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Francesco Liso
La corte di cassazione e il diritto di assemblea retribuita.

1. - Un sindacato chiede di tenere un’assemblea durante l’orario di lavoro e vede respinta la richie-
sta dall’azienda, con il motivo che le ore di assemblea retribuita erano già state prenotate da altre
organizzazioni sindacali. Ritenendo violato un proprio diritto il predetto sindacato si rivolge al giu-
dice. La cassazione, confermando la decisione della Corte di appello, riconosce che l’azienda aveva
ragione a negare l’assemblea.
Le decisioni della Cassazione qui commentate destano qualche perplessità. A primo acchito
credo che questa derivi anche dal fatto che ci si è prefisso di decidere tra due alternative, non consi-
derando, invece, che ne esiste una terza – pure prospettata, pare, dalla difesa del sindacato – che, a
mio avviso, sarebbe in grado di risolvere con maggiore plausibilità il problema interpretativo che si
è posto.
Le alternative tra la quali la Corte ha scelto sono, da un lato, quella fondata sull’idea che il
computo delle dieci ore debba essere fatto in capo al singolo lavoratore (ciò che implicherebbe la
possibilità di indire assemblee retribuite fino a che vi siano lavoratori che non abbiano esaurito il
pacchetto di quelle ore), dall’altro lato quella fondata sull’idea che il computo debba essere fatto di-
rettamente con riferimento alla collettività di lavoratori per i quali l’ assemblea viene indetta, cosic-
ché questa facoltà di indire l’assemblea non risulterebbe più esercitabile quando si siano tenute o
siano state comunque prenotate, per quella collettività, assemblee retribuite per un numero di ore
pari a 10 (ciò che implicherebbe un concorso tra le varie organizzazioni che, se non disciplinato tra
le stesse, porterebbe a privilegiare quelle che abbiano esercitato prioritariamente la facoltà di indire
l’assemblea )
La corte si è pronunciata a favore della seconda alternativa.

2. - Fa certamente bene la Corte a scartare la prima alternativa. Questa, infatti, per come sembra es-
sere stata formulata (l’assemblea retribuita può essere indetta fino a che vi siano lavoratori che non
abbiano esaurito il proprio pacchetto di 10 ore) si pone in stridente contrasto con la natura
dell’istituto. Non ha senso un’assemblea durante l’orario di lavoro che sia limitata ai dipendenti che
non abbiano ancora esaurito la propria dote di ore. L’assemblea viene indetta per dibattere problemi
di ordine collettivo ed è quindi logico che ad essa devono poter partecipare tutti coloro che sono in-
teressati. In altri termini, è più consono alla natura dell’istituto che il computo delle dieci ore venga
operato non avendo come punto di riferimento i singoli lavoratori, bensì un elemento che rappresen-
ti la dimensione collettiva. Su questo si può essere d’accordo.
Non è condivisibile, tuttavia, neppure la scelta della seconda alternativa. Non si può sostene-
re, infatti, che il referente del computo debba essere il gruppo per il quale quella convocazione vie-
ne effettuata. In questo modo, a ben vedere, a mio avviso si fa una violenza vera e propria alla logi-
ca promozionale dello statuto, ravvicinabile, per certi versi, a quella che operavano, nei confronti
del principio di libertà sindacale, coloro che assumevano l’esistenza di una nozione ontologica della
categoria. Ma vediamo più da vicino perché non si può condividere su questo punto la decisione.

3. - In primo luogo, va detto che non si tiene conto del fatto che l’assemblea costituisce un diritto
che consente alla rappresentanza sindacale di avere un collegamento con la cosi detta base, cioè
con la collettività di lavoratori i cui interessi quella rappresentanza si propone di rappresentare. Se è
vero che la norma dello statuto pone il diritto di assemblea in capo ai lavoratori, è altrettanto chiaro
che essi il diritto lo esercitano solo in quanto siano stati convocati dalla rappresentanza. A ben vede-
re, nella formulazione dell’articolo 20 il legislatore per certi versi riproduce, nella sostanza,
l’ambiguità della formula felicemente utilizzata nell’articolo 19, che – in formale omaggio alle idee
movimentiste - riconosce direttamente ai lavoratori il diritto di costituire la rappresentanza sindacale
aziendale, sfumando la rilevanza dell’organizzazione sindacale mediante il riferimento alla necessi-
tà che i lavoratori assumano l’ iniziativa della costituzione della rappresentanza “nell’ ambito” di
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organizzazioni sindacali particolarmente qualificate. Ma è chiaro che, in entrambi gli articoli, così
come in tutti gli altri attinenti alla libertà ed alla attività sindacale, è in gioco l’interesse della orga-
nizzazione sindacale a svolgere la propria attività nel contesto aziendale.
Per tornare all’assemblea, va detto che il momento del suo svolgimento altro non rappresen-
ta che l’espressione di interesse organizzativo del soggetto che procede alla convocazione (interesse
costituito dall’apertura di un canale di comunicazione con la base) e non, invece, l’espressione dell’
interesse di un gruppo ontologicamente inteso che costituisca altra cosa rispetto all’ organizzazione
sindacale.
Se questo è vero, appare improponibile a prima vista un’ interpretazione che obliteri
l’esistenza di questo interesse organizzativo relativizzandolo in maniera significativa attraverso la
configurazione di una situazione concorsuale tra le differenti organizzazioni sindacali. Ci sarebbe
da chiedersi, infatti, ponendosi dal punto di vista del legislatore, quale potrebbe essere una logica
plausibile per una siffatta scelta. Quel legislatore, come sappiamo, era un acceso fautore dell’ unità
sindacale (disciplinava il referendum evitando – attraverso la previsione della convocazione con-
giunta - che potesse prestarsi ad una logica di competizione tra le differenti sigle; prevedeva,
nell’articolo 29, incentivi per agevolare la fusione delle rappresentanze sindacali): perché gli si
vuole imputare ora l’intenzione di una soluzione che altro effetto non avrebbe se non quello – parti-
colarmente visibile nell’ attuale dolorosa situazione di rottura dell’unità sindacale – di esasperare
proprio la competizione? Se pure avesse inteso creare una simile situazione concorsuale, non avreb-
be dovuto provvedere a regolarla in maniera esplicita? Non sarebbe stato più coerente, dal punto di
vista sistematico, la previsione – anche qui, come nel referendum – di un onere di convocazione
congiunta?

4. - Peraltro la soluzione costruita dalla Cassazione presenta aspetti discutibili anche se la riguar-
diamo dal punto di vista dei lavoratori i quali tutti, come sappiamo, sono titolari del diritto di pren-
dere parte alla assemblea retribuita. Si ipotizzi, infatti, il caso che un sindacato indica un’ assemblea
alla quale chiami non tutti i lavoratori, bensì – cosa certamente possibile - il gruppo dei propri asso-
ciati. Possiamo ritenere che questo fatto sia idoneo a ridurre il pacchetto di ore a disposizione degli
altri lavoratori? E che possa anche portare addirittura a negare del tutto il diritto a coloro che siano
stati preceduti da altri?
In conclusione, sono molte le perplessità sollevate da una soluzione che desume dal limite
delle dieci ore l’esistenza di un limite concorsuale del diritto delle singole organizzazioni a convo-
care l’assemblea retribuita.
A ben vedere, il limite delle 10 ore viene costruito dal legislatore come limite posto solo in
capo ai lavoratori per la loro partecipazione all’assemblea. Sembra più rispettoso del dettato della
norma svolgere il ragionamento partendo dalla funzione che questo limite è chiamato a svolgere.
Esso, con tutta evidenza, rappresenta un costo posto a carico dell’ azienda per la presenza dei sinda-
cati al suo interno; rappresenta il costo del diritto di assemblea esercitato durante l’orario di lavoro.
Essendo riconosciuto a tutti i lavoratori il diritto di partecipare all’assemblea retribuita, il costo
massimo che l’impresa è onerata a sostenere (almeno per quel che riguarda il costo del lavoro, es-
sendoci comunque anche costi connessi alla mancata produzione) è rappresentato dalla somma di
10 ore di retribuzione di ciascun dipendente. Questo è l’unico elemento certo. Ora è chiaro che la
soluzione avallata dalla Cassazione è idonea a realizzare una sensibile riduzione di questo costo a
vantaggio dell’ azienda, ma sembra non tenere nel dovuto conto il ruolo che lo statuto affida al sin-
dacato all’interno dell’azienda.

5. - Qualche argomento è desumibile dai lavori preparatori della legge? La Corte di appello – le cui
sentenze sono state confermate dalla Cassazione – ha ritenuto di poterlo desumere a favore della sua
soluzione. Invero le cose non sono del tutto chiare. La sequenza è stata la seguente: a) il disegno di
legge del Governo non contemplava la possibilità che l’assemblea si svolgesse durante l’orario di
lavoro; b) questa possibilità venne contemplata nel testo proposto dalla decima commissione del
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Senato, sul quale si tennero le votazioni in assemblea (il testo approvato dal Senato non fu poi mo-
dificato dalla Camera dei deputati); in quel testo si prevedeva un rinvio alla contrattazione collettiva
per la fissazione di limiti al suo svolgimento; c) nella seduta del 11.12.1969 il senatore Bisantis, con
l’intenzione di fissare un limite massimo a siffatto svolgimento propose che si svolgesse “nei limiti
di 10 ore” e che tuttavia per queste ore fosse prevista la retribuzione. Il governo – per bocca del sot-
tosegretario Rampa - valutò positivamente l’emendamento, ma propose di aggiungere la previsione
di un possibile miglioramento di quel limite da parte della contrattazione collettiva. Il testo proposto
da Bisantis venne approvato dall’assemblea come integrato dall’emendamento del Governo.
Come ben si vede, la modifica arrecata al testo proposto dalla commissione venne inconsa-
pevolmente a produrre un mutamento del ruolo della contrattazione collettiva. Nella formulazione
del testo della commissione la contrattazione era deputata a svolgere il ruolo di disciplinare inte-
gralmente la materia. Quindi, ove fosse stato approvato quel testo, è chiaro che i problemi interpre-
tativi si sarebbero posti solo con riferimento alla disciplina contenuta nel contratto collettivo. Il te-
sto approvato dall’assemblea ridusse, invece, il ruolo del contratto collettivo sul punto, poiché si li-
mitò a prevedere che esso potesse introdurre miglioramenti. Quindi, in questo momento la discipli-
na appariva già compiutamente definita direttamente dalla legge ed essa conteneva (e contiene) solo
tre referenti sui quali costruire la soluzione del problema (i lavoratori, il limite delle 10 ore e
l’indicazione del soggetto abilitato ad indire l’assemblea).
Bisogna tenere presente un altro elemento che a mio avviso non è trascurabile. Il legislatore
stava normando avendo presente quello che si stava svolgendo sul tavolo della contrattazione dei
metalmeccanici. In questo settore i contratti a quel tempo erano due, quello delle aziende partecipa-
zioni statali e quello delle aziende private. Essi vennero entrambi sottoscritti l’ 8.1.1970. La formula
utilizzata dall’ onorevole Bisantis era identica a quella che si ritrova nel contratto delle pp.ss. (art.
18 della parte comune, dedicato alle “relazioni sindacali”). Il contratto della metalmeccanica privata
aveva una formula differente: ammetteva lo svolgimento dell’assemblea retribuita durante l’orario
di lavoro (anch’esso nella misura delle 10 ore) alla condizione che essa fosse convocata unitaria-
mente (art. 18 della parte comune, dedicato all’ “assemblea”). E’ chiaro che quest’ ultima formula
garantiva all’impresa un utilizzo più limitato dell’assemblea retribuita. Orbene, non può non avere
un significato che questo rilevante limite (della convocazione unitaria) non fosse stato richiamato e,
soprattutto, che non fosse stato neanche richiamato nel secondo comma dell’articolo in cui si disci-
plinava la convocazione. Certo non sappiamo se il modello dei metalmeccanici privati fosse cono-
sciuto dai parlamentari (dalle dichiarazione del sottosegretario Rampa si deve desumere che il con-
tratto delle pp.ss. fosse conosciuto prima della sua sottoscrizione); certo è che la legge è stata ap-
provata in un contesto nel quale il modello della convocazione congiunta era operativo. Inoltre, può
avere un certo interesse rilevare - per quanto si tratti di un profilo non pertinente sul piano della ap-
plicazione della legge - che nella successiva tornata contrattuale delle aziende della metalmeccanica
privata – 19 aprile 1973 - questo modello non venne più riprodotto, provvedendosi soltanto a man-
tenere la legittimazione alla convocazione dell’assemblea – congiuntamente o disgiuntamente - in
capo alle organizzazioni sindacali, in aggiunta a quella attribuita dalla legge alle rappresentanze
sindacali.

6. Due considerazioni vengono svolte dalla Cassazione, a conforto della propria decisione, sulla ba-
se dell’ interpretazione che valorizza l’ “assurdità delle conseguenze pratiche” cui avrebbe condotto
la tesi sostenuta dal ricorrente.
Il primo argomento, già formulato dalla Corte di appello, è quello secondo il quale, se si ri-
conoscesse la possibilità di convocazione delle assemblee retribuite fino a che vi sono lavoratori che
non hanno consumato la propria dote di ore, “nell’unità produttiva potrebbe essere tenuta una conti-
nua assemblea, con pregiudizio dell’attività di impresa”. E’ un buon argomento, che va condiviso,
come si è fatto prima, nel § 2.
E’ difficile invece condividere il secondo argomento della stessa natura (invero presente nel-
la sentenza n. 16936 ed in questa addirittura considerato “dirimente”). Sembra non ben meditato.
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Esso si basa sull’idea che “il datore di lavoro non ha il potere di controllare se e quali lavoratori par-
tecipino ad una determinata assemblea” (idea imputata a precedenti decisioni della Cassazione) e
che pertanto “non sarebbe in pratica possibile stabilire quando l’ultimo lavoratore abbia esaurito il
monte ore a lui destinato”.
A ben vedere, le decisioni della Cassazione alle quali si imputa l’ affermazione dell’ inesi-
stenza di un potere di controllo in capo al datore di lavoro avevano ad oggetto una questione affatto
particolare, alla cui luce essa va letta. Infatti, in quelle decisioni la questione in gioco era se il sin-
dacato potesse o meno convocare l’assemblea in un luogo diverso da quello in cui il lavoratore pre-
sta la propria attività. Giustamente si era data una risposta positiva, affermando che la disciplina
dell’articolo 20 dello statuto esclude che possa ritenersi sussistente un interesse del datore di lavoro
allo svolgimento dell’assemblea all’interno dell’unità produttiva in cui il lavoratore svolge la pro-
pria attività ed affermando che non poteva certo avere pregio l’argomento – sollevato da parte dato-
riale – che lo svolgimento dell’assemblea fuori da quell’unità produttiva non avrebbe consentito di
controllare la partecipazione dei lavoratori all’assemblea.
Orbene, dovrebbe essere qui sufficiente osservare che l’affermazione dell’inesistenza di un
potere di controllo – fatta nel contesto di cui si diceva - non implica certo che il datore di lavoro si
trovi nell’ impossibilità di conoscere, per ciascun lavoratore, se egli sia stato assente dal posto di la-
voro e se la sua assenza egli l’abbia giustificata con l’esercizio del suo diritto a partecipare all’ as-
semblea.

7. – Le due sentenze qui commentate ritengono di trovare conferma alla loro lettura dell’articolo 20
dello statuto dei lavoratori nel dettato dell’accordo interconfederale che ha operato la ripartizione
delle 10 ore di assemblea retribuita tra la rsu e le organizzazioni sindacali. In verità la n. 16936, di-
chiarando che la tesi prospettata dal ricorrente (secondo la quale le tre ore di assemblea sono da ri-
conoscere a ciascuna organizzazione sindacale) “a tacer d’altro sembra configgere con l’accordo”,
non entra nel merito della questione, poiché ritiene esauriente ed immune da vizi logici o contraddi-
zione, al riguardo, la decisione della corte d’appello. Invece la n. 21694 - pur ritenendo parimenti
che l’interpretazione data dalla corte d’appello all’accordo interconfederale è rispettosa dei criteri
fissati dagli articoli 1362 e ss. del codice civile - ritiene di rinvenire un argomento nel fatto che
nell’accordo “il riferimento è indistintamente a tutte le associazioni stipulanti” e che se, al contrario,
le parti avessero voluto riconoscere tale diritto a ciascuna delle organizzazioni stipulanti, “avrebbe-
ro dovuto usare un’espressione del tipo “in favore di ciascuna delle organizzazioni”.
A ben vedere, a questa interpretazione letterale sarebbe ben contrapponibile l’argomento che
solo l’esplicita affermazione della titolarità congiunta avrebbe potuto fornire certezza in ordine al
fatto che le parti abbiano voluto convenire che le ore sono tre in assoluto, come lo sono le sette im-
putate all’ organismo unitario (la rsu).
In verità, sembra che dall’accordo interconfederale non sia desumibile alcun argomento utile
per la decisione. Infatti, l’accordo si è semplicemente limitato a trasferire in capo alle organizzazio-
ni sindacali tre delle dieci ore previste dalla legge, riproducendo la formula statutaria secondo la
quale la convocazione può avvenire “singolarmente o congiuntamente”; nulla contiene che possa far
supporre che le parti abbiano inteso innovare rispetto alla disciplina che la legge dà delle dieci ore
(l’unico elemento di novità – peraltro già presente in molti contratti - è quello della titolarità del di-
ritto alla convocazione anche in capo alle organizzazioni sindacali). Pertanto dovrebbe rimanere
centrale, ai fini della soluzione del problema, la sola interpretazione dell’articolo 20 dello statuto.
Peraltro, se si volesse argomentare con riferimento all’accordo interconfederale, bisognereb-
be chiedersi come si possa imputare alle parti di aver voluto creare una situazione in cui finisce per
imporsi la logica del “chi primo arriva meglio alloggia”. E’ più ragionevole ritenere che esse avreb-
bero provveduto a disciplinarla, poiché nessuna organizzazione sindacale avrebbe avuto interesse a
convenire una tale rovinosa situazione di anomia e gli stessi datori di lavoro avrebbero peraltro ri-
chiesto ed ottenuto la formalizzazione della titolarità congiunta del diritto alla convocazione
dell’assemblea durante l’orario di lavoro, come era già allora previsto in alcuni contratti collettivi
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(si veda, ad esempio, l’art. 19 del contratto dei tessili abbigliamento). A ben vedere, come si è detto
poco fa, è solo questa – quella della titolarità congiunta - la formula in grado di garantire alle azien-
de che le ore di assemblea retribuita siano solo tre e non tre per ciascuna organizzazione sindacale.

8. - Cosa concludere? Non stupisce che un problema di tale rilevanza venga alla decisione della
Corte di Cassazione a tanti anni di distanza dall’ approvazione della legge. La crisi dell’unità sinda-
cale porta alla ribalta dimensioni problematiche che la prassi unitaria aveva evidentemente tenuto
celate. Una soluzione più equilibrata di quella raggiunta dalle sentenze qui commentate credo si im-
ponga.
A mio avviso, la soluzione più ragionevole è quella che fa svolgere al limite delle dieci ore
una duplice funzione. Le 10 ore rappresentano nel contempo, da un lato, un limite posto a ciascuna
organizzazione sindacale ai fini della indizione di assemblee durante l’orario di lavoro (la dimen-
sione collettiva dell’interesse è qualificata nel momento della convocazione dell’assemblea, per cui
si giustifica che il computo delle dieci ore venga fatto con riferimento al gruppo per il quale quella
convocazione viene effettuata) e, dall’altro lato, potendo darsi il caso di una pluralità di assemblee
indette da distinte organizzazioni, costituiscono un limite anche alla partecipazione ad esse da parte
del singolo lavoratore. Questa mi sembra la soluzione da un lato più vicina alla lettera ed alla ratio
della legge e, dall’altro, anche più idonea a comporre in maniera equilibrata i diversi profili ed inte-
ressi coinvolti dalla norma, da questa non adeguatamente disciplinati. E’ una soluzione che era già
stata praticata in una decisione dal Tribunale di Torino (24 maggio 2003, in MGL 2003, p. 409, con
nota di Figurati).
Contro di essa non sembra possibile svolgere il ragionamento fondato sulla “assurdità delle
conseguenze pratiche”, utilizzato dalla Cassazione per demolire la tesi, invero arrischiata, che as-
sume la possibilità di indizione di assemblee fino a che esistano lavoratori che non abbiano esaurito
il proprio pacchetto di dieci ore.

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