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LEZIONI
U. D. 1
Seneca: il pensiero filosofico
Motivazione e obiettivi
Contenuti
I testi filosofici latini più interessanti sono quelli di Cicerone, di Seneca e di Quintiliano.
Cicerone si dedica alle opere filosofiche durante il suo forzato distacco dalla politica, perché cerca,
come egli stesso dichiara, nella filosofia quella saggezza, quella medicina per l’anima, che le
amarezze e i dolori di quel periodo gli richiedono. Non gli interessa, perciò, la speculazione
filosofica in sé, ma la sua funzione pragmatica di sostegno al vivere quotidiano. È
fondamentalmente la concezione dell’humanitas del Circolo degli Scipioni che Cicerone fa sua e
arricchisce di straordinaria efficacia, ampliandone la portata fino a farla conciliare con l’impegno
per lo Stato. La struttura dei testi, pertanto, seguendo la forma dialogica di tipo platonico-
aristotelico, in alcune opere prevede il contrasto tra il personaggio principale, che espone la tesi
dell’autore, e altri personaggi che esprimono tesi contrarie; in altre, come nelle Tusculanae, il
dialogo è limitato a due personaggi: l’auditor, che apprende, ponendo solo poche obiezioni o
domande; il magister, che educa, spiega e illustra la tesi. Lo stile, come egli spiega nel Brutus (322),
è ben diverso da quello dell’oratoria, dal momento che lo scopo è solo docere e delectare, non
probare. La lingua dei filosofi, dice, neque nervos neque aculeos oratorios ac forenses habet poiché
l’intento è quello di sedare animos, non incitare. Perciò mollis est oratio philosophorum et
umbratilis… nihil iratum habet, nihil invidum, nihil atrox, nihil miserabile, nihil astutum… sermo
potius quam oratio dicitur. Nonostante queste dichiarazioni, il livello stilistico dei testi ciceroniani è
molto alto. Il lessico si allarga a comprendere grecismi e neologismi del campo filosofico, come già
aveva fatto Lucrezio, ma la vera novità consiste, soprattutto, nell’estensione di significato
attribuibile al lessema consueto: le forme visum-videri, ad esempio, sostituiscono al comune
significato di ‘vedere’ quello di ‘percezione’ e ‘percepire’, pensiero, cioè, che nasce dalla ‘cosa
vista’. La sintassi, quando è in un contesto esplicativo, per dare chiarezza, è semplice, ricca di
coordinate; quando, invece, c’è l’esordio (momento solenne) o qualche digressione topica (ad
esempio l’elogio della filosofia in Tusculanae 5. 2. 5), si distende in ampie volute, con prevalenza
dell’ipotassi. Così pure, quando deve sostenere una tesi filosofica o confutare quella altrui, Cicerone
usa per la probatio e la refutatio le stesse tecniche argomentative delle orazioni.
Seneca nelle opere filosofiche non adopera più il dialogo, perché si rivolge direttamente al
suo destinatario (Lucilio, Paolino ecc.) il quale, in realtà, rappresenta il lettore ideale, cioè ogni
uomo, che egli vuole trascinare, commuovere, coinvolgere, grazie alla passione delle
argomentazioni. È evidente, perciò, la profonda diversità da Cicerone: la filosofia senecana non
propone un pacato ragionamento, chiede solo l’ascolto. È la forza della verità che deve travolgere la
coscienza; occorre flectere, movere, non più delectare per docere. Lo stile riflette, in modo vistoso,
questa disposizione ideologica e così, ad un procedimento sintattico ampio e sinuoso, subentra,
improvviso, spezzando il ritmo del discorso, la sententia, la frase brevissima, secca come
un’epigrafe, balenante come un’illuminazione improvvisa. La paratassi e l’asindeto rafforzano
questo effetto desultorio dello stile: i connettivi soliti (enim, igitur, et) vengono eliminati e sostituiti
da nessi anaforici (servi sunt, immo homines, immo contubernales ecc.). È come se il linguaggio
subisse una sorta di climax per accumulazioni ed aggiunte progressive, finché non giunge alla forza
e all’evidenza della frase conclusiva, che diventa una sorta di aprosdoketon (battuta finale). È
chiaro che tutti gli strumenti della retorica, dalla concinnitas alla variatio, dalle figure retoriche alla
modulazione fonico-tonale, contribuiscono a creare la particolarità di quello stile affascinante e
fratto (abruptum) che Quintiliano (Institutio oratoria 2. 7. 10) tanto criticava: rerum pondera
minutissimis sententiis…fregisset.
Alcuni critici hanno rilevato come proprio questo stile teso, nervoso, inquieto, rifletta
perfettamente l’irrazionalità e le passioni che assalgono ogni uomo, facendogli combattere una
dolorosa e tragica lotta interiore. L’uso del lessico, in particolare, così mutevole nell’oscillazione tra
l’antico e il quotidiano, diventa molto significativo per far cogliere questa lacerazione interiore: da
un lato, note espressioni del parlato sono disseminate ampiamente nel testo (per esempio: ita dico,
non est quod, quid dicam?), come se quel che si dice fosse diretto all’uomo semplice, dall’altro lato
la paronomasia, la metafora ardita, la litote, il lessico pregnante e così via, indicano il riflesso di un
pensiero alto e nobile, quale quello stoico, non accessibile a tutti. Ognuno, dunque - sembra
teoricamente dire il lessico - è chiamato alla grandezza del messaggio, ma, in pratica, l’uomo
singolo, nella sua realtà, si rivela debole a perseguirlo. Seneca, così, come scrive Alfonso Traina,
crea il «linguaggio dell’interiorità» attraverso due metafore: l’interiorità come possesso e
l’interiorità come rifugio.
Nell’Institutio oratoria Quintiliano si propone di dare precetti pedagogici avendo come
modello ideale di oratore il vir bonus dicendi peritus, come diceva Catone, e come modello di stile
la scrittura ciceroniana. Ma questa venerazione per il grande maestro, nonostante le sue intenzioni,
non si traduce in uno stile identico a quello di Cicerone.
La perfetta struttura geometrica creata dalla concinnitas classica spesso si spezza, per dar
luogo a piccole coordinate, all’ellissi del verbo, al periodo breve ad effetto, alla costruzione ad
sensum, tutti elementi stilistici, questi, che ricordano lo stile senecano da lui, invece, criticato. L’uso
di accorgimenti retorici, come le antitesi e le anafore, gli omoteleuti e i poliptoti, dimostrano una
grande cura per la forma, la quale, tuttavia, non diventa artificiosa, pedante, vuota, perché è sempre
sorretta da un convinto e appassionato intento educativo. Egli è, e resta, un maestro che crede nella
forza della sua missione sui giovani e nella possibilità di insegnar loro nel modo migliore. Di qui,
perciò, anche l’estrema semplicità e chiarezza delle sue argomentazioni, sorrette dalla sua
esperienza e dalla sua serietà di educatore.
Lettura ed analisi morfo-linguistica di Sen. brev. 4–5. All’interno del dialogo De brevitate
vitae, Seneca aveva svolto una vera e propria requisitoria contro il negotium, ovvero quell’insieme
di attività pubbliche e politiche che venivano viste come indispensabili per un buon cittadino
romano. In controtendenza col resto della società, il filosofo afferma in quest’opera il primato
dell’otium, dal momento che solo nel tempo libero l’uomo si può dedicare alla filosofia, e solo nella
filosofia si trova il coronamento della vita umana e la possibilità di diventare simili agli dei. Per
questo motivo all’interno del De brevitate vitae quanti si dedicano ossessivamente al negotium
vengono chiamati in maniera quasi spregiativa occupati; ed è proprio a un occupatus, il cavaliere
Paolino, che è rivolta tutta quanta l’opera. Quale miglior modo per convincere questi occupati della
grandezza del loro errore che mostrare l’esempio di due uomini che possono essere considerati
come i più occupati tra gli occupati, ovvero l’imperatore Augusto e il retore Cicerone?
Con una tecnica retorica incalzante, composta da frequenti elencazioni, poste in climax e
rese ancor più incisive da citazioni dirette delle opere dei due celebri uomini, Seneca riesce a
dimostrare che la vita di entrambi, pur lodata e invidiata da molti, era stata in realtà una sorta di
incubo a occhi aperti. Tutti e due erano infatti stati incalzati dagli impegni ufficiali, erano stati
assediati da nemici terribili e implacabili, derubati ogni giorno del tempo vitale. In questa situazione
angosciante, l’imperatore Augusto finisce necessariamente per desiderare l’otium più di ogni altra
cosa, invocandolo addirittura nelle lettere ufficiali. Come per contrasto, dopo la descrizione
dell’angosciosa vita di Augusto, Seneca si concede un veloce riassunto della vita di Cicerone. Il
retore, dopo aver raggiunto forzatamente l’otium in seguito alla vittoria di Cesare, si lamentò di
essere ‘semilibero’. Questa frase viene usata come uno strumento per criticare il celebre retore, che
pure in quel periodo si era interessato alla filosofia stoica e aveva scritto alcuni dei saggi filosofici
più celebri nella letteratura latina. Secondo Seneca, infatti, un vero saggio non si sarebbe mai
lamentato di essere semilibero, dal momento che - secondo uno dei più celebri paradossi stoici - un
uomo che segue pienamente la filosofia è libero in qualunque situazione si trovi. L’utilizzo di
esempi tratti dalla storia era del resto tipico della diatriba popolare di tradizione cinico-stoica, di cui
Seneca si serve spesso come modello per la composizione dei suoi dialoghi.
Lettura ed analisi morfo-linguistica di Sen. ep. 41. Rivolgendosi a Lucilio, Seneca sviluppa
un concetto tradizionale della teologia stoica: lo spirito divino vive dentro di noi, appartiene alla
nostra interiorità. Seneca non parla naturalmente di un dio personale trascendente (come accadrà più
di tre secoli dopo nel pensiero agostiniano) ma di un Logos immanente all'universo, un principio di
natura razionale che governa gli eventi del mondo: ogni uomo è Dio per sé stesso, purché viva
secondo ragione e secondo natura.
La forza e l'originalità del brano non consiste dunque nel pensiero espresso, ma
nell'atmosfera di intima commozione e di intensa suggestione che lo pervade. Il lettore viene
avvicinato alla verità per onde successive, attraverso un movimento concentrico che lo porta
lentamente al cuore del discorso: prope est a te deus, tecum est, intus est. Il concetto viene poi
ribadito mediante nuove espressioni di natura perlopiù metaforica: lo spirito divino intra nos...
sedet; habitat; subibit. La stessa citazione virgiliana (Aen. 8. 352) serve a sfumare il discorso, a
conferirgli una nota di misterioso colore. L'autore ricorre inoltre ad exempla tratti dal mondo
naturale: un bosco sacro e ombroso; una voragine scavata nella montagna; le sorgenti dei fiumi che
erompono dal profondo; il colore cupo dei laghi. Ora il concetto non viene più soltanto enunciato,
ma animato mediante immagini di grande forza visiva, che lasciano un’incancellabile impressione
nel lettore. La figura del sapiente stoico risulta così illuminata e resa più viva dalle immagini che
l'hanno preparata: il sublime naturale si è sovrapposto al sublime dell'anima, potenziandolo.
Lettura ed analisi morfo-linguistica di Sen. ep. 47. L'epistola 47, interamente dedicata al
problema della schiavitù, è una delle più famose di Seneca. Felicitandosi con l'amico Lucilio, che
adotta un atteggiamento umano e familiare con i propri schiavi, l'autore confuta una dopo l'altra le
eventuali obiezioni da parte di padroni più tradizionali e gelosi dei propri privilegi. A parte il
capriccio del caso, sostiene il filosofo, tra liberi e schiavi non vi è alcuna differenza: anche i secondi
sono esseri come noi, respirano la stessa aria, vivono, muoiono come tutti gli altri. Vanno perciò
trattati pienamente da uomini. Il messaggio fondamentale della lettera è che non bisogna giudicare
l'uomo dalle circostanze esteriori, ma dalla sua indole. Inoltre Seneca mostra come il concetto di
schiavitù debba essere interiorizzato: si può essere schiavi delle proprie passioni o di un'altra
persona pur essendo liberi per condizione sociale; viceversa, si può avere un animo libero pur
essendo schiavi. La filosofia stoica non si soffermò mai esplicitamente sul tema della schiavitù.
Originale e meritorio appare dunque il fatto che Seneca si occupi di schiavitù in tutta la sua opera,
anche prima dell'epistola 47, con una sensibilità che spesso lo avvicina a quella del nascente
cristianesimo. Un accenno significativo del De clementia illustra l'atteggiamento del saggio verso
l'umanità, inclusi gli schiavi: "Mentre, rispetto a uno schiavo, tutto è lecito, vi sono però cose che il
diritto comune agli esseri animati proibisce di rendere lecite contro gli uomini". I capitoli 17-28 del
De beneficiis sostengono poi la tesi secondo cui non solo un uomo libero può rendere un beneficio a
uno schiavo, ma reciprocamente uno schiavo, con un beneficio, può legare a sé sul piano
dell'humanitas un uomo libero. Bisogna comunque ricordare che a Roma si era via via affermata
una tradizione di mitezza verso gli schiavi (cfr. gli esempi di Cicerone, Columella, Tiberio,
Claudio). Non mancavano ovviamente segnali in direzione opposta.
Lettura ed analisi morfo-linguistica di Sen. ep. 95. In questa lettera Seneca suddivide
l’argomentazione portante in tre parti, che corrispondono a quelli che sono i principali ambiti di
problemi che si pongono al sapiente nella sua vita:
1° il rapporto del saggio con la divinità;
2° il rapporto del saggio con gli uomini;
3° il rapporto del saggio con le cose.
1° - Il rapporto del saggio con la divinità. Quali praecepta si possono dare per il culto divino? È
necessario stabilire il decretum fondamentale sulla divinità: Primus est deorum cultus deos credere;
deinde reddere illis maiestatem suam, reddere bonitatem sine qua nulla maiestas est...Vis deos
propitiare? Bonus esto. Satis illos coluit quisquis imitatus est. Il decretum quindi è: “gli dei sono
buoni”. Di conseguenza i praecepta riguardo al culto si riassumono in questo: sii buono come sono
buoni gli dei. Questa idea dell’imitatio dei è e sarà dottrina cristiana per molti secoli. Non a caso
l’Imitatio Christi diTommaso da Kempis è stato famoso per tutto il medioevo cristiano ed oltre.
2° - Il rapporto del saggio con gli uomini. Riguardo al rapporto con gli altri uomini si potrebbero
dare infiniti praecepta ad esempio: soccorrere il naufrago, insegnare la strada agli erranti, dividere il
pane con chi ha fame (molti i confronti con la tradizione ebraico-cristiana delle opere di
misericordia corporale e spirituale). Ma tutti questi praecepta si basano sul decretum fondamentale:
Membra sumus corporis magni. Natura nos cognatos edidit... haec nobis amorem indidit mutuum et
sociabiles fecit... ex illius imperio paratae sint iuvandis manus. Ille versus et in pectore et in ore sit:
homo sum, humani nihil a me alienum puto. Se io sono convinto profondamente che ogni uomo è
mio cognatus in quanto dotato dello stesso logos che è in me, come tutti gli uomini, di conseguenza,
saprò già come dovrò comportarmi con lui senza avere bisogno di indicazioni particolari
(praecepta). Se ho interiorizzato le dottrine fondamentali, se ho trasformato il mio modo di pensare
e di giudicare, le mie azioni saranno, di conseguenza, spontaneamente buone. Seneca che posizione
tiene tra queste tesi? Egli ritiene che i praecepta abbiano una loro utilità perché ci richiamano ai
singoli casi della vita ma i praecepta hanno valore solo se sono la concretizzazione pratica dei
decreta. Facciamo un esempio tratto dalla tradizione ebraico-cristiana: “Aiuta chi ha bisogno,
perdona chi ti ha offeso, ama i nemici”. Questa è la formula classica dei praecepta. Ma perché
questi praecepta? Che fondamento hanno? Il loro fondamento sta nel decretum fondamentale: Dio è
Padre di tutti. “Avete udito quello che è stato detto: occhio per occhio dente per dente. Ma io vi
dico: se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra tu porgigli anche l’altra”. Questo è il
praeceptum. Ora viene il decretum: “Perché siete figli del Padre vostro che è nei cieli, che fa
sorgere il sole sui cattivi e sui buoni e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti”.Perciò i praecepta sono
utili perché ti ricordano, nei singoli casi della vita, cosa deve fare il sapiente, ma ogni praeceptum
deve derivare, di logica conseguenza, da un decretum. Secondo Seneca, sono importanti sia i
praecepta che i decreta, ma fondamentali sono i decreta, da cui devono derivare i praecepta.
3° - Il rapporto del saggio con le cose. L’uso sapiente delle cose. Il decretum fondamentale riguardo
a questo problema è, secondo il fondatore della Stoà, Zenone di Cizico (302 a.C.) che solo il bene
morale (che Cicerone chiama honestum, cioè azione fatta secondo ragione) è un bene. Solo il male
morale (azione fatta contro ragione, che Cicerone definisce turpe) è un male”. Seneca afferma che,
solo chi è convinto di questo, potrà agire bene e aggiunge: In supervacuum praecepta iactabimus
nisi illud praecesserit, qualem de quacumque re habere debeamus opinionem, de paupertate, de
divitiis, de gloria, de ignominia, de patria, de exilio. Aestimemus singula, fama remota, et
quaeramus quid sint non quid vocentur. E ancora: Falleris enim et pluris quaedam quam sunt
putas... divitiae, gratia, potentia sestertio nummo aestimanda sunt. Concludendo: secondo Seneca,
quindi, sono necessari per l’educazione alla sapienza sia i decreta sia i praecepta della tradizione
romana. È però indispensabile che i praecepta siano la conseguenza dei decreta: Ad verum sine
decretis non pervenitur: continent vitam.
E terminiamo con la bellissima frase tratta dal paragrafo 59: Quaemadmodum folia per se
virere non possunt, ramum desiderant cui inhaereant, ex quo trahant sucum, sic ista praecepta, si
sola sunt, marcent: infigi volunt sectae.
U. D. 2
Tacito e la Germania: la decadenza dei Romani e la ‘giovinezza’ dei
Germani
Motivazione e obiettivi
Il trattato De origine et situ Germanorum fu scritto nel 98 d.C., quando Traiano, da poco
imperatore, era impegnato sul fronte germanico; la stesura di questa monografia, come apprendiamo
da allusioni interne ad essa, è comunque sicuramente successiva a quella dell’Agricola.
L’opera, piuttosto stringata, è di impostazione etnografica e inizialmente illustra in modo
generale i luoghi, le istituzioni, gli usi e costumi dei Germani (capp. 1-27), per poi passare in
rassegna – in maniera non troppo sistematica – le singole popolazioni (capp. 28-46).
Come fonti Tacito adoperò alcune preziose informazioni sui Germani contenute nel De bello
Gallico di Cesare (libro VI), nelle Historiae di Sallustio (libro III), e soprattutto nei perduti Bella
Germaniae di Plinio il Vecchio. L’impressione è però che molte notizie siano state assunte di prima
mano dall’autore, cui venne affidato sotto Domiziano un incarico di legato forse proprio in
Germania o nella vicina Gallia. Tacito, in molte parti dell’opera, giunge a un’idealizzazione dei
Germani, che sono visti in strettissima connessione alla regione che abitano. Ciò non solo perché
l’autore ne sostiene l’autoctonia, ma anche perché l’asperità ‘nordica’ della loro terra ne condiziona
nettamente gli istituti sociali e i costumi (Germ. 4-5). I Germani, infatti, pur caratterizzati da una
complessiva rozzezza, mostrano una fierezza, un coraggio, ma anche una moralità di
comportamenti che meritano il massimo rispetto.
Questa lode delle popolazioni germaniche va tuttavia letta in chiave, per così dire,
comparativa, come una critica alla decadenza civile e morale di Roma, causata dall’instaurazione
del principato e aggravata dalla sua recente involuzione autocratica, che ha affossato del tutto le
libertà e le virtù repubblicane.
È prima di tutto utile leggere i capitoli che – composti sulla scia del metodo usato da Cesare
nel De bello Gallico – definiscono il territorio abitato dai Germani, la loro mitica origine, nonché la
loro religiosità. Tacito si sofferma inoltre a ricordare l’autoctonia di questa feroce popolazione, che
non si è mai mescolata con altre: fatto, quest’ultimo, che è stato modernamente strumentalizzato a
supporto della tesi della purezza della razza ‘ariana’. Ma l’interesse più grande per chi legge la
Germania oggi (e probabilmente anche ai tempi di Tacito) è la ricerca di una sorta di comparazione
talora palese, talora più nascosta, tra la vigorosa ‘giovinezza’ dei Germani e una certa fiacchezza e
quasi mollezza del popolo romano, che lo storico vuole senza dubbio denunciare. Ad esempio,
l’esaltazione delle virtù delle donne germaniche, fedeli e pudiche, deve essere letta come una
moralistica denuncia della corruzione delle donne romane: se «là (illic) non si ride dei vizi né il
corrompere e l’esser corrotto ha nome di moda», è chiaro che l’opposto avviene ‘qui’, cioè a Roma.
E la constatazione che con i servi i Germani non si comportano in nostrum morem, e soprattutto che
in Germania i liberti non hanno, come a Roma (ibi), «autorità anche sopra dei liberi e dei nobili»,
contiene tutta l’avversione che Tacito, esponente della nobilitas senatoria, aveva per lo strapotere
dei liberti in seno alla corte imperiale. Lo storico non vuole certo sostituire alla civiltà di Roma
modelli di vita ‘barbarici’ che egli stesso, in certi frangenti, considera più ferini che umani. Vuole
però richiamare i Romani, per quanto possibile, a riconsiderare l’importanza di un valore superiore
come la libertas, che è alla base della forza dei Germani; ma anche mettere in guardia il suo popolo
sui rischi concreti di una «rovina dell’impero» (Germ. 33), che si prospetterebbe se le varie tribù
germaniche, abbandonata la tradizionale litigiosità reciproca, decidessero di unire le loro forze
contro Roma. Tra l’altro, non bisogna dimenticare come Romani e Germani siano di fatto in guerra
da oltre duecento anni, senza che Roma – come aveva saputo fare con i pur feroci Galli o i
Cartaginesi – sia riuscita a infliggere al nemico una sconfitta davvero esemplare.
Per quanto concerne la fortuna dell’operetta, vale la pena ricordare come sia stata
modernamente tradotta da Filippo Tommaso Marinetti, padre del Futurismo: egli, infatti, ravvide
analogie con alcune ‘parole d’ordine’ futuriste sia nello stile sia nel contenuto della Germania.
Contenuti
Lettura ed analisi morfo-linguistica di Tac. Germ. 1-2. Tacito inizia la Germania sulla scia
del De bello Gallico di Cesare, cioè informando il lettore sulla collocazione geografica di questa
terra e sui suoi confini (cap. 1). Continua poi con alcune notizie di ordine etnografico (cap. 2). Fa
cenno alla presunta autoctonia dei suoi abitanti (argomento ripreso anche al capitolo 4), che
discenderebbero dall’eroe Manno, figlio di una divinità androgina chiamata Tuistone; ricorda quindi
come l’appellativo di ‘Germani’ abbia contrassegnato in un primo tempo una piccola popolazione,
quella dei Tungri, e solo dopo sia stato usato per indicare gli abitanti di un territorio tanto vasto.
La conquista e il governo della Germania, nonché il rapporto con i suoi bellicosi abitanti,
furono uno dei maggiori problemi che l’impero romano dovette affrontare nel corso della sua storia.
In realtà i Romani controllarono solo una piccola parte del territorio che Tacito descrive nella sua
monografia, per lo più dedicata ai popoli che abitavano a est del fiume Reno. Se è vero infatti che
Augusto aveva occupato – con le spedizioni di Druso – anche parte della Germania cosiddetta
‘transrenana’ (cioè oltre il Reno), la terribile imboscata che l’esercito guidato da Quintilio Varo subì
nel 9 d.C. nella Selva Ercinia ridimensionò di molto le ambizioni romane: le tre legioni
completamente distrutte costituirono infatti la sconfitta più dura subita dal princeps. Innanzi tutto la
provincia (istituita forse nel 12 a. C.) venne subito smantellata e l’area controllata dai Romani
trasformata in due distretti militari (la Germania Superior e quella Inferior), strutture meno
burocratiche e più adatte allo scarso sviluppo civile delle tribù germaniche. L’area fu
massicciamente difesa da contingenti legionari (si giunse fino al numero, altissimo, di otto legioni),
e i responsabili dei due quartieri generali sul fiume Reno, cioè Vetera (presso l’odierna Birten) e
Magontiacum (oggi Mainz), con il rango di legati legionis, furono veri e propri governatori dei due
distretti; l’amministrazione civile era invece demandata al governatore della vicina Gallia Belgica.
Nell’età dei Flavi la situazione si fece un po’ più tranquilla e Domiziano – dopo avere creato
una sorta di territorio ‘cuscinetto’ tra i domini romani e le terre dei Germani, gli Agri decumates –
ricostituì intorno al 90 d. C. un’organizzazione provinciale, con le due province di Germania
Superior (lungo l’alto corso del Reno, in direzione mitteleuropea) e Inferior (lungo il basso corso
del Reno, verso il mare del Nord). Quando Tacito (nel 98 d.C.) scriveva la Germania, Traiano,
fresco di nomina imperiale, rivestiva ancora l’importante funzione di legatus Augusti Germaniae
Superioris, e restò in loco (cioè nell’area tra Reno e Danubio) almeno fino all’estate del 99 d. C. E
se l’anziano Nerva aveva inviato là proprio l’erede designato, significa che l’organizzazione e
fortificazione della difesa di quello che i Romani chiamavano il limes (il ‘confine’) per eccellenza,
lungo l’asse renano-danubiano, era considerata operazione della massima delicatezza e fiducia.
Oltre, infatti, risiedevano quelle genti ‘barbare’ (Batavi, Catti, Usipeti, Tencteri, Cherusci, Cimbri,
Svevi, Longobardi, Marcomanni ecc.), delle quali Tacito loda la forza militare (già esaltata da
Cesare nel VI libro del De bello Gallico) e l’integrità morale. E non sarà dunque un caso che, nei
secoli successivi, i colpi più forti all’impero d’Occidente derivino dalle incursioni delle popolazioni
di origine germanica, durante quelle che, con una formula consueta, vengono dette le ‘invasioni
barbariche’.
Lezione 2. I Germani sono come la loro terra
Lettura ed analisi morfo-linguistica di Tac. Germ. 4-5. Tacito sostiene qui l’autoctonia delle
popolazioni germaniche, considerate «una razza distinta, pura, eguale solamente a se stessa».
Quest’affermazione è stata strumentalizzata, in tempi moderni, dall’ideologia nazista, con l’intento
di costruire il mito della purezza e superiorità della razza ariana («un mito-chiave nel bagaglio
ideale del nazismo», secondo lo studioso Luciano Canfora) e giustificare la ‘pulizia etnica’ a danno
degli ebrei e di chiunque altro l’avesse contaminata. Che tale interpretazione ‘razzista’ fosse del
tutto estranea al pensiero di un romano come Tacito lo dimostra anzitutto la costante fusione,
nell’ambito dell’impero, di etnie, culture, religioni diverse. Inoltre la ‘purezza’ è solo uno dei fattori
della forza dei Germani, ai quali lo storico attribuisce soprattutto un’affinità con la terra dove
risiedono: il clima rigido e l’aridità del suolo hanno infatti reso questo popolo vigoroso e resistente
al freddo e alla fame, ma vulnerabile al caldo. Una forza che si basi più su fattori ‘esterni’ (come la
natura del terreno) che non su fattori ‘interni’ (come la purezza del sangue) non può dunque in alcun
modo legittimare un’idea di intrinseca superiorità di una razza sulle altre. Tacito insiste poi sul
disinteresse dei Germani per il denaro e le ricchezze, fenomeno che – al pari della pudicizia delle
loro donne – egli sembra contrapporre moralisticamente al degrado etico del popolo romano.
Lo studioso Eduard Norden, nel volume La Preistoria tedesca nella Germania di Tacito,
pubblicato nel 1920 dopo una lunga gestazione, dimostrò come i capitoli 2 e 4 della Germania
tacitiana siano confrontabili con il capitolo 19 di un testo greco attribuito al medico greco Ippocrate
(v sec. a.C.), intitolato Sulle acque, le arie, i luoghi. In esso si sviluppava il tema dell’autoctonia di
alcune popolazioni (come gli Egiziani e gli Sciti) in forme assai simili a quelle con cui Tacito
sostiene l’autoctonia e la purezza dei Germani: sia Ippocrate sia Tacito, dunque, utilizzerebbero
degli stereotipi (dal Norden chiamati «motivi itineranti») cari al mondo antico (ad esempio
l’identità tra il carattere di un popolo e la natura della propria terra), pertanto non è necessario
pensare alla interdipendenza dei due autori, che desumerebbero questi «motivi itineranti» da fonti
diverse. Se così fosse – ed è assai probabile che lo sia – cadrebbero molte delle congetture originate
da una lettura (spesso forzata, senza dubbio strumentalizzata) di quei capitoli: se infatti per parlare
dei Germani Tacito fa uso degli stessi topoi usati altrove per altri popoli, dove starebbe tutta
l’esaltazione della specificità dell’autoctonia e della purezza germanica che qualcuno ha voluto
leggere nelle sue parole?
In effetti, più o meno in quegli stessi anni, lo storico della razza inglese (che scriveva in
tedesco) Stewart Houston Chamberlain, nel suo Le Basi del diciannovesimo secolo (edito nel 1899
ma ripubblicato nel 1932), era giunto a emendare il testo tacitiano pur di rafforzarne una lettura in
chiave per così dire ‘razzista’; se infatti in Germ. 4, invece che Unde habitus quoque corporum,
tamquam in tanto hominum numero, idem omnibus, si legge ...quamquam in tanto hominum
numero, il senso muta sensibilmente. Passare da «Onde l’aspetto fisico è in tutti lo stesso, per
quanto è possibile in così grande numero di uomini» (col significato limitativo di tamquam) a
«benché in un così grande numero di uomini», contribuisce a togliere qualunque attenuazione
all’espressione: i Germani – tanti, tutti – sarebbero pertanto connotati da un unico aspetto fisico, in
virtù dell’autoctonia e della purezza che li caratterizza.
Inutile dire come questa lettura fosse del tutto congeniale alle ideologie razziste e
pantedesche che contribuivano in quegli anni a creare il mito della purezza della ‘razza ariana’, uno
dei temi dominanti dell’ideologia nazista, o meglio «un mito-chiave nel bagaglio ideale del
nazismo», come ha bene scritto lo studioso Luciano Canfora, autore di un importante studio proprio
sulla strumentalizzazione dello scritto tacitiano (L. CANFORA, La Germania di Tacito da Engels al
nazismo, Napoli 1979), dal quale provengono molte delle considerazioni qui proposte.
Insomma, Tacito non voleva e – da buon romano – non poteva fare dell’autoctonia e della
purezza germanica un elemento di esaltazione assoluta. Sapeva bene, perché gli bastava guardarsi
intorno, che Roma aveva costruito la sua forza proprio dalla fusione di etnie, lingue e religioni
diverse, che si erano riconosciute sotto un’unica autorità politica. E se ora la grande e civile Roma
vacillava e i barbarici Germani erano invece nel pieno del loro vigore, ciò non dipendeva dalla
‘purezza’ di questi ultimi contrapposta al melting-pot romano; ma dal logoramento morale,
economico, politico e soprattutto militare che era stato procurato ai Romani dalla plurisecolare
gestione di un immenso, sconfinato potere.
Lettura ed analisi morfo-linguistica di Tac. Germ. 9. Nei suoi Commentarii de bello Gallico
(6. 21) Cesare aveva parlato della religiosità dei Germani, ai quali aveva però attribuito generiche
forme di devozione ‘naturalistica’ (verso il Sole, il Vulcano, la Luna ecc.); solo ai più ‘evoluti’ Galli
– oggetto della sua conquista – il futuro dictator aveva invece riservato il culto di specifiche
divinità, chiamate tra l’altro con nomi romani (Mercurio, Marte, Giove, Apollo ecc.). Questa ricerca
di corrispondenza tra divinità barbariche e romane (definita con il termine interpretatio) viene
estesa dal più informato Tacito anche ai Germani, del cui mondo religioso ci dà un quadro piuttosto
articolato. Da un lato, infatti, essi venerano dèi in qualche modo omologabili a quelli romani, in
primis Mercurio (Tacito allude al dio germanico Wodan, che, oltre ad alcune caratteristiche più
propriamente guerriere e sanguinarie, assume su di sé delle prerogative - l’invenzione della
scrittura, la protezione dei commercianti, la guida delle anime nell’Aldilà - che il mondo greco-
romano aveva attribuito a Hermes-Mercurio) e addirittura una divinità esotica come l’egiziana
Iside; dall’altro lato, però, non disdegnano i sacrifici umani (caratteristica comune a molte società
antiche, di cui Cesare aveva parlato anche a proposito dei Galli) e rifiutano l’idea di erigere templi e
statue antropomorfe. Ancora una volta ne emerge l’immagine composita di una gente in bilico tra
l’apertura alla ‘civiltà’ e la gelosa (e per certi versi ‘sana’) custodia della loro barbaries.
Lettura ed analisi morfo-linguistica di Tac. Germ. 18-19. La solidità dei matrimoni presso i
Germani è dovuta in larga parte alla virtù della donna, che partecipa «allo spirito eroico e alle cure
della guerra», e «viene ammonita già dai primi anni del matrimonio a sentirsi compagna delle
fatiche e dei pericoli che dovrà sopportare e osare in pace e guerra» (18. 3). Le donne germaniche,
inoltre, sono estremamente pudiche, anche perché «non corrotte da spettacoli seducenti né da
conviti eleganti» (19. 1), e pertanto gli adulteri sono rarissimi e duramente puniti. Vi è nel moralista
Tacito una vena di ammirazione per questa condizione in cui versano popoli che sono sì barbarici
ma, per certi aspetti, migliori della sua Roma raffinata e corrotta, dove invece, come dirà in
Historiae 1. 2, trionfano i magna adulteria. Ancora una volta, dunque, parlare della Germania
diventa un modo per parlare di Roma e per castigarne indirettamente i mores decaduti, anche perché
lo storico afferma che «valgono più là i buoni costumi che altrove le buone leggi».
Dal punto di vista contenutistico, la lunga elencazione delle virtù morali dei Germani
sembra costruita per denunciare, in antitesi a queste, la corruzione di Roma. Lo conferma l’uso di
avverbi di luogo (illic, ibi) che indicano la terra dei Germani, cui si contrappone, al termine del
capitolo 19, alibi, cioè ‘altrove’. Ma non è un altrove generico, e il lettore del tempo lo interpretava
sicuramente nel modo giusto, in quanto la sententia finale (plusque ibi boni mores valent quam alibi
bonae leges) contiene un preciso riferimento alla legislazione augustea a difesa dei matrimoni. Con
tale affermazione lo storico sembrerebbe contrapporre mos e ius, due valori che la tradizione
romana ha sempre cercato di mantenere uniti. In realtà non sarebbe corretto pensare a un Tacito che,
in assoluto, preferisca i boni mores barbarici alle bonae leges romane, anche se regolarmente
violate: ciò non sarebbe infatti confacente a un uomo della sua posizione e della sua cultura.
Semplicemente egli vagheggia quella identità tra le leggi dello Stato e il mos maiorum che per
secoli è stata uno degli elementi di forza della res publica.
La Germania mostra una ricercatezza formale e talora un gusto un po’ manieristico, per
qualche verso vicino al barocchismo di Seneca. Ciò si manifesta soprattutto attraverso l’abbondante
uso di figure retoriche, particolarmente evidente al capitolo 18. Il più maturo Tacito delle Historiae
e degli Annales non abbandona del tutto questi artifici: il loro inserimento in un contesto stilistico
più decisamente connotato dalla irregolarità sintattica (inconcinnitas) e dalla concisione espressiva
(brevitas) li fa apparire però un po’ meno fini a se stessi e maggiormente subordinati al contenuto
della materia trattata.
Per quanto concerne il lessico è bene rifarsi a quanto già prima detto a proposito delle
espressioni boni mores e bonae leges. E se l’uso di quei termini altisonanti mira a enfatizzare lo
scarto tra la ‘decadenza’ romana e la ‘moralità’ germanica, nella medesima direzione va il ripetuto
utilizzo del termine pudicitia (uno dei cardini del mos maiorum ‘al femminile’) per indicare
l’atteggiamento delle donne germaniche, e non più di quelle romane. Sono infatti lontani i tempi
della Roma più antica, quando Lucrezia – moglie di Collatino violentata da Sesto Tarquinio – prima
di suicidarsi diceva: quid enim salvi est mulieri amissa pudicitia? (Liv. 1. 58. 7).
Lettura ed analisi morfo-linguistica di Tac. Germ. 25. Anche nel ruolo sociale di schiavi e
liberti Tacito sembra ammirare le consuetudini dei Germani, proponendo un confronto con i corrotti
costumi romani del suo tempo. I barbari, infatti, praticavano un colonato, dove i servi erano una
sorta di ‘servi della gleba’, tenuti a fornire ai padroni frumento, bestiame oppure il frutto delle loro
manifatture (tale istituto si affermò a Roma soprattutto in epoca tardo-imperiale, mostrando però
una sostanziale differenza rispetto a quanto Tacito ci dice dei Germani. Il colono romano, infatti, per
quanto vessato dal latifondista e vincolato in ogni modo alla terra di costui, restava per sempre un
uomo libero; il servo germanico, invece, viveva a tutti gli effetti una condizione giuridica di
schiavitù). Ad ogni modo, Tacito sottolinea la diversità di trattamento degli schiavi da parte dei
Germani rispetto a quanto avveniva a Roma, dove gli schiavi erano spesso fustigati e condannati ai
lavori forzati. E quand’essi fossero divenuti liberti, restavano pur sempre ai margini della società,
non come a Roma, dove ormai la loro importanza sembrava superare quella degli uomini liberi e dei
nobili (et super ingenuos et super nobiles ascendunt): Tacito contrappone la situazione dei liberti fra
i Germani a quella di Roma, criticando implicitamente il fatto che a Roma, a partire dall’imperatore
Claudio, i liberti imperiali avessero assunto un ruolo assai rilevante. L’aristocratico Tacito è infatti
convinto che lo stato di inferiorità in cui sono tenuti i liberti germanici sia «prova di libertà».
Motivazione e obiettivi
Di questo misterioso scrittore, di cui conosciamo - supponendo si tratti della stessa persona -
solo le notizie che ci dà Tacito (ann. 16. 18-19), il quale lo descrive come un personaggio
eccentrico, un esteta, un decadente ante litteram, ci resta un’unica opera, il romanzo Satyricon.
All’eleganza, alla raffinatezza sofisticata e trasgressiva dell’autore (dormiva di giorno, stava sveglio
di notte, consigliava Nerone nelle sue scelte estetiche, giocò con la morte aprendosi e chiudendosi
le vene, quando ricevette l’ordine del suicidio), fanno da contrasto inquietante la volgarità
grossolana e l’oscenità dei comportamenti delle figure del romanzo. Nel Satyricon tutto quello che è
materia del racconto diventa il rovesciamento completo dei modelli culturali ‘alti’: alla coppia di
innamorati si sostituisce la coppia di omosessuali con il loro viaggio per mare (altro topos, si pensi
ad Ulisse), con le loro avventure erotiche ed i loro incontri straordinari; ai valori tipicamente romani
della pudicitia, dell’honestum, della modestia, della parsimonia, si sostituiscono la libido, l’avaritia,
la gula, in un’orgia continua di sesso e di piacere, con la Coena del liberto arricchito Trimalchione,
che rappresenta il culmine della volgare ostentazione di ricchezza e di cibo, fino alla città degli
heredipetae, Crotone, in cui sesso e morte, impotenza e cannibalismo, si intrecciano fittamente.
Eppure l’arte del narrare in Petronio è così alta che le vicende scorrono sotto gli occhi del
lettore senza un attimo di sosta, con una tecnica ‘a schidionata’ che ‘infila’ un episodio sull’altro,
con una specie di procedimento circolare, per cui si ha l’impressione di un percorso labirintico.
Anche se lo scrittore è distante da queste vicende, che fa narrare in prima persona al protagonista
Encolpio, attraverso il crudo realismo delle storie si avverte come un’elegante ironia. Traspare,
quindi, un disprezzo sottile per questo mondo grossolano, brutto, di liberti e di esseri senza più
valori, né etici né, soprattutto, estetici. Il continuo riferimento parodistico alla letteratura alta, a
Omero, a Virgilio, a Seneca specialmente, ci dice che Petronio non crede più nel messaggio di cui
quegli autori si facevano portatori, e, pertanto, ne addita al lettore l’inutilità, senza esprimere
assolutamente alcun giudizio morale sull’irrimediabile e irreversibile decadenza dell’età neroniana:
si parla infatti di amoralità di Petronio.
Contenuti
Secondo l’ipotesi più accreditata, il romanzo nasce in Grecia tra il I e il IV secolo d.C. e
presenta una trama topica: i due protagonisti si amano e, dopo una serie di ostacoli e di
disavventure, si sposano. A Roma esistono solo due romanzi: il Satyricon di Petronio e le
Metamorfosi di Apuleio, molto diversi tra loro. Il romanzo, comunque, resta fino all’Ottocento un
genere minore, assimilato alla Trivialliteratur, alla letteratura di evasione; infatti, è dal
romanticismo in poi che nascerà il romanzo in senso moderno. Nel Novecento l’interesse per il
romanzo ha determinato la nascita della narratologia (intorno agli anni Settanta), per cui sono ora
estremamente articolate e sofisticate tutte le proposte di analisi dei testi narrativi. Ecco, in estrema
sintesi alcuni aspetti di cui tener conto nella lettura del testo.
Innanzitutto, bisogna considerare il rapporto tra fabula e intreccio: cioè i fatti intesi in ordine
cronologico (fabula) e la loro organizzazione non cronologica nel testo (intreccio). Possono
coincidere, oppure i fatti possono essere narrati in analessi o flashback e in tal caso è il lettore a
ricostruire la trama. Aristotele, nella Poetica, individua quattro elementi strutturali della tragedia
che possono essere validi anche per la narrativa:
• l’esordio: rottura dell’equilibrio iniziale e preparazione di cambiamenti significativi;
• le complicazioni: cambiamenti che si verificano e producono modifiche rispetto alla
situazione iniziale, creando tensione tra i personaggi e dando il via alle peripezie;
• le peripezie: avventure che i protagonisti affrontano;
• la catastrofe: conclusione della vicenda con l’equilibrio ricostituito.
Fondamentale, poi, è il punto di vista del narratore, che può essere: onnisciente o esterno, se
il narratore racconta i fatti mostrando di sapere più dei personaggi; interno fisso, se egli assume il
punto di vista di uno dei personaggi; interno mobile, se assume, di volta in volta, punti di vista
diversi. Il significato e il messaggio dell’opera sono fittamente legati alla prospettiva creata dalla
voce narrante. Altri elementi di cui tenere conto sono lo spazio e il tempo. Lo spazio, cioè il luogo
dove si svolge la vicenda, ha sempre un valore semantico aggiunto e, spesso, poiché si tratta di
spazio topico (caverna, giardino, montagna ecc.) acquista anche un significato simbolico
riconosciuto. La caverna o la grotta, ad esempio, sono il simbolo della sessualità, il giardino
rappresenta, invece, la felicità e il benessere, mentre il mare è l’avventura positiva, la selva e la
foresta simboleggiano il rischio, lo stato selvaggio, la montagna il bene e così via. Il tempo interno
al racconto subisce, in genere, accelerazione quando si tratta di episodi o fatti irrilevanti che
solitamente vengono liquidati in poche righe, mentre acquista un rallentamento notevole quando
l’episodio ha particolare importanza nell’economia del racconto. Si pensi alla cena di Trimalchione
in Petronio o alla favola di Amore e Psiche in Apuleio, che non sono digressioni rispetto alla
narrazione principale, ma ne intensificano il messaggio globale. Anche le stagioni o le fasi del
giorno sono significative, come ha dimostrato lo studioso N. Frye. Il mattino, la primavera indicano
una disposizione ottimistica, ricca di speranza. Il mezzogiorno e l’estate esprimono pienezza di
godimento; la sera e l’autunno sono intrisi di malinconia e di struggimento; l’inverno e la notte
alludono alla morte e alla fine. Infine V. Propp, in Morfologia della fiaba, ha dato altri modelli
interpretativi della narrazione collegabili con le ‘funzioni’ fisse dei personaggi. Un’analisi attenta
deve concentrarsi, poi, sui personaggi, che secondo lo scrittore inglese Edward Forster (1879-1970),
si distinguono in: ‘piatti’, se restano sempre uguali a se stessi nel corso del racconto; ‘a tutto tondo’
se cambiano per migliorare o peggiorare nel corso della vicenda. In genere il personaggio piatto
esprime un’idea, un simbolo; ad esempio, Enea è il pius, così come Ulisse è il multiforme ingegno,
Ettore è l’eroe perdente ecc. Quello ‘a tutto tondo’ si trova nel Bildungsroman, il cui protagonista
migliora dopo le esperienze di vita, si educa, appunto, attraverso di esse. Infine, il linguaggio, come
è naturale, deve riflettere lo stato e la psicologia dei personaggi, per cui a Roma non esiste un vero e
proprio stile del romanzo latino, ma vi domina una sorta di sperimentalismo, o di plurilinguismo,
che riecheggia i linguaggi del romanzo greco, della commedia, della satira menippea. A parte la
mescolanza di prosa e poesia, perciò, che compare nel Satyricon di Petronio, occorre notare nel
romanzo latino la compresenza del sermo cotidianus e del sermo vulgaris, di lessico tecnico e di
grecismi, di ritmo poetico e di ridondanza ‘barocca’. Per le Metamorfosi è lo stesso Apuleio che,
nell’incipit, spiega il suo stile parlando di exotici ac forensis sermonis, di desultoriae scientiae stilo
e di sé come un’acrobata che passa di corsa da un cavallo ad un altro. Acrobata della parola, perciò,
Apuleio vuole produrre il piacere della lettura, e questo piacere nasce non solo dalla ricchezza delle
avventure, ma, soprattutto, dalla vivacità del suo linguaggio.
Lettura ed analisi morfo-linguistica di Petr. 80. Dopo una notte d’amore, Encolpio, ebbro e
felice, si abbandona al sonno a fianco dell’amato Gitone. Ma l’idillio è rotto da un amaro risveglio:
Ascilto, nottetempo, ha strappato Gitone dalle braccia di Encolpio e lo ha fatto scivolare nel suo
letto. Scoperto il tradimento, Encolpio affronta il rivale, ma questi, impugnata la spada, lo sfida a
duello per decidere le sorti del ragazzo. Ecco allora che Gitone si mette in mezzo, pronto a offrire la
vita pur di impedire un delitto di cui lui solo si proclama responsabile. Il ‘suicidio per amore’, un
tipico tema del romanzo greco, è assorbito qui nel corpo di una sceneggiatura più ampia, una
trappola narrativa tesa ai danni del protagonista-narratore.
Alla fine del capitolo precedente, Ascilto aveva proposto a Encolpio di dividersi anche
Gitone, insieme agli altri beni comuni («Suvvia, ora dividiamoci anche il ragazzo», 79. 12).
Encolpio interpreta la proposta come una battuta, ma Ascilto non è affatto intenzionato a risolvere la
lite in burla e, brandita la spada, invoca una sorta di giustizia salomonica: anche Encolpio si prepara
al duello. Un bene conteso (Gitone), su cui l’avversario signoreggia da solo, rivendicato da chi
proclama violati i propri diritti; una mano armata contro il proprio sangue: la situazione narrativa
mostra già tutti gli elementi necessari a far scattare l’assimilazione al paradigma mitico della guerra
fratricida, la lotta dei figli di Edipo, Eteocle e Polinice, per il trono di Tebe. Non solo: la situazione
stereotipata innesca la memoria di altri modelli mitico-letterari, e dietro il modello dei due fratelli
tebani si riconosce l’eroismo delle Sabine e l’amicizia di Eurialo e Niso; un accumulo di ‘sublime’
accresce l’illusione, che cattura il narratore ingenuo fino a renderlo vittima di una realtà a lui
indecifrabile. Riconosciuta nei fratres pugnantes (Ascilto ed Encolpio) la coppia di Tebe, a Gitone
non resta che recitare la parte di Giocasta, la regina che nel mito rappresentato nelle Fenicie di
Euripide, ‘riscritte’ da Seneca in anni vicini al Satyricon, cerca di impedire il fratricidio. In
particolare nella tragedia senecana l’intervento pacificatore della regina madre è dilatato in una
grande scena patetica: mentre in Euripide Giocasta raggiunge i figli quando ormai si sono feriti a
morte (il duello ha luogo dopo lo scontro tra i due eserciti), e si trafigge la gola cadendo sui loro
corpi, in Seneca la regina si precipita in mezzo alle opposte schiere prima dello scontro e supplica i
duellanti di porre fine alla guerra fratricida («la madre mostra le chiome canute strappate, supplica
ma quelli negano, inonda il viso di lacrime», Phoen. 440-441). Ma dietro alla sceneggiatura
principale si affacciano altri modelli illustri. Il gesto di Gitone ricorda anche l’intervento
pacificatore delle donne sabine, lanciatesi tra le schiere contrapposte dei padri e dei mariti per
impedire il parricidio, un episodio esemplare della leggenda sulle origini di Roma (il rapimento
delle Sabine, voluto da Romolo per incrementare la popolazione cittadina, causò la prima guerra
fratricida della storia romana): così l’eroismo delle spose sabine è narrato da Livio (1. 13. 1 ss.):
«Allora le Sabine [...] con i capelli scarmigliati e la veste strappata, vinta dalla gravità dei mali la
pavidità propria delle donne, osarono lanciarsi tra i proiettili scagliati in aria [...] pregando da una
parte i padri, dall’altra i mariti, che non si macchiassero col sangue scellerato del suocero e del
genero, che non disonorassero col parricidio i loro figli».
La supplica di Gitone, che si dichiara pronto al sacrificio pur di evitare un delitto di cui si
protesta responsabile, riecheggia le parole di Giocasta nella tragedia di Seneca (Phoen. 443-457):
«Contro di me rivolgete le armi e il fuoco, contro di me sola si avventi tutta la gioventù [...] assalite
questo ventre, che ha dato fratelli al marito, squartate e spargete dappertutto queste membra: io ho
generato entrambi [...] se avete deciso il delitto, uno più grande è qui pronto: vostra madre si
frappone come ostacolo in mezzo a voi».
Le parole di Gìtone però, con il loro esplicito riferimento al sacramentum amicitiae,
rimandano anche a un altro modello eroico (attivo del resto anche nel testo di Seneca): il grido di
Niso che offre la propria vita per quella dell’amico Eurialo la notte dell’incursione nel campo dei
Rutuli (Aen. 9. 427-430): «Io, io, sono io che ho colpito, rivolgete contro di me il ferro, Rutuli!
L’insidia è mia [...] soltanto amò troppo lo sventurato amico». L’allusione virgiliana è preparata dal
richiamo alla «sacralità di un’amicizia così esemplare» (80. 3) che promuove l’amicizia di Encolpio
e Ascilto al rango paradigmatico dell’amicizia eroica. Alla supplica di Gitone segue la sospensione
del combattimento, secondo il copione tragico: «vinta dalla supplica materna la guerra resta sospesa
e le schiere già bramose da una parte e dall’altra di scontrarsi fino alla reciproca strage, trattengono
nella destra sospesa le lance che stavano vibrando» (Sen. Phoen. 434-437).
Mentre Giocasta è lacerata dal dilemma di non poter scegliere fra i figli («A chi rivolgerò
ansiose parole, io, la madre, con preghiere alternate? Me infelice, chi abbraccerò per primo? Sono
portata da tutte e due le parti da un affetto pari», Sen. Phoen. 459-461), Gitone rovescia il modello
‘sublime’ con la sua scelta repentina: uno scarto che Encolpio non manca di rilevare. Rimasto solo
in terra straniera, Encolpio assume la posa moralistica dell’esule che riflette sull’ipocrisia degli
amici (non a caso questi versi sono intessuti di riprese dalle elegie ovidiane dell’esilio). Ma sulla
posa moralistica del protagonista-narratore si riflette il senso ultimo del testo: Ascilto, Gitone, lo
stesso Encolpio hanno indossato una maschera di scena. Svanita l’illusione del mito, la maschera
cade e resta la realtà (degradata) del romanzo. Al par. 9 Encolpio sentenzia che l’amicizia è un
nome vuoto, pronto a cadere quando non c’è più un tornaconto; la metafora militare della fuga,
sviluppata subito dopo, illustra il voltafaccia degli amici nella disgrazia secondo un cliché ovidiano
(tr. 1. 5. 27-30; 3. 5. 5-6). Sul tema dell’ipocrisia insistono anche le ultime frasi del passo: la
metafora della vita come finzione scenica, palcoscenico in cui ognuno recita un ruolo, appartiene al
repertorio della diatriba ed è associata al motivo della fortuna rivelatrice della natura umana in un
passo di Lucrezio (3. 55-58).
Lezione 4. Il lamento in riva al mare
Lettura ed analisi morfo-linguistica di Petr. 81. Rimasto senza Gitone, rapito da Ascilto,
Encolpio si ritira in una spiaggia isolata lì vicino. L’epos omerico offriva già pronto lo schema
eroico per elevare all’altezza del mito il tradimento sperimentato da Encolpio. Anche Achille aveva
subito un simile oltraggio: con atto di prepotenza, Agamennone gli aveva portato via Briseide, ed
egli, rimasto solo, si era ritirato in disparte, a lamentare davanti all’infinita distesa del mare
l’affronto subito. Ma Encolpio amplifica il pathos del paradigma eroico in un’interpretazione
melodrammatica: assume la posa del ‘lamentante tragico’ ed ecco che ad Achille in lacrime davanti
al mare si sovrappone l’Enea indignato alla vista di Elena nell’ultima notte di Troia, senza
dimenticare però le vette dell’oratoria ciceroniana. Un accumulo di modelli alti, decisamente in
eccesso rispetto alla realtà dei fatti.
Quando Agamennone gli porta via Briseide, Achille si ritira in riva al mare e, rivolto alla
madre, la dea marina Teti, piange il suo dolore. Ora anche Encolpio, ritiratosi in un luogo solitario e
prossimo al mare, dà sfogo alla sua indignazione. E subito la memoria del modello iliadico attiva
altri ricordi, altri contatti con l’universo del ‘sublime’ letterario. Come Enea che si lamenta con la
madre Venere, Encolpio intona il suo lamento e al pianto di Achille si sovrappone il ricordo di Enea
nell’ultima notte di Troia, quando l’eroe incontra la resistenza di Anchise, deciso a non abbandonare
la città; addolorato e deluso, Enea invoca la madre, che, dopo averlo aiutato a superare tante prove,
sembra ora averlo abbandonato (Aen. 2. 664-667): «Questo era, o madre divina, per questo mi metti
in salvo fra armi e fiamme, perché veda il nemico dentro la mia casa e Ascanio e mio padre e
accanto a loro Creusa, trucidati l’uno nel sangue dell’altro?».
Ben diverse sono però le prove che Encolpio può vantare di aver superato, ma la
rievocazione, nell’infelicità del presente, delle prove superate in passato è divenuto uno stereotipo
del romanzo greco, in cui gli eroi protagonisti riepilogano spesso, in forma di accumulo asindetico, i
fatti salienti delle loro travagliate esistenze. E ora che, secondo lo schema narrativo del romanzo,
Encolpio deve rievocare la realtà dei suoi trascorsi, l’inadeguatezza rispetto al modello epico-eroico
è lampante. Nella tragica notte di Troia c’è un altro momento di grande tensione drammatica,
quando Enea, imbattutosi in Elena, pronuncia un tormentato monologo contro colei che ha causato
la rovina di Troia (Aen. 2. 577 ss.: «Ebbene, costei sana e salva tornerà a vedere Sparta [...] e se ne
andrà come una regina che ha ottenuto il trionfo? [...] e Priamo è morto trafitto dalla spada? e Troia
brucia nell’incendio? e il lido troiano tante volte si è inzuppato di sangue?»). Sulla falsariga delle
accuse pronunciate da Enea, Encolpio esprime la propria indignazione, ammantandola di una
tragica grandezza. E dopo l’invettiva contro i fedifraghi, il diagramma narrativo segna una nuova
impennata verso l’alto: Encolpio ripete la minaccia che chiudeva il monologo di Enea furente
contro Elena, «Non così. Infatti, mi glorierò di fare giustizia e godrò di riempire il mio cuore di
fiamma vendicatrice e di placare le ceneri dei miei» (Aen. 2. 583-587).
Anche in questo episodio è l’intreccio del romanzo a fornire al protagonista narratore l’esca
narrativa per l’immedesimazione eroica. Un luogo solitario, in riva al mare, il dolore per la perdita
di Gitone che Ascilto gli ha portato via: la situazione delineata all’inizio del capitolo contiene già gli
elementi sufficienti a scatenare le illusioni del ‘narratore mitomane’. Ma l’aggiunta di alcuni
dettagli realistici, come i motivi che spingono Encolpio a ritirarsi in riva al mare (non già il dolore
dell’abbandono, ma il timore di affrontare da solo l’ ’assistente’ Menelao), e il cenno ai miseri
bagagli, avvertono da subito il lettore della distanza incolmabile tra l’universo mitico e il mondo di
Encolpio.
L’amplificazione enfatica dei gesti di lamento riduce l’immedesimazione nel modello epico
di Achille a posa melodrammatica, come insinua il narratore stesso («avevo anche il fiato per
gridare»). Così quando Encolpio, assunta la posa del ‘lamentante tragico’, esordisce con la sua
obsecratio, la maledizione tipica dello stile epico tragico (nella disperazione, eroi ed eroine sono
pronti a invocare su se stessi una morte per eccellenza tragica), il lettore è pronto all’inevitabile
caduta. E infatti, subito dopo l’obsecratio, apprendiamo che l’aspirante eroe altro non è che un
comune malfattore.
Nell’invettiva contro i fedifraghi, Encolpio ricerca i toni aspri dell’oratoria ciceroniana e usa
il cliché che toglie credibilità all’avversario attaccandone l’integrità morale. Ascilto è bollato fin
dalla giovinezza come un depravato, accusato di prostituirsi «a prezzo fisso e scontato», come
Antonio nella seconda Filippica di Cicerone («dapprima prostituto pubblico; il compenso della
vergogna era fisso, e non esiguo», 2. 44). Anche l’accusa di effeminatezza appartiene allo
strumentario ciceroniano (Verr. 2. 192: «non si può trovare [uomo] che più di lui si comporti da
uomo tra le donne, da sgualdrina depravata tra gli uomini»). Il medesimo passo delle Filippiche
utilizzato contro Ascilto fornisce a Encolpio le armi per attaccare anche Gitone. Encolpio ne imita il
passaggio più ingiurioso: «hai preso la toga virile, e ne hai subito fatto una toga muliebre» (2. 44).
Rendere muliebre la toga virile significa prostituirsi: indossavano la toga, infatti, oltre ai cittadini
romani, le meretrici, cui era interdetto l’uso della stola, la veste delle matrone. Ma Encolpio
stempera il veleno della battuta ciceroniana: poiché la stola, come simbolo di moralità, è l’esatto
contrario della toga muliebris, l’accusa significa «nel giorno della toga virile ha assunto la
rispettabilità di una matrona»; un’idea che Encolpio d’altra parte trovava già nel suo modello, ma
impiegata come paradosso, nella sferzata ironica sulla lunga relazione che legò Antonio a Gaio
Scribonio Curione: «Curione che ti ha tolto dal mestiere di prostituta, e, come se ti avesse messo
addosso la stola, ti ha offerto la sistemazione di un matrimonio stabile e certo» (Phil. 2. 44).
Il fatto è che Encolpio non può riversare contro Gitone tutto il veleno di cui è capace con
Ascilto: vi è in lui la reticenza dell’amante tradito. Encolpio si atteggia a Cicerone contro Antonio,
ma, invischiato com’è nella torbida passione bollata dall’invettiva, è schiacciato dallo schema
retorico che cerca di applicare. Così l’ingiuria è goffamente attenuata dall’eufemismo: se Gitone «è
stato convinto a non essere uomo», l’innamorato ferito indica nella madre, e non in un partner
sessuale, l’autore del tralignamento; se ha offerto ‘prestazioni’ femminili in una «galera per
schiavi», queste sono vagamente definite nel testo latino opus muliebre, una designazione adatta
piuttosto a evocare, in linea con un Gitone stolatus, i lavori femminili (filatura e tessitura) tipici
della matrona romana arcaica; perfino la tresca con Ascilto è descritta con un astratto linguaggio
metaforico. E l’indignazione cede il posto alla gelosia nel cenno all’attuale felicità degli amanti, che
riecheggia il lamento dell’exclusus amator in Prop. 1. 16. 33: «ma ora giace tra le braccia di un altro
più felice». Anche il sospetto che i due fedifraghi se la ridano alle spalle dell’amante abbandonato è
un motivo elegiaco (vd. Prop. 2. 9. 21-22: «e anzi hai anche brindato tra grandi risate: forse sono
state dette anche parole offensive al mio riguardo»).
Lettura ed analisi morfo-linguistica di Petr. 82. Encolpio è risoluto a non lasciare impunito
l’oltraggio del tradimento. Eccolo armarsi e uscire per strada in cerca di vendetta, come Enea
quando corre fuori dalla casa paterna, furioso per la rovina della propria gente; eccolo aggirarsi
lungo tutti i porticati della città, come Enea che, fuori di sé, cerca affannosamente Creusa, rimasta
indietro nella fuga dalla città in fiamme. In un turbinare vorticoso di modelli, Encolpio non rinuncia
nemmeno a recuperare l’archetipo dell’ira eroica e ripete il gesto di Achille quando, sdegnato per le
parole ingiuriose di Agamennone, mette mano alla spada, pronto a lavare l’onta nel sangue. Ma
Encolpio non è né Enea né Achille.
Il lungo monologo dell’amante tradito si è appena concluso con la minaccia di vendetta che
ora Encolpio si accinge a compiere. Un convergere di scene parallele, passi famosi della grande
epica, concorre a qualificare la pulsione omicida dell’innamorato tradito come ‘furia eroica’: Enea
che infuria alla vista di Elena, che si riarma a casa del padre, che cerca Creusa rimasta indietro nella
fuga. Né Encolpio si accontenta di rivivere soltanto l’ira di Enea, ma attraverso di essa ritrova anche
il furore di Achille, oltraggiato da Agamennone.
Prima di tutto, indossando le armi Encolpio ripete le gesta di Enea nell’ultima notte di Troia,
quando l’eroe, dopo aver lamentato il tragico destino che incombe, si arma di nuovo ed esce dalla
casa del padre in cerca di strage: «Mi cingo nuovamente di spada e la sinistra adattando allo scudo
inserivo, e correvo fuori di casa» (Aen. 2. 671-672). Anche Encolpio si precipita all’aperto (in
publicum prosilio) e nell’assumere l’atteggiamento di Enea furente rievoca la scena, densa di pathos
drammatico, in cui l’eroe cerca affannosamente Creusa per le strade di Troia in fiamme (Aen. 2.
752-771): «Dapprima alle mura, ai luoghi oscuri intorno alla porta, da cui ero uscito, ritorno e seguo
a ritroso i segni delle orme, scruto nel buio notturno e al bagliore delle fiamme [...] e già nei portici
vuoti [...] E mentre cercavo tra le case della città, senza sosta, come un forsennato». Subito dopo,
però, facendo correre ripetutamente la mano alla spada, Encolpio ripete il furore di Achille.
Non è necessario, però, l’intervento di una divinità (come accade ad Achille con Atena, a
Enea con Venere) per trattenere il nostro ‘eroe’ da gesti violenti. Basta un comune mortale: notavit
me miles. Lo sconosciuto scopre una vistosa improprietà nell’abbigliamento militare di Encolpio: il
giovane scholasticus porta i phaecasia, gli scarponcini bianchi in voga tra i giovani. La velleità di
autopromozione eroica del protagonista si dissolve in un attimo, la volontà di vendetta si traduce in
un’azione mancata. Ma l’aggressione ironica del protagonista narratore non si ferma qui. I
phaecasia mettono Encolpio in posizione di inferiorità rispetto al suo interlocutore. Intrappolato
nella fantasia di vendetta eroica, il ‘narratore mitomane’ non si accorge di essere vittima – e non
attore – di violenza: Encolpio finisce derubato da un comune malandrino, e passa da eroe
vendicatore a vittima della criminalità di strada. Eppure, egli continua a proiettare sulla realtà i
fantasmi delle sue illusioni ‘sublimi’ e ringrazia l’intervento salvifico dello sconosciuto che lo ha
trattenuto dal folle proposito di vendetta.
Il racconto dell’ira di Encolpio ha inizio sul registro alto: Haec locutus riproduce una
formula tipica dell’epica per segnare il passaggio dal discorso all’azione. Epico è anche l’uso
medio-passivo di cingor con l’ablativo strumentale (gladio). Ma nella compatta tessitura epica del
racconto è in agguato una notazione realistica, un segnale d’allarme per il lettore: non accade mai
che l’ira eroica, nel suo esplodere, lasci spazio ad assennate precauzioni di ordine pratico. Invece
Encolpio si arma e, prima di dar libero corso all’ira, provvede a rifocillarsi con una bella
scorpacciata (largioribus cibis excito vires). La preoccupazione alimentare ne infirmitas militiam
perderet pertiene ai resoconti storici, non al registro alto dell’epica: Encolpio è come un soldato
semplice che consuma il rancio prima del combattimento (vd. Liv. 9. 32. 44: «Appena riferita al
console la notizia [che il nemico era già schierato sul campo di battaglia], egli comanda
immediatamente che sia dato ordine che i soldati pranzino e dopo essersi rifocillati con il cibo
impugnino le armi [ut prandeat miles firmatisque cibo viribus arma capiat]»). La tensione elevata
del testo precipita: lo scarto tra aspirazioni eroiche e ordinarie esperienze di vita è sottolineato
dall’ironia del comparativo largioribus cibis.
Motivazione e obiettivi
Il romanzo antico, com’è noto, è un imponente meta-genere letterario, che attinge spunti e
materiali da più generi della tradizione alta fondendoli, secondo la vocazione stessa di ogni
narratore, con elementi desunti dalla società. Tale è soprattutto la natura del Satyricon petroniano e
delle Metamorfosi di Apuleio: due testi tuttavia molto dissimili fra loro, non foss’altro che per le
condizioni della tradizione.
La lettura del romanzo antico secondo le strategie della narratologia moderna è prospettiva
invalsa invero da molti decenni ormai, ma ancora attiva, specie nella saggistica in lingua inglese.
Ovviamente sussistono rischi ermeneutici e soprattutto esegetici in tale operazione, che si permette
alcune libertà rispetto all’acribia filologica. La narratologia fornisce strumenti di lavoro fecondi in
una prassi di lezione partecipata, che chiama in causa lo studente come lettore attivo e soprattutto
come interprete, ingenuo certo, ma legittimo. La narrazione di Apuleio impone di per se stessa una
lettura sincronica e non solo diacronica, cioè un procedimento euristico: l'interprete moderno,
culturalmente e antropologicamente altro, deve ripercorrere il testo secondo l'andirivieni di più
temi, se vuole penetrare il fascino dell'intreccio, e deve percepire le prossimità e le distanze rispetto
al modo nostro di concepire la narrazione e i suoi significati. La natura provocatoria del racconto di
Apuleio è smascherata dall'autore in persona già nell'appello lector intende al termine del prologo, e
la rilettura della vicenda di Lucio che il sacerdote di Iside, Mithras, fa a 11. 15, fornendo i
significati delle ingarbugliate e dolorose vicende del protagonista, costringe il lettore a ripercorrerle,
rintracciando i segnali di un orientamento finalizzato di esse o, per lo meno, le tracce di una
possibile salvazione del protagonista in mezzo agli errori di valutazione e di scelta
comportamentale.
Il libro I, apparentemente estravagante alla prima lettura, si carica così di sensi altri,
affascinanti e provocatori: un monito a chi legge perché impari a districarsi tra le piste confuse e
ingannevoli delle narrazioni umane.
Contenuti
Secondo l’ipotesi più accreditata, il romanzo nasce in Grecia tra il I e il IV secolo d.C. e
presenta una trama topica: i due protagonisti si amano e, dopo una serie di ostacoli e di
disavventure, si sposano. A Roma esistono solo due romanzi: il Satyricon di Petronio e le
Metamorfosi di Apuleio, molto diversi tra loro. Il romanzo, comunque, resta fino all’Ottocento un
genere minore, assimilato alla Trivialliteratur, alla letteratura di evasione; infatti, è dal
romanticismo in poi che nascerà il romanzo in senso moderno. Nel Novecento l’interesse per il
romanzo ha determinato la nascita della narratologia (intorno agli anni Settanta), per cui sono ora
estremamente articolate e sofisticate tutte le proposte di analisi dei testi narrativi. Ecco, in estrema
sintesi alcuni aspetti di cui tener conto nella lettura del testo.
Innanzitutto, bisogna considerare il rapporto tra fabula e intreccio: cioè i fatti intesi in ordine
cronologico (fabula) e la loro organizzazione non cronologica nel testo (intreccio). Possono
coincidere, oppure i fatti possono essere narrati in analessi o flashback e in tal caso è il lettore a
ricostruire la trama. Aristotele, nella Poetica, individua quattro elementi strutturali della tragedia
che possono essere validi anche per la narrativa:
• l’esordio: rottura dell’equilibrio iniziale e preparazione di cambiamenti significativi;
• le complicazioni: cambiamenti che si verificano e producono modifiche rispetto alla
situazione iniziale, creando tensione tra i personaggi e dando il via alle peripezie;
• le peripezie: avventure che i protagonisti affrontano;
• la catastrofe: conclusione della vicenda con l’equilibrio ricostituito.
Fondamentale, poi, è il punto di vista del narratore, che può essere: onnisciente o esterno, se
il narratore racconta i fatti mostrando di sapere più dei personaggi; interno fisso, se egli assume il
punto di vista di uno dei personaggi; interno mobile, se assume, di volta in volta, punti di vista
diversi. Il significato e il messaggio dell’opera sono fittamente legati alla prospettiva creata dalla
voce narrante. Altri elementi di cui tenere conto sono lo spazio e il tempo. Lo spazio, cioè il luogo
dove si svolge la vicenda, ha sempre un valore semantico aggiunto e, spesso, poiché si tratta di
spazio topico (caverna, giardino, montagna ecc.) acquista anche un significato simbolico
riconosciuto. La caverna o la grotta, ad esempio, sono il simbolo della sessualità, il giardino
rappresenta, invece, la felicità e il benessere, mentre il mare è l’avventura positiva, la selva e la
foresta simboleggiano il rischio, lo stato selvaggio, la montagna il bene e così via. Il tempo interno
al racconto subisce, in genere, accelerazione quando si tratta di episodi o fatti irrilevanti che
solitamente vengono liquidati in poche righe, mentre acquista un rallentamento notevole quando
l’episodio ha particolare importanza nell’economia del racconto. Si pensi alla cena di Trimalchione
in Petronio o alla favola di Amore e Psiche in Apuleio, che non sono digressioni rispetto alla
narrazione principale, ma ne intensificano il messaggio globale. Anche le stagioni o le fasi del
giorno sono significative, come ha dimostrato lo studioso N. Frye. Il mattino, la primavera indicano
una disposizione ottimistica, ricca di speranza. Il mezzogiorno e l’estate esprimono pienezza di
godimento; la sera e l’autunno sono intrisi di malinconia e di struggimento; l’inverno e la notte
alludono alla morte e alla fine. Infine V. Propp, in Morfologia della fiaba, ha dato altri modelli
interpretativi della narrazione collegabili con le ‘funzioni’ fisse dei personaggi. Un’analisi attenta
deve concentrarsi, poi, sui personaggi, che secondo lo scrittore inglese Edward Forster (1879-1970),
si distinguono in: ‘piatti’, se restano sempre uguali a se stessi nel corso del racconto; ‘a tutto tondo’
se cambiano per migliorare o peggiorare nel corso della vicenda. In genere il personaggio piatto
esprime un’idea, un simbolo; ad esempio, Enea è il pius, così come Ulisse è il multiforme ingegno,
Ettore è l’eroe perdente ecc. Quello ‘a tutto tondo’ si trova nel Bildungsroman, il cui protagonista
migliora dopo le esperienze di vita, si educa, appunto, attraverso di esse. Infine, il linguaggio, come
è naturale, deve riflettere lo stato e la psicologia dei personaggi, per cui a Roma non esiste un vero e
proprio stile del romanzo latino, ma vi domina una sorta di sperimentalismo, o di plurilinguismo,
che riecheggia i linguaggi del romanzo greco, della commedia, della satira menippea. A parte la
mescolanza di prosa e poesia, perciò, che compare nel Satyricon di Petronio, occorre notare nel
romanzo latino la compresenza del sermo cotidianus e del sermo vulgaris, di lessico tecnico e di
grecismi, di ritmo poetico e di ridondanza ‘barocca’. Per le Metamorfosi è lo stesso Apuleio che,
nell’incipit, spiega il suo stile parlando di exotici ac forensis sermonis, di desultoriae scientiae stilo
e di sé come un’acrobata che passa di corsa da un cavallo ad un altro. Acrobata della parola, perciò,
Apuleio vuole produrre il piacere della lettura, e questo piacere nasce non solo dalla ricchezza delle
avventure, ma, soprattutto, dalla vivacità del suo linguaggio.
«Ecco! In stile milesio voglio per te, o lettore, intrecciar varie favole, e col piacevole
mormorio del mio narrare carezzar le tue benevole orecchie. Basterà solo che tu non ti rifiuti di dare
uno sguardo a un papiro egiziano che è stato scritto con la finezza propria a una cannuccia del Nilo.
Avrai da stupirti, ché si tratterà delle persone e delle sorti d’uomini cangiati in altre figure, i quali
con alterna vicenda ritorneranno nuovamente in forma primitiva. Inizio. – Chi è costui? – ti
domanderai. Ti rispondo in breve. L’attica Imetto, l’epirota Istmo, la spartana Tenaro sono terre
felici, celebrate in eterno in opere ancor più felici: di qui derivò in antico la mia prosapia; qui, nei
primi esercizi della fanciullezza, appresi la lingua attica. Poi, nella città del Lazio, io, ch’ero
straniero all’ambiente della cultura romana, intrapresi con durissima fatica lo studio dell’idioma
locale, e in esso mi approfondii, senza che alcun maestro mi guidasse. Chiedo perdono, dunque, se,
parlatore inesperto, incorrerò in qualche termine esotico o popolare. Del resto, anche la varietà del
mio linguaggio corrisponde all’abilità del passare da una storia all’altra, che è propria
dell’argomento da me trattato. Inizio dunque una favola che è alla foggia dei Greci. Stai attento,
lettore, ché ci troverai il tuo spasso» (trad. it. di C. ANNARATONE, Le metamorfosi o L’asino d’oro,
Milano 1977).
Prima dell’inizio vero e proprio della narrazione, Apuleio propone un capitolo introduttivo
che offre molti motivi di riflessione. Innanzitutto, in diversi punti c’è il richiamo alla fabula
Milesia, un genere letterario di antica origine orientale, di cui abbiamo alcuni esempi anche nelle
novelle del Satyricon di Petronio, che era stato introdotto a Roma da Sisenna e che era costituito da
brevi racconti spesso conditi di particolari piccanti e legati alla sfera del sesso. Poi l’autore accenna
anche alla propria purezza linguistica: i limiti che denuncia (impiego di termini esotici o popolari) si
spiegano per via dall’origine straniera di Apuleio, che, educato dapprima alla lingua greca, apprese
solo in età successiva e potremmo dire con fatica da autodidatta (“intrapresi con durissima fatica lo
studio dell’idioma locale, e in esso mi approfondii, senza che alcun maestro mi guidasse”) la lingua
latina, nella quale compone la propria opera. Accanto ai difetti della propria lingua, Apuleio
sottolinea intelligentemente anche i pregi: il suo latino è duttile e vario, adeguato – insomma – alla
materia stessa presentata, in cui compaiono continue trasformazioni metamorfiche e le vicende sono
in un costante, magmatico ribollimento. Con questa opportuna osservazione, Apuleio salda
abilmente l’aspetto di forma e contenuto, che verrebbero così a coincidere pienamente e ad essere
caratterizzati da una sostanziale omogeneità di presupposti. Infine, ci pare interessante anche la
breve proposizione dell’argomento, che appunta l’attenzione del lettore sul versante del tema
‘metamorfosi’, centrale appunto nell’opera, già a partire dal titolo: la storia di Lucio, che tra mille
sensazionali avventure perde temporaneamente l’aspetto umano per riconquistarlo solo alla fine, è
presentata al lettore sotto il profilo del piacere della lettura. Apuleio, infatti, già all’inizio sottolinea
questo aspetto: “col piacevole mormorio del mio narrare carezzar le tue benevole orecchie”. Lo
stesso concetto è ribadito nella parte conclusiva di questa introduzione: “Stai attento, lettore, ché ci
troverai il tuo spasso” (Lector intende: laetaberis). È assolutamente evidente, però, che il piacere
della lettura fa da esca, con il lettore, rispetto a un obiettivo più grosso e importante, cui mira
l’autore: lo scopo vero è di avvicinare il lettore alla religione isiaca, a cui si convertirà il ‘redento’
Lucio nella conclusione dell’opera. La bellezza della favola, dunque, è il miele grazie al quale
l’autore riesce a irretire il lettore, nell’intento di ammaestrarlo sulla via della salvezza dell’anima,
nel quadro del culto egizio di Iside e Osiride.
L’intreccio del I libro prende le mosse da una destinazione di viaggio, la Tessaglia, terra
altresì di remota origine della famiglia del protagonista, scelta da lui non per diporto ma per lavoro
(Thessaliam ex negotio petebam, 1. 2): la rilevanza del dato si evince in realtà non alla prima
lettura, ma nell’eco che a quel dettaglio è data nel racconto che Aristomene, incontrato di lì a poco,
farà di se stesso. Aristomene è un commerciante di miele, cacio e generi alimentari vari, e si era
recato in Tessaglia a Ipata, per una partita di cacio. Il tema del viaggio d’affari è dunque una spia
testuale: non è la voglia di conoscere luoghi e gente a motivare il viaggio, ma una necessità esterna.
La piega degli eventi sarà poi però tutt’altra e condurrà sia Aristomene che Lucio a profonde svolte
esistenziali; e la cosa è interessante. All’indicazione della meta designata di Lucio tiene dietro in
brevi parole, in un andamento narrativo morbido come una sorta di motivo musicale, la
rievocazione del transito del protagonista, per luoghi remoti e impervi senza connotati geografici
precisi e perciò riconoscibili: una sorta di cartone convenzionale – o, meglio, letterario – che
riecheggia tratti del locus horridus. Il protagonista è costretto a una sosta per una ragione ben poco
nobile: far evacuare e pascolare il cavallo, un’irruzione di un tema comico in un contesto che
sembrava di intonazione alta. In quella sosta l’io narrante – che, si badi bene, non ha un nome fin
qui, ma è solo una maschera di intellettuale poliglotta e a più patrie – si accoda come terzo a due
compagni di strada (tertium me facio). Per sete di novitas, come egli stesso dichiara appena dopo, il
protagonista si ferma ad ascoltare i discorsi fra i due comites, uno dei quali sta cercando di zittire
l’altro perché racconta cose assurde ed esagerate. Il protagonista interviene invece a richiedere che
il racconto, di cui non sa nulla, vada avanti: non è un curiosus di certo, ma vuol sapere più che si
può e la lepida iucunditas fabularum potrà levigare l’asprezza del terreno su cui si marcia.
Comincia così il racconto di un mendacium verum, che il più razionale fra i due comites
irride, paragonandone l’attendibilità a quella di chi pretende di far tornare indietro il corso dei fiumi
con formule magiche sussurrate (magico susurramine) oppure di raccogliere il mare in un’acqua
stagnante (mare pigrum colligari) oppure di rendere vano il soffiare dei venti (ventos inanimes
exspirare) o di fermare il sole o di tirar giù la luna (1. 3). Sono tutte fatture compiute con la voce
soltanto; è suggestivo che sedare una tempesta e controllare il mare siano considerate operazioni
della magia nell’immaginario del II secolo.
Il personaggio che dice “io” interviene a chiedere che la narrazione vada senz’altro avanti:
non si devono considerare a priori false le cose che trascendono la nostra capacità di comprensione
e che, viceversa, se un po’ meglio esaminate, si possono dimostrare vere (1. 3). La sua stessa
esperienza gli ha insegnato che possono esistere realtà che ci sconvolgono ma sono autentiche: ad
Atene, ad esempio, aveva visto egli stesso un giocoliere ingoiare spade (1. 4). Allora Aristomene si
presenta (1. 5) e comincia il racconto, a partire dal fallimento del suo affare col formaggio a Ipata -
tema che non avrà un seguito nella narrazione - e dal suo incontro casuale con un vecchio ex
commilitone dal nome suggestivo di Socrate (1. 6). L’aspetto dell’amico lo costerna: emaciato,
seduto a terra, coperto da un mantello lacero. Saremmo tentati di riandare col pensiero all’immagine
di Eros nel Simposio di Platone. Aristomene è stupito di trovare lì e a quel modo un amico sparito
da casa tempo addietro e pianto per morto dalla moglie, consumatasi nel dolore. Socrate risponde
alludendo ai raggiri della sorte. Aristomene si prende cura di lui, lo rifocilla, lo lava e lo porta con
sé in un albergo (1, 7). A questo punto è Socrate a proporre un’ulteriore narrazione, quella della
propria sventura: i rivolgimenti della fortuna erano cominciati per lui durante un viaggio, per affari,
in Macedonia; lì, depredato da briganti di strada, era stato soccorso da un’ostessa, con la quale si era
lasciato andare a rapporti sessuali, dai quali gli era derivata una condizione di sudditanza totale alla
donna. Aristomene lo rimprovera per aver tradito la famiglia per una donnaccia (scortum 1. 8) ma
Socrate lo mette in guardia spaventato che si parli male di lei, che è dotata di poteri più che umani
(femina divina), una strega (saga) capace di sovvertire l’ordine della natura (potens caelum
deponere, terram suspendere, fontes durare, montes diluere, manes sublimare, deos infimare, sidera
extinguere, Tartarum ipsum inluminare 1. 8). Aristomene è scettico e richiama Socrate, che a suo
avviso sta parlando un po’ troppo da attore tragico, a rimanere nei limiti della realtà di tutti i giorni.
Ma Socrate rincara la dose raccontando, a riprova, atroci metamorfosi provocate da quella donna
sotto gli occhi di molti testimoni (quod in conspectu plurimum perpetravit audi). Condannata alla
lapidazione dalla città per i suoi sortilegi, ella aveva chiesto una dilazione di un giorno e, ottenutala,
ne aveva approfittato per bloccare tutte le porte della città, violando il potere degli dei (tacita
numinum violentia 1. 10) grazie a magie attuate nei sepolcreti. Una Medea da tragedia. Socrate
aveva saputo la cosa da lei stessa, che gliela aveva narrata da ubriaca.
Lezione 4. Il libro I e il racconto nel racconto: Aristomene ‘vittima’ delle streghe
(Met. 1. 11-20)
Aristomene a questo punto è spaventato: andando a dormire con Socrate in una locanda,
blocca la porta con i chiavistelli e con la propria branda. Ma a notte due streghe entrano scardinando
l’uscio: Aristomene è paralizzato dalla paura, si nasconde sotto la branda, consapevole di essere
molto buffo in quella situazione, e resta a guardare passivo l’infierire delle donne su Socrate
addormentato.
Esse gli affondano una spada nella gola, raccolgono tutto il suo sangue in un otre, gli strappano il
cuore, gli cacciano una spugna dentro la ferita, pronunciando un incantesimo. Prima di andarsene, le
streghe si avventano su Aristomene e gli svuotano la vescica sulla faccia. Escono e la porta ritorna
sui cardini.
Aristomene ha interrotto due volte la narrazione dei fatti per esplicitare ai suoi ascoltatori
due considerazioni: una è la sottolineatura dell’aspetto comico della situazione sua (Nam ut
lacrimae saepicule de gaudio prodeunt, ita et in illo nimio pavore risum nequivi continere de
Aristomene testudo factus 1. 12 – e questo appena prima che le due streghe, Meroe e Panzia, gli
preconizzino un rapido pentimento per la sua curiositas, minacciandogli addirittura uno
smembramento da baccanale); e l’altra è la rivendicazione della veridicità dei fatti sulla base della
autopsia (Haec ego meis oculis aspexi 1. 13). Sono allusioni, molto da letterato, alle riflessioni da
professionisti della parola sullo scambio fra tipologie testuali e poi, nello specifico, alla pretesa di
veridicità della storiografia. Transizioni testuali di questo tipo possono illustrare agli studenti la
particolare fisionomia dei personaggi della Seconda Sofistica, nella cui atmosfera si colloca certo
uno scrittore latino come Apuleio. Anche in precedenza, per bocca allora di Socrate, il paragone fra
Meroe e Medea era un riferimento forse direttamente alla riscrittura senecana del mito antico (ut illa
Medea unius dieculae a Creone impetratis indutiis totam eius domum filiamque cum ipso sene
flammis coronalibus deusserat, sic haec... 1.10).
Aristomene rimane solo, vivo e spaventato, inzuppato di piscio come un neonato (at ego, ut
eram, etiam nunc humi proiectus inanimis nudus et frigidus et lotio perlutus, quasi recens utero
matris editus, immo vero semimortuus 1. 14). E sprofonda in un monologo concitato, atterrito
all’idea di essere accusato dell’omicidio di Socrate senza che gli sia in alcun modo possibile fornire
una ricostruzione plausibile dell’accaduto. Decide di conseguenza di andarsene dalla locanda avanti
giorno, per prendere tempo prima della scoperta del cadavere. Ma il portinaio lo blocca, dicendogli
che le strade sono infestate dai briganti e insinuando che possa avere qualche cattiva ragione per
fuggire, magari l’assassinio del compagno (1. 15). Aristomene, sbigottito e disperato, decide di
impiccarsi; ma la corda si spezza, lui cade sul letto di Socrate, fa irruzione il portinaio e Socrate si
sveglia, come se niente fosse accaduto. Aristomene è felice, lo bacia, lo abbraccia, ma quello lo
respinge per il puzzo che manda. Su proposta di Aristomene se ne vanno contenti di primo mattino
(1. 16-17). Aristomene osserva di soppiatto il collo di Socrate, che non presenta nessuna cicatrice né
traccia di violenza. Commenta allora a voce alta che il troppo cibo e il troppo vino provocano
incubi. Socrate gli dà ragione e racconta il proprio incubo (somnium): esser trafitto al collo e vedersi
strappare il cuore. Ancora debole dopo quel sogno, chiede del cibo e Aristomene gli offre formaggio
e pane, che consumano tranquillamente seduti sotto a un platano (1. 18). Socrate mangia
avidamente, ma impallidisce e smania per la sete. Aristomene gli addita un ruscello dalle acque
placide e cristalline lì accanto. Socrate beve, ma la spugna gli esce dal collo ed egli si accascia
morto. Aristomene gli dà sepoltura e poi, terrorizzato e sentendosi quasi colpevole, abbandona tutto
il proprio passato, la sua casa, la sua terra e ora vive esule in Etolia, ove si è risposato (1. 19).
Anche in questo breve passaggio, i rimandi letterari sono importanti e famosi: il platano del
Fedro platonico, il ruscello argenteo da locus amoenus. Letteratura e ricostruzione realistica si
sovrappongono e si confondono. Un esempio, ancora, delle vie della fantasia e della scrittura dei
nuovi sofisti.
Gli ascoltatori di Aristomene commentano le sue parole; il compagno di strada scettico non
ha cambiato il suo parere: sono chiacchiere e invenzioni ('Nihil' inquit 'hac fabula fabulosius, nihil
isto mendacio absurdius' 1. 20). È lui a interpellare Lucio, in quanto uomo certamente colto
(ornatus), come appare al portamento, perché dica la sua. E Lucio se ne esce con un parere raffinato
da intellettuale ('Ego vero' inquam 'nihil impossibile arbitror, sed utcumque fata decreverint ita
cuncta mortalibus provenire’ 1. 20). Ringrazia poi che il bel racconto (lepida fabula) abbia
alleggerito la fatica del viaggio a lui e al cavallo.
Gli occasionali compagni si separano: due prendono a sinistra e Lucio entra in un’osteria (1.
21). Il resto del libro I è occupato dall’arrivo di Lucio in casa di Milone, l’ospite di Ipata, da un giro
al mercato in cerca di cibo, visto che Milone è tremendamente tirchio e cibo ne offre poco, e da un
primo incontro con la servetta Fotide. Racconto comico, paradossale e noir al tempo stesso, quello
di Aristomene. Attraente per la sovrapposizione di piani e per il gioco della suspence. Ben godibile
e non difficile da analizzare. Molto meno agevole il tessuto linguistico, comprensibile nel
complesso ma arduo da commentare in modo puntuale per la natura particolare del sermo di
Apuleio.
Lezione 5. Il racconto nel racconto: spunti di narratologia antica
Nella scheda che nella Biblioteca dedica alla narrazione di Antonio Diogene Le meraviglie
di là da Tule (romanzo probabilmente anch’esso del II secolo), il patriarca bizantino Fozio distingue
implicitamente tra filone principale del racconto ed ejktropaiv, le deviazioni narrative o espansioni.
Con le dovute cautele, essendo Fozio del IX secolo e non un intellettuale della Seconda Sofistica
come Apuleio, l’osservazione narratologica si può estendere in modo assai proficuo alle
Metamorfosi.
La situazione del romanzo di Apuleio è particolare, dato che noi possediamo nell’Asino di Luciano
l’ossatura della vicenda di Lucio-asino, senza tutta la ricchezza del racconto apuleiano.
Didatticamente può essere interessante assegnare la lettura dell’Asino di Luciano e delle
Metamorfosi e far stilare una tavola che rappresenti graficamente le ejktropaiv costruite da Apuleio
alla storiella di Lucio uomo-asino-uomo.
La più imponente è ovviamente la storia di Amore e Psiche, cui è di norma dato ampio rilievo in
ogni manuale di storia letteraria; ma sono espansioni rilevanti, ad esempio, anche quelle ai libri VIII
(Tlepolemo e Trasillo) e IX (le storie di adulterio e di amori sanguinari), dalle quali trapela
l’interpretazione cupa del sesso tipica di Apuleio. Fra le digressioni sta anche la vicenda di
Aristomene che abbiamo sintetizzato sopra: nell’Asino è presente solo un rapido accenno a
individui che Lucio incontra per caso sulla via di Ipata, gente di quella città. Con loro Lucio mette
in comune il sale, da loro si fa dare indicazioni sul domicilio del suo ospite, che qui si chiama
Ipparco, e poi si salutano. Il tutto nel giro di mezza paginetta. Nel testo di Apuleio la storia
raccontata da Aristomene, già interessante in se stessa per la complessità e il gioco sapiente della
narrazione, assume significati importanti strada facendo.
Il II libro si apre con l’alba del primo giorno in casa dell’ospite tessalo e con la esplicita
dichiarazione del protagonista di essere preso dalla voglia di conoscere (2. 1: cupidus cognoscendi)
quella terra di arte magica. Il motivo economico del viaggio sembra dimenticato. Non solo: lo stato
d’animo del protagonista è condizionato dal ricordo delle vicende di Aristomene che proprio in
Tessaglia erano avvenute. Lucio si guarda attorno con curiosità (curiose) e la sua percezione
dell’ambiente è alterata, o meglio ne è alterata l’interpretazione: Lucio crede che gli oggetti che
vede non siano quello che sembrano, ma siano invece uomini mutati d’aspetto (in aliam effigiem
translata) per sortilegio (murmure – si badi: è l’uso della voce a provocare la metamorfosi delle
creature: a 1. 3 l’espressione impiegata era magico susurramine). Gli pare anche che muri e dipinti
e statue siano in procinto di mettersi a camminare o a parlare o che dal cielo o dal disco solare possa
discendere all’improvviso un oracolo. Lucio è frastornato e disorientato (sic attonitus, immo vero
cruciabili desiderio stupidus 2. 2) e comincia il suo vagabondare dentro Ipata in
quell’atteggiamento.
La riproposizione dell’effetto della narrazione di Aristomene in apertura del secondo libro è
dunque estremamente interessante. Condizionato dal racconto della fine di Socrate, Lucio gira per
Ipata con la sensazione paranoide di una pervasività totale della magia nella realtà. Essa si
concretizza nell’impressione di muoversi in un mondo in cui la percezione dei sensi non
corrisponda alla reale consistenza delle cose, perché le forme esterne trasmutano: è la metamorfosi
appunto, quella che toccherà di lì a poco a Lucio stesso.
La vicenda di Lucio che si snoda nei libri successivi è complessa e varia e le eco del
racconto di Aristomene sono molteplici. A titolo di esempio, ci si limita a suggerire di tenere
d’occhio il tema del sesso, che era stato cruciale per Socrate e sarà cruciale per Lucio ma anche per
molti altri sventurati, e il tema del cibo, un dettaglio che ritorna un po’ troppo insistito nei primi
capitoli del libro I – nella forma del caseus specificamente – e che poi gioca un ruolo così
importante per Lucio che, imbestiato, è prima costretto al cibo per lui rivoltante dei cavalli e poi
trasformato in straordinaria attrazione proprio per la singolarità di essere un asino che ama cibi
umani. Nel libro XI Lucio alfine riacquista la propria forma di uomo mangiando le rose che ornano
la processione della dea Iside, la quale la notte prima è apparsa a garantirgli la salvezza. Il sacerdote
della processione, già al corrente delle peripezie di Lucio per ispirazione della dea, lo avvicina, gli
parla, gli dipana il significato delle vicende occorsegli: le tribolazioni erano la conseguenza di errori
di percorso, di scelte esistenziali sbagliate. È il cap. 15 del libro XI: la sintesi dello smarrimento di
Lucio tracciata dal sacerdote è densa di espressioni chiave. Lucio ormai è approdato al porto della
pace e all’altare della misericordia (ad portum quietis et aram misericordiae). Giovane di stato
sociale alto per dignitas e per doctrina, egli si era perso nella sua giovane età per la sua curiositas.
Tormentato dalla Fortuna è però stato tratto alla beatitudine religiosa (ad religiosam istam
beatitudinem). Liberato grazie alla provvidenza di Iside, Lucio trionfa ora della Fortuna. Ormai gli
si chiede di entrare nella militia della dea e di assumerne il sacramentum per poterla servire. La
salvazione di Lucio è un monito a tutti gli uomini: vedano i miscredenti e riconoscano il loro errore
(videant irreligiosi, videant et errorem suum recognoscant). La curiositas scatenata dalla narrazione
di Aristomene ora si risolve. Quello cui essa aveva tratto Lucio, cioè la smania di conoscere il
potere della magia, era errore ed è stata fonte di tormento. Della magia esplicitamente il sacerdote
non fa neppure più cenno: tutto il passato è risolto e Lucio rinasce. Il paradigma di morte e
cambiamento accennato nel lavacro osceno cui era stato sottoposto Aristomene ora è trasmutato in
ben altro: Lucio è renatus. Il confine fra la vita e la morte è stato più volte e in vari modi violato
nelle varie storie di cui è intrecciato il romanzo: e lo era stato già, appunto, in modo peculiarissimo,
nel libro I. La conversione illumina il passato: come Lucio rilegge se stesso, il lettore deve tornare a
percorrere il testo e le sue isotopie. La narrazione di Aristomene aveva tracciato alcune di quelle che
ora si comprendono essere le direttrici di interpretazione – o di tessitura – della sorte di Lucio.
Lezione 6. La magia