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FRANCIS SCOTT
FITZGERALD
IL GRANDE GATSBY
ILLUSTRATO DA SONIA CUCCULELLI
postfazione di
Tony Tanner
traduzione di
Alessandro Fabrizi
ISBN 978-88-545-2284-8
www.neripozza.it
ANCORA UNA VOLTA A ZELDA
In the morning,
In the evening,
Ain’t we got fun…
Avvicinandomi per salutare vidi che sul volto di Gatsby era tornata
quell’espressione di smarrimento, come se fosse stato colto da un
flebile dubbio sulla qualità della sua attuale gioia. Quasi cinque anni!
Quel pomeriggio dovevano esserci persino stati momenti in cui
Daisy era caduta dal piedistallo dei suoi sogni – non per colpa di lei,
ma per lo straripante vigore dell’idealizzazione di Gatsby, che l’aveva
travalicata, aveva travalicato tutto. Gatsby vi si era gettato con
passione creativa, rimpolpandola continuamente, ornandola di ogni
piuma luccicante che gli volasse accanto. Non c’è calore o frescura
che possa contrastare i fantasmi che un uomo immagazzina nel suo
cuore.
Sotto i miei occhi, Gatsby si diede palesemente un contegno. La
sua mano prese quella di Daisy e, quando lei gli sussurrò qualcosa
all’orecchio, si voltò a guardarla con un’ondata di emozioni. Penso
che ad avvincerlo più di tutto fosse la voce, con il suo tepore
fluttuante e febbrile, perché nessun sogno poteva superarla – quella
voce era un canto senza morte.
Si erano dimenticati di me, poi Daisy alzò lo sguardo e mi tese la
mano; Gatsby adesso neanche mi riconosceva. Li guardai di nuovo
e loro mi restituirono lo sguardo, distanti, in preda a un vivere
intenso. A quel punto uscii dalla stanza e scesi i gradini di marmo
sotto la pioggia, lasciandoli là insieme.
6.
Alle sei Michaelis, sfinito, rese grazie nel sentire il rumore di una
macchina che si fermava fuori. Era uno di quelli che avevano
vegliato con lui la sera prima e che aveva promesso di tornare, così
preparò la colazione per tre e la spartirono in due. Wilson era più
tranquillo e Michaelis andò a casa a dormire; quando dopo quattro
ore si svegliò e corse all’officina, Wilson era sparito.
I suoi movimenti – sempre a piedi – vennero in seguito ricostruiti
fino a Port Roosevelt e da lì a Gad’s Hill50, dove aveva comperato
un panino, senza mangiarlo, e una tazza di caffè. Doveva essere
stanco e avere camminato lentamente, perché era giunto a Gad’s
Hill non prima di mezzogiorno. Fino a qui non era stato difficile
risalire a come avesse impiegato il tempo – c’erano ragazzi che
avevano visto un uomo “che si comportava come un pazzo”,
automobilisti ai quali aveva lanciato strane occhiate dal ciglio della
strada. Poi era scomparso per tre ore. La polizia, sulla base di quello
che aveva detto a Michaelis, e cioè che “sapeva come fare a
scoprirlo”, ipotizzò che avesse passato quel tempo andando da
un’officina all’altra a chiedere di una macchina gialla. D’altro canto,
nessun meccanico si presentò a dire di averlo visto – e forse Wilson
aveva un modo più facile e sicuro per scoprire ciò che gli
interessava. Alle due e mezzo era a West Egg, dove chiese
indicazioni per la casa di Gatsby. Quindi a quel punto era a
conoscenza del nome di Gatsby.
Caro signor Carraway. È stato uno dei più terribili shock della mia
vita e a malapena riesco a credere che sia vero. Un gesto folle come
quello compiuto da quest’uomo deve farci riflettere tutti. Ora non
posso venire perché sono occupato in affari molto importanti e non
posso restare invischiato in questa faccenda proprio adesso. Se c’è
qualcosa che posso fare tra qualche tempo fatemelo sapere tramite
Edgar. Dopo aver appreso una notizia del genere non so più dove
sono e mi sento messo al tappeto e k.o.
Vostro
Meyer Wolfshiem
Mi pare che fossero passati tre giorni quando da una città del
Minnesota arrivò un telegramma firmato Henry C. Gatz. Diceva solo
che il mittente stava per partire e di aspettare il suo arrivo per il
funerale.
Era il padre di Gatsby, un vecchio solenne, disarmato e
sgomento, infagottato in un lungo doppiopetto da due soldi in quella
calda giornata di settembre. Gli lacrimavano continuamente gli occhi
per l’emozione e quando lo liberai da borsa e ombrello cominciò a
tirarsi la rada barba grigia così incessantemente che non mi fu facile
sfilargli il cappotto di dosso. Stava per collassare, così lo condussi
nella stanza della musica e lo feci stare seduto mentre davo ordini
perché gli portassero qualcosa da mangiare. Ma non volle mangiare
e nella sua mano tremante il latte schizzò fuori dal bicchiere.
«L’ho visto sul giornale di Chicago» disse. «Sul giornale di
Chicago c’era tutto. Sono partito subito».
«Non sapevo come contattarvi».
I suoi occhi si muovevano senza sosta per la stanza, senza
vedere nulla.
«È stato uno squilibrato» disse. «Doveva per forza essere
squilibrato».
«Volete del caffè?» lo sollecitai.
«Non voglio niente. Per ora sto bene così, signor…»
«Carraway».
«D’accordo, per ora sto bene così. Dove hanno messo Jimmy?»
Lo portai nel salotto, dov’era esposta la salma di suo figlio, e lo
lasciai solo. Un gruppo di ragazzini erano saliti su per i gradini e
sbirciavano nell’atrio; quando dissi loro chi era appena arrivato,
anche se controvoglia, se ne andarono.
Dopo un po’ il signor Gatz aprì la porta e uscì, le labbra
socchiuse, il volto leggermente arrossato, gli occhi da cui
scendevano lacrime isolate e tardive. Alla sua età la morte non ha
più l’effetto di una spaventosa sorpresa e quando si guardò intorno
per la prima volta e vide la pompa e lo splendore dell’atrio e delle
grandi stanze che da lì si aprivano in altre stanze, il suo dolore
cominciò a mescolarsi a un reverenziale orgoglio. Lo accompagnai
in una camera da letto al piano di sopra; mentre si toglieva la giacca
e il panciotto gli dissi che era stato tutto rimandato in attesa del suo
arrivo.
«Non sapevo quali fossero le vostre volontà, signor Gatsby…»
«Gatz».
«…signor Gatz. Ho pensato che forse volevate portare il corpo
nell’Ovest».
Scosse la testa.
«A Jimmy è sempre piaciuto di più l’Est. Ha raggiunto la sua
posizione all’Est. Voi eravate amico di mio figlio, signor…?»
«Molto amico».
«Aveva un grande futuro davanti, sapete. Era ancora un
giovanotto, ma qua dentro teneva un cervellone».
Si toccò la testa enfaticamente e io annuii.
«Se fosse vissuto sarebbe diventato un grand’uomo. Uno come
James J. Hill52. Avrebbe contribuito allo sviluppo della nazione».
«È vero» dissi a disagio.
Armeggiò con il copriletto ricamato nel tentativo di toglierlo, si
distese tutto rigido e piombò nel sonno.
Quella notte telefonò una persona palesemente impaurita, che
prima di dire il suo nome volle sapere chi ero.
«Carraway» dissi.
«Ah…» sembrò sollevato. «Sono Klipspringer».
Anch’io mi sentii sollevato alla prospettiva di avere un altro amico
alla tomba di Gatsby. Non volevo che uscisse sui giornali e attirasse
una folla di curiosi, quindi stavo chiamando io delle persone scelte.
Difficili da trovare.
«Il servizio funebre è domani» dissi. «Qui a casa, alle tre. Mi
auguro che lo comunicherete a eventuali interessati».
«Oh, certo» tagliò corto lui. «Ovviamente è molto probabile che io
non veda nessuno, ma nel caso…»
Il suo tono mi insospettì.
«Naturalmente voi ci sarete».
«Be’, ci proverò. Il motivo per cui ho chiamato è…»
«Aspettate un momento» lo interruppi. «Ditemi che verrete».
«Be’, il punto è che… in verità sono da certe persone qua a
Greenwich53 e si aspettano che domani io stia con loro. Hanno in
programma una specie di picnic, o qualcosa del genere. Ovviamente
farò del mio meglio per venire via».
Mi scappò un incontrollato “ah” che lui evidentemente sentì
perché proseguì, teso: «Ho chiamato per un paio di scarpe che ho
lasciato lì. Mi domandavo se non fosse troppo disturbo farmele
mandare dal maggiordomo. Vedete, sono scarpe da tennis e non so
farne a meno. Il mio indirizzo è presso B.F…»
Non sentii il resto del nome perché riattaccai.
Da lì in poi cominciai a sentirmi umiliato per Gatsby – uno dei
gentiluomini a cui telefonai lasciò capire che aveva avuto quello che
si meritava. Era colpa mia: si trattava di uno di quelli che, facendosi
coraggio con l’alcol pagato da Gatsby, lo sfottevano più crudamente.
Avrei fatto meglio a non chiamarlo.
La mattina del funerale andai a New York da Meyer Wolfshiem;
sembrava l’unico modo per contattarlo. La porta che aprii su
consiglio del ragazzo dell’ascensore recava la targa: “The Swastika
Holding Company”54. In un primo momento mi parve che dentro non
ci fosse nessuno. Ma dopo che ebbi gridato varie volte invano:
«Permesso?», dietro un tramezzo scoppiò una discussione e di lì a
poco una graziosa ebrea comparve su una porta interna e mi scrutò
con occhi scuri e ostili.
«Non c’è nessuno» disse. «Il signor Wolfshiem è andato a
Chicago».
La prima metà della risposta era palesemente falsa perché
qualcuno dall’interno aveva cominciato a fischiettare The Rosary,
stonando.
«Per cortesia, ditegli che il signor Carraway vuole vederlo».
«Non posso certo farlo tornare da Chicago, vi pare?»
A quel punto una voce al di là della porta, inconfondibilmente
quella di Wolfshiem, chiamò: «Stella!»
«Lasciate il vostro nome sul tavolo» disse in fretta lei. «Quando
ritorna riferirò».
«Lo so che è qui».
La donna fece un passo verso di me e cominciò a strusciarsi le
mani sui fianchi con aria indignata.
«Voi giovanotti credete di poter entrare di prepotenza qui dentro a
qualsiasi ora» rimbrottò. «Ne siamo davvero stufi. Se dico che è a
Chicago, è a Chicago».
Feci il nome di Gatsby.
«Ehm… oh!» Mi scrutò di nuovo. «Potete soltanto… potete
ripetermi il vostro nome?»
Sparì. Un attimo dopo Meyer Wolfshiem si stagliò solenne sulla
soglia, con entrambe le mani protese. Mi portò nel suo ufficio,
osservando con voce riverente che era un triste momento per tutti
noi, e mi offrì un sigaro.
«Ricordo ancora la prima volta che lo incontrai» disse. «Un
giovane maggiore appena congedato dall’esercito e coperto di
medaglie ricevute in guerra. Era così al verde che continuava a
indossare la divisa perché non poteva comprarsi degli abiti civili. Lo
conobbi quando venne alla Winebrenner’s poolroom55 sulla
Quarantatreesima in cerca di lavoro. Non mangiava da due giorni.
“Vieni a farti un boccone con me” gli dissi. In mezz’ora si mangiò
oltre quattro dollari di roba».
«Lo aiutaste voi a mettersi in affari?» mi informai.
«Se lo aiutai? Lo creai!»
«Ah».
«Lo tirai su dal nulla, direttamente dalla fogna. Vidi subito la sua
aria elegante, da giovane gentiluomo, e quando mi disse che era
stato a Occheseford capii che mi sarebbe stato utile. Lo feci entrare
nell’American Legion, dove lo tennero in alta considerazione. Fece
subito un lavoretto per un mio cliente su ad Albany. Eravamo pappa
e ciccia, stretti così» e mi mostrò due dita bulbose, «sempre
insieme, in tutto».
Mi domandai se in quell’alleanza fosse compresa anche
l’operazione World Series del 1919.
«Adesso è morto» dissi io dopo un momento. «Voi eravate il suo
amico più stretto, quindi sono sicuro che vorrete venire al suo
funerale oggi pomeriggio».
«Mi piacerebbe venire».
«E dunque venite».
Gli tremolarono leggermente i peli delle narici e mentre scuoteva
la testa gli occhi gli si riempirono di lacrime.
«Non posso – non posso restare invischiato» disse.
«Non c’è nulla in cui restare invischiati. È tutto finito ormai».
«Quando viene ucciso un uomo preferisco non restare
invischiato. Mi tengo alla larga. Da giovane era diverso – se moriva
un mio amico, non importava come, gli rimanevo a fianco fino alla
fine. Vi sembrerà sentimentale, ma è proprio questo che voglio dire:
fino all’amara fine».
Mi resi conto che per qualche ragione era determinato a non
venire e mi alzai.
«Voi siete andato all’università?» si informò di punto in bianco.
Per un momento pensai che volesse propormi un “inzerimento”,
ma si limitò ad annuire e a stringermi la mano.
«Impariamo a mostrare amicizia quando le persone sono vive e
non dopo che sono morte» suggerì. «Dopodiché, la mia regola è:
tenersi lontani da tutto».
Quando lasciai il suo ufficio il cielo si era fatto scuro e tornai a
West Egg sotto una fine pioggerellina. Dopo essermi cambiato,
andai nella casa accanto e trovai il signor Gatz che camminava
avanti e indietro per l’atrio, tutto eccitato. Era sempre più orgoglioso
di suo figlio e dei suoi possedimenti e adesso aveva qualcosa da
mostrarmi.
«Jimmy mi aveva mandato questa fotografia». Tirò fuori il
portafoglio con dita tremanti. «Guardate».
Era una fotografia della casa, screpolata agli angoli e imbrattata
dalle impronte di molte mani. Mi indicò ogni dettaglio con passione.
«Guardate qui!» diceva, e poi cercava l’ammirazione nei miei occhi.
L’aveva fatta vedere così tante volte che ormai per lui era più reale
della casa stessa.
«Me l’ha mandata Jimmy. La trovo una fotografia molto bella.
Rende bene l’idea».
«Molto bene. Lo avevate visto di recente?»
«Venne a trovarmi due anni fa e mi comprò la casa dove abito
adesso. Certo, quando scappò di casa interrompemmo ogni
rapporto, ma ora capisco che c’era un motivo. Sapeva di avere un
grande futuro davanti. E da quando cominciò ad avere successo fu
sempre generoso con me».
Sembrava riluttante a riporre la fotografia e indugiò tenendola
ancora un minuto davanti ai miei occhi. Poi rimise a posto il
portafoglio e tirò fuori dalla tasca una vecchia copia lacera di un libro
intitolato Hopalong Cassidy 56.
«Guardate, è un libro di quando era ragazzo. Da questo si
capisce tutto».
Lo aprì dalla copertina posteriore e lo voltò per farmi vedere.
Sull’ultima pagina era scritto PROGRAMMA, con la data 12 settembre
1906. E sotto:
PROPOSITI GENERALI
Non perdere tempo da Shafter o da [nome indecifrabile]
Basta fumare o masticare tabacco
Fare il bagno un giorno sì e uno no
Leggere un libro o una rivista istruttivi a settimana
Risparmiare 5 $ [cancellato] 3 $ a settimana
Comportarsi meglio con i genitori
«Ho trovato questo libro per caso» disse il vecchio. «Si capisce tutto,
no?»
«Tutto».
«Jimmy era nato per farsi strada. Aveva sempre uno di questi
propositi o un altro. Avete notato quanto si è dato da fare per
migliorarsi? È sempre stato bravo in questo. Una volta mi disse che
quando mangiavo sembravo un maiale e io lo picchiai».
Era riluttante a chiudere il libro, leggeva ogni punto ad alta voce e
mi guardava, ogni volta, ansiosamente. Credo che un po’ si
aspettasse che io ricopiassi la lista a mio uso e consumo.
Il pastore luterano arrivò poco prima delle tre da Flushing e io
cominciai involontariamente a guardare fuori dalle finestre per
vedere se arrivavano altre macchine. Il padre di Gatsby faceva lo
stesso. Il tempo passava e i domestici erano in piedi nell’atrio, ma lui
sbatteva gli occhi nervosamente e parlava della pioggia con
preoccupazione e insicurezza. Il pastore lanciò più volte un’occhiata
all’orologio, così lo presi da parte e gli chiesi di aspettare ancora
mezz’ora. Ma non servì a niente. Non venne nessuno.
Uno dei miei ricordi più vividi è il ritorno nell’Ovest per Natale, prima
da scuola poi dall’università. Quelli di noi che andavano oltre
Chicago si radunavano nella vecchia e tetra Union Station alle sei di
una sera di dicembre con qualche amico di Chicago, già nel pieno
dell’allegria vacanziera, per un rapido saluto. Ricordo le pellicce
delle ragazze provenienti dalla signorina Tal dei Tali e il
chiacchiericcio di fiati che condensavano per il freddo e le mani
agitate sopra le teste per salutare vecchie conoscenze, e i confronti
tra gli inviti ricevuti: «Voi andate dagli Ordway? O dagli Hersey?
Dagli Schultz?» e quei lunghi biglietti verdi che tenevamo stretti nelle
mani guantate. E infine le sudicie carrozze gialle della linea Chicago,
Milwaukee e St Paul che facevano allegria quanto il Natale stesso
sui binari accanto all’ingresso.
Quando poi ci inoltravamo nella notte invernale e la neve vera, la
nostra neve, cominciava a distendersi ai nostri fianchi e a brillare
contro i finestrini, e le luci tenui delle piccole stazioni del Wisconsin
ci scorrevano accanto, nell’aria arrivava di colpo una sferzata
pungente e decisa. Ne inalavamo profondi respiri tornando dal
vagone ristorante lungo i freddi vestiboli del treno, e per un’ora
acquisivamo l’insolita e impronunciabile consapevolezza della nostra
identità con quella campagna, dopodiché tornavamo a confonderci
inconsapevolmente con lei.
È questo il mio Midwest – non il grano o le praterie o le perdute
città degli svedesi, ma gli inebrianti treni verso casa della mia
gioventù, e i lampioni stradali e i campanelli delle slitte nel buio
gelato e le ombre che le ghirlande di agrifoglio gettavano sulla neve
dalle finestre illuminate. Io appartengo a tutto ciò, con un po’ del
rigore di quei lunghi inverni e un po’ del compiacimento di essere
cresciuto a casa Carraway in una città in cui le case portano ancora,
dopo decenni, i nomi di famiglia. Mi accorgo adesso che questa, in
fin dei conti, è una storia dell’Ovest: Tom e Gatsby, Daisy e Jordan e
io venivamo tutti dall’Ovest, e forse condividevamo una qualche
mancanza che ci rendeva quasi impercettibilmente inadattabili alla
vita nell’Est.
Anche quando l’Est mi esaltava di più, anche quando ero più
intensamente consapevole della sua superiorità rispetto alle
annoiate, espanse, rigonfie città al di là dell’Ohio, con le loro
interminabili inquisizioni che risparmiavano soltanto vecchi e
bambini… anche in quei momenti, vi percepivo qualcosa di distorto.
In particolare, West Egg ritorna ancora nei miei sogni più fantasiosi.
Mi appare come in una scena notturna di El Greco: cento case, al
tempo stesso convenzionali e grottesche, acquattate sotto un cielo
imbronciato e incombente e una luna sbiadita. In primo piano vedo
quattro uomini austeri, in abito da cerimonia; camminano sul
marciapiede con una barella su cui giace una donna ubriaca con un
vestito da sera bianco. La sua mano, che penzola da un lato, brilla di
freddi gioielli. Gli uomini entrano solennemente in una casa – la casa
sbagliata. Ma nessuno conosce il nome della donna, e a nessuno
importa.
Dopo la morte di Gatsby l’Est rimase per me infestato a quel
modo dai fantasmi, distorto oltre la capacità di correzione dei miei
occhi. Così quando nell’aria si levava il fumo blu delle foglie
crepitanti e il soffio del vento irrigidiva il bucato sul filo, decisi di
tornare a casa.
Prima di partire mi restava da fare una cosa, una cosa scomoda e
spiacevole, che forse sarebbe stato meglio trascurare. Ma volevo
lasciare tutto in ordine, non affidarmi a quel mare obbediente e
impassibile perché ripulisse la mia spazzatura. Vidi Jordan Baker e
parlai e tergiversai a proposito di quello che ci era accaduto insieme,
e quello che era accaduto dopo a me, mentre lei se ne stava
immobile in ascolto, seduta su una grossa poltrona.
Si era vestita per giocare a golf e mi ricordo di aver pensato che
somigliava a una bella illustrazione, il mento sollevato con
spigliatezza, i capelli del colore delle foglie in autunno, il volto dello
stesso marrone del mezzoguanto posato sulle ginocchia. Quando
finii, senza fare commenti mi disse che era fidanzata con un altro.
Ne dubitavo, anche se c’erano parecchi uomini che l’avrebbero
sposata a un suo cenno del capo, ma feci finta di stupirmi. Per un
minuto mi chiesi se non stessi facendo un errore, poi ripensai
rapidamente all’intera faccenda e mi alzai per dirle addio.
«A ogni modo, mi hai scaricato tu» disse Jordan d’un tratto. «Mi
hai scaricato al telefono. Non mi importa più niente di te, ma quella è
stata un’esperienza nuova per me, e mi ha lasciata stordita per un
po’».
Ci salutammo con una stretta di mano.
«Ah, e… ti ricordi» aggiunse «di quella nostra conversazione, una
volta, a proposito della guida delle automobili?»
«Mah… non proprio».
«Dicesti che un pessimo autista non corre pericoli finché non
incontra un altro pessimo autista. Be’, ho incontrato un altro pessimo
autista, giusto? Voglio dire, è per la mia sbadataggine che ho preso
una simile cantonata. Ti facevo una persona schietta, onesta.
Credevo fosse il tuo vanto segreto».
«Ho trent’anni» dissi. «Cinque di troppo per mentire a me stesso
e andarne fiero».
Lei non rispose. Arrabbiato, mezzo innamorato e terribilmente
dispiaciuto, me ne andai.
Quando partii, la casa di Gatsby era ancora vuota e l’erba del suo
giardino era alta quanto la mia. Uno dei tassisti del villaggio non
passava mai davanti al cancello senza fermarsi un momento a
indicare dentro; forse era stato lui a portare Daisy e Gatsby a East
Egg la sera dell’incidente, e forse si era inventato una storia tutta
sua. Io non volevo sentirla e quando scendevo dal treno lo evitavo.
Passavo il sabato sera a New York perché l’abbagliante
splendore delle feste di Gatsby era così vivido per me che mi pareva
di sentire ancora arrivare dal suo giardino musica e risa incessanti, e
andirivieni di automobili dal viale. Una sera sentii passare una
macchina vera, e quando si fermò davanti alla scala vidi la luce dei
fari. Ma non approfondii. Probabilmente era un ultimo ospite che, di
ritorno dall’altro capo del mondo, non sapeva che la festa era finita.
L’ultima sera, preparato il baule e venduta la macchina al
droghiere, andai a guardare ancora una volta quell’illogico e
fallimentare castello di casa. Alla luce della luna si vedeva
chiaramente una parola oscena scarabocchiata da un ragazzino con
un pezzo di mattone sui gradini bianchi; la cancellai con la suola
della scarpa. Poi ciondolai fino alla spiaggia e mi stesi sulla sabbia.
La maggior parte delle grandi ville sul mare erano ormai chiuse e
non brillava quasi nessuna luce, a parte l’indistinto e mobile chiarore
di un traghetto che attraversava il Sound. E mentre la luna saliva più
in alto, le inessenziali case cominciarono a dissolversi, fino a che
percepii la vecchia isola che un tempo era spuntata qui davanti agli
occhi dei marinai olandesi – verde e fresca mammella del nuovo
mondo. Alberi scomparsi per fare posto alla casa di Gatsby avevano
un tempo assecondato in bisbigli l’ultimo e il più grande di tutti i
sogni umani; per un fuggevole e magico momento l’uomo deve
avere trattenuto il respiro davanti a questo continente, chiamato a
una contemplazione estetica che non capiva né desiderava, faccia a
faccia per l’ultima volta nella storia con qualcosa di commisurato alla
sua capacità di meraviglia.
E mentre me ne stavo lì a rimuginare sul vecchio mondo
sconosciuto, pensai alla meraviglia di Gatsby nello scorgere per la
prima volta la luce verde in fondo al pontile di Daisy. Aveva fatto
tanta strada per avere questo prato blu57 e il suo sogno deve
essergli sembrato così vicino che difficilmente gli sarebbe sfuggito.
Non sapeva che era già alle sue spalle, nei recessi delle vaste
tenebre che si aprivano dietro la città, dove i campi bui della
repubblica si estendevano nella notte58. Gatsby credeva nella luce
verde, l’orgastico59 futuro che anno dopo anno arretra davanti a noi.
Ci è sfuggito una volta, ma non importa – domani correremo più
veloce, tenderemo le braccia più avanti… e un bel mattino…
Così continuiamo a remare, barche controcorrente, sospinti
senza sosta nel passato.
NOTE AL TESTO
Nota al titolo: Fitzgerald mostrò fino all’ultimo una spiccata preferenza per il titolo Sotto il
rosso, bianco e blu e attribuì al titolo definitivo la ragione dell’iniziale insuccesso del
romanzo, uno dei pochi errori di giudizio commessi dall’autore durante l’ispirato periodo di
revisione.
Le note seguenti sono basate sul libro Apparatus for F. Scott Fitzgerald’s “The Great
Gatsby”, di Matthew J. Bruccoli (Columbia, University of South Carolina Press, 1974), ad
eccezione di quelle del traduttore. Il professor Bruccoli è un grande studioso dell’opera di
Fitzgerald, e chiunque sia interessato ad approfondire i dettagli testuali del romanzo
dovrebbe consultare il suo lavoro.
1. L’epigrafe di Thomas Parke D’Invilliers è stata scritta dallo stesso Fitzgerald. D’Invilliers è
un personaggio di Di qua dal Paradiso (1920) ed è ispirato a John Peale Bishop (1892-
1944).
2. Il duca di Buccleuch detiene anche il titolo di duca di Doncaster. Visto che a Oxford
Gatsby viene colto in compagnia del futuro conte di Doncaster, Fitzgerald sembra quasi
voler sottintendere, in modo ironico, che Nick potrebbe essere più “legato” a Gatsby di
quello che crede!
3. Vale a dire il college di Yale.
4. Lake Forest è un esclusivo quartiere residenziale di Chicago. Lì viveva Ginevra King, uno
dei primi amori di Fitzgerald.
5. Al college di Yale esistevano sei società senior e si trattava anche di società segrete.
Entrare a far parte di una di queste era considerato una notevole conquista sociale.
6. Si allude a The Rising Tide of Color (“La marea crescente del colore”) di Lothrop
Stoddard (New York, Scribners, 1920). Matthew J. Bruccoli sostiene che Fitzgerald «non
avesse voluto usare il titolo e l’autore corretti». Probabilmente non voleva, inoltre, che
Lothrop Stoddard venisse confuso con John L. Stoddard, citato più avanti nel romanzo (si
veda la nota 17).
7. Westchester è una zona periferica di New York.
8. Il nome Jordan Baker sembra mettere insieme le auto sportive Jordan e la Baker Electric,
l’azienda produttrice di automobili a batteria. Fitzgerald disse a Maxwell Perkins che il
personaggio era basato sulla campionessa di golf Edith Cummings.
9. Si tratta di tre località turistiche alla moda che si trovano rispettivamente in North
Carolina, Arkansas e Florida.
10. Secondo Matthew J. Bruccoli la «valle di ceneri» è ispirata a un terreno paludoso nei
pressi di Flushing Meadows che venne sommerso di cenere e rifiuti per poi diventare, nel
1939, l’area sulla quale fu edificata l’Esposizione universale.
11. Rivista scandalistica degli anni Venti.
12. Simon Called Peter è un romanzo popolare di Robert Keable (New York, Dutton, 1921),
che Fitzgerald non apprezzava e considerava immorale.
13. Montauk Point è una città sulla punta orientale di Long Island.
14. Joe Frisco (1889-1958) fu un attore comico e un eccentrico ballerino statunitense.
15. Quella dell’understudy è una professione molto ben definita nel mondo dello spettacolo
americano, che non esiste in modo altrettanto specifico nella nostra cultura. Si tratta di un
professionista scritturato nel cast di una produzione teatrale che conosce la parte di uno o
più degli interpreti ed è presente in teatro durante la performance, pronto a sostituire il
collega in caso di malattia o altro tipo di assenza (N.d.T.).
16. Gilda Gray (1901-1959) era la stella delle Ziegfeld Follies. Fu lei a introdurre lo shimmy.
17. John L. Stoddard (1850-1931) scrisse quindici volumi di libri di viaggio illustrati dal titolo
John L. Stoddard’s Lectures. «Gad’s Hill, la casa di Dickens nei pressi di Rochester, fu
illustrata nel nono volume» (Bruccoli). Si veda anche la nota 6.
18. David Belasco (1853-1931) era un produttore di Broadway noto per il realismo dei suoi
set.
19. Nella copia personale di Fitzgerald queste unità vennero sostituite da «Terza divisione
[…] Nono battaglione mitraglieri […] Settimo fanteria». Bruccoli scrive: «Il 3 giugno 1918, il
Nono battaglione mitraglieri di cui faceva parte Nick era a Château-Thierry mentre il Settimo
fanteria di Gatsby venne chiamato a difendere la città sulla sponda sud del fiume. Entrambe
le unità facevano parte della Terza divisione… [Per quanto riguarda la foresta dell’Argonne]
si tratta della battaglia dell’offensiva della Mosa-Argonne (26 settembre - 11 novembre
1918) in cui le truppe americane giocarono un ruolo chiave. Sebbene la Terza divisione di
Gatsby combatté nella campagna della Mosa-Argonne, lo fece nel settore Mosa – sul lato
opposto rispetto al fronte della foresta dell’Argonne. Tuttavia la Prima divisione, e cioè la
divisione di Gatsby e Nick nella prima edizione del romanzo, venne citata dal generale
Pershing per il valore dimostrato nell’Argonne. La modifica apportata alle unità di Gatsby e
Nick rende plausibile l’eventualità che i due si siano incontrati a Château-Thierry, ma allo
stesso tempo rende estremamente improbabile il fatto che Gatsby si trovasse nella foresta
dell’Argonne. Questa discrepanza non indica necessariamente che Gatsby stia mentendo
rispetto al suo servizio in guerra: il romanzo non ne dà alcuna indicazione».
20. Negli anni Venti il termine hydroplane era applicato sia ai motoscafi che agli idrovolanti.
21. In originale: «at intervals she appeared suddenly at his side like an angry diamond, and
hissed: “You promised!” into his ear». Il professor A.S.G. Edwards giustamente si interroga
sull’immagine dell’“angry diamond” e propone la suggestiva ipotesi che Fitzgerald
intendesse diamonback, il serpente a sonagli o “crotalo adamantino” che, infatti, “sibila”
(hissed). Il fatto che nel testo il termine sia diamond potrebbe, secondo Edwards, essere
dovuto a una svista nella revisione del manoscritto (N.d.T.).
22. Distretto periferico di New York che si trova nella contea di Orange.
23. In inglese bootlegger, a indicare chi, durante il Proibizionismo, era dedito alla vendita
illegale di alcolici. Si dice che il termine derivi proprio dal fatto che i contrabbandieri
nascondessero le bottiglie di whisky illegali negli stivali (boot).
24. Paul von Hindenburg (1847-1934) fu un generale tedesco durante la Prima guerra
mondiale, che in seguito venne eletto presidente del Reich.
25. Nella sua tesi di laurea “An analysis of F. Scott Fitzgerald’s The Great Gatsby through a
consideration of two Italian translations”, Paul Armstrong sottolinea l’allusività di molti dei
cognomi di questa lista, come Leech (“sanguisuga/parassita”), Hornbeam (“arrapato”),
Blackbuck (“soldi al mercato nero”) eccetera (N.d.T.).
26. Nel dicembre del 1924 Fitzgerald scrisse a Perkins: «Il Montenegro ha un ordine
chiamato appunto Ordine di Danilo. Avreste per caso la possibilità di scoprire per me che
aspetto avrebbe una decorazione al merito – se venisse data a un americano riporterebbe
un’iscrizione in inglese? – oppure un qualsiasi dettaglio che conferisca una certa
verosimiglianza alla medaglia, che al momento ha un effetto terribilmente amatoriale?» È
assolutamente conforme agli scopi di Fitzgerald che Gatsby abbia una medaglia di aspetto
terribilmente amatoriale (falsa) dotata tuttavia di una certa “verosimiglianza”, e anche che
Gatsby mostri proprio questa medaglia altamente improbabile quando sostiene che «tutti i
governi alleati» gli «diedero una medaglia». Modestia? Imbroglio? Presa in giro?
27. Il Trinity College di Oxford.
28. Bruccoli sostiene che questa località non sia stata identificata e che non corrisponda a
un porto reale, sebbene il nome sia inevitabilmente suggestivo. Come sottolinea lui stesso:
«Fitzgerald sovrappone una geografia parzialmente mitica con la geografia reale di Long
Island».
29. Il personaggio di Meyer Wolfshiem si basa in parte su un celebre giocatore d’azzardo
dell’epoca, Arnold Rothstein: «nel Gatsby… partendo sempre dai piccoli dettagli che mi
hanno colpito c’è, per esempio, il mio incontro con Arnold Rothstein» (Fitzgerald a Corey
Ford, luglio 1937).
30. Si tratta dello “scandalo dei Black Sox”. Nel 1919 un gruppo di giocatori dei Chicago
White Sox, che erano ampiamente ritenuti tra i favoriti per la vittoria delle World Series di
quell’anno, vennero pagati da una gang di giocatori d’azzardo per perdere gli incontri e
favorire i Cincinnati Reds. (Pare che i giocatori della squadra di Chicago si mostrarono così
palesemente imbranati che, dopo la seconda partita, lo scrittore Ring Lardner attraversò il
loro scompartimento sul treno canticchiando un verso della celebre canzone I’m Forever
Blowing Bubbles storpiandolo in «I’m forever throwing ball-games» – continuerò per sempre
a mandare all’aria le partite.) Gli storici sembrano concordi nell’affermare che Arnold
Rothstein non truccò il campionato ma venne a conoscenza della cosa e scommise di
conseguenza.
31. Camp Taylor si trova vicino a Louisville, in Kentucky. Fitzgerald stesso fu di stanza lì, e lì
conobbe Zelda Sayre.
32. Parco divertimenti a Brooklyn.
33. The Journal era un quotidiano newyorchese di proprietà di William Randolph Hearst.
34. Economics: An Introduction for the General Reader di Henry Clay (New York,
Macmillan, 1918).
35. Il Castello Rackrent è un romanzo gotico inglese dell’Ottocento di Maria Edgeworth
(1767-1849).
36. Si dice che Immanuel Kant avesse l’abitudine di fissare un campanile quando era
immerso nelle sue riflessioni.
37. In originale questi fiori sono chiamati con il loro nome popolare, kiss-me-at-the-gate
(“baciami al cancello”); purtroppo la traduzione non può dare conto della suggestività
dell’espressione (N.d.T.).
38. Lo studio di Gatsby è decorato nello stile classico dei fratelli Robert e James Adam, due
celebri architetti e progettisti di interni scozzesi del Settecento.
39. Daisy si riferisce al taglio di capelli “alla Pompadour” (N.d.T.).
40. “La mattina, / la sera, / non ci divertiamo… […] Una cosa è certa e non c’è niente di più
certo / i ricchi fanno i soldi e i poveri fanno… i bambini. / Nel frattempo / tra un tempo e
l’altro”; sono i versi di una canzone edita nel 1921, Ain’t We Got Fun, musica di Richard A.
Whiting, parole di Raymond B. Egan e Gus Kahn (N.d.T.).
41. Secondo uno dei miti del Proibizionismo, gli alcolici venivano immessi negli Stati Uniti
dal Canada attraverso delle condotte.
42. Si tratta di Françoise d’Aubigné (1635-1719), marchesa di Maintenon, seconda moglie
di Luigi XIV e vero potere occulto all’ombra del trono.
43. “Blocks” sta dunque per “blocchi”, “scatole” (N.d.T.).
44. Parco dell’isola di Oahu, nelle Hawaii.
45. Altura che si trova a Oahu.
46. Durante il Proibizionismo era possibile vendere alcolici legalmente su presentazione di
ricetta medica, così molti drugstore funsero da copertura per il contrabbando. (Negli Stati
Uniti, nei drugstore è possibile acquistare generi vari, tra cui anche le medicine: in questo
tipo di negozi è infatti presente un reparto di farmacia, N.d.T.)
47. Famosa canzone scritta da W.C. Handy nel 1917.
48. Hempstead è una città di Long Island.
49. Ricca comunità sulla riva meridionale di Long Island.
50. Secondo Bruccoli, è impossibile individuare una località del genere sulle mappe di Long
Island degli anni Venti, quindi anche questa appartiene alla “geografia mitica” di Fitzgerald.
Il nome “Gad’s Hill” suggerisce un’assonanza con “Gatsby” (nome che a sua volta in inglese
ricorda il suono della parola gun, “pistola”); Gadshill è anche il luogo dove Falstaff subisce
la finta rapina da parte del principe Hal nella prima parte dell’Enrico IV di Shakespeare.
51. È un’allusione al fatto che Gatsby fosse coinvolto nella compravendita di titoli rubati,
come probabilmente lo era Arnold Rothstein.
52. James J. Hill (1838-1916) era un magnate del settore ferroviario che visse nella città
natale di Fitzgerald, St Paul, in Minnesota. Costruì la Great Northern Railroad, che
collegava i Grandi Laghi con la costa del Pacifico. Fitzgerald allude spesso a lui nelle sue
opere.
53. Greenwich è una città in Connecticut.
54. Questa denominazione non vuole suggerire che Wolfshiem, ebreo, fosse un fascista!
Hitler aveva adottato il simbolo della svastica nel 1920, ma all’epoca in cui Fitzgerald
scriveva la notizia non era ancora ampiamente diffusa e la svastica aveva solo una
funzione decorativa.
55. Una poolroom è una sede o un club (può essere anche soltanto una stanza) dove si
gioca a pool, il biliardo americano. Gatsby era andato a cercare lavoro alla poolroom di
Winebrenner (N.d.T.).
56. È un romanzo scritto da Clarence E. Mulford nel 1910 (Chicago, McClurg), che porta il
nome del protagonista, un eroico cowboy. Il fatto che gli appunti di Gatsby siano datati 12
settembre 1906 è un piccolo anacronismo.
57. In inglese il blu suggerisce “malinconia, tristezza”, ma qui potrebbe anche trattarsi di
Kentucky Blue Grass, un’indicazione del lusso ottenuto da Gatsby facendo una lunga
strada (N.d.T.).
58. Potrebbe trattarsi di una sottile allusione ad America the Beautiful, la poesia di
Katharine Lee Bates del 1895 che nel 1910 venne musicata da Samuel A. Ward,
diventando uno degli inni patriottici più popolari in America (N.d.T.).
59. Fitzgerald teneva molto a questo termine, piuttosto desueto, che vuol dire “attinente
all’orgasmo”: quando Maxwell Perkins lo mise in questione, Fitzgerald rispose che la parola
orgastic esprimeva «esattamente il tipo di estasi intesa». Ciò non toglie che Edmund Wilson
nell’edizione Scribner del 1941, dopo la morte di Fitzgerald dunque, sostituì orgastic con
orgiastic (“orgiastico”). È stato Matthew J. Bruccoli a riportare orgastic nel testo, parecchi
anni dopo (N.d.T.).
Postfazione
di Tony Tanner
Forse sì, forse no. O forse una cosa del tutto diversa. Di sicuro
questo libro è percorso da una fame di «oggetti incantati», da un
gusto per il «colossale» e dal premuroso tentativo di scoprire e
distinguere quei momenti – istanti, contingenze – in cui una luce può
essere una stella di «significato colossale» invece che una
qualunque luce di un molo. Certo è che questa è la versione di Nick
Carraway, quindi potremmo anche chiederci, retrospettivamente, se
la luce verde non brillasse per lui persino più intensamente di
quanto, se possibile, brillasse per Gatsby.
Questo passo era in origine alla fine del primo capitolo, ma con una
delle sue infallibili correzioni Fitzgerald lo spostò alla fine,
all’imbrunire della narrazione, dove il suo tono crepuscolare si adatta
a pennello. Però la sua posizione originaria sta a indicare che il libro
da sempre doveva essere un’elegia, pervasa dalla sensazione di
essersi lasciati sfuggire qualcosa, di avere perso qualcosa –
un’occasione mancata, un sogno spacciato. La «verde e fresca
mammella del nuovo mondo», dal cui capezzolo attingere una
possibile nuova vita, avrebbe potuto offrire una inesauribile provvista
di «latte della meraviglia». Ma per qualunque motivo venissero i
marinai – tutti i marinai, dai puritani ai pirati – non venivano per
provare meraviglia di fronte all’America, ma allo scopo di
“violentarla”, per usare la metafora di William Carlos Williams per gli
svariati e molteplici saccheggi operati sul territorio americano. Così
l’immagine della verde e fresca mammella del nuovo mondo ha
ceduto il passo allo scioccante spettacolo della mammella sinistra di
Myrtle, «pendente come un lembo di stoffa» in seguito all’incidente
stradale. Fitzgerald era molto risoluto a mantenere questa scena:
«Voglio la tetta di Myrtle Wilson squarciata – il punto è proprio
questo, credo» (a Maxwell Perkins circa il 20 dicembre 1924).
Naturalmente Fitzgerald sa quello che fa. Vuole mostrare l’America
dissacrata, mutilata, violata. Forse l’incongruo tendere le braccia di
Gatsby, un gesto pieno di speranza disperata, offre un vago, residuo
e distorto accenno a un certo tipo di «capacità di meraviglia»
lietamente accolta, desiderata se non pienamente compresa, che
avrebbe potuto sfruttare meglio l’ultima grande chance che è stata
l’America, ma quali che fossero gli avrebbe-potuto-essere del nuovo
mondo, l’America si è di fatto resa del tutto accidentale e incline agli
incidenti. Di quello che sarebbe potuto essere un Paese delle
Meraviglie (come suggerisce un tema endemico alla letteratura
americana) è stata fatta una terra desolata.
Fitzgerald conosceva praticamente a memoria il poema di T.S.
Eliot che porta quel titolo, e certamente creò con la valle di ceneri la
sua terra desolata (e un altro titolo che prese in considerazione per il
romanzo fu Tra i cumuli di cenere e i milionari): «una fattoria da
incubo dove al posto del grano crescono ceneri, formando alture e
collinette e grotteschi giardini e prendendo la forma di case e
ciminiere e spirali di fumo e infine, con slancio trascendente, di
uomini grigio-cenere che si muovono indistintamente come se
fossero sul punto di sgretolarsi nell’aria polverosa. Di tanto in tanto
una fila di vagoni grigi avanza lungo un binario invisibile, emette uno
spettrale cigolio e poi si arresta». La parola “trascendente” è
particolarmente carica di significato in America, e viene usata qui
con tetra ironia. Questa trascendenza è di tipo negativo, un
travestimento, proprio il contrario di quello che avevano sperato per
l’America Emerson e i suoi amici; questo tratto di terra invero
produce, fa crescere, ceneri. Ma Fitzgerald non fu né il primo né
l’ultimo scrittore americano ad avere una visione entropica
dell’America – il grande continente agricolo che si trasforma in una
specie di cumulo terminale di rifiuti, o una terra desolata, dove, con
somma perversione, l’unica cosa che cresce è la morte.
La grande sapienza di Fitzgerald fu associare questo processo
alla diffusione esponenziale delle automobili. Come già osservato, il
libro è pieno di macchine, pessimi guidatori e incidenti, che insieme
cospirano all’omicidio non solo delle persone ma della terra stessa.
La pessima autista Jordan Baker ha nel suo stesso nome i marchi di
due automobili. Non a caso Fitzgerald colloca la rimessa – quella di
Wilson, diciamo, che vale per tutte – nel cuore della valle di ceneri
che produce. Henry Adams, il primo scrittore americano a utilizzare il
termine “entropia” per descrivere il futuro che presagiva, collegò
l’accelerazione di questa predetta entropia al rapido aumento di
nuove scoperte di fonti di energia e potenza, accompagnato dalla
diminuzione della capacità umana di controllarlo. Nella sua
Educazione scriveva:
Da ogni atomo si sprigionava energia, ed era possibile osservarne una quantità
sufficiente a rifornire l’intero universo stellare andare sprecata in ogni poro della materia.
L’uomo non era più in grado di controllarla. Lo prendevano per i polsi delle forze che lo
scagliavano lontano, come se avesse afferrato un filo scoperto o un’automobile in fuga;
il che era quasi l’esatta verità nel caso di un anziano e timido gentiluomo a Parigi, che
non guidava mai lungo gli Champs-Élysées senza attendersi un incidente, e spesso
assistendovi; o si era trovato vicino a un ufficiale senza calcolare le possibilità di una
bomba. Purché il ritmo del progresso tenesse bene, quelle bombe sarebbero
raddoppiate in numero e potenza ogni dieci anni.
James Jones
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