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L’arte di litigare bene

Ma chi l’ha detto che i conflitti sono negativi? I dissidi, oltre che inevitabili,
rappresentano infatti una preziosa occasione di miglioramento personale. Purché
vengano gestiti in modo costruttivo.

di Sabina Fadel, Alberto Friso, Fulvio Scaparro

«Oddio, anche stamattina sono in ritardo» pensi catapultandoti giù per le scale
di casa, mentre vai al lavoro, prendendotela con i figli che, come al solito,
hanno piantato la loro quotidiana razione di grane mattutine. «Eh no… ci
mancava anche questa!» commenti ad alta voce mentre osservi sconsolata la
tua macchina bloccata dal solito rompiscatole che ha parcheggiato male. Dopo
un bel po’ di manovre riesci finalmente a partire, ma, al primo semaforo, ti
attacchi furiosa al clacson, perché il conducente del veicolo che ti precede non
parte a razzo allo scattare del verde. Arrivi al lavoro: un quarto d’ora per
cercare parcheggio (altri improperi impronunciabili, che ti eri ripromessa di
evitare). Sali le scale e, nell’ordine, te la prendi con: il collega che non ti ha
salutato, l’altro collega che cerca di fare conversazione mentre tu sei sulle
spine pensando che dovresti essere già da un pezzo dietro la scrivania, la
segretaria del capo che ti raggela dicendoti che “lui” è mezz’ora che ti cerca…

Quella appena descritta potrebbe essere la cronaca di una normale mattina.


Anzi, delle prime due ore di una normale mattina. Se fossimo andati avanti con
il racconto, probabilmente avremmo visto che le occasioni che creano qualche
disagio nel rapporto con gli altri sono innumerevoli. Questi piccoli dissapori
altro non sono che «conflitti», vale a dire situazioni nelle quali si creano motivi
di dissidio con altri.
«Troppo spesso – avverte il pedagogista Daniele Novara, direttore del Centro
psicopedagogico per la pace e la gestione dei conflitti, di Piacenza – nel nostro
immaginario tendiamo a far coincidere il concetto di conflitto con quello di
violenza o, in un’ottica più ampia, addirittura di guerra. E invece la differenza è
sostanziale: nella guerra e negli atteggiamenti violenti in genere si rifiuta la
relazione, l’altro è qualcuno da colpire, da eliminare, qualcuno a cui provocare
un danno irreversibile. Il conflitto, al contrario, pur rappresentando un
contrasto, favorisce il recupero della relazione: il danno, in questo caso, è
reversibile e può venire ricomposto. In estrema sintesi: il conflitto appartiene
all’area della “competenza relazionale”, mentre la violenza e la guerra
appartengono all’area della “distruzione”, cioè dell’eliminazione relazionale».

Non è una distinzione di poco conto. Perché aiuta a comprendere che in ogni
relazione l’elemento conflittuale è imprescindibile. Anzi, il conflitto è
un’occasione per garantire all’interno della relazione tra due persone la
necessaria propensione al cambiamento, al rinnovamento. Per accettarlo,
quindi, non bisogna aver paura della relazione, ma essere disposti a mettersi in
gioco nel rapporto con l’altro. Ma allora, perché è così difficile riconoscere e
accettare un conflitto?

«Perché – insiste Novara – il conflitto è un’esperienza frustrante, un attacco


alle nostre connotazioni narcisistiche. Rappresenta sempre una rinuncia: al
proprio punto di vista, alla naturale tendenza a volersi imporre sugli altri.
L’esperienza conflittuale costringe a fare i conti con una persona che pensa e
agisce in maniera diversa da noi. Un esempio? Quando il bambino fa il suo
ingresso all’asilo nido immediatamente si scontra con il temibile “morsicatore”,
una specie diffusissima: in ogni asilo ce n’è almeno uno. Bene,
quest’esperienza di sofferenza, che magari getta nel panico un genitore, in
realtà è utilissima al bambino per rendersi conto che non solo gli altri esistono,
ma lo possono pure morsicare. In altri termini, il piccolo compie un’esperienza
di frustrazione evolutiva, cioè sperimenta una sofferenza che lo aiuta a
crescere. L’alternativa è la classica campana di vetro che preserva, è vero,
dall’incontro con la realtà negativa, ma anche dal prendere consapevolezza
dell’esistenza altrui».

Conflitto: come gestirlo?

foto: IMAGEZOO/GETTYIMAGES
Stare nel conflitto non è semplice, a prescindere dalle capacità personali che
rendono un individuo più o meno in grado di fronteggiare bene le situazioni di
crisi. Esistono però anche alcune «tecniche» che si possono sviluppare o
coltivare per imparare a gestire positivamente le situazioni conflittuali.

«Una persona che si trova all’interno di un conflitto – chiarisce Novara – deve


innanzitutto imparare a riconoscere e a sintonizzarsi con le proprie emozioni.
In questi casi la reazione emotiva può giocare, infatti, brutti scherzi. Se da
piccoli, per esempio, abbiamo dovuto fare i conti con dei genitori che ci
trascuravano rispetto ai nostri fratelli (magari semplicemente perché avevamo
un carattere meno problematico) ogni volta che ci troveremo a fare i conti con
situazioni di apparente esclusione avvertiremo una sofferenza particolarmente
forte. Gli esperti la chiamano la “teoria dei tasti dolenti”, vale a dire che un
conflitto è da noi vissuto come particolarmente insostenibile perché coinvolge
certi aspetti del nostro vissuto molto dolorosi. Che fare in questo caso?
Continuando con l’esempio dell’esclusione, è sufficiente accettare questo
aspetto come una parte di noi, evitando di proiettarlo sugli altri e ripetendosi
che con molta probabilità non sono gli altri che ci stanno escludendo in un
modo così pesante, ma siamo noi che in questo contesto riviviamo la stessa
sofferenza di quando eravamo bambini».

Anche dialogare con le proprie emozioni può essere molto utile, per esempio, a
gestire emozioni negative come la rabbia che, se lasciate defluire liberamente,
possono ferire in modo profondo gli altri. «Non solo – insiste Daniele Novara –.
Per poter comunicare senza soffocare l’altro né esserne soffocati, con reciproco
rispetto e libertà, è bene imparare a mantenere la giusta distanza anche dalle
persone oltre che dalle proprie emozioni. A riguardo c’è una storiellina
illuminante che utilizzo spesso nel corso dei miei seminari: “In una fredda
serata due porcospini decidono di scaldarsi stringendosi il più possibile uno
contro l’altro, ma si accorgono ben presto di pungersi con gli aculei. Allora si
allontanano tornando però a sentire freddo. Dopo tante faticose prove, i due
porcospini riescono a trovare la posizione che permette loro di scaldarsi senza
pungersi troppo”. La giusta distanza, o vicinanza, aiuta a evitare frasi del tipo:
“Sei sempre il solito!”, “Con te si perde tempo!”, “Sei fatto male”, e a
sostituirle con comunicazioni centrate sulla lettura specifica della situazione,
che permette di vedere le cose per quello che realmente sono, spesso salvando
la relazione».

Ma dal conflitto, soprattutto da certi conflitti particolarmente difficili, è bene


poter uscire presto. E per farlo non basta quasi mai perseguire solo il proprio o
l’altrui interesse. Anche in questo caso è la ricerca del bene di entrambi che
può far uscire dall’impasse. «Spesso nel conflitto – prosegue il pedagogista –
chi vince in realtà perde. Penso alla relazione genitore-adolescente: il genitore
può imporsi, per esempio vietando al figlio di frequentare certi amici, ma, alla
lunga, il figlio tenderà a clandestinizzare i suoi comportamenti. Molto meglio in
questo caso trovare delle regole comuni, su una base consensuale che
permetta al ragazzo di salvaguardare dignità e autostima».

Quando il terzo non è incomodo

E se nonostante la giusta distanza, il riconoscimento delle proprie emozioni, la


ricerca di un reciproco interesse il conflitto non accenna a spegnersi, che cosa
mai si può fare? «In questi casi può essere utile affidarsi a un mediatore –
afferma l’esperto –, vale a dire a un terzo che si pone nel mezzo per aiutare i
due contendenti a gestire il conflitto e a trovare un accordo. Questo avviene
comunemente in Italia nella mediazione familiare, visto che le separazioni
coniugali purtroppo sono in crescita. Ma la mediazione è ampiamente utilizzata
anche in campo sociale, condominiale, sanitario e scolastico».

Il mediatore non si sostituisce mai ai contendenti, non risolve il conflitto, ma


aiuta le persone a comunicare tra loro, favorendo il raggiungimento e il
mantenimento di un accordo. Certo, bisogna essere disponibili a chiedere
aiuto.

«Il primo effetto della mediazione è, paradossalmente, il sentirsi più


competenti. Oggi saper chiedere aiuto è una forma di competenza: riconoscere
che da soli non si è in grado di gestire la relazione significa che la persona sta
uscendo dal gravoso tunnel emotivo del conflitto, che può anche implicare un
senso di impotenza, di rancore, di aggressività che, in alcuni casi estremi, può
anche sfociare nella violenza. Inoltre, nel corso della mediazione, il problema si
trasforma lentamente in una risorsa, in un’occasione per diventare migliori, per
crescere, per affinare nuove sensibilità. E alla fine, quando il conflitto viene
risolto, la persona si sente gratificata in modo straordinario. È molto
importante, quindi, uscire dall’autoreferenzialità che consiste nel pensare: “Me
la posso cavare da solo, ce l’ho sempre fatta e ce la farò anche questa volta”. È
una strada che non porta da nessuna parte».

Purtroppo anche nel campo della mediazione l’Italia è fanalino di coda. Negli
Stati Uniti, per esempio, che pure le cronache dipingono come un Paese molto
violento, esiste tutta una tradizione di coach conflict, persone con una specifica
professionalità che si occupano di accompagnare gli individui nella gestione dei conflitti. Sono
molto utilizzate soprattutto da dirigenti, allenatori, responsabili di associazioni, soggetti che vivono
in contesti particolarmente conflittuali. «Il mediatore è una persona che a una preparazione
specifica, che può essere di tipo psicologico, umanistico, pedagogico, giuridico, associa una serie di
altre competenze: deve saper leggere le emozioni, essere capace di negoziare, saper interpretare i
contesti sociali e organizzativi ed essere in grado di comunicare in modo efficace».

Una professione nuova, quindi, che dovrebbe uscire dalla semi-clandestinità per vedersi
riconosciuta. Al momento, invece, molto è lasciato alla buona volontà delle persone o delle
amministrazioni. Ma bisognerebbe, come spesso accade, fare di più: perché, come afferma anche
Fulvio Scaparro, uno dei precursori della mediazione familiare in Italia, la mediazione aiuta a
trasmettere una cultura positiva del conflitto. Ne valorizza le potenzialità, controlla gli aspetti più
distruttivi, sostiene lo sforzo di trovare soluzioni pacificatorie nel rispetto delle differenze. Delinea,
insomma, una situazione nella quale è possibile recuperare potenziali energie e costruire nuove e
più equilibrate relazioni.

Mediazione condominiale

Mediazione condominiale.

Disarmare i conflitti di vicinato

«Il mio coinquilino ama i film horror a tutto volume in piena notte». Oppure:
«Il mio dirimpettaio adora parcheggiare il suo camion nel mio posto auto
condominiale». Sono solo alcuni esempi di conflitti di vicinato, che trovano
ricomposizione alla «Casa dei conflitti» di Torino, espressione del Gruppo
Abele, attiva da dieci anni nel quartiere di San Salvario. «Ci occupiamo di
mediazione sociale in senso più ampio – spiega la coordinatrice delle attività,
Anna Sironi – ma le diatribe condominiali e di vicinato sono comunque tra le
più rappresentate, fin dall’apertura del centro». 

Msa. Come nasce la vostra esperienza di gestione dei conflitti?

Sironi. La «Casa dei conflitti» si è inserita in più ampie politiche integrate sulla
sicurezza. Crediamo nell’importanza di intervenire sui micro-conflitti quotidiani,
perché la qualità della vita dipende anche dalla capacità di riuscire a
stemperare le tensioni con il proprio vicino, col gestore del negozio sotto casa,
col dirimpettaio. È un’area d’intervento scoperta, che non rientra in pieno nelle
pertinenze delle forze dell’ordine, ma nemmeno dei servizi sociali.

In che modo le persone entrano in contatto col vostro servizio?

Sono proprio le forze dell’ordine le prime a segnalare la «Casa dei conflitti».


Succede quando un cittadino si rivolge loro indicando situazioni che per lui
sono di estremo disagio, ma che nelle priorità di un commissariato
evidentemente non sono ai primi posti. Si tratta di conflittualità che non
trovano risposta nella direzione dell’indagine giudiziaria e dell’eventuale
processo, o perché i fatti sono penalmente irrilevanti, o perché magari possono
configurarsi come piccoli reati, tipo calunnia o ingiuria. Culturalmente si tende
a sopravvalutare la risorsa penale. Si pensa che far denuncia o chiamare
l’avvocato risolva le cose. Con un’aspettativa irrealistica anche riguardo alla
tempistica degli interventi. Spesso chi intraprende questa strada resta deluso.

Qual è invece la vostra proposta?

Tentiamo di mettere le persone intorno a un tavolo, senza l’obiettivo di


risolvere la divisione dei millesimi piuttosto che il problema dell’animale
domestico che disturba, ma puntando a far parlare le persone. In dieci anni di
attività abbiamo verificato che, una volta sistemato l’aspetto comunicativo, gli
aspetti concreti si «sgonfiano» e le soluzioni si trovano. Il contrario, invece,
non funziona: messo a posto l’aspetto tecnico, non si risolve quello relazionale,
i vicini di casa continuano a essere arrabbiati, e alla prima occasione si
scatenano di nuovo.

Può darci qualche consiglio spicciolo per tentare di stemperare un conflitto?

Se una contesa vicinale ha già eroso le capacità di autogoverno si fatica a tirar


fuori gli aspetti più creativi e costruttivi: è come se le energie fossero
incanalate su un punto. Invece bisogna provare ad allargare il campo. La
mediazione offre proprio un elemento terzo che serve a sparigliare le carte, ed
è come aprire una finestra in una stanza chiusa. Quando si cerca qualcosa che
apra lo sguardo e si desiderano soluzioni inedite, l’elemento terzo può aiutare a
fare sintesi, in nome di un arbitrato neutrale, gratuito, disinteressato.

Alberto Friso
per saperne di più

- Casa dei conflitti, Torino

Tel. 011 6501126, e-mail spazintesa@gruppoabele.org

www.gruppoabele.org

- Centro psicopedagogico per la pace e la gestione dei conflitti, Piacenza

Tel./fax 0523 498594, e-mail info@cppp.it

www.cppp.it

- GeA-Genitori Ancòra, Milano

Tel./fax 02 29004757, e-mail assogea@associazionegea.it

www.associazionegea.it

Mediazione familiare. Genitori oltre il conflitto

Di Fulvio Scaparro*

È possibile offrire ai genitori che si stanno separando un aiuto per continuare a


essere presenti in modo positivo con i figli, decidendo insieme, per esempio, la
scuola, i tempi da passare con papà e mamma, le vacanze.

Il fallimento di un progetto di vita in comune lascia pesanti strascichi di


sofferenza in tutti i componenti della famiglia, nei figli in primo luogo. Quando
una coppia con figli si separa affronta un periodo di grandi preoccupazioni e
cambiamenti legati alle difficoltà di organizzare tempi e modi di vita nuovi che
tengano conto dei reali bisogni di genitori e figli.

I genitori avvertono l’urgenza di prendere decisioni che soddisfino le loro


necessità, ma sentono anche la responsabilità di tutelare i figli attraverso un
accordo di separazione che assicuri loro l’affetto e la presenza costante di papà
e mamma. Poiché il ruolo genitoriale deve essere esercitato insieme anche
dopo la cessazione del rapporto coniugale, l’interruzione del dialogo tra gli
adulti è di grave danno per i figli. Questi ultimi rischiano, nel momento di crisi,
di essere travolti da un conflitto che non capiscono e meno ancora sanno
affrontare. Se i cambiamenti di vita sono radicali e improvvisati, possono ri-
trovarsi privi di punti di riferimento indispensabili al loro equilibrio (la casa, i
luoghi delle vacanze, la scuola) ed esclusi da relazioni fino a poco prima molto
importanti (i nonni, gli amici, i compagni di gioco, ecc...).

È possibile contenere questi pericoli offrendo ai genitori un aiuto per guardare


avanti positivamente, per credere che, anche se separati, si può continuare a
essere buoni genitori, decidendo insieme, per esempio, la scuola dei bambini, i
tempi da passare con papà e mamma, le vacanze?

La mediazione familiare tenta di dare questo aiuto e molto spesso ci riesce,


stando all’esperienza ormai ultraventennale di alcuni servizi. Il mediatore
propone ai genitori un numero limitato di incontri (10-12) per ricominciare a
parlare, per esprimere desideri e aspettative sul futuro, per confrontare le
possibili soluzioni ai problemi più urgenti, lasciando fuori dalla stanza di
mediazione attacchi personali e toni aggressivi. Il mediatore non dà soluzioni,
non impone un proprio punto di vista: il suo compito è quello di creare una
situazione nella quale i genitori recuperano fiducia in loro stessi e
reciprocamente, sostituiscono alla logica della vittoria di una parte sull’altra
quella di accordi presi insieme nell’interesse di tutti. Compito del mediatore è
quello di ridare a papà e mamma fiducia nelle loro risorse, nella loro capacità
di prendere le decisioni migliori per sé e i loro figli. Alla base della mediazione
familiare sta la convinzione che separazione e divorzio non vanno considerati
come una patologia del sociale ma che possono assumere contorni
francamente patologici quando i rancori, le delusioni, il desiderio di vendetta
trasformano un conflitto, sia pure doloroso, in guerra.

Gli alti costi psicologici ed economici di una separazione bellicosa sono anche
dovuti a un contesto, non solo istituzionale, che anziché ridurre o almeno
controllare gli effetti negativi del conflitto oggettivamente può aggravarlo.
Sono molto spesso le procedure burocratiche, gli interventi dei servizi,
l’ingerenza di altre persone che inaspriscono ulteriormente il conflitto. Andare
in mediazione familiare vuol dire per i genitori recuperare uno spazio tutto loro,
senza interventi esterni, autonomo rispetto all’iter legale giudiziario. Nella
stanza di mediazione, alla presenza di una persona che garantisce imparzialità
e formazione qualificata, i genitori possono costruire insieme una separazione
soddisfacente per entrambi che tutela la crescita equilibrata dei figli affinché
possano sempre contare sul sostegno, la guida e l’affetto gratuito di entrambi i
genitori. La mediazione familiare tutela i genitori perché li mantiene
protagonisti della loro separazione, evitando deleghe e pseudo accordi che, nel
migliore dei casi, diventano occasioni di nuova conflittualità.

*Fondatore, nel 1987, dell’Associazione GeA (Genitori Ancòra) per la diffusione


della mediazione familiare

I libri

D. Novara, L’ascolto si impara, EGA, Torino 2002

F. Scaparro (a cura di), Il coraggio di mediare, Guerini, Milano 2001

M. Sclavi, L’arte di ascoltare, Le Vespe, Milano 2001

T. Gordon, Genitori efficaci, La Meridiana, Molfetta (BA) 1993

D. Novara, L. Regoliosi, I Bulli non sanno litigare, Carocci, Roma 2007

Sybil Evans, Non t’arrabbiare, TEA, Milano 2001

E. Arielli – G. Scotto, Conflitti e mediazione, Bruno Mondadori 2003

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