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Dall'Ottocento al Novecento: una nuova scena del pensiero

In filosofia il "Novecento" non indica soltanto una scansione cronologica, ma un carattere


peculiare del pensiero. I classici problemi della filosofia moderna, spinti alle loro massime pretese
nel pensiero ottocentesco, la fanno ancora da protagonisti, ma nella consapevolezza sempre più
evidente - anche da punti di vista diversi - di una crisi strutturale del pensiero, cioè del modo di
concepire il mondo e l'io, la natura e Dio, la storia e la scienza, la cui radicalità si presenta come un
abisso ancora tutto da sondare, e che non è più possibile coprire.
È vero che nel corso dei secoli la filosofia è sempre stata attraversata da momenti critici, ma
ora si tratta di qualcosa di diverso, come se la crisi non fosse appena un momento patologico da
superare, ma divenisse per così dire una dimensione "fisiologica" del pensiero stesso, qualcosa che
rimane come un tarlo o un peso ineliminabile da ogni esperienza umana.
Questo non vuol dire affatto che nella svolta del Novecento vengano azzerate tutte le
certezze, abbandonate tutte le dottrine tradizionali o seppellita l'idea stessa di una verità stabile.
Certezze, dottrine e verità continuano ad essere ricercate e affermate, ma tutte si portano dentro
l'urgenza di fare i conti continuamente con sé stesse, e di affrontare la possibilità, sempre
incombente, che vengano meno le loro pretese. Una posizione, questa, già testimoniata da
Kierkegaard e soprattutto da Schopenhauer, non a caso due autori che lasceranno una forte
impronta nel secolo successivo.
Non è un caso che il Novecento filosofico cominci con una data di morte, quella di Friedrich
Nietzsche (scomparso appunto nell'agosto 1900), colui che porta nel suo pensiero, ma anche nel
suo stesso corpo, la crisi di un'intera epoca, e giudica la filosofia del suo tempo come l'estrema
dissoluzione della storia del pensiero, vista come un grande inganno. Si tratta di una situazione
critica che non può più essere superata dall'interno delle categorie tradizionali, proprio perché la
crisi è concepita come un insuperabile destino della filosofia: quello che, con una parola che farà
storia, lo stesso Nietzsche chiama programmaticamente «nichilismo».
Ma il gesto iconoclasta nietzscheano convive con altri tentativi di segno opposto, che, di
fronte all'avvertenza della crisi, cercano di trovare una strada per riaffermare in una maniera più
rigorosa l'oggettività del vero e la certezza del conoscere. Ed è significativo che - contro l'idealismo
e il positivismo, due lati di una stessa pretesa sistematica e onnicomprensiva sulla realtà - si ritorni
a Kant, cercando di fronteggiare la crisi della cultura e dei valori mediante una riaffermazione delle
pure capacità trascendentali del soggetto umano.
Ma al fondo delle analisi dei neokantiani c'è un problema che verrà messo a tema
soprattutto con lo storicismo (Dilthey), vale a dire la possibilità di "conoscere" in maniera
appropriata una materia come la storia, così diversa dagli oggetti della natura fisica e affidata alle
leggi in gran parte mutevoli dell'antropologia, della psicologia e della sociologia. La sfida delle
"scienze dello spirito" è quella di conoscere, cioè di comprendere nel suo senso oggettivo ciò che
sembrerebbe per sua natura "soggettivo", vale a dire i nostri "vissuti", le nostre esperienze
storiche, e più radicalmente quel fenomeno sui generis che è la "vita".
Troveremo in Bergson la più acuta riflessione sull'esperienza della vita: l'essere del mondo
non è solo quello determinato dalle scienze positive, ma anche quello che la nostra coscienza
riesce a vivere e ad esprimere nel corso del tempo. Proprio il tempo appare come il più
appropriato modo d'essere della vita: una realtà che non si può semplicemente misurare, ma si
può solo vivere. In fondo questa vita che dall'interno spinge ed erode le forme cristallizzate dei
concetti e dei sistemi è il lato, chiamiamolo così, "positivo" di questa crisi permanente del pensiero
novecentesco.
Al tempo stesso l'appello della vita è come un richiamo sempre "trattenuto", circoscritto,
tenuto quasi a distanza: ed è quell'altra tendenza che si afferma con la svolta del Novecento, vale
a dire quel «disincantamento del mondo» di cui parlerà Max Weber. Esso non è di per sé sinonimo
di scetticismo, ma segna una specie di iato tra la vita e il senso della vita, tra la razionalizzazione
della conoscenza e della società, da un lato, e le motivazioni personali dall'altro, tra il potere della
scienza e la possibilità della felicità per gli uomini. Stare in questo iato, sapendo di non poterlo più
superare con le proprie strategie di pensiero, e al tempo stesso tentare ogni volta di rimettere
insieme gli elementi che tendono a divaricarsi tra di loro, è il compito della filosofia nell'epoca
della sua crisi permanente, cioè di una filosofia che scopre di non essere mai all'altezza, o alla
profondità, della vita.

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