Sei sulla pagina 1di 15

Il Mulino - Rivisteweb

Barbara Carnevali, Paolo D’Angelo, Massimo Fusillo, Guido Maz-


zoni
La storia delle idee: cento di questi anni?
(doi: 10.1404/102233)

Intersezioni (ISSN 0393-2451)


Fascicolo 3, dicembre 2021

Ente di afferenza:
Università di Roma Tre (uniroma3)

Copyright c by Società editrice il Mulino, Bologna. Tutti i diritti sono riservati.


Per altre informazioni si veda https://www.rivisteweb.it

Licenza d’uso
L’articolo è messo a disposizione dell’utente in licenza per uso esclusivamente privato e personale, senza scopo
di lucro e senza fini direttamente o indirettamente commerciali. Salvo quanto espressamente previsto dalla
licenza d’uso Rivisteweb, è fatto divieto di riprodurre, trasmettere, distribuire o altrimenti utilizzare l’articolo,
per qualsiasi scopo o fine. Tutti i diritti sono riservati.
La storia delle idee dopo la storia delle idee
La storia delle idee: cento di questi anni?
Introduzione

Barbara Carnevali, Paolo D’Angelo, Massimo Fusillo,


Guido Mazzoni

La storia delle idee sta per compiere un secolo di vita, se come


sua data di nascita vogliamo considerare la prima riunione dello
History of Ideas Club, convocata per il 24 gennaio del 1923 da tre
membri della Johns Hopkins University di Baltimora, Arthur O.
Lovejoy, George Boas e Gilbert Chinard. Certo, si tratta di una data
non solo convenzionale, ma anche non troppo significativa, come
spesso accade quando si tratta di rintracciare l’origine di qualche
movimento o corrente di pensiero. La riunione fu infatti del tutto
informale, e lo stesso Club (forse così denominato, con una certa iro-
nia, riecheggiando il Metaphysical Club di Charles S. Peirce) a lungo
rimase ben poco visibile e influente. Bisognerà attendere la pubbli-
cazione, da parte di Lovejoy, del libro La grande catena dell’essere,
avvenuta nel 1936, ma che rielaborava una William James Lecture
di tre anni prima, per vedere delinearsi un concetto e un metodo
della storia delle idee. Poi sarebbero venuti la rivista «Journal of
the History of Ideas», fondata sempre da Lovejoy nel 1940 e tuttora
in attività; il volume Essays in the History of Ideas, nel 1948, che
si apriva con un’importante messa a punto metodologica (il libro è
stato poi tradotto in italiano dal Mulino con il titolo L’albero della
conoscenza, 1960); la fondazione della International Society for the
History of Ideas, nel 1960; la pubblicazione di The History of Ideas.
An Introduction, da parte di Boas, nel 1969; un Dizionario di storia
delle idee curato da Philip Wiener in cinque volumi, nel 1973-74.
Il terzetto iniziale si era nel frattempo molto allargato, con la par-
tecipazione di studiosi di varia provenienza, come l’antichista Harold
Cherniss. Il Dictionary contava nel proprio board figure del calibro di
Isaiah Berlin, Ernst Nagel, René Wellek. La storia delle idee, nata in
ambito anglofono, si era estesa a paesi e culture diverse, e giungeva
anche in Italia, paese in cui aveva avuto in precedenza un’accoglienza
abbastanza fredda (si veda Pietro Piovani, Filosofia e storia delle idee,
1965), con la fondazione di questa rivista, «Intersezioni», nel 1980,

INTERSEZIONI / a. XLI, n. 3, dicembre 2021 283


Barbara Carnevali, Paolo D’Angelo, Massimo Fusillo, Guido Mazzoni

con la traduzione dei testi di Lovejoy, e con il lavoro in particolare


di Paolo Rossi Monti.
In Germania, a partire dagli anni Cinquanta, prendeva intanto
consistenza un filone di studi che presentava notevoli differenze e
un’attitudine critica molto maggiore rispetto alla tradizionale lessi-
cografia filosofica, e aveva parecchi punti di contatto con la storia
delle idee: la cosiddetta Begriffsgeschichte o storia dei concetti. Anche
in questo caso si può indicare una data di nascita, la fondazione da
parte di Erich Rothacker della rivista «Archiv für Begriffsgeschich-
te», avvenuta nel 1955. Il programma di ricerca tracciato nel primo
numero della rivista coinvolse in breve tempo studiosi di grande
spessore, come Joachim Ritter, Odo Marquard, Hans Georg Gada-
mer. A partire dal 1971 cominciarono ad essere pubblicati, con il
coordinamento di Ritter, i volumi dello Historisches Wörterbuch der
Philosophie che proseguiranno per oltre venti anni. Parallelamente,
Reinhart Koselleck, Werner Conze, Otto Brunner diedero vita ad un
dizionario dedicato al lessico storico-politico-sociale, i Geschichtliche
Grundbegriffe apparsi in otto volumi dal 1972 al 1997.
È del tutto comprensibile che uno sviluppo ormai quasi secolare,
la diffusione in paesi di tradizioni diverse, il confronto con campi di
studio consolidati (in particolare con la storia della filosofia, la storia
culturale e la storia sociale) e con nuovi ambiti di ricerca emergenti,
abbia portato a molti riassestamenti, messe a punto, cambiamenti
di indirizzo e di campi di applicazione, che hanno riguardato l’im-
postazione, i metodi, i principi orientativi e le ricerche specifiche
riconducibili al paradigma della storia delle idee e a quello della
storia dei concetti. Abbastanza presto, ad esempio, ha cominciato
a prender forma un certo disagio nei confronti della concezione,
teorizzata da Lovejoy, delle idee come unit-ideas, cioè come compo-
nenti relativamente semplici che entrano in aggregati più complessi,
anche molto distanti nel tempo. Lovejoy, nel libro del 1936, parlava
del procedimento della storia delle idee come di una sorta di analisi
chimica dei concetti, che risolve i sistemi individuali nei loro elementi
compositivi, fino a rintracciare appunto delle idee-unità. Ma così, si è
osservato, si avalla una concezione atomistica delle idee che non ne
coglie la natura e soprattutto trascura le continue trasformazioni cui
esse vanno incontro, e che fanno sì che risulti impossibile presentarle
come unità statiche. Da questo punto di vista è possibile affermare
che la storia dei concetti ha criticato, e insieme spinto a modificarsi,
la storia delle idee proponendosi di seguire innanzitutto le trasfor-
mazioni cui le idee vanno incontro nello sviluppo storico (si veda
Melvin Richter, Begriffsgeschichte and the History of Ideas, articolo del
«Journal of the History of Ideas» del 1987: il seguito del dibattito è
ricostruito da Luca Scuccimarra nel suo articolo per questo numero).

284
La storia delle idee: cento di questi anni?

Altre critiche sono venute dagli studiosi di linguistica – per


esempio da Leo Spitzer (attivo dal 1937 proprio alla Johns Hopkins
University) – che hanno osservato come la storia delle idee, alle sue
origini, non tenesse adeguatamente conto dell’aspetto strettamente
semantico delle idee studiate, e come quindi solo intrecciando storia
linguistica e storia delle idee si potesse ricostruire in modo affidabile
il loro percorso. Sempre dal punto di vista del linguaggio, ma con
un’attenzione particolare al contesto storico, sono nate le obiezioni
degli studiosi di pensiero politico appartenenti alla cosiddetta scuola
di Cambridge. Quentin Skinner e John  G.A. Pocock, a partire dalla
fine degli anni Sessanta, hanno assunto una posizione molto critica
nei confronti di Lovejoy, difendendo l’importanza di comprendere i
diversi giochi linguistici che soli darebbero senso alle parole all’in-
terno di concreti dibattiti politici, privilegiando la ricostruzione delle
fonti rispetto a quello delle permanenze e continuità, e arrivando a
negare, nel caso di Skinner, persino la possibilità di tracciare una
storia dei concetti.
Un altro tipo di riserve, ugualmente sensibili al rischio di studiare
le idee come un mondo autonomo, indipendente dai condizionamenti
sociali e materiali che le determinano e separato dalle istituzioni le
fanno circolare, sono venute da storici sociali, spesso di orientamento
marxista come quelli appartenenti alla scuola di Birmingham (su cui
torna in questo volume l’articolo di Marta Cariello e Serena Guarra-
cino). Contro quella che consideravano la concezione idealistica ed
elitista degli storici delle idee tradizionali, questi studiosi hanno riven-
dicato l’importanza di assumere una prospettiva «dal basso», attenta
all’esperienza e alla cultura della gente comune, e hanno suggerito
di anteporre alla lettura dei grandi classici lo studio delle forme di
espressione popolare e l’umile «scavo negli archivi». Sono alcune
delle preoccupazioni che, insieme all’interesse per le scienze sociali,
per i metodi quantitativi e modellizzanti e le temporalità di lunga
durata, hanno caratterizzato anche un’altra grande tradizione storica,
la scuola delle Annales, la cui eredità sempre attuale è discussa in
molti dei saggi presenti in questo volume (sul rapporto della storia
sociale con la storia delle idee era già intervenuto Lucien Febvre,
Histoire des idées, histoire des sociétés. Une question de climat, in
«Annales. Économies, Sociétés, Civilisation», 1946). A questa cor-
rente storiografica può essere accostata, pur nelle sue differenze, la
posizione di Robert Darnton: a partire dalla fine degli anni Settanta,
lo storico americano ha proposto un modello di Social History of
Ideas che tiene conto della concreta diffusione delle idee attraverso,
per esempio, l’editoria o la circolazione popolare dei bestseller, della
stampa satirica e addirittura pornografica.
Altre perplessità, obiezioni, prese di distanza nei confronti della
storia delle idee sono state rivolte nel corso dei decenni dal punto di

285
Barbara Carnevali, Paolo D’Angelo, Massimo Fusillo, Guido Mazzoni

vista della psicanalisi e dello strutturalismo (contro il primato della


coscienza e la sua idea di un’integrità del senso), dal femminismo,
dagli studi di genere e dagli studi post-coloniali, attenti alla questione
dell’egemonia e dei rapporti di potere ed esclusione che condiziona-
no i canoni (la critica fondamentale si può riassumere nell’assunto se-
condo cui le idee dominanti sono quelle dei gruppi dominanti). Della
rilevanza di tutti questi attacchi il testimone forse più emblematico
è Michel Foucault che, all’epoca dell’Archeologia del sapere (1969),
tentava con difficoltà di smarcarsi da un metodo e una tradizione di
pensiero che già si considerava reazionaria e antiquata:
Ho operato come se scoprissi un nuovo campo, e come se, per farne l’inventa-
rio, mi servissero delle misure e dei punti di riferimento inediti. Ma in pratica non
mi sono inserito proprio in quello spazio che si conosce bene e da tempo sotto il
nome di «storia delle idee»? Non mi sono riferito ad esso, anche quando in due o
tre occasioni ho cercato di prendere le distanze? Se non avessi voluto distoglierne
gli occhi, non avrei trovato in esso, e già preparato, già analizzato, tutto quello che
cercavo? In fondo forse non sono altro che uno storico delle idee1.

L’ambivalenza di Foucault può essere considerata come la fron-


tiera simbolica oltre la quale la storia delle idee non ha potuto
più scongiurare una svolta riflessiva e la necessità di ritornare cri-
ticamente sui propri fondamenti e sulla propria storia. In reazione
alle critiche e al sorgere concorrenziale dei nuovi orientamenti di
ricerca come la Intellectual History, la storia della cultura, la storia
della mentalità, sono dunque nate prese di posizione come quelle
di Maurice Mandelbaum (The History of Ideas, Intellectual History
and the History of Philosophy, in «History and Theory», 1965) o,
più tardi, di Peter Burke (Varieties of Cultural History, 1997). I vari
anniversari hanno ispirato bilanci (si vedano William F. Bynum, The
Great Chain of Being after Forty Years: An Appraisal, in «History of
Science», 1975; Frank Manuel, Lovejoy Revisited, Daedalus, 1987; e
il numero per la celebrazione dei cinquant’anni dalla pubblicazione
della Great Chain of Being, in «Journal of the History of Ideas»,
1987). Con l’avvicinarsi della fine del secolo, si è parlato sempre
più apertamente di una crisi della storia delle idee e della necessità
di ridefinirne concettualmente metodi e finalità. Lo testimoniamo le
riflessioni di Jacques Le Goff (Peut-on encore parler d’une histoire
des idées aujourd’hui? in M.L. Bianchi, Storia delle idee. Problemi e
prospettive, 1987), di Donald R. Kelley, all’epoca editor del Journal,
(What is Happening to the History of Ideas?, in «The Journal of the
History of Ideas», 1990), di Paolo Rossi Monti (Un altro presente,

1 M. Foucault, L’archeologia del sapere. Una metodologia per la storia della cultura, Milano,

Rizzoli, 1997, p. 125 (corsivi nostri). Mario Vegetti (nel suo contributo per il volume Foucault,
oggi, 1998), notava giustamente come negli ultimi scritti sulla filosofia antica Foucault abbia
tradito il paradigma alternativo che aveva proposto negli anni Settanta.

286
La storia delle idee: cento di questi anni?

1999), e ancora di Anthony Grafton (The History of Ideas: Precept


and Practice, 1950-2000 and Beyond, in «Journal of the History of
Ideas», 2006).
In una prospettiva schiettamente teoretica, il filosofo Mark Bevir, nel
libro The Logic of the History of Ideas, 2002, ha tentato di fondare un
metodo per la storia delle idee a partire dai pressupposti della filosofia
analitica e del linguaggio: la sua proposta è una «logica» che si vuole
alternativa e più valida rispetto ai metodi tanto della tradizione ermeneu-
tica quanto della scuola di Skinner. Mentre negli ultimi anni si assiste a
una rinascita della pratica storiografica da parte delle nuove generazioni
di storici intellettuali. Nell’articolo The Return of the History of Ideas?,
che apre il volume da lui curato insieme a Samuel Moyn (Rethin-
king Modern European Intellectual History, 2014), Darrin McMahon
compie una riabilitazione in piena regola non tanto della disciplina
quanto dello spirito pioneristico del suo fondatore Lovejoy, sostenen-
do che la sua opera, più spesso ignorata o fraintesa che compresa,
sia ancora una fonte di ispirazione per la riflessione teorica e per la
ricerca storica (per un bilancio esteso alla storia intellettuale, si ve-
dano nello stesso volume anche gli articoli di Antoine Lilti sul ruolo
della scuola delle Annales, di Samuel Moyn sul rapporto tra storia
intellettuale e immaginario sociale, di John Tresch sul rapporto tra
storia delle idee e storia della scienza, e di Warren Breckman sulla
questione dell’interdisciplinarità). McMahon, che ha scritto un’ambi-
ziosa «storia della felicità» dai Greci ai nostri giorni, e un’altrettanto
ambiziosa storia dell’idea di «genio», difende il valore di continuare a
tessere grandi narrazioni non esenti da un certo idealismo romantico.
Come era inevitabile, l’articolo ha ricevuto numerose risposte pole-
miche (ad esempio, Petter Hellström, The Great Chain of Ideas. The
Past and Future of the History of Ideas, or why we should not return
to Lovejoy, in «Lychnos», 2016). E la storia non è ancora conclusa.

I motivi per celebrare l’anniversario della storia delle idee ria-


prendo un confronto critico con i suoi metodi, con la sua ispirazione
originaria e con le sue prospettive future non mancano certamente.
Questo numero di «Intersezioni» si apre con due saggi che fanno il
punto su due delle grandi correnti di ricerca che si sono sviluppate
dalla storia delle idee o intrecciate con essa: la storia intellettuale e
la storia dei concetti. Catherine König-Pralong affronta il problema
dal punto di vista della storia della filosofia, interrogandosi sul modo
in cui la concezione e definizione della disciplina e le sue pratiche
storiografiche sono state messe necessariamente in discussione dalla
fine della prospettiva eurocentrica e teleologica di matrice hegeliana,
e dall’allargamento su scala globale dei suoi temi e dei suoi problemi.

287
Barbara Carnevali, Paolo D’Angelo, Massimo Fusillo, Guido Mazzoni

La sua riflessione approda a una proposta originale che fa proprio


uno dei lasciti più importanti della storia delle idee, lo spirito dell’in-
terdisciplinarità: la filosofia deve aprirsi a una concezione plurale del-
la storia della conoscenza, o meglio, dei «saperi». Luca Scuccimarra
propone invece un approfondito bilancio del contributo portato da
Reinhart Koselleck e dalla Begriffsgeschichte nel corso di quasi cin-
quant’anni di studi. L’opera di Koselleck ha messo in discussione i
presupposti della storia delle idee tradizionale insistendo sul contesto
stratificato e disordinato di parole e formule che sta sotto la supposta
compattezza delle unit-ideas, e lavorando sulla semantica storica dei
concetti, sulla loro natura linguisticamente mutevole, sul valore che
le parole hanno nella costruzione degli oggetti intellettuali. Zona in-
termedia fra storia linguistica e storia materiale, la Begriffsgeschichte
di Koselleck è da molti considerata parte della svolta linguistica
che, a partire dagli anni Sessanta, ha rivoluzionato, fra le altre cose,
anche la storia delle idee. Sottoponendo i suoi stessi metodi a una
storicizzazione riflessiva ha reso ancora più proficuo il suo contributo
metodologico nell’ottica delle ricerche contemporanee.
Gli altri saggi del numero propongono percorsi eccentrici per
sondare alcuni dei nuovi campi di studi, sorti negli ultimi decenni,
che intrattengono un dialogo più o meno esplicito con la storia delle
idee. Nuove correnti di ricerca si sono infatti affermate proponendo
una forma di rivoluzione copernicana che sostituisce al primato delle
discipline quello degli oggetti: sotto l’egida degli studies si ritrovano
studiosi provenienti da ambiti diversi – come letteratura comparata,
sociologia, storia dell’arte – che si interrogano su problemi comuni
ridiscutendo le frontiere disciplinari.
Per comprendere il ruolo centrale che la critica letteraria ha svolto
negli studi culturali è necessario compiere un excursus sull’interse-
zione che, fin dalle origini, si è creata fra la storia delle idee e la
teoria della letteratura, e che coinvolge soprattutto la critica tematica.
Senza addentrarci in questioni terminologiche fin troppo dibattute,
possiamo dire che se il motivo è un’unità oggettiva facilmente indivi-
duabile, il tema è invece molto più vicino all’astrazione del concetto:
è un’idea di fondo che caratterizza un testo, e attraverso cui noi
possiamo leggere e collegare fra di loro opere di epoche, culture
e media anche molto distanti fra di loro. Se studiamo l’innamora-
mento al primo sguardo (un motivo ben riconoscibile e di grande
successo, dal romanzo antico al cinema hollywoodiano), indaghiamo
una serie di brani molto simili, che possono avere ovviamente con-
notazioni simboliche diverse: lo ha fatto ad esempio magistralmente
Jean Rousset in Leurs yeux se rencontrèrent, Corti, 1981. Se invece
vogliamo studiare il tema dell’amore romantico, ci spostiamo in un
ambito più ampio e astratto, più vicino al concetto filosofico, e più
esposto alla soggettività dell’interpretazione e al variare dei contesti

288
La storia delle idee: cento di questi anni?

storici (basta pensare al classico e controverso saggio di Denis de


Rougemont). Come sostiene Daniele Giglioli, il tema è lo spazio di
tensione fra l’argomento e il senso: è il frutto di una lettura orienta-
ta, di un atto di interpretazione.
Per questa loro natura fluida e dinamica, i temi sono dunque
difficili da definire e individuare, anche perché si intersecano conti-
nuamente fra di loro, costituendo dei campi tematici, nozione molto
utile che si deve a Lubomir Doležel. Ciononostante, la critica tema-
tica ha dato vita a svariati Dizionari (in Germania i due pioneristici
di Elizabeth Frenzel; in Francia quello più selettivo di Pierre Brunel;
e in Italia l’ampia opera in tre volumi di Ceserani, Domenichelli e
Fasano), che si sviluppano in parallelo con quelli di storia delle idee
appena citati. D’altronde, nel sintetizzare le linee di sviluppo della
storia delle idee, abbiamo già incontrato una figura chiave della
teoria della letteratura come René Wellek. L’intersezione riguarda
anche alcune trasformazioni di base assai significative: anche la cri-
tica tematica, come la storia delle idee, è passata da un approccio
più tassonomico e classificatorio (le unità atomiche da definire con
precisione, secondo Lovejoy) a un approccio che segue più le dina-
miche diacroniche, nello spirito della Begriffsgeschichte alla Koselleck.
Attaccata con foga dall’idealismo di Croce e dalla critica stilistica
di Leo Spitzer, guardata con diffidenza dallo strutturalismo, la critica
tematica ritorna negli anni Novanta, come sintetizza il titolo di un
libro collettivo curato da Werner Sollors (The Return of Thematic
Criticism, Harvard University Press, 1993). In quegli anni però non
ritorna solo la critica tematica in senso stretto: quella che studia la
disseminazione di un tema fra autori, epoche e arti diverse; l’approc-
cio tematico, che reagisce al formalismo semiologico e strutturalista,
accomuna un po’ tutte le tendenze che rientrano nella grande svolta
dei cultural studies. È un orientamento che non mira più a studiare i
testi come strutture chiuse e autosufficienti, ma a creare un continuo
contrappunto fra testo e contesto (politico, sociale, culturale), dissol-
vendo ogni gerarchia fra alto e basso, fra letteratura e altre forme
mediali, fra opera e performance. In questa prospettiva l’immersione
dei concetti e dei temi nel divenire storico si espande e si adatta alle
nuove configurazioni testuali dell’età digitale in cui stiamo vivendo.
Il saggio di Marta Cariello e Serena Guarracino ripercorre dunque
la storia dei cultural studies partendo dal «marxismo senza garanzie»
di Stuart Hall, dall’opera di Raymond Williams e dal lavoro del
Centre for Contemporary Cultural Studies di Birmingham. È un
campo di ricerca che ha ridefinito il modo di fare storia della cultu-
ra abolendo i confini fra oggetti di studio, mettendo in discussione
i canoni tradizionali (e il concetto stesso di canone) e rifiutando la
separatezza della sfera estetica così come si era costituita nel corso
del Settecento. Oltre a promuovere una concezione non gerarchica

289
Barbara Carnevali, Paolo D’Angelo, Massimo Fusillo, Guido Mazzoni

e contestualistica delle opere e delle idee, i cultural studies hanno


anche permesso di tornare a una nozione ampia di studi letterari
riattivando, in un’altra epoca e in un altro contesto, l’idea antica di
litteratura come territorio largo che oltrepassa i confini delle belles
lettres, della letteratura di invenzione.
I temi letterari, come del resto le idee, non viaggiano però solo
attraverso la parola scritta, ma anche attraverso le rappresentazioni,
e in particolare le immagini; lo studio delle immagini, che ha cono-
sciuto un enorme ampliamento di campo nell’ultimo cinquantennio,
e una grande effervescenza di metodi e di approcci, è diventato un
ambito sempre meno trascurabile da parte della storia delle idee. Dei
fermenti in questo settore dà conto il saggio di Andrea Pinotti, che
parte dalla esplosione dei visual studies negli anni Ottanta e Novanta
del Novecento, che ha comportato uno spostamento di attenzione
dalle immagini della storia dell’arte alla proliferazione di immagini
di qualsiasi tenore e su qualsiasi supporto, per soffermarsi sulle
innovazioni metodologiche apportate da un lato dalla Image Science
americana (in particolare da W.J.T. Mitchell), e dalla Bildwissenschaft
tedesca di Hans Belting, Gottfried Boehm, e Horst Bredekamp. Lo
studio delle immagini, dei dispositivi e delle forme di percezione e di
sguardo storicamente situate ridefinisce necessariamente il problema
della produzione alto/basso, e allo stesso tempo pone il problema del
ruolo esercitato dai «media», ossia delle trasformazioni tecnologiche,
prima tra tutte il digitale, che non solo costituiscono l’apriori del
nostro orizzonte esperienziale, ma che trasformano in modo rilevante
le stesse metodologie della storia delle idee.
La seconda grande svolta con cui la storia delle idee non po-
teva non fare i conti è dunque quella quantitativa, che rimette in
discussione la frontiera tra le «due» o «tre culture», tra i metodi
qualitativi ed ermeneutici caratteristici delle discipline umanistiche e
l’approccio modellizzante e matematico delle scienze naturali e socia-
li. La rivoluzione metodologica prodotta dai Visual Cultural Studies
è stata seguita da un’innovazione potenzialmente altrettanto radicale,
rappresentata dalla digitalizzazione delle immagini, con la correlativa
costituzione di enormi data base di immagini digitalizzate, nonché
dalla possibilità di riconoscimento automatico delle immagini e ri-
chiesta di immagini similari disponibili attraverso i più diffusi motori
di ricerca. Giustamente Pinotti, utilizzando una distinzione introdotta
da Johanna Drucker, richiama però l’attenzione sul fatto che non si
possono mettere sullo stesso piano la digitized art history, cioè la
semplice costituzione di corpora di immagini digitalizzate e la vera e
propria digital art history, cioè l’uso di tecniche computazionali ai fini
di un’analisi degli oggetti artistici. Se ci si muove in questa seconda
direzione, è impossibile non dare spazio anche a riflessioni critiche
sul processo stesso di digitalizzazione di immagini nate con altre

290
La storia delle idee: cento di questi anni?

tecniche e su altri supporti, che costituisce di per sé una rimediazio-


ne che può comportare perdite informative anche rilevanti (si pensi
al caso della trasposizione digitale di dipinti su tela o affreschi) o,
ancor più, sul fatto che i problemi teorici rischiano spesso di essere
schiacciati sotto il peso dei dati, comportando l’assunzione acritica di
concetti estetici tradizionali, o di periodizzazioni consuete e consunte
che, dati per scontati, non possono che essere confermati da analisi
quantitative su larga scala.
Alle tecniche di distant viewing nel campo della storia dell’arte
corrispondono, anche terminologicamente, le tecniche di distant rea-
ding analizzate qui, rispettivamente, nella loro applicazione su corpora
filosofici (nell’articolo di Guido Bonino, Enrico Pasini e Paolo Tri-
podi) e su quelli letterari (nel pezzo conclusivo di Franco Moretti).
Nel primo campo emergono in particolare gli studi riconducibili
alla analisi distribuzionale dei concetti sviluppati da Peter De Bolla
e di computational history of ideas elaborati da Arianna Betti, che
si rifà esplicitamente all’impostazione di Lovejoy. Con l’impiego di
tecniche per il text mining su corpora testuali molto grandi è possi-
bile far emergere indicazioni, per esempio, sulle tendenze di volta in
volta dominanti nell’ambito della filosofia della scienza (attraverso lo
spoglio elettronico di decine di annate del «Journal of Philosophy
of Science»), o sulla ridotta presenza di Wittgenstein nella filosofia
nordamericana degli ultimi decenni (attraverso lo studio delle tesi di
dottorato sul filosofo incrociato con quello della progressione acca-
demica dei loro estensori).
Il saggio di Franco Moretti chiude simbolicamente il numero,
ritornando sull’esperienza dell’elaborazione del distant reading che
dagli studi letterari è diventato un modello per gli altri campi della
storia delle idee e della cultura. Negli ultimi due decenni, Moretti
ha infatti cercato di applicare i metodi quantitativi resi possibili dalla
rivoluzione digitale. Già alla fine degli anni Novanta, occupandosi di
world literature, aveva discusso i metodi e i limiti delle storie lette-
rarie tradizionali, quelle che lavorano su un corpus ristretto di testi
canonici sulla cui origine e selezione non riflettono, o non riflettono
fino in fondo, secondo un modo di procedere che discende diretta-
mente o indirettamente dallo storicismo romantico, e che rinvia al
presupposto implicito secondo il quale le opere entrate nei canoni
hanno ipso facto un valore rappresentativo ed epocale.
Negli ultimi cinquant’anni la critica al concetto di canone è di-
ventata una costante della teoria letteraria ed è stata sviluppata, in
direzioni molto diverse fra loro, dal poststrutturalismo (ritroviamo
l’arcipelago degli studies: cultural, gender, postcolonial, etc.) e dalla
sociologia della cultura che si richiama a Pierre Bourdieu (Pascale
Casanova, Gisèle Sapiro). L’approccio di Moretti risponde alla stessa
esigenza ma lo fa in modo differente, ispirandosi ai metodi delle

291
Barbara Carnevali, Paolo D’Angelo, Massimo Fusillo, Guido Mazzoni

scienze naturali e mobilitando la statistica applicata ai big data. Que-


sta svolta quantitativa, che trae spunto da Braudel e dalla scuola del-
le Annales, riflette sul peso che la demografia ha nello sviluppo dei
fenomeni culturali. Fra il 2000 e il 2016 Moretti ha insegnato a Stan-
ford, capitale mondiale della ricerca informatica, e lì ha impiantato
un centro dedicato allo studio statistico della letteratura, lo Stanford
Literary Lab, che fra il 2011 e il 2018 ha pubblicato una serie di
Pamphlets sperimentali. Il primo, sotto certi aspetti programmatico,
si intitola Quantitative Formalism e studia la possibilità di identificare
il genere letterario di un testo narrativo (Bildungsroman, romanzo
gotico, etc.) senza la mediazione del giudizio soggettivo, basandosi
solo su algoritmi. Altre ricerche del Literary Lab studiano in termini
quantitativi il mutamento delle strutture interne dei romanzi di lingua
inglese fra Settecento e Ottocento (la partizione in capitoli, il rap-
porto fra narrazione e dialogo); altre ancora studiano il mutamento
dei canoni letterari attraverso dati statistici. È un tentativo di portare
avanti con altri mezzi la ricerca morfologica che nel Novecento il
formalismo russo, la Stilkritik o lo strutturalismo avevano perseguito
in modo intuitivo e artigianale, e al tempo stesso un tentativo di dare
una base empirica alle ricerche di sociologia della letteratura.

*
Quelle che abbiamo presentato brevemente sono alcune delle
prospettive più interessanti che si aprono o restano ancora aperte
nel momento di stilare il bilancio di un secolo di studi. Ovviamente,
gli articoli che compongono il numero non esauriscono il paesaggio
della ricerca contemporanea. La nostra ambizione è solo quella di
presentare alcune delle sfide e dei problemi, tematici e metodologici,
con cui la storia delle idee deve necessariamente confrontarsi se vuole
ridefinirsi criticamente restando fedele allo spirito, più che alla lette-
ra, dei suoi fondatori. Due imperativi restano ai nostri occhi sempre
validi: colmare il solco tra discipline umanistiche e scienze naturali, e
lavorare al crocevia tra campi del sapere costituiti, smantellando false
frontiere e aprendo sempre nuove intersezioni. E questo è certamente
il programma più appassionante per una storia delle idee che perduri
dopo la storia delle idee.

Barbara Carnevali, École des Hautes Études en Sciences Sociales, CESPRA, 2


Cours des humanités, F-93322 Aubervilliers cedex, barbara.carnevali@ehess.fr

Paolo D’Angelo, Dipartimento di Filosofia, Comunicazione e Spettacolo, Univer-


sità di Roma Tre, Via Ostiense, Via Ostiense 234, I-00146 Roma, paolo.dangelo@
uniroma3.it

292
La storia delle idee: cento di questi anni?

Massimo Fusillo, Dipartimento di Scienze Umane, Università dell’Aquila, Palazzo


Camponeschi, piazza Santa Margherita 2, I-67100 L’Aquila, massimo.fusillo@univaq.it

Guido Mazzoni, Dipartimento di filologia e critica delle letterature antiche e


moderne, Università di Siena, Palazzo San Niccolò, Via Roma 56, I-53100 Siena,
guido.mazzoni@unisi.it

293

Potrebbero piacerti anche