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All’atto della sua costituzione nel 1947, l’OMS introdusse la definizione di salute quale
“stato di completo benessere fisico, psichico e sociale” ritenendo che la salute fosse
uno stato di funzionamento umano che coinvolge sia la persona, globalmente intesa,
che la società in cui egli vive. Prima della costituzione dell’OMS la salute veniva
definita “assenza di malattia”: era sufficiente non essere malati, in senso fisico, per
essere considerati sani
1. La salute non riguarda i singoli organi (pancreas, polmoni, etc.) ma è uno stato
di piena efficienza dell’intera persona
2. La salute è essenzialmente legata al funzionamento umano a tutti i livelli:
biologico, personale e sociale
3. La salute non può essere separata dal contesto in cui la persona vive. La salute
impatta sull’ambiente e l’ambiente impatta sulla salute.
Le persone con disabilità affermavano che i loro bisogni non erano esaurientemente
presi in carico dai semplici interventi medici e riabilitativi: infatti l’impatto
dell’ambiente sul loro stato funzionale e sulla loro disabilità poteva decisamente
aggravare la condizione di malattia.
In Italia, per esempio, sono state approvate delle leggi che hanno mutato la percezione
sociale della disabilità; i soggetti disabili, alla luce delle nuove normative, sono
divenuti portatori di diritti, piuttosto che oggetti di assistenza di stampo pietistico. A
questo riguardo sono da menzionare:
• La legge 180 del 1978: è la normativa che ha chiuso gli ospedali psichiatrici,
disciplinando i trattamenti sanitari nell’ambito della disabilità mentale (Giberti e
Rossi, 1983);
• La legge 517 del 1977, che ha aperto le scuole ai disabili, promuovendo
l’integrazione e creando la figura dell’insegnante di sostegno (Piazza, 1996);
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• La legge 104 del 1992, che ha sostenuto i diritti delle persone disabili lungo l’intero
ciclo di vita, implementando gli strumenti per favorire l’integrazione scolastica,
sociale e lavorativa (G. U. 15 aprile 1994, n. 87).
Tale mutato scenario ha avuto un inevitabile impatto sul modo di concepire i servizi
sanitari ponendo come prioritaria l’esigenza di organizzare percorsi sociali e
assistenziali che garantissero la continuità della presa in carico, e non la sola assistenza
medica delle fasi di acuzie.
A partire dalla seconda metà del secolo scorso l’Organizzazione Mondiale della Sanità
(OMS) ha elaborato differenti strumenti di classificazione inerenti l’osservazione e
l’analisi delle patologie organiche, psichiche e comportamentali delle popolazioni, al
fine di migliorare la qualità della diagnosi di tali patologie.
L’ICF non vuole essere uno strumento di descrizione di ciò che «non va», di ciò «che
si è perso», o che la persona «non può fare», quanto piuttosto descrivere nel modo più
dettagliato possibile le funzioni, le abilità e capacità che comunque caratterizzano
qualsiasi persona. Queste abilità e capacità si estendono anche alla partecipazione alla
vita sociale, e in modo particolare alla scuola e al lavoro. Il contesto sociale e fisico
costituisce un elemento fondamentale di valutazione e influenza in modo diretto il
funzionamento della persona. Anzi in modo netto l’ICF afferma il principio che
nessuna valutazione del funzionamento umano è valida se non viene specificato in
quale contesto viene effettuata. Per l’ICF la disabilità non è in alcun modo una
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caratteristica della persona, quanto piuttosto il risultato dell’interazione tra una certa
condizione di salute e un ambiente sfavorevole.
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In sostanza gli
strumenti di
classificazione
precedenti
valutavano i fattori
di disabilità
iniziando dalla
menomazione,
mentre l'ICF valuta
le abilità residue
dell'individuo (tale
ottica è evidente sin
dal nome dello
standard, ovvero
"classificazione
internazionale delle
funzionalità"), sostituendo al concetto di "grado di disabilità" quello di "soglia
funzionale".
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DISABILITÀ MOTORIE
DISABILITÀ SENSORIALI
La disabilità sensoriale può riguardare uno o più organi di senso. La disabilità visiva
può variare dalla cecità totale, in cui vi è l’impossibilità di percepire qualsiasi stimolo
visivo, alla ipovisione ossia una parziale capacità visiva.
DISABILITA’ INTELLETTIVA
Definire le disabilità intellettive non è una cosa semplice, poiché le persone con
disabilità intellettive possono essere davvero molto diverse tra di loro ed un ruolo è
svolto anche dall’ambiente in cui le stesse vivono. Secondo il DSM5 (Manuale
diagnostico e statistico dei disturbi mentali), la disabilità intellettiva (disturbo dello
sviluppo intellettivo) è un disturbo con esordio nel periodo dello sviluppo che
comprende deficit del funzionamento sia intellettivo che adattivo negli ambiti
concettuali, sociali e pratici.
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✓ Deficit del funzionamento adattivo che porta al mancato raggiungimento degli
standard di sviluppo e socioculturali di autonomia e di responsabilità sociale. Senza
un supporto costante, i deficit adattivi limitano il funzionamento in una o più attività
della vita quotidiana, come la comunicazione, la partecipazione sociale e la vita
autonoma, attraverso molteplici ambienti quali casa, scuola, ambiente lavorativo e
comunità;
✓ Esordio dei deficit intellettivi e adattivi durante il periodo dello sviluppo. L’età e le
caratteristiche dell’esordio dipendono dall’eziologia (causa) e dalla gravità della
menomazione della struttura e/o delle funzioni cerebrali.
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Alcune tipologie di disabilità
Con la pubblicazione nel 2014, del DSM 5 (Diagnostic and Statistical Manual of
Mental Disorders), il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali viene
introdotta la categoria diagnostica di “Disturbi dello Spettro Autistico” che va a
sostituire la vecchia categoria diagnostica di “Disturbi pervasivi dello sviluppo”.
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percorsi o sugli stessi cibi, domande ripetitive o estremo disagio per piccoli
cambiamenti.
• Interessi altamente ristretti e fissi, atipici per intensità o per focalizzazione, come
forte attaccamento o preoccupazione per oggetti insoliti, interessi estremamente
circoscritti o perseverativi.
• Iper- o ipo-sensibilità a input sensoriali o interessi atipici per aspetti sensoriali
dell’ambiente, come apparente indifferenza al dolore o al freddo, riposte evitanti
a specifici suoni o aspetti tattili, eccessiva attività nell’odorare o nel toccare
oggetti, fascinazione per luci o per oggetti che ruotano.
Fra le cause individuate di questa sindrome così complessa vi sono quelle Neuro-
Biologiche: strutture anatomiche compromesse (come cervelletto, sistema limbico e
corteccia cerebrale); anomalie cromosomiche (mutazione localizzata sul cromosoma
Xq28), anomalie genetiche.
Altre cause possono essere fattori esogeni infettivi, tossici, farmacologici, traumatici e
vascolari; infezione virale pre-natale; ipossia al momento della nascita.
A causa della diversità delle manifestazioni del disturbo, è difficile delineare un quadro
che descriva in modo univoco il decorso dell’autismo, in quanto esso varia da soggetto
a soggetto.
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Più è alto il livello intellettivo più favorevole è il decorso: infatti buona parte dei
soggetti autistici che manifestano un’intelligenza nei limiti nella norma conducono una
vita adulta “normale”, tanto che alcuni di loro completano anche gli studi superiori.
Parent training
Nel trattamento delle persone con diagnosi di autismo può emergere la necessità di
ricorrere a una terapia farmacologica, che ha l’obiettivo di affrontare e ridurre a livello
sintomatologico i diversi problemi che possono accompagnare questa condizione.
Ad oggi gli interventi psico-educativi per i disturbi dello spettro autistico, validati da
evidenze empiriche e di letteratura, fanno riferimento, fra gli altri, a una cornice teorica
di stampo cognitivo-comportamentale, finalizzati a modificare il comportamento
generale per renderlo funzionale ai compiti della vita di ogni giorno (alimentazione,
igiene personale, capacità di vestirsi) e tentano di ridurre i comportamenti
disfunzionali.
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Altri modelli di intervento si basano sul modello Denver che individua nelle specifiche
caratteristiche di ogni bambino e sulle sue preferenze di gioco o di attività la leva sulla
quale delineare il progetto abilitativo. Il Denver tiene conto del momento evolutivo del
bambino ed è volto a sviluppare le capacità imitative e sociali, oltre a quelle cognitive.
Inoltre, dall’insieme dei dati raccolti nelle varie esperienze di intervento educativo è
emerso che particolari adattamenti dell’ambiente fisico e sociale oltre che degli
strumenti di comunicazione possono migliorare il benessere delle persone con autismo
(viene per esempio consigliato di ridurre la complessità degli ambienti e delle
interazioni sociali, di utilizzare attività con uno schema a routine scandendo le attività
attraverso degli orari prefissati, di utilizzare tecniche di aiuto e di minimizzare il
sovraccarico sensoriale). Infine, vanno considerati gli aspetti sensoriali.
Perché si possa parlare di ADHD i sintomi devono fare la loro comparsa prima dei 12
anni di età, durare almeno 6 mesi e causare problemi in almeno due contesti (ad
esempio a casa, a scuola, al lavoro, ecc.).
L'ADHD può quindi presentarsi in tre forme distinte che spesso hanno caratteristiche
anche molto diverse tra loro:
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• Manifestazione con disattenzione predominante: i sintomi sono prevalentemente
rilevabili nella categoria “disattenzione” rispetto a quella “iperattività-impulsività”.
• Manifestazione con iperattività-impulsività predominanti: la maggior parte dei
sintomi si evidenzia nella categoria “iperattività-impulsività”. Possono essere
presenti pochi sintomi di disattenzione, che però non raggiungono una soglia di
rilevanza clinica.
Gli psicostimolanti sono ritenuti i farmaci più efficaci per adolescenti, bambini e adulti
con ADHD. I principali effetti positivi sono a carico del mantenimento dei livelli di
attenzione, dell’impulsività e dell’iperattività. Affinché vi siano miglioramenti
durevoli nel tempo è fondamentale affiancare al trattamento farmacologico un percorso
combinato di strategie cognitive e comportamentali che aiutino bambino, genitori e
insegnanti a raggiungere una piena comprensione del problema e nella gestione dei
comportamenti problematici presenti.
Per quel che concerne l’intervento individuale con il bimbo, una procedura, che può
essere applicata per gestire il comportamento impulsivo, è chiamata “self-instruction”.
Questa procedura consiste nell’istruire le persone a utilizzare strategie “self-talk”
(parlare a sé stessi) attraverso una tecnica che suddivide la risoluzione dei problemi in
varie tappe (identificazione di un problema, la generazione di alternative, la scelta, la
realizzazione e la valutazione di una soluzione). L’ipotesi è che queste tecniche self-
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talk, inizialmente messe in pratica in modo evidente, verranno interiorizzate e
potrebbero compensare i deficit di autocontrollo. Il training specifico, per le tecniche
di controllo della collera, è un’altra strategia di auto-gestione, in base alla quale ai
bambini viene insegnato come riconoscere i segnali interni (fisiologici) di aumento
della collera, come sviluppare le tecniche per far diminuire o indirizzare in altro modo
la collera (allontanarsi dalla situazione), e come utilizzare queste tecniche in risposta
alle provocazioni altrui.
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In condizioni fisiologiche normali, il codice genetico umano è costituito da 46
cromosomi, ossia da 23 coppie, di cui 22 di esse sono caratterizzate da cromosomi
omologhi (autosomi), mentre una coppia è quella che rappresenta i cromosomi sessuali,
diversi tra loro (XX e XY) e detti eterosomi. Nella Sindrome di Down i cromosomi
presenti non sono più 46, ma 47, in quanto il cromosoma 21 è presente tre volte. Si
tratta, infatti, di una mutazione genomica la quale, per definizione, consiste in una
variazione del normale numero di cromosomi.
Alla trisomia 21 si correlano tipici tratti somatici quali, tono muscolare ridotto, naso
piccolo e piatto, occhi a mandorla, piccole pieghe della pelle o all’angolo interno degli
occhi, lingua di grandi dimensioni rispetto alla bocca del bambino, orecchie piccole e
talvolta di forma anomala, un’unica piega al centro del palmo della mano, il mignolo a
volte può presentare una sola piega anziché due.
Si associano inoltre ritardo mentale di entità molto variabile e spesso lieve, disfunzioni
tiroidee, malattie gastrointestinali, cardiopatie congenite, disturbi visivi e uditivi. Tutte
queste patologie, che spesso fungono da cornice alla Sindrome di Down, devono essere
monitorate nel tempo, curate quando possibile, e la loro presenza influenza anche la
stima della sopravvivenza delle persone colpite da questa sindrome. Come già detto,
però, non tutte queste co-affezioni si manifestano e, soprattutto, non tutte si
manifestano con la stessa aggressività.
Ad oggi sono disponibili vari test prenatali non invasivi volti a esaminare il genoma
fetale che, però, in caso di positività, necessiterebbero di una conferma della diagnosi
da effettuare mediante procedure invasive, fra cui l’amniocentesi, da effettuare tra 16°
e 18° settimana gestazionale e la villocentesi, effettuabile tra 11° e 14° settimana di
gestazione.
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Le difficoltà e le dinamiche psicologiche che subentrano al momento della diagnosi di
Sindrome di Down generano uno stress emotivo nei genitori, tale da sfociare in
depressione e in stati d’ansia e di paura che, a loro volta, si ripercuotono sull’equilibrio
del nucleo familiare. Tali problematiche insorgono soprattutto nella gestante, la quale
sente di perdere in un sol colpo non soltanto la sua immagine di donna e di madre, ma
anche di perdere l’immagine del suo “figlio ideale”.
Accompagnare e ascoltare sono aspetti alla base di un’assistenza che non si approccia
solo alla persona che è affetta dalla sindrome, ma che presenta un ben più amplio
panorama fatto di vissuti, di emozioni, di paure e di problematiche sociali in cui
intervengono e coesistono diversi attori: genitori, familiari, amici.
Dai 3 ai 6 anni emergono buone capacità imitative, anche se permane scarsa iniziativa
nell’avvio delle interazioni; dopo i 6 anni, seppur lentamente, emerge maggior
socievolezza con adattamento più evoluto rispetto a quanto atteso dal QI.
Dall’adolescenza in poi lo sviluppo di tali competenze dipende molto dal contesto in
cui il ragazzo/a è inserito. In ogni caso il bisogno di socialità è molto vivo nella
Sindrome di Down, come testimoniato da numerose esperienze di integrazione sociale
e di inserimento lavorativo (Vianello, 2006).
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