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SPLEEN

FRANCIS SCOTT
FITZGERALD
IL GRANDE GATSBY
ILLUSTRATO DA SONIA CUCCULELLI

postfazione di
Tony Tanner

traduzione di
Alessandro Fabrizi

NERI POZZA EDITORE


Titolo originale:
The Great Gatsby

© 2021 Neri Pozza Editore, Vicenza


© 2021 Sonia Cucculelli
Le illustrazioni di Sonia Cucculelli sono pubblicate
in accordo con Amaca Agency, Parigi

ISBN 978-88-545-2284-8

www.neripozza.it
ANCORA UNA VOLTA A ZELDA

Metti il cappello d’oro, allora, se può far colpo su di lei;


Se sai saltare in alto, salta anche per lei,
Finché lei ti dirà «Amore dal cappello d’oro, amore che salta così
alto,
Io devo averti!»

Thomas Parke D’Invilliers1


1.

Negli anni in cui ero ancora molto giovane e vulnerabile mio


padre mi fece una raccomandazione su cui rimugino ancora.
«Quando ti viene da criticare qualcuno» mi disse, «ricorda che
non tutti a questo mondo hanno avuto i vantaggi che hai avuto tu».
Non aggiunse altro, ma abbiamo sempre comunicato in modo
insolitamente efficace pur con grande riservatezza, e io capii che
intendeva dire molto di più. Perciò sono incline al riserbo
nell’esprimere giudizi, una consuetudine che ha indotto molti
personaggi bizzarri ad aprirsi con me e che mi ha anche reso vittima
di non pochi inveterati scocciatori. Una mente anormale rileva subito
questa qualità in una persona normale e vi si attacca; così avvenne
che all’università io venissi ingiustamente accusato di essere un
traffichino, perché ero al corrente dei segreti dolori di uomini
stravaganti e misteriosi. Le loro confidenze, in larga parte, non erano
richieste – spesso ho simulato sonno, preoccupazioni o un’ostile
frivolezza quando vedevo profilarsi all’orizzonte i segni inconfondibili
di una rivelazione intima – perché le intime rivelazioni dei giovani
uomini, o quantomeno i termini in cui vengono espresse, sono
generalmente plagi e inficiate da palesi omissioni. Non esprimere
giudizi è questione di infinita speranza. Ho ancora un po’ paura di
perdermi qualcosa se mi dimentico, come mio padre
snobisticamente suggeriva e io snobisticamente ribadisco, che un
senso del basilare decoro non è distribuito in parti uguali per nascita.
E dopo essermi tanto vantato della mia tolleranza, ora ammetto
che questa ha un limite, oltre il quale non mi importa più se una
condotta ha basi granitiche o paludose. Quando tornai dall’Est
l’autunno scorso mi venne voglia, per reazione, di un mondo sempre
in uniforme e moralmente sull’attenti; ne avevo abbastanza di
escursioni sfrenate con privilegiati scorci sull’animo umano. Facevo
eccezione soltanto per Gatsby, l’uomo che dà il nome a questo libro
– Gatsby, che rappresentava tutto ciò per cui provo un genuino
disprezzo. Perché se la personalità è una sequenza ininterrotta di
gesti riusciti, allora c’era in lui qualcosa di splendido, una spiccata
sensibilità alle promesse della vita, come se avesse qualcosa in
comune con quei complicati macchinari che rilevano i terremoti a
diecimila miglia di distanza. Questa sua sensibilità non aveva niente
a che fare con quella smidollata impressionabilità che si tenta di
nobilitare con l’espressione “temperamento creativo” – lui aveva uno
straordinario talento per la speranza, una predisposizione al
romanticismo che non ho mai trovato in nessun altro e che
difficilmente incontrerò di nuovo. No – Gatsby alla fine ne uscì bene;
fu ciò di cui era preda, il sudicio polverone sollevato dal corteo dei
suoi sogni, a smorzare per un certo periodo il mio interesse per i
dolori infruttuosi e gli affannati slanci degli uomini.

La mia è una rispettata famiglia di gente benestante, da tre


generazioni, in questa città del Midwest. I Carraway sono una specie
di clan e una tradizione ci vuole discendenti dai duchi di Buccleuch2,
anche se l’effettivo fondatore della stirpe fu il fratello di mio nonno,
che arrivò qui nel ’51, mandò un altro a fare la Guerra civile al posto
suo e avviò il commercio di ferramenta all’ingrosso che mio padre
porta avanti ancora oggi.
Io non ho mai visto questo prozio, ma a quanto pare gli somiglio e
in particolare ne sarebbe la prova il ritratto piuttosto impietoso che
sta appeso nell’ufficio di mio padre. Mi sono laureato a New Haven3
nel 1915, esattamente a distanza di un quarto di secolo da mio
padre, e poco dopo ho preso parte a quella tardiva migrazione
teutonica nota come la Grande guerra. Il contrattacco mi coinvolse a
tal punto che al mio ritorno mi sentivo irrequieto. Ora il Midwest non
era più il centro caldo del mondo, ma l’orlo consunto dell’universo –
così decisi di andare nell’Est a imparare il mestiere dell’agente di
Borsa. Tutti quelli che conoscevo lavoravano nel ramo delle
obbligazioni e supponevo che potesse ricavarci di che vivere anche
uno scapolo in più. Tutte le zie e gli zii ne discussero come se
dovessero scegliere la migliore scuola privata a cui iscrivermi, infine
dissero “va bene, sì” con volti molto seri e titubanti. Mio padre
accettò di mantenermi per un anno e dopo svariati rinvii mi trasferii
nell’Est in pianta stabile (così pensavo) nella primavera del ’22.
La soluzione più pratica sarebbe stata trovare alloggio in città,
però la stagione era calda e venivo da una terra di ampi prati e alberi
amichevoli, così quando un giovane collega suggerì di prendere
insieme una casa fuori città, e fare i pendolari, mi sembrò una
grande idea. Lui trovò la casa, una villetta di cartone logorato dalle
intemperie per ottanta dollari al mese, ma all’ultimo momento la ditta
lo trasferì a Washington e io me ne andai a stare in campagna da
solo. Avevo un cane (rimase soltanto qualche giorno, poi scappò),
una vecchia Dodge e una finlandese che mi rifaceva il letto,
preparava la colazione e mormorava fra sé e sé parole di finnica
saggezza davanti al fornello elettrico.
Per un paio di giorni patii una certa solitudine, finché una mattina
un tipo, arrivato dopo di me, mi fermò per strada.
«Come si arriva al villaggio di West Egg?» mi chiese smarrito.
Glielo dissi. E quando ripresi a camminare non mi sentivo più
solo. Ero una guida, un pioniere, un colono originario. Senza volerlo
quell’uomo mi aveva conferito la cittadinanza onoraria.
E così tra la luce del sole e il profluvio di foglie sugli alberi –
cresciute alla velocità di un film accelerato – provai la familiare
convinzione che con l’estate la vita abbia inizio di nuovo.
Innanzitutto c’era tanto da leggere, e tanta salute da assorbire in
quell’aria giovane e vitale. Comprai una dozzina di volumi su
operazioni bancarie, credito e investimenti, e stavano sul mio
scaffale rossi e oro come denaro nuovo di zecca, promettendo di
svelare i luccicanti segreti che solo Mida, Morgan e Mecenate
conoscevano. E avevo anche la nobile intenzione di leggere molti
altri libri. All’università ero un tipo piuttosto letterato – un anno avevo
scritto una serie di editoriali molto banali e altisonanti per lo Yale
News – e ora mi preparavo a far rientrare tutte queste cose nella mia
vita per tornare a essere il più limitato degli specialisti, un cosiddetto
“uomo eclettico”. Questo non è soltanto un epigramma – in fin dei
conti la vita la si osserva con molto più profitto da un’unica finestra.
Fu una casualità che prendessi in affitto una casa in una delle più
bizzarre comunità del Nord America. Era su quell’isola sottile e
sregolata che si estende proprio a est di New York e dove, tra le
varie curiosità naturali, si trovano due insolite formazioni geologiche.
Due enormi uova, dall’identico contorno e separate soltanto da una
baia di cortesia, si protendono, a venti miglia dalla città, nel tratto di
acqua salata più addomesticato dell’emisfero occidentale, quella
grande aia marina che è il Long Island Sound. Non sono ovali
perfetti – sono entrambi schiacciati nel punto di appoggio, come
l’uovo di Colombo – ma la loro somiglianza fisica deve essere fonte
di perpetua meraviglia per i gabbiani che li sorvolano. Per chi non ha
le ali la cosa più interessante è quanto differiscano in ogni
particolare eccetto forma e misura.
Io vivevo a West Egg – be’, sì, l’ovale meno alla moda, per
quanto questa sia un’etichetta davvero generica per indicare il
bizzarro e non poco sinistro contrasto fra i due. La mia casa era
proprio sulla punta dell’uovo, a soli cinquanta passi dal mare,
strizzata fra due enormi dimore che venivano affittate per dodici o
quindicimila dollari a stagione. Quella a destra era una roba
mastodontica da ogni punto di vista, la perfetta imitazione di un
qualche hôtel de ville in Normandia, con una torretta da un lato che
sotto una fine peluria di edera selvatica era nuova di pacca, una
piscina in marmo e più di quaranta acri di prato e giardino. Era la
villa di Gatsby. O meglio – perché Gatsby ancora non lo conoscevo
– era la villa in cui abitava un gentiluomo che portava quel nome. La
mia casa era un pugno in un occhio, ma era un piccolo pugno in un
occhio ed era passata inosservata, per cui godevo della vista del
mare, di uno scorcio sul giardino del mio vicino e della confortante
prossimità dei milionari – tutto per soli ottanta dollari al mese.
Dall’altra parte della baia di cortesia brillavano, lungo tutto lo
specchio d’acqua, i bianchi palazzi della modaiola East Egg, e la
storia di quell’estate inizia proprio la sera in cui mi recai lì in
macchina per cenare con i Buchanan. Daisy era mia cugina di terzo
grado e Tom lo avevo conosciuto all’università. Appena finita la
guerra avevo passato due giorni con loro a Chicago.
Lui, tra i vari successi atletici, era stato uno degli attaccanti più
forti che abbiano mai giocato a football a New Haven – per certi versi
un personaggio di fama nazionale, uno di quegli uomini che a ventun
anni toccano un picco di eccellenza in un determinato campo per cui
tutto ciò che segue ha il sapore di un anticlimax. Apparteneva a una
famiglia estremamente ricca – perfino all’università la sua
disinvoltura con i soldi era oggetto di riprovazione – ma il suo
recente trasferimento da Chicago nell’Est era avvenuto in una
maniera da togliere il fiato: tanto per dirne una, si era portato dietro
una serie di pony da polo da Lake Forest4. Era difficile prendere atto
che un uomo della mia generazione fosse così ricco da potersi
permettere una cosa del genere.
Non so perché fossero venuti nell’Est. Avevano passato un anno
in Francia, senza un motivo particolare, poi avevano vagato irrequieti
qua e là fermandosi ovunque ci fosse gente che giocava a polo e
condividesse la loro condizione di ricchi. Questo era un trasferimento
definitivo, mi disse Daisy al telefono, ma non ci credetti – non potevo
leggerle nel cuore, però sentivo che Tom avrebbe continuato a
vagare per sempre alla ricerca un po’ nostalgica della drammatica
turbolenza di qualche irrecuperabile partita di football.
E fu così che in una calda sera ventosa presi la macchina e andai
fino a East Egg a trovare due vecchi amici che conoscevo appena.
La loro casa era ancora più ricercata di quanto mi aspettassi,
un’allegra villa coloniale rossa e bianca, in stile georgiano, che
affacciava sulla baia. Il prato correva dalla spiaggia al portone
d’ingresso per un quarto di miglio, oltrepassando meridiane, sentieri
mattonati e giardini ardenti fino a che, giunto all’edificio, come per lo
slancio della corsa saliva sul muro laterale con rampicanti dalle
foglie verdissime. La facciata era interrotta da una fila di
portefinestre che, spalancate al vento caldo fin dal pomeriggio,
splendevano del riflesso di una luce dorata. Tom Buchanan, in
tenuta da cavallerizzo, era in piedi a gambe divaricate sul portico
anteriore.
Era cambiato dagli anni di New Haven. Adesso era un trentenne
massiccio dai capelli biondo paglierino, una bocca dal taglio severo
e un atteggiamento altezzoso. Il volto era dominato da due occhi
brillanti e arroganti che lo facevano sembrare sempre
aggressivamente proteso in avanti. Neppure l’effeminata sciccheria
degli abiti da equitazione poteva celare l’enorme potenza di quel
corpo, che sembrava colmare i lucidi stivali fino a farne saltare
l’allacciatura superiore; al movimento di una spalla si vedevano
gonfiare i muscoli sotto il tessuto sottile della giacca. Era un corpo
dotato di un’enorme forza d’urto – era un corpo crudele.
Parlava con una voce tenorile roca e burbera che contribuiva alla
generale impressione di litigiosità che trasmetteva. Vi si sentiva una
punta di disprezzo paterno, anche verso chi gli stava simpatico – e
alcuni uomini a New Haven lo trovavano rivoltante.
«Non pensare che la mia opinione su queste faccende sia quella
più giusta» pareva dire «solo perché sono più forte e più maschio di
te». Appartenevamo entrambi alla stessa Senior Society5, e pur non
essendo mai stati intimi avevo sempre avuto l’impressione che mi
stimasse e nutrisse un suo ispido e sprezzante desiderio di riuscirmi
simpatico.
Per alcuni minuti parlammo nel portico assolato.
«Mi sono trovato una bella casetta» disse, con gli occhi sempre
dardeggianti.
Mi prese per un braccio, mi fece voltare e mi mostrò il panorama,
includendo nell’ampio gesto della sua grossa mano aperta un
giardino incassato all’italiana, un mezzo acro di altissime rose
dall’odore pungente e un motoscafo dalla prua schiacciata che
sbatteva il muso al largo contro le onde.
«Era di Demaine, quello del petrolio». Mi fece voltare di nuovo,
con brusca gentilezza. «Andiamo dentro».
Percorremmo un alto corridoio fino a un luminoso ambiente
rosseggiante, labilmente contenuto nel perimetro abitabile dalle
portefinestre su entrambi i lati. Le finestre socchiuse si opponevano
con il loro candido bagliore all’erba fresca che da fuori pareva
propagarsi dentro la casa. Nella stanza soffiava una brezza, soffiava
muovendo le tende da un lato verso l’interno, dall’altro verso
l’esterno, come pallidi stendardi, sollevandole verso la glassa da
torta nuziale del soffitto – e come fa il vento sul mare increspava il
tappeto colore del vino, coprendolo di ombra.
L’unico oggetto veramente stabile nella stanza era un enorme
divano su cui galleggiavano due giovani donne, come su una
mongolfiera all’ancora. Erano entrambe vestite di bianco e i loro abiti
s’increspavano e sventolavano, come se fossero state appena
risospinte lì dopo un breve volo attorno alla casa. Devo essere
rimasto alcuni momenti ad ascoltare le tende che sbattevano e
schioccavano e il gemito di un quadro alla parete. Poi ci fu un botto
quando Tom Buchanan chiuse le finestre sul retro; il vento
imprigionato nella stanza perse vita e le tende e i tappeti e le due
giovani donne planarono lentamente a terra.
La più giovane era per me una sconosciuta. Era completamente
distesa a un capo del divano, del tutto immobile e con il mento
leggermente sollevato, come se vi tenesse in equilibrio un oggetto
che rischiava di cadere. Se anche mi aveva visto con la coda
dell’occhio, non ne diede alcun segno – in effetti, quasi mi sorpresi a
mormorare le mie scuse per averla disturbata con il mio ingresso.
L’altra ragazza, Daisy, provò ad alzarsi – si protese leggermente
in avanti con un’espressione coscienziosa – poi rise, di una risatina
assurda e incantevole, e risi anch’io e avanzai nella stanza.
«Sono p-paralizzata dalla felicità».
Rise di nuovo, come se avesse detto qualcosa di molto spiritoso,
e mi tenne la mano un momento, guardandomi in faccia, giurando
che non c’era nessun altro al mondo che lei desiderasse così tanto
vedere. Faceva sempre così. Accennò in un mormorio che il
cognome dell’equilibrista era Baker. (Ho sentito dire che Daisy
mormorasse solo affinché la gente si chinasse verso di lei; una
critica irrilevante, che non toglieva alla cosa il suo charme.)
A ogni modo le labbra della signorina Baker ebbero un fremito, mi
rivolse un cenno appena percettibile del capo e poi svelta rovesciò di
nuovo la testa indietro – evidentemente l’oggetto che teneva in
equilibrio sul mento aveva vacillato facendole prendere una certa
paura. Di nuovo mi venne alle labbra una specie di scusa. Quasi
tutte le esibizioni di completa autosufficienza suscitano in me uno
stupefatto apprezzamento.
Tornai a guardare mia cugina, che iniziò a farmi domande con
quel suo avvincente filo di voce. Era il tipo di voce di cui l’orecchio
segue i toni alti e bassi, come se ogni discorso fosse una partitura di
note che non verrà eseguita mai più. Il suo era un volto triste e bello,
con tratti luminosi, occhi luminosi e una bocca luminosa e
appassionata – ma nella sua voce c’era qualcosa di eccitante che
risultava difficile da dimenticare agli uomini che provavano qualcosa
per lei: un impulso a cantare, un sussurrato “ascoltatemi”, una
promessa di cose allegre ed eccitanti sul punto di accadere, perché
lei, fino a quel momento, aveva solo fatto cose allegre ed eccitanti.
Le dissi che venendo nell’Est mi ero fermato un giorno a Chicago
e che una dozzina di persone mi avevano chiesto di portarle i loro
affettuosi saluti.
«Sentono la mia mancanza?» chiese estasiata.
«L’intera città è affranta. Tutte le automobili hanno la ruota
posteriore sinistra dipinta di nero in segno di lutto e per tutta la notte
lungo il North Shore s’ode un protratto lamento».
«Favoloso! Torniamo, Tom. Domani!» Poi aggiunse, senza nesso:
«Devi vedere la bimba».
«Con piacere».
«Dorme. Ha due anni. Non l’hai mai vista?»
«Mai».
«Be’, devi vederla. È…»
Tom Buchanan, la cui irrequieta presenza aveva aleggiato per la
stanza, si fermò e mi posò una mano sulla spalla.
«Tu cosa fai, Nick?»
«Sono nel ramo delle obbligazioni».
«Con chi?»
Glielo dissi.
«Mai sentiti nominare» osservò con decisione.
Questo mi scocciò.
«Ti capiterà» risposi seccamente. «Ti capiterà, se resti nell’Est».
«Oh, ci resterò, non ti preoccupare» disse, lanciando un’occhiata
a Daisy e poi a me, come in allerta. «Sarei un maledetto imbecille a
vivere da qualunque altra parte».
A quel punto la signorina Baker disse: «Assolutamente!» così
all’improvviso che sobbalzai – era la prima parola che pronunciava
da quando ero entrato nella stanza. Evidentemente rimase sorpresa
quanto me, perché prima sbadigliò, poi con una serie di movimenti
rapidi e agili si alzò in piedi.
«Sono tutta indolenzita» lamentò, «non mi ricordo più per quanto
tempo sono rimasta stesa su quel divano».
«Non guardare me» rimbeccò Daisy. «Ho passato il pomeriggio a
cercare di portarti a New York».
«No, grazie» disse la signorina Baker ai quattro cocktail appena
arrivati dalle cucine, «sono assolutamente in allenamento».
Il padrone di casa la guardò incredulo.
«Davvero!» Si scolò tutto il drink come fosse soltanto un’ultima
goccia sul fondo del bicchiere. «Che tu riesca a portare qualcosa
fino in fondo è al di là della mia comprensione».
Guardai la signorina Baker domandandomi cosa riuscisse a
“portare fino in fondo”. Mi piaceva guardarla. Era una ragazza
slanciata, con il seno piccolo e il portamento eretto, che accentuava
tirando indietro le spalle come un cadetto. I suoi occhi grigi affaticati
dal sole ricambiarono educatamente la mia curiosità, rivolgendosi a
me dal volto fiacco, incantevole, scontento. A quel punto mi
sovvenne di averla già vista da qualche parte, forse in fotografia.
«Abitate a West Egg» osservò sprezzante. «Conosco una
persona che abita lì».
«Io non conosco nemmeno…»
«Dovete certamente conoscere Gatsby».
«Gatsby?» chiese Daisy. «Gatsby chi?»
Prima che potessi rispondere che era il mio vicino, venne
annunciata la cena; Tom Buchanan ficcò imperiosamente il suo
rigido braccio sotto il mio e mi portò fuori dalla stanza come se
stesse spostando una pedina sulla scacchiera.
Flessuose, languide, con le mani delicatamente posate sui
fianchi, le due ragazze ci precedettero fuori, su un portico rosato
affacciato al tramonto, dove sulla tavola le fiamme di quattro candele
tremolavano al vento che andava calando.
«Perché le candele?» protestò Daisy, facendo il broncio. E le
spense con le dita. «Tra due settimane è il giorno più lungo
dell’anno». Ci guardò radiosa. «Anche voi passate il tempo ad
aspettare il giorno più lungo dell’anno e poi ve lo perdete? Io sto
tutto il tempo ad aspettare il giorno più lungo dell’anno e poi me lo
perdo».
«Dobbiamo organizzare qualcosa» sbadigliò la signorina Baker,
sedendosi a tavola come se si infilasse a letto.
«D’accordo» disse Daisy. «Che organizziamo?» E si voltò verso
di me in cerca di aiuto. «Cosa organizza la gente?»
Prima che potessi rispondere, lei fissò il suo sguardo costernato
sul dito mignolo.
«Guardate!» si lagnò. «Mi sono fatta male».
Guardammo tutti – la nocca era nera e blu.
«Sei stato tu, Tom» disse in tono accusatorio. «So che non l’hai
fatto apposta, ma l’hai fatto. È quello che mi spetta per avere
sposato un bruto, un grande e grosso esemplare di energumeno…»
«Non sopporto la parola energumeno» contrattaccò seccato Tom,
«nemmeno detta per scherzo».
«Energumeno» insistette Daisy.
A volte lei e la signorina Baker parlavano simultaneamente, in
sottofondo, in un cicaleccio incoerente che non si poteva mai
nemmeno definire chiacchiera, freddo come i loro abiti bianchi e i
loro sguardi impersonali in cui era assente ogni desiderio. Erano lì e
accettavano la presenza mia e di Tom, sforzandosi di intrattenere ed
essere intrattenute quel tanto che bastava per non essere
maleducate. Sapevano che entro breve la cena sarebbe finita e
dopo un po’ anche la serata, messa via con noncuranza. Era molto
diverso dall’Ovest, dove le serate venivano velocemente sospinte di
fase in fase verso la conclusione, in un costante susseguirsi di
aspettative deluse o per puro angoscioso timore del momento
presente.
«Mi fai sentire un incivile, Daisy» confessai, al mio secondo
bicchiere di un chiaretto notevole ma dal vago sapore di tappo. «Non
potresti parlare di agricoltura o roba del genere?»
Non volevo dire niente di particolare con questa osservazione,
ma venne accolta in modo inaspettato.
«La civiltà sta andando a pezzi» proruppe con violenza Tom.
«Sono diventato molto pessimista su tutto. Hai letto L’ascesa degli
imperi di colore6 di un certo Goddard?»
«A dire il vero, no» risposi, alquanto sorpreso dal suo tono.
«Be’, è un bel libro, e dovrebbero leggerlo tutti. L’idea è che, se
non stiamo attenti, la razza bianca sarà… verrà del tutto sommersa.
È tutta roba scientifica; è dimostrato».
«Tom sta diventando molto profondo» disse Daisy con
un’espressione di irriguardosa tristezza. «Legge libri seri pieni di
paroloni. Qual era quella parola che noi…»
«Be’, sono tutti libri scientifici» ribadì Tom, lanciandole
un’occhiata irritata. «Questo tipo ha studiato bene la cosa. Spetta a
noi, che siamo la razza dominante, stare in guardia, altrimenti le altre
razze prenderanno il controllo».
«Dobbiamo sottometterle» bisbigliò Daisy, ammiccando con
ferocia al sole incandescente.
«Bisognerebbe vivere in California…» attaccò la signorina Baker,
ma Tom la interruppe, cambiando pesantemente posizione sulla
sedia.
«L’idea è che noi siamo nordici. Io, e anche tu, e tu e…» Dopo
una microscopica esitazione Tom incluse anche Daisy, con un
leggero cenno della testa, e lei di nuovo ammiccò nella mia
direzione. «…E abbiamo prodotto tutto quello che serve a fare una
civiltà – oh, la scienza e l’arte e tutto il resto. Capite?»
C’era un che di patetico nell’aria concentrata con cui si esprimeva
Tom, come se il suo autocompiacimento, peraltro accresciuto
rispetto al passato, non gli bastasse più. Quando, quasi
immediatamente, suonò il telefono dentro la casa e il maggiordomo
lasciò il portico, Daisy approfittò della momentanea interruzione e si
chinò verso di me.
«Voglio dirti un segreto di famiglia» sussurrò con entusiasmo.
«Riguarda il naso del maggiordomo. Vuoi sapere del naso del
maggiordomo?»
«Sono venuto apposta».
«Be’, non ha fatto sempre il maggiordomo; era addetto alle pulizie
dell’argenteria per certa gente a New York che aveva un servizio
d’argento per duecento persone. A furia di lucidare argento dalla
mattina alla sera, a un certo punto cominciò ad avere problemi al
naso…»
«E le cose andarono di male in peggio» suggerì la signorina
Baker.
«Sì, le cose andarono di male in peggio, tanto che alla fine
dovette lasciare il lavoro».
Per un momento l’ultima luce del sole cadde sul suo viso radioso
con romantico affetto; la sua voce mi tenne con il fiato sospeso ad
ascoltare – poi la radiosità si spense e anche l’ultimo raggio di luce
la abbandonò a malincuore, come i bambini all’imbrunire
abbandonano la strada dei giochi.
Il maggiordomo tornò e mormorò qualcosa all’orecchio di Tom,
che si accigliò, spinse indietro la sedia e senza dire parola rientrò in
casa. Daisy, come stimolata dall’assenza di lui, si chinò di nuovo in
avanti, con voce radiosa e musicale.
«Adoro vederti alla mia tavola, Nick. Mi ricordi… una rosa,
un’assoluta rosa. Non è vero?» Si rivolse alla signorina Baker in
cerca di consenso. «Un’assoluta rosa?»
Non era vero. Io non assomiglio neanche vagamente a una rosa.
Daisy stava parlando a vanvera, ma emanava un calore
commovente, come se in una di quelle parole ansimanti e avvincenti
fosse nascosto il suo cuore che cercava di rivelarsi. Poi d’un tratto
gettò il tovagliolo sul tavolo, si scusò ed entrò in casa.
La signorina Baker e io ci scambiammo una breve occhiata
deliberatamente priva di significato. Ero sul punto di parlare quando
lei si tirò su in allerta e fece «Sh!» con tono di avvertimento. Dalla
stanza all’interno si udiva un sommesso ma appassionato mormorio
e la signorina Baker, senza inibizioni, si protese per cercare di
sentire. Il mormorio vacillò al limite della comprensibilità, sprofondò,
risalì concitato e infine cessò del tutto.
«Quel signor Gatsby di cui dicevate è il mio vicino…» cominciai.
«Non parlate. Voglio sentire che sta succedendo».
«Sta succedendo qualcosa?» domandai candidamente.
«Volete dire che non lo sapete?» disse la signorina Baker,
sinceramente sorpresa. «Pensavo lo sapessero tutti».
«Io no».
«Ecco…» disse, esitante. «Tom ha una donna a New York».
«Ha una donna?» feci eco senza espressione.
La signorina Baker annuì.
«Potrebbe avere almeno la decenza di non chiamarlo all’ora di
cena. Non credete?»
Ancora prima che io cogliessi il significato delle sue parole, si udì
il fruscio di un vestito e uno scricchiolio di stivali di pelle, e Tom e
Daisy tornarono a tavola.
«Non si poteva evitare!» strillò Daisy con tesa allegria.
Si sedette, cercando con lo sguardo prima la signorina Baker e
poi me, e proseguì: «Ho guardato fuori un momento ed è molto
romantico fuori. C’è un uccello sul prato che penso sia un usignolo
arrivato con la Cunard o la White Star. È lì che se la canta…» E la
sua voce cantò: «Non è romantico, Tom?»
«Molto romantico» disse lui, e poi mestamente a me: «Se dopo
cena c’è abbastanza luce, ti voglio portare di sotto a vedere le
scuderie».
Lo squillo del telefono dentro la casa ci fece sobbalzare e, mentre
Daisy scuoteva decisa la testa rivolgendosi a Tom, l’argomento
scuderie svanì, come in effetti ogni altro argomento. Tra gli
sconnessi frammenti che ricordo di quegli ultimi cinque minuti a
tavola ci sono le candele che vengono riaccese, senza motivo, e il
mio desiderio di guardare tutti dritto negli occhi e al tempo stesso
evitare ogni sguardo. Non avevo idea di cosa pensassero Daisy e
Tom, ma dubito che la signorina Baker, che sembrava capace di un
certo coriaceo scetticismo, riuscisse a ignorare totalmente
l’insistenza metallica del trillo di quella quinta convitata. Per il
temperamento di qualcuno la situazione sarebbe anche potuta
apparire intrigante – il mio istinto fu di telefonare immediatamente
alla polizia.
Inutile dire che i cavalli non vennero più nominati. Tom e la
signorina Baker, a qualche passo di crepuscolo l’uno dall’altra, si
trasferirono nella biblioteca, come per partecipare alla veglia funebre
di un corpo perfettamente tangibile, mentre io, cercando di apparire
piacevolmente interessato e un tantino sordo, seguii Daisy per una
serie di verande contigue fino al portico anteriore. Immersi
nell’oscurità, sedemmo uno accanto all’altra su un sofà di vimini.
Daisy si prese il volto fra le mani, come per tastarne la bellezza, e
poi i suoi occhi gradualmente si spostarono sul vellutato tramonto.
Vidi che era in preda a un tumulto di emozioni, e le feci quelle che
consideravo domande calmanti sulla sua bambina.
«Noi due non ci conosciamo molto bene, Nick» disse d’un tratto.
«Pur essendo cugini. Non sei venuto al mio matrimonio».
«Non ero tornato dalla guerra».
«Vero». Esitò. «Be’, ho passato un gran brutto periodo, Nick, e
sono diventata un po’ cinica su tutto».
Evidentemente ne aveva motivo. Aspettai, ma non disse altro, e
dopo un momento ritornai timidamente sull’argomento figlia.
«Immagino che parli, e… mangi, e tutto il resto».
«Oh, sì». Mi guardò assente. «Senti, Nick; ora ti racconto cosa
dissi quando nacque. Ti interessa?»
«Sì, certo».
«Così capirai come sono arrivata a pensarla in questo modo.
Bene, la bambina era nata da un’ora e Tom stava Dio solo sa dove.
Mi svegliai dall’anestesia con una sensazione di completo
abbandono e chiesi subito all’infermiera se era un maschio o una
femmina. Mi disse che era femmina, così mi voltai dall’altra parte e
piansi. “D’accordo” dissi, “sono contenta che sia femmina. E spero
che sia una sciocca – per una ragazza a questo mondo è la cosa
migliore, essere bella e sciocca”.
«Sai, io penso che comunque sia tutto terribile» proseguì con
convinzione. «Lo pensano tutti – i più evoluti. E io lo so. Sono stata
dappertutto e ho visto di tutto e fatto di tutto». Lanciava in giro
occhiate lampeggianti, con aria di sfida, in modo simile a Tom, e
rideva con uno sdegno elettrizzante. «Sofisticata – Dio mio, se sono
sofisticata!»
L’istante in cui la sua voce tacque e cessò di catturare la mia
attenzione e la mia fiducia, percepii di colpo la fondamentale
insincerità di quello che aveva detto. Mi sentii a disagio, come se
l’intera serata fosse stata una specie di trappola per estorcermi un
contributo emotivo. Restai in attesa e quel che è certo è che, un
momento dopo, Daisy mi guardò esibendo sul bel volto un sorriso
assolutamente furbetto, come per dichiarare la sua affiliazione a una
alquanto esclusiva società segreta della quale lei e Tom facevano
parte.

Dentro la casa, la stanza cremisi rifulgeva di luce. Tom e la signorina


Baker sedevano alle due estremità del lungo divano e lei gli leggeva
ad alta voce il Saturday Evening Post – le parole, in un mormorio
senza inflessioni, si fondevano in una melodia rassicurante. La luce
della lampada rendeva gli stivali di lui ancora più brillanti e smorzava
il colore giallo foglia d’autunno dei capelli di lei, scintillando sul
giornale quando voltava pagina con un fremito dei muscoli snelli
delle braccia.
Appena entrammo, ci ordinò un momento di silenzio con la mano
alzata.
«Continua nel prossimo numero» disse, gettando la rivista sul
tavolo.
Il suo corpo manifestò la propria presenza con un movimento
inquieto del ginocchio, e la signorina Baker si alzò.
«Le dieci» osservò, come se avesse letto l’ora sul soffitto. «L’ora
che questa brava ragazza vada a letto».
«Jordan partecipa al torneo di Westchester7 domani» spiegò
Daisy.
«Oh… voi siete Jordan Baker8».
Adesso capivo perché il suo viso mi era familiare – la sua
gradevole espressione di sprezzo mi aveva guardato dalle
illustrazioni di tanti rotocalchi sulla vita sportiva a Asheville, Hot
Springs e Palm Beach9. Avevo anche sentito una storia su di lei, una
storia negativa, sgradevole, ma di cosa si trattasse l’avevo
dimenticato da molto tempo.
«Buonanotte» disse delicatamente. «Mi svegliate alle otto?»
«Se ti alzi».
«Certamente. Buonanotte, signor Carraway. A presto rivederci».
«Sicuro» confermò Daisy. «Anzi, penso che combinerò un
matrimonio. Vieni a trovarci spesso, Nick, e io farò in modo che…
oh… che vi ritroviate insieme. Sai, potrei chiudervi per sbaglio nel
ripostiglio della biancheria, per esempio, o spingervi al largo su una
barca, quel genere di cose…»
«Buonanotte» gridò la signorina Baker dalle scale. «Non ho
sentito neanche una parola».
«È una brava ragazza» disse Tom poco dopo. «Non dovrebbero
lasciarla andare in giro per il paese in questo modo».
«Chi non dovrebbe lasciarla andare in giro?» inquisì Daisy
freddamente.
«La sua famiglia».
«La sua famiglia è una zia che avrà mille anni. E poi Nick si
prenderà cura di lei, non è vero, Nick? Jordan passerà qui tanti fine
settimana quest’estate. Penso che l’atmosfera di casa le farà molto
bene».
Daisy e Tom si guardarono un momento in silenzio.
«È di New York?» mi affrettai a chiedere.
«Di Louisville. Abbiamo passato lì la nostra bianca fanciullezza.
La nostra bella bianca…»
«Hai fatto a Nick delle confidenze cuore a cuore in veranda?»
chiese all’improvviso Tom.
«Io?» Daisy mi guardò. «Non mi ricordo, ma credo che abbiamo
parlato della razza nordica. Sì, ne sono certa. È venuto il discorso e
senza nemmeno accorgercene…»
«Non credere a tutto ciò che senti, Nick» fu il consiglio di lui.
Dissi con leggerezza di non avere sentito nulla e qualche minuto
dopo mi alzai per tornare a casa. Mi accompagnarono alla porta e si
stagliarono uno a fianco all’altra in un festoso riquadro di luce. Come
accesi il motore, Daisy gridò, perentoria: «Aspetta! Ho dimenticato di
chiederti una cosa, ed è importante. Abbiamo sentito dire che eri
fidanzato con una ragazza nell’Ovest».

«Proprio così» avallò Tom. «Abbiamo sentito dire che eri


fidanzato».
«È una calunnia. Sono troppo povero».
«Ma l’abbiamo sentito dire» insistette Daisy, e fui sorpreso di
vederla aprirsi nuovamente come un fiore. «Da tre persone diverse,
quindi dev’essere vero».
Naturalmente sapevo a cosa si riferivano, ma non ero neanche
lontanamente fidanzato. E uno dei motivi per cui ero venuto nell’Est
era proprio che i pettegoli avevano già fatto le pubblicazioni. Non è
giusto smettere di frequentare una vecchia amica a causa delle voci
che circolano, ma d’altro canto non mi andava che le voci in circolo
mi costringessero a sposarmi.
L’interessamento di Tom e Daisy mi commosse e me li rese meno
remotamente ricchi – ciò non toglie che, tornando verso casa in
macchina, mi sentissi confuso e anche un po’ disgustato. Mi
sembrava che la cosa giusta da fare per Daisy fosse scappare,
bimba in collo, da quella villa – ma evidentemente non ne aveva
nessuna intenzione. Per quanto riguarda Tom, il fatto che avesse
“una donna a New York” era decisamente meno sorprendente del
fatto che un libro lo avesse depresso. Qualcosa lo induceva a
sbocconcellare idee stantie, come se il suo robusto egocentrismo
fisico non bastasse più a nutrire il suo cuore imperioso.
Era già piena estate sui tetti delle roadhouse e davanti ai garage
lungo la strada, dove spiccavano in pozze di luce nuove pompe di
benzina rosse, e quando giunsi al mio lotto a West Egg infilai la
macchina nella rimessa e restai un po’ a sedere su un rullo per l’erba
abbandonato in giardino. Il vento era calato, lasciandosi dietro la
notte piena di luce e rumori di ali che sbattevano fra gli alberi e un
persistente suono di organo, il mantice della terra che pompava di
vita le rane. Nel chiarore lunare balenò la sagoma di un gatto e,
voltando la testa per guardarlo, vidi che non ero solo – a quindici
passi da me, dall’ombra della villa del mio vicino era emersa una
figura, in piedi con le mani in tasca a contemplare il cielo spruzzato
di stelle d’argento. Qualcosa nell’agio dei suoi movimenti e la solidità
dell’appoggio dei piedi sul prato mi suggerirono che si trattava del
signor Gatsby in persona, uscito a stabilire quale fetta dei nostri cieli
gli appartenesse.
Decisi di chiamarlo. La signorina Baker aveva fatto il suo nome a
cena, e questo era motivo sufficiente per presentarci. Però non lo
chiamai perché d’un tratto diede segno di stare bene da solo:
protese le braccia verso l’acqua scura e, per quanto fossi distante da
lui, avrei giurato che stesse tremando. Involontariamente i miei occhi
si volsero al mare, e non distinsi altro che una solitaria luce verde,
minuscola e distante, che poteva essere in fondo a un pontile.
Quando tornai a cercare Gatsby con lo sguardo, era scomparso e io
ero di nuovo solo in quella agitata oscurità.
2.

A circa metà del tragitto da West Egg a New York l’autostrada si


congiunge bruscamente alla ferrovia, correndole accanto per un
quarto di miglio, come per ritrarsi da un certo afflitto appezzamento
di terra. È una valle di ceneri10 – una fattoria da incubo dove al posto
del grano crescono ceneri, formando alture e collinette e grotteschi
giardini e prendendo la forma di case e ciminiere e spirali di fumo e
infine, con slancio trascendente, di uomini grigio-cenere che si
muovono indistintamente come se fossero sul punto di sgretolarsi
nell’aria polverosa. Di tanto in tanto una fila di vagoni grigi avanza
lungo un binario invisibile, emette uno spettrale cigolio e poi si
arresta, e subito gli uomini grigio-cenere sciamano armati di vanghe
di piombo e sollevano una nube impenetrabile che nasconde alla
vista le loro oscure operazioni.
Ma al di sopra di quella terra grigia e degli spasmi di polvere tetra
che incessantemente vi aleggiano, poco dopo si scorgono gli occhi
del dottor T.J. Eckleburg. Gli occhi del dottor T.J. Eckleburg sono
azzurri e giganteschi – le retine sono alte quanto un braccio. Non ti
guardano da una faccia, ma da dietro un paio di enormi occhiali gialli
a cavallo di un naso inesistente. Evidentemente un eccentrico
burlone di oculista li ha messi lì per incrementare i suoi affari nel
distretto di Queens, dopodiché è sprofondato nella cecità eterna
oppure se li è dimenticati e se n’è andato altrove. Ma i suoi occhi, un
po’ sbiaditi per tutti i giorni di sole e di pioggia senza una ripassata di
vernice, continuano a incombere sulla solenne discarica.
La valle di ceneri confina da un lato con un fiumiciattolo mefitico
e, quando il ponte levatoio si alza per fare passare le chiatte, i
passeggeri sui treni in attesa possono stare anche una buona
mezz’ora a osservare la squallida scena. Lì si fa sempre una sosta
di almeno un minuto, ed è così che conobbi l’amante di Tom
Buchanan.
Che ne avesse una veniva rimarcato ovunque ci fosse qualcuno
che lo conosceva. E chi lo conosceva non gradiva che si facesse
vedere con lei in ristoranti frequentati, lasciandola da sola al tavolo
per andare in giro a chiacchierare con chiunque. Per quanto fossi
curioso di vederla, non desideravo conoscerla – ma successe
ugualmente. Un pomeriggio andai in treno a New York con Tom e,
quando ci fermammo ai cumuli di cenere, lui saltò in piedi e
prendendomi per il gomito mi trascinò letteralmente giù dal vagone.
«Scendiamo!» intimò. «Voglio presentarti la mia ragazza».
Penso che avesse trincato parecchio a pranzo e la sua
determinazione a portarmi con sé rasentava la violenza. Il borioso
presupposto era che di domenica pomeriggio io non avessi niente di
meglio da fare.
Lo seguii oltrepassando il basso steccato bianco della ferrovia,
per poi tornare indietro di un centinaio di passi lungo la strada, sotto
lo sguardo incessante del dottor Eckleburg. L’unico edificio in vista
era una costruzione di mattoni gialli piazzata al limitare di quella
terra desolata, servita da una specie di via principale in miniatura,
contigua al nulla assoluto. Dei tre locali che includeva, uno era sfitto
e un altro era un ristorante aperto tutta la notte raggiungibile per un
sentiero di ceneri; il terzo era un’officina: RIPARAZIONI. GEORGE B.
WILSON. COMPRAVENDITA DI AUTOMOBILI. Vi entrai al seguito di Tom.
L’interno era misero e disadorno; di automobili se ne vedeva una
sola, una carcassa di Ford ricoperta di polvere, acquattata in un
angolo buio. Stavo pensando che quell’ombra di officina servisse da
copertura a sontuosi e romantici appartamenti celati al piano
superiore, quando il proprietario in persona apparve sulla porta di un
ufficio, pulendosi le mani in uno straccio. Un uomo biondo, anemico
e abbacchiato, vagamente bello. Nel vederci gli si accese negli occhi
celesti un tenue bagliore di speranza.
«Salve, Wilson, vecchio mio» disse Tom dandogli una gioviale
pacca sulla spalla. «Come vanno gli affari?»
«Non posso lamentarmi» rispose Wilson in tono poco
convincente. «Quando vi decidete a vendermi la macchina?»
«La prossima settimana; il mio meccanico ci sta ancora
lavorando».
«Se la prende comoda, eh?»
«No» disse Tom freddamente. «E se la pensi così, magari è
meglio che la vendo a qualcun altro, in fin dei conti».
«Non è questo che volevo dire» si affrettò a spiegare Wilson.
«Volevo solo dire che…»
La voce si smorzò e Tom si guardò in giro con impazienza. Poi
udii dei passi sulle scale e in un momento la corpulenta figura di una
donna ostruì la luce proveniente dall’ufficio. Aveva fra i trenta e i
quarant’anni, era vagamente sovrappeso ma portava quanto c’era di
abbondante in lei con la sensualità di cui sono capaci alcune donne.
Il viso, che spuntava da un vestito a pois di crêpe de Chine blu, non
mostrava sfaccettature o scintille di bellezza, però da lei emanava
una vitalità immediatamente percepibile, come se i nervi del suo
corpo fossero braci sempre ardenti. Sorrise lentamente e, passando
oltre il marito come oltre un fantasma, strinse la mano a Tom,
guardandolo dritto negli occhi. Poi si bagnò le labbra e senza voltarsi
disse al marito con voce bassa e rude:
«Vuoi andare a prendere delle sedie? Almeno ci si può sedere».
«Oh, sì, certo» acconsentì Wilson all’istante e andò verso il
piccolo ufficio, diventando tutt’uno con il color cemento delle pareti.
Una cinerea polvere bianca velava il suo abito scuro e i suoi capelli
chiari e ogni cosa nelle vicinanze – tutto tranne sua moglie, che si
avvicinò a Tom.
«Ho voglia di vederti» disse Tom con determinazione. «Prendi il
prossimo treno».
«D’accordo».
«Ci vediamo dal giornalaio di sotto».
Lei annuì e si allontanò da lui proprio mentre George Wilson
spuntava dalla porta dell’ufficio con due sedie.
La aspettammo in fondo alla strada, non visti. Mancavano pochi
giorni al 4 luglio e un grigio ragazzino italiano, pelle e ossa, metteva
in fila dei petardi lungo i binari.
«Un posto terribile, eh?» disse Tom, scambiando un’occhiata
corrucciata con il dottor Eckleburg.
«Orrendo».
«Le fa bene cambiare aria».
«Suo marito non ha nulla da ridire?»
«Wilson? Crede che lei vada a trovare la sorella a New York. È
talmente rimbambito che non sa neppure se è vivo o morto».
E così Tom Buchanan, la sua ragazza e io andammo insieme a
New York – o meglio, non proprio insieme, perché la signora Wilson
sedette con discrezione in un’altra carrozza. Era l’unica concessione
che Tom faceva per non urtare la sensibilità di eventuali abitanti di
East Egg che si trovassero sul treno.
La signora Wilson si era cambiata d’abito e ne indossava uno
marrone di mussolina fantasia che, quando Tom la aiutò a scendere
alla stazione, a New York, le aderì ai fianchi larghi. Acquistò dal
giornalaio una copia di Town Tattle11 e una rivista di cinematografo
e, all’emporio della stazione, una crema protettiva e una boccetta di
profumo. Saliti a livello stradale, nel solenne rimbombo, lasciò
passare quattro taxi prima di sceglierne uno tutto nuovo, color
lavanda e con gli interni grigi, che ci portò fuori dalla congerie della
stazione verso il sole splendente. Ma subito lei distolse lo sguardo
dal finestrino e sporgendosi in avanti bussò sul divisorio di vetro.
«Voglio prendermi uno di quei cani» disse con animazione. «Ne
voglio uno per l’appartamento. È carino avere… un cane».
Tornammo indietro da un vecchio ingrigito che assomigliava in
modo improbabile a John D. Rockefeller. Teneva una cesta appesa
al collo, in cui era ammassata una dozzina di cuccioli impauriti,
appena nati e di razza indeterminabile.
«Che razza sono?» chiese vivamente interessata la signora
Wilson mentre l’uomo si avvicinava al finestrino del taxi.
«Tutte le razze. Che razza volete, signora?»
«Vorrei uno di quei cani poliziotto, ma non credo che avete quel
genere, vero?»
L’uomo guardò dubbioso nella cesta, vi immerse la mano e tirò
fuori un cagnolino che si dimenava mentre lui lo teneva per la
collottola.
«Quello non è un cane poliziotto» disse Tom.
«No, non è esattamente un cane poliziotto» disse l’uomo con
disappunto. «È più un airedale». E gli passò la mano sul manto
marrone che sembrava uno straccio. «Guardate che pelo. Che pelo!
È un cane che non vi darà mai il pensiero di avere il cimurro».
«È carino» disse la signora Wilson con entusiasmo. «Quanto
viene?»
«Questo?» L’uomo lo guardò ammirato. «Un cane così vi costa
dieci dollari».
L’airedale – c’era senz’altro una traccia di airedale da qualche
parte, per quanto le zampe fossero sorprendentemente bianche –
passò di mano e si accoccolò sul grembo della signora Wilson che,
in estasi, accarezzò il manto impermeabile.
«È maschio o femmina?» domandò garbatamente.
«Quello lì? È un maschio».
«È una cagna» disse Tom con sicurezza. «Ecco il denaro. Va’ a
comprarti altri dieci cani».
Proseguimmo per Fifth Avenue, così dolce e così calda, quasi
pastorale, in quel pomeriggio di una domenica estiva. Non mi sarei
sorpreso di vedere sbucare da dietro l’angolo un grande gregge di
pecore.
«Fermate» dissi, «qui vi devo lasciare».
«No, per niente» si oppose Tom velocemente. «Se non sali a
vedere l’appartamento, Myrtle si offende. Non è vero, Myrtle?»
«Salite» insistette lei. «Telefono a mia sorella Catherine. Quelli
che se ne intendono dicono che è molto bella».
«Be’, mi piacerebbe, ma…»
Procedemmo, di nuovo tagliando per il parco e su per l’Upper
West Side. Alla Centocinquantottesima Strada il taxi si fermò davanti
a una fetta di una lunga torta bianca di condomini. La signora Wilson
elargì al circondario un ampio sguardo da reginetta della festa,
raccolse cane e acquisti ed entrò altezzosa.
«Farò venire su i McKee» annunciò, mentre salivamo in
ascensore. «E naturalmente devo chiamare anche mia sorella».
L’appartamento era all’ultimo piano – un piccolo soggiorno, una
piccola sala da pranzo, un piccola camera da letto e un bagno. Il
soggiorno era ingombro da porta a porta di poltrone e divani troppo
grandi, foderati di tessuto gobelin, per cui muoversi per la stanza
significava inciampare continuamente su scene di dame in altalena
nei giardini di Versailles. Alle pareti era appesa solo una fotografia
troppo ingrandita – a prima vista una gallina accovacciata su una
roccia sfocata. Però da lontano la gallina diventava un cappellino
sotto il quale si affacciava il volto di una vecchia e robusta signora
che sorrideva dall’alto. Sul tavolo erano disposti vecchi numeri di
Town Tattle insieme a una copia di Simon Called Peter12 e alcuni
giornaletti scandalistici di Broadway. Per prima cosa la signora
Wilson si occupò del cane. Un giovane addetto all’ascensore andò
controvoglia a cercare una cassetta piena di paglia e del latte, a cui
aggiunse di sua iniziativa un barattolo di biscotti per cani, grossi e
duri – uno dei quali nel corso del pomeriggio si decompose
apaticamente nel piattino del latte. Nel frattempo, Tom tirò fuori da
un apposito cassettone chiuso a chiave una bottiglia di whisky.
Mi sono ubriacato due volte in vita mia e la seconda fu quel
pomeriggio, per cui tutto ciò che accadde è avvolto da una tenue
patina di nebbia, nonostante fin dopo le otto l’appartamento fosse
inondato da un sole ridente. La signora Wilson, seduta sulle
ginocchia di Tom, telefonò a varie persone; poi finirono le sigarette e
andai a comprarle al drugstore all’angolo. Quando rientrai i due
erano spariti e mi sedetti con discrezione in soggiorno a leggere un
capitolo di Simon Called Peter – una roba tremenda, a meno che il
whisky non alterasse tutto, perché io non riuscivo a cavarne alcun
senso.
Appena furono riapparsi Tom e Myrtle – dopo il primo drink io e la
signora Wilson avevamo iniziato a darci del tu – cominciò a
presentarsi alla porta altra gente.
Catherine, la sorella, era una ragazza snella, mondana, di circa
trent’anni, con un compatto caschetto di capelli rossi e un incarnato
incipriato bianco latte. Le sopracciglia erano state strappate e
ridisegnate con una piega più sbarazzina, ma la tendenza della
natura al ripristino del vecchio allineamento dava al suo viso un’aria
impiastricciata. Quando si muoveva, si sentiva un incessante
tintinnio dovuto agli innumerevoli braccialetti di ceramica che
scivolavano su e giù. Entrò con risolutezza padronale e osservò i
mobili con un tale senso di proprietà che mi domandai se vivesse lì.
Ma quando glielo chiesi rise scompostamente, ripeté la mia
domanda ad alta voce e mi disse che viveva in un hotel con
un’amica.
Il signor McKee era un pallido uomo femmineo che abitava
nell’appartamento al piano di sotto. Doveva essersi appena fatto la
barba, perché aveva ancora uno sbaffo di schiuma sullo zigomo, e
salutò tutti i presenti in modo ossequioso. Mi disse che era nel “giro
dell’arte” e più tardi venni a sapere che faceva il fotografo ed era
l’autore dell’indistinto ingrandimento della madre della signora
Wilson che aleggiava sulla parete come un ectoplasma. La moglie
era petulante, pigra, bella e detestabile. Mi disse orgogliosa che, da
quando erano sposati, il marito l’aveva fotografata centoventisette
volte.
La signora Wilson aveva già da un po’ effettuato un cambio
d’abito e adesso portava un elaborato vestito da pomeriggio di
chiffon, color panna, che emetteva un costante fruscio mentre lei si
muoveva rapida per la stanza. Il nuovo costume aveva avuto l’effetto
di modificare la sua personalità. La sua intensa vitalità, tanto
evidente nell’officina, si era convertita in formidabile altezzosità. La
sua risata, i suoi gesti, le sue affermazioni diventavano via via più
affettate e, più lei si espandeva, più la stanza le si rimpiccioliva
intorno, finché sembrò che la signora Wilson ruotasse su un
rumoroso perno scricchiolante nell’aria fumosa.
«Mia cara» disse alla sorella con un gridolino lezioso, «la maggior
parte di quella gente cercherà sempre di imbrogliarti. Pensano solo
ai soldi. Ho fatto venire qui una donna a farmi i piedi, la settimana
scorsa, e quando mi ha presentato il conto avresti detto che mi
aveva tolto l’appendicite».
«Come si chiama?» chiese la signora McKee.
«Eberhardt. Fa i piedi della gente a casa loro».
«Mi piace il vostro vestito» osservò la signora McKee, «lo trovo
adorabile».
La signora Wilson respinse il complimento con una sdegnosa
alzata di sopracciglia.
«È solo un vecchio straccetto» disse. «Me lo butto addosso,
quando non mi importa niente di come sto».
«Ma vi sta divinamente, non so se mi spiego» proseguì la signora
McKee. «Se Chester riuscisse a cogliervi in quella posa, penso che
ne potrebbe ricavare qualcosa».
Tutti ci voltammo in silenzio verso la signora Wilson, che si scostò
una ciocca di capelli dalla fronte e ricambiò i nostri sguardi con un
sorriso smagliante. Il signor McKee la osservò attentamente con la
testa piegata di lato e poi mosse lentamente avanti e indietro la
mano all’altezza degli occhi.
«Dovrei cambiare la luce» disse un momento dopo. «Vorrei
esaltare la modellatura dei lineamenti. E cercherei di cogliere anche
la capigliatura da dietro».
«Io non starei a cambiare la luce» squittì la signora McKee.
«Credo che…»
Il marito fece «Sh!» e rivolgemmo tutti nuovamente lo sguardo al
soggetto, al che Tom Buchanan sbadigliò sonoramente e si alzò in
piedi.
«Bevete qualcosa, signori McKee» disse. «Vai a prendere altro
ghiaccio e acqua frizzante, Myrtle, prima che tutti si addormentino».
«L’ho detto al ragazzo di prendere il ghiaccio». E Myrtle sollevò le
sopracciglia esasperata dall’inettitudine dei sottoposti. «Che gente!
Devi stargli appresso tutto il tempo».
Mi guardò e rise senza motivo apparente. Poi si lanciò sul cane,
baciandolo in estasi, e sparì in cucina, come se avesse una dozzina
di chef in attesa dei suoi ordini.
«Ho fatto qualche bello scatto a Long Island» affermò il signor
McKee.
Tom lo guardò assente.
«Due li abbiamo incorniciati, di sotto».
«Due che?» domandò Tom.
«Due studi. Uno l’ho chiamato “Montauk Point – I gabbiani”, l’altro
“Montauk Point – Il mare”»13.
Catherine, la sorella, si sedette accanto a me sul divano.
«Anche voi abitate a Long Island?» s’informò.
«A West Egg».
«Davvero? Ci sono stata circa un mese fa, a un party. A casa di
un certo Gatsby. Lo conoscete?»
«Abito nella casa accanto».
«Be’, dicono che è nipote o forse cugino dell’imperatore
Guglielmo. È da lì che vengono tutti i suoi soldi».
«Davvero?»
Lei annuì.
«Mi fa paura. Non vorrei mai mettermelo contro».
Queste avvincenti informazioni sul mio vicino vennero interrotte
dalla signora McKee che d’un tratto puntò il dito su Catherine:
«Chester, dovresti fare qualcosa con lei» proruppe, ma McKee si
limitò ad annuire annoiato e indirizzò la sua attenzione a Tom.
«Mi piacerebbe lavorare di più a Long Island, se trovassi
un’entratura. Chiedo solo che mi diano l’occasione di cominciare».
«Chiedete a Myrtle» disse Tom, prorompendo in una breve e
sonora risata mentre la signora Wilson entrava con un vassoio. «Vi
darà una lettera di presentazione, vero, Myrtle?»
«Che gli darò?» chiese lei, colta di sorpresa.
«Darai a McKee una lettera di presentazione per tuo marito, così
può fargli degli studi». E cercando le parole mosse le labbra in
silenzio per un momento. «“George B. Wilson alla pompa di
benzina”, o una roba del genere».
Catherine si chinò verso di me e mi sussurrò all’orecchio:
«Nessuno dei due sopporta il rispettivo consorte».
«Ah, no?»
«No, non li sopportano». Guardò Myrtle e poi Tom. «Ma io dico,
perché continuare a viverci insieme, se non li sopportano? Al loro
posto, io divorzierei e mi risposerei».
«A vostra sorella non piace Wilson?»
La risposta giunse inaspettata. Venne da Myrtle, che aveva
captato la domanda, e fu violenta e oscena.
«Visto?» esclamò trionfalmente Catherine. Poi riabbassò la voce.
«È solo la moglie di lui a tenerli separati. È cattolica, e i cattolici non
credono nel divorzio».
Daisy non era cattolica e io rimasi un po’ scioccato dall’artificiosità
di quella menzogna.
«Quando infine si sposeranno» continuò Catherine, «si
trasferiranno nell’Ovest per un po’, fin quando la cosa non sarà
dimenticata».
«Sarebbe più discreto andare in Europa».
«Oh, vi piace l’Europa?» esclamò lei, sorprendendomi. «Sono
appena tornata da Monte Carlo».
«Ah, sì?»
«Appena l’anno scorso. Ci sono stata con un’altra ragazza».
«Per molto tempo?»
«No, siamo solo andate a Monte Carlo e tornate. Siamo passate
per Marsiglia. Siamo partite con più di milleduecento dollari, ma li
abbiamo persi tutti in due giorni al casinò. Il ritorno è stato un incubo.
Mio Dio, quanto ho odiato quella città».
Per un momento il cielo del tardo pomeriggio, incorniciato dalla
finestra, prese il mielato colorito azzurro del Mediterraneo, poi la
voce stridula della signora McKee mi riportò nella stanza.
«Per poco non facevo uno sbaglio anch’io» dichiarò con vigore.
«Stavo per sposare un piccolo giudeo che mi stava dietro da anni.
Sapevo che non era alla mia altezza. Me lo ripetevano tutti: “Lucille,
quell’uomo non è alla tua altezza!” Ma se non incontravo Chester,
quello mi acchiappava di sicuro».
«Però, sentite» disse Myrtle Wilson, muovendo la testa su e giù,
«voi perlomeno non l’avete sposato».
«Lo so».
«Be’, io l’ho sposato» disse Myrtle, ambigua. «E qui sta la
differenza fra il vostro caso e il mio».
«Perché l’hai sposato, Myrtle?» domandò Catherine. «Nessuno ti
ci ha costretto».
Myrtle ci pensò su.
«L’ho sposato perché lo credevo un gentiluomo» disse infine.
«Pensavo che sapesse come muoversi in società, ma non era
degno di lustrarmi le scarpe».
«Per un po’ sei stata pazza di lui» disse Catherine.
«Pazza di lui!» esclamò Myrtle incredula. «Chi ha mai detto che
ero pazza di lui? Non sono mai stata pazza di lui più di quanto non lo
sono di quell’uomo là!»
Indicò me, di colpo, e mi guardarono tutti con aria accusatoria.
Cercai di rendere manifesto che non mi aspettavo alcun affetto.
«Sono stata pazza solamente a sposarlo. Ho capito subito che
era uno sbaglio. S’era fatto imprestare il vestito per il matrimonio e
non mi aveva detto niente. Un giorno che lui non c’era si presenta un
tizio per farselo restituire. “Oh, il vestito è vostro?” gli dico. “Non ne
sapevo niente”. Ma gliel’ho dato e poi mi sono buttata sul letto a
piangere e strepitare per tutto il pomeriggio».
«Dovrebbe proprio mollarlo» chiosò Catherine rivolta a me.
«Sono undici anni che vivono sopra quell’officina. E Tom è il primo
amichetto che ha».
La bottiglia di whisky – la seconda – era adesso costantemente
richiesta da tutti i presenti, tranne Catherine, che stava «a posto
così, senza prendere nulla». Tom chiamò il portiere e lo mandò a
comprare dei famosi sandwich, che erano l’equivalente di una cena
completa. Avrei voluto uscire e incamminarmi verso est, verso il
parco, in quel soffice crepuscolo, ma ogni volta che provavo ad
andarmene restavo impigliato in qualche scalmanata e stridente
discussione che mi riportava a sedere, come se fossi legato con
delle corde. Eppure, alte sulla città, le nostre fila di finestre gialle
devono avere elargito la loro quota di umano mistero al passante
che avesse alzato la testa nella strada sempre più buia, e a me
sembrava di vederlo come fossi lì, questo sconosciuto, che
guardava all’insù con meraviglia. Mi sentivo dentro e fuori, al tempo
stesso incantato e respinto dall’inesauribile varietà della vita.
Myrtle avvicinò la sedia alla mia, e immediatamente il suo alito
caldo riversò su di me la storia del suo primo incontro con Tom.
«Successe su quei piccoli sedili che stanno uno di fronte all’altro
e sono gli ultimi posti a rimanere liberi sul treno. Io stavo andando a
trovare mia sorella a New York e dovevo passare la notte da lei. Lui
aveva un vestito elegante e scarpe di vernice, e non riuscivo a
togliergli gli occhi di dosso, e ogni volta che mi guardava dovevo fare
finta di leggere la pubblicità sopra la sua testa. Quando arrivammo in
stazione me lo trovai accanto, con lo sparato bianco della camicia
che mi premeva contro il braccio – così gli dissi che avrei chiamato
un poliziotto, ma lui capì che era una bugia. Ero talmente su di giri
quando salii su un taxi con lui che quasi non mi resi conto che non
stavo prendendo la metropolitana. Continuavo solo a ripetermi,
mentalmente: “La vita è breve, la vita è breve”».
Si voltò verso la signora McKee e tutta la stanza risuonò della sua
risata artificiale.
«Mia cara» esclamò, «vi darò questo vestito appena l’avrò
smesso. Devo farmene un altro domani. Farò una lista di tutte le
cose che mi servono. Un massaggio e una messa in piega e un
collare per il cane e uno di quei posacenere tanto carini con la molla,
e una corona di fiori con un fiocco di seta nera che duri tutta l’estate
per la tomba di mia madre. Devo scrivermele, così non mi dimentico
tutte le cose che devo fare».
Erano le nove – quasi immediatamente dopo guardai l’orologio e
mi accorsi che erano le dieci. Il signor McKee dormiva in poltrona
con i pugni chiusi in grembo, la fotografia di un uomo d’azione. Tirai
fuori il fazzoletto e gli pulii lo sbaffo di schiuma secca sulla guancia
che mi aveva fatto penare tutto il pomeriggio.
Il cagnolino era seduto sul tavolo, accecato dal fumo; di tanto in
tanto emetteva un lieve gemito. Le persone sparivano,
ricomparivano, progettavano di andare da qualche parte e poi si
perdevano, si cercavano e si ritrovavano a pochi passi di distanza. A
un certo punto, verso mezzanotte, vidi Tom Buchanan e la signora
Wilson discutere faccia a faccia, con voci appassionate, se la
signora Wilson avesse il diritto di pronunciare il nome di Daisy.
«Daisy! Daisy! Daisy!» gridava la signora Wilson. «Lo dico come
e quando mi pare! Daisy! Dai…»
Con una manata lesta e improvvisa, Tom Buchanan le ruppe il
naso.
Seguirono asciugamani insanguinati sul pavimento del bagno e
rimbrotti di donne e, ben al di sopra di tutta quella confusione, un
lungo e singhiozzante lamento di dolore. Il signor McKee si svegliò e
si avviò intontito alla porta. A metà strada si voltò a guardare la
scena: sua moglie e Catherine, profferendo rimbrotti e parole di
conforto, inciampavano qua e là fra i mobili ingombranti, con articoli
di pronto soccorso in mano, e la figura disperata sul divano
sanguinava copiosamente mentre cercava di stendere una copia di
Town Tattle sui giardini di Versailles. Poi il signor McKee voltò le
spalle e uscì. Presi il cappello dal lampadario e lo seguii.
«Venite a colazione una volta» mi propose mentre l’ascensore ci
portava giù tra i mugolii.
«Dove?»
«Dovunque».
«Via le mani dalla leva» scattò il ragazzo dell’ascensore.
«Chiedo scusa» disse il signor McKee in tono dignitoso, «non me
n’ero accorto».
«D’accordo» acconsentii. «Con piacere».

…Io ero in piedi accanto al letto e lui sedeva tra le lenzuola, in


mutande, con una grande cartella portafogli in mano.
«“La Bella e la Bestia”… “Solitudine”… “Il cavallo del vecchio
droghiere”… “Il ponte di Brooklyn”…»
E poi – ero disteso mezzo addormentato al freddo piano inferiore
della Pennsylvania Station, con gli occhi sgranati sul Tribune del
mattino, in attesa del treno delle quattro.
3.

Durante le sere d’estate arrivava musica dalla casa del mio


vicino. Nei suoi giardini blu uomini e donne andavano e venivano
come falene tra i sussurri, lo champagne e le stelle. Nel pomeriggio,
con l’alta marea, osservavo i suoi ospiti tuffarsi dal trampolino della
sua pedana galleggiante o prendere il sole sulla sabbia calda della
sua spiaggia, mentre i suoi due motoscafi fendevano le acque dello
stretto, trascinando acquaplani su cataratte di schiuma. Nei fine
settimana la sua Rolls-Royce diventava una corriera che dalle nove
del mattino fino a dopo mezzanotte trasportava comitive avanti e
indietro dalla città e la sua station-wagon si faceva trovare all’arrivo
di tutti i treni, scorrazzando come un frenetico insetto giallo. Il lunedì
otto domestici, incluso un giardiniere extra, sfacchinavano da mane
a sera con scope, spazzoloni, martelli e cesoie per riparare gli
scempi della notte prima.
Ogni venerdì arrivavano cinque casse di arance e limoni da un
fruttivendolo di New York e ogni lunedì quelle arance e limoni
uscivano dalla porta di servizio in una piramide di metà spolpate. In
cucina c’era un apparecchio capace di spremere duecento arance in
un’ora, se il pollice di un maggiordomo premeva duecento volte un
pulsantino.
Almeno una volta ogni quindici giorni arrivava uno squadrone di
addetti al catering con svariate misure di tela e una quantità di luci
colorate sufficiente a trasformare l’enorme giardino di Gatsby in un
albero di Natale. Sui tavoli da buffet guarniti di antipasti scintillanti
erano stipati prosciutti al forno speziati accanto a insalate multicolori,
rustici imbottiti di carne di maiale e tacchini magicamente ricoperti di
una patina d’oro brunito. Nel salone principale veniva allestito un bar
con tanto di ringhiera in ottone, provvisto di una varietà di gin e
liquori e cordiali da così tanto tempo in disuso che la maggior parte
delle invitate era troppo giovane per distinguerli.
Per le sette arriva l’orchestra – non uno striminzito quintetto ma
un’intera buca di oboi e tromboni e sassofoni e viole e cornette e
ottavini e percussioni gravi e acute. Ora anche gli ultimi bagnanti
sono rientrati dalla spiaggia e sono al piano di sopra a vestirsi; le
automobili arrivate da New York sono parcheggiate su cinque file nel
viale d’accesso, e già le sale, i saloni e le verande rifulgono di colori
primari e nuove acconciature strane e scialli che in Castiglia
nemmeno se li sognano. Il bar è in piena attività e nel giardino
circolano fluttuando vassoi di cocktail, finché l’aria si anima di
chiacchiere e risate e allusioni disinvolte e presentazioni dimenticate
all’istante e incontri entusiastici fra donne che non si conoscevano
neanche per sentito dire.
Le luci si fanno più accese mentre pare che la terra barcolli
voltando la faccia al sole: a quel punto l’orchestra risuona del giallo
dei cocktail e il concerto di voci sale di tonalità. Ogni minuto che
passa le risate si versano con più facilità, in generosa profusione,
traboccando per una parola allegra. I gruppi si trasformano con più
rapidità, si rimpolpano di nuovi arrivi, si sciolgono e si ricompongono
nel tempo di un respiro – c’è già chi vagabonda, ragazze
intraprendenti che serpeggiano fra gli invitati più robusti e saldi sulle
gambe, per un acuto e gioioso momento diventano il fulcro di un
gruppo e poi, eccitate dal trionfo, riprendono il largo per la mutevole
marea di volti, voci e colori sotto la luce cangiante.
Una di queste zingare, d’un tratto, in un fremito opale di lustrini,
afferra al volo un cocktail, lo butta giù per farsi forza e muovendo le
mani alla Frisco14 si mette a ballare da sola sulla pedana allestita nel
tendone. Per un momento tutto tace; poi il direttore d’orchestra
attacca un altro ritmo per assecondarla e c’è un’esplosione di
chiacchiere perché si è diffusa la voce – sbagliata – che quella è
l’understudy15 di Gilda Gray16 alle Follies. La festa è cominciata.
La prima sera che andai alla villa di Gatsby credo di essere stato
uno dei pochi ad aver effettivamente ricevuto un invito. La gente non
veniva invitata – andava e basta. Saliva su automobili che la
conducevano a Long Island e in qualche modo finiva davanti alla
porta di Gatsby. Una volta lì, veniva presentata da qualcuno che
conosceva Gatsby e a quel punto seguiva regole di comportamento
associabili a quelle di un parco giochi. Alcuni, con un candore
d’animo che era in sé un biglietto d’ingresso, arrivavano e se ne
andavano senza avere neppure incontrato Gatsby. Io ero stato
invitato. Un autista in livrea di colore uovo di pettirosso aveva
attraversato il prato di casa mia quel sabato mattina presto
recandomi un biglietto sorprendentemente formale da parte del suo
principale: diceva che Gatsby sarebbe stato onorato se avessi
partecipato alla sua “festicciola” quella sera. Mi aveva visto più volte
e avrebbe voluto contattarmi da tempo, ma una particolare
combinazione di circostanze glielo aveva impedito – firmato Jay
Gatsby, con calligrafia regale.
Mi agghindai in un vestito di flanella bianca e mi recai nel suo
giardino poco dopo le sette. Lì mi aggirai imbarazzato fra vortici e
mulinelli di persone che non conoscevo, se non per qualche volto
notato fra i pendolari del mio treno. Mi colpì subito la quantità di
ragazzi inglesi sparsi in giro: tutti ben vestiti, tutti con l’aria un po’
famelica e tutti a parlare in tono serio e profondo a solidi e prosperi
americani. Ero sicuro che volessero vendere qualcosa: titoli,
assicurazioni o automobili. O quantomeno percepivano smaniosi la
prossimità di facile denaro ed erano convinti di potersene
appropriare con poche parole dette nel tono giusto.
Appena arrivato tentai di trovare il padrone di casa, ma le due o
tre persone a cui chiesi dove fosse sgranarono gli occhi con tale
stupore e negarono con tanta veemenza di conoscerne i movimenti
che riparai verso il banco dei cocktail – l’unico posto del giardino
dove un uomo non accompagnato potesse attardarsi senza apparire
sperduto e solingo.
Mi accingevo a prendermi una sonora sbornia per puro imbarazzo
quando Jordan Baker uscì dalla villa e si fermò in cima alla scalinata
di marmo a osservare dall’alto in basso il giardino con sprezzante
interesse.
Che fossi benvenuto o meno, ritenni indispensabile affiancarmi a
qualcuno prima di trovarmi costretto ad attaccare affabilmente
bottone con il primo che passava.
«Salve!» gridai, avanzando verso di lei. La mia voce attraverso il
giardino risultò innaturalmente alta.
«Immaginavo che ci foste anche voi» rispose lei con aria assente,
mentre salivo. «Mi ricordavo che abitate accanto a…»
Mi prese la mano con fare di circostanza, come a dire che tra un
minuto si sarebbe occupata di me, e prestò ascolto a due ragazze
con identici abiti gialli che s’erano fermate ai piedi della scala.
«Salve» gridarono quelle all’unisono. «Che peccato che non
abbiate vinto».
Si riferivano al torneo di golf. La settimana prima Jordan aveva
perso le finali.
«Non ci riconoscete» disse una delle ragazze in giallo, «ma ci
siamo incontrate qui circa un mese fa».
«Vi siete tinte i capelli» osservò Jordan e io sussultai, ma le
ragazze s’erano allontanate noncuranti e l’osservazione finì
all’indirizzo della luna precoce, tirata fuori anch’essa, senza dubbio,
da uno degli addetti al catering che avevano predisposto il buffet.
Scendemmo i gradini, il braccio dorato e snello di Jordan posato sul
mio, e passeggiammo per il giardino. Un vassoio di cocktail ci fluttuò
incontro nella luce del crepuscolo e sedemmo a un tavolo con le due
ragazze in giallo e tre uomini, che ci vennero presentati, uno per
uno, come il signor Vattelappesca.
«Venite spesso a queste feste?» domandò Jordan alla ragazza
accanto a lei.
«L’ultima è quella in cui ci siamo conosciute» rispose la ragazza
con voce pronta e sicura. Poi si rivolse alla sua amica: «Anche per
te, Lucille?»
Anche per Lucille era così.
«Mi piace venirci» disse Lucille. «Non bado a quello che faccio e
così mi diverto sempre. L’ultima volta mi sono strappata il vestito in
una sedia, lui si è fatto dare nome e indirizzo… e nel giro di una
settimana ho ricevuto un pacco da Croirier con un abito da sera
nuovo».
«Ve lo siete tenuto?» chiese Jordan.
«Certo che sì. Volevo metterlo stasera, ma mi sta largo di busto e
bisogna stringerlo. È blu petrolio con perline lavanda.
Duecentosessantacinque dollari».
«C’è qualcosa di strano in uno che fa una cosa del genere» disse
l’altra ragazza, provandoci gusto. «Non vuole avere questioni con
nessuno».
«Chi?» domandai io.
«Gatsby. Una persona mi ha detto che…»
Le due ragazze e Jordan si avvicinarono fra loro con fare
confidenziale.
«Una persona mi ha detto che si pensava che avesse ucciso un
uomo».
Un brivido ci percorse tutti. I tre signor Vattelappesca si protesero
in attento ascolto.
«Secondo me non è proprio così» argomentò scettica Lucille;
«invece è vero che durante la guerra era una spia tedesca».
Uno degli uomini annuì per confermare.
«L’ho sentito dire da uno che sapeva tutto di lui, perché sono
cresciuti assieme in Germania» ci assicurò con decisione.
«Oh, no» disse la prima ragazza, «non può essere, perché
durante la guerra ha combattuto nell’esercito americano». Siccome
la nostra credulità era di nuovo rivolta a lei, si protese in avanti con
entusiasmo. «Guardatelo una volta che non si sente osservato. Io ci
scommetto, che ha ucciso un uomo».
Strizzò gli occhi e rabbrividì. Lucille rabbrividì. Ci girammo tutti in
cerca di Gatsby. Il fatto che anche chi a questo mondo non aveva
trovato granché su cui mettere in giro delle voci mettesse in giro
delle voci su di lui era la prova dello straordinario alone romanzesco
che lo circondava.
Stava per essere servita la cena – la prima, ce ne sarebbe stata
un’altra dopo mezzanotte – e Jordan mi invitò a unirmi al suo
gruppo, disposto intorno a un tavolo dall’altra parte del giardino.
C’erano tre coppie sposate e l’accompagnatore di Jordan, uno
studentello insistente e incline a pesanti insinuazioni, palesemente
convinto che prima o poi Jordan gli si sarebbe in qualche misura
concessa. Il gruppo non si era sparpagliato e aveva mantenuto una
dignitosa omogeneità, facendosi carico della funzione di
rappresentare la nobiltà più compassata della campagna: East Egg
che si concedeva a West Egg restando però in guardia contro la sua
spettroscopica gaiezza.
«Andiamocene» mi sussurrò Jordan, dopo una prima mezz’ora
sprecata e in qualche modo impropria. «Troppe buone maniere qui
per me».
Ci alzammo e Jordan spiegò che volevamo cercare il padrone di
casa – io non lo avevo ancora incontrato, disse, e questo mi metteva
a disagio. Lo studentello annuì con melanconico cinismo.
Per prima cosa andammo a dare un’occhiata al bar – era
affollato, ma Gatsby non c’era. Dalla cima delle scale Jordan non
riusciva a scorgerlo, e non era in veranda. Prendemmo a caso una
porta dall’aspetto imponente e ci trovammo in una biblioteca gotica
dal soffitto alto, rivestita di quercia inglese intarsiata e probabilmente
trasportata di sana pianta da qualche rudere oltreoceano.
Un corpulento uomo di mezza età con un paio di occhiali che gli
facevano due enormi occhi da gufo sedeva un po’ brillo sul bordo di
un grosso tavolo, fissando con precaria concentrazione gli scaffali di
libri. Quando entrammo ruotò emozionato su se stesso e scrutò
Jordan dalla testa ai piedi.
«Che ne pensate?» domandò con impeto.
«Di che?»
Agitò la mano in direzione degli scaffali.
«Di quelli. In effetti non dovete darvi il disturbo di controllare. Ho
controllato io. Sono veri».
«I libri?»
Annuì.
«Assolutamente veri, con le pagine e tutto. Pensavo fossero di un
bel cartone resistente. E invece sono assolutamente veri. Hanno le
pagine e… Ecco, vi faccio vedere».
Dando per scontato il nostro scetticismo, si avventò sulla libreria e
ne tornò con il primo volume delle Stoddard Lectures17.
«Vedete?» esclamò trionfante. «In tutto e per tutto un perfetto
esemplare di carta stampata. Ci sono cascato. Quest’uomo è un
vero e proprio Belasco18. Un trionfo. Che cura del dettaglio! Che
realismo! Ha pure capito quando fermarsi: non ha separato le
pagine. Che volete di più? Che vi aspettate?»
Mi strappò il libro di mano e lo ripose in fretta sul ripiano
mormorando che, se si toglieva un mattone, rischiava di crollare
l’intera biblioteca.
«Chi vi ha portato?» domandò. «O siete venuti e basta? A me mi
hanno portato. La maggior parte della gente è stata portata».
Jordan lo guardò con vigile allegria, senza rispondere.
«Mi ha portato una certa Roosevelt» continuò l’uomo. «La signora
Claud Roosevelt. La conoscete? Io l’ho incontrata non so dove ieri
sera. Sono ubriaco da circa una settimana, e ho pensato che stare
un po’ seduto in una biblioteca mi avrebbe aiutato a tornare sobrio».
«E ha funzionato?»
«Un pochino, penso. Ancora non so dirlo. Sono stato qui solo
un’ora. Ve l’ho detto dei libri? Sono veri. Sono…»
«Ce lo avete detto».
Gli stringemmo solennemente la mano e ritornammo all’aperto.
Adesso sulla pista in giardino si ballava, vecchietti che
spingevano all’indietro ragazzine in eterne giravolte prive di qualsiasi
grazia, coppie più esperte che si allacciavano sinuose, secondo la
moda e tenendosi negli angoli, e un gran numero di giovani donne
che, prive di partner, si lanciavano in danze individualistiche o
liberavano per un momento l’orchestra dal carico del banjo o delle
percussioni. A mezzanotte l’ilarità era aumentata. Un celebre tenore
aveva cantato in italiano e un famigerato contralto aveva cantato in
jazz, e fra un numero e l’altro la gente faceva “acrobazie” per tutto il
giardino, mentre verso il cielo estivo si levavano scoppi di risate
allegre e vacue. Una coppia di gemelle di scena – come si rivelarono
essere le ragazze in giallo – si esibì in costume da bebè e venne
servito champagne in coppe più grandi delle ciotole che si usano per
sciacquarsi le dita. La luna era salita e sul Sound galleggiava un
triangolo di squame argentate che tremolavano al ritmo del gocciolio
duro e metallico dei banjo sul prato.
Ero ancora in compagnia di Jordan Baker. Sedevamo a un tavolo
con un uomo più o meno della mia età e una chiassosa ragazzina
che alla minima occasione scoppiava in incontrollabili risate. Ora mi
stavo divertendo. Dopo un paio di ciotole lavadita di champagne, la
scena davanti a me s’era trasformata in qualcosa di significativo,
semplice e profondo.
In un momento di pausa fra gli intrattenimenti l’uomo mi guardò e
sorrise.
«Avete un viso familiare» disse con gentilezza. «Non eravate
nella Prima divisione durante la guerra?»
«Sì, in effetti. Ero nel Ventottesimo fanteria».
«Io sono stato nel Sedicesimo19 fino al giugno del ’18. Sapevo di
avervi già visto da qualche parte».
Per un po’ parlammo di certi piccoli villaggi umidi e grigi della
Francia. Dedussi che abitava nei paraggi perché mi disse di avere
appena acquistato un idroplano20 e che avrebbe fatto un giro di
prova l’indomani mattina.
«Volete venire con me, campione? Lungo il Sound, sottocosta».
«A che ora?»
«All’ora che vi fa più comodo».
Avevo sulla punta della lingua di chiedergli il suo nome quando
Jordan si guardò attorno e sorrise.
«Siete contento adesso?»
«Va molto meglio». Mi voltai di nuovo verso la mia nuova
conoscenza. «Non sono abituato a questo tipo di festa. Non ho
nemmeno visto il padrone di casa. Abito lì…» e feci cenno con la
mano all’invisibile siepe in lontananza, «e questo Gatsby mi ha
mandato l’autista con l’invito».
Lui per un momento mi guardò come se non riuscisse a capire.
«Sono io Gatsby» disse d’un tratto.
«Cosa?» esclamai. «Oh, vi chiedo scusa».
«Pensavo lo sapeste, campione. Temo di non essere un bravo
padrone di casa».
Sorrise comprensivo – molto più che comprensivo. Il suo era uno
di quei rari sorrisi capaci di rassicurarti per l’eternità, come se ne
vedono forse quattro o cinque nella vita. Per un istante si affacciava
– o pareva affacciarsi – fino al limite del mondo eterno nella sua
interezza, e poi si concentrava su di te con un’irresistibile
predilezione. Ti capiva fino al punto in cui volevi essere capito,
credeva in te come tu avresti voluto credere in te stesso e ti
assicurava di avere di te proprio la migliore impressione che avresti
voluto dare di te stesso. Giusto a quel punto il sorriso svanì e mi
trovai a guardare un elegante giovane bulletto, di un anno o due
oltre i trenta, dall’eloquio così elaborato e formale da rasentare
l’assurdo. Avevo avuto la forte impressione che scegliesse le parole
con cura già prima che si presentasse.
Quasi nello stesso momento in cui il signor Gatsby rivelò la sua
identità, un maggiordomo corse da lui per informarlo che Chicago
era in linea. Gatsby si scusò con un piccolo inchino, includendoci
tutti, uno per volta.
«Se avete bisogno di qualcosa, non esitate a chiedere,
campione» mi raccomandò. «Vi prego di scusarmi. Torno da voi più
tardi».
Appena se ne fu andato, mi rivolsi immediatamente a Jordan –
non potevo evitare di comunicarle la mia sorpresa. Mi aspettavo che
il signor Gatsby fosse una florida e corpulenta persona di mezza età.
«Chi è?» domandai. «Lo sapete?»
«È solo un uomo chiamato Gatsby».
«Di dov’è, voglio dire? E che cosa fa?»
«Adesso siete voi ad appassionarvi al soggetto?» rispose lei con
un fiacco sorriso. «Be’ – a me una volta ha detto di aver studiato a
Oxford».
Alle spalle di Gatsby cominciò a delinearsi un vago scenario, che
però si dissolse alla successiva osservazione di Jordan.
«Ma io non ci credo».
«Perché no?»
«Non lo so» rispose, «semplicemente non ci credo».
Qualcosa nel tono mi rievocò il “Penso abbia ucciso un uomo”
della ragazza di prima ed ebbe l’effetto di stimolare la mia curiosità.
Se mi avessero detto che Gatsby era sbucato dalle paludi della
Louisiana o dal Lower East Side di New York, ci avrei creduto senza
riserve. Mi tornava. Ma non potevo credere – nella mia inesperienza
provinciale – che uno così giovane potesse spuntare dal nulla come
se niente fosse e comprarsi un palazzo sul Long Island Sound.
«Comunque sia, dà grandi feste» disse Jordan, cambiando
argomento con garbata ripugnanza per le cose materiali. «E a me le
grandi feste piacciono. Sono così intime. Alle feste con poca gente
non c’è riservatezza».
Un colpo di grancassa e la voce del direttore d’orchestra si levò
d’un tratto al di sopra dell’ecolalia nel giardino.
«Signore e signori» gridò. «Su richiesta del signor Gatsby
eseguiremo per voi l’ultima opera del signor Vladimir Tostoff, che ha
ricevuto così tanta attenzione alla Carnegie Hall il maggio scorso. Se
leggete i giornali saprete che ha fatto grande scalpore». Sorrise con
gioviale condiscendenza e aggiunse: «E che scalpore!», e a quel
punto tutti risero.
«Il pezzo è noto» concluse con vigore «come The Jazz History of
the World di Vladimir Tostoff».
La natura della composizione del signor Tostoff mi sfuggì perché
non appena ebbe inizio mi cadde l’occhio su Gatsby, in piedi sulla
scalinata da solo, a osservare ora un gruppo ora un altro con
sguardo di approvazione. La pelle abbronzata del viso era
splendidamente liscia e il suo taglio di capelli corti sembrava che
venisse ritoccato ogni giorno. Non riuscivo a vedere in lui niente di
sinistro. Mi domandavo se il fatto che non bevesse contribuisse a
distinguerlo dai suoi invitati, perché Gatsby pareva diventare sempre
più impeccabile quanto più cresceva la cameratesca ilarità. Al
termine della Jazz History of the World c’erano ragazze che
posavano il capo sulle spalle degli uomini con la familiarità di un
cucciolo e ragazze che si lasciavano cadere all’indietro giocose tra le
braccia degli uomini, o anche dei gruppi, sapendo che qualcuno
avrebbe arrestato la loro caduta, ma nessuna si lasciava cadere
addosso a Gatsby, nessun caschetto alla francese toccava la spalla
di Gatsby e intorno a Gatsby non si formavano quartetti canori.
«Chiedo scusa».
D’un tratto il maggiordomo di Gatsby era in piedi accanto a noi.
«Signorina Baker?» domandò. «Vi chiedo scusa, ma il signor
Gatsby vorrebbe parlarvi in privato».
«A me?» esclamò lei sorpresa.
«Sì, madame».
Lei si alzò lentamente, guardandomi con le sopracciglia inarcate
per lo stupore, e seguì il maggiordomo verso la casa. Notai che
portava l’abito da sera – tutti i suoi abiti – come fosse un capo
sportivo; c’era nei suoi movimenti la spigliatezza di chi ha mosso i
primi passi su un campo da golf, in mattinate fresche e terse.
Ero rimasto da solo ed erano quasi le due. Da un po’ di tempo
arrivavano suoni confusi e invitanti da una lunga stanza con molte
finestre affacciate sulla terrazza. Declinai l’invito a unirmi a lui da
parte dello studentello di Jordan, impegnato in una conversazione
ostetrica con due ballerine di fila, e vi entrai.
Era un salone pieno di gente. Una delle ragazze in giallo suonava
il pianoforte e in piedi accanto a lei c’era una giovane donna alta,
con i capelli rossi, di un famoso coro, che cantava. Aveva bevuto un
bel po’ di champagne e nel corso della canzone aveva
inopportunamente deciso che era tutto molto triste e quindi oltre a
cantare piangeva. Ogni qual volta vi fosse una pausa nella canzone,
lei la riempiva di singhiozzi rotti e ansimanti per poi riprendere con
tremula voce da soprano. Le lacrime le colavano giù per le guance –
e tuttavia non liberamente, perché al contatto con le ciglia
pesantemente truccate si coloravano di nero e proseguivano per il
resto del loro tragitto in lenti rivoli color inchiostro. Qualcuno fece
una battuta di spirito incitandola a cantare le note che aveva segnate
sul viso, al che lei alzò le braccia, sprofondò su una poltrona e cadde
in un pesante sonno etilico.
«Ha litigato con un uomo che dice di essere suo marito» spiegò
una ragazza che avevo a portata di gomito.
Mi guardai intorno. La maggior parte delle donne rimaste litigava
con uomini che dicevano di essere i loro mariti. Persino il gruppo di
Jordan, il quartetto di East Egg, era lacerato dai dissensi. Uno degli
uomini parlava a una giovane attrice con acceso interesse e sua
moglie, dopo avere tentato di prenderla a ridere con dignitoso
distacco, capitolò e lo attaccò ai fianchi, spuntandogli ripetutamente
accanto per sibilargli in un orecchio, con adamantino fastidio21:
«Ricorda la tua promessa!»
La riluttanza a tornare a casa non era esclusivo appannaggio
degli uomini in cerca di diversivi. Al momento l’atrio era occupato da
due signori deprecabilmente sobri e dalle loro mogli sommamente
indignate. Le mogli simpatizzavano tra loro con voci un po’ più alte
del solito.
«Quando vede che mi diverto, lui vuole andare a casa».
«Non ho mai sentito niente di più egoista in vita mia».
«Siamo sempre i primi ad andarcene».
«Anche noi».
«Be’, questa sera siamo quasi gli ultimi» si azzardò a dire uno
degli uomini. «L’orchestra se n’è andata mezz’ora fa».
Malgrado le mogli convenissero che una tale malevolenza fosse
da non credersi, la disputa terminò con un breve alterco ed
entrambe le signore vennero portate via di peso, recalcitranti, nel
buio della notte.
Mentre aspettavo il cappello nell’atrio si aprì la porta della
biblioteca e uscirono Jordan Baker e Gatsby. Lui le stava dicendo
un’ultima parola, ma il suo fervore mutò in rigida formalità non
appena svariate persone gli si avvicinarono per salutarlo.
La comitiva di Jordan chiamava insistentemente dal portico, ma
lei si attardò ancora un momento per qualche altra stretta di mano.
«Ho appena saputo una cosa incredibile» sussurrò. «Quanto
siamo stati lì dentro?»
«Che ne so, direi un’ora».
«È stato… incredibile, ecco» ripeté assorta. «Ma ho giurato che
non l’avrei detto a nessuno e sto già qui a stuzzicarvi». Mi sbadigliò
in faccia con grazia. «Cercatemi… sono sull’elenco telefonico…
Sotto Sigourney Howard, mia zia…» Mentre parlava si affrettava a
uscire – mi salutò vivacemente con la mano abbronzata mentre,
sulla porta di ingresso, si mescolava alla sua comitiva.
Con un certo imbarazzo per essere rimasto così a lungo alla mia
prima comparsa, mi unii agli ultimi invitati che si raggruppavano
intorno a Gatsby. Volevo spiegargli che ero andato alla sua ricerca
fin dall’inizio della serata e scusarmi per non averlo riconosciuto in
giardino.
«Non ne parlate neanche» mi intimò calorosamente. «Non ci
pensate più, campione». In quell’appellativo familiare non c’era più
familiarità che nella mano che mi posò rassicurante sulla spalla. «E
non dimenticate: domattina alle nove andiamo sull’idroplano».
Al che il maggiordomo, da dietro le sue spalle:
«La vogliono al telefono da Philadelphia, signore».
«D’accordo. Un minuto. Ditegli che arrivo subito… buonanotte».
«Buonanotte».
«Buonanotte». Sorrise e d’improvviso il fatto che io fossi tra gli
ultimi ad andare via assunse un significato positivo, come se Gatsby
lo avesse desiderato per tutta la sera. «Buonanotte, campione…
Buonanotte».
Ma scendendo le scale mi accorsi che la serata non era ancora
finita. A una ventina di passi dall’ingresso una dozzina di fari
illuminavano un’insolita concitazione. Un’auto coupé nuova era finita
nel fosso accanto alla strada, senza ribaltarsi ma con una ruota
violentemente amputata – doveva essere uscita dal viale di Gatsby
neanche due minuti prima. La netta sporgenza di un muretto dava
conto del distacco della ruota, a cui era adesso rivolta considerevole
attenzione da parte di cinque o sei autisti curiosi. Dal momento che
questi avevano abbandonato le rispettive automobili in mezzo alla
strada, da un po’ si sentiva arrivare da dietro uno sgradevole
baccano dissonante che si assommava alla confusione già violenta.
Da quel relitto era sceso un uomo con un lungo spolverino, che si
era piazzato sulla strada e spostava lo sguardo dall’automobile al
copertone e dal copertone agli astanti, perplesso ma cordiale.
«Vedete? È finita nel fosso» ci spiegò.
La cosa lo riempiva di infinito sbalordimento; riconobbi dapprima
l’insolita qualità del suo stupore, poi lui: era il recente avventore della
biblioteca di Gatsby.
«Com’è successo?»
Scrollò le spalle.
«Non capisco niente di motori» disse con decisione.
«Ma come è potuto succedere? Siete finito contro il muro?»
«Non lo chiedete a me» disse Occhi di Gufo, lavandosi le mani
dell’intera faccenda. «Capisco molto poco di guida – quasi niente.
So solo che è successo».
«Be’, se non siete buono a guidare non dovreste arrischiarvi a
farlo di notte».
«Ma non ci stavo nemmeno provando» spiegò indignato, «non ci
stavo nemmeno provando».
Un allibito silenzio calò fra gli astanti.
«Volete suicidarvi?»
«Siete fortunato che sia solo la ruota! Non sapete guidare e
nemmeno ci provavate!»
«Non capite» spiegò il criminale. «Non ero io alla guida. In
macchina c’è un’altra persona».
Lo shock che seguì a questa dichiarazione trovò voce in un lungo
«Ooooh!» quando lo sportello del coupé lentamente si aprì. La folla
– ormai di questo si trattava – d’istinto arretrò, e quando la portiera si
spalancò vi fu una pausa spettrale. Poi, molto gradualmente, un
pezzo alla volta, un individuo pallido e ciondolante uscì dal relitto,
tastando il suolo esitante con una scarpa da ballo grande e insicura.
Accecata dal bagliore dei fari e confusa dall’incessante mugghio
dei clacson, l’apparizione barcollò un momento prima di accorgersi
dell’uomo con lo spolverino.
«Che c’è?» chiese con calma. «Abbiamo finito la benzina?»
«Guardate!»
Una mezza dozzina di dita indicò la ruota amputata – lui la fissò
un momento e poi alzò lo sguardo come nel dubbio che fosse caduta
dal cielo.
«Si è staccata» qualcuno spiegò.
Lui annuì.
«All’inizio non mi ero mica accorto che ci eravamo fermati».
Una pausa. Poi, prendendo un grosso respiro e drizzando le
spalle, con voce stentorea dichiarò: «Qualcuno sa dirmi dov’è una
stazione di rifornimento?»
Perlomeno una dozzina di uomini, alcuni dei quali in condizioni
appena migliori delle sue, gli spiegò che ruota e automobile non
erano più collegate da alcun giunto materiale.
«Bisogna tornare indietro» propose poco dopo. «Mettere la
retromarcia».
«Ma la ruota è staccata!»
Esitò.
«Tentar non nuoce» disse.
L’ululato dei clacson aveva raggiunto il crescendo e io mi voltai e
tagliai per il prato verso casa. Mi girai solo una volta. Sopra la villa di
Gatsby splendeva un’ostia di luna che rendeva la notte bella come
prima, sopravvissuta alle risate e ai suoni del giardino che ancora
irradiava luce. Un vuoto improvviso sembrava emanare dalle finestre
e dalle grandi porte, a corredare del più completo isolamento la
figura del padrone di casa, in piedi nel portico, con la mano alzata in
un gesto formale di addio.
Rileggendo quello che ho scritto fino a qui, mi accorgo di aver dato
l’impressione di essere stato assorbito esclusivamente dagli eventi di
tre serate a distanza di svariate settimane l’una dall’altra. Al
contrario, furono eventi meramente casuali in un’estate molto fitta e
per un lungo periodo mi assorbirono infinitamente meno delle mie
faccende personali.
Per la maggior parte del tempo lavoravo. La mattina presto il sole
gettava la mia ombra verso ovest mentre attraversavo di corsa i
bianchi abissi della parte bassa di New York diretto al Probity Trust.
Conoscevo per nome gli altri impiegati e i giovani agenti di cambio e
a pranzo consumavo con loro salsiccette di maiale, purè di patate e
caffè in affollati ristoranti bui. Ebbi pure una breve storia con una
ragazza che viveva a Jersey City e lavorava in amministrazione, ma
suo fratello cominciò a guardarmi male e così, quando lei a luglio
andò in vacanza, lasciai che la cosa pian piano sfumasse.
Di solito cenavo allo Yale Club (non so perché, ma era l’evento
più deprimente della mia giornata) e poi salivo in biblioteca a
studiare investimenti e titoli scrupolosamente per un’ora. C’erano
spesso in giro dei facinorosi, ma non venivano mai in biblioteca, che
quindi era un buon posto per studiare. Dopodiché, quando la sera
era mite, scendevo giù per Madison Avenue oltre il vecchio Murray
Hill Hotel e prendevo la Trentatreesima per arrivare alla
Pennsylvania Station.
New York cominciava a piacermi, quel sapore di audacia e
avventura che acquistava di sera, e l’appagamento offerto all’occhio
irrequieto dal costante sfarfallio di uomini e donne e macchine. Mi
piaceva passare per Fifth Avenue e nella folla scegliere donne di
sogno e immaginare che di lì a poco sarei entrato nella loro vita,
senza che mai nessuno lo sapesse o disapprovasse. A volte, col
pensiero, le seguivo nei loro appartamenti agli angoli di strade
nascoste, dove loro si voltavano e mi restituivano il sorriso prima di
sparire dietro una porta in un buio accogliente. Nell’incantato
crepuscolo metropolitano ero assalito, a volte, da una tormentosa
solitudine che percepivo anche negli altri – quei poveri giovani
impiegati che si attardavano davanti alle vetrine in attesa del
momento di una solitaria cena al ristorante, giovani impiegati al
crepuscolo – che si perdevano i momenti più eccitanti della notte e
della vita.
E di nuovo alle otto, quando i taxi pulsanti riempivano su cinque
file le strade buie tra la Quarantesima e la Cinquantesima, diretti al
Theater District, mi si stringeva il cuore. Sui taxi fermi in coda le
figure si appoggiavano l’una all’altra, le voci cantavano e c’erano
risate per battute che non potevo sentire e le sigarette accese
disegnavano cerchi che non potevo interpretare. Immaginando di
correre anch’io verso l’ebbrezza e di condividere la loro intima
eccitazione, gli auguravo ogni bene.
Persi di vista Jordan Baker per un po’, e verso metà estate la
ritrovai. All’inizio mi lusingava andare in giro con lei perché era una
campionessa di golf e sapevano tutti chi era. Poi diventò qualcosa di
più. Non ero veramente innamorato, ma provavo una specie di
tenera curiosità. Il volto annoiato e altezzoso che presentava al
mondo nascondeva qualcosa – le affettazioni quasi sempre
nascondono qualcosa, anche se all’inizio non sembra – e un giorno
scoprii che cos’era. Eravamo a un ricevimento a Warwick22, Jordan
aveva lasciato la macchina presa in prestito sotto la pioggia con il
tettuccio abbassato e lo negò, e a me tornò in mente la storia che
quella sera da Daisy non riuscivo a ricordare: al suo primo grande
torneo di golf era scoppiata una diatriba che per poco non era finita
sui giornali, il sospetto che nella semifinale Jordan avesse spostato
la pallina da una cattiva posizione. La cosa raggiunse le proporzioni
di uno scandalo, ma poi si smorzò. Un caddy ritrattò la sua
dichiarazione e l’unico altro testimone ammise di potersi essere
sbagliato. Nella mia mente il nome e l’episodio erano tutt’uno.
Jordan Baker evitava per istinto gli uomini furbi e in gamba e ora
capivo il perché: si sentiva più al sicuro dove infrangere una regola
era considerato inconcepibile. Era incurabilmente disonesta. Non
sopportava di essere in svantaggio, e data questa sua incapacità
immagino avesse cominciato con i sotterfugi fin da molto giovane, in
modo da poter mantenere quel sorriso freddo e insolente in faccia al
mondo e al tempo stesso soddisfare le richieste del suo corpo tonico
e spigliato.
Per me non cambiava nulla. La disonestà in una donna non è
cosa che si deplori mai fino in fondo – mi dispiacque all’occasione,
poi me ne scordai. Nel corso di quello stesso ricevimento
intrattenemmo una bizzarra conversazione a proposito della guida.
Cominciò perché Jordan era passata con l’automobile così vicina a
certi operai che il parafango aveva sfiorato un bottone della giacca di
uno di loro.
«Guidi da schifo» protestai. «Dovresti stare più attenta, o non
guidare affatto».
«Sto attenta».
«No, per niente».
«Be’, stanno attenti gli altri» disse con leggerezza.
«Che c’entra?»
«Si terranno a distanza da me» rispose. «Bisogna essere in due
per avere un incidente».
«E se un giorno incontri qualcuno sbadato come te?»
«Spero che non mi capiti mai» rispose. «Detesto gli sbadati. Per
questo mi piaci tu».
I suoi occhi grigi e affaticati dal sole guardavano fisso davanti, ma
Jordan si era intenzionalmente sbilanciata e per un momento pensai
di amarla. Ma sono lento a pensare e sono pieno di regole interiori
che fanno da freno ai miei desideri, e sapevo che prima di tutto
dovevo tirarmi fuori dal garbuglio che avevo lasciato a casa. Avevo
scritto ogni settimana firmando “con affetto, Nick” e il mio unico
pensiero era che quando quella ragazza giocava a tennis sul suo
labbro superiore appariva un lieve baffo di sudore. E tuttavia c’era da
recidere con tatto quel vago accordo, prima di considerarmi libero.
Ciascuno di noi sospetta di essere dotato di almeno una delle
virtù cardinali, e questa è la mia: sono una delle poche persone
oneste che io abbia mai conosciuto.
4.

La domenica mattina, al suono delle campane delle chiese dei


villaggi lungo la costa, il mondo e la sua amante tornavano a casa di
Gatsby a fare scintille smodatamente sul suo prato.
«È un contrabbandiere23» dicevano le giovani signore,
aggirandosi fra cocktail e fiori. «Una volta ha ucciso un uomo che
aveva scoperto che era il nipote di von Hindenburg24 e cugino di
secondo grado del diavolo. Prendimi una rosa, dolcezza, e versami
un’ultima goccia in quel bicchiere di cristallo là».
Un giorno scrissi negli spazi liberi dell’orario dei treni i nomi di
quelli che erano venuti a casa di Gatsby quell’estate. È un vecchio
orario ormai, che si disintegra lungo le pieghe, e l’intestazione dice
“In vigore dal 5 luglio 1922”. Ma quei nomi grigi sono ancora leggibili
e vi daranno un’idea migliore, rispetto alle mie descrizioni generiche,
di coloro che accettarono l’ospitalità di Gatsby offrendogli il sottile
tributo di non sapere un bel niente di lui.
Dunque, da East Egg venivano Chester Becker e signora, i Leech
e un certo Bunsen che avevo conosciuto a Yale e il dottor Webster
Civet, che l’estate scorsa è affogato nel Maine. E poi gli Hornbeam,
Willie Voltaire e signora e un intero clan di nome Blackbuck che si
radunava sempre in un angolo alzando il naso come le capre verso
chiunque si avvicinasse. E gli Ismay e i Chrystie (o meglio, Hubert
Auerbach e la moglie del signor Chrystie) e Edgar Beaver, di cui si
diceva che gli erano venuti i capelli bianchi come il cotone un
pomeriggio d’inverno senza ragione apparente.
Clarence Endive era di West Egg, se ben ricordo. Venne solo una
volta, in pantaloni alla zuava bianchi, e si azzuffò con uno straccione
di nome Etty in giardino. Da più lontano nell’isola venivano i
Cheadle, O.R.P. Schraeder e signora, gli Stonewall Jackson Abram
della Georgia e i Fishguard e i Ripley Snell. Snell venne tre giorni
prima di finire in galera, talmente ubriaco sul viale di ghiaia che
l’automobile della moglie di Ulysses Swett gli passò sopra la mano
destra. Vennero anche i Dancie e S.B. Whitebait, ben oltre i
sessanta, e Maurice A. Flink e gli Hammerhead e Beluga,
l’importatore di tabacco, e le ragazze di Beluga.
Da West Egg venivano i Pole e i Mulready e Cecil Roebuck e
Cecil Schoen e il senatore Gulik e Newton Orchid, che gestiva la
Films Par Excellence, e poi Eckhaust e Clyde Cohen e Don S.
Schwartz (figlio) e Arthur McCarty, tutti legati in qualche modo al
cinema. E i Catlip e i Bemberg e G. Earl Muldoon, fratello di quel
Muldoon che in seguito strangolò la moglie. E venivano il promoter
Da Fontano, Ed Legros e James B. (“Torcibudella”) Ferret e i De
Jong ed Ernest Lilly – venivano a giocare d’azzardo e quando Ferret
si aggirava per il giardino voleva dire che l’avevano spennato e le
azioni dell’Associated Traction il giorno dopo sarebbero salite.
Un uomo chiamato Klipspringer veniva così spesso e si
tratteneva così a lungo che fu soprannominato “il pensionante” –
dubito che avesse un’altra casa. Tra la gente di teatro c’erano Gus
Waize e Horace O’Donavan e Lester Meyer e George Duckweed e
Francis Bull. Da New York venivano anche i Chrome e i Backhysson
e i Dennicker e Russel Betty e i Corrigan e i Kelleher e i Dewar e gli
Scully e S.W. Belcher e gli Smirke e i giovani Quinn, che ora hanno
divorziato, e Henry L. Palmetto che si è suicidato gettandosi sotto un
treno nella stazione di Times Square.
Benny McClenahan arrivava sempre in compagnia di quattro
ragazze. Non erano mai fisicamente le stesse, ma erano talmente
uguali fra loro che inevitabilmente sembrava che fossero già venute.
Ho dimenticato i loro nomi – Jaqueline, penso, o forse Consuela o
Gloria o Judy o June – e i loro cognomi erano melodiosi nomi di fiori
o mesi dell’anno, oppure quelli più austeri di grandi capitalisti
americani di cui, se pressate, confessavano di essere cugine.
In aggiunta a tutti questi, ricordo che Faustina O’Brien venne
almeno una volta e le ragazze Baedeker e il giovane Brewer, che
aveva perso il naso in guerra, e il signor Albrucksburger e la sua
fidanzata signorina Haag, e Ardita Fitz-Peters, e il signor P. Jewett,
un tempo capo dell’American Legion, e la signorina Claudia Hip con
un uomo che si riteneva fosse il suo chauffeur, e un principe di non
so cosa, che chiamavamo il Duca e di cui, se mai l’ho saputo, ho
dimenticato il nome.
Tutta questa gente veniva a casa di Gatsby quell’estate25.

Alle nove di una mattina di fine luglio la magnifica automobile di


Gatsby imboccò sobbalzando il viale roccioso che portava a casa
mia ed emise uno stralcio di melodia con il clacson a tre note. Era la
prima volta che veniva lui da me, sebbene io fossi già andato a due
delle sue feste, salito sul suo idroplano e, dietro sua pressante
richiesta, avessi approfittato frequentemente della sua spiaggia.
«Buongiorno, campione. Dato che oggi pranzi con me ho pensato
che possiamo andare in città insieme».
Si teneva in bilico sul predellino dell’automobile con
quell’elasticità di movimento così tipicamente americana che
suppongo derivi dall’assenza di lavori pesanti in gioventù e ancora di
più dalla grazia informe dei nostri giochi scattanti e irregolari. Questa
qualità continuava a trapelare nei suoi modi scrupolosi sotto forma di
irrequietezza. Non stava mai davvero fermo; da qualche parte c’era
sempre un piede che batteva o una mano che si apriva e chiudeva
impaziente.
Vide che guardavo ammirato la sua automobile.
«Carina, vero, campione?» Saltò giù per farmela vedere meglio.
«Non l’avevi mai vista?»
L’avevo vista. Tutti l’avevano vista. Era di un intenso color crema,
dalle cromature brillanti, ingrossata in più punti della sua mostruosa
lunghezza da trionfali cappelliere e portavivande e cassette per
utensili, e terrazzata da un labirinto di parabrezza che riflettevano
una dozzina di soli. Partimmo per la città seduti al riparo di svariati
strati di vetro, in una specie di serra di cuoio verde.
In quell’ultimo mese gli avevo parlato forse mezza dozzina di
volte e avevo scoperto, con delusione, che aveva ben poco da dire.
Così la mia prima impressione – che fosse una persona di qualche
indefinibile rilievo – era man mano svanita facendolo diventare
semplicemente il proprietario di un lussuoso ritrovo vicino a casa
mia.
E poi arrivò quel viaggio sconcertante. Non avevamo ancora
raggiunto il villaggio di West Egg che Gatsby cominciò a lasciare in
sospeso le sue frasi eleganti e a darsi pacche sulle ginocchia del
vestito color caramello in segno di indecisione.
«Dimmi un po’, campione» proruppe a sorpresa. «Che ne pensi di
me?»
Preso alla sprovvista, ricorsi alla generica evasività che una
domanda del genere merita.
«Be’, ti dirò qualcosa della mia vita» mi interruppe. «Non voglio
che tu ti faccia di me un’idea sbagliata per via di tutte queste storie
che senti».
Dunque era al corrente delle bizzarre accuse che insaporivano la
conversazione nei suoi salotti.
«Giuro su Dio che ti dirò la verità». La mano destra
immediatamente chiamò a testimone il castigo divino. «Sono figlio di
gente ricca del Midwest – tutti morti oramai. Sono nato e cresciuto in
America, ma ho studiato a Oxford come tutti i miei antenati da molti
anni. È una tradizione di famiglia».
Mi guardò di sottecchi e capii perché Jordan Baker lo credesse
un bugiardo. Aveva detto «ho studiato a Oxford» di corsa,
smozzicando le parole, o quasi lasciandole morire in gola, come se
quell’espressione lo avesse già in passato messo in imbarazzo. E
con questo dubbio l’intera sua dichiarazione andò in frantumi e mi
domandai se, dopo tutto, non ci fosse davvero qualcosa di un po’
sinistro in lui.
«In che parte del Midwest?» chiesi, buttandola lì.
«San Francisco».
«Capisco».
«I miei parenti sono morti tutti e mi sono ritrovato a disporre di
una grande quantità di denaro».
Il tono della voce era solenne, come se il ricordo dell’improvvisa
estinzione del suo clan lo opprimesse ancora. Per un attimo pensai
che mi stesse prendendo in giro, ma mi bastò guardarlo un momento
per essere convinto del contrario.
«A quel punto vissi come un giovane ragià in tutte le capitali
d’Europa – Parigi, Venezia, Roma – collezionando gioielli,
soprattutto rubini, praticando la caccia grossa, dipingendo anche un
po’, ma solo per me, e cercando di dimenticare una cosa molto triste
che mi era accaduta tanto tempo prima».
A stento riuscii a trattenere una risata incredula. Quelle frasi
suonavano così logore e trite da non evocare alcuna immagine se
non quella di un “personaggio”, un fantoccio in turbante che perdeva
segatura da tutti i pori mentre inseguiva una tigre nel Bois de
Boulogne.
«Poi arrivò la guerra, campione. Fu un grande sollievo e provai in
tutti i modi a morire, ma a quanto pare la mia vita era soggetta a un
incantesimo. All’inizio accettai un incarico da tenente. Nella foresta
dell’Argonne portai tanto in avanti quello che restava del mio
battaglione mitraglieri che intorno a noi si fece un vuoto di mezzo
miglio dove la fanteria non poteva avanzare. Rimanemmo lì due
giorni e due notti, centotrenta uomini con sedici mitragliatrici Lewis, e
quando finalmente arrivò la fanteria tra i cumuli di morti trovarono le
insegne di tre divisioni tedesche. Venni promosso maggiore e tutti i
governi alleati mi diedero una medaglia. Persino il Montenegro, il
piccolo Montenegro laggiù sull’Adriatico!»
Il piccolo Montenegro! Lanciò in alto quelle parole e le approvò
annuendo con un sorriso che comprendeva nel proprio raggio la
tormentata storia del Montenegro e simpatizzava con le coraggiose
lotte del popolo montenegrino. Un sorriso che esprimeva
riconoscenza per la catena di circostanze nazionali che aveva
suscitato nel piccolo cuore caldo del Montenegro la concessione di
quel tributo. La mia incredulità venne sommersa dall’attrazione; era
come sfogliare una dozzina di riviste a gran velocità.
Gatsby cercò nella tasca e mi lasciò cadere nel palmo della mano
un pezzo di metallo appeso a un nastro.
«È quella del Montenegro».
Con mio stupore, la medaglia pareva autentica.
Orderi di Danilo, recitava l’iscrizione lungo la circonferenza,
Montenegro, Nicolas Rex26.
«Voltala».
Maggiore Jay Gatsby, lessi, all’Eccellente Valore.
«Ecco un’altra cosa che porto sempre con me. Un ricordo dei
giorni di Oxford. Scattata nel Trinity Quad27 – quello alla mia sinistra
ora è il conte di Doncaster».
Era la fotografia di una mezza dozzina di giovani in blazer che
bighellonavano sotto un’arcata da cui si vedeva una schiera di
guglie. Tra loro c’era Gatsby, un po’ più giovane ma non tanto, con
una mazza da cricket in mano.
Quindi era tutto vero. Vidi le pelli di tigre sfolgoranti nel suo
palazzo sul Canal Grande; lo vidi aprire uno scrigno di rubini per
alleviare, con i loro abissi di luce cremisi, i tormenti del suo cuore
spezzato.
«Oggi mi accingo a chiederti un grande favore» disse, riponendo
in tasca soddisfatto i due souvenir, «dunque ho pensato tu debba
sapere qualcosa di me. Non vorrei che mi considerassi un nessuno
qualunque. Vedi, mi ritrovo spesso circondato da sconosciuti perché
mi lascio trasportare qua e là cercando di dimenticare la triste cosa
che mi è capitata». Esitò. «Ti verrà resa nota nel pomeriggio».
«A pranzo?»
«No, nel pomeriggio. Sono venuto a sapere che hai invitato la
signorina Baker a prendere il tè».
«Vuoi dirmi che sei innamorato della signorina Baker?»
«No, campione, no. Ma la signorina Baker ha gentilmente
acconsentito a parlarti della faccenda».
Non avevo la più pallida idea di quale fosse la “faccenda”, ma ero
più infastidito che incuriosito. Non avevo invitato Jordan a prendere il
tè per parlare del signor Jay Gatsby. Il favore che si accingeva a
chiedermi era sicuramente qualcosa di totalmente assurdo e per un
momento mi pentii di avere mai messo piede nel suo sovraffollato
giardino.
Non aggiunse altro. La sua osservanza cresceva quanto più ci
avvicinavamo alla città. Oltrepassammo Port Roosevelt28, dove
intravedemmo navi orlate di rosso in rotta per l’oceano, e poi
sfrecciammo per le stradine acciottolate dei bassifondi costeggiate
da bui e indisertati saloon dei primi anni d’oro sbiadito del
Novecento. Poi da entrambi i lati si aprì per noi la valle delle ceneri e
di sfuggita vidi la signora Wilson che con ansante vitalità si
industriava alla pompa della benzina.
Con i parafanghi spiegati come ali spargemmo luce per mezza
Astoria – soltanto mezza, perché mentre serpeggiavamo tra i pilastri
della sopraelevata udii il familiare giag giag spat di una motocicletta
e venimmo affiancati da un poliziotto esagitato.
«D’accordo, campione» urlò Gatsby. Rallentammo. Tirò fuori dal
portafoglio un cartoncino bianco e lo sventolò davanti agli occhi del
poliziotto.
«Tutto a posto» convenne il poliziotto, toccandosi il berretto. «Vi
riconoscerò la prossima volta, signor Gatsby. Vi faccio le mie
scuse».
«Cos’era?» mi informai. «La fotografia di Oxford?»
«Una volta mi riuscì di fare un favore al commissario e da allora
tutti gli anni a Natale mi invia una cartolina di auguri».
E poi sul grande ponte, con le travi che producevano un costante
sfarfallio di luce solare sul flusso delle automobili e la città che si
ergeva al di là del fiume in cumuli bianchi e zollette di zucchero,
costruita come per magia con denaro inodore. Dal Queensboro
Bridge è come se la città apparisse sempre per la prima volta, nella
sua originaria e selvaggia promessa di tutti i misteri e le bellezze del
mondo.
Ci passò accanto un morto su un feretro coperto di fiori, seguito
da due carrozze a tendine abbassate e altre carrozze più animate
con gli amici. Gli amici ci guardarono con l’occhio tragico e il corto
labbro superiore tipici dell’Europa sudorientale, e mi rallegrai che la
vista della splendida vettura di Gatsby fosse inclusa nella loro
funerea vacanza. All’altezza dell’isola di Blackwell ci oltrepassò una
limousine guidata da un autista bianco, dove erano seduti tre neri
all’ultima moda, due maschi e una ragazza. Risi forte quando il
bianco dei loro occhi roteò verso di noi in altezzosa rivalità.
“Ora che abbiamo attraversato il ponte” pensai, “tutto è possibile,
tutto…”
Persino Gatsby era possibile, senza troppa meraviglia.

Mezzogiorno ruggente. In una cantina ben ventilata della


Quarantaduesima Strada mi ritrovai con Gatsby per pranzo.
Sbattendo le palpebre per abituarsi alla semioscurità dopo la luce
accecante della strada, i miei occhi lo individuarono nell’anticamera,
che parlava con un altro uomo.
«Carraway, questo è il mio amico, il signor Wolfshiem29».
Un ometto ebreo dal naso schiacciato alzò la grossa testa e mi
guardò con due lussureggianti cespugli di peli che fuoriuscivano
dalle narici. Dopo un momento distinsi i suoi occhietti nella
penombra.
«…quindi gli ho dato un’occhiata…» disse il signor Wolfshiem
stringendomi con foga la mano «…e indovinate cosa ho fatto?»
«Cosa?» mi informai gentilmente.
Ma evidentemente non parlava a me, perché lasciò andare la mia
mano puntando il suo naso espressivo su Gatsby.
«Ho passato i soldi a Katspaugh e ho detto: “D’accordo,
Katspaugh, non dargli un penny finché non chiude la bocca”. E l’ha
chiusa seduta stante».
Gatsby ci prese entrambi per un braccio ed entrò nel ristorante, al
che il signor Wolfshiem si rimangiò la nuova frase che stava per dire
e cadde in uno stato di assenza sonnambolica.
«Highball?» chiese il maître.
«È un bel ristorantino questo qua» disse il signor Wolfshiem
guardando le ninfe presbiteriane sul soffitto. «Ma mi piace di più
quello di là dalla strada!»
«Sì, highball» concordò Gatsby, e poi rivolto al signor Wolfshiem:
«Là fa troppo caldo».
«È caldo e piccolo, sì» disse il signor Wolfshiem, «ma pieno di
ricordi».
«Di che ristorante parlate?» chiesi.
«Il vecchio Metropole».
«Il vecchio Metropole» rimuginò malinconico il signor Wolfshiem.
«Pieno di facce morte e sepolte. Pieno di amici scomparsi per
sempre. Mi ricorderò finché campo la notte in cui spararono a Rosy
Rosenthal. Eravamo in sei al tavolo e Rosy aveva mangiato e bevuto
parecchio tutta la sera. Quando era quasi mattina, il cameriere gli si
avvicina con una strana faccia e gli dice che c’è qualcuno fuori che
gli vuole parlare. “D’accordo” dice Rosy e fa per alzarsi, e io lo
trattengo perché si risieda.
«“Lascia che quei bastardi vengano qua, se ti vogliono parlare,
Rosy, ma tu non ti muovere, per carità”.
«Erano le quattro del mattino, se avessimo alzato le veneziane
avremmo visto la luce».
«E lui andò?» chiesi innocentemente.
«Certo che andò». Il naso del signor Wolfshiem balenò indignato
nella mia direzione. «Sulla porta si voltò e disse: “Non fate portare
via il mio caffè da quel cameriere!” Poi uscì sul marciapiede e quelli
gli spararono tre volte nella pancia piena e scapparono in
automobile».
«Quattro di loro finirono sulla sedia elettrica» dissi, ricordando.
«Cinque, con Becker». Le sue narici si voltarono con interesse
verso di me. «A quanto ho capito, cercate un inzerimento in affari».
L’accostamento delle due osservazioni era sconcertante. Gatsby
rispose per me: «Oh, no» esclamò, «non è lui!»
«No?» Il signor Wolfshiem sembrò deluso.
«Lui è solo un amico. Ti ho detto che di quello avremmo parlato
un’altra volta».
«Chiedo scusa» disse il signor Wolfshiem, «ho sbagliato
persona».
Arrivò un succulento pasticcio di carne e il signor Wolfshiem,
dimentico della più struggente atmosfera del vecchio Metropole, si
mise a mangiare con gusto feroce. Nel frattempo il suo sguardo
vagava molto lentamente per tutta la sala e chiuse l’arco della sua
ricognizione scrutando le persone che erano direttamente dietro di
lui. Penso che se non fosse stato per la mia presenza avrebbe dato
un’occhiata anche sotto al tavolo.
«Senti, campione» disse Gatsby, inclinandosi verso di me, «ho
paura di averti fatto un po’ arrabbiare stamattina in macchina».
Ecco il sorriso, di nuovo. Ma stavolta gli opposi resistenza.
«Non mi piacciono i misteri» risposi. «E non capisco perché non
mi dici apertamente cosa vuoi. Perché devo saperlo dalla signorina
Baker?»
«Oh, non c’è niente di losco» mi assicurò. «Come sai, la
signorina Baker è una grande sportiva, e non farebbe mai nulla di
scorretto».
D’un tratto guardò l’orologio, saltò su e scappò via dalla stanza
lasciandomi al tavolo da solo con il signor Wolfshiem.
«Deve fare una telefonata» disse il signor Wolfshiem, seguendolo
con gli occhi. «Bel tipo, non è vero? Bello da guardare e un perfetto
gentiluomo».
«Sì».
«È stato a Occheseford».
«Oh!»
«Ha studiato a Occheseford in Inghilterra. Conoscete l’Università
di Occheseford?»
«Ne ho sentito parlare».
«È una delle università più famose del mondo».
«Conoscete Gatsby da molto tempo?» mi informai.
«Diversi anni» rispose compiaciuto. «Ho avuto il piacere di fare la
sua conoscenza appena finita la guerra. Mi bastò parlarci per un’ora
per capire che avevo trovato un uomo di alto lignaggio. Mi dissi:
“Questo è il tipo di uomo che vorresti portare a casa e presentare a
tua madre e tua sorella”». Fece una pausa. «Vedo che guardate i
miei gemelli».
Non li stavo guardando, ma a quel punto sì.
Erano pezzi di avorio dall’aspetto stranamente familiare.
«Splendidi esemplari di molari umani» mi informò.
«Caspita!» Li ispezionai. «È un’idea molto interessante».
«Eccome». Si rivoltò le maniche sotto la giacca. «Eccome.
Gatsby sta molto attento con le donne. Non oserebbe mai mettere gli
occhi sulla moglie di un amico».
Quando l’oggetto di tale istintiva fiducia ritornò al tavolo e si
sedette, il signor Wolfshiem buttò giù il caffè e si alzò.
«Ottimo pranzo» disse, «e adesso scappo prima che voi giovani
vi stufiate della mia compagnia».
«Non c’è fretta, Meyer» disse Gatsby, senza entusiasmo. Il signor
Wolfshiem alzò la mano a mo’ di benedizione.
«Sei molto gentile, ma io appartengo a un’altra generazione»
annunciò solennemente. «Voi restate qui a parlare di sport e di
ragazze e di…» Aggiunse un sostantivo immaginario con un altro
svolazzo della mano. «In quanto a me, ho cinquant’anni, e non
voglio impormi a voi più di così».
Mentre ci stringeva le mani e si voltava per andarsene, il suo
tragico naso tremava. Mi venne il dubbio di aver detto qualcosa che
lo avesse offeso.
«Alle volte diventa sentimentale» mi spiegò Gatsby. «Oggi è uno
dei suoi giorni di sentimentalismo. È un personaggio molto noto a
New York, un assiduo di Broadway».
«Ma chi è? Un attore?»
«No».
«Un dentista?»
«Meyer Wolfshiem? No, è un giocatore d’azzardo». Gatsby esitò,
poi aggiunse, senza scomporsi: «È lui che ha truccato le World
Series nel 191930.
«Ha truccato le World Series?» replicai.
L’idea mi sconcertava. Naturalmente ricordavo che nel 1919 le
World Series erano state “truccate” ma, se mi fossi soffermato a
rifletterci, avrei pensato a una cosa che era accaduta, l’inevitabile
risultato di qualche concatenazione di eventi. Non mi era mai venuto
in mente che un solo uomo potesse prendersi gioco della fiducia di
cinquanta milioni di persone, con la determinazione di un ladro che
fa saltare una cassaforte.
«Com’è arrivato a farlo?» chiesi dopo un minuto.
«Ha colto l’occasione, tutto qua».
«Perché non è in prigione?»
«Non riescono a prenderlo, campione. È un uomo astuto».
Insistetti per pagare il conto. Quando il cameriere mi portò il resto,
intravidi Tom Buchanan dall’altra parte della sala affollata.
«Vieni un minuto con me» dissi. «Devo salutare una persona».
Nel vederci Tom balzò in piedi e fece qualche passo verso di noi.
«Dove sei stato?» chiese calorosamente. «Daisy è su tutte le
furie perché non ti sei più fatto vivo».
«Ti presento il signor Gatsby. Il signor Buchanan».
Si diedero una breve stretta di mano e sul volto di Gatsby
apparve un’insolita espressione tirata, d’imbarazzo.
«Come te la passi?» chiese Tom rivolto a me. «Come mai sei
venuto fin qui per mangiare?»
«Ho pranzato con il signor Gatsby».
Mi voltai verso il signor Gatsby, ma non c’era più.

Un giorno di ottobre nel 1917…


(così attaccò quel pomeriggio Jordan Baker, sedendo ben diritta
su una sedia diritta nel tea-garden dell’Hotel Plaza)
… stavo andando a piedi da un posto a un altro, un po’ sul
marciapiede e un po’ sul prato. Sul prato ero più contenta perché
avevo delle scarpe da golf inglesi che mordevano il terreno morbido
con i loro chiodini di gomma. Indossavo anche una nuova gonna
scozzese che si gonfiava leggermente con il vento e, ogni volta che
si alzava, le bandiere rosse bianche e blu davanti alle case si
tendevano e facevano ts-ts-ts-ts-ts in segno di disapprovazione.
La bandiera più grande e il prato più grande erano quelli della
casa di Daisy Fay. Aveva appena compiuto diciotto anni, due più di
me, ed era di gran lunga la ragazza più ricercata di tutta Louisville.
Vestiva di bianco e aveva una piccola spider bianca e a casa sua il
telefono squillava continuamente e i giovani ufficiali di Camp Taylor31
richiedevano emozionati il privilegio di averla tutta per loro quella
sera. «Anche un’ora sola!»
Quando arrivai davanti a casa sua quel mattino, la spider bianca
era ferma lungo il marciapiede e lei era seduta in macchina con un
tenente che non avevo mai visto prima. Erano così presi che Daisy
non si accorse di me fino a quando non fui a pochi passi di distanza.
«Ciao, Jordan» mi salutò, inaspettatamente. «Vieni qui, per
favore».
Ero lusingata che volesse parlarmi, perché di tutte le ragazze più
grandi era quella che ammiravo di più. Mi chiese se stessi andando
alla Croce Rossa a fare le bende. Risposi di sì. Ecco, allora potevo
avvertire, per cortesia, che lei quel giorno non sarebbe potuta
venire? Mentre Daisy parlava, l’ufficiale la guardava come ogni
ragazza vorrebbe essere guardata almeno qualche volta nella vita, e
mi sembrò così romantico che non ho mai dimenticato l’episodio. Lui
si chiamava Jay Gatsby e non lo rividi per più di quattro anni – anche
quando lo incontrai a Long Island non mi resi conto che era la stessa
persona.
Questo accadeva nel 1917. L’anno dopo avevo anch’io qualche
cavaliere e cominciai a fare tornei, quindi non vedevo molto spesso
Daisy. Frequentava gente un po’ più grande – quando frequentava
qualcuno. Circolavano strane voci su di lei, per esempio che sua
madre l’aveva scoperta, una notte d’inverno, a fare la valigia per
andare a New York a dire addio a un soldato diretto oltreoceano.
Riuscirono a impedirglielo, ma non parlò con i propri familiari per
diverse settimane. Dopo quella volta lasciò perdere i soldati e uscì
soltanto con ragazzi del posto, miopi e con i piedi piatti, che non
sarebbero mai stati ammessi nell’esercito.
L’autunno successivo era di nuovo allegra, più allegra che mai.
Dopo l’armistizio fece il suo debutto in società e a febbraio pareva
fosse fidanzata con uno di New Orleans. A giugno sposò Tom
Buchanan di Chicago con una pompa e uno sfarzo mai visti a
Louisville. Lui arrivò con un centinaio di persone su quattro carrozze
di treno riservate e affittò un intero piano dell’Hotel Seelbach, e il
giorno prima delle nozze le donò un filo di perle del valore di
trecentocinquantamila dollari.
Io ero damigella d’onore. Andai nella sua stanza mezz’ora prima
della cena della vigilia delle nozze e la trovai stesa sul letto con il
suo vestito a fiori, bella come una sera di giugno e ubriaca come una
scimmia. In una mano teneva una bottiglia di Sauterne, nell’altra una
lettera.
«Congratulati con me» mormorò. «Non ho mai bevuto prima d’ora
ma, oh, quanto mi piace».
«Che succede, Daisy?»
Ti assicuro che ebbi paura; non avevo mai visto una ragazza in
quelle condizioni.
«Ecco, tesoro». Frugò nel cestino della carta straccia che teneva
sul letto con sé e ne tirò fuori il filo di perle. «Portale di sotto e ridalle
al legittimo proprietario. Di’ che Daisy ha cambiato idea. Di’: “Daisy
ha cambiato idea!”».
Scoppiò a piangere – non la smetteva più. Corsi fuori e trovai la
cameriera di sua madre, chiudemmo a chiave la porta e la
mettemmo nella vasca piena di acqua fredda. Non voleva mollare la
lettera. Se la portò nella vasca e ne fece una palla bagnata; mi
permise di posarla nel portasapone soltanto quando realizzò che si
disfaceva come neve.
Ma non disse più nemmeno una parola. Le somministrammo sali
ammoniacali e le mettemmo il ghiaccio sulla fronte, poi le infilammo
di nuovo il vestito e mezz’ora dopo, quando uscimmo dalla camera,
aveva le perle al collo e l’incidente era superato. Il giorno dopo alle
cinque sposò Tom Buchanan senza battere ciglio e partì per un
viaggio di tre mesi nei mari del Sud.
Quando tornarono li vidi a Santa Barbara e pensai che non avevo
mai visto una ragazza così innamorata del marito. Se lui usciva dalla
stanza un minuto, si guardava intorno ansiosa e diceva: «Dov’è
andato Tom?» mantenendo un’espressione assente finché non lo
vedeva ricomparire sulla porta. Sedeva ore e ore sulla sabbia con la
testa di lui in grembo, passandogli le dita sulle palpebre e
guardandolo con incommensurabile diletto. Era toccante vederli
insieme – ti veniva da ridere in sordina per l’incanto. Era agosto. Una
settimana dopo che ero partita da Santa Barbara, una sera Tom
andò a finire contro un autocarro sulla strada di Ventura squarciando
una delle ruote anteriori della macchina. Anche la ragazza che era
con lui finì sui giornali, perché si ruppe un braccio – era una delle
cameriere dell’Hotel Santa Barbara.
L’aprile successivo Daisy ebbe la bambina e si trasferirono in
Francia per un anno. Li vidi a Cannes una primavera e più avanti a
Deauville, poi tornarono a stabilirsi a Chicago. Come sai, Daisy era
molto conosciuta a Chicago. Lei e Tom frequentavano gli ambienti
più alla moda, gente giovane, ricca e sregolata, ma lei ne uscì con
una reputazione assolutamente irreprensibile. Forse perché non
beve. È un grande vantaggio non bere in mezzo a gente che beve
pesante. Riesci a tenere la bocca chiusa e, soprattutto, a
commettere i tuoi peccatucci nel momento giusto, quando gli altri
sono così annebbiati che non se ne accorgono o non se ne curano.
Forse Daisy non ha mai avuto altre storie – eppure c’è un non so
che nella sua voce…
Be’, circa sei settimane fa ha sentito nominare Gatsby per la
prima volta dopo anni. È stato quando ti ho chiesto – ricordi? – se
conoscevi un certo Gatsby di West Egg. Quando te ne sei andato, è
venuta in camera mia, mi ha svegliato e mi ha chiesto: «Gatsby
chi?», e quando gliel’ho descritto – ero mezza addormentata – ha
detto con una voce stranissima che doveva trattarsi dell’uomo che
conosceva un tempo. Solo a quel punto ho associato questo Gatsby
all’ufficiale sulla spider bianca.

Quando Jordan Baker finì di raccontarmi tutto questo, avevamo già


lasciato il Plaza da mezz’ora e stavamo attraversando in carrozza
Central Park. Il sole era calato dietro gli alti palazzi tra la
Cinquantesima e la Sessantesima Strada ovest dove abitano le star
del cinema, e nel caldo crepuscolo si levavano voci chiare di
ragazze, già raccolte come grilli sull’erba, che cantavano:

Son lo sceicco d’Arabia


il tuo amore mi appartiene.
La notte, mentre dormi,
m’infilerò nella tua tenda…

«Strana coincidenza» dissi.


«Non è per niente una coincidenza».
«In che senso?»
«Gatsby ha comprato quella casa in modo da avere Daisy
appena al di là della baia».
Quindi non era solo alle stelle che Gatsby aspirava in quella notte
di giugno. Me lo vidi davanti, vivo, appena partorito dal ventre del
suo insensato splendore.
«Vuole sapere» proseguì Jordan «se sei disposto a invitare Daisy
a casa tua un pomeriggio e poi permettergli di passare».
La modestia della richiesta mi lasciò scosso. Aveva aspettato
cinque anni e acquistato una reggia dove distribuiva luce di stelle a
falene qualsiasi solo per poter “passare”, un pomeriggio, nel giardino
di un estraneo.
«Dovevo sapere tutta la storia prima che potesse chiedermi una
cosa così piccola?»
«Ha paura. Ha aspettato così a lungo. Pensava ti potessi
offendere. Vedi, sotto sotto è un ragazzaccio qualunque».
Qualcosa mi preoccupava.
«Perché non ha chiesto a te di organizzare l’incontro?»
«Vuole che lei veda la sua casa» mi spiegò. «E la tua è proprio
accanto».
«Ah!»
«Credo che un po’ si aspettasse di vederla arrivare a una delle
sue feste una sera» continuò Jordan, «ma lei non si è mai
presentata. Allora lui ha cominciato a chiedere con simulata
noncuranza alle persone se la conoscevano, e io sono la prima che
ha trovato. È successo quella sera, al ballo, quando mi ha mandato
a chiamare, e avresti dovuto sentire in che modo tortuoso è arrivato
al punto. Naturalmente, la prima cosa che ho suggerito è stata un
pranzo a New York – ed è come impazzito: “Non voglio andare così
lontano!” continuava a dire. “Voglio vederla qui accanto”.
«Quando gli ho detto che tu eri molto amico di Tom, voleva lasciar
perdere tutto. Non sa quasi niente di Tom, anche se dice di avere
letto per anni la cronaca di Chicago solo nella speranza di trovarci
nominata Daisy».
Si era fatto buio e, mentre ci infilavamo sotto un ponticello, misi
un braccio sulle spalle dorate di Jordan, la strinsi a me e la invitai a
cena. D’un tratto non pensavo più a Daisy e a Gatsby, ma a questa
persona pulita, forte, definita, praticante di scetticismo universale,
che si adagiava spigliata al mio braccio. Una frase iniziò a
martellarmi nelle orecchie, in una specie di crescendo inebriante: “Ci
sono solo gli inseguiti, gli inseguitori, gli affaccendati e gli stanchi”.
«E Daisy merita qualcosa nella vita» mormorò Jordan.
«Ma lei vuole vedere Gatsby?»
«Lei non deve sapere niente. Gatsby non vuole che lei sappia
niente. Devi solo invitarla per un tè».
Superammo una barriera di alberi scuri oltre la quale le facciate
della Cinquantanovesima Strada, un isolato di pallida luce delicata,
rischiaravano il parco. A differenza di Gatsby e Tom Buchanan, io
non avevo un volto di ragazza che fluttuasse senza corpo tra i
cornicioni scuri e le insegne abbaglianti, quindi strinsi a me la
ragazza che avevo accanto. La sua bocca mi sorrise, fiacca e
sdegnosa, e io la strinsi ancora di più, avvicinandomela al viso.
5.

Quando rientrai a West Egg quella notte, per un momento temetti


che la mia casa fosse in fiamme. Le due di notte e tutto quell’angolo
di penisola avvampava di una luce che si posava irreale sui cespugli
e produceva sottili filamenti luccicanti sui cavi elettrici lungo la
strada. Girando l’angolo mi accorsi che era la casa di Gatsby,
illuminata da torre a cantina.
All’inizio pensai si trattasse dell’ennesima festa, uno sfrenato
sbaraglio che si era trasformato in una partita di “nascondino” o
“sardine” con l’intera casa a disposizione. Ma non c’era rumore. Solo
il vento tra gli alberi, che scuoteva i cavi così che la luce andava e
veniva come se la casa facesse l’occhiolino nel buio. Mentre il mio
taxi si allontanava borbottando, vidi Gatsby che attraversava il prato
per venirmi incontro.
«La tua casa sembra l’Esposizione universale» dissi.
«Ah, sì?» e la guardò assente. «Ho dato un’occhiata in qualche
stanza. Andiamo a Coney Island32, campione. Con la mia
macchina».
«È tardissimo».
«Be’, che ne dici di un tuffo in piscina? Non l’ho usata per tutta
l’estate».
«Io devo andare a letto».
«D’accordo».
Restò in attesa, guardandomi con controllata impazienza.
«Ho parlato con la signorina Baker» dissi dopo un momento.
«Chiamerò Daisy domani per invitarla a prendere un tè a casa mia».
«Ah, sì, d’accordo» disse noncurante. «Non voglio darti dei
fastidi».
«Che giorno andrebbe bene per te?»
«Che giorno andrebbe bene per te» rettificò immediatamente.
«Non voglio darti dei fastidi, capisci?»
«Che ne dici di dopodomani?»
Ci pensò un momento. Poi, riluttante: «Voglio far tagliare l’erba»
disse.
Tutti e due guardammo l’erba – il confine tra il mio prato arruffato
e il punto in cui cominciava la distesa ben tenuta e più scura del suo
era netto. Dedussi che intendeva l’erba di casa mia.
«C’è un’altra piccola cosa» disse incerto. Esitava.
«Preferisci rimandare di qualche giorno?» chiesi.
«Oh, non si tratta di questo. Perlomeno…» Farfugliò una
sequenza di attacchi: «È che, pensavo… insomma, senti, campione,
tu non fai tanti soldi, giusto?»
«Non tantissimi, no».
Questo sembrò rassicurarlo e proseguì con più convinzione.
«Lo immaginavo, perdona la mia… vedi, io porto avanti una
piccola attività secondaria, una specie di extra, capisci. E ho pensato
che se tu non guadagni molto… tu vendi obbligazioni, giusto,
campione?»
«Ci provo».
«Ecco, allora ti potrebbe interessare. Non ti prenderebbe molto
tempo e potresti mettere insieme un bel gruzzoletto. Si tratta di una
faccenda piuttosto riservata».
Adesso mi rendo conto che in circostanze diverse quella
conversazione avrebbe potuto segnare un momento cruciale della
mia vita. Ma poiché l’offerta, ovviamente e inelegantemente, arrivava
in cambio di un servizio, non avevo altra scelta che lasciarla cadere.
«Sono carico di lavoro» dissi. «Ti sono molto riconoscente, ma
non potrei gestirne altro».
«Non avresti a che fare con Wolfshiem». Evidentemente pensava
che io stessi rifuggendo l’“inzerimento in affari” menzionato a pranzo,
ma gli assicurai che si sbagliava. Gatsby aspettò ancora un
momento nella speranza che riavviassi la conversazione, ma io ero
troppo assorto per essere reattivo, così lui se ne tornò malvolentieri
a casa.
La serata mi aveva reso spensierato e felice; credo di essere
entrato in un sonno profondo non appena superata la porta
d’ingresso. Quindi non so se Gatsby andò a Coney Island o per
quante ore rimase alzato a “dare un’occhiata nelle stanze” mentre la
sua casa fiammeggiante continuava a dare spettacolo. La mattina
seguente chiamai Daisy dall’ufficio per invitarla a venire a prendere
un tè a casa mia.
«Non portare Tom» le raccomandai.
«Cosa?»
«Non portare Tom».
«E chi è “Tom”?» chiese lei in tono innocente.
Il giorno stabilito pioveva a dirotto. Alle undici un uomo in
impermeabile con un tagliaerba al seguito bussò alla mia porta e
disse che il signor Gatsby lo aveva mandato a rasarmi il prato. Al
che mi ricordai di essermi dimenticato di dire alla mia finlandese di
tornare, quindi presi la macchina e andai in paese a cercarla per
vicoli zuppi e imbiancati e a comprare tazze e limoni e fiori.
I fiori risultarono superflui, perché alle due ne arrivò un’intera
serra inviata da Gatsby, con un’infinità di contenitori in cui disporli.
Un’ora dopo la porta si aprì nervosamente e Gatsby irruppe in casa
in abito di flanella bianco, camicia argento e cravatta oro. Era pallido
e aveva le occhiaie scure di chi non ha dormito.
«È tutto a posto?» chiese immediatamente.
«Il prato ha un bell’aspetto, se è questo che intendi».
«Quale prato?» si informò distrattamente. «Ah, il giardino». Lo
guardò dalla finestra, ma a giudicare dall’espressione direi che non
vide nulla.
«Un ottimo aspetto» commentò con vaghezza. «Ho letto su un
giornale che la pioggia cesserà alle quattro. Credo fosse The
Journal33. Hai tutto ciò che serve in termini di… di tè?»
Lo condussi nel retrocucina dove guardò la finlandese con una
certa disapprovazione. Esaminammo insieme le dodici tortine al
limone che avevo comprato in pasticceria.
«Possono andare?» chiesi.
«Ma certo, certo! Vanno bene!» e in sordina aggiunse: «…
campione».
Intorno alle tre e mezzo la pioggia sfumò in una nebbia umidiccia
in cui nuotavano piccole gocce simili a rugiada. Gatsby sfogliò con
occhi assenti una copia dell’Introduzione all’economia di Clay34,
sobbalzando ai passi della finlandese che facevano tremare il
pavimento della cucina e lanciando di tanto in tanto un’occhiata alle
finestre appannate, come se fuori stessero avvenendo cose invisibili
ma allarmanti. Alla fine si alzò e con voce incerta mi informò che se
ne andava a casa.
«E perché mai?»
«Non verrà nessuno a prendere il tè. È troppo tardi!» Guardò
l’orologio come se la sua presenza fosse urgentemente richiesta
altrove. «Non posso aspettare tutto il giorno».
«Non essere sciocco; non sono ancora le quattro, mancano due
minuti».
Gatsby tornò a sedere sconfitto come se ce lo avessi spinto, e
proprio in quel momento giunse il suono di un motore che svoltava
nel viale di casa mia. Saltammo in piedi e io uscii in giardino, un po’
agitato a mia volta.
Una grande automobile scoperta si avvicinava lungo il viale sotto i
lillà spogli e grondanti. Si fermò. Il volto di Daisy, inclinato
lateralmente sotto un cappello a tre punte color lavanda, mi guardò
con un sorriso raggiante, estatico.
«È assolutamente qui che vivi, carissimo?»
La sua voce si propagò inebriante nella pioggia come un tonico
selvatico. Dovetti seguirne il suono, su e giù, con l’orecchio soltanto,
prima che le parole arrivassero a destinazione. Una ciocca di capelli
bagnati era come una pennellata di vernice blu sulla sua gota e la
sua mano, quando la presi per aiutarla a scendere dalla macchina,
era bagnata di gocce luccicanti.
«Sei innamorato di me?» mi sussurrò all’orecchio. «Perché hai
voluto che venissi da sola?»
«Questo è il segreto di Castello Rackrent35. Di’ al tuo autista di
andare a fare un giro e tornare fra un’ora».
«Tornate fra un’ora, Ferdie». Poi mormorò severa: «Si chiama
Ferdie».
«E la benzina gli irrita il naso?»
«Non credo» disse lei con candore. «Perché?»
Entrammo. Con mia enorme sorpresa in soggiorno non c’era
nessuno.
«Questa è bella!» esclamai.
«Che cosa?»
Daisy voltò la testa perché qualcuno stava bussando piano alla
porta, con compostezza. Andai ad aprire. Gatsby, pallido come la
morte, con le mani affondate come pesi nelle tasche del soprabito,
stava fermo in una pozza d’acqua e puntava i suoi occhi nei miei con
espressione tragica.
Sempre con le mani in tasca mi oltrepassò deciso, entrò
nell’ingresso, si voltò di scatto come se fosse guidato da un filo e
scomparve nel soggiorno. Non era affatto divertente. Consapevole di
quanto mi battesse forte il cuore, chiusi la porta contro la pioggia che
aumentava.
Per mezzo minuto non vi fu alcun rumore. Poi dal soggiorno udii
una specie di soffocato mormorio e un brandello di risata seguito
dalla voce di Daisy su una nota chiara e artificiosa: «Sono davvero
tremendamente felice di rivederti».
Una pausa; tenuta orribilmente a lungo. Non sapendo che cosa
fare nell’ingresso, entrai nel soggiorno.
Gatsby, con le mani ancora in tasca, era appoggiato al caminetto
con un’aria nervosamente contraffatta di perfetto agio, quasi di noia.
Teneva la testa talmente all’indietro da appoggiarla contro il
quadrante di un defunto orologio da camino e da quella posizione
guardava turbato dall’alto in basso Daisy, che sedeva spaventata,
ma con grazia, sul bordo di una sedia rigida.
«Ci eravamo già conosciuti» mormorò Gatsby. I suoi occhi mi
lanciarono una rapida occhiata e le sue labbra si schiusero in un
tentativo abortito di risata. Fortunatamente l’orologio scelse proprio
quel momento per inclinarsi pericolosamente sotto la spinta della
testa di Gatsby, che si voltò per afferrarlo con dita tremanti e
rimetterlo al suo posto. Poi si sedette, rigido, il gomito sul bracciolo
del divano e il mento nella mano.
«Scusa per l’orologio» disse.
Avevo la faccia del colore di un’intensa scottatura tropicale. Non
riuscivo a tirar fuori neanche una delle mille banalità che mi
passavano per la testa.
«È un vecchio orologio» dissi come un ebete.
Credo che per un attimo avessimo pensato tutti che si sarebbe
frantumato al suolo.
«Non ci vedevamo da tanti anni» disse Daisy, con il tono di voce
più distaccato del mondo.
«Cinque anni il prossimo novembre».
L’automatismo della risposta di Gatsby ci bloccò tutti per almeno
un altro minuto. Ero appena riuscito a farli alzare in piedi con una
disperata richiesta di aiuto in cucina per il tè, quando la diabolica
finlandese lo portò su un vassoio.
Nella benvenuta confusione di tazze e tortine si configurò una
dignitosa prossemica. Gatsby si mise in ombra a guardare
coscienziosamente con aria tesa e triste Daisy e me che
conversavamo. Tuttavia, poiché la calma non era un obiettivo in sé,
appena si presentò il momento trovai la scusa per alzarmi.
«Dove vai?» domandò Gatsby immediatamente allarmato.
«Torno subito».
«Devo parlarti di una cosa prima che tu te ne vada».
Si scapicollò al mio seguito in cucina, chiuse la porta e sussurrò:
«Oh mio Dio!» con tono avvilito.
«Che c’è?»
«È un terribile sbaglio» disse scuotendo la testa da una parte
all’altra, «uno sbaglio terribile, terribile».
«Sei solo in imbarazzo, tutto qui». E fortunatamente aggiunsi:
«Anche Daisy è in imbarazzo».
«Daisy è in imbarazzo?» fece eco lui, incredulo.
«Tanto quanto te».
«Non parlare così forte».
«Ti stai comportando come un ragazzino» sbottai io, spazientito.
«E non solo, sei scortese. Daisy è di là tutta sola».
Gatsby alzò la mano per farmi smettere di parlare, mi guardò con
indelebile rimprovero e aprì la porta con cautela per tornare nell’altra
stanza.
Io uscii dal retro – proprio come Gatsby, quando mezz’ora prima
aveva fatto nervosamente il giro della casa – e corsi sotto un enorme
albero scuro e nodoso il cui ammasso di foglie formava un tendaggio
protettivo contro la pioggia. Cadeva di nuovo a dirotto e il mio prato
irregolare, appena rasato dal giardiniere di Gatsby, abbondava di
piccole pozze fangose e paludi preistoriche. Da sotto l’albero non
c’era nulla da guardare a parte l’enorme villa di Gatsby, e quindi la
fissai per mezz’ora, come Kant il suo campanile36. L’aveva fatta
costruire un produttore di birra agli albori della moda delle case
“d’epoca”, una decina di anni prima, e girava voce che si fosse
offerto di pagare ai proprietari dei villini del vicinato cinque anni di
tasse se avessero fatto ricoprire di paglia i loro tetti. Forse il loro
rifiuto lo scoraggiò nel suo progetto di “fondare una dinastia”, fatto
sta che si avviò a un subitaneo declino. I suoi figli vendettero la casa
quando era ancora listata a lutto. Gli americani, pur disponibili,
talvolta addirittura con entusiasmo, a fare i servi della gleba, hanno
sempre avuto delle resistenze a passare per contadini.
Dopo mezz’ora il sole era tornato a splendere e l’autovettura del
droghiere si immise nel viale di Gatsby con la materia prima per la
cena della sua servitù – ero sicuro che lui non avrebbe mangiato un
boccone. Una cameriera cominciò ad aprire le finestre del piano di
sopra, facendo in ciascuna una momentanea comparsa e,
sporgendosi dall’ampio balcone centrale, sputò meditabonda nel
giardino. Era ora che rientrassi. La pioggia, finché era durata, mi era
sembrata il mormorio delle loro voci, che di tanto in tanto saliva e si
intensificava con folate di emozione. In quel nuovo silenzio, invece,
sentivo che anche nella casa era calato il silenzio.
Prima di entrare feci ogni possibile rumore tranne quello di
rovesciare la cucina e tutti i fornelli, ma secondo me non sentirono
nulla. Sedevano alle due estremità del divano e si guardavano come
se fosse stata posta una domanda, o una domanda aleggiasse
nell’aria, e non c’era più traccia d’imbarazzo. Daisy aveva il volto
rigato di lacrime e quando entrai balzò in piedi e cominciò a pulirselo
con il fazzoletto davanti allo specchio. Ma in Gatsby il cambiamento
era semplicemente sconcertante. Era raggiante; senza una parola, o
un gesto di esultanza, irradiava da lui un benessere nuovo che
riempiva la stanzetta.
«Oh, ciao, campione» disse, come se non mi vedesse da anni.
Per un momento pensai che stesse per stringermi la mano.
«Ha smesso di piovere».
«Ah, sì?» Quando capì di cosa stavo parlando e si accorse che
per la stanza vibravano campanelline di sole, sorrise come un
meteorologo, o come un estatico patrono del ritorno della luce, e
ripeté la notizia a Daisy. «Che cosa ne pensi? Ha smesso di
piovere».
«Sono contenta, Jay». La sua gola, piena di dolorosa e
addolorata bellezza, comunicava soltanto la sua gioia inattesa.
«Voglio che tu e Daisy veniate a casa mia» disse Gatsby, «voglio
fargliela vedere».
«Sei sicuro di volere che venga anche io?»
«Assolutamente, campione».
Daisy andò su a sciacquarsi il viso – e troppo tardi pensai con
vergogna ai miei asciugamani – mentre io e Gatsby aspettavamo sul
prato.
«Ha un bell’aspetto la mia casa, no?» domandò lui. «Vedi come
tutta la facciata prende bene la luce?»
Concordai sul fatto che era splendida.
«Sì». La passò in rassegna con lo sguardo, ogni porta arcuata e
torretta squadrata. «Ho impiegato soltanto tre anni a guadagnare i
soldi per comprarla».
«Pensavo che li avessi ereditati».
«È così, campione» rispose in modo automatico, «ma ne ho
perso la maggior parte con il grande panico – il panico della guerra».
Credo che sapesse a malapena quello che diceva, perché
quando gli chiesi di cosa si occupasse rispose: «Sono affari miei»
prima di rendersi conto che non era la risposta appropriata.
Rettificò: «Oh, mi sono occupato di varie cose. Ho commerciato in
medicinali, poi petrolio. Adesso non più». Mi osservò con maggiore
attenzione. «Vuoi dire che hai pensato a quello che ti ho proposto
l’altra sera?»
Prima che potessi rispondere, Daisy uscì dalla casa e le due file
di bottoni di ottone sul suo vestito brillarono nel sole.
«Quella lì, gigantesca?» esclamò indicandola.
«Ti piace?»
«La adoro, ma non capisco come fai a viverci da solo».
«La tengo sempre piena di gente interessante, notte e giorno.
Gente che fa cose interessanti. Gente famosa».
Invece di prendere la scorciatoia lungo il Sound, scendemmo
sulla strada ed entrammo dal retro. Daisy ammirò con incantevoli
mormorii questo o quell’aspetto della sagoma feudale che si
stagliava contro il cielo, ammirò i giardini, l’odore effervescente delle
giunchiglie e l’odore vaporoso del biancospino e dei fiori di prugno e
il tenue odore dorato dei corallini37. Fu strano arrivare alla scalinata
di marmo e non trovarvi il fruscio degli abiti sgargianti che entravano
o uscivano dalla porta, e non sentire altro suono che il canto degli
uccelli tra gli alberi.
E una volta dentro, mentre vagavamo per le sale da musica stile
Maria Antonietta e i saloni stile Restaurazione, mi sembrava che
dietro ogni divano e ogni tavolo fosse nascosto un ospite che
ubbidiva all’ordine di trattenere in silenzio il respiro al nostro
passaggio. Quando Gatsby chiuse la porta della “Biblioteca del
Merton College” avrei giurato di aver sentito il vecchio Occhi di Gufo
prorompere in una spettrale risata.
Salimmo al piano superiore e attraversammo camere da letto
d’epoca fasciate in seta rosa antico e lavanda e adorne di fiori
freschi, attraversammo spogliatoi e sale da biliardo e bagni con
vasche incassate – ed entrammo per sbaglio in una camera dove
uno scarmigliato uomo in pigiama faceva esercizi al pavimento per la
salute del fegato. Era il signor Klipspringer, “il pensionante”. Quella
mattina l’avevo visto aggirarsi famelico sulla spiaggia. Finalmente
giungemmo nella suite di Gatsby, una camera da letto e un bagno e
uno studio in stile Adam38 dove ci sedemmo a bere un bicchiere di
chartreuse, che Gatsby prese da una credenza in una nicchia.
Non aveva mai smesso di guardare Daisy e credo stesse
rivalutando ogni elemento della casa in base alla reazione che
produceva negli occhi tanto amati di lei. A volte si guardava intorno
disorientato, come se di fronte all’effettiva e strabiliante presenza di
lei i suoi possedimenti non fossero più reali. A un certo punto poco
mancò che rotolasse giù dalle scale.
La sua camera da letto era la più semplice di tutte – a parte il
servizio per toeletta di oro puro opaco sul comò. Daisy prese
deliziata la spazzola e se la passò sui capelli, al che Gatsby si
sedette, si portò le mani sugli occhi e cominciò a ridere.
«È ridicolo, campione» disse in un accesso di ilarità. «Non
posso… se provo a…»
Era visibilmente passato per due fasi e stava entrando nella
terza. Dopo l’imbarazzo e la gioia irrazionale, adesso era divorato
dalla meraviglia per la presenza di Daisy. Aveva coltivato quell’idea
così a lungo, l’aveva sognata fino in fondo, aveva aspettato, per così
dire, a denti stretti fino a toccare un picco d’intensità inconcepibile.
Adesso, per reazione, si stava scaricando come un orologio a cui
fosse stata tesa eccessivamente la molla.
Si riprese nel giro di un minuto e aprì per noi due massicci armadi
brevettati che contenevano una caterva di completi e giacche da
camera e cravatte, e camicie, impilate come mattoncini in gruppi da
dodici.
«Mi faccio comprare i vestiti da uno in Inghilterra. Me ne invia una
selezione a ogni inizio stagione, primavera e autunno».
Tirò fuori una pila di camicie e cominciò a lanciarle una per una
davanti a noi, camicie di puro lino e spessa seta e finissima flanella
che cadendo si spiegavano e ricoprivano il tavolo di un variopinto
disordine. Sotto il nostro sguardo ammirato ne tirò fuori ancora, e il
soffice e ricco cumulo cresceva – camicie a strisce, a quadri e
fantasia, corallo e verde mela e lavanda e arancione chiaro con le
cifre blu indaco. D’un tratto, con un suono soffocato, Daisy posò la
faccia sulle camicie e scoppiò in un pianto a dirotto.
«Sono camicie così belle» singhiozzò, con la voce attutita dagli
strati di stoffa. «E sono triste perché io non ne ho mai viste di così…
così belle prima d’ora».

Dopo la casa, avremmo dovuto visitare la tenuta e la piscina, e


l’idroplano e la fioritura di mezza estate – ma fuori dalla finestra di
Gatsby cominciò di nuovo a piovere, quindi restammo in fila a
guardare il mare che s’increspava.
«Se non piovesse, vedremmo casa tua dall’altra parte della baia»
disse Gatsby. «C’è una luce verde sempre accesa in fondo al
pontile, che brilla per tutta la notte».
Daisy lo prese repentinamente sottobraccio, ma lui sembrava
ancora assorto in ciò che aveva appena detto. Forse si era reso
conto che il significato colossale di quella luce era ormai
definitivamente svanito. In confronto alla distanza che lo separava
da Daisy, gli era parsa vicina come una stella alla luna. Adesso era
tornata a essere una luce verde su un pontile. Un oggetto incantato
di meno nella sua lista.
Incominciai a camminare per la stanza, esaminando vari oggetti
indefiniti nella semioscurità. Mi attirò la grande fotografia di un uomo
anziano in tenuta da yacht, appesa alla parete sopra la scrivania.
«Chi è?»
«Quello? Quello è il signor Dan Cody, campione».
Il nome suonava vagamente familiare.
«È morto. Tanti anni fa era il mio miglior amico».
Sullo scrittoio c’era una piccola fotografia di Gatsby, anche lui in
tenuta da yacht – Gatsby con la testa sprezzantemente inclinata
all’indietro – probabilmente scattata quando aveva circa diciotto
anni.
«Lo adoro!» esclamò Daisy. «Il pompadour! Non mi hai mai detto
che avevi il pompadour39 – o uno yacht».
«Guarda qui» disse Gatsby svelto. «Sono ritagli di giornale, su di
te».
Rimasero uno accanto all’altra a esaminarli. Stavo per chiedere di
vedere i rubini quando squillò il telefono e Gatsby alzò il ricevitore.
«Sì… be’, adesso non posso parlare… non posso parlare
adesso, campione… ho detto una piccola città… Non può non
sapere cosa significa piccola città… Be’, non ci serve a niente, se la
sua idea di piccola città è Detroit…»
Riattaccò.
«Vieni subito qui, svelto!» gridò Daisy che era andata alla finestra.
Pioveva ancora, ma a ovest si era aperto il cielo e sul mare
fluttuava una spuma di nuvole rosa e oro.
«Guarda» sussurrò Daisy, e dopo un momento: «Mi piacerebbe
prendere una di quelle nuvole rosa, mettertici dentro e portarti in
giro».
A quel punto cercai di andare via, ma non ne volevano sapere;
forse in mia presenza si sentivano più pienamente soli.
«So cosa faremo» disse Gatsby, «chiederemo a Klipspringer di
suonare il piano».
Uscì dalla stanza chiamando: «Ewing!» e tornò dopo qualche
minuto in compagnia di un giovane imbarazzato, leggermente
consunto, con occhiali dalla montatura in tartaruga e sparuti capelli
biondi. Adesso era vestito, aveva una camicia sportiva con il colletto
slacciato, scarpe da tennis e pantaloni di tela spessa dalla tinta
nebulosa.
«Abbiamo interrotto la vostra ginnastica?» chiese cortesemente
Daisy.
«Dormivo» guaì il signor Klipspringer, in uno spasmo
d’imbarazzo. «Cioè, mi ero appena svegliato. Mi sono alzato…»
«Klipspringer suona il pianoforte» disse Gatsby, interrompendolo.
«Non è così, Ewing, campione?»
«Non suono bene. Non… Suono molto di rado. Sono
completamente fuori eser…»
«Andiamo di sotto» tagliò corto Gatsby. Girò un interruttore. Le
finestre grigie scomparvero e la casa fu inondata di luce.
Nella sala da musica Gatsby accese una lampada isolata accanto
al piano. Avvicinò alla sigaretta di Daisy un fiammifero tremolante e
sedette con lei su un divano dall’altra parte della stanza, dove l’unica
luce era il bagliore che il pavimento rifletteva dall’atrio.
Dopo avere suonato The Love Nest, Klipspringer si voltò sullo
sgabello con aria infelice, cercando Gatsby nella penombra.
«Vedete, sono fuori esercizio. Ve lo avevo detto che non so
suonare. Sono fuori eser…»
«Non parlare tanto, campione» ordinò Gatsby. «Suona!»

In the morning,
In the evening,
Ain’t we got fun…

Fuori il vento soffiava rumoroso e dal Sound arrivava una flebile


sequenza di tuoni. Adesso a West Egg si stavano accendendo tutte
le luci; i treni elettrici, con il loro carico di uomini, si tuffavano a
capofitto nella pioggia per tornare a casa da New York. Era l’ora di
una profonda mutazione umana, e nell’aria si generava eccitazione.

One thing’s sure and nothing is surer


The rich get richer and the poor get… children.
In the meantime,
In between time40.

Avvicinandomi per salutare vidi che sul volto di Gatsby era tornata
quell’espressione di smarrimento, come se fosse stato colto da un
flebile dubbio sulla qualità della sua attuale gioia. Quasi cinque anni!
Quel pomeriggio dovevano esserci persino stati momenti in cui
Daisy era caduta dal piedistallo dei suoi sogni – non per colpa di lei,
ma per lo straripante vigore dell’idealizzazione di Gatsby, che l’aveva
travalicata, aveva travalicato tutto. Gatsby vi si era gettato con
passione creativa, rimpolpandola continuamente, ornandola di ogni
piuma luccicante che gli volasse accanto. Non c’è calore o frescura
che possa contrastare i fantasmi che un uomo immagazzina nel suo
cuore.
Sotto i miei occhi, Gatsby si diede palesemente un contegno. La
sua mano prese quella di Daisy e, quando lei gli sussurrò qualcosa
all’orecchio, si voltò a guardarla con un’ondata di emozioni. Penso
che ad avvincerlo più di tutto fosse la voce, con il suo tepore
fluttuante e febbrile, perché nessun sogno poteva superarla – quella
voce era un canto senza morte.
Si erano dimenticati di me, poi Daisy alzò lo sguardo e mi tese la
mano; Gatsby adesso neanche mi riconosceva. Li guardai di nuovo
e loro mi restituirono lo sguardo, distanti, in preda a un vivere
intenso. A quel punto uscii dalla stanza e scesi i gradini di marmo
sotto la pioggia, lasciandoli là insieme.
6.

All’incirca in quel periodo un ambizioso giovane reporter di New


York si presentò un mattino alla porta di Gatsby e gli chiese se
avesse qualcosa da dire.
«Riguardo a che cosa?» s’informò cortesemente Gatsby.
«Non so, una qualche dichiarazione da rilasciare».
Dopo cinque minuti di confusione trapelò che l’uomo aveva
sentito in ufficio fare il nome di Gatsby in relazione a qualcosa che
non voleva rivelare o che non aveva compreso bene. Era il suo
giorno libero e con lodevole spirito d’iniziativa era corso a “vedere di
persona”.
Aveva tirato a caso, ma il suo fiuto di reporter si era rivelato
giusto. La notorietà di Gatsby, diffusa dalle centinaia di persone che
avendo accettato la sua ospitalità erano divenute esperte del suo
passato, era cresciuta per tutta l’estate fino al punto che per poco
non era finito sui giornali. A lui erano associate leggende
contemporanee come “il condotto sotterraneo dal Canada”41, e
girava insistentemente una storia secondo cui Gatsby non viveva in
una casa ma su un’imbarcazione a forma di villa che veniva
trasportata di nascosto su e giù lungo la costa di Long Island. Come
e perché queste invenzioni fossero fonte di compiacimento per
James Gatz del Nord Dakota non è facile a dirsi.
James Gatz – era questo il suo vero nome, quantomeno
all’anagrafe. Lo aveva cambiato all’età di diciassette anni, nel
momento esatto che segnò l’inizio della sua carriera – quando vide
lo yacht di Dan Cody gettare l’ancora nelle secche più insidiose del
Lago Superiore. Era ancora James Gatz nel pomeriggio passato a
bighellonare sulla spiaggia, con una maglia verde strappata e
pantaloni di tela, ma era già Jay Gatsby quando prese in prestito una
barca a remi per raggiungere il Tuolomee e informare Cody che nel
giro di mezz’ora si sarebbe alzato un vento che lo avrebbe potuto
colpire e affondare.
Suppongo che avesse pronto quel nome già da tanto tempo. I
suoi genitori erano contadini di scarso talento e raccolto – nella sua
immaginazione non li aveva mai veramente accettati come genitori.
La verità era che il Jay Gatsby di West Egg, Long Island, era il frutto
della sua platonica concezione di se stesso. Era figlio di Dio – una
frase che, se significa qualcosa, significa esattamente questo – e si
doveva occupare della Ditta del Padre suo, al servizio di una vasta,
volgare e mercenaria bellezza. Così inventò il Jay Gatsby che
avrebbe potuto inventare un ragazzo di diciassette anni, e a questa
concezione restò fedele sino alla fine.
Per più di un anno aveva battuto la sponda meridionale del Lago
Superiore, raccogliendo molluschi o pescando salmoni o svolgendo
qualunque altra mansione gli procurasse del cibo e un letto. Il suo
corpo abbronzato, che si andava temprando, visse in maniera
naturale il lavoro in parte duro e in parte ozioso di quei giorni
formativi. Conobbe presto le donne e, siccome lo viziavano,
cominciò a disprezzarle. Le giovani vergini perché ignoranti, le altre
perché isteriche in merito a cose che lui, così preso dal suo culto di
sé, dava per scontate.
Ma il suo cuore era in costante e turbolento tumulto. Di notte, a
letto, era ossessionato dalle idee più grottesche e fantastiche. Al
ticchettio dell’orologio sul lavabo e sotto l’umida luce lunare che
bagnava gli abiti sparsi sul pavimento, nel suo cervello si tesseva un
universo di ineffabile sfarzo. Ogni notte arricchiva il disegno delle
sue fantasticherie fino a quando, su una qualche vivida scena,
calava il torpore avvolgendolo nell’oblio. Per un certo periodo la sua
immaginazione trovò sfogo in questi sogni a occhi aperti; erano un
valido indizio dell’irrealtà della realtà, la promessa che il sostrato
roccioso del mondo poggiava su ali di fata.
Un’aspirazione istintiva alla gloria futura lo aveva condotto, mesi
addietro, alla piccola università luterana di St Olaf, nel Sud del
Minnesota. Vi restò due settimane, costernato per la feroce
indifferenza riservata ai rulli di tamburo del suo destino, al destino
stesso, e detestò il lavoro di addetto alle pulizie con cui si doveva
pagare la retta. Allora tornò verso il Lago Superiore, dov’era ancora
in cerca di qualcosa da fare il giorno in cui lo yacht di Dan Cody
gettò l’ancora nei bassi fondali lungo la costa.
All’epoca Cody aveva cinquant’anni ed era il prodotto delle
miniere d’argento del Nevada, dello Yukon, di ogni corsa ai metalli
pregiati dal ’75 in poi. Il commercio di rame nel Montana che lo rese
plurimilionario lo trovò fisicamente gagliardo ma mentalmente incline
alla dabbenaggine, e un infinito numero di donne, avendolo intuito,
cercò di separarlo dal suo denaro. I tutt’altro che limpidi intrighi con
cui Ella Kaye, la cronista, giocò con questa sua debolezza il ruolo di
Madame de Maintenon42 e lo mandò per mare su uno yacht erano
materiale comunemente sfruttato dal giornalismo scandalistico del
1902. Cody aveva costeggiato per cinque anni sponde fin troppo
ospitali quando fece la sua comparsa nella Little Girl Bay nel ruolo
del destino di James Gatz.
Per il giovane Gatz, appoggiato ai remi a guardare dal basso il
ponte sormontato dalla battagliola, quello yacht rappresentava tutte
le bellezze e le attrattive del mondo. Me lo immagino che sorride a
Cody – probabilmente aveva già scoperto di piacere alla gente
quando sorrideva. A ogni modo Cody gli fece qualche domanda (una
di queste ebbe come risposta il nome nuovo di zecca) e scoprì che
era svelto e smisuratamente ambizioso. Alcuni giorni dopo lo portò
con sé a Duluth e gli comprò un giaccone blu, sei paia di pantaloni di
tela bianca e un berretto da marinaio. E quando il Tuolomee partì
alla volta delle Indie Occidentali e della Costa Berbera, anche
Gatsby partì.
Era addetto a generiche mansioni personali – per il tempo che
rimase con Cody gli fece di volta in volta da assistente di bordo,
secondo, skipper, segretario e persino carceriere, perché Dan Cody
da sobrio sapeva quali prodighi gesti sarebbe presto stato incline a
compiere Dan Cody da ubriaco e provvedeva a tali evenienze
riponendo sempre maggiore fiducia in Gatsby. L’accordo durò cinque
anni, nel corso dei quali l’imbarcazione fece tre volte il giro del
continente. Sarebbe potuto durare indefinitamente se una sera, a
Boston, non fosse salita a bordo Ella Kaye e una settimana dopo
Dan Cody non fosse morto in modo poco ospitale.
Ricordo il suo ritratto nella camera da letto di Gatsby: un uomo
brizzolato e rubicondo dal volto duro e vacuo – il dissoluto pioniere
che, durante una fase della vita americana, riportò sul litorale
orientale la selvaggia violenza dei bordelli e dei saloon di frontiera.
Se Gatsby beveva così poco lo si doveva indirettamente a Cody.
Talvolta nell’allegria delle feste le ragazze usavano frizionargli i
capelli con lo champagne, ma lui dal canto suo aveva consolidato
l’uso di non toccare i liquori.
E fu da Cody che ereditò il denaro – un lascito di venticinquemila
dollari. Però non l’ottenne. Non capì mai quale espediente legale
fosse stato usato contro di lui, ma ciò che restava dei milioni andò
interamente a Ella Kaye. A lui restò quell’apprendistato
singolarmente appropriato; l’indefinito contorno di Jay Gatsby aveva
preso corpo in un uomo.

Tutto questo Gatsby me lo raccontò molto più tardi, ma io lo scrivo


adesso con l’intento di mandare all’aria quelle prime sfrenate dicerie
sui suoi trascorsi, che non avevano neanche un’ombra di verità.
Oltretutto me lo raccontò in un momento di confusione, quando ero
giunto al punto di credere a tutto e a niente su di lui. Quindi
approfitto della breve pausa in cui Gatsby, per così dire, riprendeva
fiato, per togliere di mezzo questa serie di equivoci.
Si trattò di una pausa anche per quanto riguardava il mio
coinvolgimento nelle sue faccende. Per svariate settimane non lo
vidi né lo sentii al telefono – ero quasi sempre a New York, in giro
con Jordan e impegnato a ingraziarmi la sua vecchissima zia – ma
alla fine, una domenica pomeriggio, andai a trovarlo a casa. Ero lì da
meno di due minuti quando sopraggiunse Tom Buchanan, portato da
qualcuno per un drink. Rimasi sorpreso, naturalmente, ma la cosa di
cui c’era realmente da sorprendersi è che non fosse capitato prima.
Erano in tre, a cavallo – Tom, un certo Sloane e una bella donna
in tenuta da cavallerizza marrone, che era già stata lì.
«Sono lieto di vedervi» disse Gatsby in piedi nel portico. «Sono
lieto che siate passati a trovarmi».
Come se a loro importasse!
«Accomodatevi. Gradite una sigaretta o un sigaro?» Si mise a
camminare veloce per la stanza, suonando campanelli. «Vi faccio
portare subito qualcosa da bere».
Era profondamente condizionato dalla presenza di Tom. Ma si
sarebbe comunque sentito a disagio finché non avesse offerto loro
qualcosa, perché si rendeva vagamente conto che erano venuti solo
per quello. Il signor Sloane non voleva nulla. Una gassosa? No,
grazie. Un goccio di champagne? Niente, davvero, grazie… Mi
dispiace…
«Avete fatto una bella cavalcata?»
«Ci sono ottime strade qua intorno».
«Immagino che le automobili…»
«Sì».
Mosso da un irresistibile impulso, Gatsby si rivolse a Tom, che si
era lasciato presentare come fosse uno sconosciuto.
«Credo che ci siamo già incontrati, signor Buchanan».
«Oh, sì» disse Tom con burbera cortesia, ma era evidente che
non si ricordava. «Come no. Me lo ricordo benissimo».
«Circa due settimane fa».
«Giusto. Eravate con Nick».
«Conosco vostra moglie» continuò Gatsby, quasi aggressivo.
«Ah, sì?»
Tom si voltò verso di me.
«Tu abiti qui vicino, Nick?»
«Proprio qui accanto».
«Ah, sì?»
Il signor Sloane non partecipava alla conversazione e si adagiò
altezzosamente all’indietro nella poltrona; neanche la donna disse
niente fino a che, inaspettatamente, dopo un paio di drink diventò
socievole.
«Verremo tutti alla vostra prossima festa, signor Gatsby»
propose. «Che ne dite?»
«Ma certo. Ne sarò ben lieto».
«Sarebbe bello» disse il signor Sloane, senza gratitudine. «Be’,
credo sia ora di avviarci a casa».
«Vi prego, non abbiate fretta» li incalzò Gatsby. Aveva ripreso il
controllo di sé e voleva conoscere meglio Tom. «Perché non…
perché non restate a cena? Non mi sorprenderebbe che si
presentasse qualcun altro, da New York».
«Venite voi a cena da me» disse con entusiasmo la signora.
«Tutti e due».
Aveva incluso anche me. Il signor Sloane si alzò in piedi.
«Andiamo» disse, ma solamente a lei.
«Dico sul serio» insistette la signora. «Mi farebbe un immenso
piacere. C’è tanto spazio».
Gatsby mi guardò con aria interrogativa. Voleva andare e non si
accorgeva che il signor Sloane era contrario.
«Purtroppo non posso» dissi io.
«Be’, venite voi» incalzò lei, rivolta solo a Gatsby.
Il signor Sloane le mormorò qualcosa all’orecchio.
«Se partiamo subito non faremo tardi» insistette lei a voce alta.
«Io non ho un cavallo» disse Gatsby. «Quando ero nell’esercito
andavo a cavallo, ma non ne ho mai acquistato uno. Vi dovrò
seguire in automobile. Scusatemi solo un momento».
Noi altri uscimmo sul portico, dove Sloane e la signora
cominciarono a discutere animatamente, in disparte.
«Mio Dio, quello ha intenzione di venire!» disse Tom. «Non
capisce che lei non lo vuole?»
«In realtà lei ha detto di sì».
«Lei dà una grande cena e lui non conosce anima viva». Si
accigliò. «Mi domando dove diavolo ha conosciuto Daisy. Dio mio,
sarò pure di idee antiquate, ma oggigiorno le donne se ne vanno
troppo in giro per i miei gusti. Incontrano svitati di ogni genere».
D’un tratto il signor Sloane e la signora scesero i gradini e
montarono in sella.
«Sbrigati» disse il signor Sloane a Tom, «è tardi. Dobbiamo
andare». E poi a me: «Ditegli che non potevamo attendere, vi
dispiace?»
Tom e io ci stringemmo la mano, con gli altri scambiai solo un
cenno con la testa e i tre si allontanarono al trotto lungo il viale,
scomparendo sotto il fogliame di agosto proprio mentre Gatsby
usciva di casa con cappello e soprabito al braccio.
Tom era evidentemente turbato all’idea che Daisy se ne andasse
in giro da sola, perché la sera del sabato seguente la accompagnò
alla festa da Gatsby. Forse fu la sua presenza a dare a quella serata
un particolare senso di oppressione – la ricordo distintamente tra le
altre feste di quell’estate a casa di Gatsby. La gente era la stessa, o
perlomeno lo stesso tipo di gente, la stessa profusione di
champagne, lo stesso polifonico e policromo trambusto, ma io
percepivo qualcosa di sgradevole nell’aria, una pervasiva asprezza
che prima non c’era. O forse ci avevo semplicemente fatto
l’abitudine, mi ero abituato a prendere West Egg come un mondo a
sé, con i suoi standard e i suoi grandi personaggi, secondo a
nessuno perché ignaro di quello che era, e ora lo guardavo di nuovo
con gli occhi di Daisy. È invariabilmente sconfortante vedere con
occhi nuovi cose sulle quali si sono esercitate le proprie capacità di
adattamento.
Arrivarono all’imbrunire e, mentre procedevamo fra centinaia di
persone scintillanti, la voce di Daisy eseguiva nella sua gola
acrobatici mormorii.
«Queste cose mi eccitano così tanto» sussurrò. «Se in qualunque
momento della serata ti viene voglia di baciarmi, Nick, basta che tu
me lo dica e sarò felice di accontentarti. Basta che mi chiami per
nome. O che mi mostri un bigliettino verde. Distribuisco bigliettini…»
«Guardati intorno» le propose Gatsby.
«Mi sto guardando intorno. Mi sto divertendo tantis…»
«Vedrai i volti di molte persone di cui hai sentito parlare».
Lo sguardo arrogante di Tom scrutò la folla.
«Non usciamo spesso» disse. «Stavo appunto pensando che non
conosco anima viva qui».
«Forse conoscete quella signora». Gatsby indicò una stupenda
orchidea di donna, quasi sovrumana, che sedeva statuaria sotto un
susino bianco. Tom e Daisy sgranarono gli occhi, con quella
peculiare sensazione di irrealtà che si ha nel riconoscere una
celebrità del cinema che fino a quel momento non era che un
fantasma.
«È bellissima» disse Daisy.
«L’uomo chino su di lei è il suo regista».
Li condusse con fare cerimonioso da un gruppo all’altro: «La
signora Buchanan… e il signor Buchanan…» Dopo un istante di
esitazione aggiunse: «Il giocatore di polo».
«Oh, no» obiettò subito Tom, «non io».
Ma a quanto pare la cosa suonava bene a Gatsby perché Tom
continuò a essere “il giocatore di polo” per tutta la sera.
«Non ho mai incontrato tante celebrità!» esclamò Daisy. «Mi
piaceva quell’uomo – come si chiamava? – quello con il naso
bluastro».
Gatsby lo identificò e aggiunse che si trattava di un produttore di
poco conto.
«Be’, a me piaceva comunque».
«Gradirei non essere il giocatore di polo» disse affabilmente Tom,
«preferirei guardare questa gente famosa… restando invisibile».
Daisy e Gatsby ballarono. Ricordo di essermi sorpreso del suo
aggraziato e classico fox-trot – non l’avevo mai visto ballare. Poi
andarono a casa mia e stettero seduti per una mezz’ora sui gradini
mentre io, su richiesta di Daisy, facevo la guardia in giardino: «Nel
caso ci sia un incendio o un’alluvione» spiegò lei, «o un qualunque
altro castigo divino».
Quando ci stavamo mettendo a tavola per cenare insieme, Tom
ritornò visibile. «Vi dispiace se mangio con loro a quel tavolo?»
disse. «C’è un tizio che ne spara di divertenti».
«Fai pure» rispose Daisy amabilmente, «e se ti vuoi segnare
qualche indirizzo ecco la mia matita d’oro…» Dopo un momento si
guardò intorno e mi disse che la ragazza era “ordinaria ma carina” e
capii che, fatta eccezione per la mezz’ora che aveva passato da sola
con Gatsby, non si stava divertendo.
Sedevamo a un tavolo particolarmente ebbro. Era colpa mia –
avevano chiamato Gatsby al telefono e solo due settimane prima mi
ero trovato bene con quello stesso gruppo di persone. Ma ciò che
allora mi aveva divertito adesso produceva un’atmosfera infetta.
«Come vi sentite, signorina Baedeker?»
La ragazza in questione stava cercando invano di appoggiarsi
alla mia spalla. A questa domanda si tirò su a sedere e aprì gli occhi.
«Che?»
Una donna smisurata e letargica, che aveva insistito affinché
Daisy giocasse a golf con lei l’indomani, prese la parola in difesa
della signorina Baedeker: «Oh, adesso sta bene. Dopo cinque o sei
cocktail, comincia sempre a strillare a quel modo. Io glielo dico che
deve smetterla».
«Ma infatti ho smesso» affermò l’accusata mentendo.
«Ti abbiamo sentita gridare e così ho detto al dottor Civet qui
presente: “C’è qualcuno che ha bisogno di voi, dottore”».
«Ti sarà molto riconoscente, non ne dubito» disse un altro amico
senza gratitudine, «ma le hai fatto bagnare tutto il vestito, quando le
hai ficcato la testa nell’acqua».
«Se c’è una cosa che odio è che mi ficchino la testa nell’acqua»
sbiascicò la signorina Baedeker. «Una volta in New Jersey per poco
non mi affogavano».
«Allora dovreste smetterla» controbatté il dottor Civet.
«Parlate per voi!» gridò violentemente la signorina Baedeker. «Vi
trema la mano. Io non mi lascerei operare da voi!»
Era così. Una delle ultime cose che ricordo è che ero in piedi con
Daisy a guardare il regista e la sua Stella. Erano ancora sotto il
susino bianco e a separare i loro volti era soltanto un pallido e sottile
raggio di luna. Mi venne in mente che per raggiungere questa
vicinanza lui doveva aver passato la serata a inclinarsi molto
lentamente sempre più verso di lei e, mentre guardavo, lo vidi
chinarsi di un’ultima tacca e baciarle la guancia.
«Mi piace» disse Daisy, «la trovo adorabile».
Il resto invece la mortificava – e non si poteva controbattere
perché non si trattava di un gesto, ma di un’emozione. Daisy
inorridiva di fronte a West Egg, posto inaudito che Broadway aveva
fatto nascere sopra un villaggio di pescatori a Long Island –
inorridiva davanti alla grezza vitalità che mordeva il freno sotto i
vecchi eufemismi e inorridiva davanti al fato troppo invadente che
conduceva il gregge dei suoi abitanti per una scorciatoia che portava
dal nulla al nulla. Daisy vedeva qualcosa di orribile in quella
semplicità che non riusciva a capire.
Sedetti con loro sui gradini, mentre aspettavano l’automobile.
Davanti a noi era buio; solo la porta illuminata riversava un
rettangolo di luce nel soffice e nero mattino. Di tanto in tanto
un’ombra si muoveva dietro la persiana di uno spogliatoio al piano di
sopra, poi cedeva il posto a un’altra, in un’indefinita processione di
ombre che si imbellettavano e incipriavano in uno specchio invisibile.
«Ma insomma, chi è questo Gatsby?» chiese d’un tratto Tom.
«Un grosso contrabbandiere?»
«Chi te lo ha detto?» domandai.
«Non me l’ha detto nessuno. L’ho immaginato. Tanti di questi
nuovi ricchi sono soltanto dei gran contrabbandieri, sai».
«Gatsby no» tagliai corto.
Lui restò un momento in silenzio. La ghiaia del viale scricchiolava
sotto i suoi piedi.
«Be’, di sicuro si è dato parecchio da fare per metter su questo
caravanserraglio».
Una brezza arruffò la nebbiolina grigia del colletto di pelliccia di
Daisy.
Con un certo sforzo disse: «Almeno sono più interessanti della
gente che conosciamo noi».
«Non sembravi tanto interessata».
«Invece lo ero».
Tom rise e si voltò verso di me.
«Hai fatto caso alla faccia di Daisy quando quella ragazza le ha
chiesto di metterla sotto una doccia fredda?»
Daisy si mise a cantare sulla musica, in un sussurro roco e
ritmato, tirando fuori da ogni parola un significato che non aveva mai
avuto prima né mai più avrebbe avuto. Quando la melodia saliva la
sua voce si spezzava con dolcezza, seguendola, come accade alle
voci di contralto, e a ogni cambio di accordo un po’ della sua
calorosa e umana magia traboccava da lei nell’aria circostante.
«Viene un sacco di gente che non è stata invitata» disse
all’improvviso. «Quella ragazza non era invitata. Si intrufolano e lui è
troppo cortese per opporsi».
«Mi piacerebbe sapere chi è e che cosa fa» ribadì Tom. «E penso
che mi darò da fare per scoprirlo».
«Posso dirtelo subito» rispose lei. «Possedeva alcuni drugstore,
molti drugstore. Li ha messi su lui stesso».
La limousine ritardataria stava adesso risalendo il viale.
«Buonanotte, Nick» disse Daisy.
Il suo sguardo si staccò da me per cercare la cima illuminata dei
gradini dove dalla porta aperta venivano le note di Three o’Clock in
the Morning, un valzerino triste e grazioso in voga quell’anno. Dopo
tutto, nell’informalità della festa di Gatsby c’erano occasioni
romantiche di cui il mondo di Daisy era totalmente privo. Cosa c’era
in quella canzone che pareva invitarla a tornare dentro? Cosa
sarebbe accaduto, adesso, in quelle ore incerte e incalcolabili?
Forse sarebbe arrivato un ospite incredibile, una persona
squisitamente speciale e da guardare con meraviglia, una giovane
ragazza davvero radiosa che posando il suo sguardo fresco su
Gatsby, con una sola occhiata nella magia di un momento, avrebbe
cancellato quei cinque anni di devozione incrollabile.
Mi trattenni a lungo quella notte. Gatsby mi chiese di aspettare
fino a che si fosse liberato e io mi attardai in giardino fino a quando
l’inevitabile spedizione di bagnanti fu tornata di corsa, infreddolita ed
esaltata, dalla spiaggia buia, fino a quando si furono spente le luci
nelle stanze degli ospiti al piano di sopra. Quando finalmente scese i
gradini, la sua pelle abbronzata era ancora più liscia del solito e i
suoi occhi erano lucidi e stanchi.
«Non le è piaciuto» disse subito.
«Sì, invece».
«Non le è piaciuto» insistette. «Non si è divertita».
Restò in silenzio e io intuii il suo inesprimibile sconforto.
«Mi sento distante da lei» disse. «È difficile farle capire».
«Parli del ballo?»
«Il ballo?» con uno schiocco delle dita liquidò tutti i balli che
aveva dato. «Il ballo non conta, campione».
Voleva nientemeno che Daisy andasse da Tom e gli dicesse:
“Non ti ho mai amato”. Una volta che lei, con quella frase, avesse
annullato quattro anni, avrebbero potuto decidere quali misure
pratiche andassero prese. Una di queste era che, essendo lei libera,
sarebbero tornati a Louisville e si sarebbero sposati in casa di lei –
proprio come se tutto fosse come cinque anni prima.
«E lei non capisce» disse lui. «Un tempo capiva. Potevamo stare
seduti per ore…»
S’interruppe e cominciò a camminare su e giù per un devastato
sentiero coperto da bucce di frutta, cotillon gettati via e fiori
spiaccicati.
«Non pretenderei tanto da lei» azzardai. «Il passato non si può
ripetere».
«Il passato non si può ripetere?» sbottò lui, incredulo. «Ma che
dici, certo che si può!»
Si guardò intorno sconvolto, come se il passato fosse lì, in
agguato nell’ombra della sua casa, quasi a portata di mano.
«Farò tornare tutto come prima» disse, annuendo con
convinzione. «Se ne accorgerà».
Parlò a lungo del passato e ne dedussi che voleva recuperare
qualcosa, una qualche idea di sé, forse, che si era espressa
nell’amore per Daisy. Da allora in poi la sua vita era stata confusa e
disorientata, ma se avesse potuto, per una volta, ritornare a un
determinato punto di partenza e ripercorrere tutto lentamente,
sarebbe riuscito a scoprire di che si trattava…
… Una sera d’autunno, cinque anni prima, al cadere delle foglie
avevano camminato per strada ed erano giunti in un punto dove non
c’erano alberi e il marciapiede era imbiancato di luce lunare. Si
erano fermati e si erano voltati l’uno verso l’altra. La sera era fresca,
con quella misteriosa eccitazione che porta, due volte l’anno, il
cambio di stagione. Le luci delle case ronzavano piano nell’oscurità
e tra le stelle c’era fermento. Con la coda dell’occhio Gatsby vide
che le pietre del marciapiede formavano una scala che portava fino
a un luogo segreto al di sopra degli alberi – sarebbe potuto salire, se
fosse salito da solo, e una volta lassù avrebbe potuto ciucciare il
capezzolo della vita e inghiottire l’incomparabile latte della
meraviglia.
Il cuore gli batteva sempre più forte mentre il volto bianco di Daisy
si avvicinava al suo. Sapeva che baciandola avrebbe congiunto per
sempre le proprie indicibili visioni al respiro perituro di quella
ragazza, e la sua mente non avrebbe più scorrazzato libera come
quella di Dio. Quindi aspettò, restando ancora un momento in
ascolto del diapason battuto su una stella. Poi la baciò. Al tocco
delle sue labbra, lei sbocciò come un fiore per lui e l’incarnazione si
compì.
Quello che disse, con tutto il suo rivoltante sentimentalismo, mi
rievocò qualcosa – un ritmo elusivo, un frammento di parole perdute,
che avevo udito anch’io da qualche parte tanto tempo prima. Per un
momento una frase cercò di formarsi nella mia bocca, e le mie
labbra si schiusero come quelle di un muto, come se dovessero
combattere con qualcosa di più che un fiato d’aria in movimento. Ma
non emisero alcun suono e il ricordo che stava per affiorare restò
incomunicabile per sempre.
7.

La curiosità per Gatsby era al culmine quando, un sabato sera, le


luci della sua casa non vennero accese e la sua carriera da
Trimalcione terminò, oscuramente com’era cominciata. Solo per
gradi mi resi conto che le automobili che si immettevano piene di
aspettativa sul viale di accesso vi restavano giusto un minuto e poi
tornavano indietro immusonite. Mi domandai se Gatsby fosse malato
e andai a cercare di scoprirlo – un maggiordomo mai visto, con la
faccia da canaglia, mi guardò storto e con sospetto sulla porta di
casa.
«Il signor Gatsby sta poco bene?»
«No». Temporeggiò un momento prima di aggiungere un riluttante
“signore”.
«Non l’ho più visto in giro ed ero un po’ preoccupato. Ditegli che è
venuto il signor Carraway».
«Chi?» domandò scortese.
«Carraway».
«Carraway. D’accordo, glielo riferirò». Sbatté la porta
bruscamente.
La mia finlandese mi informò che Gatsby la settimana prima
aveva mandato via tutta la servitù sostituendola con una mezza
dozzina di domestici che non andavano mai a West Egg Village a
farsi corrompere dai commercianti, ma ordinavano una moderata
quantità di provviste per telefono. Il commesso del droghiere aveva
riferito che la cucina sembrava un porcile e quasi tutti in paese
pensavano che i nuovi assunti non fossero veri domestici.
Il giorno dopo Gatsby mi telefonò.
«Sei in partenza?» chiesi.
«No, campione».
«Ho sentito che hai licenziato tutta la servitù».
«Volevo domestici che non spettegolassero. Daisy viene
abbastanza spesso – nel pomeriggio».
Dunque sotto lo sguardo di disapprovazione di Daisy l’intero
caravanserraglio era crollato come un castello di carte.
«Sono persone a cui Wolfshiem voleva dare una mano. Sono tutti
fratelli e sorelle. Gestivano un piccolo albergo».
«Capisco».
Mi chiamava su richiesta di Daisy – sarei andato l’indomani a
pranzo da lei? Ci sarebbe stata la signorina Baker. Mezz’ora dopo mi
telefonò anche Daisy e sembrò sollevata nell’apprendere che sarei
andato. C’era sotto qualcosa. E tuttavia non potevo credere che
scegliessero questa occasione per una scenata – specie una
scenata straziante come quella prospettata da Gatsby in giardino.
L’indomani era una giornata rovente, forse l’ultima dell’estate, di
certo la più calda. Quando il mio treno emerse dal tunnel alla luce
del sole, il silenzio infuocato del mezzogiorno era rotto soltanto dai
fischi bollenti della National Biscuit Company. I sedili di paglia della
carrozza sembravano sul punto di prendere fuoco; la donna accanto
a me mantenne per un po’ il contegno sudando elegantemente nella
camicetta bianca, poi, quando il giornale le si inumidì tra le dita, si
arrese disperata al calore con un grido di afflizione. La borsetta le
finì per terra.
«Mio Dio!» boccheggiò.
Mi piegai stancamente a raccoglierla e gliela porsi con il braccio
disteso e tenendola per un angolo, a dimostrare che non avevo mire
sull’oggetto – ma tutti i presenti, inclusa lei, sospettarono comunque
di me.
«Fa caldo!» diceva il controllore alle facce conosciute. «Che
razza di tempo! Caldo! Caldo! Caldo! Fa abbastanza caldo per voi?
Fa caldo? Fa…?»
Il biglietto di andata e ritorno mi venne restituito macchiato dalla
sua mano. Con quel caldo a chi poteva importare di chi fossero le
labbra ardenti che baciava, o il capo che gli inumidiva il taschino del
pigiama all’altezza del cuore?
…Un refolo leggero soffiava per il corridoio di casa Buchanan,
recando lo squillo del telefono fino a Gatsby e me, in attesa fuori
dalla porta.
«Il corpo del padrone?» ruggì il maggiordomo nella cornetta. «Mi
dispiace, madame, ma oggi non possiamo disporlo – fa troppo caldo
questo pomeriggio!»
In verità disse: «Sì…sì… me ne occuperò».
Mise giù il ricevitore e venne verso di noi, con la pelle un tantino
lucida, per prendere le nostre pagliette.
«Madame vi attende in salone!» gridò, indicando inutilmente la
direzione. Con quel caldo ogni gesto superfluo era un affronto alle
comuni scorte di vita.
La stanza, ben ombreggiata con tende da sole, era buia e fresca.
Daisy e Jordan erano stese su un immenso divano, come idoli
d’argento posati sulle loro stesse vesti bianche per contrastare la
canora brezza dei ventilatori.
«Non ci possiamo muovere» dissero all’unisono.
Le dita di Jordan, la cui abbronzatura era incipriata di bianco,
restarono un momento tra le mie.
«E il signor Thomas Buchanan, l’atleta?» mi informai.
Proprio in quel momento sentii la sua voce, burbera, attutita, roca,
al telefono nell’atrio.
Gatsby stava fermo in piedi al centro del tappeto cremisi
guardandosi intorno con occhi ammaliati. Daisy lo guardò e rise, di
quella sua risata dolce ed eccitante; dal suo petto si levò una
nuvoletta di cipria.
«Si mormora che quella al telefono sia la ragazza di Tom»
sussurrò Jordan.
Restammo in silenzio. La voce nell’atrio si fece più alta e seccata.
«Benissimo, allora, non te la vendo proprio l’automobile… non ho
nessun impegno con te… E non intendo tollerare che mi disturbi per
questo all’ora di pranzo!»
«Con il ricevitore abbassato» disse Daisy cinicamente.
«No, no» le assicurai. «È una vera trattativa. Si dà il caso che io
ne sia al corrente».
Tom spalancò la porta, per un momento ne occupò la soglia con il
suo corpo massiccio, poi entrò rapido nella stanza.
«Signor Gatsby!» Tese la grande mano piatta nascondendo bene
la propria avversione. «Lieto di vedervi, signore… Nick…»
«Preparaci un drink ghiacciato» gridò Daisy.
Mentre Tom usciva dalla stanza, lei si alzò, andò da Gatsby, gli
fece abbassare il viso e lo baciò sulla bocca.
«Lo sai che ti amo» mormorò.
«Ti dimentichi che qui c’è una signora» disse Jordan.
Daisy si guardò intorno dubbiosa.
«Tu bacia Nick».
«Quanto sei volgare!»
«Me ne infischio!» esclamò Daisy, e cominciò a infilare ciocchi nel
caminetto di mattoni. Poi le tornò in mente che faceva caldo e si
sedette con aria colpevole sul divano, proprio mentre una tata fresca
di bucato entrava nella stanza con una bambina.
«Tesorino benedetto» gorgheggiò Daisy, tendendo le braccia.
«Vieni dalla tua mamma che ti vuole tanto bene».
La bambina, lasciata libera dalla tata, attraversò di corsa la
stanza e intimidita si attaccò alla veste della mamma.
«Il mio tesorino benedetto! È stata la mamma a imbrattare di
cipria i tuoi cari capelli dorati? Tirati su adesso e saluta per bene».
A turno, Gatsby e io ci chinammo a stringere quella manina
riluttante. Dopodiché lui continuò a guardare la bambina sorpreso.
Forse prima di allora non aveva mai creduto per davvero alla sua
esistenza.
«Mi sono vestita prima di pranzo» disse la bambina, voltandosi
ansiosa verso Daisy.
«È perché la mamma voleva vantarsi di te». Chinò la testa verso
l’unica piega del piccolo candido collo. «Sei un sogno. Un piccolo
sogno assoluto».
«Sì» ammise tranquilla la bambina. «Anche la zia Jordan è
vestita di bianco».
«Ti piacciono gli amici della mamma?» Daisy la fece girare
affinché guardasse Gatsby. «Li trovi carini?»
«Dov’è papà?»
«Non assomiglia al padre» spiegò Daisy. «Assomiglia a me. Ha i
miei capelli e la stessa forma del viso».
Daisy tornò a sedersi sul divano. La tata fece un passo avanti e
tese la mano.
«Vieni, Pammy».
«Ciao, tesoro!»
Con un’ultima occhiata riluttante, la bambina prese disciplinata la
mano della tata e venne condotta fuori dalla porta, proprio mentre
Tom rientrava con al seguito quattro gin rickey tintinnanti di ghiaccio.
Gatsby prese il suo.
«Sembrano belli freschi» disse, visibilmente teso.
Bevemmo lunghe e avide sorsate.
«Da qualche parte ho letto che il sole sta diventando più caldo
ogni anno che passa» disse Tom affabilmente. «Sembra che presto
la terra verrà inghiottita dal sole – no, un momento, è il contrario – il
sole sta diventando più freddo.
«Venite fuori» propose a Gatsby, «voglio farvi vedere il giardino».
Andai con loro in veranda. Sul Sound, verde e stagnante per il
caldo, una piccola vela arrancava lentamente verso il mare aperto,
più fresco. Gli occhi di Gatsby la seguirono un momento; alzò la
mano e indicò al di là della baia.
«Sto proprio di fronte a voi».
«Infatti».
I nostri occhi si librarono sulle rose e il torrido prato e sulle alghe
rigettate a riva in quei giorni di canicola. Le bianche ali della barca si
muovevano lentamente contro lo sfondo fresco e azzurro del cielo.
All’orizzonte, la merlatura del mare e un esubero di isole beate.
«Ecco un bello sport» disse Tom, annuendo. «Mi piacerebbe
passare un’oretta in mare con quello là».
Pranzammo nella sala, oscurata per proteggerci dal caldo, e ci
scolammo inquieta ilarità insieme alla birra fredda.
«Che ne sarà di noi nel pomeriggio» squittì Daisy, «e poi domani,
e per i prossimi trent’anni?»
«Non essere morbosa» disse Jordan. «La vita ricomincia da capo
quando rinfresca con l’autunno».
«Ma ora fa troppo caldo» ribadì Daisy, sul punto di piangere, «ed
è tutto così confuso. Andiamo in città!»
La sua voce si faceva faticosamente strada nella calura,
remandole contro, plasmando la sua insensatezza in qualche forma.
«Ho sentito di garage ricavati dalle scuderie» diceva intanto Tom
a Gatsby, «ma sono il primo ad avere ricavato una scuderia da un
garage».
«Chi ha voglia di andare in città?» insisteva Daisy. Gli occhi di
Gatsby fluttuarono verso di lei. «Ah» esclamò lei, «tu hai un’aria così
fresca».
I loro occhi si incontrarono, e l’uno con l’altra si fissarono, uniti in
uno spazio tutto loro. Poi lei si sforzò di abbassare lo sguardo sulla
tavola.
«Tu hai sempre aria di fresco» ripeté.
Gli aveva detto che lo amava, e Tom Buchanan aveva visto. Era
sbalordito. Aprì leggermente la bocca e guardò Gatsby e poi di
nuovo Daisy, come se in lei rivedesse qualcuno che aveva
conosciuto tanto tempo prima.
«Somigli all’uomo di quel cartellone pubblicitario» proseguì lei in
tono innocente. «Sai, quella pubblicità con l’uomo…»
«D’accordo» la interruppe rapidamente Tom. «A me sta bene
andare in città. Dai, andiamo in città».
Si alzò, continuando a lanciare occhiate a Gatsby e alla moglie.
Nessuno si mosse.
«Avanti!» La sua pazienza s’incrinò appena. «Che succede,
insomma? Se dobbiamo andare, muoviamoci».
Con mano tremante, nello sforzo di controllarsi, si portò alla
bocca l’ultimo sorso di birra rimasto nel bicchiere. La voce di Daisy ci
indusse ad alzarci e a uscire sul viale di ghiaia rovente.
«Prendiamo e ce ne andiamo?» obiettò. «Così? Non vogliamo
lasciare che qualcuno prima si fumi una sigaretta?»
«Abbiamo fumato tutti durante il pranzo».
«Oh, senti, divertiamoci» lo implorò Daisy. «Fa troppo caldo per
discutere».
Lui non rispose.
«Fai come ti pare» disse Daisy. «Vieni con me, Jordan».
Salirono a prepararsi mentre noi tre maschi restammo lì a
smuovere i sassolini bollenti con i piedi. A occidente era già appeso
nel cielo uno spicchio argentato di luna. Gatsby fece per dire
qualcosa, cambiò idea, ma non prima che Tom si voltasse a
guardarlo in attesa.
«Avete le scuderie qui?» si sforzò di chiedere Gatsby.
«Un quarto di miglio più giù».
«Ah».
Pausa.
«Io questa cosa di andare in città non la capisco» proruppe Tom
con furia. «Le donne si mettono in testa certe idee…»
«Ci portiamo qualcosa da bere?» gridò Daisy da una finestra al
piano di sopra.
«Prendo del whisky» rispose Tom. Entrò in casa.
Gatsby si rivolse, rigido, a me: «Io non riesco a dire niente a casa
di lui, campione».
«Daisy ha una voce indiscreta» osservai. «Piena di…»
Esitai.
«La sua voce è piena di soldi» disse lui immediatamente.
Era proprio così. Non l’avevo mai capito prima. Era una voce
piena di soldi – da questo derivavano l’inesauribile incantesimo nei
suoi forte e piano, il suo tintinnio, il canto dei cembali… In alto, nel
bianco palazzo, la figlia del re, la fanciulla dorata…
Tom uscì di casa con una bottiglia da un quarto avvolta in un
panno, seguito da Daisy e Jordan con un cappellino aderente di
tessuto metallico e una mantellina leggera sul braccio.
«Andiamo tutti con la mia automobile?» propose Gatsby. Tastò la
pelle verde dei sedili, che scottava. «Avrei dovuto lasciarla
all’ombra».
«Ha il cambio standard?» chiese Tom.
«Sì».
«Allora voi prendete il mio coupé e io guido la vostra auto».
Gatsby non gradì per nulla.
«Non penso ci sia abbastanza benzina» obiettò.
«Ce n’è quanto basta» disse Tom con sicumera. Guardò
l’indicatore. «E se finisce, mi fermo a un drugstore. Al giorno d’oggi
nei drugstore si compra di tutto».
A questa osservazione apparentemente inutile seguì una pausa.
Daisy guardò Tom con aria corrucciata mentre sul volto di Gatsby
passò un’espressione indefinibile, decisamente estranea e al tempo
stesso vagamente riconoscibile, come se l’avessi soltanto sentita
descrivere a parole.
«Vieni, Daisy» disse Tom spingendola con la mano verso la
macchina di Gatsby. «Ti porto in questo carrozzone da circo».
Aprì lo sportello, ma lei si sfilò dal braccio che la cingeva.
«Tu porta Nick e Jordan. Noi vi seguiamo con il coupé».
Si avvicinò a Gatsby e gli toccò la giacca con la mano. Jordan,
Tom e io ci sistemammo sul sedile anteriore della vettura di Gatsby,
Tom armeggiò incerto con quel cambio a lui poco familiare e ci
lanciammo nel caldo opprimente, lasciandoceli alle spalle.
«Avete visto?» domandò Tom.
«Visto cosa?»
Mi scrutò intensamente, realizzando che Jordan e io dovevamo
saperlo da tempo.
«Voi pensate che io sia un idiota, giusto?» insinuò. «Può darsi
che lo sia. Ma ho come… come un sesto senso, a volte, che mi dice
cosa fare. Magari voi non ci credete, ma la scienza…»
S’interruppe, sopraffatto dall’immediata contingenza che lo fece
arretrare dall’orlo di quel baratro teorico.
«Ho fatto una piccola indagine su questo signore» continuò.
«Avrei potuto approfondire, se avessi saputo…»
«Vuoi dire che sei stato da una medium?» s’informò scherzando
Jordan.
«Cosa?» Sgranò gli occhi perplesso su di noi che ridevamo.
«Una medium?»
«Per Gatsby».
«Per Gatsby! No, macché. Ho detto che ho fatto una piccola
indagine sul suo passato».
«E hai scoperto che è un oxfordiano» lo imbeccò Jordan.
«Un oxfordiano!» Tom era incredulo. «Neanche per sogno!
Indossa un completo rosa».
«Ma è comunque stato a Oxford».
«A Oxford nel New Mexico» sbuffò Tom con disprezzo, «o una
cosa del genere».
«Senti, Tom, se sei così snob, perché lo hai invitato a pranzo?»
domandò Jordan, seccata.
«L’ha invitato Daisy; l’ha conosciuto prima che ci sposassimo…
Dio solo sa dove!»
Ora che l’effetto della birra scemava eravamo tutti più irritabili, e
con questa consapevolezza procedemmo per un po’ in silenzio. Poi,
quando lungo la strada apparvero gli occhi sbiaditi del dottor T.J.
Eckleburg, mi ricordai della preoccupazione di Gatsby per la
benzina.
«Ne abbiamo abbastanza per arrivare in città» disse Tom.
«Ma c’è un’autorimessa proprio lì» obiettò Jordan. «Non voglio
trovarmi bloccata con questo caldo rovente».
Tom tirò entrambi i freni spazientito e ci fermammo sotto l’insegna
di Wilson con una brusca e polverosa derapata. Un momento dopo il
proprietario si affacciò sulla porta e spalancò gli occhi vacui
sull’automobile.
«Mettici benzina!» gridò Tom sgarbatamente. «Pensi che ci siamo
fermati ad ammirare il paesaggio?»
«Non sto bene» disse Wilson senza muoversi. «È tutto il giorno
che non mi sento bene».
«Che hai?»
«M’è passato sopra un treno».
«D’accordo. Faccio da solo?» domandò Tom. «Al telefono
sembravi in piena forma».
Con uno sforzo Wilson abbandonò il riparo e il sostegno del vano
della porta e svitò ansando il tappo del serbatoio. Alla luce la sua
faccia era verde.
«Non volevo disturbarvi mentre pranzavate» disse. «Ma ho
bisogno di soldi e mi chiedevo che volevate fare con la vecchia
auto».
«Che ne dici di questa?» s’informò Tom. «L’ho comperata la
scorsa settimana».
«È un bel giallo» disse Wilson, mentre pompava.
«Vuoi comperarla?»
«Magari». Wilson fece un debole sorriso. «No, ma potrei fare dei
soldi con l’altra».
«Com’è che improvvisamente hai tutto questo bisogno di soldi?»
«Sono qui da troppo tempo. Voglio andarmene. Mia moglie e io
vogliamo andare all’Ovest».
«Tua moglie!» esclamò Tom, trasalendo.
«Ne parla da dieci anni». Si appoggiò un momento alla pompa,
proteggendosi gli occhi dal sole. «E adesso ci verrà, che lo voglia o
no. Voglio portarla via».
Il coupé ci sfrecciò davanti con un’alzata di polvere e il lampo di
un saluto con la mano.
«Quant’è?» domandò bruscamente Tom.
«Ho notato qualcosa di strano in questi ultimi due giorni» riferì
Wilson. «Perciò voglio andarmene. Perciò vi ho seccato per l’auto».
«Quant’è?»
«Un dollaro e venti».
Quell’implacabile caldo battente cominciava a stordirmi e passai
un brutto momento prima di realizzare che i suoi sospetti non si
erano ancora posati su Tom. Aveva scoperto che Myrtle aveva una
vita senza di lui in un altro mondo e lo shock lo aveva fatto
fisicamente ammalare. Guardai lui e poi Tom, che meno di un’ora
prima aveva fatto una scoperta parallela, e mi venne in mente che
non c’era differenza altrettanto profonda tra gli uomini, in intelligenza
o razza, quanto quella che c’è tra i sani e i malati. Wilson stava così
male che sembrava colpevole, colpevole in modo imperdonabile,
come se avesse appena messo incinta una povera ragazza.
«Ti farò avere la macchina» disse Tom. «La mando domani
pomeriggio».
Quel luogo era sempre vagamente inquietante, anche nella piena
luce del pomeriggio, e a un certo punto voltai la testa come se fossi
stato avvertito di qualcosa dietro di me. Gli occhi giganteschi del
dottor T.J. Eckleburg continuavano a vegliare sui cumuli di cenere,
ma subito mi accorsi che altri occhi ci guardavano con singolare
intensità da pochi passi di distanza.
Le tende a una delle finestre che affacciavano sull’autorimessa
erano scostate e Myrtle Wilson scrutava dall’alto la macchina. Era
talmente assorta che non si rendeva conto di essere a sua volta
osservata e sul suo volto compariva un’emozione dopo l’altra, come i
dettagli di una fotografia nel lento processo di sviluppo. Aveva
un’espressione curiosamente familiare, che avevo visto spesso sui
volti delle donne, ma addosso a Myrtle Wilson pareva immotivata e
inspiegabile finché non compresi che i suoi occhi, sgranati per il
terrore provocato dalla gelosia, non erano puntati su Tom, ma su
Jordan Baker, che aveva preso per la moglie.

La confusione di una mente semplice non ha uguali, e quando ci


rimettemmo in viaggio Tom era sferzato dal panico. La moglie e
l’amante, che solo un’ora prima erano inviolabili certezze, stavano
precipitosamente sfuggendo al suo controllo. L’istinto lo portava a
premere sull’acceleratore con il duplice intento di sorpassare Daisy e
di lasciarsi dietro Wilson, così corremmo verso Astoria a una velocità
di cinquanta miglia orarie, fino a quando scorgemmo il coupé
azzurro che procedeva tranquillo tra i ragneschi pilastri della
sopraelevata.
«Quei cinemoni intorno alla Cinquantesima sono freschi» suggerì
Jordan. «Adoro New York la domenica pomeriggio, quando sono tutti
via. Emana un che di molto sensuale – di troppo maturo, come se
ogni genere di frutti strani stesse per caderti in mano».
La parola “sensuale” ebbe l’effetto di turbare ulteriormente Tom,
ma prima che potesse inventare una protesta il coupé si fermò e
Daisy ci fece segno di accostare.
«Dove andiamo?» gridò.
«Al cinema?»
«Fa così caldo» si lamentò Daisy. «Andate voi. Noi facciamo un
giro e vi raggiungiamo dopo». Con uno sforzo tirò fuori un po’ di
senso dell’umorismo: «Ci incontriamo da qualche parte. Io sarò
l’uomo che fuma due sigarette».
«Non possiamo discuterne qui» disse Tom, spazientito, al fischio
imprecante di un camion dietro di noi. «Seguitemi fino al lato sud di
Central Park, davanti al Plaza».
Si girò più volte per cercare la loro automobile, e se il traffico li
tratteneva rallentava finché non erano nuovamente in vista. Penso
che avesse paura che si infilassero in una traversa e sfrecciassero
via dalla sua vita per sempre.
Ma non lo fecero. E insieme prendemmo la meno comprensibile
decisione di affittare il salotto di una suite al Plaza.
Il contenuto della protratta e tumultuosa discussione che si
concluse radunandoci in quella stanza adesso mi sfugge, ma il mio
corpo ricorda con precisione che nel corso del suo svolgimento le
mutande mi si appiccicavano attorno alle gambe come un serpente
umidiccio e gocce fredde di sudore mi colavano a intermittenza
lungo la schiena. L’idea partì dalla proposta di Daisy di prendere
cinque sale da bagno per farci un bagno freddo e poi assunse la
forma più praticabile di “un posto dove bere un mint julep”. Ognuno
di noi ripeté più volte che era un’“idea assurda” – parlammo tutti
insieme a un concierge frastornato pensando, o facendo finta di
pensare, di essere molto spiritosi…
Era una camera ampia e opprimente, e per quanto fossero già le
quattro aprire le finestre consentì l’ingresso solamente a una folata
di sterpi roventi dal parco. Daisy andò allo specchio e, dandoci le
spalle, si aggiustò i capelli.
«Gran bella suite» bisbigliò rispettosamente Jordan, e tutti risero.
«Aprite un’altra finestra» ordinò Daisy, senza voltarsi.
«Non ce ne sono altre».
«Allora facciamoci portare un’ascia…»
«L’unica è non pensare al caldo» disse Tom spazientito. «Se ti
lamenti è dieci volte peggio».
Liberò la bottiglia di whisky dal panno e la mise sul tavolo.
«Lasciate in pace Daisy, campione» disse Gatsby. «Siete stato
voi a voler venire in città».
Vi fu un momento di silenzio. L’elenco del telefono si staccò dal
gancio a cui era appeso e si spiaccicò a terra, al che Jordan
bisbigliò: «Scusatemi», ma stavolta non rise nessuno.
«Vado a raccoglierlo io» proposi.
«Sono già qua». Gatsby esaminò il cordino staccato, mormorò:
«Mmh» con fare interessato e gettò l’elenco su una sedia.
«È un’espressione che vi piace tanto, vero?» disse seccamente
Tom.
«Quale?»
«Questo vezzo di dire “campione”. Dove l’avete preso?»
«Stammi a sentire, Tom» disse Daisy, voltandosi dallo specchio,
«se intendi fare apprezzamenti personali non resterò qui un minuto
di più. Chiama e ordina del ghiaccio per il mint julep».
Quando Tom alzò il ricevitore, il calore compresso si tramutò in
un’esplosione di suoni e ci ritrovammo ad ascoltare i portentosi
accordi della marcia nuziale di Mendelssohn provenienti dalla sala
da ballo sottostante.
«Pensate sposarsi con questo caldo…» esclamò Jordan
sconsolata.
«Eppure… Io mi sono sposata a metà giugno» ricordò Daisy,
«Louisville di giugno! Qualcuno svenne. Chi è che svenne, Tom?»
«Biloxi» rispose subito lui.
«Un uomo che si chiamava Biloxi. “Blocks” Biloxi: fabbricava
appunto scatole43 ed era di Biloxi, nel Tennessee».
«Lo portarono a casa mia» aggiunse Jordan, «perché abitavamo
a due portoni dalla chiesa. E ci restò tre settimane, finché mio papà
non gli disse che doveva andarsene. Lui se ne andò e il giorno dopo
mio papà morì». Dopo un momento aggiunse: «Non c’era alcuna
relazione».
«Io conoscevo un Bill Biloxi di Memphis» osservai.
«Era suo cugino. Prima che se ne andasse appresi tutta la storia
della sua famiglia. Mi regalò un putter di alluminio che uso ancora».
La musica si era spenta all’inizio della cerimonia e dalla finestra a
quel punto entrò un protratto tripudio, seguito da grida intermittenti di
“Sììì! Sìììì!” e infine un’esplosione di jazz per dare il via alle danze.
«Stiamo invecchiando» disse Daisy. «Se fossimo giovani ci
alzeremmo a ballare».
«Ricordati di Biloxi» la ammonì Jordan. «Dove l’avevi conosciuto,
Tom?»
«Biloxi?» Fece uno sforzo di concentrazione. «Io non lo
conoscevo. Era amico di Daisy».
«Non è vero» negò lei. «Non l’avevo mai visto. Arrivò con la
carrozza riservata».
«Be’, lui diceva che ti conosceva. Diceva che era cresciuto a
Louisville. Lo portò all’ultimo momento Asa Bird, chiedendo se
potevamo ospitarlo».
Jordan sorrise.
«Probabilmente stava scroccando il viaggio di ritorno a casa. Mi
disse che era il presidente del vostro anno di corso a Yale». Tom e io
ci guardammo perplessi.
«Biloxi?»
«Tanto per cominciare, non avevamo nessun presidente…»
Il piede di Gatsby tamburellò impaziente per un breve momento e
Tom spostò subito lo sguardo su di lui.
«A proposito, signor Gatsby, a quanto ho capito siete un
oxfordiano».
«Non esattamente».
«Oh, sì, ho sentito dire che siete andato a Oxford».
«Sì… ci sono andato».
Una pausa. Poi la voce di Tom, incredula e offensiva: «Dovevate
esserci all’incirca nello stesso periodo in cui Biloxi era a New
Haven».
Un’altra pausa. Un cameriere bussò alla porta ed entrò con
ghiaccio e menta tritati, ma né il suo “grazie” né il richiudersi leggero
della porta interruppero il silenzio. Questo dettaglio di enorme
importanza andava finalmente chiarito.
«Vi ho detto che ci sono andato».
«Vi ho sentito, ma vorrei sapere quando».
«Nel 1919, ci sono stato solo cinque mesi. Quindi non posso
veramente definirmi un oxfordiano».
Tom si guardò intorno per vedere se condividevamo la sua
incredulità. Ma i nostri occhi erano tutti su Gatsby.
«Era un’occasione che offrirono ad alcuni ufficiali dopo
l’armistizio» continuò. «Potevamo andare in qualunque università in
Inghilterra o in Francia».
Avrei voluto alzarmi e dargli una pacca sulla schiena. Mi prese
uno di quei ritorni di completa fiducia in lui di cui avevo già fatto
esperienza.
Daisy si alzò, sorridendo leggermente, e andò al tavolo.
«Apri il whisky, Tom» ordinò. «Ti faccio un mint julep, così ti
sentirai un po’ meno stupido… Guardate che menta!»
«Ancora un minuto» scattò Tom, «voglio fare un’altra domanda al
signor Gatsby».
«Prego» disse gentilmente Gatsby.
«State cercando di creare scompiglio a casa mia?»
Adesso erano allo scoperto e Gatsby era soddisfatto.
«Non sta creando nessuno scompiglio». Daisy cercò
disperatamente lo sguardo dell’uno e dell’altro. «Sei tu che stai
creando scompiglio. Per favore, controllati».
«Controllarmi?» ripeté Tom incredulo. «Suppongo che vada di
gran moda starsene zitti a guardare il signor Nessuno di Non-si-sa-
dove che fa la corte a tua moglie. Be’, se è questa l’idea, non
contate su di me… Si comincia con il disprezzare la famiglia e le
istituzioni famigliari e si finisce per mandare tutto a mare e sposarsi
tra bianchi e neri».
Accalorato dal suo appassionato farneticare, si figurava come il
solitario difensore dell’ultimo baluardo della civiltà.
«Qui siamo tutti bianchi» mormorò Jordan.
«So di non essere molto popolare. Non do grandi feste.
Suppongo che sia necessario trasformare la propria casa in un
porcile per avere degli amici, nel mondo moderno».
Benché fossi arrabbiato come tutti, mi veniva da ridere ogni volta
che apriva bocca. La transizione da libertino a perbenista era
completa.
«Ho qualcosa da dire io a voi, campione…» attaccò Gatsby. Ma
Daisy colse la sua intenzione.
«No, ti prego!» lo interruppe sgomenta. «Per favore, andiamo a
casa. Perché non ce ne andiamo tutti a casa?»
«Buona idea». Mi alzai. «Andiamo, Tom. Nessuno vuole un
drink».
«Voglio sapere che cos’ha da dirmi il signor Gatsby».
«Vostra moglie non vi ama» disse Gatsby. «Non vi ha mai amato.
Ama me».
«Voi dovete essere pazzo!» esclamò Tom di riflesso.
Gatsby balzò in piedi, vibrante di eccitazione.
«Non vi ha mai amato, chiaro?» gridò. «Vi ha sposato solo perché
io ero povero e si era stancata di aspettarmi. È stato un terribile
sbaglio, ma in cuor suo non ha mai amato nessuno all’infuori di me!»
A quel punto Jordan e io cercammo di andarcene, ma Tom e
Gatsby fecero a gara nell’insistere che rimanessimo – come se
nessuno dei due avesse nulla da nascondere e fosse un privilegio
partecipare di riflesso alle loro emozioni.
«Siediti, Daisy». La voce di Tom si sforzò senza riuscirci di
assumere un tono paterno. «Che cosa succede? Voglio sapere
tutto».
«Ve l’ho detto che cosa succede» disse Gatsby. «Va avanti da
cinque anni – a vostra insaputa».
Tom si rivolse bruscamente a Daisy.
«Ti vedi con questo individuo da cinque anni?»
«Non ci siamo visti» disse Gatsby. «No, non potevamo
incontrarci. Ma ci siamo amati per tutto questo tempo, campione, a
vostra insaputa. Mi veniva da ridere, a volte» ma non c’era alcun riso
nei suoi occhi, «a pensare che non sapevate niente».
«Ah, tutto qui». Tom giunse le mani facendo tamburellare le
grosse dita, come fanno i preti, e si appoggiò all’indietro nella
poltrona.
«Siete pazzo!» esplose. «Su quanto è accaduto cinque anni fa
non mi esprimo perché all’epoca non conoscevo Daisy – e mi
prenda un colpo se riesco a immaginare come avete fatto ad arrivare
anche solo a distanza di un miglio da lei, a meno che non le portaste
a casa la spesa dalla porta di servizio. Ma tutto il resto è una
stramaledetta menzogna. Daisy mi amava quando mi ha sposato e
mi ama tuttora».
«No» disse Gatsby, scuotendo la testa.
«E invece sì. Il problema è che a volte si mette in testa strane
idee e non sa quello che fa». Annuì assennatamente. «E oltre a
questo, c’è che anche io amo Daisy. Magari faccio lo scemo e ho
una scappatella ogni tanto, ma torno sempre, e in cuor mio amo
sempre lei».
«Sei rivoltante» disse Daisy. Si girò verso di me e la sua voce,
scesa di un’ottava, riempì la stanza di sdegno: «Tu lo sai perché
siamo andati via da Chicago? Mi sorprende che nessuno ti abbia
fatto partecipe della storia di quella scappatella».
Gatsby andò a mettersi in piedi accanto a lei.
«Daisy, ora è finita» disse solennemente. «Non ha più alcuna
importanza. Digli semplicemente la verità – che non lo hai mai amato
– e verrà tutto spazzato via per sempre».
Lei lo guardò con occhi assenti. «Come… potevo… amarlo?»
«Tu non lo hai mai amato».
Daisy esitava. I suoi occhi si posarono su Jordan e me con una
specie di supplica, come se alla fine si fosse resa conto di quello che
stava facendo – e come se non avesse mai avuto intenzione di fare
nulla. Ma ormai era fatta. Era troppo tardi.
«Non l’ho mai amato» disse con percettibile riluttanza.
«Nemmeno a Kapiolani44?» domandò subito Tom.
«No».
Dalla sala da ballo di sotto salivano in sordina accordi opprimenti
trasportati da folate d’aria calda.
«Nemmeno quel giorno che ti ho portata via in braccio dal Punch
Bowl45 per non farti bagnare le scarpe?» C’era una ruvida tenerezza
nel suo tono di voce. «…Daisy?»
«Per favore, smettila». La voce di Daisy era fredda, ma priva
ormai di rancore. Guardò Gatsby. «Ecco qua, Jay» disse – ma la sua
mano, nel cercare di accendere una sigaretta, tremava.
All’improvviso gettò sigaretta e fiammifero acceso sul tappeto.
«Tu pretendi troppo!» gridò, rivolta a Gatsby. «Ti amo adesso –
non basta? Non posso fare niente per il passato». E cominciò a
singhiozzare perdutamente. «L’ho amato – ma amavo anche te».
Gatsby aprì e chiuse gli occhi.
«Amavi anche me?» ripeté.
«Pure questa è una menzogna» disse Tom con violenza. «Non
sapeva neanche se eravate vivo. Il punto è che… ci sono cose tra
me e Daisy che voi non saprete mai, cose che nessuno di noi due
potrà mai dimenticare».
Quelle parole parvero affondare come un morso nella carne di
Gatsby.
«Voglio parlare con Daisy da solo» si incaponì. «Ora è
sconvolta…»
«Anche se fossimo soli non potrei dire di non aver mai amato
Tom» ammise lei con pena. «Non sarebbe vero».
«Certo che no» concordò Tom.
Daisy si rivolse al marito.
«Come se ti importasse» disse.
«Certo che mi importa. D’ora in poi mi prenderò più cura di te».
«Voi non capite» disse Gatsby, con una punta di panico. «Voi non
vi prenderete più cura di lei».
«Ah, no?» Tom spalancò gli occhi e rise. Aveva ripreso il
controllo. «E come mai?»
«Daisy vi sta lasciando».
«Sciocchezze».
«Invece sì» disse lei con visibile sforzo.
«Non mi sta lasciando!» Le parole di Tom si fiondarono di colpo
contro Gatsby. «Di certo non per un dozzinale imbroglione che
sarebbe costretto a rubare l’anello da metterle al dito».
«Non reggo più!» gridò Daisy. «Vi prego, usciamo».
«E comunque chi siete voi?» proruppe Tom. «So che siete uno
del gruppo che bazzica Meyer Wolfshiem. Ho fatto una piccola
indagine sui vostri affari e da domani la approfondirò».
«Accomodatevi, campione» disse Gatsby con fermezza.
«Ho scoperto che cos’erano i vostri drugstore». Si rivolse a noi e
parlò velocemente. «Lui e questo Wolfshiem comperarono parecchi
drugstore su strade secondarie, qui e a Chicago, e vendevano
alcolici senza prescrizione46. Una delle sue piccole bravate. La
prima volta che l’ho visto l’ho preso per un contrabbandiere, e non
mi sono sbagliato di molto».
«E con questo?» disse Gatsby educatamente. «Il vostro amico
Walter Chase non si è fatto scrupoli ad approfittarne».
«E voi lo avete piantato in asso, non è così? Avete lasciato che si
facesse un mese di galera nel New Jersey. Santiddio! Dovreste
sentire cosa dice Walter di voi».
«È venuto da noi che era al verde. Era molto contento di tirare su
qualche soldo, campione».
«Non mi chiamate “campione”!» gridò Tom. Gatsby non disse
nulla. «Walter avrebbe potuto denunciarvi per le scommesse
clandestine, ma Wolfshiem gli ha tappato la bocca terrorizzandolo».
Sul volto di Gatsby tornò quello sguardo insolito eppure
riconoscibile.
«Ma il giro dei drugstore era solo per gli spicci» proseguì Tom,
lentamente. «Ora avete in ballo qualcosa che Walter non ha il
coraggio di dirmi».
Lanciai un’occhiata a Daisy, che fissava un punto tra Gatsby e
suo marito con gli occhi spalancati di terrore, e a Jordan, che aveva
cominciato a tenere in equilibrio sul mento un oggetto invisibile che
prendeva tutta la sua attenzione. Quindi mi voltai di nuovo verso
Gatsby e trasalii di fronte alla sua espressione. Sembrava davvero
che avesse “ucciso un uomo” – e lo dico pur disprezzando la
calunnia blaterata nel suo giardino. Per un momento la piega del suo
viso corrispose proprio a quell’assurda descrizione.
Passò subito, e Gatsby cominciò a parlare a Daisy in modo
concitato, negando tutto, difendendosi anche da accuse che non
erano state mosse. Lei però si ritraeva sempre più in se stessa a
ogni sua parola, e così Gatsby lasciò perdere e mentre il pomeriggio
scivolava via solamente il suo sogno defunto continuò a non darsi
per vinto nel tentativo di toccare ciò che non era più tangibile,
ingaggiando una lotta infelice e indefessa per quella voce perduta
all’altro capo della stanza.

Quella voce di nuovo implorò di andare via.


«Ti prego, Tom! Non ce la faccio più».
I suoi occhi spaventati rivelavano che qualunque intenzione o
coraggio avesse avuto fino a poco prima ormai non c’erano più.
«Andate voi due, Daisy» disse Tom. «Torna a casa con la
macchina del signor Gatsby».
Lei guardò Tom, di colpo allarmata, ma lui insistette con
magnanimo sprezzo.
«Vai. Il signor Gatsby non ti darà fastidio. Penso gli sia chiaro che
il suo piccolo e presuntuoso corteggiamento è finito».
Se ne andarono senza una parola, erano stati rimossi, come un
incidente di percorso, esclusi come fantasmi persino dalla nostra
compassione.
Poco dopo Tom si alzò e cominciò a riavvolgere nel panno la
bottiglia di whisky mai aperta.
«Ne volete un po’? Jordan?… Nick?»
Io non risposi.
«Nick?» chiese di nuovo.
«Che c’è?»
«Vuoi?»
«No… Mi è appena venuto in mente che oggi è il mio
compleanno».
Compivo trent’anni. Davanti a me si apriva la portentosa e
minacciosa strada di un nuovo decennio.
Erano le sette quando salimmo con lui sul coupé e partimmo per
Long Island. Tom non smetteva di parlare, esultando e ridendo, ma a
Jordan e me la sua voce risultava distante quanto il clamore che
veniva da fuori, dal marciapiede o dalla sopraelevata in tumulto
sopra le nostre teste. L’empatia umana ha i suoi limiti ed eravamo
contenti di lasciare che tutte le loro tragiche diatribe si dissolvessero
come le luci della città dietro di noi. Trent’anni – la promessa di un
decennio di solitudine, una lista sempre più ridotta di scapoli da
conoscere, un bagaglio di entusiasmo sempre più leggero, capelli
sempre più radi. Ma accanto a me c’era Jordan che, al contrario di
Daisy, era troppo saggia per portarsi appresso sogni dimenticati da
un’età della vita all’altra. Mentre attraversavamo il ponte al buio, il
suo volto fiacco si posò pigramente sulla spalla della mia giacca e
con la sua confortante stretta di mano la terribile botta dei trenta
sfumò.
Procedemmo così verso la morte, mentre con l’imbrunire
rinfrescava.
Il testimone principale, nel corso dell’inchiesta, fu Michaelis, il
giovane greco che gestiva il ristorante lungo i cumuli di cenere.
Aveva dormito accaldato fino a dopo le cinque, poi era andato
pigramente all’officina e aveva trovato George Wilson malato nel suo
ufficio – davvero malato, pallidissimo, con la pelle chiara come i
capelli e tutto tremante. Michaelis gli aveva consigliato di andare a
letto, ma Wilson si era rifiutato dicendo che se lo avesse fatto
avrebbe perso un sacco di lavoro. E mentre il suo vicino cercava di
persuaderlo, era giunto da sopra un violento fracasso.
«Tengo chiusa mia moglie qui sopra» spiegò Wilson calmo. «Fino
a dopodomani, poi ci trasferiamo».
Michaelis era rimasto sbalordito; erano vicini da quattro anni e
Wilson non gli era mai sembrato neanche lontanamente capace di
una simile dichiarazione. Di solito era un uomo sfibrato: quando non
lavorava sedeva sulla soglia a guardare la gente e le macchine che
passavano sulla strada. Quando qualcuno gli rivolgeva la parola,
rispondeva invariabilmente con una risata gradevole e incolore. Era
un uomo che apparteneva a sua moglie, non a se stesso.
Perciò a Michaelis era venuto naturale cercare di scoprire cosa
fosse successo, ma Wilson non diceva una parola, limitandosi a
lanciare occhiate inquisitive e sospettose al suo visitatore e a
chiedergli cosa avesse fatto in determinati giorni a determinate ore.
Michaelis iniziava a sentirsi a disagio e, quando alcuni operai erano
passati davanti alla porta per andare al suo ristorante, aveva colto
l’occasione per andarsene, con l’intenzione di tornare più tardi. Ma
non era tornato. Se n’era dimenticato, tutto qui. Nell’uscire di nuovo,
poco dopo le sette, si era ricordato della conversazione con Wilson
sentendo le grida di rimprovero della moglie nell’officina.
«Picchiami!» l’aveva sentita gridare. «Buttami per terra e
picchiami, piccolo sporco codardo!»
Un momento dopo lei era corsa fuori, nel crepuscolo, agitando le
braccia e urlando; prima che lui potesse intervenire, era già tutto
finito.
La “macchina della morte”, come la chiamarono i giornali, non si
era fermata; era sbucata dall’oscurità sempre più fitta, aveva
sbandato tragicamente per un momento e poi era scomparsa dietro
la curva successiva. Mavromichaelis non era nemmeno sicuro del
colore – al primo poliziotto disse che era verde chiaro. L’altra
macchina, quella che andava verso New York, si era fermata un
centinaio di metri più avanti e il conducente era corso indietro verso
il punto in cui Myrtle Wilson, la cui vita era violentemente terminata,
si era accasciata sulla strada mescolando alla polvere il suo denso
sangue scuro.
I primi ad avvicinarsi erano stati lui e Michaelis, ma quando le
avevano strappato la camicetta ancora madida di sudore avevano
visto la mammella sinistra squarciata e pendente come un lembo di
stoffa e non c’era stato bisogno di auscultarle il cuore. Aveva la
bocca spalancata e lacera, come se prima di arrendersi avesse
lottato per trattenere la sua formidabile vitalità a lungo repressa.

Noi eravamo ancora a una certa distanza quando vedemmo le tre o


quattro automobili e la folla.
«Un incidente!» disse Tom. «Meglio, così Wilson avrà finalmente
un po’ di lavoro».
Rallentò ancora senza intenzione di fermarsi ma, arrivati più
vicino, le facce assorte e ammutolite della gente sulla porta
dell’officina lo spinsero automaticamente a tirare i freni.
«Andiamo a dare un’occhiata» disse dubbioso, «solo
un’occhiata».
A quel punto mi accorsi del cupo lamento che proveniva
incessante dall’officina, un suono che nel tempo che impiegammo a
scendere dalla macchina e avviarci verso l’ingresso si articolò nelle
parole “Oh, mio Dio!” ripetute continuamente in un gemito affannoso.
«È successo qualcosa di brutto» disse Tom agitato.
Si alzò sulle punte per sbirciare oltre un cerchio di teste
nell’officina illuminata soltanto da una luce giallastra che penzolava
in una gabbia di metallo. Poi emise un suono gutturale e si fece
largo a spintoni con le sue braccia possenti.
Il cerchio si richiuse con un mormorio di rimostranza; passò un
minuto prima che io potessi vedere alcunché. Poi nuovi arrivati
scombinarono la fila e Jordan e io venimmo improvvisamente spinti
all’interno.
Il corpo di Myrtle Wilson, avvolto in una coperta e in un’altra
ancora, come se in quella notte calda potesse avere freddo, era
steso su un tavolo da lavoro a ridosso del muro e Tom, immobile, vi
si chinava sopra dandoci le spalle. Accanto a lui un agente della
polizia stradale prendeva i nomi su un blocchetto, con abbondante
sudore e continue correzioni. Dapprima non riuscii a capire da dove
venissero quelle parole che riecheggiavano in gemiti acuti
nell’officina spoglia – poi vidi Wilson che, in piedi sulla soglia rialzata
dell’ufficio, dondolava avanti e indietro reggendosi con entrambe le
mani ai montanti della porta. Un uomo gli parlava sottovoce e di
tanto in tanto provava a posargli una mano sulla spalla, ma Wilson
non sentiva e non vedeva niente. I suoi occhi scendevano
lentamente dalla luce penzolante al tavolo e il suo carico contro il
muro e poi tornavano su di scatto, e intanto la sua acuta e orribile
invocazione continuava incessante.
«Oh, mio Dio! Oh, mio Dio! Oh, mio Dio! Oh, mio Dio!»
Tom alzò la testa di scatto e, dopo essersi guardato intorno con
occhi vitrei, biascicò un’osservazione sconclusionata rivolto al
poliziotto.
«M-a-v…» stava dicendo il poliziotto «…o…»
«No, r…» corresse l’uomo. «M-a-v-r-o…»
«Ascoltatemi!» mormorò Tom infervorato.
«r…» fece il poliziotto «…o…»
«g…»
«g…» Alzò lo sguardo, sentendosi piombare la grossa mano di
Tom sulla spalla. «Che cosa volete, amico?»
«Sapere cos’è successo: ecco cosa voglio!»
«L’ha presa un’auto. È morta sul colpo».
«Sul colpo» ripeté Tom, a occhi sgranati.
«È corsa in strada. Il figlio di puttana non s’è manco fermato».
«C’erano due macchine» disse Michaelis, «una che veniva in qua
e una che andava in là, capite?»
«Là dove?» chiese interessato il poliziotto.
«Una in un senso e l’altra nell’altro. Be’, lei…» La mano di
Michaelis si levò verso le coperte, ma si fermò a mezz’aria e ricadde
sul fianco. «Lei è corsa fuori e quella che veniva da New York l’ha
presa in pieno, a trenta o quaranta miglia all’ora».
«Come si chiama questo posto qua?» domandò l’agente.
«Non si chiama».
Si avvicinò un nero elegante e pallido.
«Era una macchina gialla» disse, «una macchina grande, gialla,
nuova».
«Avete visto l’incidente?» chiese il poliziotto.
«No, ma la macchina mi ha superato lungo la strada, e andava a
più di quaranta all’ora. Andava ai cinquanta, sessanta».
«Venite qui, prendiamo il vostro nome. Adesso fate attenzione.
Voglio prendere il suo nome».
Qualche stralcio di questa conversazione doveva aver raggiunto
Wilson, che ciondolava sulla porta dell’ufficio, perché
improvvisamente un nuovo tema trovò voce nei suoi lamenti.
«Non dovete dirlo a me, che tipo di macchina era. Io lo so, che
tipo di macchina era!»
Guardai Tom e gli vidi irrigidire i muscoli della spalla sotto la
giacca. Raggiunse Wilson a passo svelto e gli si parò di fronte
prendendolo per le braccia.
«Ti devi calmare» disse con lenitiva asprezza.
Wilson lo guardò; si alzò in punta di piedi e, se Tom non lo avesse
tenuto su, sarebbe caduto in ginocchio.
«Ascolta» disse Tom, scuotendolo un po’. «Sono arrivato qui un
minuto fa, da New York. Ti stavo portando il coupé di cui avevamo
parlato. La macchina gialla che guidavo oggi pomeriggio non è mia,
hai capito? Non l’ho vista per tutto il pomeriggio».
Soltanto il nero e io eravamo abbastanza vicini per udirlo, ma il
poliziotto colse qualcosa nel tono di Tom e alzò lo sguardo su di lui,
con occhi truci.
«Che succede?» domandò in tono severo.
«Sono un suo amico». Tom voltò la testa, ma mantenne ferma la
presa sul corpo di Wilson. «Dice di sapere quale macchina ha… Era
una macchina gialla».
Un qualche oscuro impulso spinse il poliziotto a guardare Tom
con sospetto.
«E la vostra di che colore è?»
«Blu. È un coupé».
«Arriviamo direttamente da New York» dissi io.
Qualcuno che viaggiava poco dietro di noi lo confermò e il
poliziotto si rivolse altrove.
«Allora, se mi ripetete il nome corretto…»
Tom sollevò Wilson come un bambolotto e lo portò nell’ufficio, lo
mise su una sedia e ritornò.
«Che qualcuno venga qui a tenergli compagnia!» esclamò in tono
autoritario. Fissò i due uomini più vicini, che si guardarono l’un l’altro
e poi entrarono riluttanti nella stanza. Tom richiuse la porta e scese
l’unico gradino, evitando di guardare il tavolo. Passandomi vicino,
sussurrò: «Andiamo via».
Seguimmo in imbarazzo le sue braccia che, autoritarie, facevano
strada nella folla che continuava a crescere; incrociammo il dottore
che stava arrivando di corsa, con la valigetta in mano, mandato a
chiamare mezz’ora prima con inutile speranza.
Tom guidò piano fino alla curva – poi schiacciò il pedale a
tavoletta e il coupé sfrecciò nella notte. Dopo un po’ sentii un basso
e roco singhiozzo e vidi che le lacrime gli scorrevano copiose sul
viso.
«Quel maledetto codardo!» gemette. «Non si è nemmeno
fermato».

La casa dei Buchanan emerse improvvisamente di fronte a noi tra i


fruscianti alberi scuri. Tom si fermò davanti al portico e guardò su, al
secondo piano, dove tra i rampicanti fiorivano due finestre illuminate.
«Daisy è a casa» disse. Quando scendemmo dalla macchina mi
guardò e si accigliò lievemente.
«Avrei dovuto lasciarti a West Egg, Nick. Per stasera non
possiamo più fare niente».
Era cambiato qualcosa in lui, e parlava con gravità e decisione.
Mentre andavamo verso il portico, sulla ghiaia illuminata dalla luna,
sistemò la questione con poche frasi concise.
«Chiamerò un taxi che ti porti a casa, e nell’attesa tu e Jordan
andate in cucina a farvi preparare qualcosa per cena – se volete».
Aprì la porta. «Entrate».
«No, grazie. Ma ti sarei grato se mi chiamassi il taxi. Aspetterò
fuori».
Jordan mi posò la mano sul braccio.
«Non vuoi entrare, Nick?»
«No, grazie».
Mi sentivo poco bene e volevo stare solo. Ma Jordan si trattenne
ancora un momento.
«Sono soltanto le nove e mezzo» disse.
Col cavolo che sarei entrato; per quel giorno ne avevo
abbastanza di loro, e d’un tratto anche di Jordan. Evidentemente lei
colse qualcosa nella mia espressione, perché si girò di scatto
dall’altra parte e corse su per i gradini in casa. Sedetti qualche
minuto con la testa fra le mani, poi sentii alzare la cornetta dentro
casa e la voce del maggiordomo che chiamava il taxi. A quel punto
mi incamminai lentamente giù per il viale con l’intenzione di
aspettare al cancello.
Non avevo ancora fatto venti passi che mi sentii chiamare e
Gatsby sbucò tra due cespugli. Dovevo essere alquanto
scombussolato in quel momento, perché non riuscii a pensare che
alla luminosità del suo completo rosa sotto la luna.
«Che fai?» gli domandai.
«Sto un po’ qui, campione».
Mi parve che quell’occupazione avesse un che di spregevole. Per
quanto ne sapevo, era in procinto di rapinare la casa; non mi sarei
sorpreso di vedere alle sue spalle, nell’oscuro fogliame, facce
sinistre, le facce del “gruppo di Wolfshiem”.
«Avete trovato confusione lungo la strada?» chiese lui dopo un
minuto.
«Sì».
Esitò.
«È morta?»
«Sì».
«Come pensavo; ho detto a Daisy che lo pensavo. È meglio che
lo shock arrivi tutto insieme. Ha retto abbastanza bene».
Parlava come se la reazione di Daisy fosse l’unica cosa che
contava.
«Sono arrivato a West Egg per una strada secondaria» proseguì,
«e ho lasciato la macchina nel mio garage. Credo che nessuno ci
abbia visti, ma ovviamente non posso esserne sicuro».
Mi disgustava talmente che non provai neppure il bisogno di
esprimere la mia disapprovazione.
«Chi era la donna?» si informò.
«Si chiamava Wilson. Suo marito è il proprietario dell’officina.
Come diamine è successo?»
«Be’, ho cercato di prendere il volante…» Lasciò tronca la frase e
io indovinai la verità.
«Guidava Daisy?»
«Sì» rispose lui dopo un momento, «ma naturalmente dirò che
guidavo io. Sai, quando siamo partiti da New York era molto agitata
e ha pensato che guidare l’avrebbe calmata – e questa donna s’è
lanciata verso di noi mentre arrivava una macchina nell’altro senso.
È successo tutto nel giro di un minuto, ma ho avuto l’impressione
che ci conoscesse, che ci volesse parlare. Insomma, Daisy prima ha
cercato di evitarla sterzando verso l’altra macchina, poi si è messa
paura ed è tornata di qua. Nell’attimo in cui la mia mano ha toccato il
volante ho avvertito l’urto – dev’essere morta sul colpo».
«L’ha squarciata…»
«Non me lo dire, campione». Trasalì. «A ogni modo, Daisy ha
tirato dritto. Ho cercato di farla fermare, ma lei non ci riusciva così ho
tirato il freno di emergenza. A quel punto mi è crollata in grembo e
ho preso io la guida.
«Domani starà bene» aggiunse di lì a poco. «Voglio aspettare qui
per vedere se lui si azzarda a importunarla per le sgradevolezze di
oggi pomeriggio. Daisy si è chiusa in camera e spegnerà e
riaccenderà la luce, se lui diventa violento».
«Non la toccherà» dissi io. «Non è a lei che pensa».
«Non mi fido di lui, campione».
«Quanto pensi di aspettare?»
«Tutta la notte, se necessario. In ogni caso, fino a quando non
vanno tutti a letto».
Mi si palesò un nuovo punto di vista. Mettiamo che Tom scoprisse
che guidava Daisy. Avrebbe potuto pensare che ci fosse una
correlazione – avrebbe potuto pensare qualunque cosa. Guardai la
casa: c’erano due o tre finestre illuminate al piano terra e il bagliore
roseo dalla stanza di Daisy al secondo piano.
«Aspetta qui» dissi. «Vado a vedere se ci sono segni di
agitazione».
Tornai indietro lungo il limite del prato, tagliai il viale di ghiaia a
passi leggeri e in punta di piedi salii i gradini della veranda. Le tende
del soggiorno erano aperte e vidi che la stanza era vuota.
Attraversando il portico dove avevamo cenato quella sera di giugno
tre mesi prima giunsi a un piccolo rettangolo di luce e immaginai che
si trattasse della finestra del retrocucina. La veneziana era
abbassata, ma c’era uno spiraglio lungo il davanzale.
Daisy e Tom erano seduti al tavolo della cucina uno di fronte
all’altra, tra loro un piatto di pollo fritto freddo e due bottiglie di birra.
Tom parlava con grande concentrazione e nel trasporto aveva
posato la mano su quella di lei, coprendola completamente. Di tanto
in tanto Daisy alzava lo sguardo e annuiva, concorde.
Non erano felici, e nessuno dei due aveva toccato il pollo o la
birra – ma non erano nemmeno infelici. Nella scena c’era una
inconfondibile aria di naturale intimità e si sarebbe detto che
stessero tramando qualcosa insieme.
Tornando indietro in punta di piedi, avvertii il rumore del taxi che
avanzava sul viale buio verso la casa. Gatsby era ancora in attesa
nel punto in cui lo avevo lasciato.
«Tutto tranquillo?» chiese ansioso.
«Sì, tutto tranquillo». Esitai. «Sarà meglio che vieni a casa con
me e cerchi di dormire un po’».
Scosse la testa.
«Voglio aspettare che Daisy vada a dormire. Buonanotte,
campione».
Si infilò le mani nelle tasche della giacca e mi voltò le spalle
tornando a osservare diligentemente la casa, come se la mia
presenza compromettesse la sacralità di quella veglia. Così mi
incamminai lasciandolo in piedi al chiaro di luna a fare la guardia al
nulla.
8.

Quella notte non riuscii a dormire; dal mare arrivava incessante il


lamento di una sirena da nebbia e io mi rigiravo mezzo ammalato tra
la grottesca realtà e spaventosi sogni efferati. Prima dell’alba udii un
taxi che risaliva il viale di Gatsby e saltai immediatamente giù dal
letto e cominciai a vestirmi – sentivo di avere qualcosa da dirgli,
qualcosa di cui avvertirlo che non poteva aspettare fino al mattino.
Attraversando il suo prato vidi che il portone era ancora aperto e
lui era appoggiato a un tavolo nell’atrio, spossato per lo scoramento
o il sonno.
«Non è successo nulla» disse fiaccamente. «Ho aspettato e
intorno alle quattro lei è venuta alla finestra, è rimasta lì in piedi un
minuto e poi ha spento la luce».
La sua casa non mi era mai sembrata enorme come quella notte,
quando andammo a caccia di sigarette nelle ampie stanze.
Scostammo tende che parevano padiglioni e tastammo innumerevoli
spanne di pareti cercando al buio gli interruttori della luce. A un certo
punto ruzzolai sulla tastiera di un pianoforte spettrale sollevando
schizzi di note. C’era un’inspiegabile quantità di polvere ovunque e
le stanze sapevano di muffa come se non fossero state arieggiate
per giorni. Trovai su un tavolo che non avevo mai notato lo humidor
con due sigarette secche e stantie. Aprimmo le portefinestre del
salotto e ci sedemmo fuori a fumare al buio.
«Devi andartene» dissi. «È quasi certo che rintracceranno la tua
macchina».
«Andarmene adesso, campione?»
«Vai una settimana ad Atlantic City, o su a Montréal».
Non voleva nemmeno prenderlo in considerazione. Non poteva
assolutamente allontanarsi da Daisy prima di sapere che cosa lei
avrebbe deciso di fare. Si aggrappava a una qualche ultima
speranza e non me la sentivo di dargli lo scrollone che gli facesse
mollare la presa.
Fu quella notte che mi raccontò la strana storia della sua
giovinezza con Dan Cody – me la raccontò perché “Jay Gatsby” era
andato in frantumi come un vetro contro la dura malevolenza di Tom
e quella protratta, segreta e sfarzosa messinscena era giunta al
finale. Penso che in quel momento avrebbe ammesso qualunque
cosa, senza riserve; ma voleva parlare di Daisy.
Era stata la prima ragazza “per bene” che avesse mai conosciuto.
Con quella gente lui aveva già avuto a che fare, in varie e taciute
mansioni, ma sempre al di qua di un invisibile filo spinato. La trovava
fervidamente desiderabile. Andò a casa sua, prima con altri ufficiali
di Camp Taylor, poi da solo. Rimase sbalordito – non era mai stato in
una casa così bella. Ma a dare all’atmosfera di quel posto
un’intensità da mozzare il fiato era il fatto che vi abitasse Daisy e che
per lei era una cosa scontata quanto per lui la tenda al campo.
Quella casa era intrisa di mistero, lasciava intuire camere da letto al
piano di sopra più belle e fresche delle altre, attività gaie e radiose
che avevano luogo nei corridoi e storie d’amore non ancora stantie e
accantonate insieme ai fiori di lavanda, ma fresche e ariose e
profumate di automobili in voga quell’anno e balli addobbati con fiori
ben lungi dall’appassire. Lo eccitava anche il fatto che molti uomini
avessero già amato Daisy – ai suoi occhi questo le dava ancora più
valore. Ne percepiva la presenza per tutta la casa, l’aria era
permeata di ombre ed echi di emozioni ancora vibranti.
Sapeva però di trovarsi a casa di Daisy per un colossale
accidente. Per quanto glorioso si potesse prospettare il suo futuro da
Jay Gatsby, il presente era quello di uno squattrinato giovanotto
senza un passato, e in qualunque momento l’invisibile manto
dell’uniforme poteva scivolargli dalle spalle. Cercò quindi di mettere
a frutto il suo tempo. Prese quello che poteva, voracemente e senza
scrupoli – e alla fine prese Daisy, una notte silenziosa di ottobre, la
prese perché non aveva il diritto di sfiorarla nemmeno con un dito.
Avrebbe potuto disprezzarsi, perché indubbiamente l’aveva presa
professando il falso. Non dico che si fosse giocato la carta dei suoi
milioni fantasma, ma aveva intenzionalmente comunicato a Daisy un
senso di sicurezza; le aveva lasciato credere di essere una persona
al suo stesso livello sociale, e di essere perfettamente in grado di
prendersi cura di lei. Di fatto, non ne aveva la possibilità – non aveva
una famiglia agiata alle spalle ed era soggetto ai capricci di un
governo impersonale che lo avrebbe potuto spedire ovunque nel
mondo.
Ma non si disprezzò e le cose non andarono come aveva
immaginato. Probabilmente nelle sue intenzioni c’era di prendere
quel che poteva e andarsene – ma scoprì invece di essersi
imbarcato in una sorta di ricerca del Graal. Sapeva che Daisy era
straordinaria, ma non sapeva ancora quanto potesse essere
straordinaria una ragazza “per bene”. Daisy svanì nella sua casa da
ricchi, nella sua vita ricca e piena, lasciando a Gatsby… nulla. Solo
la sensazione di essere sposato con lei.
Quando si rividero due giorni dopo, era a Gatsby che mancava il
fiato, era lui che si sentiva in qualche modo tradito. Il portico di Daisy
splendeva del dispendioso lusso della luce delle stelle; il divanetto di
vimini emise un raffinato scricchiolio quando lei si voltò a guardarlo e
lui le baciò la bocca curiosa e adorabile. Daisy aveva il raffreddore,
che rendeva la sua voce più roca e fascinosa che mai, e Gatsby fu
travolto dalla giovinezza e dal mistero che la ricchezza imprigiona e
conserva, dalla freschezza di tutti quegli abiti e da Daisy, lucente
come l’argento, incolume e fiera al di sopra delle accaldate fatiche
dei poveri.

«Non posso dirti quanto rimasi sorpreso di scoprire che la amavo,


campione. Ci fu un momento in cui arrivai perfino a sperare che mi
scaricasse, ma non lo fece, perché anche lei era innamorata di me.
Era convinta che io sapessi molte cose perché sapevo cose diverse
da quelle che sapeva lei… Fatto sta che mi trovai più innamorato
ogni minuto che passava, allontanato dalle mie ambizioni, finché
tutto a un tratto mi resi conto che non mi importava niente. A che pro
fare grandi cose, se provavo più piacere nel raccontarle quello che
volevo fare?»
L’ultimo pomeriggio prima di espatriare, Gatsby sedette a lungo in
silenzio con Daisy tra le braccia. Era una fredda giornata autunnale,
il fuoco era acceso e le gote di lei erano arrossate. Di tanto in tanto
Daisy si muoveva e lui aggiustava un poco il braccio. A un certo
puntò le baciò i lucenti capelli neri. Il pomeriggio aveva offerto a
entrambi un po’ di tranquillità, come per donare loro un profondo
ricordo da conservare nel lungo distacco che si annunciava per il
giorno seguente. Non erano mai stati così vicini nel loro mese di
amore, né avevano comunicato più profondamente di quando lei
sfiorò con labbra silenziose la spalla della sua giacca o lui le toccò
gentilmente i polpastrelli, come se dormisse.

In guerra Gatsby si distinse per l’eccellenza. Era capitano prima di


partire per il fronte e dopo la battaglia dell’Argonne ottenne il grado
di maggiore e il comando dei mitraglieri della divisione. Dopo
l’armistizio tentò affannosamente di tornare a casa, ma per via di
qualche complicazione o malinteso finì invece a Oxford. A quel
punto cominciò a preoccuparsi – nelle lettere di Daisy c’era un tono
di ansiosa disperazione, non riusciva a capire perché lui non potesse
tornare. Daisy avvertiva la pressione del mondo esterno e voleva
vederlo e sentirlo accanto e venire rassicurata che in fin dei conti
stava facendo la scelta giusta.
Perché Daisy era giovane e il suo mondo artefatto profumava di
orchidee e di piacevole e allegro snobismo e orchestre che
dettavano il ritmo dell’anno, compendiando in nuove canzoni la
tristezza e le malie della vita. Per tutta la notte i sassofoni
eseguivano al meglio il disperato commento del Beale Street
Blues47, mentre cento paia di scarpette d’argento e oro strusciavano
nella polvere lucente. All’ora grigia del tè c’erano sempre sale che
pulsavano incessantemente di questa leggera e dolce febbre,
mentre volti nuovi svolazzavano qua e là come petali di rosa sospinti
per la pista dal soffio affranto delle trombe.
In questo universo crepuscolare, Daisy riprese a seguire la
stagione; d’un tratto aveva nuovamente una mezza dozzina di
appuntamenti galanti al giorno con una mezza dozzina di uomini e
crollava nel sonno all’alba, con le perline e lo chiffon di un vestito da
sera ingarbugliati fra orchidee moribonde sul pavimento ai piedi del
letto. E in tutto quel tempo dentro di lei c’era qualcosa che esigeva
una decisione. Voleva dare forma alla sua vita, e subito – e la
decisione necessitava di una qualche forza, la forza dell’amore, del
denaro, o di un’indiscutibile praticità.
Tale forza si manifestò a metà primavera con l’arrivo di Tom
Buchanan. Nella sua persona e nella sua posizione c’era una sana
robustezza e Daisy ne fu lusingata. Ci fu senz’altro un certo conflitto,
e anche un certo sollievo. La lettera giunse a Gatsby mentre era
ancora a Oxford.

Albeggiava a Long Island e ci mettemmo ad aprire le rimanenti


finestre al piano terra, riempiendo la casa di una luce che virava al
grigio, che virava all’oro. L’ombra di un albero si abbatté sulla
rugiada e uccelli fantasma cominciarono a cantare tra le foglie blu.
C’era un lento e piacevole movimento nell’aria, a malapena definibile
vento, che prometteva una bella giornata fresca.
«Non credo che lo abbia mai amato». Gatsby si voltò da una
finestra e mi guardò con aria di sfida. «Non dimenticare, campione,
quanto era agitata questo pomeriggio. Lui le ha detto quelle cose in
un modo che l’ha spaventata – in un modo che mi ha fatto sembrare
un volgare truffatore. E il risultato è che lei quasi non sapeva quello
che diceva».
Si sedette incupito.
«Sì, può averlo amato giusto un minuto, appena sposati – ma
sempre amando me molto di più, capisci?»
D’improvviso se ne uscì con una bizzarra osservazione: «A ogni
modo» disse, «era soltanto una questione personale».
Che altro se ne poteva dedurre, se non sospettare che l’intensità
della sua concezione di quella relazione fosse fuori misura?
Tornò dalla Francia mentre Tom e Daisy erano ancora in viaggio
di nozze, e fece uno sconsolato quanto irresistibile viaggio a
Louisville con quel che gli rimaneva della paga dell’esercito. Vi restò
tre settimane, camminando per le strade dove i loro passi erano
riecheggiati all’unisono nella notte di novembre e tornando nei posti
fuori mano dov’erano andati con la spider bianca di Daisy. E come la
sua casa gli era sempre sembrata più misteriosa e allegra delle altre,
così l’idea che si fece di quella città, per quanto lei non ci fosse, era
permeata di una malinconica bellezza.
Ripartì convinto che se avesse cercato meglio forse l’avrebbe
potuta trovare – convinto di essersela lasciata alle spalle. Nel treno
diurno – non aveva più un centesimo – faceva caldo. Uscì all’aperto
e sedette su uno strapuntino: la stazione scivolò via e davanti agli
occhi gli sfilò il retro di edifici sconosciuti. Poi in mezzo ai campi
primaverili per un minuto il treno fu affiancato da un carrello
ferroviario giallo sul quale c’era gente che forse aveva visto il magico
incarnato candido del viso di lei per strada, per caso.
I binari curvarono e si allontanarono dal sole che, calando,
sembrava elargire la sua benedizione sulla città in dissolvenza,
quella in cui lei aveva respirato. Gatsby allungò la mano, disperato,
come per afferrare un alito di quell’aria e conservare un frammento
del luogo che lei gli aveva reso amabile. Ma ormai tutto scorreva
troppo veloce, diventava sfocato davanti ai suoi occhi, e Gatsby
prese atto di avere perso per sempre quella parte, la più fresca e la
più bella.
Erano le nove quando finimmo di fare colazione e uscimmo sul
portico. Quella notte aveva segnato una netta cesura nel clima e
c’era nell’aria sapore di autunno. Il giardiniere, l’ultimo rimasto dei
precedenti domestici di Gatsby, ci raggiunse ai piedi dei gradini.
«Signor Gatsby, oggi svuoto la piscina. Presto cominceranno a
cadere le foglie e danno sempre problemi con le tubature».
«Oggi no» rispose Gatsby. Si rivolse a me con aria di scusa. «Lo
sai, campione, che in tutta l’estate non ho fatto neanche un bagno in
piscina?»
Mi alzai guardando l’orologio.
«Il mio treno parte fra dodici minuti».
Non volevo andare in città. Non ero in condizione di lavorare
decentemente, ma più che altro non volevo lasciare Gatsby da solo.
Persi quel treno e il successivo, prima di riuscire ad andarmene.
«Ti chiamo» dissi infine.
«Sì, campione».
«Ti chiamo verso mezzogiorno».
Scendemmo lentamente i gradini.
«Suppongo che anche Daisy chiamerà». Mi guardò ansioso,
come sperando in una conferma.
«Suppongo di sì».
«Va bene. Ciao».
Ci stringemmo la mano e io mi incamminai. Poco prima di arrivare
alla siepe mi ricordai una cosa e mi voltai.
«È gente marcia» gridai dal prato. «Tu vali quanto tutto il loro
dannato gruppo messo insieme».
Sono sempre stato contento di averglielo detto. È l’unico
complimento che gli abbia mai fatto, perché lo avevo sempre
disapprovato, dall’inizio alla fine. Dapprima annuì, educatamente, poi
la sua faccia si illuminò di quel sorriso raggiante e comprensivo,
come se su questo fossimo sempre stati allegramente d’accordo. Il
rosa sgargiante di quella mascherata di vestito era un’accesa
macchia di colore contro il bianco dei gradini e ripensai alla sera in
cui, tre mesi prima, ero stato per la prima volta nella sua casa avita.
Il prato e il viale erano pieni delle facce di gente che spettegolava
sulla sua presunta corruzione – e lui era lì, in piedi sui gradini, a
nascondere il suo sogno incorruttibile mentre li salutava con un
cenno della mano.
Lo ringraziai per l’ospitalità. Di questo lo ringraziavamo sempre
tutti, sia io che gli altri.
«Ciao» gridai. «Mi è piaciuta la colazione, Gatsby».

In città cercai per un po’ di trascrivere le quotazioni di una


interminabile quantità di titoli, poi mi addormentai sulla sedia
girevole. Appena prima di mezzogiorno mi svegliò il telefono e
sobbalzai con il sudore che mi imperlava la fronte. Era Jordan Baker;
era lei a chiamarmi, spesso a quell’ora, perché l’imprevedibilità dei
suoi movimenti tra hotel, club e case private la rendeva difficile da
trovare. Di solito la sua voce arrivava dal filo come una sferzata di
freschezza, come se dalla finestra dell’ufficio fosse entrata
veleggiando una piota di un verde campo da golf, ma quel giorno
sembrava aspra e arida.
«Sono andata via da casa di Daisy» disse. «Sono a Hempstead48
e questo pomeriggio vado a Southampton49».
Probabilmente quella di andarsene da casa di Daisy era stata
un’opportuna delicatezza, ma il fatto mi indispose e la frase
successiva di Jordan mi fece arrabbiare ancora di più.
«Non sei stato carino con me ieri sera».
«Che importanza poteva avere in quella situazione?»
Un momento di silenzio. Poi: «A ogni modo, voglio vederti».
«Anch’io voglio vederti».
«Se invece di andare a Southampton venissi in città oggi
pomeriggio?»
«No, oggi pomeriggio direi di no».
«Benissimo».
«Oggi pomeriggio è impossibile. Diverse…»
Continuammo così per un po’ e poi di colpo smettemmo di
parlare. Non so chi dei due riattaccò bruscamente il ricevitore, ma so
che non mi importava. Quel pomeriggio non avrei potuto parlare con
Jordan davanti a un tè, fosse pure stata l’ultima occasione al mondo
di parlarle.
Pochi minuti dopo chiamai a casa di Gatsby, ma la linea era
occupata. Ritentai quattro volte; alla fine la centralinista esasperata
mi informò che la linea era tenuta disponibile per una chiamata
interurbana da Detroit. Presi l’orario dei treni e disegnai un cerchietto
intorno a quello delle tre e cinquanta. Poi tornai ad appoggiarmi allo
schienale e cercai di riflettere. Era appena mezzogiorno.
Quella mattina, quando il treno era passato accanto ai cumuli di
cenere, mi ero intenzionalmente spostato a sedere dall’altro lato
della carrozza. Immaginavo che ci sarebbe stata tutto il giorno una
folla di curiosi, con ragazzini in cerca di macchie scure nella polvere
e qualche garrulo individuo a raccontare e raccontare ancora cos’era
successo fino a che la storia non fosse divenuta sempre meno reale
persino per lui, al punto da non poterla raccontare più, e il tragico
coronamento della vita di Myrtle Wilson fosse dimenticato. Ma ora
voglio tornare un po’ indietro e raccontare cos’era successo
all’officina quando ce n’eravamo andati la sera prima.
Avevano avuto difficoltà a rintracciare la sorella, Catherine. Quella
sera doveva aver infranto la regola di non bere, perché quando
arrivò era rimbambita dall’alcol e non capiva che l’ambulanza era già
andata a Flushing. Quando finalmente riuscirono a spiegarglielo
svenne subito, come se la parte intollerabile della faccenda fosse
quella. Qualcuno, gentile o curioso, la fece salire in macchina e la
accompagnò a vegliare la salma della sorella.
Ben oltre la mezzanotte una folla mutevole continuò a lambire
l’ingresso dell’autorimessa, mentre all’interno George Wilson si
dondolava avanti e indietro sul divano. Per un po’ la porta dell’ufficio
restò aperta e nessuno, entrando nell’officina, resisteva alla
tentazione di buttare un’occhiata dentro. Poi qualcuno disse che era
una vergogna e chiuse la porta. Con Wilson c’erano Michaelis e
diversi altri uomini – dapprima quattro o cinque, poi due o tre. Più
tardi Michaelis dovette chiedere all’ultimo estraneo di aspettare un
altro quarto d’ora, mentre lui andava a casa sua a preparare del
caffè. Dopodiché restò da solo con Wilson fino all’alba.
Intorno alle tre ci fu un cambiamento nei borbottii incoerenti di
Wilson – si calmò e cominciò a parlare della macchina gialla.
Annunciò che sapeva come fare a scoprire a chi apparteneva la
macchina gialla, e poi gli scappò detto che un paio di mesi prima sua
moglie era tornata dalla città con il volto tumefatto e il naso gonfio.

Ma non appena si rese conto di quel che aveva detto, sussultò e


riprese a gemere: «Oh, mio Dio!» con la sua voce lamentosa.
Michaelis fece un goffo tentativo di distrarlo.
«Da quanti anni eravate sposati, George? Avanti, su, cerca di
stare seduto tranquillo un minuto e rispondi alla mia domanda. Da
quanti anni eravate sposati?»
«Dodici».
«Avete mai avuto figli? Andiamo, George, stai fermo – ti ho fatto
una domanda. Hai mai avuto figli?»
I coleotteri continuavano a sbattere la loro scorza dura e scura
contro la fioca lampada, e ogni qual volta Michaelis udiva un veicolo
sfrecciare lungo la strada gli pareva di udire il rumore della macchina
che poche ore prima non si era fermata. Non aveva voglia di andare
nell’officina perché il tavolo era macchiato nel punto dov’era stato
adagiato il corpo, per cui continuava a muoversi a disagio per l’ufficio
– prima che facesse mattino, ne conosceva ogni singolo oggetto – e
di tanto in tanto sedeva accanto a Wilson cercando di
tranquillizzarlo.
«C’è una chiesa dove vai qualche volta, George? Anche se
magari non ci vai da molto tempo? Magari potrei chiamare, e far
venire un prete a parlarti…»
«Non vado in chiesa».
«Una chiesa ci vuole, George, per i momenti come questi. Sarai
andato in chiesa, almeno una volta. Non ti sei sposato in chiesa?
Ascolta, George, ascoltami. Non ti sei sposato in chiesa?»
«È passato tanto tempo».
Lo sforzo di parlare interruppe il ritmo del dondolio e per un
momento Wilson restò zitto. Dopodiché nei suoi occhi appannati
tornò lo stesso sguardo mezzo cosciente, mezzo sconvolto.
«Guarda dentro quel cassetto» disse, indicando la scrivania.
«Quale cassetto?»
«Quel cassetto, quello là».
Michaelis aprì il cassetto più a portata di mano. Non c’era nulla,
salvo un piccolo guinzaglio per cani, costoso, in pelle, rifinito in
argento. Era palesemente nuovo.
«Questo?» domandò, tenendolo alzato.
Wilson lo fissò e annuì.
«L’ho trovato ieri pomeriggio. Lei ha cercato di darmi spiegazioni,
ma io ho capito che c’era qualcosa di strano».
«Vuoi dire che lo aveva comprato tua moglie?»
«Lo teneva sul comò avvolto in carta velina».
Michaelis non ci vedeva niente di strano e fornì a Wilson una
dozzina di ragioni per le quali sua moglie poteva avere acquistato un
guinzaglio. Ma presumibilmente Wilson aveva già sentito alcune di
quelle spiegazioni da Myrtle, perché riprese a dire: «Oh, mio Dio!» in
un sussurro, e il suo consolatore lasciò più di una spiegazione in
sospeso.
«E poi l’ha ammazzata» disse Wilson. La sua bocca si spalancò
di botto.
«Chi?»
«So come fare a scoprirlo».
«Sei morboso, George» disse il suo amico. «Questo è stato un
duro colpo per te e non sai quello che dici. È meglio che cerchi di
startene seduto tranquillo fino al mattino».
«L’ha assassinata».
«È stato un incidente, George».
Wilson scosse la testa. Strizzò gli occhi e aprì leggermente la
bocca, emettendo uno spettrale “Ehm!”
«Sono sicuro» proclamò con convinzione. «Io sono uno di quei
creduloni che non pensano male di nessuno, ma quando una cosa la
so, la so. È stato quell’uomo nella macchina. Lei è corsa fuori per
parlargli, ma lui non si è fermato».
Anche Michaelis aveva assistito alla scena, ma non le aveva
attribuito alcun significato speciale. Aveva pensato che la signora
Wilson stesse scappando dal marito, non che cercasse di fermare
una macchina in particolare.
«Ma come le è venuto?»
«È un mistero, lei» disse Wilson per tutta risposta. «Ahhh…»
Riprese a dondolare e Michaelis restò lì in piedi a torcersi il
guinzaglio tra le mani.
«Non hai un amico che posso chiamare al telefono, George?»
Era una vana speranza. Michaelis era quasi certo che Wilson non
avesse amici: non bastava neanche alla moglie. Dopo un po’ si
rallegrò nel notare un cambiamento nella stanza, un fremito azzurro
alla finestra, e realizzò che l’alba non era lontana. Verso le cinque
fuori era abbastanza azzurro da poter spegnere la luce.
Gli occhi vitrei di Wilson si rivolsero ai mucchi di cenere, dove
piccole nubi grigiastre prendevano forme bizzarre sospinte qua e là
dal lieve vento dell’alba.
«Le ho parlato» mormorò, dopo un lungo silenzio. «Le ho detto
che poteva fare fesso me, ma non poteva fare fesso Dio. L’ho
portata alla finestra…» con uno sforzo si alzò, andò alla finestra sul
retro e vi schiacciò il viso contro «…e le ho detto: “Dio lo sa quello
che hai fatto, tutto quello che vai facendo. A me puoi farmi fesso, ma
a Dio no!”».
In piedi dietro di lui, Michaelis rimase scioccato nel vedere che
stava guardando gli occhi del dottor T.J. Eckleburg, appena emersi,
sbiaditi e giganteschi, dalla notte che sfumava.
«Dio vede tutto» ripeté Wilson.
«È un cartellone pubblicitario» gli garantì Michaelis. Poi qualcosa
lo spinse a voltarsi e guardarsi indietro, nella stanza. Ma Wilson
rimase a lungo con il volto vicino al vetro della finestra, ad annuire
nell’incerto chiarore dell’alba.

Alle sei Michaelis, sfinito, rese grazie nel sentire il rumore di una
macchina che si fermava fuori. Era uno di quelli che avevano
vegliato con lui la sera prima e che aveva promesso di tornare, così
preparò la colazione per tre e la spartirono in due. Wilson era più
tranquillo e Michaelis andò a casa a dormire; quando dopo quattro
ore si svegliò e corse all’officina, Wilson era sparito.
I suoi movimenti – sempre a piedi – vennero in seguito ricostruiti
fino a Port Roosevelt e da lì a Gad’s Hill50, dove aveva comperato
un panino, senza mangiarlo, e una tazza di caffè. Doveva essere
stanco e avere camminato lentamente, perché era giunto a Gad’s
Hill non prima di mezzogiorno. Fino a qui non era stato difficile
risalire a come avesse impiegato il tempo – c’erano ragazzi che
avevano visto un uomo “che si comportava come un pazzo”,
automobilisti ai quali aveva lanciato strane occhiate dal ciglio della
strada. Poi era scomparso per tre ore. La polizia, sulla base di quello
che aveva detto a Michaelis, e cioè che “sapeva come fare a
scoprirlo”, ipotizzò che avesse passato quel tempo andando da
un’officina all’altra a chiedere di una macchina gialla. D’altro canto,
nessun meccanico si presentò a dire di averlo visto – e forse Wilson
aveva un modo più facile e sicuro per scoprire ciò che gli
interessava. Alle due e mezzo era a West Egg, dove chiese
indicazioni per la casa di Gatsby. Quindi a quel punto era a
conoscenza del nome di Gatsby.

Alle due Gatsby indossò il costume da bagno e lasciò detto al


maggiordomo che se telefonava qualcuno glielo andassero a riferire
in piscina. Passò al garage a prendere un materassino gonfiabile
con cui i suoi ospiti si erano divertiti durante l’estate, e l’autista lo
aiutò a gonfiarlo. Poi diede istruzioni che la decappottabile non
venisse portata fuori per nessun motivo – e questo era strano,
perché il parafango anteriore destro andava riparato.
Gatsby si mise in spalla il materassino e si avviò verso la piscina.
A un certo punto si fermò per sistemarlo meglio e l’autista gli chiese
se avesse bisogno di aiuto, ma lui scosse la testa e un momento
dopo scomparve tra gli alberi che viravano al giallo.
Non arrivò nessun messaggio telefonico, ma il maggiordomo
rinunciò alla pennichella e attese fino alle quattro del pomeriggio –
quando ormai non c’era più nessuno a cui recapitarlo, se anche
fosse arrivato. Nemmeno Gatsby, secondo me, credeva che sarebbe
arrivato, e forse non gli importava più. Se così era, avrà pensato di
avere perso irrimediabilmente il vecchio mondo con il suo calore e di
avere pagato caro il fatto di aver vissuto troppo a lungo con un unico
sogno. Avrà guardato in alto, tra foglie spaventose, un cielo che gli
sarà sembrato estraneo e avrà provato un brivido nello scoprire che
cosa grottesca è una rosa e quanto è cruda la luce del sole sull’erba
appena creata. Un mondo nuovo, materiale senza essere reale, in
cui poveri fantasmi che respirano sogni come fossero aria si
aggiravano a caso… come quell’indistinta sagoma cinerea che
avanzava silenziosa tra gli alberi amorfi verso di lui.
L’autista – uno dei protetti di Wolfshiem – udì gli spari e in seguito
seppe dire soltanto che non ci aveva dato troppa importanza. Io
dalla stazione andai direttamente in macchina fino a casa di Gatsby
e la mia corsa ansiosa su per i gradini dell’ingresso fu la prima cosa
che mise in allarme qualcuno. Ma sono fermamente convinto che a
quel punto lo sapessero già. Quasi senza dire una parola, ci
precipitammo in quattro – autista, maggiordomo, giardiniere e io –
alla piscina.
C’era un lieve, appena percettibile, movimento dell’acqua che
affluiva fresca da una parte e defluiva verso lo scarico dall’altra, e il
materassino con il suo carico veniva sospinto con piccole
increspature che non erano neanche un’ombra di onde. Una folata di
vento che a malapena corrugò la superficie dell’acqua fu però
sufficiente a disturbare l’accidentale traiettoria del materassino e del
suo accidentale fardello. Il contatto con un mucchio di foglie lo fece
ruotare lentamente, tracciando, come l’asticella di un compasso, un
sottile cerchio rosso nell’acqua.
Fu solo quando ci avviammo verso la casa con il corpo di Gatsby
che il giardiniere si accorse del corpo di Wilson, un po’ più in là
sull’erba, a completare l’olocausto.
9.

A due anni di distanza ricordo il resto di quel giorno, e quella


notte e il giorno successivo, soltanto come un interminabile trantran
di polizia e fotografi e giornalisti che entravano e uscivano dalla
porta principale di Gatsby. Davanti al cancello della villa una corda
tesa e un poliziotto tenevano fuori i curiosi, ma i ragazzini scoprirono
ben presto che potevano passare dal mio giardino e ce n’erano
sempre un po’ radunati a bocca spalancata nei pressi della piscina.
Qualcuno con piglio sicuro, forse un detective, chinandosi sul corpo
di Wilson quel pomeriggio usò il termine “squilibrato”, e l’avventizia
autorevolezza della sua voce dettò il tono degli articoli sui giornali
del mattino seguente.
La maggior parte di quegli articoli erano un incubo – grotteschi,
indiziari, avidi e pieni di falsità. Quando la testimonianza di Michaelis
nell’inchiesta portò alla luce i sospetti di Wilson sulla moglie, pensai
che nel giro di poco tempo tutta la storia sarebbe stata servita sotto
forma di una piccante pasquinata – ma Catherine, che avrebbe
potuto dire qualunque cosa, non disse una parola. Mostrò una
sorprendente dose di carattere – si rivolse al coroner con sguardo
fermo da sotto le sopracciglia ridisegnate e giurò che sua sorella non
aveva mai visto Gatsby, che sua sorella era del tutto felice con il
marito e che sua sorella non aveva mai fatto niente di male. Se ne
convinse, bagnando il fazzoletto di lacrime, come se la sola idea le
fosse insopportabile. Così Wilson venne ridimensionato a “uomo
sconvolto dal dolore” in maniera che il caso si configurasse nella
forma più semplice. E tale rimase.
Ma tutta questa parte della faccenda sembrava remota e
inessenziale. Mi ritrovai da solo dalla parte di Gatsby. Dal momento
in cui comunicai per telefono la notizia della catastrofe al villaggio di
West Egg, si fece riferimento a me per qualunque congettura su di
lui e per qualunque questione pratica. All’inizio rimasi sorpreso e
confuso; poi, con il passare delle ore, mentre lui giaceva in casa sua
senza muoversi o respirare o parlare, cominciai a sentirmi
responsabile, perché non c’era nessuno che fosse interessato – che
provasse cioè quell’intenso interesse personale a cui tutti alla fine
hanno un vago diritto.
Chiamai Daisy mezz’ora dopo il ritrovamento, la chiamai
istintivamente, senza esitazione. Ma lei e Tom erano partiti nel primo
pomeriggio, con tanto di bagagli.
«Non hanno lasciato un recapito?»
«No».
«Hanno detto quando tornavano?»
«No».
«Avete idea di dove siano? Come posso fare a contattarli?»
«Non so. Non saprei dire».
Volevo portargli qualcuno. Volevo andare nella sua camera e
rassicurarlo: «Troverò qualcuno, Gatsby. Non ti preoccupare. Fidati
di me e ti troverò qualcuno…»
Il nome di Meyer Wolfshiem non era sull’elenco telefonico. Il
maggiordomo mi fornì l’indirizzo del suo ufficio a Broadway e
chiamai il servizio informazioni, ma quando ottenni il numero erano
passate le cinque da un pezzo e nessuno rispose.
«Riprovate, per cortesia».
«Ho già provato tre volte».
«È molto importante».
«Mi dispiace. Temo non ci sia nessuno».
Tornai in salotto e per un attimo immaginai che le persone che
d’un tratto lo affollavano in veste ufficiale fossero ospiti occasionali.
Ma anche se, quando scostavano il lenzuolo, guardavano Gatsby
con occhi allibiti, mi pareva di sentire le sue proteste: “Insomma,
campione, devi trovarmi qualcuno. Devi sforzarti. Non posso
affrontare questa cosa da solo”.
Qualcuno cominciò a farmi delle domande, ma mi sganciai e
andai di sopra a frugare alla svelta nei cassetti dello scrittoio che non
erano chiusi a chiave – non mi aveva mai detto esplicitamente se i
suoi genitori fossero morti o meno. Ma non c’era niente – solo la
fotografia di Dan Cody, un pegno di violenza rimossa, che guardava
dall’alto della parete.
Il giorno seguente mandai il maggiordomo a New York con una
lettera per Wolfshiem in cui chiedevo informazioni e lo invitavo a
presentarsi con il primo treno. Mentre lo scrivevo, mi parve
superfluo. Ero sicuro che appena letti i giornali si sarebbe
precipitato, così com’ero sicuro che sarebbe arrivato un telegramma
da parte di Daisy prima di mezzogiorno – ma non arrivarono né il
telegramma né Wolfshiem; non arrivò nessuno tranne ulteriori
poliziotti e fotografi e cronisti. Quando il maggiordomo tornò con la
risposta di Wolfshiem, cominciai a provare un senso di sfida, di
sprezzante solidarietà fra me e Gatsby contro tutti loro.

Caro signor Carraway. È stato uno dei più terribili shock della mia
vita e a malapena riesco a credere che sia vero. Un gesto folle come
quello compiuto da quest’uomo deve farci riflettere tutti. Ora non
posso venire perché sono occupato in affari molto importanti e non
posso restare invischiato in questa faccenda proprio adesso. Se c’è
qualcosa che posso fare tra qualche tempo fatemelo sapere tramite
Edgar. Dopo aver appreso una notizia del genere non so più dove
sono e mi sento messo al tappeto e k.o.
Vostro
Meyer Wolfshiem

E poi, in frettolosa aggiunta:

Comunicatemi del funerale ecc. non conosco per niente la famiglia.

Quando nel pomeriggio squillò il telefono e venne annunciata


un’interurbana da Chicago, pensai che si trattasse finalmente di
Daisy. Ma dal ricevitore arrivò una voce maschile, sottile e distante.
«Sono Slagle…»
«Sì?» Quel nome non mi diceva nulla.
«Brutta notizia, eh? Ricevuto il telegramma?»
«Non è arrivato nessun telegramma».
«Il giovane Parke è nei guai» disse velocemente. «L’hanno
beccato che passava i titoli fuori Borsa51. Avevano ricevuto una
circolare da New York con i numeri solo cinque minuti prima. Di’, tu
ne sai qualcosa? Non c’è mai da fidarsi in queste città di burini…»
«Pronto?» mi affrettai a interromperlo. «Sentite, io non sono il
signor Gatsby. Il signor Gatsby è morto».
Vi fu un lungo silenzio dall’altra parte, seguito da
un’esclamazione… poi un rapido bercio con la caduta della linea.

Mi pare che fossero passati tre giorni quando da una città del
Minnesota arrivò un telegramma firmato Henry C. Gatz. Diceva solo
che il mittente stava per partire e di aspettare il suo arrivo per il
funerale.
Era il padre di Gatsby, un vecchio solenne, disarmato e
sgomento, infagottato in un lungo doppiopetto da due soldi in quella
calda giornata di settembre. Gli lacrimavano continuamente gli occhi
per l’emozione e quando lo liberai da borsa e ombrello cominciò a
tirarsi la rada barba grigia così incessantemente che non mi fu facile
sfilargli il cappotto di dosso. Stava per collassare, così lo condussi
nella stanza della musica e lo feci stare seduto mentre davo ordini
perché gli portassero qualcosa da mangiare. Ma non volle mangiare
e nella sua mano tremante il latte schizzò fuori dal bicchiere.
«L’ho visto sul giornale di Chicago» disse. «Sul giornale di
Chicago c’era tutto. Sono partito subito».
«Non sapevo come contattarvi».
I suoi occhi si muovevano senza sosta per la stanza, senza
vedere nulla.
«È stato uno squilibrato» disse. «Doveva per forza essere
squilibrato».
«Volete del caffè?» lo sollecitai.
«Non voglio niente. Per ora sto bene così, signor…»
«Carraway».
«D’accordo, per ora sto bene così. Dove hanno messo Jimmy?»
Lo portai nel salotto, dov’era esposta la salma di suo figlio, e lo
lasciai solo. Un gruppo di ragazzini erano saliti su per i gradini e
sbirciavano nell’atrio; quando dissi loro chi era appena arrivato,
anche se controvoglia, se ne andarono.
Dopo un po’ il signor Gatz aprì la porta e uscì, le labbra
socchiuse, il volto leggermente arrossato, gli occhi da cui
scendevano lacrime isolate e tardive. Alla sua età la morte non ha
più l’effetto di una spaventosa sorpresa e quando si guardò intorno
per la prima volta e vide la pompa e lo splendore dell’atrio e delle
grandi stanze che da lì si aprivano in altre stanze, il suo dolore
cominciò a mescolarsi a un reverenziale orgoglio. Lo accompagnai
in una camera da letto al piano di sopra; mentre si toglieva la giacca
e il panciotto gli dissi che era stato tutto rimandato in attesa del suo
arrivo.
«Non sapevo quali fossero le vostre volontà, signor Gatsby…»
«Gatz».
«…signor Gatz. Ho pensato che forse volevate portare il corpo
nell’Ovest».
Scosse la testa.
«A Jimmy è sempre piaciuto di più l’Est. Ha raggiunto la sua
posizione all’Est. Voi eravate amico di mio figlio, signor…?»
«Molto amico».
«Aveva un grande futuro davanti, sapete. Era ancora un
giovanotto, ma qua dentro teneva un cervellone».
Si toccò la testa enfaticamente e io annuii.
«Se fosse vissuto sarebbe diventato un grand’uomo. Uno come
James J. Hill52. Avrebbe contribuito allo sviluppo della nazione».
«È vero» dissi a disagio.
Armeggiò con il copriletto ricamato nel tentativo di toglierlo, si
distese tutto rigido e piombò nel sonno.
Quella notte telefonò una persona palesemente impaurita, che
prima di dire il suo nome volle sapere chi ero.
«Carraway» dissi.
«Ah…» sembrò sollevato. «Sono Klipspringer».
Anch’io mi sentii sollevato alla prospettiva di avere un altro amico
alla tomba di Gatsby. Non volevo che uscisse sui giornali e attirasse
una folla di curiosi, quindi stavo chiamando io delle persone scelte.
Difficili da trovare.
«Il servizio funebre è domani» dissi. «Qui a casa, alle tre. Mi
auguro che lo comunicherete a eventuali interessati».
«Oh, certo» tagliò corto lui. «Ovviamente è molto probabile che io
non veda nessuno, ma nel caso…»
Il suo tono mi insospettì.
«Naturalmente voi ci sarete».
«Be’, ci proverò. Il motivo per cui ho chiamato è…»
«Aspettate un momento» lo interruppi. «Ditemi che verrete».
«Be’, il punto è che… in verità sono da certe persone qua a
Greenwich53 e si aspettano che domani io stia con loro. Hanno in
programma una specie di picnic, o qualcosa del genere. Ovviamente
farò del mio meglio per venire via».
Mi scappò un incontrollato “ah” che lui evidentemente sentì
perché proseguì, teso: «Ho chiamato per un paio di scarpe che ho
lasciato lì. Mi domandavo se non fosse troppo disturbo farmele
mandare dal maggiordomo. Vedete, sono scarpe da tennis e non so
farne a meno. Il mio indirizzo è presso B.F…»
Non sentii il resto del nome perché riattaccai.
Da lì in poi cominciai a sentirmi umiliato per Gatsby – uno dei
gentiluomini a cui telefonai lasciò capire che aveva avuto quello che
si meritava. Era colpa mia: si trattava di uno di quelli che, facendosi
coraggio con l’alcol pagato da Gatsby, lo sfottevano più crudamente.
Avrei fatto meglio a non chiamarlo.
La mattina del funerale andai a New York da Meyer Wolfshiem;
sembrava l’unico modo per contattarlo. La porta che aprii su
consiglio del ragazzo dell’ascensore recava la targa: “The Swastika
Holding Company”54. In un primo momento mi parve che dentro non
ci fosse nessuno. Ma dopo che ebbi gridato varie volte invano:
«Permesso?», dietro un tramezzo scoppiò una discussione e di lì a
poco una graziosa ebrea comparve su una porta interna e mi scrutò
con occhi scuri e ostili.
«Non c’è nessuno» disse. «Il signor Wolfshiem è andato a
Chicago».
La prima metà della risposta era palesemente falsa perché
qualcuno dall’interno aveva cominciato a fischiettare The Rosary,
stonando.
«Per cortesia, ditegli che il signor Carraway vuole vederlo».
«Non posso certo farlo tornare da Chicago, vi pare?»
A quel punto una voce al di là della porta, inconfondibilmente
quella di Wolfshiem, chiamò: «Stella!»
«Lasciate il vostro nome sul tavolo» disse in fretta lei. «Quando
ritorna riferirò».
«Lo so che è qui».
La donna fece un passo verso di me e cominciò a strusciarsi le
mani sui fianchi con aria indignata.
«Voi giovanotti credete di poter entrare di prepotenza qui dentro a
qualsiasi ora» rimbrottò. «Ne siamo davvero stufi. Se dico che è a
Chicago, è a Chicago».
Feci il nome di Gatsby.
«Ehm… oh!» Mi scrutò di nuovo. «Potete soltanto… potete
ripetermi il vostro nome?»
Sparì. Un attimo dopo Meyer Wolfshiem si stagliò solenne sulla
soglia, con entrambe le mani protese. Mi portò nel suo ufficio,
osservando con voce riverente che era un triste momento per tutti
noi, e mi offrì un sigaro.
«Ricordo ancora la prima volta che lo incontrai» disse. «Un
giovane maggiore appena congedato dall’esercito e coperto di
medaglie ricevute in guerra. Era così al verde che continuava a
indossare la divisa perché non poteva comprarsi degli abiti civili. Lo
conobbi quando venne alla Winebrenner’s poolroom55 sulla
Quarantatreesima in cerca di lavoro. Non mangiava da due giorni.
“Vieni a farti un boccone con me” gli dissi. In mezz’ora si mangiò
oltre quattro dollari di roba».
«Lo aiutaste voi a mettersi in affari?» mi informai.
«Se lo aiutai? Lo creai!»
«Ah».
«Lo tirai su dal nulla, direttamente dalla fogna. Vidi subito la sua
aria elegante, da giovane gentiluomo, e quando mi disse che era
stato a Occheseford capii che mi sarebbe stato utile. Lo feci entrare
nell’American Legion, dove lo tennero in alta considerazione. Fece
subito un lavoretto per un mio cliente su ad Albany. Eravamo pappa
e ciccia, stretti così» e mi mostrò due dita bulbose, «sempre
insieme, in tutto».
Mi domandai se in quell’alleanza fosse compresa anche
l’operazione World Series del 1919.
«Adesso è morto» dissi io dopo un momento. «Voi eravate il suo
amico più stretto, quindi sono sicuro che vorrete venire al suo
funerale oggi pomeriggio».
«Mi piacerebbe venire».
«E dunque venite».
Gli tremolarono leggermente i peli delle narici e mentre scuoteva
la testa gli occhi gli si riempirono di lacrime.
«Non posso – non posso restare invischiato» disse.
«Non c’è nulla in cui restare invischiati. È tutto finito ormai».
«Quando viene ucciso un uomo preferisco non restare
invischiato. Mi tengo alla larga. Da giovane era diverso – se moriva
un mio amico, non importava come, gli rimanevo a fianco fino alla
fine. Vi sembrerà sentimentale, ma è proprio questo che voglio dire:
fino all’amara fine».
Mi resi conto che per qualche ragione era determinato a non
venire e mi alzai.
«Voi siete andato all’università?» si informò di punto in bianco.
Per un momento pensai che volesse propormi un “inzerimento”,
ma si limitò ad annuire e a stringermi la mano.
«Impariamo a mostrare amicizia quando le persone sono vive e
non dopo che sono morte» suggerì. «Dopodiché, la mia regola è:
tenersi lontani da tutto».
Quando lasciai il suo ufficio il cielo si era fatto scuro e tornai a
West Egg sotto una fine pioggerellina. Dopo essermi cambiato,
andai nella casa accanto e trovai il signor Gatz che camminava
avanti e indietro per l’atrio, tutto eccitato. Era sempre più orgoglioso
di suo figlio e dei suoi possedimenti e adesso aveva qualcosa da
mostrarmi.
«Jimmy mi aveva mandato questa fotografia». Tirò fuori il
portafoglio con dita tremanti. «Guardate».
Era una fotografia della casa, screpolata agli angoli e imbrattata
dalle impronte di molte mani. Mi indicò ogni dettaglio con passione.
«Guardate qui!» diceva, e poi cercava l’ammirazione nei miei occhi.
L’aveva fatta vedere così tante volte che ormai per lui era più reale
della casa stessa.
«Me l’ha mandata Jimmy. La trovo una fotografia molto bella.
Rende bene l’idea».
«Molto bene. Lo avevate visto di recente?»
«Venne a trovarmi due anni fa e mi comprò la casa dove abito
adesso. Certo, quando scappò di casa interrompemmo ogni
rapporto, ma ora capisco che c’era un motivo. Sapeva di avere un
grande futuro davanti. E da quando cominciò ad avere successo fu
sempre generoso con me».
Sembrava riluttante a riporre la fotografia e indugiò tenendola
ancora un minuto davanti ai miei occhi. Poi rimise a posto il
portafoglio e tirò fuori dalla tasca una vecchia copia lacera di un libro
intitolato Hopalong Cassidy 56.
«Guardate, è un libro di quando era ragazzo. Da questo si
capisce tutto».
Lo aprì dalla copertina posteriore e lo voltò per farmi vedere.
Sull’ultima pagina era scritto PROGRAMMA, con la data 12 settembre
1906. E sotto:

Alzarsi dal letto 6:00


Esercizi con i manubri e a parete 6:15-6:30
Studiare elettrotecnica ecc. 7:15-8:15
Lavoro 8:30-16:30
Baseball e sport 16:30-17:00
Esercizi di dizione, portamento e come ottenerlo 17:00-18:00
Studiare invenzioni necessarie 19:00-21:00

PROPOSITI GENERALI
Non perdere tempo da Shafter o da [nome indecifrabile]
Basta fumare o masticare tabacco
Fare il bagno un giorno sì e uno no
Leggere un libro o una rivista istruttivi a settimana
Risparmiare 5 $ [cancellato] 3 $ a settimana
Comportarsi meglio con i genitori

«Ho trovato questo libro per caso» disse il vecchio. «Si capisce tutto,
no?»
«Tutto».
«Jimmy era nato per farsi strada. Aveva sempre uno di questi
propositi o un altro. Avete notato quanto si è dato da fare per
migliorarsi? È sempre stato bravo in questo. Una volta mi disse che
quando mangiavo sembravo un maiale e io lo picchiai».
Era riluttante a chiudere il libro, leggeva ogni punto ad alta voce e
mi guardava, ogni volta, ansiosamente. Credo che un po’ si
aspettasse che io ricopiassi la lista a mio uso e consumo.
Il pastore luterano arrivò poco prima delle tre da Flushing e io
cominciai involontariamente a guardare fuori dalle finestre per
vedere se arrivavano altre macchine. Il padre di Gatsby faceva lo
stesso. Il tempo passava e i domestici erano in piedi nell’atrio, ma lui
sbatteva gli occhi nervosamente e parlava della pioggia con
preoccupazione e insicurezza. Il pastore lanciò più volte un’occhiata
all’orologio, così lo presi da parte e gli chiesi di aspettare ancora
mezz’ora. Ma non servì a niente. Non venne nessuno.

Intorno alle cinque il nostro corteo di tre macchine raggiunse il


cimitero e si fermò al cancello sotto una fitta pioggerellina – in testa il
carro funebre a motore, orribilmente nero e bagnato, poi la limousine
con il signor Gatz, il pastore e io e, un po’ più indietro, quattro o
cinque domestici e il postino di West Egg sulla station-wagon di
Gatsby, con i vestiti zuppi. Mentre varcavamo il cancello del cimitero
sentii il rumore di una macchina che si fermava e poi i passi di
qualcuno sul terreno fradicio dietro di noi. Mi guardai intorno. Era
l’uomo con gli occhiali da gufo che avevo scoperto in ammirazione
dei libri nella biblioteca di Gatsby una sera di tre mesi prima.
Non l’avevo più visto da allora. Non so come avesse saputo del
funerale, o come si chiamasse. La pioggia cadeva sulle lenti spesse
dei suoi occhiali e lui se li tolse e li asciugò per vedere quando la tela
protettiva venne tolta dalla fossa di Gatsby.
In quel momento cercai di rivolgere un pensiero a Gatsby, ma era
già troppo distante e riuscii solo a ricordare, senza rancore, che
Daisy non aveva inviato neanche un messaggio o un fiore. Udii
vagamente qualcuno mormorare: «Benedetti i morti su cui cade la
pioggia» e l’uomo dagli occhi di gufo rispondere: «Amen» con voce
impavida.
Ci disperdemmo velocemente tornando alle macchine sotto la
pioggia. Al cancello Occhi di Gufo mi parlò.
«A casa non sono riuscito a venire» si scusò.
«Non ci è riuscito nessuno».
«Non ci credo!» Sussultò. «Ma santo cielo! Ci andavano a
centinaia». Si tolse gli occhiali e li asciugò di nuovo, all’esterno e
all’interno.
«Povero figlio di puttana» disse.

Uno dei miei ricordi più vividi è il ritorno nell’Ovest per Natale, prima
da scuola poi dall’università. Quelli di noi che andavano oltre
Chicago si radunavano nella vecchia e tetra Union Station alle sei di
una sera di dicembre con qualche amico di Chicago, già nel pieno
dell’allegria vacanziera, per un rapido saluto. Ricordo le pellicce
delle ragazze provenienti dalla signorina Tal dei Tali e il
chiacchiericcio di fiati che condensavano per il freddo e le mani
agitate sopra le teste per salutare vecchie conoscenze, e i confronti
tra gli inviti ricevuti: «Voi andate dagli Ordway? O dagli Hersey?
Dagli Schultz?» e quei lunghi biglietti verdi che tenevamo stretti nelle
mani guantate. E infine le sudicie carrozze gialle della linea Chicago,
Milwaukee e St Paul che facevano allegria quanto il Natale stesso
sui binari accanto all’ingresso.
Quando poi ci inoltravamo nella notte invernale e la neve vera, la
nostra neve, cominciava a distendersi ai nostri fianchi e a brillare
contro i finestrini, e le luci tenui delle piccole stazioni del Wisconsin
ci scorrevano accanto, nell’aria arrivava di colpo una sferzata
pungente e decisa. Ne inalavamo profondi respiri tornando dal
vagone ristorante lungo i freddi vestiboli del treno, e per un’ora
acquisivamo l’insolita e impronunciabile consapevolezza della nostra
identità con quella campagna, dopodiché tornavamo a confonderci
inconsapevolmente con lei.
È questo il mio Midwest – non il grano o le praterie o le perdute
città degli svedesi, ma gli inebrianti treni verso casa della mia
gioventù, e i lampioni stradali e i campanelli delle slitte nel buio
gelato e le ombre che le ghirlande di agrifoglio gettavano sulla neve
dalle finestre illuminate. Io appartengo a tutto ciò, con un po’ del
rigore di quei lunghi inverni e un po’ del compiacimento di essere
cresciuto a casa Carraway in una città in cui le case portano ancora,
dopo decenni, i nomi di famiglia. Mi accorgo adesso che questa, in
fin dei conti, è una storia dell’Ovest: Tom e Gatsby, Daisy e Jordan e
io venivamo tutti dall’Ovest, e forse condividevamo una qualche
mancanza che ci rendeva quasi impercettibilmente inadattabili alla
vita nell’Est.
Anche quando l’Est mi esaltava di più, anche quando ero più
intensamente consapevole della sua superiorità rispetto alle
annoiate, espanse, rigonfie città al di là dell’Ohio, con le loro
interminabili inquisizioni che risparmiavano soltanto vecchi e
bambini… anche in quei momenti, vi percepivo qualcosa di distorto.
In particolare, West Egg ritorna ancora nei miei sogni più fantasiosi.
Mi appare come in una scena notturna di El Greco: cento case, al
tempo stesso convenzionali e grottesche, acquattate sotto un cielo
imbronciato e incombente e una luna sbiadita. In primo piano vedo
quattro uomini austeri, in abito da cerimonia; camminano sul
marciapiede con una barella su cui giace una donna ubriaca con un
vestito da sera bianco. La sua mano, che penzola da un lato, brilla di
freddi gioielli. Gli uomini entrano solennemente in una casa – la casa
sbagliata. Ma nessuno conosce il nome della donna, e a nessuno
importa.
Dopo la morte di Gatsby l’Est rimase per me infestato a quel
modo dai fantasmi, distorto oltre la capacità di correzione dei miei
occhi. Così quando nell’aria si levava il fumo blu delle foglie
crepitanti e il soffio del vento irrigidiva il bucato sul filo, decisi di
tornare a casa.
Prima di partire mi restava da fare una cosa, una cosa scomoda e
spiacevole, che forse sarebbe stato meglio trascurare. Ma volevo
lasciare tutto in ordine, non affidarmi a quel mare obbediente e
impassibile perché ripulisse la mia spazzatura. Vidi Jordan Baker e
parlai e tergiversai a proposito di quello che ci era accaduto insieme,
e quello che era accaduto dopo a me, mentre lei se ne stava
immobile in ascolto, seduta su una grossa poltrona.
Si era vestita per giocare a golf e mi ricordo di aver pensato che
somigliava a una bella illustrazione, il mento sollevato con
spigliatezza, i capelli del colore delle foglie in autunno, il volto dello
stesso marrone del mezzoguanto posato sulle ginocchia. Quando
finii, senza fare commenti mi disse che era fidanzata con un altro.
Ne dubitavo, anche se c’erano parecchi uomini che l’avrebbero
sposata a un suo cenno del capo, ma feci finta di stupirmi. Per un
minuto mi chiesi se non stessi facendo un errore, poi ripensai
rapidamente all’intera faccenda e mi alzai per dirle addio.
«A ogni modo, mi hai scaricato tu» disse Jordan d’un tratto. «Mi
hai scaricato al telefono. Non mi importa più niente di te, ma quella è
stata un’esperienza nuova per me, e mi ha lasciata stordita per un
po’».
Ci salutammo con una stretta di mano.
«Ah, e… ti ricordi» aggiunse «di quella nostra conversazione, una
volta, a proposito della guida delle automobili?»
«Mah… non proprio».
«Dicesti che un pessimo autista non corre pericoli finché non
incontra un altro pessimo autista. Be’, ho incontrato un altro pessimo
autista, giusto? Voglio dire, è per la mia sbadataggine che ho preso
una simile cantonata. Ti facevo una persona schietta, onesta.
Credevo fosse il tuo vanto segreto».
«Ho trent’anni» dissi. «Cinque di troppo per mentire a me stesso
e andarne fiero».
Lei non rispose. Arrabbiato, mezzo innamorato e terribilmente
dispiaciuto, me ne andai.

Un pomeriggio di fine ottobre incontrai Tom Buchanan. Camminava


davanti a me su Fifth Avenue con quella sua andatura vigile e
aggressiva, con le mani un po’ distanti dal corpo, come a proteggersi
dalle intromissioni, la testa che si voltava di scatto di qua e di là,
seguendo il suo sguardo irrequieto. Proprio quando rallentai per
evitare di sorpassarlo, lui si fermò e cominciò a scrutare accigliato
nella vetrina di una gioielleria. D’un tratto mi vide e si mosse verso di
me, con la mano tesa.
«Che c’è, Nick? Ti rifiuti di stringermi la mano?»
«Sì. Lo sai cosa penso di te».
«Tu sei matto, Nick» disse subito. «Matto da legare. Non ti
capisco proprio».
«Tom» gli domandai, «che cos’hai detto a Wilson quel
pomeriggio?»
Mi fissò con tanto d’occhi senza una parola e io capii di averci
azzeccato, riguardo a quel buco di ore. Feci per andarmene, ma lui
mi seguì e mi afferrò per un braccio.
«Gli ho detto la verità» disse. «Si è presentato alla porta di casa
mentre ci preparavamo a partire e quando gli ho mandato a dire che
non c’eravamo ha cercato di venire di sopra con la forza. Era
talmente fuori di sé che mi avrebbe ammazzato, se non gli avessi
detto di chi era la macchina. Per tutto il tempo che è stato dentro
casa ha tenuto la mano sulla pistola che aveva in tasca…» Poi tagliò
corto con aria di sfida: «Qual è il problema ad averglielo detto?
Quello se l’è cercata. Ha gettato fumo negli occhi a te, come in quelli
di Daisy, ma era un delinquente. Ha messo sotto Myrtle manco fosse
un cane e non si è neanche fermato».
Non c’era nulla che potessi dire, a parte l’indicibile, e cioè che
non era vero.
«E se credi che non abbia sofferto anche io, ascolta qua: quando
sono andato a disdire l’affitto di quell’appartamento e ho visto quella
maledetta scatola di biscotti per cani sulla credenza, mi sono seduto
e mi sono messo a piangere come un bambino. È stato orribile,
perdio…»
Non potevo perdonarlo né provare simpatia, ma capii che dal suo
punto di vista quanto aveva fatto era pienamente giustificato. Tutto
era incuria e confusione. Erano gente sbadata, Tom e Daisy –
fracassavano cose e creature e poi si rifugiavano nei loro soldi o
nella loro diffusa sbadataggine, o qualunque cosa fosse a tenerli
insieme, lasciando agli altri il compito di raccogliere i cocci…
Gli strinsi la mano; sembrava stupido non farlo, perché d’un tratto
mi sembrò di parlare a un bambino. Poi lui entrò nella gioielleria a
comprare una collana di perle – o forse solo un paio di gemelli –
liberatosi per sempre della mia provinciale suscettibilità.

Quando partii, la casa di Gatsby era ancora vuota e l’erba del suo
giardino era alta quanto la mia. Uno dei tassisti del villaggio non
passava mai davanti al cancello senza fermarsi un momento a
indicare dentro; forse era stato lui a portare Daisy e Gatsby a East
Egg la sera dell’incidente, e forse si era inventato una storia tutta
sua. Io non volevo sentirla e quando scendevo dal treno lo evitavo.
Passavo il sabato sera a New York perché l’abbagliante
splendore delle feste di Gatsby era così vivido per me che mi pareva
di sentire ancora arrivare dal suo giardino musica e risa incessanti, e
andirivieni di automobili dal viale. Una sera sentii passare una
macchina vera, e quando si fermò davanti alla scala vidi la luce dei
fari. Ma non approfondii. Probabilmente era un ultimo ospite che, di
ritorno dall’altro capo del mondo, non sapeva che la festa era finita.
L’ultima sera, preparato il baule e venduta la macchina al
droghiere, andai a guardare ancora una volta quell’illogico e
fallimentare castello di casa. Alla luce della luna si vedeva
chiaramente una parola oscena scarabocchiata da un ragazzino con
un pezzo di mattone sui gradini bianchi; la cancellai con la suola
della scarpa. Poi ciondolai fino alla spiaggia e mi stesi sulla sabbia.
La maggior parte delle grandi ville sul mare erano ormai chiuse e
non brillava quasi nessuna luce, a parte l’indistinto e mobile chiarore
di un traghetto che attraversava il Sound. E mentre la luna saliva più
in alto, le inessenziali case cominciarono a dissolversi, fino a che
percepii la vecchia isola che un tempo era spuntata qui davanti agli
occhi dei marinai olandesi – verde e fresca mammella del nuovo
mondo. Alberi scomparsi per fare posto alla casa di Gatsby avevano
un tempo assecondato in bisbigli l’ultimo e il più grande di tutti i
sogni umani; per un fuggevole e magico momento l’uomo deve
avere trattenuto il respiro davanti a questo continente, chiamato a
una contemplazione estetica che non capiva né desiderava, faccia a
faccia per l’ultima volta nella storia con qualcosa di commisurato alla
sua capacità di meraviglia.
E mentre me ne stavo lì a rimuginare sul vecchio mondo
sconosciuto, pensai alla meraviglia di Gatsby nello scorgere per la
prima volta la luce verde in fondo al pontile di Daisy. Aveva fatto
tanta strada per avere questo prato blu57 e il suo sogno deve
essergli sembrato così vicino che difficilmente gli sarebbe sfuggito.
Non sapeva che era già alle sue spalle, nei recessi delle vaste
tenebre che si aprivano dietro la città, dove i campi bui della
repubblica si estendevano nella notte58. Gatsby credeva nella luce
verde, l’orgastico59 futuro che anno dopo anno arretra davanti a noi.
Ci è sfuggito una volta, ma non importa – domani correremo più
veloce, tenderemo le braccia più avanti… e un bel mattino…
Così continuiamo a remare, barche controcorrente, sospinti
senza sosta nel passato.
NOTE AL TESTO

Nota al titolo: Fitzgerald mostrò fino all’ultimo una spiccata preferenza per il titolo Sotto il
rosso, bianco e blu e attribuì al titolo definitivo la ragione dell’iniziale insuccesso del
romanzo, uno dei pochi errori di giudizio commessi dall’autore durante l’ispirato periodo di
revisione.

Le note seguenti sono basate sul libro Apparatus for F. Scott Fitzgerald’s “The Great
Gatsby”, di Matthew J. Bruccoli (Columbia, University of South Carolina Press, 1974), ad
eccezione di quelle del traduttore. Il professor Bruccoli è un grande studioso dell’opera di
Fitzgerald, e chiunque sia interessato ad approfondire i dettagli testuali del romanzo
dovrebbe consultare il suo lavoro.
1. L’epigrafe di Thomas Parke D’Invilliers è stata scritta dallo stesso Fitzgerald. D’Invilliers è
un personaggio di Di qua dal Paradiso (1920) ed è ispirato a John Peale Bishop (1892-
1944).
2. Il duca di Buccleuch detiene anche il titolo di duca di Doncaster. Visto che a Oxford
Gatsby viene colto in compagnia del futuro conte di Doncaster, Fitzgerald sembra quasi
voler sottintendere, in modo ironico, che Nick potrebbe essere più “legato” a Gatsby di
quello che crede!
3. Vale a dire il college di Yale.
4. Lake Forest è un esclusivo quartiere residenziale di Chicago. Lì viveva Ginevra King, uno
dei primi amori di Fitzgerald.
5. Al college di Yale esistevano sei società senior e si trattava anche di società segrete.
Entrare a far parte di una di queste era considerato una notevole conquista sociale.
6. Si allude a The Rising Tide of Color (“La marea crescente del colore”) di Lothrop
Stoddard (New York, Scribners, 1920). Matthew J. Bruccoli sostiene che Fitzgerald «non
avesse voluto usare il titolo e l’autore corretti». Probabilmente non voleva, inoltre, che
Lothrop Stoddard venisse confuso con John L. Stoddard, citato più avanti nel romanzo (si
veda la nota 17).
7. Westchester è una zona periferica di New York.
8. Il nome Jordan Baker sembra mettere insieme le auto sportive Jordan e la Baker Electric,
l’azienda produttrice di automobili a batteria. Fitzgerald disse a Maxwell Perkins che il
personaggio era basato sulla campionessa di golf Edith Cummings.
9. Si tratta di tre località turistiche alla moda che si trovano rispettivamente in North
Carolina, Arkansas e Florida.
10. Secondo Matthew J. Bruccoli la «valle di ceneri» è ispirata a un terreno paludoso nei
pressi di Flushing Meadows che venne sommerso di cenere e rifiuti per poi diventare, nel
1939, l’area sulla quale fu edificata l’Esposizione universale.
11. Rivista scandalistica degli anni Venti.
12. Simon Called Peter è un romanzo popolare di Robert Keable (New York, Dutton, 1921),
che Fitzgerald non apprezzava e considerava immorale.
13. Montauk Point è una città sulla punta orientale di Long Island.
14. Joe Frisco (1889-1958) fu un attore comico e un eccentrico ballerino statunitense.
15. Quella dell’understudy è una professione molto ben definita nel mondo dello spettacolo
americano, che non esiste in modo altrettanto specifico nella nostra cultura. Si tratta di un
professionista scritturato nel cast di una produzione teatrale che conosce la parte di uno o
più degli interpreti ed è presente in teatro durante la performance, pronto a sostituire il
collega in caso di malattia o altro tipo di assenza (N.d.T.).
16. Gilda Gray (1901-1959) era la stella delle Ziegfeld Follies. Fu lei a introdurre lo shimmy.
17. John L. Stoddard (1850-1931) scrisse quindici volumi di libri di viaggio illustrati dal titolo
John L. Stoddard’s Lectures. «Gad’s Hill, la casa di Dickens nei pressi di Rochester, fu
illustrata nel nono volume» (Bruccoli). Si veda anche la nota 6.
18. David Belasco (1853-1931) era un produttore di Broadway noto per il realismo dei suoi
set.
19. Nella copia personale di Fitzgerald queste unità vennero sostituite da «Terza divisione
[…] Nono battaglione mitraglieri […] Settimo fanteria». Bruccoli scrive: «Il 3 giugno 1918, il
Nono battaglione mitraglieri di cui faceva parte Nick era a Château-Thierry mentre il Settimo
fanteria di Gatsby venne chiamato a difendere la città sulla sponda sud del fiume. Entrambe
le unità facevano parte della Terza divisione… [Per quanto riguarda la foresta dell’Argonne]
si tratta della battaglia dell’offensiva della Mosa-Argonne (26 settembre - 11 novembre
1918) in cui le truppe americane giocarono un ruolo chiave. Sebbene la Terza divisione di
Gatsby combatté nella campagna della Mosa-Argonne, lo fece nel settore Mosa – sul lato
opposto rispetto al fronte della foresta dell’Argonne. Tuttavia la Prima divisione, e cioè la
divisione di Gatsby e Nick nella prima edizione del romanzo, venne citata dal generale
Pershing per il valore dimostrato nell’Argonne. La modifica apportata alle unità di Gatsby e
Nick rende plausibile l’eventualità che i due si siano incontrati a Château-Thierry, ma allo
stesso tempo rende estremamente improbabile il fatto che Gatsby si trovasse nella foresta
dell’Argonne. Questa discrepanza non indica necessariamente che Gatsby stia mentendo
rispetto al suo servizio in guerra: il romanzo non ne dà alcuna indicazione».
20. Negli anni Venti il termine hydroplane era applicato sia ai motoscafi che agli idrovolanti.
21. In originale: «at intervals she appeared suddenly at his side like an angry diamond, and
hissed: “You promised!” into his ear». Il professor A.S.G. Edwards giustamente si interroga
sull’immagine dell’“angry diamond” e propone la suggestiva ipotesi che Fitzgerald
intendesse diamonback, il serpente a sonagli o “crotalo adamantino” che, infatti, “sibila”
(hissed). Il fatto che nel testo il termine sia diamond potrebbe, secondo Edwards, essere
dovuto a una svista nella revisione del manoscritto (N.d.T.).
22. Distretto periferico di New York che si trova nella contea di Orange.
23. In inglese bootlegger, a indicare chi, durante il Proibizionismo, era dedito alla vendita
illegale di alcolici. Si dice che il termine derivi proprio dal fatto che i contrabbandieri
nascondessero le bottiglie di whisky illegali negli stivali (boot).
24. Paul von Hindenburg (1847-1934) fu un generale tedesco durante la Prima guerra
mondiale, che in seguito venne eletto presidente del Reich.
25. Nella sua tesi di laurea “An analysis of F. Scott Fitzgerald’s The Great Gatsby through a
consideration of two Italian translations”, Paul Armstrong sottolinea l’allusività di molti dei
cognomi di questa lista, come Leech (“sanguisuga/parassita”), Hornbeam (“arrapato”),
Blackbuck (“soldi al mercato nero”) eccetera (N.d.T.).
26. Nel dicembre del 1924 Fitzgerald scrisse a Perkins: «Il Montenegro ha un ordine
chiamato appunto Ordine di Danilo. Avreste per caso la possibilità di scoprire per me che
aspetto avrebbe una decorazione al merito – se venisse data a un americano riporterebbe
un’iscrizione in inglese? – oppure un qualsiasi dettaglio che conferisca una certa
verosimiglianza alla medaglia, che al momento ha un effetto terribilmente amatoriale?» È
assolutamente conforme agli scopi di Fitzgerald che Gatsby abbia una medaglia di aspetto
terribilmente amatoriale (falsa) dotata tuttavia di una certa “verosimiglianza”, e anche che
Gatsby mostri proprio questa medaglia altamente improbabile quando sostiene che «tutti i
governi alleati» gli «diedero una medaglia». Modestia? Imbroglio? Presa in giro?
27. Il Trinity College di Oxford.
28. Bruccoli sostiene che questa località non sia stata identificata e che non corrisponda a
un porto reale, sebbene il nome sia inevitabilmente suggestivo. Come sottolinea lui stesso:
«Fitzgerald sovrappone una geografia parzialmente mitica con la geografia reale di Long
Island».
29. Il personaggio di Meyer Wolfshiem si basa in parte su un celebre giocatore d’azzardo
dell’epoca, Arnold Rothstein: «nel Gatsby… partendo sempre dai piccoli dettagli che mi
hanno colpito c’è, per esempio, il mio incontro con Arnold Rothstein» (Fitzgerald a Corey
Ford, luglio 1937).
30. Si tratta dello “scandalo dei Black Sox”. Nel 1919 un gruppo di giocatori dei Chicago
White Sox, che erano ampiamente ritenuti tra i favoriti per la vittoria delle World Series di
quell’anno, vennero pagati da una gang di giocatori d’azzardo per perdere gli incontri e
favorire i Cincinnati Reds. (Pare che i giocatori della squadra di Chicago si mostrarono così
palesemente imbranati che, dopo la seconda partita, lo scrittore Ring Lardner attraversò il
loro scompartimento sul treno canticchiando un verso della celebre canzone I’m Forever
Blowing Bubbles storpiandolo in «I’m forever throwing ball-games» – continuerò per sempre
a mandare all’aria le partite.) Gli storici sembrano concordi nell’affermare che Arnold
Rothstein non truccò il campionato ma venne a conoscenza della cosa e scommise di
conseguenza.
31. Camp Taylor si trova vicino a Louisville, in Kentucky. Fitzgerald stesso fu di stanza lì, e lì
conobbe Zelda Sayre.
32. Parco divertimenti a Brooklyn.
33. The Journal era un quotidiano newyorchese di proprietà di William Randolph Hearst.
34. Economics: An Introduction for the General Reader di Henry Clay (New York,
Macmillan, 1918).
35. Il Castello Rackrent è un romanzo gotico inglese dell’Ottocento di Maria Edgeworth
(1767-1849).
36. Si dice che Immanuel Kant avesse l’abitudine di fissare un campanile quando era
immerso nelle sue riflessioni.
37. In originale questi fiori sono chiamati con il loro nome popolare, kiss-me-at-the-gate
(“baciami al cancello”); purtroppo la traduzione non può dare conto della suggestività
dell’espressione (N.d.T.).
38. Lo studio di Gatsby è decorato nello stile classico dei fratelli Robert e James Adam, due
celebri architetti e progettisti di interni scozzesi del Settecento.
39. Daisy si riferisce al taglio di capelli “alla Pompadour” (N.d.T.).
40. “La mattina, / la sera, / non ci divertiamo… […] Una cosa è certa e non c’è niente di più
certo / i ricchi fanno i soldi e i poveri fanno… i bambini. / Nel frattempo / tra un tempo e
l’altro”; sono i versi di una canzone edita nel 1921, Ain’t We Got Fun, musica di Richard A.
Whiting, parole di Raymond B. Egan e Gus Kahn (N.d.T.).
41. Secondo uno dei miti del Proibizionismo, gli alcolici venivano immessi negli Stati Uniti
dal Canada attraverso delle condotte.
42. Si tratta di Françoise d’Aubigné (1635-1719), marchesa di Maintenon, seconda moglie
di Luigi XIV e vero potere occulto all’ombra del trono.
43. “Blocks” sta dunque per “blocchi”, “scatole” (N.d.T.).
44. Parco dell’isola di Oahu, nelle Hawaii.
45. Altura che si trova a Oahu.
46. Durante il Proibizionismo era possibile vendere alcolici legalmente su presentazione di
ricetta medica, così molti drugstore funsero da copertura per il contrabbando. (Negli Stati
Uniti, nei drugstore è possibile acquistare generi vari, tra cui anche le medicine: in questo
tipo di negozi è infatti presente un reparto di farmacia, N.d.T.)
47. Famosa canzone scritta da W.C. Handy nel 1917.
48. Hempstead è una città di Long Island.
49. Ricca comunità sulla riva meridionale di Long Island.
50. Secondo Bruccoli, è impossibile individuare una località del genere sulle mappe di Long
Island degli anni Venti, quindi anche questa appartiene alla “geografia mitica” di Fitzgerald.
Il nome “Gad’s Hill” suggerisce un’assonanza con “Gatsby” (nome che a sua volta in inglese
ricorda il suono della parola gun, “pistola”); Gadshill è anche il luogo dove Falstaff subisce
la finta rapina da parte del principe Hal nella prima parte dell’Enrico IV di Shakespeare.
51. È un’allusione al fatto che Gatsby fosse coinvolto nella compravendita di titoli rubati,
come probabilmente lo era Arnold Rothstein.
52. James J. Hill (1838-1916) era un magnate del settore ferroviario che visse nella città
natale di Fitzgerald, St Paul, in Minnesota. Costruì la Great Northern Railroad, che
collegava i Grandi Laghi con la costa del Pacifico. Fitzgerald allude spesso a lui nelle sue
opere.
53. Greenwich è una città in Connecticut.
54. Questa denominazione non vuole suggerire che Wolfshiem, ebreo, fosse un fascista!
Hitler aveva adottato il simbolo della svastica nel 1920, ma all’epoca in cui Fitzgerald
scriveva la notizia non era ancora ampiamente diffusa e la svastica aveva solo una
funzione decorativa.
55. Una poolroom è una sede o un club (può essere anche soltanto una stanza) dove si
gioca a pool, il biliardo americano. Gatsby era andato a cercare lavoro alla poolroom di
Winebrenner (N.d.T.).
56. È un romanzo scritto da Clarence E. Mulford nel 1910 (Chicago, McClurg), che porta il
nome del protagonista, un eroico cowboy. Il fatto che gli appunti di Gatsby siano datati 12
settembre 1906 è un piccolo anacronismo.
57. In inglese il blu suggerisce “malinconia, tristezza”, ma qui potrebbe anche trattarsi di
Kentucky Blue Grass, un’indicazione del lusso ottenuto da Gatsby facendo una lunga
strada (N.d.T.).
58. Potrebbe trattarsi di una sottile allusione ad America the Beautiful, la poesia di
Katharine Lee Bates del 1895 che nel 1910 venne musicata da Samuel A. Ward,
diventando uno degli inni patriottici più popolari in America (N.d.T.).
59. Fitzgerald teneva molto a questo termine, piuttosto desueto, che vuol dire “attinente
all’orgasmo”: quando Maxwell Perkins lo mise in questione, Fitzgerald rispose che la parola
orgastic esprimeva «esattamente il tipo di estasi intesa». Ciò non toglie che Edmund Wilson
nell’edizione Scribner del 1941, dopo la morte di Fitzgerald dunque, sostituì orgastic con
orgiastic (“orgiastico”). È stato Matthew J. Bruccoli a riportare orgastic nel testo, parecchi
anni dopo (N.d.T.).
Postfazione
di Tony Tanner

All’inizio non doveva chiamarsi Il grande Gatsby. In una lettera a


Maxwell Perkins Fitzgerald scrisse: «Ho deciso di attenermi al titolo
che ho dato al libro. Trimalcione a West Egg» (intorno al 7 novembre
1924). Trimalcione è ovviamente il volgare arrampicatore sociale
d’immensa ricchezza del Satyricon di Petronio, un maestro di
baldorie sessual-gastronomiche che dà un banchetto di
inimmaginabile opulenza al quale partecipa attivamente, a differenza
di Gatsby, che non beve e alle sue feste si limita a fare da
spettatore. Trimalcione è letteralmente un vero ingordo, invece
Gatsby si tiene a curiosa distanza da ciò che possiede e sfoggia,
così come a volte sembra osservare le sue stesse parole,
soppesandole attentamente, quasi fossero quelle di un altro, e così
come sfoggia camicie che non ha mai indossato, libri che non ha mai
letto, ed estende inviti a fare il bagno in una piscina dove non si è
mai tuffato.
Se Fitzgerald pensava a Gatsby come a una sorta di Trimalcione
sfornato dalla sfrenata licenziosità degli anni Venti, di certo lo ha
sottoposto a una notevole metamorfosi (e solo una volta nel libro lo
fa chiamare Trimalcione) in cui comunque si ravvisano chiare tracce
genealogiche dell’antico antenato di Gatsby. Nel Satyricon
Trimalcione è nominato per la prima volta in una conversazione tra
due amici che si chiedono dove si terrà il festino di quella sera:
«“Come?” dice. “Non sapete da chi si va quest’oggi? Trimalcione, un
vero signore, ha sistemato nel triclinio un orologio e un trombettiere,
per sapere di volta in volta quanto ha perduto di vita”»1. Altrettanto
ossessiva è la relazione di Gatsby con il tempo: che lo si possa
fermare, recuperare, ripetere (e lo era quella di Fitzgerald, il quale, a
detta di Malcom Cowley, scriveva circondato da orologi e calendari).
Uno dei rari movimenti maldestri compiuti da Gatsby, che altrimenti
si distingue per i suoi «modi scrupolosi», provoca quasi la rottura di
un orologio, e non c’è dubbio che da qualche parte dentro di sé li
vorrebbe rompere tutti. La sua ossessione è in certa misura dovuta
alla trimalcionesca paura della caducità – è sempre troppo poco il
tempo che resta; ma più ambiziosamente (e follemente) deriva dal
profondo rifiuto di accettare la lineare irreversibilità della storia.
«Cacciate il trombettiere in uniforme! Non voglio sentire i suoi
squilli!» direbbe Gatsby a gran voce.
Quando incontriamo per la prima volta Trimalcione, l’illustre
antenato di Gatsby, lo vediamo che «si allenava in pianelle con palle
verdeporro. E, se una toccava terra, lui più non la rinviava»2. Gatsby
arriva a indirizzare la sua vita non in relazione a una palla, ma a una
luce verde: «C’è una luce verde sempre accesa in fondo al pontile»
dice a Daisy. Vista al di qua dell’acqua (e di tutto il resto) che lo
separa da Daisy, la luce verde si offre a Gatsby come un obiettivo
convenientemente inaccessibile per indirizzare il suo anelito, un
oggetto che definisce il desiderio e al tempo stesso ne rimanda
indefinitamente la realizzazione, un oggetto a cui tendere le braccia,
come lui fa, invece di prenderlo fra le braccia, come vorrebbe fare.
L’evanescente magia del gioco consiste nel tenere la luce verde a
distanza o, potremmo dire, la palla in aria. Se la palla verde cade è
troppo forte il richiamo all’ineluttabile gravità che riporta ogni cosa a
terra, che sia una palla o un sogno. Lo stesso accade se si annulla
la distanza: a un incontro troppo ravvicinato le luci potrebbero
perdere il loro lustro soprannaturale e regredire a qualcosa di
ordinario e per niente eccitante. I desideri si esprimono guardando
stelle irraggiungibili.
Daisy lo prese repentinamente sottobraccio, ma lui sembrava ancora assorto in ciò che
aveva appena detto. Forse si era reso conto che il significato colossale di quella luce era
ormai definitivamente svanito. In confronto alla distanza che lo separava da Daisy, gli
era parsa vicina come una stella alla luna. Adesso era tornata a essere una luce verde
su un pontile. Un oggetto incantato di meno nella sua lista.

Forse sì, forse no. O forse una cosa del tutto diversa. Di sicuro
questo libro è percorso da una fame di «oggetti incantati», da un
gusto per il «colossale» e dal premuroso tentativo di scoprire e
distinguere quei momenti – istanti, contingenze – in cui una luce può
essere una stella di «significato colossale» invece che una
qualunque luce di un molo. Certo è che questa è la versione di Nick
Carraway, quindi potremmo anche chiederci, retrospettivamente, se
la luce verde non brillasse per lui persino più intensamente di
quanto, se possibile, brillasse per Gatsby.

Al banchetto di Trimalcione vengono servite tante portate esotiche;


qui ne voglio segnalare una:
…fu collocato un vassoio con sopra una cesta, in cui c’era una gallina di legno con l’ali
aperte a cerchio, come stanno d’abitudine quando covano. Si accostano subito due
schiavi, che in un concerto assordante prendono a frugare tra la paglia, e tiratene fuori
uova di pavone su uova le dividono tra i convitati. A questo colpo di scena, Trimalcione
volge il capo e «Amici» dice, «uova di pavone ho fatto mettere sotto la gallina. Ma ho
paura, per bacco, che ci sia già la famiglia! Ad ogni modo, proviamo se sono ancora da
bere. Sì, si possono bere». Riceviamo dei cucchiaini da mezza libra almeno e rompiamo
quelle uova rivestite di pasta frolla. Io però fui a un pelo dal gettar via la mia porzione,
ché in effetto mi pareva ci fosse già il pulcino. Ma poi, quando sento da un commensale
di vecchia data «Qui deve esserci qualcosa di buono», frugo con la mano dentro il
guscio e trovo immerso nel tuorlo pepato un beccafico bello grasso3.

Nell’ottobre del 1922 i Fitzgerald si trasferirono in una casa a Great


Neck, Long Island, su una penisola ai piedi della Manhasset Bay. La
loro casa era relativamente modesta a confronto delle opulente ville
estive delle vecchie famiglie americane ricche sul serio – i
Guggenheim, gli Astor, i Van Nostrand, i Pulitzer – che alloggiavano
su un’altra penisola, dall’altra parte della baia.
Su questa topografia Fitzgerald elabora quella del suo romanzo: il
nuovo ricco Gatsby e il per-niente-ricco Nick da una parte della baia
e dall’altra parte i ricchi da generazioni, come i Buchanan (ma che
vuol dire “ricchi da generazioni” in America?). Nella metamorfosi
operata dal romanzo, i Neck (“colli”) diventarono Egg (“uova”).
Due enormi uova, dall’identico contorno e separate soltanto da una baia di cortesia, si
protendono, a venti miglia dalla città, nel tratto di acqua salata più addomesticato
dell’emisfero occidentale, quella grande aia marina che è il Long Island Sound. Non
sono ovali perfetti – sono entrambi schiacciati nel punto di appoggio, come l’uovo di
Colombo – ma la loro somiglianza fisica deve essere fonte di perpetua meraviglia per i
gabbiani che li sorvolano. Per chi non ha le ali la cosa più interessante è quanto
differiscano in ogni particolare eccetto forma e misura.
Una domanda seria e feconda che soggiace a tutto il libro è la
seguente: cosa si è dischiuso dall’“addomesticazione” del gran
continente selvaggio scoperto da Colombo? Che cosa troveremo
portando il cucchiaino sul grande uovo – o sono uova? –
dell’America? Una cosa disgustosa, abortita, rachitica, nata morta,
buona solo per essere gettata via? O un tesoro, qualcosa di speciale
(il beccafico, un piccolo uccello, considerato una prelibatezza),
qualcosa di meraviglioso e raro? Gli autentici prodotti dell’America
sono altrettanto “dissimili” di quanto lo sono i due Egg? E dunque da
una parte avremo i Buchanan di East Egg, che rappresentano e
incarnano quel tipo di materialismo divoratore, edonista e ipocrita
che il mirabile e spietato successo del capitalismo del
Diciannovesimo secolo ha incoraggiato e attivato, e dall’altra la
coalizione Nick-Gatsby di West Egg, che si aggrappa alla possibilità,
alla necessità, di qualcos’altro, qualcosa di più, qualcosa che il
materialismo non potrà mai soddisfare, in un anelito, nostalgico, per
una qualche forma di ideale che si rifiuta di concedere il dominio
assoluto al meramente accidentale, al trionfo dei beni materiali e dei
fatti quotidiani? In questa prospettiva, andando a ritroso nella storia
dell’America in cerca di archetipi, Benjamin Franklin sarebbe il genio
guida di East Egg e Jonathan Edwards lo spirito tutelare di West
Egg. Questa sarebbe una lettura comprensibile e comprovabile della
manifesta “dissimilarità” di due delle più manifeste tipologie che
l’America dischiude – lo stesso Nick parla del «bizzarro e non poco
sinistro contrasto» tra i due Egg. Ma nelle sue stesse parole questo
è il punto di vista di «chi non ha le ali». Perché invece da una quota
sufficientemente alta è la loro «somiglianza» a «essere fonte di
perpetua meraviglia». Questo romanzo si occuperà proprio di
differenze e somiglianze, e non vi sono dubbi su quanto differiscano
le aspirazioni e i destini dei protagonisti, necessariamente privi di ali.
Anche se verso la fine Nick li accomuna in una considerazione: «Mi
accorgo adesso che questa, in fin dei conti, è una storia dell’Ovest:
Tom e Gatsby, Daisy e Jordan e io venivamo tutti dall’Ovest, e forse
condividevamo una qualche mancanza che ci rendeva quasi
impercettibilmente inadattabili alla vita nell’Est». Esiste dunque un
uovo Buchanan e un uovo Gatsby? Uno un aborto, l’altro un tesoro?
Oppure, con le dovute distinzioni, la stessa aia produce un solo tipo
di animale? Forse dipende da quanto si vola alto, dalla distanza
prospettica… e questo ci porta alla questione cruciale sollevata dal
libro: quale visione è una visione “distorta” e quale no? Quale
combinazione di prossimità e distanza offre la migliore percezione, la
più giusta? Come dovrebbe guardare Nick quello che ha visto?

In Sogni d’inverno, una storia scritta da Fitzgerald nel 1922, Dexter


Green è il figlio del proprietario di una drogheria in Minnesota, un
ragazzo del Midwest, svelto e sveglio che si lascia «inconsciamente
guidare dai suoi sogni invernali». Gli inverni sono caratteristicamente
«tetri»; i sogni, per contrasto, si aprono a promesse di «splendore».
Ma non vi fate l’idea che, siccome all’inizio accadeva che i suoi sogni d’inverno
riflettessero i suoi pensieri sui ricchi, nel ragazzo vi fosse qualcosa di meramente
snobistico. Lui non sentiva la mancanza di una frequentazione con cose o persone che
luccicano; quello che luccica lui lo voleva fare suo. Spesso puntava al meglio senza
sapere perché lo volesse e a volte si scontrava con i misteriosi rifiuti e divieti che la vita
si concede… Fece i soldi. E fu una cosa alquanto straordinaria.

Dexter Green è un embrione di Gatsby e possiamo osservare una


interessante distinzione ribadita dal narratore: «non… una
frequentazione con cose o persone che luccicano; quello che luccica
lui lo voleva fare suo» – non una frequentazione ma il possesso. Ma
come sarebbe, come potrebbe essere o cosa comporterebbe il
possesso di una cosa che luccica o una persona che luccica?
Potrebbe mai succedere che nel tentativo di passare dalla
frequentazione al possesso non si incontrino «rifiuti e divieti»?
Queste tacite domande verranno a manifestarsi nel romanzo più
tardo.
Come molti figli ambiziosi di genitori immigrati, Dexter non può
permettersi di essere naturale e spontaneo, perché così facendo
tradirebbe qualcosa delle sue origini “contadine”. E dunque crea se
stesso con la stessa cura con cui crea il suo guardaroba. «Si rese
conto del valore che aveva per lui quel manierismo e lo adottò…»
Questo significa, per così dire, costruire il sé dal di fuori. Il risultato è
vincente: «Fece i soldi. E fu una cosa alquanto straordinaria» – ma è
un risultato precario, fragile, perché più lui ottiene, meno ha. Dexter
si lascia irretire e ammaliare – e usare e abbandonare – da una ricca
ragazza sbadata, capricciosa, lunatica, sciocca e superficiale, Judy
Jones, che si presenta e si rivela con il suo sorriso «raggiante,
palesemente artificiale – convincente» (come quello di Gatsby). La
sua relazione con lei può essere letta a questo semplice livello. Ma
forse Judy non è più artificiale e costruita dello stesso Dexter, e
potremmo scorgere nella loro relazione una dinamica di reciproca
attrazione fra due persone artificiali. E potremmo scorgere una punta
di questo genere di attrazione anche nella relazione tra Gatsby e
Daisy. Per Dexter è del tutto irrilevante che Judy sia sincera o finga
quando se lo riprende per poi mollarlo di nuovo: «Nessuna
disillusione relativa al mondo in cui lei era cresciuta poteva curare la
sua illusione di quanto fosse desiderabile». Potrebbe sembrare che
Judy sia la cosa-persona luccicante dei suoi sogni d’inverno, ma
curiosamente la ragazza è una figura alquanto accessoria, la cui
funzione è forse soltanto quella di consentire a lui di comporre un
personale lessico di ineffabile luccicore in cui indulgere: “bellissima”,
“romantico”, “splendida”, “estasi”, “magia della notte”, “fuoco e
amabilità”. Lui, più che con lei, ha una relazione con queste parole.
E quando la loro relazione inizia, lui le dice: «Io non sono nessuno…
La mia carriera dipende soprattutto dall’avvenire». Ma – e questo è il
livello più importante nella sua relazione con lei – il suo avvenire
dipende in larga misura dal passato.
Da ragazzino Dexter faceva il caddy. Ora che è un benestante
giovanotto, quando gioca a golf si può permettere di avere i suoi
caddy. Però continua a tenerli sott’occhio «cercando di cogliere un
cenno o un gesto che gli ricordi come era, che riduca la distanza che
si apre tra il suo presente e il suo passato». Non è il possesso a
dare maggiore intensità al sentimento; a dargliela è il sentore di una
perdita imminente, o la consapevolezza di una perdita avvenuta.
«Tanto più bello mentre svanisce» scrive Emily Dickinson; luccica
perché se ne va, sottintende Fitzgerald («Era uno stato di intensa
gratitudine, la sensazione di essere, per una volta, in magnifica
sintonia con la vita, e che tutto intorno a lui irradiava una lucentezza
e un fascino che forse non avrebbe conosciuto mai più»), luccica
perché la luce affievolisce. E quando la luce si è spenta e il mondo
sembra avere perso tutto il suo fascino, l’unico futuro che conta
davvero, da un punto di vista emotivo, è il passato.
La storia finisce con un episodio accidentale, molti anni dopo che
Dexter si è rassegnato alla scomparsa di Judy dalla sua vita. In un
incontro fortuito Dexter apprende che Judy ha sposato uno zotico
che «beve e scorrazza in giro» – una figura che adombra, o forse
annuncia, Tom Buchanan – che lei probabilmente lo ama e che la
sua bellezza è svanita: in altre parole, squallore e degradazione
dappertutto. E a questo punto Dexter fa l’esperienza di un’altra
perdita:
Il sogno era svanito. Qualcosa gli era stato tolto. In una sorta di panico si premette il
palmo delle mani sugli occhi e cercò di rievocare un’immagine dell’acqua che lambiva
Sherry Island e la veranda al chiaro di luna e il tessuto a quadretti sui campi da golf e
l’arido sole e il colore dorato della soffice peluria sul collo di lei. E la sua bocca umida
per i baci che le dava e gli occhi tristi di malinconia e la sua freschezza, come quella di
un tessuto di lino nuovo e pregiato al mattino. Ebbene, al mondo queste cose non
c’erano più! Erano esistite e non esistevano più.
Per la prima volta dopo tanti anni gli colarono le lacrime sul viso. Ma adesso erano per
lui. Non gli importava più di bocca e occhi e mani in movimento. Voleva che gliene
importasse qualcosa, ma non ci riusciva. Perché era andato via e non sarebbe più
potuto tornare indietro. I cancelli erano chiusi, il sole era calato e la sola bellezza era nel
grigio dell’acciaio che resiste al tempo. Anche la sofferenza che avrebbe potuto
sostenere restava alle sue spalle, nel paese delle illusioni, della giovinezza, della
pienezza della vita, dove i suoi sogni d’inverno avevano prosperato.
«Tanto tempo fa» disse, «tanto tempo fa, c’era qualcosa in me ma quella cosa adesso
non c’è più. Non c’è più, non c’è più. Non posso piangere. Non me ne deve importare.
Quella cosa non tornerà mai più».

Questa è la prosa di un uomo molto giovane e un tale lacrimevole


lamento non solo per la perdita ma per la perdita del senso di perdita
risulta appena post-adolescenziale. Ho citato il brano per esteso per
due motivi. Il primo è suggerire quanto Fitzgerald avesse da
asportare o, diciamo, assorbire altrimenti prima di raggiungere il
perfetto dominio espressivo del tono del Grande Gatsby. Qui, come
spesso accade con i primi scritti di Fitzgerald, si percepisce che
l’autore non ha ancora preso bene le distanze dalla turbolenza
emotiva della sua autobiografia mentre era necessario che
frapponesse qualcosa, qualcuno, tra sé e la sua scrittura, se voleva
evitare di finire in un cul-de-sac sentimentale. Il secondo motivo è
che il brano rivela, in fieri, un’intuizione che io ritengo centrale
nell’opera di Fitzgerald, vale a dire che il sogno americano –
qualunque significato si voglia dare all’espressione – non rivela
un’aspirazione ma rileva una privazione. Tuttavia, come Gatsby
dimostra, può esservi un ulteriore giro di vite. Dexter sprofonda, con
un certo compiacimento, nell’idea che il suo futuro è in larga parte
una faccenda del passato. Anche Gatsby lo riconosce, ma non
lascerà che la questione resti lì, semmai insiste che il passato può
venire trasformato in futuro da chi, come lui, ha guadagnato molto. E
che si mandi via il trombettiere in uniforme!
«Potrebbe interessarvi sapere che un mio racconto intitolato
Assoluzione… doveva essere un ritratto della giovinezza di Gatsby,
ma che l’ho tolto perché preferivo mantenere un senso di mistero» (a
John Jamieson, 15 aprile 1934). Quanto la grandezza del Grande
Gatsby dipenda da ciò che Fitzgerald ha tenuto fuori è un argomento
su cui tornerò più avanti. Per ora vediamo che cosa aveva deciso di
inserire, in un primo momento, come episodio cruciale dell’infanzia di
Gatsby.
L’undicenne Rudolph Miller – Gatsby da piccolo – si è ribellato al
suo «inetto» padre ed è stato costretto alla confessione, durante la
quale mente. Si trova a raccontare la sua storia a padre Schwartz, e
ammette la sua colpa di «non credere di essere il figlio dei miei
genitori» (una fantasia che apparteneva anche a Fitzgerald: «non
essere il figlio dei miei genitori, ma il figlio di un re, un re che
governava il mondo intero» – proprio il “romanzo familiare” di Freud).
Allo squallore di essere Rudolph Miller il ragazzo sostituisce con
l’immaginazione lo splendore di essere Blatchford Sarnemington.
«Quando diventava Blatchford Sarnemington da lui si sprigionava
una nobiltà soave. Blatchford Sarnemington viveva in un susseguirsi
di trionfi». Ma la menzogna proferita nel confessionale lui l’ha cara e
in effetti è questa segreta menzogna, come la segreta fantasia, che
finisce per costituire il suo io essenziale.
Aveva superato una linea invisibile e si era reso conto del proprio isolamento; si era
pure reso conto che ciò non valeva solo per i momenti in cui era Blatchford
Sarnemington ma per tutta la sua vita interiore. Finora queste manifestazioni di
ambizioni “folli”, i peccati veniali e le paure erano stati delle specie di riserve, non
riconosciute al cospetto della sua anima ufficiale. Adesso, seppur inconsapevolmente,
capiva che facevano parte di lui, e il resto non era che una facciata adorna e una
bandiera di convenzioni. La pressione esercitata dal suo ambiente lo aveva spinto sulla
strada segreta e solitaria dell’adolescenza4.
Di fatto il rifiuto del padre biologico e la ribellione contro il padre
spirituale per il ragazzo equivalgono a dire: nel modo più significativo
ed essenziale, io sono le mie «riserve»: i miei dinieghi, i miei ripudi,
le mie fantasie e, sì, le mie colpevoli menzogne. Se cercate me, non
chiedete di Rudolph Miller. Chiedete di Blatchford Sarnemington.
Chiedete di Jay Gatsby.
Ma l’aspetto più interessante della storia è il curioso turbamento
che prova padre Schwartz. (Non mi interessa qui, speculativamente,
associare questa figura a persone come padre Sigourney Webster
Fay, che indubbiamente ebbe un’influenza importante sul Fitzgerald
cattolico. Di questo si è occupato molto bene André Le Vot nella sua
biografia F. Scott Fitzgerald del 1983). All’inizio il padre è
chiaramente disturbato dall’«accesa follia delle quattro» – una
«terribile dissonanza» creata dall’agitarsi delle ragazze svedesi, le
luci gialle, gli odori dolci e il grano del Dakota che è «orribile da
guardare». Dopo avere ascoltato la storia del ragazzo il padre
irrompe in un tremebondo monologo, quantomeno sconnesso se
non addirittura pazzoide.
Quando tanta gente si riunisce nei posti più belli sulle cose scende un baluginio.
Il punto è avere tanta gente al centro del mondo, dovunque sia. Allora… sulle cose
scende un baluginio. Hai mai visto un parco dei divertimenti?… È simile a una sagra, ma
molto più scintillante. Vacci di sera e rimani in un posto buio un po’ distante, sotto gli
alberi bui. In aria vedrai girare una grande ruota di luci, e vedrai un lungo scivolo sparare
barche nell’acqua. Una banda suonerà da qualche parte, e un profumo di noccioline… e
ogni cosa sarà sfavillante. Ma non ti farà venire in mente nulla, vedrai. Se ne starà
sospeso là fuori nella notte come un palloncino colorato, come una grande lanterna
gialla in cima a un palo… Ma non avvicinarti… se lo fai sentirai solo il caldo e il sudore e
la vita5.

Queste di fatto sono le ultime parole del padre prima di morire, e


potremmo prenderle come l’espressione del suo delirante rimpianto
per tutta la sessualità e il glamour, il calore e la luce, che ha
represso in nome del celibato religioso e da cui si è tenuto a
distanza. Ma in quanto espressione di una bramosa, tremula
eccitazione suscitata dal pensiero, la consapevolezza e il timore di
un qualche luccicante baluginio – sessuale e immateriale,
incandescente e trascendente – generato dal radunarsi dei belli e
benedetti (o dannati), i fascinosi e gli splendidi, in un mitico,
irraggiungibile «centro» – un parco giochi celestiale – queste parole
testimoniano di un confuso e inarticolato anelito. Per cosa? La luce
che mai fu su terra o mare? È un anelito che si trova da qualche
parte nel cuore dell’opera di Fitzgerald, al quale possiamo
abbandonarci o con il quale dobbiamo confrontarci, a seconda dei
casi. È una specie di incolto neoplatonismo andato in qualche modo
in malora tra gli interminabili campi di grano, le ragazze intoccabili e
gli occasionali fulgori di un Midwest altrimenti monotono e tetro.
Però la differenza tra il desiderio di Dexter Green di possedere le
cose che luccicano e la raccomandazione di padre Schwartz di
tenersi a distanza dal bagliore delle luci è cruciale, e sta
precisamente nel timore di quest’ultimo che avvicinarsi troppo possa
essere pericoloso, disastroso per la visione delle delizie terrene (e
celesti?). Rudolph Sarnemington Gatsby è in parte Green (“verde”)
in parte Schwartz (“nero”) (e André Le Vot ha mostrato quanto fosse
attento Fitzgerald nell’attribuzione dei colori – di questo più avanti).
Lui pensa di poter possedere – ripossedere – la ragazza che luccica.
In effetti tenta di fare della sua casa un centro di bagliore e di
glamour per attirarla: «La tua casa sembra l’Esposizione universale»
gli dice Nick, vedendola «illuminata da torre a cantina». Sappiamo
che da ragazzo Fitzgerald rimase molto colpito dal fulgore della Pan-
American Exposition del 1901, dove c’era «una Dea della Luce di cui
si poteva scorgere il bagliore fin dalle cascate del Niagara»6, e
anche Gatsby sfrutta la magia dell’elettricità (d’altronde è un devoto
lettore di Benjamin Franklin) come segnale di qualcosa che spera e
crede essere un barlume non soltanto elettrico. Ma per quanto lui si
immoli alla ricerca del ri-possesso, della ripetizione, è solo tenendosi
a distanza che può meglio godere, anzi proprio fare esperienza, del
suo desiderio e dei suoi sogni. Non si sente del tutto a suo agio sotto
la luce che lui stesso ha acceso ed è più facile trovarlo, come
raccomandava il buon padre, «in un posto buio un po’ distante».
Quando invece si avvicina e incontra «il caldo e il sudore e la vita» –
in particolare nelle sembianze di Tom Buchanan, nello snobismo
grezzo ma convinto del suo modo di parlare, nell’arroganza di classe
della sua ipocrisia, nella brutalità del suo «corpo crudele» – Gatsby
ne viene in effetti distrutto. Sparisce Green (il verde) e resta solo
Schwar(t)z (il nero).
Fitzgerald progettò Il grande Gatsby nell’estate del 1922, ma lo
scrisse in quella del 1924 durante il suo soggiorno in Riviera (e ne
revisionò le bozze, in modo cruciale, nei mesi di gennaio e febbraio
dell’anno successivo, a Roma). Proprio questo è il periodo in cui
Nick Carraway scrive il suo libro sull’estate con Gatsby di due anni
prima – e nel frattempo lui è tornato nel Midwest. Fitzgerald ha
dunque inserito un narratore tra se stesso e il suo onnisciente
compiacimento. Il libro di Fitzgerald è il libro di Nick. Però Nick non è
Fitzgerald, per quanto numerosi possano essere i frammenti
autobiografici che possiamo immaginare di scorgervi riflessi. Nick è
un personaggio, e di confessate scarse abilità letterarie (ha scritto
solamente «una serie di editoriali molto banali e altisonanti per lo
Yale News»), e mentre Nick cerca di scrivere Gatsby noi leggiamo
anche Nick.
Tra gli scrittori che Fitzgerald ammirava vi erano parecchi
precedenti riguardo all’inserimento del personaggio di un narratore.
Henry James, discutendo di come uno scrittore possa estrarre il
massimo significato dal suo materiale, enfatizza quanto sia decisivo,
a volte, scegliere un particolare tipo di narratore: «Ricaviamo il
massimo dal racconto di una faccenda nella misura in cui questa è
importante per un qualche determinato individuo». E sottolinea il
bisogno di un «medium che rifletta e dia colore» aggiungendo:
Vogliamo che sia chiaro, lo sa il cielo, ma vogliamo anche che sia denso, e la densità la
troviamo nella coscienza umana che trattiene e registra, che amplifica e interpreta…
l’effetto dei prodigi viene messo a rischio se questi sono presentati direttamente, mentre
mantengono tutto il loro carattere se si profilano nelle maglie di qualche altra storia –
l’indispensabile storia della normale relazione di qualcuno con qualcosa.

Gatsby è una sorta di presunto, presumibile “prodigio” –


prodigiosamente criminale, prodigiosamente romantico – mentre
Nick è, o così afferma di essere, del tutto “normale”, anche se
aggiungerebbe “anormalmente onesto”. Certamente Gatsby si profila
per noi nelle maglie della “storia” di Nick – lo vediamo e lo perdiamo,
lo vediamo e lo perdiamo – e certamente Nick «amplifica e
interpreta» – amplifica, potremmo a volte pensare, in modo
esorbitante.
Joseph Conrad realizzò alcune delle sue più importanti
innovazioni nell’arte del racconto introducendo e utilizzando il suo
narratore-marinaio Marlow, in particolare quando Marlow cerca di
mettere insieme una storia che in qualche modo dia conto di Lord
Jim. Era un codardo, Jim, o un idealista? Codardo e idealista? Qual
è la portata, quali le implicazioni, per “noi” – marinai, inglesi, dignitosi
e affidabili bianchi occidentali – delle sue aspirazioni e dei suoi
fallimenti, dei suoi sogni e delle sue defezioni? Marlow ha investito
molto in Jim, e nei propri tentativi di rivalutazione e recupero
narrativi. Perché di certo Jim era “uno di noi”. Però… mutatis
mutandis, molto di tutto ciò è rinvenibile nella relazione tra il
narratore-agente di Borsa Nick e l’enigmatico Gatsby. Gatsby è un
criminale o un romantico? Criminale e romantico? Quali sono le
implicazioni per noi americani dei suoi grandiosi piani, foraggiati con
risorse poco chiare e discutibili? Dei suoi splendidi sogni e del
«sudicio polverone» inevitabilmente «sollevato dal corteo dei suoi
sogni» e dal suo doloroso risveglio da questi? Anche Nick ha
investito molto – davvero molto – su Gatsby e sul proprio tentativo di
scrivere una celebrazione riabilitativa e, in effetti, elegiaca dell’uomo.
«È gente marcia… Tu vali quanto tutto il loro dannato gruppo messo
insieme». Loro sono così, e così – ci fa sentire Nick – è lui. Perché
sicuramente l’America può produrre qualcosa di meglio dei
Buchanan, di più splendido dei Carraway. Però…
Non si potrà mai sottolineare abbastanza che il libro è la versione
di Nick. Certo, lui raccoglie materiale da più fonti, non solo dai suoi
ricordi: ci sono documenti, come la copia di Hopalong Cassidy dove,
sul foglio bianco in fondo, il giovane Gatsby ha scritto il suo
PROGRAMMA nello stile di Franklin; c’è la lista degli ospiti di casa
Gatsby nell’estate del 1922, trascritta da Nick su un orario ferroviario
che oramai però «si disintegra lungo le pieghe», forse a suggerire
l’inevitabile disintegrazione di altri depositi in cui si custodisce il
tempo, inclusa la memoria del narratore. Poi c’è il lungo racconto
orale offertogli da Jordan Baker della prima fase della relazione fra
Gatsby e Daisy, e il resoconto degli anni più giovanili di Gatsby, con
Dan Cody e gli anni della guerra, che gli viene fornito dallo stesso
Gatsby nel corso della fatidica e disperata veglia che segue alla sera
del fatale incidente stradale. Ma è Nick che trascrive questi racconti;
non potremo mai sapere quanto fedelmente stia citando le sue fonti
o quanto le stia traducendo, ovvero trasformando, abbellendole,
amplificandole, riformulandole. Secondo le convenzioni dell’arte
della fiction, quando un narratore riporta le parole di un altro
personaggio tra virgolette, queste sono le sue esatte parole: al
narratore viene riconosciuta una (poco plausibile) perfetta
rievocazione. Ora, stando ai miei conti (approssimativi) circa il 4 per
cento del libro è fatto delle parole di Gatsby, ed è significativo che
Fitzgerald ridusse considerevolmente l’ammontare di discorso diretto
che precedentemente aveva affidato a Gatsby, nelle bozze del
romanzo. Per esempio: «“Jay Gatsby!” gridò lui improvvisamente
con voce squillante. “Ecco il grande Jay Gatsby. Questo dirà la gente
– aspetta e vedrai”». Con queste sparate Gatsby si sarebbe
annunciato e rivelato in modo troppo crudo e inequivocabile. Grazie
a una sistematica espunzione Fitzgerald rende Gatsby una figura
molto più indistinta, meno conoscibile, più essenzialmente elusiva.
Ci restano invece molte più ipotesi, speculazioni e supposizioni fatte
da Nick – nonché, forse, rimozioni, riformulazioni, fantasie.
La sua testimonianza è costantemente cadenzata da termini e
frasi come: “suppongo”, “sospetto”, “penso”; “possibilmente”,
“probabilmente”, “forse”; “ho sentito dire”, “sembrava dire”, “deve
esserci stato”, “ho idea che”, “ho sempre avuto l’impressione”. “Può
darsi che gli sia venuto in mente…” – ma può anche darsi di no. Non
lo sapremo mai. Quel che sappiamo è che è venuto in mente a Nick.
Qualunque effetto ci faccia, qualunque reazione ci provochi “Gatsby”
– «l’uomo che dà il nome a questo libro», come Nick si premura di
dire, con significativo scrupolo – dovremmo sempre ricordarci che
noi rispondiamo a quello che Nick ha fatto di lui. Dalla prima
apparizione di Gatsby («un uomo più o meno della mia età») al
momento in cui, dopo la sua morte, Nick viene scambiato per lui al
telefono e in seguito prova «un senso di sfida, di sprezzante
solidarietà fra me e Gatsby contro tutti loro», possiamo cogliere una
forte tendenza di Nick a identificarsi con Gatsby, e a farne un eroe.
Per questo è per lui così importante riuscire a credere che il racconto
che Gatsby gli fa della sua vita sia «tutto vero»; per questo è così
contento di provare «uno di quei ritorni di completa fiducia in lui di
cui avevo già fatto esperienza». Fuori dall’orario di lavoro, dove
principalmente trasferisce da una parte all’altra il denaro che il
denaro produce, Nick investe tutto in Gatsby – il suo Gatsby.
Nick si rivela, o si rappresenta, come la vera antitesi di Gatsby,
come uno dei Giovani tristi di Fitzgerald. (In questo c’è una qualche
somiglianza con l’emotivamente timido Lockwood che mette insieme
la sua testimonianza narrativa del passionale Heathcliff di Cime
tempestose.)
Conoscevo per nome gli altri impiegati e i giovani agenti di cambio e a pranzo
consumavo con loro salsiccette di maiale, purè di patate e caffè in affollati ristoranti bui.
Ebbi pure una breve storia con una ragazza che viveva a Jersey City e lavorava in
amministrazione, ma suo fratello cominciò a guardarmi male e così, quando lei a luglio
andò in vacanza, lasciai che la cosa pian piano sfumasse.

Laddove ci sono implicazioni di tipo emotivo o sessuale, ciò che non


lascia pian piano sfumare, lo fa sfumare lui – come ha fatto con un
precedente “fidanzamento” e come fa con Jordan Baker. È un
voyeur in autoisolamento (che a un certo punto si connota del
«desiderio di guardare tutti dritto negli occhi e al tempo stesso
evitare ogni sguardo»; in questo è simile alla sessualmente ansiosa
Isabel Archer del Ritratto di signora di Henry James, che vuole
«vedere ma non sentire»). Insomma, quando si tratta di vita erotica,
la fantasia è più sicura della realtà.
Mi piaceva passare per Fifth Avenue e nella folla scegliere donne di sogno e
immaginare che di lì a poco sarei entrato nella loro vita, senza che mai nessuno lo
sapesse o disapprovasse. A volte, col pensiero, le seguivo nei loro appartamenti agli
angoli di strade nascoste, dove loro si voltavano e mi restituivano il sorriso prima di
sparire dietro una porta in un buio accogliente. Nell’incantato crepuscolo metropolitano
ero assalito, a volte, da una tormentosa solitudine che percepivo anche negli altri – quei
poveri giovani impiegati che si attardavano davanti alle vetrine in attesa del momento di
una solitaria cena al ristorante, giovani impiegati al crepuscolo che si perdevano i
momenti più eccitanti della notte e della vita.

Di fronte a questo – che è senz’altro «squallido» – forse non c’è da


sorprendersi che Nick cerchi avidamente i tratti dello «splendore»
(una delle sue parole preferite) nella vita e nello stile di Jay Gatsby.
Perché lui, questo sottintende, è tutto quello che Gatsby non è.
«Trent’anni – la promessa di un decennio di solitudine, una lista
sempre più ridotta di scapoli da conoscere, un bagaglio di
entusiasmo sempre più leggero, capelli sempre più radi» – sempre
meno di tutto. Di contro a questo incombere di riduzioni e
impoverimenti, e forse per compensarli, Gatsby è senz’altro
l’incarnazione di possibilità e potenzialità più floride e feconde, meno
emotivamente eziolate e retrattili.
Nick è uno spettatore in cerca di attore. E di Gatsby osserva le
gesta: «se la personalità è una sequenza ininterrotta di gesti riusciti,
allora c’era in lui qualcosa di splendido, una spiccata sensibilità alle
promesse della vita…» Niente salsiccette di maiale e purè di patate
per Gatsby, perlomeno nella versione di Nick. Per quanto lo
riguarda, la sua postazione preferita è ai margini, da osservatore,
non da attore. Al suo primo party a New York il suo istinto è quello di
andarsene ma continua a restare «impigliato» e rimesso «a sedere».
«Eppure alte sulla città le nostre fila di finestre gialle devono avere
elargito la loro quota di umano mistero al passante che avesse
alzato la testa nella strada sempre più buia, e a me sembrava di
vederlo come fossi lì, questo sconosciuto, che guardava all’insù con
meraviglia. Mi sentivo dentro e fuori, al tempo stesso incantato e
respinto dall’inesauribile varietà della vita». Che lo sappia o no, sta
citando quasi alla lettera Whitman («Dentro e fuori del gioco,
osservandolo e meravigliandosi»7) e l’istinto, il bisogno, la capacità
di «meraviglia» è importante per Nick quanto lo è stato per così tanti
scrittori americani. Meravigliarsi spesso comporta e richiede una
distanza, e fa presagire una scarsa inclinazione, se non una
incapacità, alla partecipazione – un’avversione, se non una paura,
per il caldo e il sudore e la vita, e si ha la sensazione che Nick, con
tutti i suoi rimpianti, in qualche modo preferisca il ruolo
dell’osservatore occasionale in strade che volgono al buio. Una delle
differenze con Whitman è la sua quasi equipollente capacità di
“repulsione”. Quando non è incantato, Nick probabilmente comincia
a provare disgusto. Malgrado l’apparente ragionevolezza e la
profferta imparzialità del suo tono, il suo libro su Gatsby è generato
dalla tendenza a oscillare tra questi due estremi. È un’oscillazione
molto americana.
All’inizio Nick si presenta, piuttosto esplicitamente, come
qualcuno in possesso di «un senso del basilare decoro» al di sopra
della media, che al momento si manifesta nel desiderio di «un
mondo sempre in uniforme e moralmente sull’attenti». Potrebbe
darsi che sia brevemente attratto da Jordan Baker perché con il suo
corpo androgino («slanciata, con il seno piccolo») e il «portamento
eretto» somiglia a un giovane «cadetto»? Comunque sia, lui ha
chiaramente qualcosa di autoritario nel carattere, uno sviluppato
istinto per la disciplina, l’igiene e l’ordine, come prontamente
ammette (è parte della sua capacità di coinvolgere come narratore).
A volte è non dico bacchettone, ma un tantino compassato.
Preferisce una vita in uniforme, tanto che in occasione di un episodio
particolarmente imbarazzante a casa dei Buchanan, ammette di
avere avuto l’istinto «di telefonare immediatamente alla polizia».
Quando decide di troncare in modo netto la sua relazione con
Jordan Baker, ne parla in termini di faccende domestiche: «volevo
lasciare tutto in ordine, non affidarmi a quel mare obbediente e
impassibile perché ripulisse la mia spazzatura». (Potremmo notare,
tuttavia, che in passato non gli è importato niente che un elemento
non meglio identificato spazzasse via un precedente impegno
sentimentale.) La manifesta ripugnanza di Nick per i “rifiuti”, una
pulsione leggermente ossessiva a pulire, si rivela in varie occasioni.
Ne menzionerò due.
Al suo primo party, da ubriaco, a New York, mentre tutto si sfalda
in un crescendo di sgangherata insensatezza, nonostante si tratti di
una delle due sole volte in vita sua in cui si è concesso di ubriacarsi,
Nick non perde il suo istinto schizzinoso: «Il signor McKee dormiva
in poltrona con i pugni chiusi in grembo, la fotografia di un uomo
d’azione. Tirai fuori il fazzoletto e gli pulii lo sbaffo di schiuma secca
sulla guancia che mi aveva fatto penare tutto il pomeriggio». Poco
dopo Tom Buchanan rompe il naso a Myrtle e la festicciola precipita
nel caos più totale. Ma ecco a voi i Buchanan: «Erano gente
sbadata… fracassavano cose e creature e poi si rifugiavano nei loro
soldi o nella loro diffusa sbadataggine, o qualunque cosa fosse a
tenerli insieme, lasciando agli altri il compito di raccogliere i cocci…»
Tom sparge brutalmente sangue; Nick pulisce meticolosamente un
puntino di schiuma da barba, un minuscolo frammento di quella
materia-fuori-posto che chiamiamo sporcizia. Oltre ad avere un
istinto, educatamente controllato, per fare il poliziotto morale della
società, Nick aspira anche a essere uno dei suoi addetti alle pulizie.
L’esempio più vivido è il gesto che compie prima di lasciare per
sempre l’Est, significativamente l’ultimo, quando torna a dare ancora
un’occhiata a «quell’illogico e fallimentare castello di casa»: «Alla
luce della luna si vedeva chiaramente una parola oscena
scarabocchiata da un ragazzino con un pezzo di mattone sui gradini
bianchi; la cancellai con la suola della scarpa». Questo è senz’altro
un aspetto del suo «senso del basilare decoro», e siamo pronti a
condividere e apprezzare la sua istintiva ripugnanza per l’irrispettosa
deturpazione e profanazione. Ma questo atto di “cancellazione” è più
esteso, nella sua appropriatezza e suggestione. Forse sarebbe
troppo dire che la stessa carriera di Gatsby (per ora mettiamo da
parte i suoi sogni) sia un’“oscenità”, ma è chiaro che la sua carriera, i
suoi soldi e la sua identità siano fondati su una serie di operazioni
più o meno sporche, più o meno criminali. E in più di un’occasione
Gatsby manda dei segnali a Nick affinché Nick affronti e riconosca
questo fatto. Nick si rifiuta sempre, preferendo “cancellare”
qualunque lato “sporco” della storia: per omissione, negazione,
abbellimento, reinterpretazione o trasformazione – anche se,
ovviamente (ed è parte della bellezza del libro) continuiamo a
intravedere e a intuire quello che cerca di tenere fuori e di non
scrivere. (Per esempio, Nick inquadra la relazione iniziale fra Gatsby
e Daisy come una cosa romantica e poetica, e solo in seguito viene
a sapere che Gatsby la prese «voracemente e senza scrupoli».) Ma
in questo libro Nick preferisce concentrarsi sulla figura del sognatore
speranzoso e sfortunato vestito di rosa. A un certo punto ci informa
che sta scrivendo quanto ha successivamente appreso della
precedente vita di Gatsby – Dan Cody eccetera – per «togliere di
mezzo questa serie di equivoci», vale a dire le sfrenate e insulse
dicerie che circolavano sull’enigmatico Gatsby. Queste le toglie
certamente di mezzo, ma è possibile che tolga di mezzo – pulisca –
anche molto di più. Noi prendiamo quello che ci dice su Dan Cody
come una fedele trascrizione. Che dire, però, di questo condensato
racconto dell’adolescenza di Gatsby?
Ma il suo cuore era in costante e turbolento tumulto. Di notte, a letto, era ossessionato
dalle idee più grottesche e fantastiche. Al ticchettio dell’orologio sul lavabo e sotto
l’umida luce lunare che bagnava gli abiti sparsi sul pavimento, nel suo cervello si
tesseva un universo di ineffabile sfarzo. Ogni notte arricchiva il disegno delle sue
fantasticherie fino a quando, su una qualche vivida scena, calava il torpore avvolgendolo
nell’oblio. Per un certo periodo la sua immaginazione trovò sfogo in questi sogni a occhi
aperti; erano un valido indizio dell’irrealtà della realtà, la promessa che il sostrato
roccioso del mondo poggiava su ali di fata.
Ma chi è? Gatsby? O Nick? O dovremmo ormai semplicemente dire
Nick Gatsby? Gatsby sfrutta la luce della luna (il sogno,
l’immaginazione) per sconfiggere il ticchettio dell’orologio (la storia,
l’irreversibilità), ma anche Nick predilige il chiaro di luna, e cerca di
evitare che venga insozzato e contaminato dalle inscritte oscenità
del reale. L’immaginazione di Nick trova sfogo in Gatsby – che è
l’immagine onirica dello «sfarzo» per Nick – e Gatsby appare a Nick
come un valido, o abbastanza valido, indizio dell’«irrealtà della
realtà». Il «sostrato roccioso del mondo» è duro, e infrange ciò che è
fragile e vulnerabile, come fanno i pugni e le parole di Tom
Buchanan; Nick preferisce immaginare Gatsby che immagina
l’incredibile, e cioè che il sostrato roccioso del mondo sia successivo
alle ali di fata – come se si potesse poggiare qualcosa
sull’immateriale, su una ragnatela, diciamo. Più in generale non è
mai possibile sapere se Nick aggiunga o sottragga, stabilire se gonfi
o cancelli, indovinare quando stia semplicemente fantasticando o,
più estrosamente, eludendo per empatia. Dalla prima pagina ci dice
che, forse proprio per la sua presunta inclinazione al riserbo
nell’esprimere giudizi (e non si riserva dall’esprimerne nel libro), ha
spesso beneficiato delle «intime rivelazioni dei giovani uomini» e ha
notato che di frequente queste siano dei «plagi e inficiate da palesi
omissioni». Potremmo dunque da subito essere messi sull’avviso
che le sue stesse «intime rivelazioni» – forse tutte le sue rivelazioni
– avranno anche, e inevitabilmente, queste caratteristiche. Nick
afferma di essere «una delle poche persone oneste che io abbia mai
conosciuto», ma Jordan Baker potrebbe anche non avere tutti i torti
quando, dandogli l’addio, gli dice che anche lui, a modo suo, è «un
pessimo autista».
Mettiamola in un altro modo. Quando Nick arriva per la prima
volta all’officina di Wilson nella valle di ceneri, la sua reazione è
questa: «L’interno era misero e disadorno; di automobili se ne
vedeva una sola, una carcassa di Ford ricoperta di polvere,
acquattata in un angolo buio. Stavo pensando che quell’ombra di
officina servisse da copertura a sontuosi e romantici appartamenti
celati al piano superiore…» Nick non riesce a tollerare il pensiero di
affrontare una realtà che è tutta e soltanto povera e disadorna,
coperta di polvere e scarcassata. Deve esserci qualcosa di più, tutta
un’altra recondita dimensione sontuosa e romanzesca di cui il
manifesto impoverimento e il degrado di ciò che appare alla vista, il
dato, non sono altro che una fuorviante «copertura», una maschera
ingannevole. Ma la disadorna realtà dell’officina è molto concreta, se
non viene trascesa, e non nasconde altro che una squallida tresca;
nella valle di ceneri non c’è niente oltre a ciò che si vede. I
fantasmatici «sontuosi e romantici appartamenti» sono creazioni
architettate dalla sua prolifica immaginazione, che si attiva al tempo
stesso in funzione delle sue mancanze e dei suoi desideri. Quindi
invece di pensare a rimozione e plagio potremmo più accuratamente
parlare di cancellature e integrazioni fornite dalla sua
immaginazione, e ovviamente dalla sua scrittura.
Voglio soffermarmi su tre esempi di “integrazione” evidenti in
alcune frasi e in alcuni passaggi chiave del libro. Uno dei molti colpi
da maestro di Fitzgerald nel tagliare e aggiungere (prova di una
mano sicura e ispirata al limite del perturbante) è l’inserimento nelle
bozze del romanzo della famosa battuta di Gatsby «la sua voce è
piena di soldi». Il commento e la glossa di Nick sono notevoli e
notevolmente rivelatori: «Era proprio così. Non l’avevo mai capito
prima. Era una voce piena di soldi – da questo derivavano
l’inesauribile incantesimo nei suoi forte e piano, il suo tintinnio, il
canto dei cembali… In alto, nel bianco palazzo, la figlia del re, la
fanciulla dorata…» Nick parte per una rêverie di libere associazioni
sintatticamente sconnessa. Ma è legittimo percepire che non è per
niente così, e che i tintinnii e il simbolismo e le figlie di re non
c’entrano niente. Molto più probabilmente Gatsby intende dire che
Daisy è un prodotto molto costoso, che ci vogliono un sacco di soldi
per realizzare e mantenere un prodotto del genere, che lei davvero
respira soldi e con questa frase lui rivela di esserne consapevole.
Nick preferisce ignorare il riferimento materiale, «il sostrato roccioso
del mondo», e vola nel regno delle fate. Qualunque cosa voglia dire
Gatsby con la sua sottile ed enigmatica affermazione, è Nick che, fin
dall’inizio, confessa di trovare «avvincente» la voce di Daisy, non
piena di soldi ma di eccitazione e di promesse. Quando ipotizza che
«ad avvincerlo più di tutto fosse la voce, con il suo tepore fluttuante
e febbrile, perché nessun sogno poteva superarla», possiamo forse
essere ancora più certi che sia soprattutto Nick a essere avvinto da
quella voce perché certamente non può venire superata da nessun
sogno, come più tardi dimostra (nel passaggio citato sopra). Oltre a
essere una specie di disincantato moralista, Nick si rivela anche un
esaltato sognatore – una caratteristica per la quale si può senz’altro
provare una qualche simpatia.
A un certo punto, quando si è del tutto appropriato della storia di
Gatsby, prendendo a raccontarla con convinzione in discorso
indiretto in terza persona, Nick si concede questo lirico resoconto:
Con la coda dell’occhio Gatsby vide che le pietre del marciapiede formavano una scala
che portava fino a un luogo segreto al di sopra degli alberi – sarebbe potuto salire, se
fosse salito da solo, e una volta lassù avrebbe potuto ciucciare il capezzolo della vita e
inghiottire l’incomparabile latte della meraviglia.
Il cuore gli batteva sempre più forte mentre il volto bianco di Daisy si avvicinava al suo.
Sapeva che baciandola avrebbe congiunto per sempre le proprie indicibili visioni al
respiro perituro di quella ragazza, e la sua mente non avrebbe più scorrazzato libera
come quella di Dio. Quindi aspettò, restando ancora un momento in ascolto del
diapason battuto su una stella. Poi la baciò. Al tocco delle sue labbra, lei sbocciò come
un fiore per lui e l’incarnazione si compì.
Quello che disse, con tutto il suo rivoltante sentimentalismo, mi rievocò qualcosa – un
ritmo elusivo, un frammento di parole perdute, che avevo udito anch’io da qualche parte
tanto tempo prima. Per un momento una frase cercò di formarsi nella mia bocca, e le
mie labbra si schiusero come quelle di un muto, come se dovessero combattere con
qualcosa di più che un fiato d’aria in movimento. Ma non emisero alcun suono e il
ricordo che stava per affiorare restò incomunicabile per sempre. [Corsivo mio.]

Forse la prima domanda da farsi è: il rivoltante sentimentalismo di


chi? Sappiamo che Gatsby prese Daisy «voracemente e senza
scrupoli» e probabilmente non aveva in mente molte «indicibili
visioni» e «respiro perituro». I diapason battuti sulle stelle sono roba
da canzonette popolari, centinaia e non delle migliori, che senz’altro
Nick si canticchia mentalmente. Di sicuro Nick, scapolo incallito,
crede che per una massima gratificazione è meglio salire da soli,
così come v’è certamente qualcosa di regressivo nell’idea di salire in
un luogo segreto per ciucciare un qualche latte meraviglioso dal
capezzolo della vita (vi sarà altro da dire sui capezzoli della vita e sul
latte della meraviglia). Questa allusione alla nostalgia per i piaceri
dell’infanzia si estende all’uso della parola romp (“scarrozzare”);
dopodiché, paragonare le libertà e i compiacimenti anarchici ed
egoisti della culla con la mente di Dio è un audace tentativo di dare
un’inclinazione religiosa a questi aneliti regressivi. Qualunque cosa
pensasse Gatsby quando corteggiava Daisy, certamente non
pensava a tutto questo, o no?
La questione prende ancora più vigore quando scopriamo che in
una fase della scrittura Fitzgerald aveva aggiunto alle bozze sei
pagine che non lasciavano dubbi sul fatto che il «rivoltante
sentimentalismo» fosse prerogativa di Gatsby. In queste pagine, per
esempio, c’è un dialogo tra i due uomini nel quale Nick
empaticamente dice che Daisy è «l’appagante incarnazione di
qualunque cosa» e Gatsby dice con fin troppa perspicace
rassegnazione: «Lo è… ma è un po’ come amare un luogo dove un
tempo sei stato felice». Ancora più disastroso sarebbe risultato
l’inserimento, o la sua ritenzione, della seguente confessione
autoanalitica di Gatsby: «“Ma la verità è che io sono vuoto e
immagino che la gente lo percepisca… Daisy è tutto quello che mi
resta di un mondo talmente meraviglioso che quando ci penso mi
sento male”. Si guardò intorno con feroce rimorso. “Lascia che ti
canti una canzone, voglio cantarti una canzone… la sua melodia mi
rende felice. Anche se non la canto spesso, perché ho paura di
consumarla”». La canzone, una cosa che aveva scritto quando
aveva quattordici anni – quattordici anni! Il futuro di quest’uomo è
davvero nel passato – veniva riportata integralmente e giustificava
ampiamente il commento di Nick sul «rivoltante sentimentalismo» di
Gatsby. Ma più infallibilmente che mai Fitzgerald lasciò soltanto
l’ultimo paragrafo del passaggio sopraccitato ed eliminò la parte più
riduttivamente esplicita. I tagli incrementano l’inconoscibilità di
Gatsby, e il paragrafo conservato suggerisce che qualunque corda di
nostalgia, memoria e desiderio possa toccare la figura di Gatsby,
questa rimane irrecuperabile, incomunicabile, inarticolabile – perduta
(come, in effetti, il sogno americano). E da dove vengano il
sentimentalismo e gli impulsi regressivi non è più chiaro.
Percepiamo soltanto che sono nell’aria – nell’aria della scrittura. La
scrittura di Nick.
Forse il seguente è il paragrafo più famoso del libro.
Suppongo che avesse pronto quel nome già da tanto tempo. I suoi genitori erano
contadini di scarso talento e raccolto – nella sua immaginazione non li aveva mai
veramente accettati come genitori. La verità era che il Jay Gatsby di West Egg, Long
Island, era il frutto della sua platonica concezione di se stesso. Era figlio di Dio – una
frase che, se significa qualcosa, significa esattamente questo – e si doveva occupare
della Ditta del Padre suo, al servizio di una vasta, volgare e mercenaria bellezza. Così
inventò il Jay Gatsby che avrebbe potuto inventare un ragazzo di diciassette anni, e a
questa concezione restò fedele sino alla fine.

Nick suppone, ma poi dichiara «la verità». Questa «verità» che


afferma su Gatsby – e che in modo audace, se non blasfemo, invoca
l’autorità sia di Platone che di Dio – sprigiona dal fatto che Gatsby
non ha mai accettato i suoi genitori come genitori. Come Rudolph
Miller, come lo stesso Fitzgerald e come molte altre figure della
storia, della vita e della letteratura americana che si sono fatte
genitori di se stesse. Le ragioni di questa determinazione, o istinto, a
rifiutare o a negare i propri genitori – che in modo più specifico è
principalmente un ripudio dell’autorità, prescrittiva e proscrittiva, dei
padri, che siano biologici o fondatori – spaziano dall’ambito pratico
(togliersi di dosso l’identità di immigranti) a quello ideologico
(liberarsi del peso di un passato coercitivo, restrittivo,
predeterminante). Non sono così sciocco da suggerire che l’istinto a
rinnegare i genitori sia una peculiarità americana – in fin dei conti il
“romanzo familiare” di Freud suggerisce piuttosto che sia una
tendenza più o meno universale; ma non v’è dubbio che in America
lo si avverta con una forza del tutto speciale, essendo oltretutto
specificamente approvato e sostenuto dalla cultura. È a tutti gli effetti
inscritto nella letteratura americana come una specie di obbligo e
prerequisito per il conseguimento di una vera e propria identità
“americana”. «La nostra età è retrospettiva. Costruisce i sepolcri dei
padri»8. Così comincia la prima opera di Emerson, Natura, il saggio
del 1836 che avrà un’enorme influenza. Per Emerson costruire i
sepolcri dei padri è proprio ciò che gli americani non dovrebbero
fare: i padri (e le nazioni paterne, come l’Inghilterra) devono essere
dimenticati. «Perché non dovremmo sperimentare anche noi un
rapporto originale con l’universo?… Il sole risplende anche oggi… Ci
sono nuove terre, nuovi uomini, nuovi pensieri»9. Emerson, e molti
scrittori dopo di lui, metteranno l’accento sulla fiducia in se stessi,
sullo scolpire se stessi, sull’architettare se stessi, sull’inventare se
stessi – le metafore sono tante. Il self made man americano gode di
legittimazione e incoraggiamento prestigiosi (The Self-Made Man di
Greeley apparve nel 1862). Jay Gatsby è un giovane uomo molto
americano.
Ma che dire di Dio e di Platone? Al fine di evidenziare una
particolare qualità del vocabolario di Nick ora devo mettere insieme
alcuni brani. Verso la fine, dopo avere riassunto le procedure legali e
logistiche seguite al mortale colpo di pistola inferto a Gatsby, Nick
scrive: «Ma tutta questa parte della faccenda sembrava remota e
inessenziale». Ancora più verso la fine Nick fa riferimento alle
«inessenziali case» che si dissolvono al salire della luna. In entrambi
i casi viene negata l’essenzialità, l’essere parte dell’essenza.
Quando Nick immagina lo stato mentale di Gatsby che, in attesa di
un messaggio telefonico da Daisy, riceve invece la visita di Wilson,
diventa alquanto metafisico.
Nemmeno Gatsby, secondo me, credeva che sarebbe arrivato e forse non gli importava
più. Se così era, avrà pensato di avere perso irrimediabilmente il vecchio mondo con il
suo calore e di avere pagato caro il fatto di aver vissuto troppo a lungo con un unico
sogno. Avrà guardato in alto, tra foglie spaventose, un cielo che gli sarà sembrato
estraneo e avrà provato un brivido nello scoprire che cosa grottesca è una rosa e
quanto è cruda la luce del sole sull’erba appena creata. Un mondo nuovo, materiale
senza essere reale, in cui poveri fantasmi che respirano sogni come fossero aria si
aggiravano a caso… come quell’indistinta sagoma cinerea che avanzava silenziosa tra
gli alberi amorfi verso di lui.

«Materiale senza essere reale» è una distinzione di diretta


ascendenza neoplatonica (il realmente Reale deve essere trovato, o
cercato, nel dominio delle Idee, o Forme, immutabili). Ma quello che
qui Nick trascrive è qualcosa di più simile a un momento di panico
esistenziale, come quello descritto da Sartre nella Nausea, quando
Roquentin, fissando un albero, fa esperienza di una terribile
percezione della pura e semplice, assurda, orribile gratuità delle
cose – un’epifania negativa in cui la materia senza significato
diventa mostruosa, «spaventosa», «grottesca». È così, pensa Nick,
che deve essere apparso il mondo a Gatsby; vuoto, perché privato
del suo sogno di Daisy. Ed è forse così che il mondo comincia ad
apparire a Nick, senza Gatsby e quindi senza il tenace, per quanto
spacciato, sogno di Gatsby.
A questo passaggio segue la descrizione di Nick di quello che ha
visto quando sono corsi alla piscina dove hanno sparato a Gatsby.
C’era un lieve, appena percettibile, movimento dell’acqua che affluiva fresca da una
parte e defluiva verso lo scarico dall’altra, e il materassino con il suo carico veniva
sospinto con piccole increspature che non erano neanche un’ombra di onde. Una folata
di vento che a malapena corrugò la superficie dell’acqua fu però sufficiente a disturbare
l’accidentale traiettoria del materassino e del suo accidentale fardello. [Corsivo mio.]

In un libro pieno di pessimi autisti, di automobili e di incidenti, incluso


quello fatale che fa precipitare la catastrofica conclusione, la parola
in corsivo è altamente appropriata. Ma la deliberata ripetizione ci
serve a ricordare il significato più generale, filosofico, della parola
che è, per l’esattezza, “non essenziale”. Nick ci racconta che quando
Gatsby incontrò Daisy si trovò a casa sua per un «colossale
accidente»: argutamente o meno, ha scelto un’espressione
profeticamente adatta, perché anche la loro relazione finisce con e
per un «colossale accidente», o per essere più precisi un orribile
incidente. È stata tutta una faccenda accidentale e accidentata
dall’inizio alla fine? Ora che Gatsby è morto a Nick sembra di dover
fare i conti con un mondo del tutto contingente. Inessenziale. Non
essenziale. Quando Tom Buchanan, certo di avere dimostrato che
Gatsby è un volgare criminale, sprezzantemente licenzia Gatsby e
Daisy facendoli tornare in macchina insieme, Nick scrive: «Se ne
andarono senza una parola, erano stati rimossi, come un incidente
di percorso…» In un mondo dominato dai Buchanan, a regnare è la
pura contingenza: spaventosa, grottesca.
Quando Gatsby e Daisy si sono rincontrati, nel racconto di Nick
proprio al centro del libro, Gatsby a volte «si guardava intorno
disorientato, come se di fronte all’effettiva e strabiliante presenza di
lei i suoi possedimenti non fossero più reali». Neoplatonismo più
raffinato, con il più elevato “effettivo” (ideale) che disloca e toglie
valore, di fatto de-materializza il reale meramente materiale. Non v’è
da stupirsi che Gatsby si senta, per un momento, ontologicamente
disorientato. «A un certo punto poco mancò che rotolasse giù dalle
scale». Quando c’è di mezzo Gatsby, la questione di cosa sia il
“reale” e dove lo si possa trovare, diventa problematica, e
sorprendente. C’è una scena stupenda in cui Nick e Jordan,
entrando in biblioteca, incontrano l’ospite ubriaco con gli occhiali da
gufo, e questi si lancia in un elogio ammirato:
«Che ne pensate?» domandò con impeto.
«Di che?»
Agitò la mano in direzione degli scaffali.
«Di quelli. In effetti non dovete darvi il disturbo di controllare. Ho controllato io. Sono
veri».
«I libri?»
Annuì.
«Assolutamente veri, con le pagine e tutto. Pensavo fossero di un bel cartone resistente.
E invece sono assolutamente veri. Hanno le pagine e… Ecco, vi faccio vedere».
Dando per scontato il nostro scetticismo, si avventò sulla libreria e ne tornò con il primo
volume delle Stoddard Lectures.
«Vedete?» esclamò trionfante. «In tutto e per tutto un perfetto esemplare di carta
stampata. Ci sono cascato. Quest’uomo è un vero e proprio Belasco. Un trionfo. Che
cura del dettaglio! Che realismo! Ha pure capito quando fermarsi: non ha separato le
pagine. Che volete di più? Che vi aspettate?»

David Belasco era un produttore di Broadway famoso per il realismo


delle sue scenografie. Gatsby teatralizza se stesso e il suo
ambiente, ed è spesso difficile capire quali elementi dello spettacolo,
quanto di ciò che mette in scena sia “reale”. Può succedere che
proprio dove ti aspetti, o sospetti, di trovare le forme più smaccate di
artificio e artificialità – diciamo, i libri della biblioteca, o
l’imbarazzante convenzionalità del racconto della sua vita, che non
si limita a mettere alla prova la nostra credulità ma proprio vi si
sottrae – scopri di esserti imbattuto nell’autenticità: «Sono veri…
Assolutamente veri»; «Quindi era tutto vero». Forse, allora,
dovremmo andare a cercare il “reale” dove meno ce lo aspettiamo,
pronti, nel caso di Gatsby (forse nel caso dell’America) a riconoscere
il merito nel meretricio, il valore nella volgarità.
Vale la pena soffermarsi un momento sul termine
“assolutamente”. È la prima parola pronunciata da Jordan Baker
nella scena d’apertura, così apparentemente a sproposito da far
sobbalzare Nick; lei poi dirà anche di essere «assolutamente in
allenamento». «È assolutamente qui che vivi, carissimo?» chiede
giuliva Daisy a Nick prima di andare a casa di Gatsby10, e in un’altra
occasione definisce Nick «un’assoluta rosa» – difficile immaginare
una descrizione meno appropriata di Nick, che è piuttosto una
mammoletta compassata da carta da parati. È ovvio che
“assolutamente” è diventato qui uno di quei termini vuoti che
costituiscono parte del gergo delle chiacchiere di un particolare
gruppo sociale, o periodo, e non ha alcun significato concettuale.
Quindi non dovremmo dare troppo peso a questa parola o tentare di
scorgervi chissà che quando l’uomo con gli occhiali da gufo
commenta con un certo stupore l’assoluta realtà dei libri di Gatsby.
Però è vero che nel discorso narrativo di Nick c’è una fame di
assoluto, di essenzialità, di un Reale che non sia solo contingente,
materiale, «accidentale». Nel desiderio di Nick di credere in una
qualche forma o figura di splendore, per compensare lo squallore
con cui ha fin troppa, e sempre più, familiarità, si mescola un anelito
teologico e metafisico – per quanto residuale e confuso. Per questo
invoca deliberatamente e audacemente Dio e Platone nella sua
celebrativa elegia del criminale americano sentimentale con la sua
mascherata di vestito rosa. Alla fine dell’Incanto del lotto 49 di
Thomas Pynchon, l’eroina, Oedipa Maas, arriva a una crisi
personale che riguarda niente meno che il significato dell’America
tutta.
Un’altra chiave di significato alle spalle di quella ovvia, o nessuna. Oedipa nell’estasi
orbitante di un’autentica paranoia, o un Tristero reale. Perché o esisteva un Tristero di là
dall’apparenza dell’eredità America, o esisteva soltanto l’America, e se esisteva soltanto
l’America sembrava che l’unico modo in cui Oedipa potesse proseguire e contare
qualcosa per essa era da straniera, spianata, assunta a cerchio chiuso in qualche
paranoia11.

Nick non è Oedipa e Gatsby non è il Tristero (un’ambigua società


segreta che opera al di là o al di sotto delle ufficiali strutture di potere
costituite). Ma vi si può riconoscere qualcosa di comune
nell’atteggiamento, e nel bisogno, e nelle presunte alternative,
riscontrabile forse in tutta la letteratura americana. Fin dal tempo dei
puritani l’idea che vi fosse «soltanto l’America» è stata percepita
come intollerabile e inaccettabile. Deve esserci «un’altra chiave di
significato alle spalle di quella ovvia». La si può scoprire e affermare
alla maniera dei puritani (Dio) o dei trascendentalisti (Platone), ma in
un modo o nell’altro ricorre l’urgenza di farlo, o la paura di non
essere in grado di farlo. È questo ciò che guida e preoccupa Nick,
proprio come Oedipa Maas, e se Nick non ci mostra di ricorrere
all’alternativa di Oedipa, e cioè alla paranoia, si potrebbe sostenere
che, per consolarsi in un mondo post-Gatsby, lui trovi rifugio nella
scrittura e nella fantasia. E se di sfuggita coglie alcune delle più
sordide e brutte realtà sociali, sessuali ed economiche della storia
che deve raccontare, Nick si rifiuta di permettere a queste di
dominare il suo racconto, come la vita, perché se lo facessero, vi
sarebbe «soltanto l’America». Conseguentemente, scrive Richard
Godden, «ogni qual volta che le intrinseche contraddizioni del
soggetto diventano troppo destabilizzanti, lui trasforma l’ambizione
sociale in “sogno”, i traffici sessuali in “storia d’amore” e il conflitto di
classe in “tragedia”»12.
Quando Nick si presenta al lettore, parla della sua famiglia con
un’onestà così disinvolta e disarmante che è facile lasciarsi sfuggire
le implicazioni di quanto rivela.
La mia è una rispettata famiglia di gente benestante, da tre generazioni, in questa città
del Midwest. I Carraway sono una specie di clan e una tradizione ci vuole discendenti
dai duchi di Buccleuch, anche se l’effettivo fondatore della stirpe fu il fratello di mio
nonno, che arrivò qui nel ’51, mandò un altro a fare la Guerra civile al posto suo e avviò
il commercio di ferramenta all’ingrosso che mio padre porta avanti ancora oggi.

Sotto la cosmesi operata dai termini «clan», «tradizione», «duchi»


eccetera, qui di «effettivo» c’è una faccenda alquanto ingloriosa,
codarda, materialmente opportunistica. Verso la fine della Scena
americana Henry James, dopo avere visitato la vecchia città di St
Augustine in Florida, ricorda come gli illustratori delle riviste
avessero trovato, o tramato, la maniera per dare alla città un
carattere «intensamente romantico», attribuendole, alquanto
falsamente, ogni genere di scorci e connotati di «spagnola
antichità». Su questo James riflette:
[la scuola del “bianco e nero”…] si fa decisa interprete della morale casalinga secondo
cui, se non si dispone di ciò che piace, occorre farsi piacere, e soprattutto distorcere ciò
di cui si dispone… l’impressione che ebbi, un po’ dappertutto, fu che i guardiani dei
valori reali fossero difficili da trovare. Tutta la questione, in effetti, sembrò tornare ancora
una volta, in modo piuttosto interessante, a quell’assioma generale circa lo scompenso
tra le aspirazioni estetiche, di un certo tipo, che il paese nutre per valori molto più
importanti e quelle che esso, i suoi costumi, il suo aspetto e i suoi modi, il suo presente
e il suo passato – e forse, addirittura, il suo futuro – sono realmente in grado di fornire;
ragion per cui, dal momento che le aspirazioni di natura estetica sono pur sempre
mescolate a quelle di natura patriottica, occorre comunque improvvisarne un
campionario, magari attraverso la pratica di qualche veniale “imbroglio” pittorico:
debbono, come si usa dire, essere sapientemente “contraffatte”… i romanzieri, con
l’aiuto degli storici, improvvisano un passato indigeno romantico, fatto di costume e di
ossequio, di duelli e coraggio e passione; i drammaturghi, da mille pezzi diversi,
trasformano in trame, situazioni ed effetti teatrali le frivole invenzioni di cui abbonda la
vita di uomini per i quali gli elementi di conflitto e di contrasto sono i più semplici e
superficiali, mentre i genealogisti ritoccano il quadro con i loro simpatici suggerimenti
circa il numero delle famiglie di sangue reale esistenti nel paese… È dunque il pubblico,
cui queste apparenze collettivamente ci rimandano, a divenire di nuovo l’argomento più
avvincente; il pubblico tanto placidamente acritico che neppure il filo più bianco con cui è
cucito l’inganno riesce mai a fargli battere le palpebre, e al tempo stesso tanto
pervicacemente e semplicemente sentimentale che, trovando ovunque perfettamente
splendida ogni cosa, letteralmente si inginocchia per essere truffaldinamente truffato13.

Certamente Nick non trova «ovunque perfettamente splendida ogni


cosa», e non vorrei mai lasciare intendere che anche nel senso più
metaforico lui s’inginocchi davanti a Gatsby per essere
«truffaldinamente truffato». Ma c’è in lui una punta del romanziere e
del drammaturgo descritti da James, e in un paio di occasioni si
mostra determinato a non battere ciglio davanti al filo bianco di
qualche ingannevole rammendo piuttosto visibile. E se
personalmente si rifiuta d’essere complice del genere di “imbroglio”
genealogico che evidentemente prevale nella sua famiglia – perché
lui invece lo strombazza, seppur di passaggio – cionondimeno rivela,
o evoca, una società tollerabilmente permeata di “imbrogli”, per non
dire contraffazioni e falsità, di ogni genere.
Vi ci troviamo senz’altro una gran quantità di visibile imbroglio
architettonico, a partire dalla villa di Gatsby, che è «la perfetta
imitazione di un qualche hôtel de ville in Normandia». E nell’ambigua
atmosfera in cui Gatsby si muove e opera le imitazioni degli edifici
non si distinguono facilmente dalle imitazioni dei fatti. (Se trucchi le
World Series hai prodotto l’imitazione di un fatto. Gatsby conosce
l’uomo che ha compiuto l’opera; è il tipo di gente che frequenta.) La
villa ha una torre che, come osserva lo sguardo spesso tutt’altro che
“truffato” di Nick, «sotto una fine peluria di edera selvatica era nuova
di pacca». Questo è un perfetto esempio della pratica di distorsione,
di imbroglio e di falsificazione che meritò le critiche di James: la
grezza sovrapposizione di una falsa vernice di antichità (la fine
peluria di edera selvatica) sul “nuovo di pacca” del… Sì,
dell’America, direbbe James. Questo desiderio di applicare una
prestigiosa patina di passato a un presente meno ovviamente illustre
può avere origini diverse. Non l’ha fatta costruire Gatsby la sua
fasulla villa francese. Era stata commissionata una decina di anni
prima da un produttore di birra desideroso di imporre, su ampia
scala, un passato alieno sul paesaggio americano: «girava voce che
si fosse offerto di pagare ai proprietari dei villini del vicinato cinque
anni di tasse se avessero fatto ricoprire di paglia i loro tetti». Non
vollero, e lui morì. Pazzo davvero; ma anche Gatsby, a modo suo,
cerca di «ripetere» il passato, perché «“certo che si può!”» dice. E le
cose non stanno molto diversamente nella più modaiola East Egg. I
Buchanan vivono in una «villa coloniale rossa e bianca, in stile
georgiano» con un «giardino… all’italiana». Sicuramente Tom
possiede il peggior tipo di mentalità “colonialista” – gli altri esistono
soltanto per soddisfare i suoi bisogni e i suoi appetiti – ma non è più
radicato nella storia americana antica, o a questa significativamente
connesso, di quanto lo sia Gatsby. La casa apparteneva in origine a
«Demaine, quello del petrolio» e si può cogliere con quanta perizia e
altrettanta discrezione Fitzgerald avvalori il suo discorso. Un
produttore di birra e un petroliere: il denaro necessario per erigere
queste grandiose maschere architettoniche, attingendo dall’Europa e
dalla storia per quelle facciate che al tempo stesso possano
nascondere e nobilitare le origini della loro opulenza, deriva dall’alcol
e dal petrolio, due delle materie prime basilari, che servono proprio
ad alimentare gran parte della società americana, muovendo
l’economia e le persone in modi diversi e pericolosi: pensate a
quanto si parla, in questo romanzo, di bere e di guidare – e di guida
in stato di ebbrezza. A un certo punto Tom si vanta che mentre si
sente spesso parlare di gente che di una scuderia fa un garage, lui è
il primo a fare di un garage una scuderia. È una conversione
suggestiva: una volta che hai fatto abbastanza denaro – diciamo con
il petrolio – puoi rivestirlo con la paglia della tua preferita
falsificazione pastorale. Naturalmente vi sono molti, moltissimi
garage americani destinati a rimanere sempre e solo dei garage –
non redditizi, non convertibili, non redimibili. Chiedete a Wilson nella
valle di ceneri.
Nel libro vi sono altri “imbrogli” decorativi – per esempio il mobilio
foderato di tessuto gobelin con «scene di dame in altalena nei
giardini di Versailles» nell’appartamento di Myrtle – ma ne abbiamo
osservati abbastanza per indicare che Fitzgerald ci offre scorci di
una nazione dove il passato è ben poca cosa, e di una società fatta
di gente che, se può permetterselo, va in cerca, in modo eclettico, di
ogni tipo di facciata d’importazione (esotica, storica) per coprire non
soltanto i nudi fatti relativi a come fa o ha fatto i soldi (non è una sua
esclusiva, lo stesso vale per l’Inghilterra vittoriana) ma anche quello
che è “nuovo di pacca”. C’è un bell’episodio riportato da Nick: è
giunto da poco a West Egg e prova la solitudine del nuovo arrivato,
quando un estraneo gli chiede la strada per andare in paese. «Glielo
dissi. E quando ripresi a camminare non mi sentivo più solo. Ero una
guida, un pioniere, un colono originario». In questa occasione Nick si
esprime con un tono di estrema simpatia, in una sorta di elegante
esagerazione, al tempo stesso giocosa e modesta, epperò con
grande leggerezza tocca una questione di grande portata. La sua
istantanea trasformazione da solitario nuovo arrivato a «colono
originario» è la versione comica di qualcosa che ha riguardato gli
americani, in vario modo, fin dai loro primi insediamenti. Poiché tutti
gli abitanti del suolo americano (una volta fatta piazza pulita degli
indiani) sono stati, in un certo senso, dei nuovi arrivati trapiantati,
hanno sempre voluto darsi una qualche “origine” in America; sono
andati alla ricerca, diciamo così, di modalità di più o meno istantaneo
radicamento. Nel loro competitivo confronto Tom deride Gatsby
chiamandolo «il signor Nessuno di Non-si-sa-dove». Secondo Nick
si tratta di un difensivo «farneticare», ma in effetti la frase contiene
un’implicita domanda: c’è in questo libro una sola persona che si
possa dire il signor o la signora Qualcuno di Si-sa-dove? Sono tutti
nomadi irrequieti del Midwest, distinti solamente da una maggiore o
minore disponibilità di denaro: l’irrequietezza è il mood dominante
nel romanzo, è una parola che torna di frequente, con le sue varianti.
«Non v’è un lì lì» disse Gertrude Stein di Oakland, e si potrebbe
ragionevolmente estendere l’osservazione a tutta l’America di questo
libro. «Non vorrei che mi considerassi un nessuno qualunque» dice
Gatsby a Nick nel corso della loro prima vera conversazione, per
spiegargli perché si è avventurato nel racconto aggiornato della
storia della sua vita. E se c’è uno di questi Nessuno che, guidando
dal Non-si-sa-dove al Non-si-sa-dove, diventa davvero Qualcuno,
costui, in grazia del testo di Nick, è Gatsby – il grande Gatsby.
Ma come e perché “grande”? E quanto di Gatsby è “imbroglio”? E
Nick si lascia forse in qualche modo “truffaldinamente truffare”? C’è
uno scambio assai rivelatore tra i due uomini all’inizio della loro
prima conversazione e nel racconto della storia della vita di Gatsby.
«Giuro su Dio che ti dirò la verità». La mano destra immediatamente chiamò a testimone
il castigo divino. «Sono figlio di gente ricca del Midwest – tutti morti oramai. Sono nato e
cresciuto in America, ma ho studiato a Oxford come tutti i miei antenati da molti anni. È
una tradizione di famiglia».
Mi guardò di sottecchi e capii perché Jordan Baker lo credesse un bugiardo. Aveva
detto «ho studiato a Oxford» di corsa, smozzicando le parole, o quasi lasciandole morire
in gola, come se quell’espressione lo avesse già in passato messo in imbarazzo. E con
questo dubbio l’intera sua dichiarazione andò in frantumi e mi domandai se, dopo tutto,
non ci fosse davvero qualcosa di un po’ sinistro in lui.
«In che parte del Midwest?» chiesi, buttandola lì.
«San Francisco».
«Capisco».
«I miei parenti sono morti tutti e mi sono ritrovato a disporre di una grande quantità di
denaro».
Il tono della voce era solenne, come se il ricordo dell’improvvisa estinzione del suo clan
lo opprimesse ancora. Per un attimo pensai che mi stesse prendendo in giro, ma mi
bastò guardarlo un momento per essere convinto del contrario.

Ci si potrebbe aspettare che l’«incurabilmente disonesta» Jordan


Baker riconosca una menzogna quando la sente pronunciare, certo
è che buona parte di questo pezzo della storia di Gatsby è puro
“imbroglio”: è vero che l’armistizio gli donò cinque mesi a Oxford, ma
non per tradizione di famiglia e perché così era stato per tutti i suoi
antenati. Il punto è: quanto si aspetta che gli si creda? L’invocazione
di Dio e la teatralità del gesto della mano destra, seguito da uno
sguardo di sottecchi… Di fatto la sua deposizione non regge. Ma
succede anche qualcosa di più strano. Quando Gatsby colloca San
Francisco nel Midwest – un po’ come se in Inghilterra uno vi dicesse
che è nativo di Glasgow nelle Midlands – Nick semplicemente dice:
«Capisco». Ma è evidente che qui Gatsby sta mostrando a Nick il filo
bianco dell’ingannevole rammendo e Nick sceglie di non vederlo, o
quantomeno di non prenderne atto o prestarvi attenzione. C’è un
modo di dire “capisco” (probabilmente quello di Nick) che
tacitamente dichiara: “so che menti, e so che tu sai che io so che tu
menti, ma per ragioni mie, forse per cortesia, forse per imbarazzo di
fronte a una tale sfacciata mendacità, forse per qualcosa di più
imperscrutabile, decido di non mettere in questione la tua
affermazione”. Ed è esattamente ciò che di nuovo dice Nick quando
Gatsby, tutto a un tratto e inspiegabilmente, licenzia l’intera servitù e
si riempie la casa di una masnada di tipacci deliberatamente rudi e
con l’aspetto di canaglie. Gatsby “spiega”: «Sono tutti fratelli e
sorelle. Gestivano un piccolo albergo». Anche questo è senz’altro un
momento in cui viene esposto l’ingannevole filo bianco. Penso che
Richard Godden abbia assolutamente ragione nel suggerire che con
questa improvvisa e sgraziata interruzione delle sue feste estive
(sontuose, piene di vip, ultraeleganti, cospicuamente dispendiose)
Gatsby stia volontariamente mostrando a Nick (e forse,
indirettamente, a Daisy) il suo reale milieu, le sue «effettive»
ramificazioni nel crimine – e proprio sbattendoglielo in faccia, per
così dire. Nick vede ma sceglie di non vedere, o piuttosto sceglie di
indirizzare il suo sguardo altrove.
Nick, ce lo ha rivelato lui stesso, un paio di cose sulle famiglie che
si inventano antenati e tradizioni le sa, e arriva ad applicare ai
parenti di Gatsby la parola «clan», da lui prediletta e alquanto
pretenziosa; per i genitori di Gatsby l’appellativo è certamente
ancora più inappropriato (sono «contadini di scarso talento e
raccolto») di quanto lo sia per i disertori Carraway. Ma è come se
almeno una parte di lui fosse pronta a condividere l’imbroglio di
Gatsby – è una cosa di famiglia, potremmo dire. Un’altra parte di lui
sa molto bene di essere preso in giro – Gatsby non potrebbe avergli
fatto una più esplicita strizzata d’occhio – ma è straordinariamente
veloce a essere «convinto del contrario». Noi possiamo considerarla
sollecita credulità o appassionata fiducia. Cogliamo una certa forma
di empatia nella formidabile disponibilità di Nick al beneficio del
dubbio nei confronti di Gatsby, e meno attraenti sarebbero il costante
sospetto o una diffidente determinazione a non farsi mai turlupinare.
Detto questo, è impossibile determinare se si tratti di generosità
suscitata dall’attrazione per quest’uomo (e di ripulsa per gli altri), o di
collusione, di volontaria sospensione dell’incredulità, mossa da un
desiderio di «splendore». È invece chiaro che Nick, messo di fronte
ai Buchanan di questo mondo, sarà complice dell’imbroglio di
Gatsby – di più, lo giustificherà, lo amplificherà e lo celebrerà nella
sua scrittura. Di certo lui a Gatsby resta fedele fino alla fine,
prendendosi cura delle sue esequie in quel triste funerale al quale
non si presenta che un ingrato e dimentico “Nessuno”, a parte
qualche domestico, il patetico padre che quando mangia sembra
«un maiale» e l’uomo con gli occhiali da gufo che si era meravigliato
dell’assoluta realtà dei libri di Gatsby, e che pronuncia uno dei suoi
epitaffi: «Povero figlio di puttana». Nick scriverà una
commemorazione più encomiastica.
Da Roma, in attesa delle bozze, Fitzgerald scrisse a Maxwell
Perkins: «Strano a dirsi, la mia opinione sulla vaghezza di Gatsby
era OK… Io stesso non sapevo che aspetto avesse Gatsby o in cosa
fosse coinvolto… A ogni modo, dopo avere frugato attentamente
negli archivi (della mente di un uomo, in questo caso)… conosco
Gatsby meglio di mio figlio. Il mio primo istinto era di lasciarlo
perdere e far dominare il libro da Tom Buchanan… Ma Gatsby mi si
è ficcato nel cuore. L’ho preso, l’ho perso, e ora so di averlo preso di
nuovo» (circa 20 dicembre 1924). E in una lettera a John Peale
Bishop, di poco successiva: «Hai ragione a dire che Gatsby è
sfocato e rappezzato. Io stesso non l’ho mai visto chiaramente,
neanche una volta» (9 agosto 1925). È proprio così. Anche Nick
trova Gatsby, poi lo perde e lo ritrova in modo diverso. Più in
generale, Gatsby è a volte visibile, a volte no. In varie occasioni Nick
cerca Gatsby solo per scoprire che “non è lì”, e certamente Gatsby
non appare fino al terzo capitolo (a un quarto del libro) e scompare
prima della fine. In un certo senso è davvero Tom a dominare il libro;
domina tutti e tutto, Nick beve con lui prima di incontrare Gatsby e gli
stringe la mano dopo che Gatsby è morto. Il tipo dei Buchanan
sopravvive sempre, sopravvive a tutto. Gatsby, con tutti i suoi
“inzerimenti”, è più fragile e più vulnerabile. E, in una più ampia
accezione epistemologica, lui è e rimane (anche per noi lettori) una
figura vaga per quanto concerne la sua identità e le sue attività.
Come abbiamo visto, Fitzgerald contribuì deliberatamente alla sua
vaghezza, tagliando parti di dialogo troppo esplicite, e non con
l’obiettivo di tacere informazioni per, diciamo così, sviare le indagini;
quello strano sentore di inconsistenza ontologica che circonda
Gatsby è assolutamente cruciale. Quando Tom lo insulta, sul volto di
Gatsby passa un’espressione che Nick definisce «decisamente
estranea e al tempo stesso vagamente riconoscibile». Notate la
perfezione, quanto sia suggestivo l’apparente ossimoro: vago è ciò
che è riconoscibile, definito è l’estraneo. Gatsby si profila e sfuma,
ora è a fuoco ora è sfocato. Ora crediamo di vederlo; e ora no, ne
siamo quasi certi. Questa vaghezza sostenuta magnificamente è
molto più che «OK»: è una parte essenziale della magia del libro.
Perché, persino dopo il più severo scrutinio della figura di Gatsby –
che potrebbe ridurlo a un sentimentale scapestrato, un criminale con
un sogno sdolcinato, uno spietato arrampicatore sociale determinato
a comprarsi una femmina di lusso – Gatsby, in qualche modo, si
ficca davvero nel cuore.
A volte, quando appare, agli altri fa venire in mente un giornale
popolare o una pubblicità. «La mia incredulità venne sommersa
dall’attrazione; era come sfogliare una dozzina di riviste a gran
velocità» così descrive Nick la sua reazione alla storia della vita di
Gatsby. «Somigli all’uomo di quel cartellone pubblicitario… Sai,
quella pubblicità con l’uomo…» Daisy non finisce la frase.
Presumibilmente lui somiglia all’uomo di un indefinito numero di
pubblicità. (E altrove si dice che Jordan Baker somiglia «a una bella
illustrazione»; l’effetto è diffuso.) Nella parlata odierna potremmo dire
che a volte lui colpisca la gente in quanto “tutto immagine”.
Nell’America degli anni Venti vi fu l’esplosione della pubblicità e
Gatsby è profondamente figlio della sua cultura; si circonda di tutte
le merci più alla moda e appariscenti, dalle camicie alle automobili.
L’invito formale firmato con «calligrafia regale» con cui si annuncia
per la prima volta a Nick è il primo segno della sua meticolosa
creazione di sé (e osservate com’è svelto Nick a cogliere un cenno
di regalità in questa repubblica democratica). In un certo senso la
sua casa vistosa e le feste costose sono un elaborato cartellone
pubblicitario concepito per fare colpo su Daisy. La sua certezza di
poter replicare il passato, la fiducia di poter far «tornare tutto come
prima» deve molto alla cultura pubblicitaria. (Nel libro citato, Richard
Godden descrive dettagliatamente come Henry Ford, nel 1922,
ricreò la sua vecchia casa esattamente com’era sessant’anni prima;
«Nel mercato, il tempo è reversibile» commenta Godden.) Nei fatti,
poi, il sogno di Gatsby naufraga per la sua assurda pretesa che non
solo il tempo possa tornare indietro, ma che lo si possa cancellare.
Dal momento in cui pretende che Daisy dica a Tom di non averlo mai
amato, così «verrà tutto spazzato via per sempre», lui perde Daisy, e
il sogno. Si possono cancellare i graffiti e rimuovere la schiuma da
barba, ma il tempo no; il tempo è l’unica cosa che Gatsby non può
“truccare”. Non sa nemmeno gestirlo tanto bene: nel capitolo
centrale del libro (il quinto), quando rincontra Daisy, per un pelo non
fa cadere un orologio. Si dà il caso che questo orologio sia
«defunto», cosa che forse lo rende un appropriato sostenitore e
testimone di rilievo del tentativo di Gatsby di fermare il tempo, ma
altrove gli orologi ticchettano come matti. (Nel libro c’è un numero
insolitamente elevato di parole relative al tempo, più di quattrocento.)
Non c’è da stupirsi che Gatsby guardi con sorpresa la figlia di Daisy:
«Forse prima di allora non aveva mai creduto per davvero alla sua
esistenza» commenta Nick. E a Tom basta citare tempi e luoghi del
suo possesso sessuale di Daisy che Gatsby è fregato. E a questo
punto dovrei scrivere “Gatsby”, perché «“Jay Gatsby” era andato in
frantumi come un vetro contro la dura malevolenza di Tom e quella
protratta, segreta e sfarzosa messinscena era giunta al finale». La
sua identità costruita, l’effigie, che ha tenuto a galla e ha motivato
accarezzando l’idea di poter ricatturare, ricomperare Daisy e di poter
cancellare il tempo, va a rotoli. Daisy è già stata comperata.
E dunque quel “grande” è ironico? Oppure è un’iperbole illusoria
che si ritrae in se stessa? L’intera opera è l’imbroglio consolatorio di
un infelice scapolo fallito, che si inventa una “splendida” figura per
compensare lo “squallore” del Midwest dov’è tornato a vivere – la
falsificazione di Nick della falsificazione di Gatsby? Non può essere
tutto qui, anche se credo ci sia chi lo pensi. Fino a che punto possa
esserlo lo sappiamo dallo stesso Nick, che con il lettore attento fa
quello che Gatsby di tanto in tanto fa con lui: gli mostra il filo bianco
dell’ingannevole rammendo. Gatsby è qualcosa di più delle schegge
di vetro della sua identità confezionata su misura, mandata in
frantumi nello scontro con la “roccia” di Tom al massimo della sua
resistenza; è un qualcosa che in fin dei conti Gatsby esprime
inadeguatamente e incarna imperfettamente ma che è davvero parte
dell’“essenza” di quella nazione che si produce per partenogenesi, e
di cui lui è al tempo stesso un prodotto tanto notevole e
rappresentativo. Potremmo dire, con Nick, che si tratti di «uno
straordinario talento per la speranza, una predisposizione al
romanticismo», un’aderenza – o un gesto proteso – alla convinzione,
o alla sensazione, che vi sia qualcosa di più nella vita della
“corruzione” che circonda e accompagna Gatsby, la mera materialità
degli appetiti e dell’autogratificazione in cui i Buchanan si trovano
così sventatamente a loro agio. Che questa speranza prenda la
forma di un sogno romantico o di un’assurda ossessione, al tempo
stesso fatale e irrealizzabile, non invalida necessariamente il
bisogno o il desiderio che l’ha nutrita. Se «lo straripante vigore» della
sua idealizzazione ha davvero infine «travalicato tutto» e dunque
deve per forza risolversi in delusione e in un bel nulla, questo non
significa che la debilitante assenza di vita che può risultare da una
caparbia disillusione offra necessariamente una via migliore.
Significa invece che nel libro c’è un genere speciale di tristezza.
Perché in Gatsby c’è pathos (e anche della puerilità, se volete): la
sua aura di solitudine e isolamento, il vuoto che sembra emanare
dalla sua casa, le sue pile di «camicie così belle», la sua generosità
mai apprezzata (nessun ringraziamento per avere coperto Daisy, a
prezzo della vita), la sua morte meschina e il suo disertato funerale.
E il libro nel suo insieme suggerisce che nella misura in cui Gatsby –
“Gatsby” – è eccessivo, folle e condannato, Gatsby è come
l’America.
Non molto tempo dopo la pubblicazione del romanzo, Fitzgerald
scrisse a Maya Mannes: «La più grande promessa dell’America è
che qualcosa accadrà, e dopo un po’ ti stanchi di aspettare perché
alle persone non accade nulla, tranne che diventano vecchie, e nulla
accade all’arte americana perché la storia dell’America è quella della
luna che non sorge mai» (ottobre 1925). Quando alla fine del
Grande Gatsby la luna invece sorge in tutto il suo splendore, quel
moto dà l’avvio a uno dei più celebri passi della letteratura
americana:
le inessenziali case cominciarono a dissolversi, fino a che percepii la vecchia isola che
un tempo era spuntata qui davanti agli occhi dei marinai olandesi – verde e fresca
mammella del nuovo mondo. Alberi scomparsi per fare posto alla casa di Gatsby
avevano un tempo assecondato in bisbigli l’ultimo e il più grande di tutti i sogni umani;
per un fuggevole e magico momento l’uomo deve avere trattenuto il respiro davanti a
questo continente, chiamato a una contemplazione estetica che non capiva né
desiderava, faccia a faccia per l’ultima volta nella storia con qualcosa di commisurato
alla sua capacità di meraviglia. [Corsivo mio.]

Questo passo era in origine alla fine del primo capitolo, ma con una
delle sue infallibili correzioni Fitzgerald lo spostò alla fine,
all’imbrunire della narrazione, dove il suo tono crepuscolare si adatta
a pennello. Però la sua posizione originaria sta a indicare che il libro
da sempre doveva essere un’elegia, pervasa dalla sensazione di
essersi lasciati sfuggire qualcosa, di avere perso qualcosa –
un’occasione mancata, un sogno spacciato. La «verde e fresca
mammella del nuovo mondo», dal cui capezzolo attingere una
possibile nuova vita, avrebbe potuto offrire una inesauribile provvista
di «latte della meraviglia». Ma per qualunque motivo venissero i
marinai – tutti i marinai, dai puritani ai pirati – non venivano per
provare meraviglia di fronte all’America, ma allo scopo di
“violentarla”, per usare la metafora di William Carlos Williams per gli
svariati e molteplici saccheggi operati sul territorio americano. Così
l’immagine della verde e fresca mammella del nuovo mondo ha
ceduto il passo allo scioccante spettacolo della mammella sinistra di
Myrtle, «pendente come un lembo di stoffa» in seguito all’incidente
stradale. Fitzgerald era molto risoluto a mantenere questa scena:
«Voglio la tetta di Myrtle Wilson squarciata – il punto è proprio
questo, credo» (a Maxwell Perkins circa il 20 dicembre 1924).
Naturalmente Fitzgerald sa quello che fa. Vuole mostrare l’America
dissacrata, mutilata, violata. Forse l’incongruo tendere le braccia di
Gatsby, un gesto pieno di speranza disperata, offre un vago, residuo
e distorto accenno a un certo tipo di «capacità di meraviglia»
lietamente accolta, desiderata se non pienamente compresa, che
avrebbe potuto sfruttare meglio l’ultima grande chance che è stata
l’America, ma quali che fossero gli avrebbe-potuto-essere del nuovo
mondo, l’America si è di fatto resa del tutto accidentale e incline agli
incidenti. Di quello che sarebbe potuto essere un Paese delle
Meraviglie (come suggerisce un tema endemico alla letteratura
americana) è stata fatta una terra desolata.
Fitzgerald conosceva praticamente a memoria il poema di T.S.
Eliot che porta quel titolo, e certamente creò con la valle di ceneri la
sua terra desolata (e un altro titolo che prese in considerazione per il
romanzo fu Tra i cumuli di cenere e i milionari): «una fattoria da
incubo dove al posto del grano crescono ceneri, formando alture e
collinette e grotteschi giardini e prendendo la forma di case e
ciminiere e spirali di fumo e infine, con slancio trascendente, di
uomini grigio-cenere che si muovono indistintamente come se
fossero sul punto di sgretolarsi nell’aria polverosa. Di tanto in tanto
una fila di vagoni grigi avanza lungo un binario invisibile, emette uno
spettrale cigolio e poi si arresta». La parola “trascendente” è
particolarmente carica di significato in America, e viene usata qui
con tetra ironia. Questa trascendenza è di tipo negativo, un
travestimento, proprio il contrario di quello che avevano sperato per
l’America Emerson e i suoi amici; questo tratto di terra invero
produce, fa crescere, ceneri. Ma Fitzgerald non fu né il primo né
l’ultimo scrittore americano ad avere una visione entropica
dell’America – il grande continente agricolo che si trasforma in una
specie di cumulo terminale di rifiuti, o una terra desolata, dove, con
somma perversione, l’unica cosa che cresce è la morte.
La grande sapienza di Fitzgerald fu associare questo processo
alla diffusione esponenziale delle automobili. Come già osservato, il
libro è pieno di macchine, pessimi guidatori e incidenti, che insieme
cospirano all’omicidio non solo delle persone ma della terra stessa.
La pessima autista Jordan Baker ha nel suo stesso nome i marchi di
due automobili. Non a caso Fitzgerald colloca la rimessa – quella di
Wilson, diciamo, che vale per tutte – nel cuore della valle di ceneri
che produce. Henry Adams, il primo scrittore americano a utilizzare il
termine “entropia” per descrivere il futuro che presagiva, collegò
l’accelerazione di questa predetta entropia al rapido aumento di
nuove scoperte di fonti di energia e potenza, accompagnato dalla
diminuzione della capacità umana di controllarlo. Nella sua
Educazione scriveva:
Da ogni atomo si sprigionava energia, ed era possibile osservarne una quantità
sufficiente a rifornire l’intero universo stellare andare sprecata in ogni poro della materia.
L’uomo non era più in grado di controllarla. Lo prendevano per i polsi delle forze che lo
scagliavano lontano, come se avesse afferrato un filo scoperto o un’automobile in fuga;
il che era quasi l’esatta verità nel caso di un anziano e timido gentiluomo a Parigi, che
non guidava mai lungo gli Champs-Élysées senza attendersi un incidente, e spesso
assistendovi; o si era trovato vicino a un ufficiale senza calcolare le possibilità di una
bomba. Purché il ritmo del progresso tenesse bene, quelle bombe sarebbero
raddoppiate in numero e potenza ogni dieci anni.

Fitzgerald scelse di puntare sugli incidenti automobilistici. Uno


scrittore contemporaneo potrebbe scegliere le bombe.

A sovrastare, ma non a sovrintendere, la valle di ceneri ci sono, si


sa, gli occhi del dottor T.J. Eckleburg.
Gli occhi del dottor T.J. Eckleburg sono azzurri e giganteschi – le retine sono alte quanto
un braccio. Non ti guardano da una faccia, ma da dietro un paio di enormi occhiali gialli
a cavallo di un naso inesistente. Evidentemente un eccentrico burlone di oculista li ha
messi lì per incrementare i suoi affari nel distretto di Queens, dopodiché è sprofondato
nella cecità eterna oppure se li è dimenticati e se n’è andato altrove. Ma i suoi occhi, un
po’ sbiaditi per tutti i giorni di sole e di pioggia senza una ripassata di vernice,
continuano a incombere sulla solenne discarica.

André Le Vot ha individuato con molta sensibilità i vari e sottili modi


con cui Fitzgerald fa uso dei colori, soprattutto l’azzurro e il giallo.
Come indica Le Vot, l’azzurro è acqua, cielo, crepuscolo, fresco,
riposante, invitante. Il giallo è grano, sole e fertilità ma anche whisky,
oro (lucro) e morte, paglia combustibile, e dunque è ambivalente,
perché ciò che sembra attraente e caldo può diventare combustibile,
violento, rovente (Tom ha i capelli «biondo paglierino»). Idealmente i
due colori, e tutto quello che evocano, dovrebbero armonizzarsi,
come accade nella curiosa e suggestiva espressione di Nick «il
mielato colorito azzurro del Mediterraneo». Invece in questo libro
sembrano allontanarsi e tendono a opporsi. Potrebbe essere
fuorviante che a essere azzurro sia il coupé di Tom mentre è gialla la
macchina di Gatsby (anche se, conformemente all’incertezza che lo
circonda, nessuno è d’accordo sul colore: qualcuno dice che è color
crema, qualcuno verde chiaro; come il suo proprietario, appare
diversa sotto luci diverse), ma quando la battaglia dei due uomini per
Daisy si avvia al suo acme e alla resa dei conti, loro, non a caso, se
le scambiano.
Per tornare al dottor T.J. Eckleburg: il fatto che i suoi occhi azzurri
sbiadiscano mentre il giallo degli occhiali resta vivido può suggerire,
secondo Le Vot, «l’appassire del potere spirituale e il corrispondente
sviluppo del materialismo». Gli occhiali sono fatti per vederci meglio.
Ma vedere cosa? Vedere come? Dopo la morte di Gatsby, Nick dice
che l’Est era per lui «infestato a quel modo dai fantasmi, distorto
oltre la capacità di correzione» dei suoi occhi e quindi se ne torna
(verrebbe da dire regredisce) a casa, che all’inizio del racconto
sembrava «l’orlo consunto dell’universo» ma forse è tornata a
essere «il caldo centro del mondo». Anche l’«eccentrico burlone di
oculista» ipotizzato da Nick si è ritirato dalla zona, e può essere
un’allusione a un Dio che dovrebbe sorvegliare il mondo ma è
divenuto un deus absconditus, o che più non si cura di volgere il suo
sguardo sull’uomo e sulla terra desolata che ha prodotto, o che
semplicemente è morto, lasciandosi dietro ciò che l’uomo ha creato:
un cartellone pubblicitario. Dopo l’incidente automobilistico,
Michaelis è sconvolto nel vedere Wilson che invoca Dio rivolgendosi
agli occhi del dottor T.J. Eckleburg: «“Dio vede tutto” ripeté Wilson.
“È un cartellone pubblicitario” gli garantì Michaelis».
Quali che fossero gli intenti religiosi e le aspirazioni degli originari
coloni puritani, il paesaggio è ormai interamente dominato da
considerazioni di carattere commerciale e materiale (per quanto sia
possibile che fin dall’inizio ci fosse un legame fra gli interessi religiosi
e quelli commerciali; così suggerisce Van Wyck Brooks in America’s
Coming of Age: «Si potrebbe legittimamente affermare che la
letteratura del Diciassettesimo secolo in America è composta in parti
uguali di devozione e pubblicità»). Come abbiamo visto, Gatsby vive
e si muove in un mondo di pubblicità ed è lui stesso una specie di
pubblicità composita. C’è forse allora da chiedersi se i suoi «gesti»,
che secondo Nick esprimono «una spiccata sensibilità alle promesse
della vita» e da questa derivano, siano o meno indicativi di una
rudimentale forma di “devozione” tutta sua.
Quando Nick dice che l’Est era per lui «infestato a quel modo dai
fantasmi, distorto oltre la capacità di correzione» dei suoi occhi, con
«a quel modo» intende al modo di «una scena notturna di El Greco».
El Greco è famoso per le sue figure allungate e per quelle che si
potrebbero chiamare le sue febbrili esagerazioni. Dal momento che
la visione di Nick dell’accaduto è, per sua stessa ammissione,
incorretta e incorreggibile, dovremmo forse cogliere l’antifona, voluta
o meno, e prendere in considerazione che quella che ci ha fornito sia
una versione di Gatsby (e del suo ambiente) alla maniera di El
Greco: acuita, amplificata, emotivamente glorificata. Ma tutta l’arte,
da El Greco a Vermeer (molto meno incline alla distorsione e anzi in
grado di dipingere con la più miracolosa esattezza di visione che si
possa ottenere), implica distorsione: selezione, interpretazione,
amplificazione. Quale che fosse il movente di Nick per scrivere,
anche se fosse soltanto il bisogno di un “sogno d’inverno” per
intrattenersi e consolarsi dello squallore del Midwest, egli ha pur
sempre prodotto un’opera d’arte; e quali siano le motivazioni che
soggiacciono alla creazione di un’opera d’arte non ci sarà mai dato
sapere.
Naturalmente il libro è di Fitzgerald, ed è Fitzgerald che ci mostra
il lavoro di Nick con i problemi e le insidie inerenti la “visione” della
sua materia e come trova la strada per “scrivere” Gatsby,
contraffacendolo e onorandolo al tempo stesso. In questo modo
Fitzgerald diede al proprio lavoro una dimensione del tutto nuova.
Scrisse una volta Henry James: «C’è la storia del proprio eroe e poi,
grazie all’intima connessione delle cose, la storia della propria
storia»14. Nell’offrirci non solo la storia di Gatsby ma anche la storia
di Nick che cerca di scriverla, il problema con cui si confronta
Fitzgerald è niente meno che questo: cosa può comportare, qual è la
posta in gioco se si vuole cercare di vedere, e scrivere, l’America
stessa. Il risultato è conciso (quelle ispirate asportazioni!),
ingannevolmente semplice, con qualcosa della snella eppure pregna
economia di una parabola (per essere un libro così esplicitamente
radicato negli anni Venti esso contiene, come ha osservato Matthew
J. Bruccoli, sorprendentemente pochi dettagli «di genere sociologico
o antropologico»). Non c’è una parola di troppo ed è inesauribile. Io
credo che Il grande Gatsby sia l’opera narrativa più perfettamente
costruita che abbia prodotto l’America.
Quando Nick partecipa alla sua prima festa nella villa di Gatsby è
«in guardia contro la sua spettroscopica gaiezza»: vi ravvisa cose
«prive di qualsiasi grazia», altre «vacue». Dopo due bicchieri di
champagne «la scena davanti a me s’era trasformata in qualcosa di
significativo, semplice e profondo». V’è una punta di autoironia nella
consapevole esagerazione (se basta quello…). Un critico come
Richard Godden potrebbe dire che lo champagne è un po’ svaporato
(il suo capitolo sul romanzo s’intitola Glamour on the Turn15), ma io
credo che questo significhi non cogliere qualcosa della indiscussa
magia del libro e della sua irriducibile polivalenza. Chiamiamola pure
indecidibilità. Certi giorni la macchina è gialla, altri sembra verde
chiaro. A volte Gatsby ti si ficca in gola, oltre che nel cuore. Forse è
come i libri nella biblioteca: “assolutamente reale” dove più ci si
aspetta di trovarlo falso, ma in fondo del tutto illeggibile perché le
pagine interne non sono state fra loro staccate.
Ma che volete di più?
Che vi aspettate?
1. Petronio, Satyricon, trad. di Vincenzo Ciaffi, Torino, Einaudi, 1967 (N.d.T.).
2. Ibid. (N.d.T.).
3. Ibid. (N.d.T.).
4. Francis Scott Fitzgerald, Assoluzione, trad. di Fabio Guidali, in Racconti, Milano,
Feltrinelli, 2013 (N.d.T.).
5. Ibid. (N.d.T.).
6. André Le Vot, F. Scott Fitzgerald: A Biography, London, Penguin, 1983, p. 27.
7. Walt Whitman, Canto di me stesso, in Foglie d’erba, trad. di Ariodante Marianni, Milano,
Rizzoli, 1988 (N.d.T.).
8. Ralph Waldo Emerson, Natura, trad. di Massimo Lollini, Genova-Milano, Marietti, 1991
(N.d.T.).
9. Ibid. (N.d.T.).
10. O, più precisamente, quando Daisy arriva a casa di Nick (N.d.T.).
11. Thomas Pynchon, L’incanto del lotto 49, trad. di Massimo Bocchiola, Torino, Einaudi,
2005 (N.d.T.).
12. Richard Godden, Fictions of Capital, Cambridge, Cambridge University Press, 1990, p.
92; il libro contiene uno dei più rilevanti e profondi saggi sul Grande Gatsby che io abbia
mai letto.
13. Henry James, La scena americana, trad. di Ugo Rubeo, Milano, Mondadori, 2001
(N.d.T.).
14. Henry James, Le prefazioni, trad. di Agostino Lombardo, Roma, Editori Riuniti, 1986
(N.d.T.).
15. Il titolo si potrebbe tradurre con “Splendore andato a male” (N.d.T.).
Tony Tanner è stato membro del King’s College di Cambridge e professore di Letteratura
inglese e americana. Ha insegnato e viaggiato ampiamente in America e in Europa. Oltre a
libri su Joseph Conrad e Saul Bellow, ha pubblicato The Reign of Wonder (1965, uno studio
sulla letteratura americana), City of Words (1970), L’adulterio nel romanzo: contratto e
trasgressione (1980), Jane Austen (1986), Scenes of Nature, Signs of Men (1987), Venice
Desired (1992) e Henry James and the Art of Non-Fiction (1995). È morto nel dicembre del
1998.
Se vi è piaciuto Il grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald,

vi consigliamo di non perdere

James Jones

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