per il 95%; cioè quando viene ceduta una
partecipazione, la plusvalenza es pari a 100 realizzata, civilisticamente è indicata per 100, genera però
materia imponibile solo per il 5%, perché il 95% è ESENTE.
Quel 5% parteciperà al reddito imponibile. Che variazione occorre porre in essere?
Siccome nel bilancio è stato indicato un componente positivo intero di 100, ma fiscalmente devo indicare
una parte inferiore di questo componente positivo, avrò una VARIAZIONE IN DIMINUZIONE per 95.
Questa variazione in diminuzione mi permette di assoggettare a tassazione soltanto 5 della plusvalenza.
Al fine che però le plusvalenze siano esenti, devono ricorrere 4 condizioni, previste all’art. 87 TUIR.
Viene detto che NON CONCORRONO ALLA FORMAZIONE DEL REDDITO IMPONIBILE IN QUANTO ESENTI
NELLA MISURA DEL 95% LE PLUSVALENZE REALIZZATE IN SOCIETA’ DI CAPITALI ED ENTI COMMERCIALI.
Tra le 4 condizioni, indicate alle lettere a,c,b,d; 2 condizioni riguardano il soggetto che detiene la
partecipazione, mentre 2 condizioni riguardano la società partecipata.
1 occorre che la partecipazione sia posseduta ininterrottamente dal 1 giorno del 12esimo mese
precedente (requisito del Holding period). La partecipazione deve essere detenuta per 12 mesi, quindi non
posso acquistarla e rivenderla 8 mesi dopo pensando di godere dell’esenzione del 95%. Per beneficiare di
questo principio bisogna detenerla ininterrottamente per almeno 12 mesi.
2 la partecipazione nel primo bilancio in cui è stata acquistata deve esser stata iscritta nelle
immobilizzazioni finanziarie. Quindi quando acquisto la partecipazione che rivendo dopo 12 mesi, devo
averla iscritta nel 1 bilancio nell’immobilizzazione finanziaria, perché? Perché il fatto che l’abbia iscritta li,
denota che il mio intento non era speculativo di breve termine ma era un intento di DETENZIONE della
partecipazione a lungo termine (altrimenti non la iscriverei nelle immobilizzazioni ma la iscriverei nell’attivo
circolante perché intendo venderla). Si vuole rendere esenti solo quelle partecipazioni laddove non ci sia un
intento speculativo di breve termine.
3 e 4 riguardano invece la società partecipata e devono durare entrambi per 36 mesi i requisiti.
il 3 riguarda la residenza fiscale. La società partecipata deve essere residente in un paese che non è un
paradiso fiscale.
il 4 riguarda il fatto che la società partecipata deve esercitare una impresa commerciale.
= questi requisiti devono sussistere per almeno per 3 anni/36 mesi.
Ora vi sono delle particolarità per quanto riguarda le società partecipate holding.
Cosa sono? Lo abbiamo già detto, non esercitano una attività commerciale effettiva. Per queste, il
legislatore ci dice che non dobbiamo andare a vedere le 2 caratteristiche che riguardano la società
partecipata in capo alla società holding stessa, ma dobbiamo andare a vederle in relazione alle società
partecipate dalla società holding. ES: Abbiamo società residente in Belgio, partecipata da una Italiana.
Quella in Belgio è una società holding, non devo vedere se le caratteristiche dei 36 mesi sono realizzata
dalla società belga, ma devo andare a vedere se le caratteristiche sono realizzate dalle società partecipate
dalla società belga. Così, nel caso in cui vi fosse una sola società partecipata alle Bahamas che è paradiso
fiscale, allora la plusvalenza che deriva dalla cessione della società residente in Belgio, NON E’ ESENTE
perché la società non ha i requisiti previsti dall’art. 89 lettere c e d.
Ulteriore caso particolare è quello delle Società immobiliari, il cui patrimonio è costituito prevalentemente
da immobili. La lettera d, art, 87, II periodo, ci dice a riguardo che senza possibilità di prova contraria
(abbiamo una presunzione assoluta), si presume che questo requisito (che la società partecipata eserciti
una attività commerciale) non sussista relativamente alle partecipazioni in società il cui valore del
patrimonio è prevalentemente costituito da beni immobili diversi da beni immobili alla cui produzione o
scambio è effettivamente diretta l’attività dell’impresa.
Queste società non danno luogo a plusvalenze esenti!
c. I DIVIDENTI parliamo qui di società di capitali e di enti commerciali che ricevono dividendo quindi una
distribuzione di utili da una società di capitali loro partecipata, da un’altra società di capitali o di un altro
ente commerciale partecipato. I dividendi sono esclusi da tassazione per il 95% del loro reddito.
Ce lo dice l’art. 89 TUIR con una condizione: che la società non sia residenze in un paradiso fiscale, che il
dividendo sia ricevuta da una società anche estera va bene ma non che sia in un paradiso fiscale.
Abbiamo parlato dei dividendi quando abbiamo visto le persone fisiche; facciamo però una scaletta in
quanto ora abbiamo un po’ chiuso il quadro coi dividendi.
IL REGIME DI TASSAZIONE DEI DIVIDENDI SI DISTINGUE IN RELAZIONE AL PERCETTORE
A) Se il percettore è una persona fisica, al di fuori della sua attività di impresa, realizzerà reddito di capitale,
e i dividendi sono tassati alla ritenuta alla fonte a titolo di imposta del 26%.
B) Se il dividendo è ricevuto da un imprenditore individuale o da una società di persone commerciale, il
dividendo è assoggettato a tassazione per un importo pari a 58, 14%.
Abbiamo quindi un reddito di impresa, realizzato dall’imprenditore individuale o da una società di
persone commerciale, e la parte del dividendo che rientra nella base imponibile e concorre a formare
reddito di impresa è del 58,14%
C) Se il dividendo è ricevuto da società di capitali ed enti commerciali, il reddito è reddito di impresa e
rientra in base imponibile per il 5% dell’ammontare perché il 95% è escluso.
D) Se il dividendo è ricevuto da società semplici ed enti non commerciali, i dividendi sono generalmente
reddito di capitale e rientrano per il 100%.
CHIUSO QUADRO DEI DIVIDENDI.
Stesso discorso per IL REGIME DELLE PLUSVALENZE DERIVANTI DALLA CESSIONE DI TITOLI PARTECIPATIVI
A) Quando il precettore è una persona fisica, o anche una società semplice in questo caso, abbiamo una
tassazione sostitutiva del 26%.
B) Se è imprenditore individuale, la base imponibile rientra per il 58, 14%
C) Per le società di capitali ed enti commerciali abbiamo visto rientra nella base imponibile per il 5%, quindi
il 5% non è una aliquota ma è la quota che rientra nella base imponibile, che poi diventa reddito di impresa
in tal caso perché realizzano solo reddito di impresa
D) Per le società di persone commerciali rientra nella base imponibile il 49, 72%.
E) Le plusvalenze realizzate da enti non commerciali sono tassate con il 26% ritenuta alla fonte a titolo di
imposta se sono reddito di capitale, mentre il 58,14% che rientra in base imponibile se l’ente non
commerciale realizza plusvalenza nell’ambito della sua ANIMA commerciale (anima commerciale purchè
non sia esclusiva o prevalente)
d. LE SOPRAVVENIENZE ATTIVE cioè dei maggiori ricavi conseguiti o dei maggior costi conseguiti.
Ad esempio in seguito ad una revisione contrattuale ottengo un ricavo maggiore rispetto a quello che avevo
pattuito (=ho una sopravvenienza attiva), oppure riscuoto dei crediti dopo aver dedotto delle perdite.
LA REGOLA GENERALE DELLE RIMANENZE E’ QUELLA SECONDO CUI LE RIMANENZE FINALI SONO
COMPONENTI POSITIVI, LE RIMANENZE INIZIALI COMPONENTI NEGATIVI, E QUINDI VADO A
VEDERE IL DIFFERENZIALE TRA LE DUE E LA RATIO E’ GARANTIRE IL PRINCIPIO DI CORRELAZIONE
COSTI-RICAVI.
e. GLI INTERESSI ATTIVI quelli di mora abbiamo già visto che si applica il principio di cassa; poi abbiamo i
proventi immobiliari cioè derivanti da cessione di immobili che hanno un regime diverso a seconda che io
abbia un immobile bene merce/bene strumentale/bene meramente patrimoniale.
I beni merce generano ricavi, quindi un’impresa che come oggetto sociale compra e vende immobili genera
ricavi. Se invece abbiamo un provento immobiliare che è un bene strumentale, questo bene genera reddito
d’impresa perché deduco quote di ammortamento.
Quando invece ho un bene meramente patrimoniale e genera un reddito derivante ad es dall’affitto
dell’ufficio che non mi serve, mi genera un reddito d’impresa che secondo il TUIR però si determina
secondo le regole del reddito fondiario.
A. IL PRESUPPOSTO
In relazione al presupposto, vi sono una serie di classificazioni. Anzitutto l’IVA è una IMPOSTA e non una
tassa. L’imposta quindi colpisce il fatto economico, quindi il presupposto è un fatto economico posto in
essere dal contribuente. Da un punto di vista economico, questo fatto economico posto in essere dal
contribuente, è il CONSUMO.
Distinguendo poi tra IMPOSTE DIRETTE ed IMPOSTE INDIRETTE l’IVA e’ una imposta INDIRETTA, mentre
l’IRPEF e l’IRES sono imposte dirette. Questo perché l’IVA colpisce un indice indiretto di capacità
contributiva: il consumo è un indice indiretto di capacità contributiva (mentre il possesso del reddito è un
indice diretto di capacità contributiva!).
Ricordiamo anche come l’imposta possa essere PERSONALE quando tiene conto degli elementi soggettivi
della persona, e REALE se invece il presupposto non ne tiene conto l’IVA è una imposta REALE.
(Salvo piccoli aspetti).
Sappiamo anche che abbiamo un tributo ISTANTANEO quando il presupposto è un singolo avvenimento,
mentre abbiamo un’imposta PERIODICA quando il presupposto è un fatto che si ripete nel tempo l’IVA è
una imposta PERIODICA, anche se potrebbe sembrare istantanea considerando che il consumo si manifesta
in un certo istante: però per come è strutturata in realtà è un’imposta che i soggetti passivi devono
determinare la base imponibile per periodi di imposta.
L’ORIGINE DELL’IVA L’imposta sul consumo è un imposta derivante dal diritto dell’UE. E’ disciplinata da
una direttiva, e quando vi sono controversie in materia di imposta sul valore aggiunto si legge la direttiva.
Essa è stata recepita in Italia col DPR n. 633/1972. Questo è tutt’ora il testo legislativo di riferimento con le
modifiche del caso per l’Iva. Parte del gettito, che deriva dall’imposta sul valore aggiunto, viene attribuito
all’UE per far fronte alle spese comuni dell’UE.
Prima di entrare nel vivo del meccanismo, dobbiamo fare una premessa di carattere economico.
Quali sono le principali imposte sul consumo? Sono 2 categorie e la seconda categoria divisa in 2 ulteriori
sottocategoria. L’imposta sul consumo si divide in (e abbiamo una sorta di tripartizione)
1) IMPOSTA SUL CONSUMO MONOFASE L’imposta sul consumo è monofase quando colpisce soltanto
l’ultimo passaggio, un’unica fase dei passaggi del bene, che è quella fase di passaggio del bene al
consumatore finale. Quindi monofase è un’unica fase, cioè l’ultima fase. E’ l’imposta applicata negli stati
appartenenti agli Stati uniti (E’ una imposta sul consumo statale e non federale, viene applicata sul
consumo finale, la cui aliquota varia a seconda dello stato in cui ci troviamo. Se sono a New York o in
California ci saranno aliquote diverse).
2) IMPOSTA SUL CONSUMO PLURIFASE L’imposta sul consumo è plurifase quando colpisce tutte la fasi di
passaggio del bene, non solo la fase in cui il bene passa al consumatore finale, ma anche in quelle
intermedie! (produttore, distributore, estrazione materia prima ecc). Ogni fase viene colpita.
L’imposta sul consumo plurifase è distinta in:
b. Imposta sul consumo plurifase A CASCATA/CUMULATIVA: colpisce ogni singola fase come se fosse la
vendita ad un consumatore finale, quindi è cumulativa perché l’imposta su ogni singolo passaggio si
cumula. Quindi maggiori sono i passaggi, allora più alto sarà il carico fiscale della mia
commercializzazione/vendita del bene.
b. Imposta sul consumo plurifase SUL VALORE AGGIUNTO: si colpisce si ogni singola fase, però solamente
per quanto riguarda il valore aggiunto che si produce ad ogni fase.
Quindi se nel primo passaggio ad esempio di produzione, assumiamo che abbiamo un soggetto produttore
che cede un bene per 100 al distributore, questo lo cede per 120 ad un altro distributore, nel secondo
passaggio avremo solo un’imposta sul 20, perché 20 è il valore aggiunto. Si colpisce ogni passaggio ma solo
il valore aggiunto, con un meccanismo però di detrazione e rivalsa per cui alla fine l’imposta graverà
interamente sul consumatore finale (ma lo vedremo successivamente).
ESEMPIO CONCRETO.
Abbiamo 3 soggetti: produttore A che produce tazze, che vende a distributore B, il quale poi vende le tazze
al consumatore finale C. (ovviamente potremmo avere tanti altri soggetti ma semplifichiamo).
Nella cessione delle tazze produttore-distributore abbiamo un prezzo di 100;
nella vendita distributore-consumatore finale abbiamo un prezzo di 150.
Assumiamo una imposta del 10%.
A. Applichiamo l’imposta sul consumo monofase: in tal caso abbiamo un primo passaggio che non è
soggetto ad imposta, mentre il passaggio successivo/finale è soggetto ad imposta: quindi 150 sarà soggetto
ad imposta, sarà la base imponibile su cui determinare la mia imposta (che qui assumiamo del 10%, ma in
realtà vedremo quali sono le aliquote). Quindi 10% di 150 = 15 sarà la mia imposta.
Quindi se acquisto una tazza negli USA sarà il negozio al distributore che incassa da noi l’imposta e la versa
all’erario (non dobbiamo tornare in Italia a dichiararlo). Quindi il distributore applica una RIVALSA al
consumatore finale, tanto che il prezzo indicato è 150 a cui va aggiunto un 15 quando arriviamo in cassa,
che poi il distributore verserà all’erario.
B. Applichiamo la plurifase a cascata: colpisce ogni passaggio. Quindi nel primo passaggio il prezzo era 100,
se assumiamo sempre l’imposta di 10% allora avremo 10 euro di imposta per la vendita da produttore-
distributore. A si rivale su B che non dovrà pagare 100, bensì 100+10 euro di imposta.
Abbiamo però la seconda fase, colpita anche qui da 10%, quindi B cede a C per un prezzo di 150, quindi
avremo 15 come imposta sul consumo al consumatore finale. Quindi l’erario non incamera solamente 15
come nel consumo monofase, bensì INCAMERA 10 + 15 = 25 IN TUTTO.
Da un punto di vista economico qui vi è una distorsione ovviamente perché MENO PASSAGGI HO,
MINORE E’ IL CARICO TRIBUTARIO ciò potrebbe comportare dei cambiamenti di comportamento
economico razionale da parte degli operatori commerciali e quindi una inefficienza
(I tributi però sappiamo essere efficienti quando sono NEUTRALI, quando NON INFLUENZANO il
comportamento. Lo scopo del diritto tributario è influenzare il meno possibile i comportamenti razionali,
salvo per quei tributi che vogliono invece incentivare un comportamento).
Quindi quest’imposta fa si che gli operatori si uniscano gli uni con gli altri per avere una società che faccia
tutti i passaggi in un unico modo, ma questo non va bene. Quindi l’UE ha optato di utilizzare anche
C. Una imposta plurifase sul valore aggiunto: abbiamo il produttore A che vende per 100 a B, a cui
applichiamo l’imposta sul consumo di 10% che assumiamo, abbiamo quindi A che si rivale nei confronti di B
per un importo pari a 10. A quindi verserà all’erario 10.
B allora applicherà l’imposta sul consumatore finale C, abbiamo isto il 10% di 150 che è 15, ma tale imposta
di 15 non sarà interamente versata, perché
- sì, applica il meccanismo di rivalsa e ottiene 15 dal consumatore finale C
- ma non verserà 15 all’erario! HA DIRITTO A UNA DETRAZIONE SULL’IVA VERSATA SUGLI ACQUISTI.
E questa detrazione andrà a compensare parte del tributo che deve versare.
Anziché versare 15 verserà 15 che è la cd. L’IVA “A DEBITO”, che ha ottenuto in via di rivalsa dal
consumatore finale, -10 che è l’IVA “A CREDITO” che è stata versata/che attribuisce ad A un diritto di
detrazione per aver versato al proprio fornitore l’IVA di 10.
NEL COMPLESSO VERSERA’ 5 ALL’ERARIO. 10 LI VERSA AD A, 5 LI VERSA A B, NEL COMPLESSO L’ERARIO
INCAMERA 15 Esattamente come nella monofase.
Perché si dice “sul valore aggiunto”? Perchè 5 corrisponde al 10% di 50, e di 50 è proprio il valore aggiunto
dato dalla differenza tra prezzo di vendita 150 – prezzo di acquisto 100, quindi è come se io avessi applicato
l’imposta del 10% sul valore aggiunto soltanto sul 50, soltanto sul valore aggiunto.
Il risultato è colpire solo il valore aggiunto.
B. I SOGGETTI PASSIVI
Il soggetto passivo non è il consumatore finale (che invece è colui che è gravato dall’imposta in ragione del
meccanismo detrazione-rivalsa), bensì sono:
a. GLI IMPRENDITORI COMMERCIALI
b. LE IMPRESE AGRICOLE
c. I LAVORATORI AUTONOMI
Mentre il consumatore finale NON è soggetto passivo IVA. Se acquisto un bene usato da un consumatore
non si applicherà l’IVA perché quel consumatore è già stato gravato dall’IVA quando ha acquistato il bene
nuovo. Se acquistiamo un bene da un imprenditore o un servizio da una impresa agricola o un servizio da
un lavoratore autonomo, si applica l’IVA, mentre non si applica se acquistiamo da un consumatore finale
(che può vendere solo beni “usati” che hanno già scontato l’imposta sul consumo)
(Quindi nell’esempio visto, abbiamo A e B come soggetti passivi, mentre C consumatore finale no).
Quali sono le operazioni colpite/il fatto generatore dall’IVA? Sono sostanzialmente 2:
1) LE CESSIONI DEI BENI + costituzioni di diritti reali
2) LE PRESTAZIONI DI SERVIZI
Queste 2 operazioni sono contenute all’art. 2 e 3 del DPR/633.
1.L’art. 2, co1, ci da la definizione di cessione di beni: “Costituiscono cessioni di beni gli atti a titolo oneroso
che importano trasferimento della proprietà ovvero costituzione o trasferimento di diritti reali di godimento
su beni di ogni genere”. Quindi cessione di beni sono questi.
Poi abbiamo nel co.2 delle ipotesi assimilate: sono ad esempio le vendite con riserva di proprietà (rent to
buy), le locazioni con clausola di trasferimento della proprietà vincolante per ambedue le parti, la cessione
di beni merce di tipo gratuito, l’autoconsumo. Quindi abbiamo una serie di ipotesi
Nel co.3 abbiamo delle ipotesi escluse: ipotesi non considerate cessione di beni, e vi è un elenco.
Ad esempio le cessioni di azienda, le operazioni straordinarie (fusione, scissione), cessione di terrei non
edificabili, sono ipotesi escluse da operazioni colpite da IVA.
Se l’operazione è esclusa, sono operazioni che non rientrano nel campo di applicazione dell’IVA, quindi
non occorrerà emettere fattura, non occorreranno vari adempimenti, nelle operazioni escluse NON
ABBIAMO ADEMPIMENTI. Però NON INCIDONO SULLA DETRAZIONE A MONTE.
C. LA MISURA DELL’IVA
LA BASE IMPONIBILE DELL’IVA E’ IL CORRISPETTIVO PATTUITO; se non vi è un corrispettivo o se questo è in
natura, conta invece il valore normale. Se vi è autoconsumo, l’IVA si misura sul valore normale del bene che
sto dando ai soci per l’autoconsumo.
Una volta determinata la base imponibile, APPLICO LE ALIQUOTE.
Vi sono più aliquote IVA, alcune sono ordinarie per cui si applica del 22%, e poi in relazione al tipo di bene vi
sono altre aliquote ridotte.
Come si fanno a sapere quali sono le aliquote? Allegato al DPR/633, vi sono delle TABELLE.
Nella tabella A sono indicate tutte le aliquote IVA applicabili alle tipologie di beni.
Ci saranno aliquote ridotte per beni e servizi di prima necessità, poi dei beni non di prima necessità ma che
si vogliono agevolare che avranno aliquota ridotta ma non così tanto come il latte che si acquista al
supermercato ecc.
NB Anche quando si registra un atto con contenuto economico e si applica l’imposta di registro (in misura
proporzionale), viene reso il servizio di registrazione dell’atto da parte della amministrazione pubblica
quindi in realtà si integrano entrambi i presupposti, solo che prevale, in ragione della misura del tributo che
appunto è proporzionale in relazione al valore dell’atto, prevale il 2 presupposto rispetto al 1 (cioè prevale
la formazione dell’atto a contenuto economico come presupposto, come indice anche di capacità
contributiva rispetto al servizio di registrazione dell’atto.)
Quando invece il tributo di registro è dovuto in misura fissa e si parla di tassa di registro, allora
evidentemente prevale il presupposto del servizio reso di registrazione .
Ricordiamoci in generale che
-la tassa ha come presupposto un servizio pubblico reso dalla PA nei confronti del contribuente o un atto
emesso dalla PA, mentre
-l’imposta ha come presupposto un fatto economico posto in essere dal contribuente.
la formazione di un atto a contenuto economico è un fatto economico posto in essere dal contribuente,
mentre la registrazione di un atto effettuato dalla pubblica amministrazione è un servizio pubblico reso
dalla PA nei confronti del contribuente, quindi il tributo assume una duplice natura in relazione al
presupposto. E PREVALE il presupposto che fa emergere una tassa (legato al servizio della registrazione)
quando il tributo di registro è dovuto in misura fissa, lo diciamo ancora; mentre quando il tributo è dovuto
in misura proporzionale in relazione al valore economico di un atto, PREVALE il presupposto della
formazione di un atto a contenuto economico e diventa imposta.
Se ricordiamo il presupposto dell’IVA (prestazione di servizi o cessione di ben, art 2-3 DPR 1972), vi può
essere una sovrapposizione tra presupposti:
ad esempio l’atto di compravendita immobiliare è un atto che deve essere registrato in termine fisso. E’ un
atto che è presupposto dell’imposta di registro, in misura proporzionale. Tuttavia la compravendita
immobiliare è anche presupposto dell’IVA quando colui che cede l’immobile è un soggetto passivo
(costruttore di immobili ad esempio che costruisce palazzo e vende gli appartamenti nel palazzo, è soggetto
passivo IVA). Quindi LO STESSO FATTO (compravendita immobiliare da imprenditore-consumatore finale, e
la formazione dell’atto che deve essere registrato a contenuto economico) GENERA 2 TRIBUTI DIVERSI.
Il legislatore ovviamente si accorge di questa sovrapposizione e la risolve nel senso che laddove il
presupposto genererebbe entrambi i tributi (IVA E IMPOSTA di registro), si applica l’IVA, cioè l’imposta sul
valore aggiunto > prevale sull’ imposta di registro.
TUTTAVIA all’IVA si aggiunge la TASSA FISSA DI REGISTRO = questo perché resta il presupposto della
registrazione dell’atto da parte della PA.
Quindi nell’ipotesi in cui lo stesso fatto generi Imposta di registro e Iva, prevale questa, ma si applica la
tassa di registro. Infatti l’atto di compravendita immobiliare, se acquistiamo da un privato, versiamo
l’imposta di registro; se invece l’atto/l’immobile è acquistato da un imprenditore, si applicherà l’IVA ma il
notaio chiede anche la tassa fissa di registro perché c’è comunque la registrazione.
+ L’IVA è un tributo armonizzato.
Altra norma fondamentale nel Testo unico del registro è l’art. 22: al primo comma, ci dice che SE IN UN
ATTO SONO ENUNCIATE DELLE DISPOSIZIONI CONTENUTE IN UN ALTRO ATTO (posto in essere dalle
stesse parti intervenute) SI APPLICA L’IMPOSTA ANCHE ALLE DISPOSIZIONI ENUNCIATE questa è la
TASSAZIONE PER ENUNCIAZIONE: un atto che viene enunciato in un altro atto.
Pensiamo alla sentenza dichiarativa di fallimento di una società di fatto, che non ha mai visto l’atto
costitutivo registrato. In questo caso l’enunciazione nella sentenza dichiarativa di fallimento della società di
fatto, comporta che si tassi sia la sentenza di fallimento sia l’atto enunciato (atto costitutivo della società di
fatto).
Abbiamo visto il presupposto, abbiamo visto la differenza con l’obbligazione tributaria da cui va tenuta
distinta seppur letti congiuntamente, abbiamo accennato alla misura (nella tassa di registro il tributo è
dovuto in misura fissa e nella imposta di registro il tributo è dovuto in misura proporzionale, cioè si applica
una determinata aliquota ad una base imponibile. Come si determina l’aliquota? Ce lo dice la tariffa
allegata al testo unico di registro. La base imponibile è determinata dal valore economico dell’atto che si sta
registrando. Adesso vediamo i
Da un punto di vista dell’imposta di registro, un conto è cedere una azienda, un conto è cedere una
partecipazione. L’operazione che veniva posta in essere, se venisse vagliata oggi, probabilmente non si
applicherebbe più l’art. 20 ma si potrebbe applicare la norma antielusiva generale di cui parleremo..
L’ART. 20 NON SI POTREBBE PIU APPLICARE.
Nelle dichiarazioni bisogna indicare tutti quei dati che servono per determinare l’imposta, quindi per i
contribuenti che devono presentare le dichiarazioni si indicano tutti i dati che servono per determinare
l’IRPEF, o l’IRES, o l’IVA, inclusi oneri deducibili, detrazione di imposta, acconti, insomma si sintetizzano tutti
gli elementi.
Vi sono nelle dichiarazioni anche delle OPZIONI: il contribuente esprime delle opzioni, come i neo-residenti
per applicare un regime della tassazione forfettaria di 100.000 euro, opzione esercitabile in dichiarazione
dei redditi come regola generale. Si indica in una determinata casella che si intende optare per un certo
regime fiscale.
Si sceglie poi ad esempio se riportare a nuovo un credito, se chiederlo a rimborso, si sceglie per un
determinato regime contabile.. SERIE DI OPZIONI DA PARTE DEL CONTRIBUENTE ESPRIMIBILI NELLA
DICHIARAZIONE DI REDDITO.
Ci sono poi opzioni che riguardano i SINGOLI COMPONENTI di reddito: quando parlammo delle plusvalenze
derivanti dalla cessione di beni strumentali del reddito d’impresa, se questi sono detenuti da più di 3 anni è
possibile rateizzare in 5 quote la plusvalenza realizzata.
Questa rateizzazione è opzionale e va espressa nella Dichiarazione dei redditi.
Vi sono poi delle QUOTE DI IMPOSTA (5X1000, 8X1000..): in questi casi si esprime nella dichiarazione
l’opzione perché una percentuale delle imposte che comunque si verserebbero, sono devolute a
determinati enti o per determinate finalità.
L’8x1000 può essere devoluto allo stato o a una istituzione religiosa;
Il 5x1000 può essere devoluto per spese e finalità di interesse generale (si può dare il 5x1000 all’università
bicocca);
Il 2x1000 è invece riservato ad un determinato partito politico, e non è necessario indicare nella casella la
quota di imposta da devolvere al partito. Se si vuole farlo, si compila la dichiarazione in quella parte.
Vi sono anche ipotesi in cui LA DICHIARAZIONE NON SI PRESENTA ANNUALMENTE: pensiamo al caso delle
operazioni straordinarie, che comportano una rottura del periodo di imposta (es. trasformo una società di
persone in società di capitali, dovrò dividere il periodo di imposta in 2)
Abbiamo parlato di IRES, IRPEF, IVA, e per quanto riguarda il Tributo di registro NON VI E’ UNA VERA E
PROPRIA DICHIARAZIONE la dichiarazione in realtà è implicita nell’atto che viene registrato. Quando si
porta a registrare un atto, è implicito nell’atto anche la dichiarazione.
Il tributo di registro è ISTANTANEO, non periodico, sarà il singolo atto a contenere implicitamente la
dichiarazione. E’ come se vi fosse una dichiarazione ma implicita nell’atto che si registra.
LE DICHIARAZIONI PRECOMPILATE: dal 2015 alcuni contribuenti hanno il privilegio di avere una
dichiarazione già precompilata nel proprio cassetto fiscale, per semplificare e ridurre i cd. “Costi di
compliance”, i costi ossia che il contribuente sostiene per adempiere all’obbligazione tributaria, considerato
che l’amministrazione finanziaria è in possesso di gran parte delle informazioni per precompilare la
dichiarazione di redditi di molti contribuenti. Questi dovranno verificare che siano indicati tutti i dati,
firmare la dichiarazione e produrla.
Oltre a questi casi particolari c’è stata una controversia giurisprudenziale molto lunga su: SE il
contraddittorio fosse obbligatorio per tutte anche le altre ipotesi in cui non c’è un processo verbale di
constatazione, quindi non c’è quel termine di 60 giorni.
Ci si è chiesti se ci fosse un OBBLIGO DI CONTRADDITTORIO generalizzato preventivo, cioè se l’AF prima di
emettere un avviso di accertamento debba SEMPRE sentire in contraddittorio il contribuente.
RISPOSTA: inizialmente la Cassazione a SU ha stabilito che il contraddittorio è obbligatorio, pena la
nullità dell’atto emesso in violazione del contraddittorio. E’ sempre necessario, richiamando insegnamenti
del diritto dell’UE. Però poi la stessa Cassazione a SU ha “corretto” il tiro dicendo che SI, E’ OBBLIGATORIO,
MA SOLO PER I TRIBUTI ARMONIZZATI cioè derivanti dall’Unione europea, come l’IVA.
Non è invece obbligatorio per i tributi erariali come IRPEF, IRES, in via generalizzata intendiamo.
Questa doppia anima comporta un problema perché lo stesso avviso di accertamento spesso contiene un
maggiore accertamento sia dell’IVA sia dell’IRPEF, quindi bisogna sostenere che il contraddittorio è
obbligatorio solo per quella parte di avviso di accertamento riguardante l’IVA e non per quella parte
riguardante l’IRPEF (tesi difficile da sostenere).
SECONDO LA CASSAZIONE IN CONCLUSIONE IL CONTRADDITTORIO E’ SEMPRE OBBLIGATORIO NEI CASI
RPEVISTI (art. 12, co7, accertamento antielusivo, accertamento sintetico), OPPURE IN VIA GENERALIZZATA
NEL CASO DI TRIBUTI ARMONIZZATI.
PER GLI ALTRI TRIBUTI ERARIALI, NEL CASO IN CUI NON E’ SPECIFICATO, E’ UN PRINCIPIO CHE NON TROVA
APPLICAZIONE.
Con il decreto legge n. 34 del 2019, il cd. “decreto crescita”, è stato però previsto un OBBLIGO
GENERALIZZATO DEL CONTRADDITTORIO l’AF anche nei casi in cui non vi è processo verbale di
constatazione, prima di emettere un avviso di accertamento, deve invitare il contribuente ad un
contraddittorio. Se manca l’invito, L’ATTO E’ NULLO, solo se il contribuente nel ricorso
- deduce che non vi è stato l’invito
- deduce quali sarebbero state le ragioni che il contribuente avrebbe potuto addurre per modificare il
contenuto dell’atto in positivo che poi è stato impugnato.
A QUESTO OBBLIGO DI CONTRADDITTORIO, e per questo è molto criticato perché sembra si tratti di un
obbligo generalizzato nonostante abbia molto limiti, NON SI APPLICA L’ACCERTAMENTO PARZIALE.
Questa norma dovrebbe applicarsi da luglio 2020.
2) L’AF DEVE CORREGGERE GLI ERRORI MACROSCOPICI IN CUI SIA INCORSO IL CONTRIBUENTE.
Se nella determinazione dell’imposta per errore aggiunge uno 0 e fa diventare una imposta 10.000, è un
errore macroscopico riconoscibile, e l’AF deve necessariamente correggerlo.
3) L’AF DEVE GARANTIRE L’EFFETTIVA CONOSCENZA DEGLI ATTI NOTIFICATI DEL CONTRIBUENTE.
Questo vale soprattutto per i contribuenti residenti all’estero. Lo Statuto dice di tentare una notifica anche
all’estero.
4) L’AF NON DEVE RICHIEDERE DOCUMENTI CHE SONO GIA IN SUO POSSESSO.
Quindi non può chiedere al contribuente un documento che già è in suo possesso perché i documenti che
già possiede l’amministrazione pubblica non devono essere chiesti.
5) L’AF NON DEVE TURBARE L’ATTIVITA’ DEL CONTRIBUENTE IN SEDE DI VERIFICA.
Vi sono dei limiti in termini di durata delle verifiche che non devono superare un certo numero di giorni.
Vi sono anche dei limiti proprio in base al tipo di verifica. Se ad esempio si effettua una verifica fiscale verso
un bar, difficilmente si presenteranno 10 finanzieri armati, ma saranno piuttosto in borghese per non
turbare l’attività di impresa. Non si vuol paralizzare l’attività del contribuente.
2) FASE DEL CONTROLLO FORMALE non riguarda, come nel caso di controllo automatico tutte le
dichiarazioni presentate dai contribuenti, ma RIGUARDA SOLO UNA SELEZIONE DI DICHIARAZIONE ALLA
LUCE DEI CRITERI SELETTIVI FISSATI DAL MINISTERO, in particolare l’Agenzia alla luce di questi criteri
selezionerà quali sono le dichiarazioni da controllare e andrà ad effettuare il controllo formale.
Il controllo formale in cosa consiste: è disciplinato dall’art. 36-ter del DPR 600/1973.
Il controllo formale consiste nella verifica di alcune singole voci della dichiarazione sulla base di dati
esterni alla dichiarazione stessa. Esempio: abbiamo visto per il controllo automatico ad esempio per le
spese di istruzione/mediche che il sistema in via automatica rileva un errore quando il contribuente pone in
detrazione un importo maggiore rispetto alla detrazione massima ammessa.
Assumiamo che il contribuente invece indichi la detrazione corretta nella percentuale massima indicata
dalla legge, però l’AF intende controllare che effettivamente il contribuente abbia posto in essere delle
spese mediche, e allora chiede in un controllo formale di fornire la documentazione sottostante di prova
delle spese mediche sostenute. Oggi tra l’altro dovrebbero in via automatica dovrebbero essere
riconosciute. Si controllano poi le ritenute d’acconto alla luce di quanto ha dichiarato il sostituto.
Pensiamo alla ritenuta d’acconto nel reddito da lavoro dipendente: abbiamo visto come il reddito da lavoro
dipendente è soggetto ad una ritenuta alla fonte a TITOLO D’ACCONTO (ritorna indietro, prof aveva
sbagliato, è giusto titolo d’acconto, non titolo d’imposta). E il sostituto, cioè il datore, effettua una
dichiarazione. Assumiamo che il sostituto dichiari di aver effettuato ritenute per 100. Il sostituito, il
lavoratore dipendente, quando predispone la propria dichiarazione, indicherà l’importo di 100. Se però
dichiara un importo di 120 c’è DISCREPANZA tra quanto dichiara il sostituto e quanto indica come acconto il
sostituito. Allora in tal caso c’è una verifica attraverso un controllo formale.
Può essere un controllo che riguarda gli oneri deducibili che non sono spettanti in relazione ai documenti
richiesti al contribuente. Può essere anche che venga disconosciuto un credito di imposta.
E’ UNA FASE PIU AVANZATA PERCHE’ CI SI AIUTA SI CON UNA MACCHINA PERO’ E’ NECESSARIO
L’INTERVENTO DI UNA PERSONA, NON C’è LA POSSIBLITA DI CONTROLLARE IN VIA FORMALE TUTTE LE
DICHIARAZIONI.
Come si conclude questo controllo? Anche qui con un cd. Avviso bonario; in caso il contribuente non sia
d’accordo, con una iscrizione al ruolo e la notifica al contribuente tramite cartella di pagamento.
Può porsi un PROBLEMA: di cosa succede quando l’AF proceda direttamente l’iscrizione al ruolo tramite
cartella SENZA INVIARE l’avviso bonario. Ci sono delle sentenze in tema di controllo formale che
stabiliscono che la cartella di pagamento non preceduta da questa fase di confronto bonario tra
contribuente e AF sarebbe NULLA è nulla la cartella e l’iscrizione al ruolo. (Non tutte sentenze però)
3) FASE DEL CONTROLLO SOSTANZIALE Il controllo sostanziale, come quello formale, è un controllo
che viene effettuato non su tutti i contribuenti ma su una selezione alla luce di criteri selettivi fissati a
livello ministeriale. E’ la terza fase; è svolta dall’Agenzia delle entrate o dalla Guardia di finanza. E’ una fase
fondamentale perché è la fase di controllo più invasiva e abbiamo una vera e propria attività di verifica nei
confronti del contribuente (accessi, ispezioni, verifiche poste dall’AF per verificare la correttezza di quanto
indicato dai contribuenti). Si usa in primo luogo per il controllo l’Anagrafe fiscale: è una banca dati a
disposizione dell’AF che contiene tantissime informazioni sui contribuenti. E’ indicato residenza, domicilio,
ma più in generale tutte le informazioni possedute (proprietà, beni mobili o immobili registrati che l
contribuente detiene, sono elencate varie spese ecc) utilizzando queste informazioni è possibile dunque
procedere all’accertamento del contribuente. Come attività di verifica, la meno invasiva all’interno di tale
controllo sostanziale, è la verifica dell’anagrafe fiscale (principale banca dati).
Successivamente poi con strumenti maggiormente invasivi, c’è la possibilità per l’AF di inviare al
contribuente dei questionari: il questionario sarà ricevuto presso il proprio domicilio fiscale dal
contribuente e contiene una serie di domande. Ad esempio se assumiamo che un contribuente ha posto in
essere delle spese eccessive e non ha un reddito per acquistare quelle cose (es immobile) ed è stato
assunto un credito per farlo, allora l’AF può andare al contribuente una domanda/questionario in cui chiede
di giustificare come il contribuente ha potuto acquistare l’immobile. A tal punto egli deve rispondere al
questionario (altrimenti sanzionato); se risponde può ad esempio dire che l’immobile l’ha acquistato
tramite una donazione indiretta da parte di sua madre per esempio. E allora è del tutto legittimo.
Oppure non risponde, o risponde in modo insoddisfacente terminata questa fase l’AF allora potrebbe
convincersi ad emettere un Avviso di accertamento, che è l’atto in positivo che contiene la pretesa fisale,
oppure può continuare con una attività di verifica.
NB. Cosa succede se l’AF in sede di verifica chiede al contribuente un documento specifico o chiede una
informazione specifica? La conseguenza, se il contribuente non la fornisce, è che
quell’informazione/documento non può più essere prodotta in seguito!!! Ne nella fase procedimentale ne
in quella successiva processuale. Questo ovviamente PURCHE’ la richiesta sia SPECIFICA (non deve essere
un questionario generico, es di mostrare il singolo movimento bancario è specifico da cui è stato acquistato
un immobile).
Inoltre altra situazione è quella per cui l’AF chiede un documento specifico ma che è già in possesso della
pubblica amministrazione: la preclusione non opera perché a monte l’AF non può chiedere quel documento
perché è già in possesso di questo.
ANCHE I SOGGETTI TERZI POSSONO ESSERE CHIAMATI A COLLABORARE: coloro che svolgono funzioni
pubbliche come il notaio ad esempio può essere chiamato, o anche terzi in relazione ai rapporti che questi
hanno avuto col contribuente. Questi soggetti possono essere interpellati dall’AF per collaborare
all’indagine che stanno ponendo in essere nei confronti del contribuente.
Proseguendo nelle tipologie di controllo sostanziale poi, ulteriore tipologia di controllo molto importante è
il controllo o la verifica bancaria (premettendo che il segreto bancario non esiste per l’AF).
Come avviene il controllo bancario: assumiamo che l’AF intenda procedere ad un controllo bancario di un
singolo contribuente. Invia una richiesta a tutti gli istituti di credito per chiedere quale istituto bancario ha
rapporti con questo contribuente e di dargli tutte le informazioni. allora risponderanno gli istituti finanziari
obbligatoriamente, produrranno conti correnti, le movimentazioni finanziarie, tutto ciò che serve per
mostrare la posizione finanziaria del contribuente. A questo punto il contribuente ancora non sa nulla
perché viene informato in questa fase dall’intermediario finanziario che ha l’obbligo di informare il
contribuente: è la banca che informa lui. Una volta che l’amministrazione finanziaria ha raccolto i dati
bancari del singolo, sono previste/può applicare 2 presunzioni legali ex art. 32 DPR 600/1073
1) Presunzione che opera con riferimento a tutti i contribuenti: sono ambedue presunzioni legali RELATIVE,
cioè suscettibili di prova contraria da parte del contribuente. La presunzione suddetta è quella secondo cui
“le entrate finanziarie si considerano reddito salvo prova contraria” se vi è una entrata, è depositato un
certo ammontare di denaro in un conto corrente, o un soggetto terzo opera un bonifico nei confronti del
contribuente, quegli importi si considerano reddito salvo prova contraria. Come può superare la
presunzione il contribuente? Può dimostrare che quegli importi si sono reddito, ma che sono stati dichiarati
già nella dichiarazione. Oppure può dimostrare che quel versamento o quella somma ricevuta non è
ricevuta a titolo di reddito ma per altre ragioni, può essere un prestito, che quindi dovrà essere restituito,
oppure può essere una donazione da parte di una nonna e il contribuente versa tale somma sul conto
corrente, ecco è chiaro che essendoci una presunzione questa è correlata con la materia della prova,
perché in base alla presunzione legale è sufficiente dimostrare che c’è il versamento e l’onere a quel punto
sta sul contribuente DIMOSTRARLO ogni volta che si movimenta in entrata il conto corrente bisogna
tenere conto che il contribuente può essere chiamato a dare una giustificazione delle somme entrate.
2) Presunzione che opera con riferimento solo agli imprenditori(coloro che realizzano reddito d’impresa):
la presunzione è che “le uscite finanziarie sono reddito salvo che il contribuente non dimostri chi è il
destinatario delle somme di denaro che sono state prelevate”. Questa presunzione è molto particolare, è
molto intuitivo il ragionamento del legislatore per le entrate: se c’è un arricchimento c’è un reddito
potenziale. Mentre più complesso è questo caso delle uscite, perché da una uscita conseguirebbe un
reddito. Esempio: imprenditore che va in banca, preleva 10.000 euro, e l’AF presume da questo prelievo
che quell’imprenditore abbia un reddito di 10.000 euro. Perché? Perché il legislatore di fatto applica
implicitamente una doppia presunzione: presume che
1) che da quel prelievo di 10.000 euro sia effettuato un acquisto in nero
2) che dall’acquisto in nero presume poi che sia ottenuto un ricavo in nero.
Esempio: assumiamo il meccanismo che intende cambiare i cilindri di un auto in nero. Verosimilmente ha
bisogno di acquistare dei cilindri in nero per rivenderli in nero. Cosa può fare il meccanismo che vuole
effettuare questa prestazione: deve appunto acquistarli in nero, se invece li acquistasse in maniera
legittima rimarrebbero nelle scritture contabili come abbiamo visto tempo fa. Allora va in banca, preleva il
denaro sufficiente per effettuare l’acquisto, poniamo 1.000 euro, e poi li acquista per 1.000, e poi rivenderà
il servizio in nero per 2.000. Ecco, questo è il fenomeno che il legislatore ha in mente con la presunzione: un
soggetto imprenditore che preleva del denaro e che ha una uscita finanziaria e che effettua un acquisto in
nero per ottenere ricavo in nero. Ecco perché da un prelevamento il legislatore presume un reddito.
Come si supera questa presunzione? Si può superare andando ad indicare e dimostrare i beneficiari delle
somme di denaro prelevate. Se io dimostro di aver prelevato 10.000 e lo stesso giorno mostro di aver
acquistato beni e vestiti per 10.000 euro, dimostrerò il flusso di denaro, come l’ho utilizzato.
Quindi questa presunzione opera solo per gli imprenditori mentre in passato operava anche per i lavoratori
autonomi (poi dichiarato CC incostituzionale).
Il legislatore però si accorge del problema: l’imprenditore non può più andare a prelevare 500 euro per le
spese es del bar/ristorante perché si applica la presunzione. Allora ha previsto dei LIMITI per cui
l’imprenditore può prelevare fino a 1.000 per ciascun giorno, e nell’ambito di un mese può prelevare fino a
5.000 euro!!! Al di sotto non opera la presunzione. Al di sopra si (che è sempre relativa, sicuramente
l’imprenditore deve però stare attento perché può essere chiamato a dimostrare l’uscita bancaria).
Queste le indagini bancarie.
Però poi vi sono le VERIFICHE vere e proprie: accessi, ispezioni, controlli. Questa attività di verifica si
conclude con un processo verbale di constatazione. E’ un documento redatto a fine verifica per fare un
resoconto di tutte le attività di verifica poste in essere. Tale processo verbale è richiesto in una serie di
ipotesi e contiene tutti i fatti e anche qualche qualificazione giuridica. NON è un atto impugnabile dal
contribuente, per ottenere giustizia deve attendere di ricevere un avviso di accertamento e impugnare
questo atto positivo. Il processo verbale di constatazione non è un atto in positivo.
NB Il domicilio è inviolabile: l’AF non può effettuare la verifica presso l’abitazione di un determinato
soggetto salvo autorizzazione motivata da parte dell’autorità giudiziaria.
Cosa succede se la verifica è effettuata lo stesso? La conseguenza è che tutta la documentazione e le
informazioni reperitevi, non possono essere utilizzate dall’AF.
Non serve invece l’autorizzazione per accedere presso la sede legale dell’impresa.
Ciò per tutelare il segreto professionale.
Anche per aprire una cassaforte serve un provvedimento dell’autorità giudiziaria, diciamo che è necessario
in sede di verifica stare molto attenti che l’AF abbia le adeguate autorizzazioni altrimenti la sanzione per
l’AF è appunto non poter utilizzare le prove raccolte. L’art. 12 dello Statuto è un articolo che regola proprio
l’accesso in modo tale che non sia turbata l’attività lavorativa (orari prestabiliti, giorni prestabiliti, no
turbare attività di impresa ecc). una volta terminata l’attività di accesso vi è il processo verbale di
constatazione da cui poi decorrono quei 60 giorni per presentare osservazioni o richieste.
Se il contribuente le presenta, l’AF ne deve tenere conto quanto emette l’avviso di accertamento.
Se non le presenta, decorsi 60 giorni, l’AF riceve il processo verbale di constatazione redatto dai verificatori
e deciderà se emettere l’avviso di accertamento.
La parte dispositiva nelle imposte DIVERSE da quella sui redditi ad esempio nell’IVA sarà diversa: qui
avremo una ricostruzione delle operazioni imponibili ai fini dell’IVA, una ricostruzione delle operazioni
escluse, delle operazioni esenti, e poi una determinazione dell’IVA a debito e dell’IVA a credito.
Se i fatti non sono contestati, la motivazione assolve anche all’onere della prova in un certo senso: l’onere
della prova è assolto. Quando si riceve quindi l’avviso di accertamento è necessario leggere con attenzione
per contestare tutti gli elementi di fatto che non corrispondono al vero. E’ chiaro che in realtà è difficile che
vi siano dei fatti completamenti non corrispondenti al vero, e in una logica difensiva non ha senso
contestare dei documenti o dei fatti di cui non si può negare l’esistenza, perché poi l’AF si troverebbe a
fornire la prova in giudizio. Se l’AF come presupposto di fatto della sua motivazione ad esempio mi dice che
la mia impresa ha 10 dipendenti e io so che è vero, è inutile contestare che ci sono 10 dipendenti, perché in
giudizio l’AF proverà che ci sono 10 dipendenti e negare l’evidenza è sintomo di scarsa buona fede ed è
controproducente.
Cosa deve contestare il contribuente quando invece i fatti sono veri? Deve contestare l’interpretazione
delle circostanze di fatto. Sempre assumendo es che ci sia una officina di riparazione di auto e l’AF ci dice
che l’officina ha un maggior reddito rispetto a quanto dichiarato, moltiplicando le tariffe orarie x numero di
addetti secondo una media di 6h lavorative: cioè l’agenzia delle entrate fa questo ragionamento, dice che ci
sono 10 dipendenti, lavorano 6h al giorno ciascuno, assumiamo che la tariffa oraria sia di 50h, allora
abbiamo 60h al giorno dei 10 dipendenti che moltiplicate per tariffa oraria fa 3000 euro al giorno di ricavi.
Il contribuente si trova questa motivazione: la motivazione non fornisce che vi sono 10 addetti, perché la
prova è stata precostituita dall’amministrazione in sede di verifica, allora il contribuente che in effetti ha 10
addetti non ha un vantaggio a contestare questo dato di fatto e smontare la motivazione, altrimenti l’AF
quando si costituisce in giudizio formerà la prova che si era precostituita nell’attività istruttoria. Potrebbe
allora smontare il ragionamento dell’amministrazione dicendo che gli studi di settore sono in realtà
coerenti quindi da un esame delle caratteristiche complessive della impresa i redditi sono assolutamente
sufficienti e che quindi le conclusioni sono opposte rispetto a quelle a cui è arrivata l’AF, oppure si può dire
che si ci sono 10 dipendenti ma lavorano in maniera occasionale quindi non 6h al giorno tutti, ecco che si
cerca di smontare il ragionamento più che contestare il fatto che è certamente vero piuttosto quindi si
contestano i fatti che non sono veri e si contestano i ragionamenti.
Quindi la motivazione deve permettere queste contestazioni.
Gli avvisi di accertamento possono avere vari vizi: l’atto esistente sia nullo o annullabile (non conta molto
la differenza) va comunque impugnato. Diverso è invece il caso dell’atto che non esiste, perché non ha gli
elementi essenziali per essere qualificato come avviso di accertamento.
L’atto non notificato non deve essere impugnato, il contribuente non ne è venuto a conoscenza.
L’atto che non è riconoscibile come tale perché manca magari il mittente o il destinatario ecc non va
impugnato.
L’atto invece PRIVO DI MOTIVAZIONE è invece un atto che ha i suoi elementi essenziali ma presenta un
vizio, che rende nullo l’atto impugnato, CHE PERO’ DEVE ESSERE IMPUGNATO.
Quindi ricordiamoci che
-quando l’atto è inesistente, l’atto non esiste nel mondo giuridico e non deve essere impugnato;
-quando l’atto presenta un vizio che comporta nullità o annullabilità, è necessario impugnarlo;
(come il caso dell’atto notificato fuori dal termine di decadenza, l’atto privo di motivazione ecc).
Quando abbiamo un vizio di contenuto, sostanziale, di merito e così via, pensiamo all’agenzia delle entrate
che interpreta in modo errato a giudizio del contribuente una disposizione normativa e giunge a conclusioni
errate è un vizio che si denuncia impugnando l’avviso di accertamento e chiedendo l’annullamento
dell’avviso di accertamento per violazione di una norma di legge mal interpretata dall’agenzia delle entrate.
Per i vizi invece formali (che riguardano la FORMA dell’atto di accertamento, come il vizio di motivazione
per eccellenza) bisogna distinguere
A) Ipotesi in cui la legge prevede come sanzione di un determinato vizio la nullità dell’atto es l’atto non
motivato è nullo e ce lo dice la legge stessa
B) Casi in cui il legislatore non dice nulla non prevede le conseguenze del vizio, allora occorre valutare di
volta in volta. Ad esempio sappiamo che il legislatore prevede un termine di 60 giorni tra il processo verbale
di constatazione di chiusura della verifica e l’avviso di accertamento (art 12 Statuto), perché bisogna dare il
tempo al contribuente di fornire le osservazioni. Ecco in quel caso il legislatore prevede un Vizio possibile
dell’atto, cioè l’atto notificato prima del decorso dei 60 giorni, ma non prevede/dispone una nullità
testuale, non è indicato nel testo della norma che se non è rispettato il termine vi è nullità.
La giurisprudenza si è interrogata al riguardo e poi ci fu una sentenza delle SU che definisce che l’avviso
notificato prima del termine di 60 giorni (che non sia di necessità e di urgenza) è un avviso nullo e che
quindi va annullato. Perché questo? Si tratta di un vizio che riguarda una norma procedurale a tutela del
contribuente. Ecco che per tutti i vizi che riguardano norme procedurali a tutela del contribuente la
conseguenza non può che essere una conseguenza che comporta l’invalidità dell’atto in positivo.
Per altre violazioni procedurali invece non vi è invalidità, per violazioni procedurali che non hanno a che
vedere con la tutela del contribuente ma riguardano magari metodologie interne dell’AF, allora queste non
comportano la nullità dell’atto, ma al più comporterà una sanzione sotto il profilo della responsabilità
dell’autore di questa.
DA POCHI ANNI L’avviso di accertamento in materia di IRPEF, IRES e IRAP è anche “TITOLO ESECUTIVO”
cioè l’avviso di accertamento conterrà una intimazione ad adempiere e conterrà altresì l’avviso che se
entro 30 giorni dal termine di pagamento non avviene il pagamento, la riscossione è affidata all’agenzia
delle entrate. In caso invece di impugnazione, questa di per sé non sospende la riscossione, ma è previsto
dalla legge che ci siano 180 giorni di sospensione ex lege.
Quindi abbiamo:
-Avviso di accertamento in materia di IRPEF, IRES, IRAP, che è anche titolo esecutivo.
-Però deve contenere l’intimazione ad adempiere e l’avviso che entro 30 giorni dal termine di pagamento la
riscossione è affidata all’agenzia della riscossione.
-In caso di impugnazione dell’avviso, l’impugnazione non sospende la riscossione.
-Però vi è una sospensione ex lege delle procedure di pignoramento per 180 giorni.
Ovviamente il contribuente che impugna un ricorso e ritiene completamente infondata la pretesa fiscale,
può chiedere ad un giudice di sospendere la riscossione (allo stesso giudice).
Per concludere:
ACCERTAMENTO DELLE OBBLIGAZIONI SOLIDALI:
In caso di solidarietà, (in cui abbiamo co-obbligati in solido) l’AF non deve notificare l’avviso di
accertamento a tutti i co-obbligati, cioè non è tenuta a farlo. Può tranquillamente notificarlo ad 1 di loro o a
2 di 3 ecc. Quindi l’unico aspetto è che SE NON NOTIFICA L’avviso di accertamento ad 1 degli obbligati, non
può poi procedere alla riscossione nei confronti di quel co-obbligato. Quindi l’AF è libera di notificare
l’avviso di accertamento a chi vuole tra i co-obbligati, fermo restando che può procedere alla riscossione
solo nei confronti di quei co-obbligati nei cui confronti è stato emesso avviso di accertamento.
Nei confronti degli altri co-obbligati, non può procedere alla riscossione degli avvisi di accertamento,
altrimenti vi sarebbe lesione del diritto di difesa.
“Prassi della supersolidarietà”: quella prassi per cui si procede alla riscossione di tutti, è una teoria
illegittima, dichiarata tale dalla CC svariati decenni fa, proprio per questo.
In base ai modi (1) di determinazione dell’imponibile da parte dell’Agenzia delle entrate, dobbiamo
distinguere
1) Tipologie che riguardano la determinazione del reddito complessivo delle persone fisiche;
A. Accertamento analitico(diretto), dove vi è una ricostruzione analitica del reddito complessivo del
contribuente. “Ricostruzione analitica” significa che l’agenzia delle entrate deve ricostruire analiticamente
fonte per fonte le categorie di reddito e quindi muove dalle fonti reddituali. Tale ricostruzione può basarsi
anche su presunzioni, purchè siano presunzioni gravi, precise e concordanti (ex art 38, co 3, DPR 600/73).
Quindi non necessariamente su prove certe e dirette, l’accertamento analitico può fondarsi anche su
presunzioni. Quello che è fondamentali è che DEVE MUOVERE DALLE FONTI REDDITUALI.
Ad esempio si verifica che un contribuente ha tenuto es delle lezioni o ha esercitato una attività di lavoro in
nero senza dichiararla perché sono stati ravvisati una serie di documenti da cui emerge l’esercizio dell’
attività. questo è il CASO ORDINARIO di ricostruzione del reddito delle persone fisiche ed è disciplinato
dall’art. 38, co dal 1 al 3, DPR 600/73.
B. Accertamento sintetico(a ritroso), ex art. 38, co 4. Nell’accertamento sintetico il reddito si determina
sempre complessivamente, ma SENZA PASSARE DALLE FONTI DEL REDDITO delle singole categorie.
Quindi mentre nell’accertamento analitico la metodologia muove dalle fonti reddituali, e passa dalle
categorie di reddito per determinare il reddito complessivo, qui si determina direttamente il reddito
complessivo senza fare dei passaggi intermedi dalle fonti reddituali alle singole categorie di reddito.
In particolare, il comma 4, dispone che: “l’amministrazione finanziaria può determinare il reddito in
maniera sintetica sulla base delle SPESE” quindi l’accertamento sintetico ha ad oggetto il reddito globale
del contribuente, che però viene ricostruito con una determinazione unitaria e globale non per categorie, e
non viene individuato partendo dalla fonte del reddito, ma parte sulla base dell’UTILIZZO DEL REDDITO
STESSO, tramite le SPESE si effettua un ragionamento a ritroso, si parte dalle spese del reddito per
ricostruire il reddito (non dalle fonti reddituali!)
Chiaro che se un contribuente spende 100.000 euro durante un anno di imposta allora da qualche parte
deve aver la disponibilità finanziaria per spenderli: con un accertamento sintetico l’agenzia delle entrate
presume che il contribuente abbia realizzato un reddito almeno pari a 100.000 euro, perché le spese sono
pari a 100.000. (DA NON CONFONDERE CON METODO DELL’ACCERTAMENTO BANCARIO, che è diverso e
muove dalle movimentazioni finanziarie/uscite bancarie/entrate bancarie per determinare il reddito)
Essendo una presunzione relativa è possibile che il contribuente muova la prova contraria, quindi nel
momento in cui l’AF presume che il contribuente abbia un reddito di 100.000 euro perché ha sostenuto
spese di 100.000 euro, il contribuente può dimostrare che quella spesa di 100.000 è stata sostenuta e
finanziata con una donazione, con prestiti, con delle somme di denaro che non avevano alla fonte origine
natura reddituale/di reddito imponibile.
In una logica di onere della prova, l’AF dimostra la spesa (onere della prova arriva fino alla spesa), il
contribuente deve fornire la prova contraria (dimostrando che quella spesa non è sostenuta con redditi
realizzati e non dichiarati), che è sostenuta con disponibilità finanziarie di altro tipo (donazione, reddito
esente).
DIFETTO PRINCIPALE anzitutto questa tipologia di accertamento non determina in realtà il reddito
imponibile ma piuttosto un reddito effettivo. E’ chiaro che quello che spendo certamente mi deve essere
entrato con qualche fonte, ma è entrato, altrimenti non avrei capacità di spesa (sia con prestito sia con
fonte reddituale, qualcuno mi ha finanziato). Quindi le spese determinano un reddito “effettivo” ,
determinano la disponibilità effettiva monetaria, per cassa, MA IL REDDITO IMPONIBILE (e lo sappiamo)
NON E’ SEMPRE DETERMINATO PER CASSA, NON E’ SEMPRE UN REDDITO EFFETTIVO.
Pensiamo al reddito di impresa: esso è determinato per competenza, non per cassa, quindi potrei avere un
imprenditore che ha dichiarato 80.000 euro in dichiarazione dei redditi ma ha un reddito effettivo di
100.000 euro, perché per il principio di competenza quel 20.000 non è stato ancora dichiarato, verrà
dichiarato in periodi di imposta successivi scostamento evidente reddito imponibile-reddito accertato
muovendo dalle spese. Il reddito accertato muovendo dalle spese non determina il reddito imponibile.
Le spese possono essere DESUNTE anche da degli indici redditometrici il cd. Redditometro.
Per anni vi è stato un regolamento che è stato anche modificato più volte, ora non c’è un regolamento, in
cui le spese non venivano determinate in misura analitica ma alla luce di alcuni indici di spesa.
Venivano ad esempio desunte dalla proprietà immobiliare, venivano desunte dalla sottoscrizione di un
mutuo, dalla proprietà di imbarcazioni ecc, alla luce di una serie di indici e dati da cui si desumevano le
spese. C’è stato un regolamento storico fino al 2009, poi modificato un paio di volte, ora non c’è.
Il redditometro è volto a costruire un reddito secondo una doppia presunzione: dall’indice di spesa
presumo la spesa, dalla spesa presumo il reddito, quindi è uno strumento molto efficace, però non è
preciso. Se non sono precise le spese come abbiamo visto prima, figuriamoci le spese presunte..
ecco perché si pensa ad un regolamento più preciso ora.
Si stanno studiando una serie di strumenti algoritmici per determinare il reddito imponibile, basati anche
sul risparmiometro, lo spesometro, non solo sul redditometro. Il problema è che comportano una serie di
criticità motivazionali. L’avviso di accertamento deve essere motivato, ma se la motivazione si basa su un
algoritmo, come ci insegna la giurisprudenza amministrativa l’algoritmo deve essere comprensibile del
contribuente, ecco allora che l’algoritmo ha senso dolo laddove diventa uno strumento talmente semplice
da essere compreso per ammettere un effettivo diritto di difesa. Si sta lavorando in questi anni.
Da ciò, si desume che un tale accertamento DEVE AVERE una duplice motivazione:
1) “Distruttiva”, molto rigorosa, in cui si tende a dimostrare le condizioni per poter accedere allo
strumento ex art. 39, co 2. L’AF deve dimostrare che il contribuente non ha collaborato.
2) “Costruttiva”, cioè prima l’AF demolisce la contabilità e il contribuente, poi bisogna ricostruire il
reddito, e a quel punto una parte di motivazione costruttiva è più tenue perché a quel punto l’AF
può utilizzare presunzioni semplici, dati e informazioni comunque raccolti. Quindi ha un metodo
che gli permette di determinare il reddito basandosi però su dati molti semplici, lontani dal
ricostruire un reddito effettivo.
Vediamo come dalla ricostruzione di un reddito effettivo, preciso, analitico, siamo passati a una
ricostruzione che è sempre più grossolana, ma ammessa alla luce di alcune condizioni.
Questi ultimi strumenti (analitico induttivo e extra contabile) si rendono molto più adeguati nei confronti
dei piccoli imprenditori che possono porre in essere evasione fiscale tramite occultamento dei ricavi.
Questi strumenti saranno essenziali per ricostruire il reddito imponibile.
NB ASSOLUTAMENTE INTEGRAZIONE CON MANUALE, e’ una delle parti più importanti del diritto tributario.
Come si notifica l’iscrizione a ruolo al contribuente? Tramite la cartella di pagamento. Questa cartella è un
atto che va letto insieme all’iscrizione al ruolo, è semplicemente il veicolo che permette di notificare al
contribuente l’iscrizione a ruolo.
Chi si occupa della riscossione? Dalla fase dell’iscrizione a ruolo in avanti, se ne occupa un ente pubblico
economico. Prima chiamato Equitalia, oggi l’”agenzia delle entrate riscossione”.
Non vi è più la famosa nota Equitalia, ma oggi ha cambiato denominazione, gli uffici rimangono quelli.
La cartella di pagamento che porta a conoscenza il ruolo è ovviamente un atto/costituisce un titolo
esecutivo che deve essere motivato. La motivazione del ruolo è però diversa dall’avviso di accertamento (in
cui vi è la pretesa fiscale); nel ruolo la motivazione risiede nell’identificazione dell’atto presupposto.
Anticipiamo anche che quando si impugna la cartella di pagamento, non si possono più denunciare i vizi di
merito della pretesa fiscale. L’eventuale denuncia di vizi non deve essere avanzata nel momento in cui si
impugna un ruolo basato sull’avviso di accertamento, ma bisogna impugnare il prodromico avviso di
accertamento.
SE sussiste un fondato pericolo per la riscossione, se l’AF si rende conto che quel contribuente per le
condotte adottate sussiste un fondato pericolo per la riscossione, può emanare il cd. Ruolo straordinario, o
nell’avviso di accertamento esecutivo la riscossione straordinaria. Cioè anziché riscuotere le somme in vie
parziale, riscuote le somme in via totale (pur sempre provvisoria).
Per concludere.
Non vi può essere riscossione coattiva se il contribuente impugna per un periodo di 180 giorni. I primi 180
giorni di impugnazione del contribuente, l’AF non può procedere alla riscossione forzata/coattiva.
Vi è una sospensione ex lege per 180 giorni dopo la presentazione del ricorso del contribuente.
Non si può procedere a pignoramento prima di 180 giorni, se il contribuente ovviamente non versa le
somme che deve versare.
Infine, esistono delle “misure cautelari” a favore del fisco, che possono essere chieste come ipoteca o il
sequestro, al giudice tributario. Sussiste poi il fermo amministrativo dei rimborsi. Oppure il fermo dei beni
mobili registrati (fermo autoveicolo, del motociclo ecc).
L’agenzia delle entrate potrebbe anche NON rispondere: si forma, dopo 90 giorni in tal caso dopo la
presentazione dell’istanza di rimborso, il SILENZIO-RIFIUTO.
Quindi è come se avesse rifiutato il rimborso. In tal caso anche il provvedimento di diniego tacito è
impugnabile dal contribuente, chiedendo l’annullamento del diniego tacito, accertamento del credito,
condanna al rimborso, dopo però da quando si forma tale silenzio rifiuto dopo 90 giorni.
Però con una particolarità in tal caso non decorrono i termini di 60 giorni per impugnare siccome non c’è
un atto che è stato espressamente emanato, ma è un atto implicito dell’AF. Quindi la normativa ammette la
possibilità per il contribuente di impugnare il silenzio rifiuto anche passati 2,5,9 anni, purchè non oltre i
termini di prescrizione insomma.
L’elusione cos’era: era considerata ELUSIVA una operazione che comportava risparmio d’imposta in
debito. Queste erano le caratteristiche dell’art. 37-bis e dell’estensione della giurisprudenza che doveva
avere una operazione di elusione fiscale. Cioè risparmio d’imposta, e in debito perché deve essere un
vantaggio che contrasta con le finalità del sistema.
Se vi è una disposizione normativa che agevola un certo comportamento (es la norma sui calciatori o sui
neo residenti che trasferiscono la residenza in Italia) è chiaro che si ottiene un beneficio fiscale, che non è in
debito, anzi è proprio voluto dal sistema italiano che cerca di incentivare persone fisiche non residenti a
trasferire la residenza in Italia.
Nel 2016 le cose cambiano e si decide di RICODIFICARE la disciplina dell’abuso del diritto nell’art. 10 bis.
Dal 2016 abbiamo una nuova disposizione all’interno dello Statuto dei diritti del contribuente, una
disciplina generale dell’abuso e/o elusione fiscale, che li consideriamo (per noi) sinonimi.
Abbiamo dato una definizione generale di elusione. Ora in modo criticato è stato deciso si abrogare l’art.
37-bis del DPR 600 per ri-disciplinare la norma sull’elusione, introducendo l’art. 10-bis.
In dottrina ciò è stato molto criticato da studiosi perché non era necessaria una operazione di tal tipo,
perché l’art. 37-bis comunque aveva avuto una storia, una interpretazione, bastava abrogare le ipotesi
tassative e lasciare l’articolo come norma generale anti elusiva.
L’art. 37-bis è abrogato dal DPR 600, non lo si trova più, mentre è stato introdotto il nuovo articolo 10-bis
dello Statuto dei diritti del contribuente, che in parte prevede una terminologia nuova e in parte riprende la
terminologia della Corte di Giustizia, insomma un lavoro nuovo per l’interprete.
PREMESSA: perché è stato inserito nello Statuto dei diritti del contribuente? E’ curioso che una norma di
contrasto all’elusione fiscale si trovi in un testo legislativo/legge del 2000 che prevede le garanzie, dei
principi a tutela del contribuente, che danno certezza al rapporto giuridico!
Perché? Perché si vuole dare all’abuso del diritto un connotato sì di disconoscere determinati
comportamenti elusivi, ma di farlo FERME RESTANDO DELLE GARANZIE previste per il contribuente la
collocazione dell’articolo quindi è volta a far sì che siano enfatizzate le garanzie previse in caso di
accertamento anti elusivo per il contribuente.
Che cos’è l’elusione fiscale o l’abuso del diritto per l’art. 10bis, co1: “Configurano abuso del diritto una o
più operazioni prive di sostanza economica che, pur nel rispetto formale delle norme fiscali, realizzano
essenzialmente vantaggi fiscali in debiti. Tali operazioni non sono opponibili all’AF, che ne disconosce i
vantaggi, determinando i tributi sulla base dei principi elusi e tenuto conto di quanto versato dal
contribuente per effetto di dette operazioni”. In caso quindi in cui ricorrano quelle 3 situazioni, l’AF può
appunto disconoscere tutti i vantaggi fiscali e rideterminare il tributo secondo le regole che sarebbero state
applicate in assenza dell’aggiramento.
la definizione dell’elusione fiscale deve avere 3 caratteristiche/si basa su 3 elementi
1. NON DEVE ESSERCI SOSTANZA ECONOMICA: la nozione di sostanza economica viene descritta nel co2,
lettera a operazioni prive di sostanza economica i fatti, gli atti, i contratti, anche tra loro collegati
INIDONEI a produrre effetti significativi diversi dai vantaggi fiscali. Quindi l’unico scopo è quello di produrre
vantaggi fiscali. Sono indici di mancanza di sostanza economica in particolare la NON coerenza della
qualificazione delle singole operazioni col fondamento giuridico del loro insieme (Esempio: quando
abbiamo parlato di imposta di registro, pensiamo a un contribuente che intende cedere l’azienda ma sa che
la cessione d’azienda è soggetta a imposta di registro in misura proporzionale, quindi al posto di cedere
l’azienda che è una operazione gravosa ai fini dell’imposta, decide di cedere l’azienda suddividendola in
singoli beni. Non cede il complesso unitario ma i singoli beni d’impresa. Allora l’operazione non è coerente
perché le singole operazioni sono singole cessioni di beni, ma il fondamento giuridico del loro insieme è una
cessione d’azienda. Ecco che quindi una operazione di questo tipo è una elusione fiscale, priva di sostanza
economica, perchè lo scopo di questa cessione dei singoli beni era solo ottenere un vantaggio fiscale.
Le singole cessioni di beni sono infatti soggette all’IVA ma per il meccanismo di detrazione e rivalsa non
grava economicamente sui soggetti passivi dell’IVA.
2. L’ELUSIONE FISCALE DEVE COMPORTARE UN VANTAGGIO FISCALE: il vantaggio fiscale deve essere un
risparmio d’imposta. nel caso suddetto, è chiaro che vi è un vantaggio di imposta: anziché versare una
imposta di registro in misura proporzionale, vado a versare l’IVA, ma che col meccanismo di detrazione e
rivalsa non è un costo fiscale per l’imprenditore. Quindi ho un vantaggio fiscale.
3. IL VANTAGGIO FISCALE CHE L’ELUSIONE COMPORTA DEVE ESSERE IN DEBITO: in debito cosa significa,
vuol dire che viene realizzato in contrasto con le finalità fiscali, e ce lo dice la lettera b.
Si considerano vantaggi fiscali in debito i benefici anche non immediati realizzati in contrasto con le finalità
delle norme fiscali o coi principi dell’ordinamento tributario quindi abbiamo un contrasto non tanto con
una specifica disposizione (perché avremo violazione e quindi evasione) ma abbiamo un contrasto con le
finalità delle norme fiscali, contrasto coi principi generali.
Nel caso della cessione dei singoli beni abbiamo certamente tale contrasto. Abbiamo un vantaggio in debito
perché sto spezzettando la mia azienda e la cedo a pezzettini per evitare l’imposta di registro.
Le finalità del sistema sono invece assoggettare a tassazione la circolazione delle aziende ad una imposta
indiretta di registro proporzionale.
QUESTE 3 CONDIZIONI, devono essere provate dall’AF. L’onere della prova grava sull’AF. Se l’AF è in
grado di dimostrarne la presenza, il contribuente può SUPERARE la norma anti elusiva fornendo
una prova, cioè che sussistono delle valide ragioni extrafiscali per porre in essere quella operazione.
Il co. 3 ci dice che: non si considerano abusive, in ogni caso, le operazioni giustificate da valide
ragioni extra fiscali non marginali, anche di ordine organizzativo gestionale, che rispondano a
finalità di miglioramento strutturale o funzionale dell’impresa ovvero dell’attività professionale del
contribuente. Quindi se il contribuente dimostra che sussistono valide ragioni EXTRA FISCALI, che
non hanno natura fiscale (ma di altro genere), allora a questo punto l’operazione pur avendo il
connotato di elusione fiscale, paralizza l’operatività dell’art. 10 bis e non viene considerata elusiva.
Unica differenza: mentre le 3 condizioni devono essere provate dall’AF, le valide ragioni extrafiscali
devono essere provate dal contribuente.
ESEMPIO di ipotesi di difesa in una operazione reale dove l’AF ha contestato una elusione fiscale:
Assumiamo di avere una srl (1) che acquista da srl (2) un immobile per 100.000 euro. L’operazione è esente
da IVA, si applica una imposta di registro ridotta dell’1% 1.000 euro su 100.000 euro, quindi una aliquota
con imposta agevolata (quindi non il 9% ma 1%) ed è una aliquota agevolata perché la srl 1, la società che
acquista, si impegna a rivendere entro 3 anni l’immobile a terzi.
(diritto ad aliquota agevolata in tal caso). Quindi versa un tributo di registro dell’1% impegnandosi a
rivendere l’immobile. In procinto della scadenza dei 3 anni non trova acquirente per immobile e decide di
vendere l’immobile ai soci per mantenere viva l’agevolazione originaria. Perché in caso contrario, se la
società avesse mantenuto l’immobile, sarebbe tornata applicabile l’imposta del 9% e avrebbe dovuto
versare srl1 ulteriori 8.000 euro (avendone già versati 1.000). Lo vende quindi ai soci con aliquota del 9%
che si applica però non al prezzo di acquisto (assumiamo che lo abbia venduto per 120.000 ero), ma sul
valore catastale (che assumiamo sia 10.000 euro). Dopo il triennio i soci vendono a terzi, al 5 anni, che lo
acquistano con agevolazione prima casa. Quindi abbiamo
srl 1 che acquista da srl 2 immobile con impegno di rivenderlo entro 3 anni
nei 3 anni non vende e vende ai soci, e i soci vendono a terzi finiti i 3 anni, dopo 5 anni lo vendono.
PER L’AF QUESTA E’ UNA OPERAZIONE ELUSIVA per l’AF Abbiamo una agevolazione fiscale, un risparmio
di imposta, l’operazione di vendita ai soci è priva di sostanza economica, il vantaggio fiscale è in debito, e
quindi vi è elusione fiscale.
QUALE PUO ESSERE LA DIFESA DEL CONTRIBUENTE?
A. Come prima cosa DEVE FARE I CONTI di qual è il tributo versato dalle varie operazioni poste in essere e
quale sarebbe stato il tributo nell’operazione fisiologica Deve verificare se effettivamente vi è risparmio
d’imposta: allora cosa fa, bisogna verificare quale sarebbe stata la tassazione se i soci avessero acquistato
direttamente l’immobile in origine e rivenduto dopo i 5 anni.
E facendo i conteggi ai fini dell’imposta di registro, assumiamo che emerga che se i soci avessero acquistato
direttamente l’immobile da srl 2, e poi rivenduto entro 5 anni a terzi acquirenti, non vi sarebbe stato alcun
risparmio/non vi sarebbe stata tassazione più gravosa rispetto a quella che hanno posto in essere in
questo caso possiamo già superare la norma anti elusiva!!! SE MANCA IL RISPARMIO D’IMPOSTA, MANCA
L’ELUSIONE FISCALE.
B. Poi può provare a dire che il vantaggio fiscale non è in debito, si può dimostrare l’assenza di violazione
della ratio del sistema, ma occorre qui spiegare perché è stato venduto prima del 3 anno ai soci. Allora ci
potrebbero essere ragioni ad esempio se i soci che volevano davvero acquistare l’immobile per andarci a
vivere, sono magari marito e moglie e quindi volevano andarci a vivere. Poi l’hanno rivenduto
semplicemente perché magari hanno trovato un immobile migliore.
Davanti a una operazione che palesemente sembra di elusione fiscale, non è detto che vi sia, bisogna
fare dei ragionamenti difensivi (risparmio d’imposta c’è? se si, è in debito o no? E capire se ci sono delle
valide ragioni extrafiscali!! Di tipo magari finanziarie).
Dietro ad una operazione elusive ci sono magari ragioni di diritto del lavoro, di diritto civile, bisogna
studiare bene le ragioni extrafiscali per porre in essere quella determinata operazione.
Queste sono le 5 garanzie, ed è la ragione per cui questa disposizione in tema di elusione fiscale è
stata inserita nella legge 212/2000, per enfatizzare queste garanzie, addirittura previste a pena di
nullità per evitare equivoci.
A tutto ciò si deve aggiungere che nell’ipotesi in cui il contribuente ponga in essere una operazione dove vi
è una norma anti elusiva specifica (come il riporto sulle perdite), è da ritenere che questa norma generale
non trovi più applicazione. Quindi in materia di perdite fiscali, ricordiamo quando abbiamo parlato delle
condizioni previste per il riporto delle perdite, nel momento in cui quelle condizioni sono rispettate dal
contribuente, non ci può essere più elusione fiscale; o meglio, ci può essere elusione fiscale SOLO SE il
contribuente ha raggiunto quelle condizioni richieste MEDIANTE una operazione elusiva.
Ma nel momento in cui il contribuente rispetta legittimamente le condizioni richieste per il riporto delle
perdite (che sono di per sé già anti elusive) non si applica più la norma generale anti elusiva.
Le norme di carattere anti elusivo (come quella sul riporto delle perdite) sono sparse nell’ordinamento, ce
ne sono delle altre, e sono norme di cui si può chiedere la DISAPPLICAZIONE.
L’elusione fiscale, se viene accettata tramite una norma specifica disapplicativa, può essere questa norma
disapplicata se il contribuente dimostra che non vi è alcuna ratio elusiva nell’operazione che pone in essere.
Quindi per contrastare l’elusione, l’ordinamento usa varie armi (norma generale art. 10-bis ma poi abbiamo
norme specifiche con ratio anti elusiva, e in questo caso il contribuente può chiederne la disapplicazione
nel momento in cui ritiene di non aver posto in essere una operazione di carattere elusivo).
INTERPOSIZIONE E SIMULAZIONE
E’ un tema diverso dall’elusione fiscale.
L’interposizione può essere fittizia (e nel qual caso è una evasione) o reale (e nel qual caso è una elusione).
In generale la simulazione in materia tributaria può riguardare svariati elementi dell’obbligazione tributaria:
può riguardare l’esistenza stessa dell’obbligazione tributaria, la misura dell’obbligazione tributaria, un bene
acquistato e venduto, una categoria di reddito (come un bene d’impresa qualificato come bene personale
per sfuggire alla tassazione dell’eventuale plusvalenza quando il bene d’impresa viene ceduto).
Oppure la simulazione può riguardare l’inerenza (deduce un costo un soggetto diverso da me, ad esempio
acquisto un bene come il telefonino per ragioni personali e faccio dedurre il costo d’acquisto del telefonino
al fratello che invece è un libero professionista).
Quando invece parliamo di simulazione sui soggetti, parliamo di “interposizione”: il caso più tipico è quello
che riguarda vari calciatori dove venivano costituite delle società estere interposte che sfruttavano
l’immagine del calciatore. Tramite lo sfruttamento di quell’immagine il reddito veniva realizzato dalla
società che era estera localizzata in un paradiso fiscale, e quindi la gran parte della tassazione sui calciatori
veniva spostata sulla società estera e non si versava alcuna imposta.
L’interposizione è chiaramente contrastata dall’ordinamento, può essere elusione od elusione a seconda
che sia reale o fittizia, e nell’interposizione abbiamo un soggetto INTERPONENTE e un soggetto
INTERPOSTO.
Il primo è colui che viene tassato in ragione dell’accertamento dell’interposizione, mentre il secondo è colui
che ha versato il tributo in luogo dell’interponente (ovviamente in misura ridotta altrimenti non ci sarebbe
vantaggio a fare interposizione) e a quel punto potrà, secondo l’art. 37 del DPR 600 che disciplina
l’interposizione, l’interposto potrà chiedere un RIMBORSO delle somme che ha versato.
LEZIONE 21, IL PROCESSO TRIBUTARIO, CONCLUSIONE (Manuale importante, ottemperanza e revocazione)
Parliamo ora del processo tributario, soffermandoci sul cuore del processo, cioè la disciplina delle prove.
Anzitutto il processo tributario è disciplinato dal d.lgs. 546/1992, che rinvia, ove compatibile, alle norme
del codice di procedura civile. In particolare l’art. 1, co.2 del d.lgs. ci dice che “i giudici tributari applicano le
norme del presente decreto e, per quanto da esse non disposto e con esse compatibili le norme del codice di
procedura civile”. Quindi il modello processuale che abbiamo come riferimento è il modello de processo
civile, con tutte le peculiarità relative al processo tributario.
Iniziamo dalla GIURISDIZIONE: la giurisdizione tributaria, come ci insegna l’art. 1, co.1 d.lgs. 546, è
esercitata dalle commissioni tributarie, che si articolano in:
- commissioni tributarie provinciali (commissioni di 1 grado, che accolgono i ricorsi contro gli avvisi di
accertamento o le cartelle di pagamento di cui abbiamo parlato)
- commissioni tributarie regionali (commissioni di appello).
Solo in Trentino Alto Adige abbiamo la Commissione di I grado di Trento, e la Commissione di II grado di
Trento; stessa cosa per Bolzano, I grado di Bolzano e II grado di Bolzano.
CONTROVERSIE TRATTATE che rientrano nella giurisdizione: ce lo dice l’art. 2, d.lgs. 546,
le controversie aventi ad oggetto TUTTI i tributi, di ogni genere e specie.
Su questo possiamo dire svariate cose, ai tributi si aggiungono anche le sanzioni tributarie.
E’ fondamentale però sottolineare che NON è un giudizio di merito, il contribuente non può adire la
commissione tributaria in via preventiva per richiedere l’applicazione di una disposizione normativa
tributaria o per chiedere quale sia la giusta imposta: è pur sempre un processo di ANNULLAMENTO, è
necessario che ci sia un atto impugnabile per adire la commissione tributaria.
Deve essere ricevuto quindi un atto di quelli impugnabili, che vedremo a breve.
I COMPONENTI DELLE COMMISSIONI TRIBUTARIE: è uno degli elementi più dolenti perché non sono
selezionati per concorso, ma sono scelti per titoli dal consiglio di presidenza della giustizia tributaria, e
possono farne parte anche soggetti che non hanno prettamente competenza fiscali. Le composizioni delle
commissioni sono del tutto variegate, e la logica di questo qual è: non è del tutto sbagliata, in quanto le
controversie tributarie presentano elementi che toccano materie diverse.
Se parliamo di redditi fondiari è chiaro che solo un geometra o un architetto possono comprendere
esattamente cosa c’è sotto una determinazione catastale; o solo un commercialista laureato in economia
può comprendere cosa c’è sotto a dei profili legati al reddito di impresa.
Questo vale per i giudici, magistrati, i membri delle commissioni: non hanno necessariamente preparazione
di diritto tributario.
Se la controversia riguarda l’esecuzione forzata, usciamo dalla commissione tributaria e dalla sua
giurisdizione e rientriamo nella GIURISDIZIONE DEL GIUDICE ORDINARIO, così come anche nel caso delle
controversie tra sostituto-sostituito, cioè controversie di diritto privato.
Per tracciare un confine della giurisdizione tributaria dobbiamo pensare alle controversie con oggetto
tributi di ogni genere e specie che arrivano “fino” al titolo esecutivo (cartella di pagamento, iscrizione di
ipoteca, avviso di accertamento esecutivo), all’impugnazione de titolo esecutivo, ma la procedura
dell’esecuzione forzata riguardano il giudice ordinario.
La giurisdizione e le norme a riguardo vanno lette congiuntamente all’art. 19 d.lgs. 546, che prevede 1. Gli
atti impugnabili e 2. L’oggetto del ricorso.
E’ vero che le controversie rientrano nella giurisdizione tributaria quando hanno ad oggetto tributi, MA
l’azione può essere proposta dal contribuente SOLO se riceve un atto impugnabile.
E gli atti impugnabili sono disciplinati da quell’articolo.
GLI ATTI IMPUGNABILI (ex art. 19) si distinguono in:
- Atti autonomamente impugnabili: atti lesivi per il contribuente, espressamente elencati nell’art. 19, al
co.1., come l’avviso di accertamento del tributo, il ruolo e la cartella di pagamento, l’avviso di mora, il
rifiuto ad un rimborso, il fermo dei beni mobili ecc. atti comunque espressamente elencati e lesivi per il
contribuente. Quindi se non sono impugnati entro il termine di impugnazione di 60 giorni, DIVENTANO
DEFINITIVI e non possono più essere contestati nel merito se non tramite istanze di annullamento in auto
tutela che però ovviamente non è una fase giurisdizionale ma riguarda il procedimento e il rapporto tra
contribuente-AF. Se l’atto non viene impugnato, diventa definitivo.
ESEMPIO: Assumo di ricevere avviso di accertamento non esecutivo: non lo impugno, l’atto diviene
definitivo, la pretesa fiscale si consolida e l’AF mi notificherà il titolo esecutivo, cioè la cartella di pagamento
previa iscrizione a ruolo. La cartella di pagamento è il titolo esecutivo ed è tra gli atti autonomamente
impugnabile, ma io contribuente non posso impugnare la cartella di pagamento denunciando vizi che
riguardano la pretesa fiscale contenuta nell’avviso di accertamento, perché una volta che questi atti non
sono impugnati DIVENTANO NEL LORO CONTENUTO DEFINITIVI io contribuente potrò allora impugnare
la cartella di pagamento ricevuta, ma solo per vizi PROPRI DELLA CARTELLA ricevuta, non posso far valere
vizi che riguardano la precedente pretesa fiscale.
E ciò vale in tutte le fasi, se l’atto lesivo autonomamente impugnabile non è impugnato, diventa definitivo.
- Atti ad impugnazione differita: se vediamo il co.3, art. 19, questo ci dice che gli atti diversi da quelli
indicati (autonomamente impugnabili) non sono impugnabili autonomamente quindi se il contribuente
riceve un atto che non è rientrante in quegli atti, non può impugnare quell’atto autonomamente.
Ecco in realtà, su questa norma, la giurisprudenza ha avuto una interpretazione estensiva tale per cui Ogni
volta che vi è un atto in cui è contenuta la pretesa fiscale, quindi è quantificata la pretesa fiscale, il
contribuente potrebbe impugnare l’atto. Se non impugnato, ovviamente non consolida i propri effetti,
perché non è un atto autonomamente impugnabile, ma si da la possibilità al contribuente di impugnarlo
comunque anche gli atti non espressamente indicati al co1, possono essere impugnati, fermo restando
che non opera quell’effetto giuridico della definitività del contenuto dell’atto, se, questo atto che non è
autonomamente impugnabile, viene impugnato (orientamento molto criticato in dottrina).
Diciamo che la mancata notificazione di atti autonomamente impugnabili oppure degli atti che non sono
autonomamente impugnabili, possono essere pur sempre impugnati, ma non in via autonoma.
Il co.3 ci dice che gli atti che non sono quelli autonomamente impugnabili, possono essere impugnati in
via differita, nel momento in cui si impugna l’atto successivo.
Quindi ad esempio la risposta negativa ad un interpello anti elusivo(che non è un atto impugnabile tale
risposta) può essere impugnata INSIEME/contestualmente all’avviso di accertamento che si riceve.
NON è invece un atto ad impugnazione nemmeno differita (oltre che non autonoma) il processo verbale di
costatazione.
Inoltre nel ricorso può anche essere richiesta la sospensione al giudice tributario: in tal caso prima della
fissazione dell’udienza di merito viene fissata una udienza in cui si discute la sospensione (fumus boni iuris
e periculum in mora). Discussione molto rapida.
Teniamo conto però che l’esecuzione forzata, anche se non venisse richiesta la sospensione, è sospesa per
180 giorni. Se sussiste il periculum in mora e il fumus boni iuris, il giudice con una ordinanza ammette la
sospensione della riscossione e poi fissa l’udienza di merito.
Il giudice tributario però dispone anche di poteri istruttori, disciplinati dall’art. 7, co1, del d.lgs.
Le commissioni cosa possono fare in sintesi: hanno gli stessi poteri dell’AF, possono disporre accessi,
richiedere informazioni, dati, chiarimenti, possono disporre lo svolgimento di una consulenza tecnica,
quindi questi poteri sono modellati su quelli dell’AF e sono però esercitati nei limiti dei fatti dedotti dalle
parti (art. 7). Il giudice quindi non può esercitare poteri istruttori al di là di quanto richiesto delle parti al
fine di scoprire dei fatti che non sono stati accertati e dedotti dall’ente impositore, non può andare a
supportare con elementi di prova ulteriori una pretesa fiscale con elementi non dedotti dalle parti nel
giudizio.
Abbiam poi visto come sussistano in materia tributaria delle PRECLUSIONI: l’art. 32 del DPR 600 ci dice che
le notizie o i dati non addotti o gli atti e documenti non esibiti e non trasmessi in risposta agli inviti
dell’ufficio, non possono essere più essere presi in considerazione a favore del contribuente in sede
amministrativa o contenziosa. Abbiamo visto come si tratti di preclusione probatoria, che limita il diritto di
difesa e come tale va interpretata in senso restrittivo. La richiesta dell’AF deve essere specifica, l’ufficio
deve informare inoltre il contribuente della preclusione!!
Se il contribuente invece si trova nella impossibilità di fornire il documento, nel momento in cui deposita il
ricorso, il contribuente può depositare il documento che non ha prodotto in risposta all’istanza della
agenzia delle entrate, specificando i motivi per cui era nell’impossibilità di produrli.
Può essere quindi superata la preclusione alla produzione dei documenti dal fatto che il contribuente in
origine fosse impossibilitato dal produrlo e lo produce in sede di ricorso spiegando le ragioni per cui non
aveva potuto farlo prima.
Inoltre la preclusione non opera laddove l’AF chieda al contribuente un documento che è già nelle sue
mani.
Sono invece PROVE liberamente valutabili dal giudice, le Dichiarazioni rese al di fuori del processo anche da
terzi in atti extra processuali le dichiarazioni di terzi non costituiscono una prova ma un INDIZIO.
Per il principio di parità delle armi, se si ammettono delle dichiarazioni di terzi che sono raccolte dall’AF in
sede di verifica, si devono ammettere anche dichiarazioni di terzi prodotte dal contribuente durante il
processo: resta il fatto che hanno valore indiziario. E questo vale anche se rese all’interno di un processo
penale o civile, all’interno quindi di un altro processo.
Diverse dalle prove escluse, sono le prove ammesse ma che sono state acquisite in maniera IRRITUALE, o
addirittura le PROVE ILLECITE.
Come si valuta se una prova che è acquisita illecitamente è utilizzabile o meno?
Si pensi ad un documento rinvenuto durante un accesso privo delle autorizzazioni;
Ecco in tema di processo penale, vi è una norma, l’art. 191 del cpp che prevede che le prove acquisite in
violazione dei divieti stabiliti dalla legge non possono essere utilizzate nel processo tributario non c’è
una simile disposizione e non può essere utilizzata in materia tributaria la disposizione del codice di pp in
materia tributaria.
In materia civile invece si divide tra prova costituenda (acquisita nel processo, e se acquisita irritualmente
non è efficace, ad esempio la testimonianza da persona non ammessa a testimoniare) e la prova costituita
(quella procurata al di fuori del processo) non esiste in materia civile un divieto espresso di utilizzo di
tale prove, anche se vi è un illecito commesso durante il reperimento della prova.
La tesi più accreditata è quella della utilizzabilità di queste prove, salvo che non vi sia una violazione di un
principio costituzionale(in una causa di separazione sono stati ritenuti utilizzabili i messaggi di posta
elettronica che un coniuge che aveva illecitamente prelevato all’altro per dimostrare la relazione extra
coniugale).
Anche in materia tributaria, occorre effettuare un bilanciamento: non qualsiasi irritualità nell’acquisizione
di elementi rilevanti ai fini dell’accertamento fiscale comporta l’inutilizzabilità degli elementi in mancanza di
una specifica previsione in tal senso.
Ovviamente salvo i casi in cui è in discussione la tutela dei diritti fondamentali di rango costituzionale come
la libertà personale o il domicilio ecc.
Ad esempio nel caso Falciani: caso di dipendente di banca svizzera che ha sottratto alla banca una serie di
documenti finanziari commettendo reato, riconducibili a vari contribuenti europei, e ha inviato e venduto
questa lista all’AF francese. Questa tramite legittimo scambio di informazioni ha inviato all’AF italiana i dati
relativi ai contribuenti italiani, e quindi l’AF italiana ha emesso degli avvisi di accertamento nei confronti dei
contribuente italiani destinatari di questo invio.
Alla base del documento rinvenuto, c’era un lecito scambio di informazioni con la Francia, ma se andiamo a
monte c’era un furto commesso da un dipendente. La Cassazione in caso ha deciso che l’interesse fiscale
dell’erario prevale sull’interesse del contribuente al segreto bancario, e quindi ha effettuato un
bilanciamento di interessi dando prevalenza all’interesse fiscale >> segreto bancario.
Per contro non sono utilizzabili le prove acquisite senza le necessarie autorizzazioni da parte dell’autorità
giudiziaria.
Sono invece utilizzabili le prove che vengono acquisite in sede penale e trasmesse all’amministrazione
senza l’autorizzazione dell’autorità giudiziaria, perché? Ce lo dice la Cassazione, perché l’autorizzazione è
prevista a tutela del segreto investigativo, non a tutela del contribuente. Non essendoci una violazione dei
diritti fondamentali del contribuente, perciò, quell’eventuale documento è utilizzabile anche senza
autorizzazione bilanciamento di interessi.
Le prove possono anche provenire da ALTRI PROCESSI, come da un processo penale potrebbero provenire
delle intercettazioni; le regole del processo tributario sono regole proprie e non opera il divieto del cpp per
cui i risultati delle intercettazioni non possono essere utilizzate in altri procedimenti.
Si pone poi una questione rispetto alle sentenze del giudice penale: la statuizione su di un reato non è una
prova di evasione fiscale, ma le statuizioni contenute in una sentenza possono costituire prova.
Ma mentre nel processo penale sono ammesse prove non ammissibili nel processo tributario, occorre
considerare questi limiti propri del processo tributario, e concludere che un giudicato penale NON
necessariamente vincola il giudice tributario, i due processi sono infatti retti da regole processuali diverse
(penale e tributario da due parti distinte). Ad esempio nel processo tributario si fa largo uso delle
presunzioni che non sono invece essere utilizzate nel processo penale.
Una volta che le prove sono prodotte al giudice, il giudice le valuta secondo il suo prudente
apprezzamento, salvo che la legge non disponga diversamente.
Valgono per il giudice tributario le norme sull’efficacia probatorio dell’atto pubblico e della scrittura privata.
In part., interesse ha destato il valore di prova del processo verbale di constatazione.
Il processo verbale di constatazione è un atto pubblico e l’atto pubblico fa piena prova, ma fa piena prova
soltanto della provenienza del documento dal pubblico ufficiale che lo ha formato e delle dichiarazioni delle
parti o dei fatti avvenuti in sua presenza. Quindi tale processo verbale di constatazione non è una prova di
una pretesa fiscale, ma fa prova con riguardo a ciò che colui che lo ha redatto ha indicato essere avvenuto
in sua presenza!!!
Non fa piena prova invece in relazione alle risultanze del processo verbale di constatazione stesso.
APPLICAZIONE DEL PRINCIPIO DI ALLEGAZIONE: il giudice può valutare TUTTE le prove dedotte in giudizio,
ossia tutte le prove acquisite nel fascicolo di causa, indipendentemente da chi sia la parte che le ha
prodotte. Quindi ad esempio se il contribuente produce un documento che è a favore dell’agenzia delle
entrate, può essere utilizzato nella decisione della controversia.
Invece il processo verbale di constatazione è uno di quegli atti che non si produce mai nel ricorso, che
solitamente è un atto a favore del contribuente, ed è un documento che il contribuente non è tenuto a
depositare in giudizio. Altrimenti il giudice può considerare il pvc contro il contribuente anche se è prodotto
dal contribuente stesso.
Abbiamo poi visto tutte una serie di presunzioni applicabili di volta in volta, nel diritto tributario ve ne sono
moltissime. Alcune di queste sono contenute nel diritto sostanziale, altre nel diritto formale (come la
presunzione legata all’accertamento sintetico di determinazione del reddito basata sulle spese del
contribuente basato sugli studi di settore).
All’interno del processo quindi entrano a far parte anche le presunzioni, ma vi è una differenza
fondamentale: se le presunzioni sono presunzioni LEGALI (in quel caso hanno valore per il giudice) o
SEMPLICI ( e in questo caso ne va valutata la precisione la gravità e la concordanza).
Abbiamo anche visto oltre alle presunzioni l’Onere della prova: grava sull’amministrazione finanziaria.
Il fatto non provato è considerato dal giudice come non avvenuto. Se di un fatto non esiste la prova che è
avvenuto, la decisione risulta sfavorevole alla parte interessata all’avverarsi del fatto non provato.
L’AF è l’attore in senso sostanziale, cioè colui che emette l’avviso di accertamento, che è l’atto che
determina l’oggetto del processo nei limiti della domanda.
Vi sono poi dei casi in cui vi è un inversione dell’onere della prova che grava sul contribuente, o casi in cui
per una questione di vicinanza all’onere della prova è richiesto al contribuente di fornire lui determinate
prove (es prova di inerenza di un costo).
Nel processo tributario, si applica anche il PRINCIPIO DI NON CONTESTAZIONE ex art. 115, per cui il giudice
deve porre a fondamento della decisione
- le prove dedotte dalle parti
- ma ANCHE i fatti non specificatamente contestati dalla parte costituita.
Ciò rende essenziale cosa: che tutti i fatti che sono contenuti nell’avviso di accertamento che non
corrispondono al vero devono essere contestati.
Così come l’AF nell’atto di costituzione in giudizio deve contestare tutti i fatti contenuti nel ricorso che non
sono corrispondenti al vero, altrimenti opera il principio di non contestazione.
Per concludere il processo tributario: prima eravamo arrivati alla discussione in pubblica udienza o in
camera di consiglio. Una volta discussa la sentenza, questa poi viene pubblicata.
La sentenza può essere una sentenza di rigetto del ricorso o di accoglimento del ricorso: se la sentenza
accoglie il ricorso, annulla l’atto impugnato. Se la sentenza rigetta il ricorso, implicitamente conferma la
validità dell’atto impugnato. Ovviamente è ammesso l’APPELLO in commissione tributaria regionale da
parte della parte soccombente. Quindi il contribuente a cui viene rigettato il ricorso può presentare
appello, cosi come l’agenzia delle entrate se il ricorso viene accolto e annullato l’atto.
L’APPELLO E’ UNA IMPUGNAZIONE SOSTITUTIVA, la sentenza d’appello quindi SOSTITUISCE la sentenza
di I grado.
Nell’appello devono essere proposti (onere di riproposizione) i motivi di ricorso, occorre però che siano
riproposti in una logica di impugnazione di sentenza di 1 grado. La difficoltà di redigere appello è data da 2
elementi: da un lato il contribuente non deve dimenticarsi i motivi dedotti in 1 grado, bisogna riproporli se
intende riproporli; dall’altro lato non può essere però una mera riproposizione così come era nel giudizio di
1 grado, perché deve trattarsi di una critica alla sentenza appellata, bisogna quindi riproporre i motivi di 1
grado SOTTO UNA ANGOLAZIONE DI CRITICA DELLA SENTENZA DI APPELLO.
Nel giudizio d’appello non possono essere prodotti e sostenuti nuovi motivi, aggiunti nuovi motivi non
dedotti in 1 grado, ma solo rivisitare e ri-argomentare. Una volta che abbiamo la sentenza d’appello di II, la
sentenza di II è impugnabile SOLTANTO per un giudizio di legittimità davanti alla Cassazione e in tal caso si
applicano le regole del cpc. La Cassazione allora potrà cassare con rinvio la sentenza di appello, o senza
rinvio. Se con rinvio, si ripropone il giudizio d’appello davanti alla commissione tributaria regionale.
CONCLUSIONE CORSO.