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Nicholas J.

Spykman e la nascita del


realismo politico americano

Corrado Stefanachi

Nicholas J. Spykman and the birth of the american political realism


Though indisputably one of the fathers of the american political realism, Nicholas J.
Spykman has been long neglected in the study of international relations (the academic
field to which he belonged). This article argues that Spykman is still worth paying at-
tention for (at least) the four following reasons. Firstly, Spykman’s political thought is
one of the clearest and earliest formulations of the tenets of the political realism in the
american international relations theory. Secondly, Spykman’s Geopolitics is an healthy
reminder of the importance of the geographical factors in the international politics
while shunning the geographical determinism which has undermined so much geo-
political thinking of the last century. Thirdly, Spykman’s Geopolitics provides a useful
interpretation of the political and economic globalization unfolding in the Twentieth
century as a marked change of the political significance of geography rather than an
unprecedented condition of irrelevance of geography. Lastly, Spykman’s ideas on
power politics and geopolitical change contributed to the formation of the american
«mental map» which presided over the shift of the United States’ foreign policy from
isolationism to internationalism.
Keywords: Spykman, international relations, realism, geopolitics

1. Introduzione. Nicholas J. Spykman: un maestro dimenticato?

Nicholas John Spykman è indiscutibilmente uno dei padri del reali-


smo politico americano, anche se le Relazioni Internazionali (l’ambito
politologico in cui egli si è cimentato) sembrano quasi averne perso
memoria: il suo nome e la sua opera fanno infatti fatica a trovare un
posto nella galleria dei maestri del realismo che viene immancabilmen-

Corrado Stefanachi, Università degli Studi di Milano, Dipartimento di Studi Internazionali, Giuridici
e Storico-Politici, via Conservatorio 7, 20122 Milano, corrado.stefanachi@unimi.it.

storia del pensiero politico 2/2013, 283-310 ISSN 2279-9818 © Società editrice il Mulino
Corrado Stefanachi

te presentata nei manuali di Scienza Politica o Relazioni Internazionali


– sacrificati alle torreggianti figure di studiosi come Hans Morgenthau
o Reinhold Niebuhr, o come il capostipite del neorealismo Kenneth
Waltz1. La brevità della carriera accademica e scientifica del politologo
olandese (ma americano di adozione), interrotta nel 1943 dalla prema-
tura scomparsa a soli quarantanove anni, è forse in parte responsabile
di quella eclisse. Né il declino negli Stati Uniti, dopo la curiosità quasi
morbosa dei primi anni Quaranta2, della Geopolitica – una «scienza»
compromessa, agli occhi di molti, con la Geopolitik tedesca se non con
l’hitlerismo, e resa anacronistica dall’avvento del potere aereo e delle
armi nucleari – ha giovato a uno studioso che, come Spykman, ha fatto
proprio della «simbiosi» tra realismo e geopolitica uno dei tratti distin-
tivi del proprio contributo teorico. Anche quando, tuttavia, si è assi-
stito, a partire dagli anni Settanta3, a un certo revival della Geopolitica
Spykman è stato ricordato, quasi esclusivamente ma riduttivamente,
per la sua tesi circa la duratura importanza politica del rimland eurasia-
tico, a «rettifica» della ben nota tesi di Halford J. Mackinder, fondatore
della Geopolitica britannica, sull’heartland di Eurasia come pivot della
storia mondiale. Resta il fatto che ancora oggi, significativamente, man-
ca una monografia scientifica a lui dedicata.
In quest’articolo si argomenta che il contributo teorico di Spykman
merita di essere pienamente recuperato e riacquisito agli studi interna-
zionali almeno per quattro valide ragioni. Esso costituisce, in primo
luogo, una delle formulazioni più limpide del realismo politico ame-
ricano, e anche una delle più precoci (ciò che è interessante se non
altro sul piano della ricostruzione storica della disciplina delle Rela-
zioni Internazionali). Spykman offre, in secondo luogo, una riflessione
equilibrata sul notevole contributo della Geopolitica allo studio delle
relazioni internazionali ma anche sui suoi (non trascurabili) limiti; con

1
  Sul canone realista si veda, per esempio, M. Smith, Realism Thought from Weber
to Kissinger, Baton Rouge, Louisiana State UP, 1986. Sul neorealismo, K.N. Waltz,
Teoria della politica internazionale (1979), Bologna, Il Mulino, 1987.
2
 B.W. Blouet parla di «mania americana» per la Geopolitica nei primi anni
Quaranta; si veda Halford Mackinder. A Biografy, College Station, Texas A&M UP,
1987, p. 191.
3
  Sull’alternanza tra interesse e disinteresse per la Geopolitica cfr. W. Hepple, The
revival of geopolitics, in «Political Geography Quarterly», 5, Supplement (1986), n. 4,
in particolare pp. S22-S24.

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ciò, egli fornisce un utile antidoto agli opposti (e parimenti inaccetta-


bili) atteggiamenti tra cui hanno oscillato le Relazioni Internazionali fin
dalla loro nascita: quello dello sdegnato rifiuto a concedere il diritto di
cittadinanza alla Geopolitica nelle scienze politiche, da un lato, e quel-
lo dell’entusiastica sopravvalutazione, dall’altro lato, della sua capacità
esplicativa (parente stretta, e assai molesta, del determinismo geogra-
fico). In terzo luogo, la Geopolitica di Spykman (così come quella di
Mackinder, con il quale il politologo olandese-americano è senz’altro
indebitato) offre un’interessante tematizzazione del fenomeno capitale
della globalizzazione della politica (ed economia) internazionale che ha
attraversato il Novecento e che continua a segnare la nostra epoca; più
precisamente, la globalizzazione viene colta e interpretata da Spykman
– sullo sfondo del rapporto dinamico tra tecnologia, geografia e po-
litica – come un formidabile mutamento del significato politico della
geografia, piuttosto che come l’approdo a un’inedita condizione di ir-
rilevanza della geografia (come accade in tanta frettolosa letteratura
sulla globalizzazione degli ultimi vent’anni). È degno di menzione infi-
ne che, ciò facendo, Spykman (le cui opere ebbero un’ampia risonanza
alla loro uscita) contribuì a delineare la nuova «mappa mentale»4 che
ha guidato gli Stati Uniti nel loro tragitto dall’abbandono dell’isola-
zionismo all’impegno continuativo – politico e militare – in Eurasia
durante la Guerra fredda.

2. Il realismo politico di Spykman

Nato in Olanda, ad Amsterdam, nel 1893, Spykman ha fatto parte


di quella generazione di intellettuali europei che, emigrati negli Stati
Uniti e disillusi dal fallimento della Società delle Nazioni e dalla re-
crudescenza della competizione internazionale degli anni Trenta, tra-
piantarono il realismo politico nel terreno vergine della cultura politica
americana5. Diede infatti un importante contributo a spezzare il mo-
4
  A.K. Henrikson, “Mental Maps”, in M.J. Hogan, T.G. Paterson (eds.), Explain-
ing the History of American Foreign Relations, Cambridge, Cambridge UP, 1991, pp.
177-192.
5
 K.W. Thompson, Masters of International Thought, Baton Rouge, Louisiana
State UP, 1980, p. 92.

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nopolio detenuto fino ad allora da giuristi e idealisti nelle Relazioni


Internazionali americane il pioneristico Istituto di Studi Internazionali
dell’Università di Yale che Spykman, professore in quella università
dal 1928 (dopo aver conseguito un dottorato a Berkeley con una tesi
sul pensiero sociologico di Georg Simmel, ripresa nella sua prima
monografia)6, diresse dal 1935 al 19407. Sotto la sua guida, e nel segno
del sodalizio intellettuale con Arnold Wolfers – trasferitosi a Yale nel
1933 dopo aver diretto la prestigiosa Hochschule für Politik di Ber-
lino8 – l’Istituto diventò una delle fucine di un innovativo approccio
alle tematiche internazionali, in cui l’analisi del potere e dell’interesse
nazionale, non lo studio dei trattati e del diritto internazionale, fungeva
da chiave di lettura della politica internazionale.
In particolare nel primo capitolo di America’s Strategy in World Po-
litics, in cui emerge l’intelaiatura teorica della politologia di Spykman,
ci si imbatte in effetti nel ventaglio di nodi tematici, suggestioni e prin-
cipi che qualificano l’universo teorico realista. Lì si trova il nucleo ir-
riducibile di ogni realismo politico – il principio della centralità e ine-
stinguibilità del conflitto nella realtà socio-politica in generale, prima
ancora che nell’arena internazionale in particolare9: «Il conflitto – os-
serva Spykman, in vena simmeliana – è uno degli aspetti fondamentali
della vita e, come tale, un elemento di tutte le relazioni tra individui,
gruppi e Stati. Un mondo senza lotta sarebbe un mondo in cui la vita
ha cessato di esistere»10. Ma lì troviamo anche, abbinata al riconosci-
mento dell’insopprimibile lato competitivo della politica, l’insistenza

6
  N.J. Spykman, The Social Theory of Georg Simmel, New Brunswick and London,
Transaction Publishers, 2009.
7
  K.W. Thompson, Master of International Thought, cit.; F. Kaplan, The Wizards of
Armageddon, New York, Touchstone Books, 1983; F. Teggart, In memoriam: Nicholas
John Spykman, 1893-1943, in «American Journal of Sociology», 49 (1943), n. 1, p.
60; E.S. Furniss, The Contribution of Nicholas Spykman to the Study of International
Politics, in «World Politics», 4 (1952), n. 3, pp. 382-401; G. Ó Tuathail, “It’s Smart to
be Geopolitical”: Narrating German Geopolitics in U.S. Political Discourse, 1939-1943,
in Id., Critical Geopolitics. The Politics of Writing Global Space, London, Routledge,
1996, pp. 50-53; e B.W. Blouet, Geopolitics and Globalization in the Twentieth Century,
London, Reaktion Books, 2001, pp. 119-121.
8
  K.W. Thompson, Master of International Thought, cit.
9
  N.J. Spykman, America’s Strategy in World Politics. The United States and the
Balance of Power, New Brunswick and London, Transaction Publishers, 2008, p. 12;
cfr. anche Id., The Social Theory, cit., pp. 112-127.
10
  N.J. Spykman, America’s Strategy, cit. p. 12.

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– tipica del realismo internazionale – sulla «differenza essenziale tra


la comunità internazionale e la comunità nazionale in quanto ambien-
ti che condizionano il comportamento dei gruppi [politici]»11: e sulla
conseguente diversità delle dinamiche competitive e dei meccanismi
coercitivi operanti in quelle due configurazioni politiche.
Nella sfera interna, organizzata intorno al monopolio statale della
violenza legittima, osserva Spykman, la coercizione che decide gli ine-
vitabili conflitti tra le istanze e gli interessi contrapposti avviene per-
lopiù mediante l’azione indiretta (o «politica» in senso stretto) di un
gruppo politico sull’altro; essa avviene cioè attraverso la «cattura» del
potere statale di legiferare e definire le politiche pubbliche che, una
volta adottate, possono essere legittimamente imposte dallo Stato ai
recalcitranti12. Diversamente, nell’ambito internazionale, dove perma-
ne una pluralità anarchica di poli sovrani, l’azione indiretta attraverso
il controllo delle organizzazioni internazionali è resa futile dal fatto che
queste dispongono di prerogative e poteri insignificanti; qui è il meto-
do diretto, l’azione immediata di un gruppo politico sui suoi omologhi,
«la forma di approccio normale e prevalente», ed esso può comportare
anche il ricorso alla forza militare. Qui perciò la promozione degli inte-
ressi fondamentali degli attori politici (gli Stati), e la tutela persino del-
la loro esistenza, poggia in ultima analisi sulla capacità individuale degli
Stati stessi di farli valere in un’eventuale collisione armata con gli altri
gruppi sovrani: «La comunità internazionale non ha mai garantito agli
Stati membri la vita, la libertà, la proprietà [...], indipendentemente da
ciò che, sulla carta, possano aver stabilito gli articoli delle convenzioni
internazionali»13, e l’anarchia interstatale è un’inesauribile sorgente di
insicurezza che impone agli attori, per ragioni di cautela, di metter da
parte le eventuali remore morali e regolare le loro condotte su spassio-
nate considerazioni di potenza14.
C’è in Spykman l’intuizione essenzialmente realista che, in anar-
chia, la «tirannia dell’insicurezza» esige che gli attori statali si curino

11
  Ivi, p. 16.
12
  Ivi, pp. 14-15.
13
  Ivi, p. 17.
14
  Ivi, p. 18.

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innanzitutto della propria «posizione di potere relativo»15, che essi


facciano del balance of power la pietra angolare della loro condotta
estera. Spykman aggiunge subito però che gli Stati tendono in effet-
ti a non accontentarsi di un mero equilibrio, e mirano semmai a ot-
tenere un rassicurante margine di superiorità, ciò che innesca quello
che John H. Hertz chiamerà, qualche anno dopo, il «dilemma della
sicurezza»16: «il margine di sicurezza per uno è il margine di pericolo
per l’altro», scrive Spykman, e ogni azione volta ad aumentare la sicu-
rezza degli uni determina una reazione degli altri, «in un’eterna lotta
competitiva per il potere»17.
Come si vede, Spykman scova la traccia che porta a una spiegazio-
ne strutturale della ricorrenza della guerra nel sistema internazionale,
il tipo di spiegazione su cui insisterà il mainstream realista e soprattut-
to neorealista negli Stati Uniti: la guerra è uno strumento del balan-
ce of power, l’estrema ratio a cui possono/devono rivolgersi gli Stati
per arrestare il deterioramento della loro posizione di potenza. Alle
ragioni specifiche che li possono spingere alla collisione armata (di-
spute territoriali, «antipatie» ideologiche, interessi economici, etc.) si
aggiunge l’imperativo della «rettifica» della distribuzione del potere,
per cui l’insicurezza generata dall’anarchia emerge come la causa più
generale (quella che sussiste anche in assenza di immediati motivi di li-
tigio, e quella ineliminabile perdurante la molteplicità di Stati sovrani)
della guerra18. Né un sistema di sicurezza collettivo né l’istituzione di
un Governo mondiale, aggiunge Spykman, possono essere realistiche
alternative alla politica di potenza o praticabili soluzioni al problema
della guerra. Se infatti i sistemi di sicurezza collettiva dipendono ec-
cessivamente dal sostegno delle grandi potenze che dispongono dei
mezzi per farli funzionare, ma che tendono a impegnarsi in essi solo
quando lo ritengano coerente con i loro interessi nazionali, manca il
presupposto sociologico dell’istituzione di un Governo mondiale, ov-
vero l’esistenza «di una comunità mondiale» raccolta intorno a «una

15
  Ivi, p. 25.
16
  J.H. Hertz, Idealist Internationalism and the Security Dilemma, in «World Poli-
tics», 2 (1950), 2, pp. 171-201.
17
  N.J. Spykman, America’s Strategy, cit., p. 24.
18
  Ivi, p. 25.

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condivisa tavola dei valori» e dotata di «una coesione sufficiente a


sostenere le azioni di una forza di polizia [internazionale]»19.
Ma se negli scritti di Spykman troviamo un’anticipazione
dei punti fermi del posteriore realismo internazionale, il suo reali-
smo presenta anche diversi tratti di originalità. Basti dire che i suoi
spunti sul rapporto interno-esterno (sulle interazioni tra lotta politica
interna e competizione internazionale), sui fattori sociali e immate-
riali («omogeneità etnica, efficacia dell’integrazione sociale, stabilità
politica, spirito nazionale») della potenza nazionale o ancora sulla di-
mensione psicologica e ideologica della competizione internazionale,
non sono stati raccolti e sviluppati come avrebbero meritato dal rea-
lismo posteriore, incline a operare una netta separazione tra interno
ed esterno nonché proclive a un certo materialismo nella definizione
del potere (coincidente con le risorse militari ed economiche degli
Stati). Anche la spiccata sensibilità di Spykman per i fattori geografici
della politica internazionale non ha lasciato un segno duraturo nella
posteriore teoria realista, che tanto spesso finirà per ridurre la que-
stione della distribuzione del potere a un’astratta aritmetica militare
ed economica (ossia al computo degli armamenti e al calcolo del peso
economico dei diversi attori). Il connubio realismo/geopolitica è in-
dubbiamente l’inconfondibile contrassegno della teoria internaziona-
le di Spykman, e come tale merita di essere approfondito nel prossimo
paragrafo.

3. Realismo e geopolitica

3.1. Il contesto geografico della politica di potenza

Se, come visto, la politica di potenza costituisce il filo conduttore


della politica internazionale, essa rischia però di restare una vuota
astrazione, secondo Spykman, qualora lo studioso non tenga conto
delle caratteristiche geografiche dell’arena in cui essa si svolge e degli
attori politici che vi prendono parte. I concetti fondamentali di cui

  N.J. Spykman, The Geography of the Peace, New York, Harcourt, Brace and
19

Company, 1944, p. 4.

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si serve l’approccio realista (sicurezza e potenza) hanno una crucia-


le dimensione geografica che non può essere trascurata dalla teoria.
Essi, anzi, devono indossare, per così dire, una «veste geografica» per
poter funzionare come utili dispositivi teorici, capaci di individuare
tendenze e fenomeni ricorrenti della vita internazionale e spiegare la
condotta delle singole potenze. Non basta insomma assumere che il
sistema internazionale sia un’arena anarchica e che in essa le consi-
derazioni di sicurezza e potenza siano prioritarie; bisogna introdurre
l’anarchia nello spazio geografico per mettere a fuoco come si distri-
buiscono effettivamente le risorse di potenza tra gli Stati e in cosa
consista l’insicurezza a cui sono esposti i singoli Stati.
«Il problema della sicurezza – puntualizza Spykman – è sia
geografico che politico»20. Esso sorge, come visto, dal fatto politico
che «la società internazionale resta un sistema dinamico in cui gli Stati
sono impegnati in una lotta per il potere che non viene moderata da
un’autorità superiore», ma non va dimenticato che «lo Stato differisce
dalle altre strutture sociali non soltanto nella sua pretesa di sovranità
ma anche nel fatto che la sua organizzazione è territoriale. Sopravvi-
venza, per un’unità di questo tipo, significa preservare l’indipendenza
politica e mantenere il controllo su un territorio specifico i cui limiti
sono definiti da una linea immaginaria chiamata confine. Quest’area
geografica è la base territoriale da cui lo Stato opera in tempo di guer-
ra e la posizione strategica che esso occupa nell’armistizio temporaneo
chiamato pace»21. Concretamente, sicurezza significa per uno Stato la
difesa del suo territorio dagli attacchi militari di altre entità territoriali
usando primariamente ciò che il territorio medesimo contiene e mette
a disposizione: essendo il territorio la fonte della potenza statale. Per
tali ragioni, non è esagerato dire che la geografia è «the most funda-
mentally conditioning factor»22 della condotta internazionale degli at-
tori statali, che dà conto di alcune continuità e persistenze nella loro
20
  N.J. Spykman, Frontiers, Security, and the International Organization, in «Geo-
graphical Review», 32 (1942), n. 3, pp. 436-447; la citazione è a p. 436.
21
  Ivi, p. 437.
22
  N.J. Spykman, Geography and Foreign Policy, I, in «American Political Science
Review», 32 (1938), n.1, pp. 28-50; la citazione è a p. 29.

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politica estera le quali resistono ai mutamenti di regime, di leadership


politica o di orientamento ideologico dei governanti23.
Non è possibile qui seguire in dettaglio l’intera rete dei nessi e
collegamenti tra geografia e politica delineati da Spykman. Ci si deve
limitare ad aggiungere che la dimensione territoriale, la collocazione
mondiale e quella regionale, le risorse naturali, la topografia e il clima
compongono il ventaglio dei fattori geografici che – con le loro reci-
proche interazioni – concorrono a definire il problema della sicurezza
e a stabilire la posizione degli Stati nella gerarchia internazionale. «La
grandezza relativa [del territorio] degli Stati [...] – osserva Spykman
– fornisce una indicazione approssimativa della forza relativa e, come
tale, è un elemento della loro politica estera»24; un territorio di grandi
dimensioni è «forza potenziale» nella misura in cui «equivale a terreno
coltivabile e conseguentemente a manpower» e perché, contenendo
«una pluralità di fasce climatiche e una topografia differenziate, e
perciò una molteplicità di risorse e possibilità economiche»25, esso è
il presupposto di un’economia articolata e non eccessivamente dipen-
dente dalle importazioni di risorse «strategiche». Un territorio este-
so è anche una cospicua risorsa sul piano prettamente strategico in
quanto esso consente, in caso di invasione (ma solo «se i centri vitali
di un Paese sono collocati lontano dalle sue frontiere») la difesa in
profondità – esso permette di cedere spazio per guadagnare il tem-
po necessario a far esaurire lo slancio dell’offensiva nemica. Affinché
però la forza latente di un vasto territorio si traduca in potenza effet-
tiva o attuale (e non si trasformi magari in una fonte di vulnerabilità)
il centro politico-amministrativo deve disporre di un efficace sistema
di comunicazioni con cui contrastare le spinte centrifughe attive nelle
periferie. Alcuni fattori geografici come la forma del territorio, la sua
topografia nonché le condizioni climatiche hanno agevolato o osta-
colato nel corso della storia la «presa» del centro sulle periferie e il
grado di coesione interna degli Stati26. E se è vero che la tecnologia
moderna nei trasporti e nelle telecomunicazioni consente di integrare

23
  Ivi, p. 29.
24
  Ivi, p. 31.
25
  Ivi, p. 32.
26
  Ivi, pp. 38-39.

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territori sempre più vasti ed eterogenei, la costruzione delle infrastrut-


ture necessarie a esercitare un efficace controllo territoriale richiede
un’abbondanza di capitali che non è alla portata di tutti i Governi,
«[i]l che spiega perché – puntualizzava Spykman nel 1938 – la Turchia
prima del 1914 e il Brasile e la Cina oggi, benché tra gli Stati più estesi
al mondo, siano ancora potenze di seconda classe»27.
Per collocazione mondiale [world-location] Spykman intende la
posizione di uno Stato «rispetto all’Equatore, alle masse continenta-
li e agli oceani», definita «in termini di latitudine, longitudine, alti-
tudine e distanza dal mare»28. Essa «condiziona e influenza tutti gli
altri fattori dal momento che determina la zona climatica e dunque
la struttura economica» degli Stati e, a catena, la loro produttività, il
potenziale demografico e la possibilità che il loro territorio diventi una
«zona di potere»29, ovvero la base di una grande potenza economica e
militare. «[L]’attività politica del mondo», osserva Spykman a propo-
sito della world-location, «è incentrata perlopiù nelle aree temperate»,
e dunque nell’emisfero settentrionale (perché in esso si concentra la
maggior parte delle terre emerse del globo, e perché le terre emerse
presenti nell’emisfero meridionale rientrano prevalentemente in zone
tropicali)30, e più precisamente nei suoi territori dotati di «accesso
diretto o indiretto al Nord Atlantico». Quest’ultimo spicca come la
principale arteria commerciale del mondo dato che, «a causa della
distribuzione delle catene montuose e del conseguente corso dei fiu-
mi, esso vanta la proporzione più favorevole tra superficie oceanica e
superficie continentale», per cui lungo le sue coste si è concentrata la
gran parte della popolazione, delle attività economiche e delle princi-
pali basi navali del mondo31.
La collocazione regionale viene definita invece in termini di «im-
mediate vicinanze» dello Stato e di posizione rispetto al territorio del-
le altre potenze32. Essa delimita l’orizzonte prioritario della politica

27
  Ivi, p. 30.
28
  Ivi, pp. 31 e 41.
29
  N.J. Spykman, The Geography of the Peace, cit., pp. 22 e 28.
30
  N.J. Spykman, Geography and Foreign Policy, I, cit., p. 41.
31
  Ivi, pp. 41-42.
32
  Ivi, p. 40; ma si veda anche N.J. Spykman, A. A. Rollins, Geographic Objectives in
Foreign Policy, II, in «American Political Science Review», 33 (1939), n. 4, pp. 591-614.

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estera e concorre a fissare la «mappa mentale» con cui il singolo Stato


guarda il mondo («Ogni Ministero degli Esteri, quale che sia l’atlan-
te che utilizza, opera mentalmente con una differente mappa men-
tale del mondo. Ciò significa che una data area del mondo avrà per
due Stati distanti tra loro un significato politico e strategico del tutto
differente»)33. È innanzitutto il contesto regionale che – a seconda
delle potenze che vi sono incluse e della distribuzione locale del po-
tere, da un lato, e delle sue caratteristiche topografiche e climatiche,
dall’altro – assume un peso decisivo nella definizione dei «nemici e
degli alleati potenziali»34. «La collocazione regionale determina se i vi-
cini saranno molti o pochi, forti o deboli, e la topografia della regione
condiziona la direzione e la natura dei contatti con quei vicini»35. Si
può solo accennare qui al fatto che, quanto a collocazione regionale,
Spykman distingue, per un verso, tra gli Stati «landlocked» (privi di
accesso al mare), quelli insulari e quelli «anfibi»36 (dotati sia di fron-
tiere terrestri che marittime), mostrando le diverse sfide e opportunità
politiche e strategiche che discendono da questi tipi di collocazione37
e, per l’altro verso, tra gli Stati situati tra potenze più forti di loro
(gli «Stati cuscinetto»), quelli collocati tra attori di eguale «magni-
tudine» (come gran parte delle grandi potenze nel moderno sistema
europeo degli Stati) e quelli inseriti tra potenze più deboli38, come gli
Stati Uniti nel Western Hemisphere. I quali hanno proprio per que-
sto potuto condurre a lungo la loro politica estera «senza attribuire
alcuna considerazione al problema della sicurezza», al punto che il
popolo americano non «riesce [neppure] a comprendere le preoc-
cupazioni degli Europei per la sicurezza e la politica di potenza»39.
Come detto, la topografia e le condizioni climatiche delle aree di
confine, determinando «se i contatti [con i vicini] avranno luogo in

33
  N. J. Spykman, Geography and Foreign Policy, I, cit., p. 43
34
  N.J. Spykman, The Geography of the Peace, cit., pp. 22- 23.
35
  N.J. Spykman, Geography and Foreign Policy, II, in «American Political Science
Review», 32 (1938), n. 2, pp. 213- 236; la citazione è a p. 213.
36
  Ivi, pp. 214-225.
37
  Ivi pp. 217-224.
38
  Ivi, p. 214.
39
  Ivi, p. 226.

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zone di esposizione o zone di protezione»40, sono l’importante varia-


bile interveniente tra la potenza militare dei Paesi confinanti e la sua
pericolosità e temibilità. Una frontiera che può essere agevolmen-
te attraversata da un esercito invasore perché sprovvista di barriere
naturali acuisce considerevolmente la vulnerabilità dello Stato. Né
può sorprendere pertanto che la ricognizione storica evidenzi che la
ricerca di «frontiere strategiche» – nel senso di confini agevolmente
difendibili, allo stato della tecnologia, poiché «appoggiati» su ostacoli
naturali (foreste, fiumi, paludi, catene montuose, altipiani o deserti)
– abbia fatto «parte della politica estera di quasi ogni Stato e in modo
così continuativo che nessun analisi della politica è completa senza
uno studio delle forme che tale ricerca ha assunto»41.

3.2. Potenziale e limiti della Geopolitica

La «scoperta» della rilevanza della dimensione geografica nelle relazio-


ni internazionali non deve però incorrere nell’errore – speculare a quel-
lo dell’oblio della geografia ma egualmente grave – del determinismo
geografico. Per Spykman, alla Geopolitica si può chiedere molto ma
non si deve chiedere troppo. Essa non potrà mai offrire l’intera spie-
gazione delle condotte degli Stati nell’arena internazionale. Nel lungo
articolo pubblicato (in due parti) sulla «American Political Science
Review» nel 1938 il politologo di Yale insiste sul potenziale esplica-
tivo ma anche sui limiti della Geopolitica, se correttamente intesa. Lì
Spykman, da un lato, respinge lo «strict geographical determinism» di
Friedrich Ratzel, padre della geografia umana e politica tedesca, senza
però aderire automaticamente, dall’altro lato, al possibilismo a cui è
pervenuta la scuola francese nella sua critica alla geografia di matrice
ratzeliana42.
«Il determinismo geografico che spiega ogni cosa, dalla quarta
sinfonia alla quarta dimensione, con la geografia – ironizza Spykman

40
  Ivi, p. 229.
41
  N.J. Spykman, A.A. Rollins, Geographic Objectives in Foreign Policy, I, in «Ameri-
can Political Science Review», 33 (1939), n. 3, pp. 391-410. La citazione è a p. 399.
42
  Sulle diverse tradizioni geopolitiche, G. Parker, Western Geopolitical Thought
in the Twentieth Century, London and Sydney, Croom Helm, 1985.

294 storia del pensiero politico 2/2013


Nicholas J. Spykman e la nascita del realismo politico americano

– dipinge un quadro tanto distorto quanto lo è una spiegazione della


politica priva di riferimenti alla geografia»43. La scuola tedesca era
persino scivolata, con la Geopolitik di Karl Haushofer, in una vera e
propria «metafisica che considera la geografia come causa ultima»44
e che mirava a giustificare, con la sua concettualizzazione dello Sta-
to come «organismo vivente che deve espandersi e diventar forte»,
il revisionismo della Germania dopo la Prima guerra mondiale:
«Haushofer – argomenta Spykman in The Geography of Peace – è
riuscito a dare una sacralità morale e mistica a un tipo particolare di
frontiere. L’espansione fino a quelle frontiere, formulata in termini di
risposta alla costrizione dello “spazio” concepito in termini magici o
in qualche altra forma, diviene un’azione in armonia con i propositi
divini. Quest’assurdità metafisica qui non troverà posto»45. Proprio
la demolizione del concetto di frontiera naturale – dell’idea che la
geografia «assegni» agli Stati i loro confini e li guidi inesorabilmente a
compiere il loro destino geografico – marca in effetti tutta la distanza
di Spykman dall’universo concettuale e metodologico della Geopo-
litik: «Una frontiera politica – osserva quest’ultimo in un saggio del
1939 scritto a quattro mani con Abbie A. Rollins – è per definizio-
ne una creazione dell’uomo, e pertanto una frontiera innaturale»46.
Frontiera naturale è solo il nome che gli uomini danno a un confine
desiderabile, ma che magari – proprio poiché promette di favorirli e
rafforzarli – appare indesiderabile a chi è chiamato, sul lato opposto,
a condividerlo:

[U]no studio dei mutamenti delle frontiere negli ultimi cinquemila anni
– scrive Spykman – deve condurre alla conclusione che la natura non è stata
molto chiara su dove l’uomo debba tracciare i suoi confini politici oppure
che l’uomo non le ha dato ascolto. L’abitudine molto umana di chiamare
naturale ciò che è desiderabile e di vedere come innaturale ciò che è indeside-
rabile caratterizza ancora molti studiosi di geografia politica. Inoltre, i profeti
che guidano i loro popoli nella ricerca della «frontiera naturale» sono inclini
a dimenticare che la maggior parte delle frontiere ha due lati, e che quanto

43
  N.J. Spykman, Geography and Foreign Policy, I, cit., p. 30.
44
  Ibidem.
45
  N.J. Spykman, The Geography of Peace, cit., p. 7.
46
  N.J. Spykman, A.A. Rollins, Geographic Objectives in Foreign Policy, I, cit., a
p. 396. Il corsivo è mio.

storia del pensiero politico 2/2013 295


Corrado Stefanachi

più naturale una frontiera appare da un lato tanto più innaturale essa appare,
molto probabilmente, dall’altro47.

È indicativo della consapevolezza di Spykman dei limiti della spie-


gazione geografica il fatto che egli diffidasse del concetto stesso di
causa geografica, che considerava fuorviante con la sua allusione all’e-
sistenza di un legame esclusivo e deterministico tra fenomeno politico
e dato geografico, e che preferisse perciò parlare di condizionamento
geografico: «Va sottolineato [...] che la geografia è stata descritta [in
questo articolo] come un fattore condizionante piuttosto che deter-
minante. Le parole sono state scelte a ragion veduta. Esse vogliono
evitare l’implicazione che le caratteristiche geografiche giochino un
ruolo causale, deterministico, nella politica estera»48.
In questa direzione Spykman poteva condividere buona parte
delle critiche rivolte dalla scuola geografica francese, fedele alla le-
zione di Vidal de la Blache49, alla Geopolitica tedesca, anche se rite-
neva che Lucien Febvre, il critico più severo delle teorie ratzeliane,
si fosse spinto troppo in là. Costui aveva giustamente enfatizzato la
capacità dell’uomo di intervenire sull’ambiente con la propria attività
e ingegnosità, e aveva opportunamente ammonito che «la natura che
agisce sull’uomo, la natura che interviene a condizionare l’esistenza
delle società umane, non è una natura vergine, indipendente da ogni
contatto; ma una natura su cui l’uomo ha già profondamente agito,
modificandola e trasformandola»50. Tra la natura e l’uomo, tra i bi-
sogni naturali che legano l’uomo all’ambiente e il modo in cui essi
vengono soddisfatti, aveva inoltre sottolineato Febvre, «si interpone
sempre l’idea»51, cioè la cultura (credenze, sistemi di valore, abitudini,
gusti) che, irriducibile al dato geografico, può indirizzare in un verso
o nell’altro le risposte delle società umane alle sfide e opportunità am-
bientali. «Necessità – scriveva Febvre – da nessuna parte. Possibilità,

47
  Ivi, p. 399.
48
  N.J. Spykman, Geography and Foreign Policy, I, cit., p. 30.
49
  G. Parker, Ratzel, the French School and the Birth of Alternative Geopolitics, in
«Political Geography», 19 (2000), n. 8, pp. 957-969.
50
 L. Febvre, La terra e l’evoluzione umana. Introduzione geografica alla storia
(1922), Torino, Einaudi, 1980, pp. 421-22.
51
  Ivi, p. 194.

296 storia del pensiero politico 2/2013


Nicholas J. Spykman e la nascita del realismo politico americano

dappertutto»52: e «il solo, il vero problema geografico è quello dell’u-


so delle possibilità»53. Possibilismo, appunto – che però rischia di sot-
tovalutare, secondo Spykman, la forza relativa del condizionamento
geografico: «È forse tra quest’ultima asserzione [il possibilismo] e il
determinismo di Ratzel – puntualizza il politologo olandese – che noi
tracceremmo la nostra strada. La geografia non determina, ma condi-
ziona; essa non offre soltanto possibilità, esige che vengano usate»54.
Non costringe gli attori sociali a un certo corso d’azione ma lo stati-
sta che trascuri il contesto geografico lo fa a suo rischio e pericolo e,
nell’anarchia internazionale, come detto, i pericoli ai quali espone il
proprio Stato possono essere particolarmente gravi.
Va però ribadito: Spykman è chiarissimo e inequivocabile nell’af-
fermare che la geografia non è mai l’intera spiegazione della politica
estera, e che quest’ultima è sempre la risultante di una molteplicità di
«cause» e fattori distribuiti, come direbbero oggi i politologi inter-
nazionalisti, su una pluralità di livelli d’analisi: «Sfortunatamente per
lo scienziato politico con la passione per la semplificazione – scrive
Spykman – ma fortunatamente per lo statista che si sforza di superare
gli svantaggi geografici del suo Paese, né l’intera politica estera di un
Paese né una qualsiasi parte di tale politica risiede interamente nella
geografia»55:

I fattori che condizionano la politica degli Stati – egli prosegue – sono


molteplici; essi sono permanenti e temporanei; palesi e nascosti; essi includo-
no, a parte il fattore geografico, la densità demografica, la struttura economi-
ca del Paese, la composizione etnica della popolazione, la forma di governo
e le idiosincrasie e predilezioni dei ministri degli esteri, ed è la loro azione
simultanea e interazione che crea il fenomeno complesso noto come «politica
estera»56.

Come mostra peraltro la discussione di Spykman sulla politica


delle frontiere degli Stati, le scelte di politica estera sono «un compro-

52
  Ivi, p. 277.
53
  Ivi, p. 408.
54
  N.J. Spykman, Geography and Foreign Policy, I, cit., p. 30.
55
  Ivi, p. 28
56
  Ibidem.

storia del pensiero politico 2/2013 297


Corrado Stefanachi

messo tra varie istanze confliggenti»57 (di ordine politico e strategico


ma anche economico o culturale), ognuna con le sue diverse esigenze
e preferenze geografiche, ognuna sensibile a una differente griglia di
vincoli e opportunità. Il che consegna la politica estera (a seconda del
peso relativo dei diversi interessi che in essa vengono messi a sintesi) a
una pluralità di esiti possibili. Nel caso della politica delle frontiere, se
le esigenze puramente militari di difesa del territorio raccomandano
di «incastonare» quest’ultimo tra barriere naturali impenetrabili, la
costruzione di una «fortezza naturale» può pregiudicare la crescita
socio-economica del Paese, escludendolo dai circuiti commerciali,
mentre considerazioni etno-nazionali possono rendere inaccettabile
un confine che, magari ideale sul piano strategico o commerciale, lasci
fuori dal territorio statale una parte della comunità nazionale.
Affrontando in particolare il tema della collocazione geografica
degli Stati, Spykman insiste inoltre sull’importante distinzione tra il
puro fatto geografico, costante nel tempo, e il significato che esso assu-
me per gli attori, che è soggetto a mutamento e al cui mutare cambia
il verso e l’intensità del vincolo che la geografia esercita sulla politica
estera58. Da un lato, quel significato dipende dalla storia che il singolo
Paese ha alle sue spalle, e che non può essere ridotta alla sua geografia:
«Bisognerebbe sempre ricordare – si raccomanda Spykman – che il
significato di una data collocazione è sia un fattore nella politica este-
ra di uno specifico Stato che il risultato della storia passata di quello
stesso Stato. La posizione sul Nord Atlantico è un fattore nella politi-
ca estera degli Stati Uniti» ma «è lo sviluppo degli Stati Uniti che dà
conto del significato attuale dell’Atlantico»59. Ciò implica, aggiungia-
mo, che Stati dalla simile collocazione geografica rispondono a essa
in modo dissimile se la loro diversa storia annette a essa significati
differenti.
Dall’altro lato, il significato della collocazione – e la batteria di
condizionamenti e opportunità che quest’ultima consegna alla politi-
ca estera – tende a modificarsi nel tempo sulla scia di trasformazioni e
innovazioni generate dall’attività umana come l’apertura di nuove li-

57
  N.J. Spykman, A.A. Rollins, Geographic Objectives in Foreign Policy, I, cit., p. 398.
58
  N.J. Spykman, Geography and Foreign Policy, I, cit., p. 40.
59
  Ivi, p. 43.

298 storia del pensiero politico 2/2013


Nicholas J. Spykman e la nascita del realismo politico americano

nee di comunicazione, il potenziamento dei mezzi di trasporto, il mu-


tamento delle «tecniche di guerra» o, su un diverso piano temporale,
la traslazione dei principali centri di irradiazione culturale e politica
del sistema internazionale60. Per esempio, il significato della colloca-
zione mondiale [world-location] di Venezia nell’Alto Adriatico mutò
radicalmente quando fu aperta la rotta marittima per l’India (e poi a
seguito della scoperta dell’America)61, mentre le nuove comunicazioni
aeree hanno regalato un inedito valore logistico a posizioni geografi-
che precedentemente insignificanti, collocate nel «deserto» artico o
sperdute nell’oceano Pacifico, ma ora adatte a ospitare scali e punti di
appoggio per l’aviazione62. Ancora, lo spostamento del centro cultura-
le e politico dell’Europa, attorno al 1500, dal bacino del Mediterraneo
all’Europa occidentale proiettò l’Olanda «in una posizione di straor-
dinaria importanza politica e commerciale per la quale essa non aveva
meriti, così come non aveva colpe per il suo precedente isolamento»63.
È soprattutto la tecnologia – e quella militare in particolare – a
dare un enorme impulso alla ridefinizione del significato dei fatti ge-
ografici64. Una barriera naturale che, in passato, ha magari assolto
egregiamente alla funzione di «scudo» difensivo del territorio statale
può perdere rapidamente gran parte della sua efficacia «isolante» (o
anche perderla del tutto) in seguito ai progressi nel campo dei tra-
sporti e delle comunicazioni. Evidentemente, se una catena montuosa
o una palude possono aiutare a sbarrare il passo a un esercito inva-
sore, esse non sono di alcun aiuto quando si tratta di fermare una
flotta di bombardieri in volo. Sennonché proprio le conseguenze – di
enorme portata – dell’avvento del potere aereo aiutano Spykman a
mostrare come la tecnologia, se può ristrutturare e anche rivoluzio-
nare il sistema dei vincoli geografici che limita e condiziona gli Stati,
non può però sottrarre gli attori statali all’ambiente geografico né può
renderne in-significante il condizionamento. Tanto per cominciare,
afferma Spykman, le guerre non possono essere combattute e vinte
60
  Ivi, p. 40.
61
  Ivi, p. 46.
62
  Ivi, p. 48.
63
  Ivi, p. 44.
64
  Ivi, p. 49.

storia del pensiero politico 2/2013 299


Corrado Stefanachi

con la sola aviazione – senza il contributo delle armate e delle flotte


che continuano a operare sulla superficie terrestre65. L’aviazione, utile
nelle operazioni di combattimento ma di modesta utilità come mezzo
di trasporto degli equipaggiamenti militari, offre inoltre un aiuto tra-
scurabile alla soluzione del «problema più essenziale della guerra»66
moderna, cioè la logistica. Infine, proprio la creazione di un’aviazione
militare introduce un ventaglio di nuovi vincoli e condizionamenti di
ordine geografico:

L’uccello d’argento che spicca il volo nel cielo azzurro – obietta Spykman
– può essere il simbolo della libertà, della conquista dello spazio; può sug-
gerire che l’uomo non è più vincolato alla terra; ma tutto ciò, per quanto
poeticamente bello, non è la realtà. L’aeroplano che manifesta il nostro pote-
re aereo è legato da lacci invisibili alle sue basi operative e, al di là di quelle
basi, alle torri di trivellazione nei campi petroliferi in Texas, alle montagne di
cemento delle nostre centrali elettriche; ai depositi di bauxite lungo i fiumi
fangosi della Guiana. La libertà di questi uccelli che spiccano il volo è ingan-
nevole. Essi possono decollare perché la benzina, i lubrificanti e le munizioni
sono stati trasportati a bordo dei camion dai depositi ferroviari, dai porti e
dai magazzini. Il potere aereo americano in Europa e Asia diviene tale alla
fine di una linea di comunicazione marittima alimentata da navi e treni e l’ar-
ma tedesca più efficace contro la nostra aviazione non è il rapido Messersch-
mitt o il potente Junkers ma il lento sottomarino che affonda le nostre navi
da trasporto lungo le loro rotte dai porti del Golfo [del Messico] ai distanti
campi di battaglia67.

È vero: innovazioni tecnologiche come la motorizzazione e


meccanizzazione delle armate o, a maggior ragione, l’aeroplano han-
no ridotto considerevolmente la rilevanza strategica della topografia.
Sennonché, proprio per questo, esse hanno elevato la pura distanza
nonché la grandezza del territorio statale al ruolo di cruciali risor-
se o presupposti geografici della sicurezza nazionale68. Se, osserva
Spykman, nella guerra corazzata si impone la difesa in profondità del
territorio, a condizione ovviamente di disporre di una profondità ter-

65
  N.J. Spykman, The Geography of the Peace, cit., p. 46.
66
  Ivi, p. 47.
67
  Ivi, p. 47.
68
 N.J. Spykman, Frontiers, Security, cit. p. 441; cfr. anche Id., Geography and
Foreign Policy, I, cit., p. 32.

300 storia del pensiero politico 2/2013


Nicholas J. Spykman e la nascita del realismo politico americano

ritoriale69, la distanza geografica, se superiore al raggio operativo della


flotta aerea nemica, è l’efficace antidoto ai bombardamenti dall’aria.
Senza aggiungere che un territorio molto esteso permette di disperde-
re nello spazio geografico gli aeroporti e i «nidi» della propria avia-
zione, complicando all’avversario la conquista del dominio dell’aria
ed esponendone il territorio alla minaccia di una rappresaglia aerea
(fondamento, per inciso, della deterrenza). Un’ampia superficie terri-
toriale, osserva infine Spykman, consente di sparpagliare nello spazio
geografico anche gli impianti e le strutture industriali di valore strate-
gico sui quali tenderà a concentrarsi la campagna aerea nemica.
Vale la pena notare come Spykman intravedesse qui le ragioni
della persistente importanza dei fattori geografici persino in epoca
nucleare, contraddicendo coloro i quali riterranno di vedere proprio
nell’avvento del binomio potere aereo/potere atomico la ragione
dell’irrilevanza della Geopolitica. In effetti l’assenza di profondità ter-
ritoriale dell’Europa occidentale fu tra i fattori che spinsero l’Alleanza
atlantica, timorosa di non poter apprestare efficaci difese convenzio-
nali in caso di invasione sovietica, a ricorrere alla deterrenza nucleare.
Quanto a quest’ultima, la dispersione nel territorio (poi in mare) degli
arsenali «strategici» delle Superpotenze diede a entrambe la capaci-
tà di eseguire una rappresaglia massiccia che fu alla base della Mu-
tual Assured Destruction e del regime di reciproca dissuasione70. Un
mondo dominato da poche Superpotenze di «taglia» territoriale con-
tinentale era del resto ciò che nel 1938 Spykman vedeva chiaramente
all’orizzonte: «È difficile sfuggire alla conclusione che la dimensione
[territoriale] significhi forza potenziale, e che, con la diffusione della
tecnologia occidentale, grandi dimensioni più tempo e volontà di po-
tenza significheranno quasi inevitabilmente forza attuale. A meno che
i sogni di una Confederazione europea non si realizzino, potrà ben
accadere che tra cinquant’anni Cina, India, Stati Uniti e Urss forme-
ranno il quadrumvirato delle potenze mondiali»71.

69
  Ibidem.
70
 C. Gray, The Geopolitics of the Nuclear Era: Heartland, Rimlands, and the
Technological Revolution, New York, Crane, Russak & Company, Inc., 1977, p. 2.
71
  N.J. Spykman, Geography and Foreign Policy, I, cit., p. 39.

storia del pensiero politico 2/2013 301


Corrado Stefanachi

4. Geopolitica del mutamento e le nuove sfide alla sicurezza


americana.

4.1. Mackinder, Spykman e la formazione del sistema internazionale


globale

Emerge dalla «profezia» di Spykman sull’ascesa delle Superpotenze


continentali una delle ragioni del fascino della Geopolitica della prima
metà del Novecento. Nello stesso momento in cui sollecitava le Rela-
zioni Internazionali a soffermarsi sugli elementi della vita internaziona-
le meno permeabili al mutamento – appunto i fattori geografici come la
topografia, il clima, la distribuzione dei continenti e degli oceani – essa
sgorgava da una nitida percezione delle formidabili trasformazioni in
corso nel sistema internazionale, e anzi del carattere drammaticamente
inedito della politica internazionale del Ventesimo secolo.
Significativamente, la celebre conferenza di Mackinder del 1904,
The Geographical Pivot of History, vero e proprio atto di fondazione
della Geopolitica inglese – nel cui solco si è collocata la prestazione
teorica dello Spykman geopolitico – è innanzitutto una rassegna delle
ragioni di discontinuità della politica internazionale all’alba del No-
vecento. Per la prima volta, annotava Mackinder, il mondo era intera-
mente esplorato, conosciuto, «mappato» e afferrato nella sua unità e
coerenza interna, a chiudere l’epoca «colombiana» delle esplorazioni
e delle scoperte geografiche72. Per la prima volta il mondo intero era
un luogo «saturo», chiuso, ovvero privo di una frontiera aperta o di
uno spazio «vuoto» (nel senso di agevolmente appropriabile e dispo-
nibile) in cui fosse possibile riversare la sovrabbondanza di energie,
«appetiti» e ambizioni dei principali attori e potenze dell’arena in-
ternazionale. Proprio a causa di questa chiusura e «saturazione» esso
diventava, ormai privo di valvole di sfogo, un luogo estremamente
pericoloso, il teatro di urti e contraccolpi che avrebbero finito per
travolgere gli attori meno solidi e potenti: «C’è una grande differenza
di effetti – è l’efficace analogia alla quale ricorre Mackinder – tra la
caduta di una granata in un terrapieno e la sua caduta in uno spazio

 H.J. Mackinder, The Geographical Pivot of History, in «The Geographical


72

Journal», 23 (1094), n. 4, pp. 421-444.

302 storia del pensiero politico 2/2013


Nicholas J. Spykman e la nascita del realismo politico americano

chiuso e nelle strutture rigide di un grande edificio o di una nave», per


cui nel nuovo sistema globale chiuso e interconnesso «ogni esplosione
di forze sociali, invece di essere dissipata in un cerchio circostante di
spazi ignoti e caos barbarico, rimbalzerà improvvisamente dalle peri-
ferie del mondo, e gli elementi più deboli nell’organismo politico ed
economico saranno di conseguenza frantumati»73. Per la prima volta
il mondo intero era insomma legato in una capillare interdipendenza
dell’insicurezza e dell’instabilità, in cui fatti e fenomeni apparente-
mente locali avrebbero generato conseguenze di grande momento al
livello globale.
Ancora, per la prima volta, complice la tecnologia (sottospecie
della ferrovia transiberiana), diventava possibile unificare sotto il con-
trollo di un unico e moderno potere statuale (e non sotto l’effimero
potere imperiale delle popolazioni nomadi che vi avevano scorrazzato
fin dalla notte dei tempi) il cuore continentale (heartland) di Eurasia
– smisurato continente da concepire a sua volta come un unico scac-
chiere geopolitico di cui l’Europa era una semplice appendice penin-
sulare74. Per la prima volta, sfruttando le immense risorse naturali non-
ché la posizione centrale dell’heartland medesimo (e il vantaggio delle
linee interne di comunicazione), la potenza lì insediata avrebbe po-
tuto irradiare la propria influenza politica verso la «mezzaluna» delle
regioni costiere (inner or marginal crescent) che si allunga dall’Europa
occidentale fino all’Asia orientale, e chiudere infine l’intera Eurasia
dentro un unico perimetro egemonico. Ma allora per la prima volta
era plausibile lo scenario della formazione di un impero mondiale.
Senza infatti più frontiere continentali da difendere e presidiare, senza
dover più dividere le proprie risorse militare tra terra e mare, il colos-
so eurasiatico avrebbe potuto sviluppare una forza navale in grado
di strappare il dominio dei mari alle potenze insulari collocate nella
«Mezzaluna esterna» (outer or insular crescent) di Eurasia (Inghilterra,
Giappone, Stati Uniti, Australia). La politica internazionale sarebbe
stata una competizione globale tra «isole» in cui si sarebbe imposta

73
  Ivi, p. 422.
74
  Ivi, p. 431.

storia del pensiero politico 2/2013 303


Corrado Stefanachi

alla fine quella dotata della base territoriale più grande, appunto l’im-
pero eurasiatico75.
Questa era l’inedita sfida che l’Impero britannico doveva rico-
noscere quanto prima, e in vista della quale doveva ridefinire la sua
politica e strategia globale; ed essa si rivelava all’occhio addestrato
del geografo, a dimostrazione del fatto che la politica internazionale
necessitava ora più che mai di una chiave di lettura geografica per
cogliere il complesso intreccio di continuità e discontinuità. Da un
lato, la logica di funzionamento del sistema internazionale restava in
misura cospicua inscritta nel dato geografico (l’abbondanza di risor-
se naturali o la centralità dell’heartland, ad esempio, erano altrettanti
elementi geografici che decretavano la temibilità dell’unificazione del
cuore di Eurasia); sennonché quelle «eterne» strutture geografiche
stavano in un rapporto dinamico con la tecnologia e, più in genera-
le, con l’attività organizzata dell’uomo, che ne alterava il significato
politico (era, per esempio, l’insediamento di uno Stato moderno, la
Russia, al posto dei fragili imperi del lontano passato, a dare un nuovo
significato all’unificazione dell’heartland; ed era la costruzione delle
ferrovie che, conferendo un inedito vantaggio alla mobilità terrestre
su quella marittima, generava nuove opportunità di integrazione ed
espansione continentale).
Accusata dai loro (spesso frettolosi) critici di essere nata ana-
cronistica, di ostinarsi a dar peso e rilievo a fattori che gli sviluppi
tecnologici, culturali e sociali della globalizzazione avrebbero reso
presto trascurabili, la Geopolitica mackinderiana (ma invero tutte le
geopolitiche del Novecento, pur così diverse tra loro) era impegnata
invece a tracciare la nuova mappa delle sfide e delle opportunità in
un’arena internazionale resa irriconoscibile dalla ridefinizione, sotto
la spinta innanzitutto della tecnologia, del rapporto tra gli Stati e il
loro ambiente geografico76. Più in particolare, la Geopolitica è stata
uno dei «luoghi» teorici in cui è stata precocemente colta e tematizza-

75
  Ivi, p. 443; cfr. anche H.J. Mackinder, Democratic Ideals and Reality. A Study
in the Politics of Reconstruction, London, Constable and Company, 1919, pp. 91-92.
76
  S. Kern, Il tempo e lo spazio. La percezione del mondo tra Otto e Novecento, Il
Mulino, Bologna, 1995.

304 storia del pensiero politico 2/2013


Nicholas J. Spykman e la nascita del realismo politico americano

ta la globalizzazione della politica (e dell’economia) internazionale77.


Il suo originale contributo è stato quello di definire la globalizzazione
in termini di riconfigurazione dei vincoli e condizionamenti geografici
che gravano sulle relazioni internazionali, anziché in termini di irrile-
vanza della geografia. Ed è questa la cornice in cui va inserita anche la
Geopolitica di Spykman.
Senza riprendere pedissequamente tutti gli elementi del discorso
di Mackinder, anzi dissentendo su alcuni punti specifici, il politologo
di Yale ne adottò tuttavia la problematica: la riflessione sulla riartico-
lazione in atto del sistema internazionale e sulla sua trasformazione
in un’inedita arena globale e interconnessa nella quale la landmass
eurasiatica emergeva come il cruciale scacchiere geopolitico in cui si
sarebbero decisi i destini del mondo:

L’intera superficie della Terra – osserva Spykman in una vena inconfon-


dibilmente mackinderiana – è diventata oggi un unico campo da gioco per
le forze politiche. Il mondo intero è ora noto sul piano geografico e i muta-
menti nell’organizzazione delle forze in una regione deve aver ripercussioni
sull’allineamento delle forze nelle altre. [...] La situazione di potenza in un
continente si riflette inevitabilmente nella distribuzione del potere in un al-
tro, e la politica estera di qualsiasi Stato può essere condizionata dagli eventi
che hanno luogo in qualsiasi parte del mondo78.

Mackinder aveva il merito di aver colto tale realtà geopolitica e


di averle dato un’adeguata rappresentazione cartografica, adottando
«una mappa centrata sulla Siberia come strumento fondamentale della
sua analisi e [trattando] l’Europa – precisava Spykman – non in quan-
to centro del mondo, ma come una delle molte penisole della massa
continentale eurasiatica»79. Spykman riconosceva inoltre il valore della
scomposizione mackinderiana di Eurasia negli spazi geopoliticamente
differenti ma interdipendenti dell’heartland e dell’inner/marginal cre-
scent, la fascia «anfibia» affacciata sui mari marginali e i «mediterra-

77
  S.B. Jones, Global Strategic Views, in «Geographical Review», 45, 4, October
1955, pp. 492-508.
78
  N.J. Spykman, The Geography of Peace, cit., p. 35.
79
  Ibidem.

storia del pensiero politico 2/2013 305


Corrado Stefanachi

nei» che avvolgono Eurasia e ribattezzata da Spykman rimland, l’inin-


terrotto «orlo» costiero della landmass eurasiatica80.
Spykman riteneva che Mackinder avesse però esagerato il poten-
ziale politico dell’heartland. La limitata produttività agricola e indu-
striale della Siberia e la persistente difficoltà (nonostante la ferrovia)
nella proiezione della forza militare dalla roccaforte dell’heartland alle
periferie costiere attenuavano il pericolo di un accentramento del con-
tinente a partire dai suoi territori interiori. Né la Russia (la minaccia
che allarmava maggiormente Mackinder nel 1904) avrebbe sempre be-
neficiato del vantaggio delle linee comunicazione interne – esso sareb-
be andato perduto, per esempio, nel caso di un conflitto con un India
indipendente, capace di generare autonomamente (cioè di ricavare
dal proprio territorio) la sua forza militare, invece di essere riforni-
ta da Londra lungo le estese comunicazioni marittime. Per Spykman
era semmai proprio la fascia costiera eurasiatica ad avere un peso pro-
duttivo e demografico tanto ingente da spostare – a seconda che esso
restasse frammentato tra una pluralità di potenze sovrane o venisse
aggregato nelle mani di un unico attore (o di un’alleanza di grandi po-
tenze) – la «bilancia» del mondo dallo stato di equilibrio alla condizio-
ne di egemonia globale: «Se ci dev’essere uno slogan per la politica di
potenza del Vecchio Mondo – riassumeva Spykman – dev’essere che
“Chi controlla il Rimland domina Eurasia; chi domina Eurasia control-
la i destini del mondo”»81.
La politica di balance of power nel sistema globale si profilava per-
tanto come una competizione per l’organizzazione del rimland e la
ripartizione del suo formidabile potenziale produttivo e demografico.
Esso si delineava come il vero centro di gravitazione della power poli-
tics globale alla quale nessuno poteva ritenersi indifferente, neppure
gli Stati Uniti. Impedire l’aggregazione del rimland in un unico polo
di potenza (nella forma del dominio egemonico di una potenza o di
un’alleanza tra grandi potenze) era l’esatto contenuto geopolitico del-
la politica di balance of power riconfigurata su scala mondiale. Nella
Seconda guerra mondiale l’assetto pluralistico del rimland era stato
messo a repentaglio dall’espansionismo della Germania e del Giappo-

80
  Ivi, pp. 40-41.
81
  Ivi, p. 41.

306 storia del pensiero politico 2/2013


Nicholas J. Spykman e la nascita del realismo politico americano

ne, e l’Urss – invece di essere una minaccia per il rimland – era stata il
prezioso partner della coalizione tra le potenze anfibie e insulari che
si era opposta a quel tentativo imperiale82. D’altra parte, come scrive
il politologo Colin Gray, le divergenze sul potere relativo di heartland
e rimland (o su altri aspetti specifici) non devono oscurare la robusta
continuità nell’impostazione generale del ragionamento geopolitico di
Mackinder e Spykman: «le ovvie differenze tra Mackinder e Spykman
– osserva Gray – non significano molto. Che la forza di Eurasia risieda
più nell’heartland o rimland non è questione da risolvere con la logica
ma semmai empiricamente, poiché la risposta varierà da periodo a pe-
riodo. [...] Mackinder e Spykman, nonostante le differenze, offrivano
essenzialmente la stessa analisi, e la stessa prescrizione, circa la princi-
pale minaccia alla civiltà occidentale. Entrambi indicavano il pericolo
che avrebbe posto una potenza o una coalizione che fosse riuscita a
dominare la massa continentale eurasiatica»83.

4.2. «Mappe mentali». Dalla periferia al centro del mondo

Contribuendo a far circolare negli Stati Uniti l’apparato concettuale di


Mackinder, la sua rappresentazione cartografica del mondo e la sua ri-
formulazione geopolitica del problema del balance of power, Spykman
diede infine un contributo alla ridefinizione della «mappa mentale»
americana – alla riconsiderazione negli Stati Uniti del significato della
posizione da essi occupata nel mondo e alla formazione di un nuovo
consenso circa le sfide generate da quella «rivoluzione geopolitica». Il
messaggio veicolato dalla Geopolitica di Spykman era che, nell’arena
internazionale globale, gli Stati Uniti cessavano di essere la remota
periferia del sistema internazionale, al riparo dalle turbolenze che si
generavano in Eurasia e perciò esonerati dalle fatiche di un’attiva e
continuativa partecipazione alla politica del Vecchio Continente. L’e-
ventuale egemonia su entrambi i lati del rimland eurasiatico – Euro-
pa e Asia orientale – da parte di un’alleanza di potenze continentali

82
  Ivi, p. 43.
83
  C. Gray, In Defense of the Heartland: Sir Halford Mackinder and His Critics a
Hundred Years On, in «Comparative Strategy», 23 (2004), 1, pp. 9-25. La citazione
è a pp. 20-21.

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Corrado Stefanachi

avrebbe proiettato gli Stati Uniti in un’allarmante posizione centrale,


esponendoli alla pressione concentrica esercitata dall’emisfero orien-
tale: «Nel quadro dell’analisi geopolitica – ammoniva Spykman – gli
Stati Uniti vanno visti come geograficamente accerchiati»84. Questa
traslazione «dalla periferia al centro»85 dell’arena internazionale era
la pericolosa realtà geopolitica che gli Americani dovevano assoluta-
mente riconoscere, e il definitivo passaggio dall’isolazionsimo all’in-
ternazionalismo era il doveroso cambiamento che essa imponeva alla
loro politica estera. Se Germania e Giappone avessero dominato Eu-
rasia, scriveva Spykman verso la fine della Seconda guerra mondiale,
gli Stati Uniti si sarebbero trovati ad affrontare «il potere aggregato
dell’intera massa continentale eurasiatica. La forza dei poli di potenza
dell’emisfero orientale sarebbe stata schiacciante. Sarebbe stato im-
possibile per noi conservare l’indipendenza e la sicurezza»86.
Spykman non prendeva sul serio lo scenario di una invasione, nel
breve periodo, del territorio americano dalle posizioni in Eurasia: trop-
po grandi le difficoltà logistiche ed operative di una tale impresa per
preoccuparsene. I suoi timori si riferivano semmai al lungo periodo, e
si fondavano su considerazioni di ordine geostrategico e soprattutto
geoeconomico. Padrone di Eurasia, Berlino e Tokyo avrebbero potuto
imporre un embargo globale sulle materie prime «strategiche», quelle
cioè da cui dipendeva l’industria bellica americana e che gli Stati Uniti
erano costretti almeno in parte a importare, né sarebbe stato possibile
per Washington ovviare alla perdita degli approvvigionamenti da Eu-
ropa e Asia con l’aumento delle importazioni dall’emisfero occidenta-
le. Se infatti, da un lato, i Paesi dell’America Latina, con le loro eco-
nomie quasi esclusivamente agricole e estrattive, e straordinariamente
dipendenti dalle esportazioni, possedevano le materie prime «strategi-
che» di cui necessitavano gli Stati Uniti, essi erano troppo interessati,
dall’altro lato, a mantenere i propri mercati d’esportazione in Eurasia
per rischiare di guastare, aiutando gli Stati Uniti, le relazioni (special-

84
  N.J. Spykman, The Geography of Peace, cit. p. 58.
85
  A.K. Henrikson, America’s Changing Place in the World: From “Periphery” to
“Centre”?, in J. Gottmann (ed.), Center and Periphery: Spatial Variation in Politics,
Beverly Hills, Sage Publications, 1980, pp. 73-100.
86
  N.J. Spykman, The Geography of Peace, cit. p. 34.

308 storia del pensiero politico 2/2013


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mente) con la Germania. La sgradevole realtà era che le economie del


Nord e Sud America non erano fatte per integrarsi e armonizzarsi;
anche gli Stati Uniti erano un grande produttore agricolo e minerario,
per cui il mercato nord-americano non avrebbe potuto assorbire la
produzione in eccesso dei Paesi sudamericani eventualmente esclusa
dai mercati eurasiatici – l’ovvio presupposto perché essi accettassero
di recidere i loro legami commerciali con Eurasia. Sul piano politico,
inoltre, le rivalità intraregionali e l’insofferenza delle potenze minori
(soprattutto l’Argentina) nei confronti della preponderanza regionale
di Washington complicavano ulteriormente la formazione di un fronte
comune contro l’emisfero orientale. Infine, non andavano sottovaluta-
te le difficoltà logistiche e operative della difesa del cono meridionale
del Sud America (da capo San Rocco fino alla Patagonia), cioè dell’a-
rea più importante sul piano economico del continente, da un’aggres-
sione transoceanica. Spykman sottolineava l’equidistanza del versante
atlantico del cono Sud dal Nord America e dall’Europa87, il che si-
gnificava che gli Stati Uniti non avrebbero più potuto contare, nel
proteggere quell’area dalla Germania, sul vantaggio della maggiore
prossimità al teatro delle operazioni rispetto all’avversario. Dal punto
di vista militare, gli Stati Uniti sarebbero riusciti a montare una difesa
efficace del «Mediterraneo americano» (Golfo del Messico, Mar dei
Caraibi) e della South American Buffer Zone (il settore settentrionale
dell’America Latina protetto dall’impenetrabile foresta amazzonica):
ma non del Cile né della cruciale South American Equidistant Zone88.
Era dunque fallace confidare che gli Stati Uniti sarebbero stati in
grado di resistere nel lungo periodo alla pressione economica, psico-
logica e strategica di un’Eurasia unificata; e se, quando The Geography
of the Peace fu pubblicata, era già chiaro che gli Stati Uniti avrebbero
vinto la guerra in corso, bisognava evitare di ripetere l’errore commes-
so all’indomani della Prima guerra mondiale, quando a Washington
ci si illuse di poter tornare all’isolazionismo. Gli Stati Uniti doveva-
no abituarsi a concepire se stessi come il «successore funzionale»89
dell’Inghilterra, ma ora nel teatro allargato di Eurasia, ossia come

87
  N.J. Spykman, America’s Strategy, cit., p. 407; cfr. anche pp. 434 -445.
88
  Ivi, pp. 406-407 e pp. 434-437.
89
  Mutuo il termine da C. Gray, The Geopolitics, cit., p. 29.

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i garanti degli equilibri continentali. A tal fine essi avrebbero fatto


bene a cooptare il Seapower britannico ma anche a reclutare dei part-
ner continentali – magari prolungando la cooperazione con Mosca
in chiave anti-germanica, ma «a patto che essa stessa non [cercasse]
di instaurare un’egemonia sul rimland europeo»90. «Uno Stato russo
dagli Urali al Mar del Nord – osservava Spykman – non può essere
un gran miglioramento rispetto a uno Stato tedesco dal Mar del Nord
agli Urali»: era il presagio della Guerra fredda91.

90
  Ivi, p. 57.
91
  M.P. Leffler, The American Conception of National Security and the Beginnings
of the Cold War, 1945-48, in «American Historical Review», 89 (1984), in particolare
p. 356.

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