Sei sulla pagina 1di 12

Le bugie hanno le gambe

lunghissime
di Francesca Capelli - articolo pubblicato da Newton - Ottobre 1998

Diffidate di chi afferma di dire sempre la verità. Probabilmente sta mentendo


spudoratamente. Perché delle bugie - utilitaristiche, cortesi o pietose che siano - non
possiamo fare a meno. Sono loro, infatti, che ci permettono di "sopravvivere" in
situazioni particolarmente difficili o imbarazzanti. "Le bugie stanno alla base di tutti i
gruppi sociali, tanto che non solo gli uomini ma anche gli animali ne fanno uso",
spiega Luigi Anolli, docente di Psicologia della comunicazione all'Università Cattolica
di Milano e direttore del Centro studi e ricerche in Psicologia della comunicazione
dello stesso ateneo. "Le femmine di scimmia, per esempio, approfittano dell'assenza
del loro compagno "ufficiale" per accoppiarsi con un altro maschio. E i gregari, cioè i
membri non dominanti del gruppo, nascondono le banane al capobranco, per poterle
mangiare in pace anziché consegnargliele. La bugia ha insomma a che fare con la
gestione di risorse scarse, come possono essere il cibo o le femmine".

Tra gli uomini, però, le cose si complicano e assumono sfumature e motivazioni


diverse. C'è la bugia "bianca", sociale, che si dice per educazione e per non ferire la
sensibilità altrui ("Questo vestito ti sta benissimo"). C'è la bugia pedagogica, da
raccontare ai bambini per gratificarli ("Mamma, ti piace il mio disegno?", "Certo, è
meraviglioso"). La bugia utilitaristica, usata spesso sul lavoro per evitare un incarico
difficile o noioso ("Direttore, me ne occuperei volentieri io, ma devo aiutare mia zia a
traslocare"). La bugia di autopresentazione, una "piccola" forzatura della realtà per
apparire più interessanti o attraenti ("Ho scalato l'Everest senza ossigeno"). La bugia
protettiva, classica "di coppia", alla quale si ricorre per non far scoprire un tradimento
al partner ("Ieri non mi hai trovato a casa perché ho dormito da un'amica").
L'omissione, che non è una vera e propria menzogna, ma una verità taciuta. E poi, la
nobilissima bugia a fin di bene, che ha l'obiettivo di risparmiare un dispiacere a
un'altra persona ("Guarda che il tuo ex fidanzato mi ha detto che ti ama ancora") ed

1
è tipica di chi si attribuisce compiti di controllo e gestione all'interno di un rapporto.
"La bugia a fin di bene riflette una visione un po' onnipotente di sé e una scarsa
fiducia nelle capacità altrui di affrontare la realtà, per quanto spiacevole e dolorosa
possa essere", afferma Roberta Rossi, psicologa e sessuologa dell'Istituto di
sessuologia clinica di Roma.

La bugia non è mai fine a se stessa, ma è un comportamento strategico.


"L'adolescente che non racconta ai genitori cosa fa davvero la sera quando esce con
gli amici mette in atto una strategia", dice Giuseppe Mantovani, docente di Psicologia
degli atteggiamenti all'Università di Padova. "Mente per difendere la lealtà verso il
gruppo dei coetanei". Oltretutto a volte essere bugiardi con alcune persone ci
permette di essere onesti con altre. Il nodo cruciale, dunque, non è tanto
l'alternativa tra mentire o dire la verità, ma la scelta dei soggetti da ingannare e
di quelli con cui essere sinceri. Dilemma di difficile soluzione, soprattutto in una
società come la nostra dove la verità e la massima apertura sono considerate valori
morali. "Ma non si tratta certo di dogmi universali", aggiunge Mantovani. "In Cina
raccontare la verità è considerato un comportamento stupido, perché significa
scoprirsi, un po' come andare in giro nudi". Per gli orientali in generale, essere aperti
e sinceri - anche tra persone con un certo grado di intimità - può costituire
un'infrazione a regole sociali condivise. "Per i musulmani, l'inganno è condannato dal
Corano", dice Jolanda Guardi, esperta di cultura araba dell'Associazione Italia-Asia di
Milano. "Sono invece diffuse le omissioni, le cose che si tacciono per pudore". Basta
pensare che nei Paesi islamici chiedere a un uomo come sta sua moglie è visto come
un'intromissione nella sua vita privata. "Non dobbiamo stupirci, visto che la cultura è
un modo di organizzare la realtà che cambia a seconda delle epoche e dei contesti",
aggiunge Giuseppe Mantovani. E non serve scomodare l'Oriente. Anche senza fare
tanta strada, nella cultura mafiosa - se di cultura si può parlare - l'omertà è un
comportamento legittimo, socialmente approvato e incoraggiato.

Insomma, se non siamo ipocriti, dobbiamo riconoscere che nel nostro sistema sociale
la verità è sì un valore, ma solo a livello teorico. Un esempio? Tutti coloro che
lavorano in un'azienda sanno che, nei momenti di crisi, bisogna fingere con i clienti e
con la concorrenza che gli affari non sono mai andati così bene. Certo, un conto è la
2
strategia d'impresa, un altro i rapporti interpersonali - d'amore o di amicizia - che
dovrebbero essere sempre basati sulla massima onestà e chiarezza. "Ma essere leali
non significa dire sempre la verità, in ogni circostanza e a qualsiasi costo", sottolinea
la psicologa Roberta Rossi. "Tenere qualche segreto è una prova di indipendenza e
maturità: sono i bambini che raccontando tutto alla mamma, gli adulti sanno anche
tacere. Soprattutto, una verità sbattuta in faccia in modo brutale può essere anche
un gesto aggressivo, attuato con lo scopo preciso di ferire". Un coltello per colpire alla
schiena, nascosto dall'alibi della sincerità. "In amore, poi, confessare una scappatella
"senza conseguenze" è anche un modo per liberarsi dei sensi di colpa e scaricarli sul
partner", prosegue Roberta Rossi. Un elogio della bugia, dunque? "Sì, se si tratta di
episodi singoli, parentesi che si aprono e si chiudono all'interno di un rapporto.
Purché non diventino pretesti per costruire una doppia vita". La bugia, dunque, è un
comportamento strategico solo se isolata. Altrimenti si innesca un circolo perverso dal
quale non è più possibile uscire: menzogne sempre più grandi e gravi, usate per
coprire le precedenti. E dal momento che sostenere queste complicate
"sceneggiature" è stressante (oltre a richiedere una memoria impeccabile), prima o
poi si finisce con l'essere scoperti.

A meno che non si abbia a che fare con persone che "vogliono" credere alle
menzogne. Con loro il gioco funziona a meraviglia. Ma allora si esce dall'ambito delle
bugie raccontate agli altri e si entra nel campo minato degli inganni che tendiamo a
noi stessi. "Bugie vitali": così le ha definite Daniel Goleman, ex docente di Psicologia
all'Università americana di Harvard e "scopritore" della cosiddetta intelligenza
emotiva (la capacità di riconoscere e gestire le emozioni). Secondo Goleman, la
mente di ognuno di noi ha una "parte cieca", incapace di vedere le cose
come stanno in realtà. E' grazie a questa "lacuna" della coscienza che possiamo
raccontarci le bugie vitali: realtà negate, o alterate nel loro significato, perché troppo
brutali e dolorose per essere sopportate. Così ci convinciamo che se non entriamo più
in un vestito dipende da un lavaggio sbagliato e non dal fatto che siamo ingrassati. O
crediamo che il partner faccia tardi la sera perché trattenuto in ufficio. Fino ad
accettare situazioni gravissime. Molti psicoterapeuti riferiscono come certi pazienti,
che da bambini hanno subito maltrattamenti in famiglia, tendano a descrivere i

3
genitori violenti come persone affettuose ed espansive. Magari un po' severe, ma
sempre preoccupate del benessere dei figli.

Le bugie vitali sono l'equivalente psicologico delle endorfine, sostanze prodotte


dal nostro corpo in situazioni di stress, che agiscono come anestetici naturali del
cervello, danno un senso di euforia e riducono la percezione del dolore. Secondo
Goleman, qualcosa di simile succede anche alla nostra attenzione, dotata di filtri per
selezionare la realtà e farne arrivare alla coscienza solo una parte. Questi meccanismi
ci proteggono da informazioni troppo disturbanti e traumatiche, che la nostra mente
cancella o seppellisce nell'inconscio, impedendoci di diventarne consapevoli. Non si
tratta di eventi che fingiamo di ignorare, ma di veri "buchi" nella coscienza.

La bugia vitale non funziona solo a livello del singolo individuo. Intere famiglie, gruppi
o sistemi sociali mettono in atto meccanismi di selezione delle informazioni,
ignorando quelle potenzialmente destabilizzanti. Non bisogna quindi stupirsi se le
violenze in famiglia vengono commesse per anni sotto lo sguardo di tutti prima di
essere denunciate. E si può interpretare in questa chiave il fatto che, durante il
nazismo, buona parte dei tedeschi negassero, in perfetta buona fede, quello che
avveniva nei lager. L'autoinganno è dunque un baratto con il quale accettiamo
un calo dell'attenzione in cambio del sollievo dall'ansia e dallo stress. Ma c'è
un prezzo da pagare per tutto questo: la mancanza di consapevolezza. Se dunque
una modica quantità di illusione può essere benefica, è altrettanto vero che ignorare i
problemi ci impedisce di risolverli. Perché non possiamo cambiare ciò che non
vediamo. L'antropologo e psicologo statunitense Gregory Bateson sosteneva che
"esiste sempre un valore ottimale oltre il quale ogni cosa diviene tossica: l'ossigeno, il
sonno, la psicoterapia e la filosofia. Qualsiasi variabile biologica ha bisogno di
equilibrio". Lo stesso vale per la sincerità e l'inganno. In qualche punto tra i due poli
di comportamento - vivere una vita di bugie e dire sempre la pura verità - c'è il
sentiero giusto che conduce al benessere e assicura la sopravvivenza.

La responsabilità del comunicare

4
C'è un principio della comunicazione che mi sta molto a cuore ed è questo: < Il
significato di una comunicazione è la risposta che riceviamo >.

Quante volte ci è capitato di sentire qualcuno che diceva: "Ho parlato con lui, ma
proprio non capisce. Gli ho ripetuto il concetto in tutte le salse, ma non ci sente da
quell'orecchio!". Questo è il classico esempio di un messaggio che è caduto
nel vuoto dell'incomunicabilità.

Il principio di cui parliamo ci offre una chiave per capire dov'è finito il
messaggio che non è arrivato a destinazione. Se la risposta della persona che
vogliamo informare o convincere è assente oppure è diversa da quella che
attendiamo, il significato della comunicazione è uguale a 0. Una formuletta
semplice semplice che ci mette in gioco in modo totale nel processo comunicativo.

Siamo noi i primi responsabili dell'esito delle nostre parole. Questo significa che da un
lato siamo molto fortunati ma, dall'altro, adesso sappiamo che addossare sugli altri
l'accusa di "non aver capito" è una solenne fesseria. Possiamo dirci fortunati perchè,
se la responsabilità è nelle nostre mani, possiamo procurarci tutti gli strumenti
necessari per chiarire il nostro messaggio e per renderlo più efficace. Il primo passo
da fare in questa direzione è indossare i panni dell'altro: ascoltiamo le sue parole,
guardiamo i suoi occhi e il suo corpo per capire quello che si aspetta da noi. A questo
punto, se siamo stati capaci di < vestirci > con il modo di essere dell'altro, allora
smetteremo di dire che "non ha capito": non vorremo darci degli stupidi, vero?

La capacità di ascolto e di scelta della strada giusta non sono abilità magiche. Lo
diventano se si impara ad usarle bene, con l'esercizio e con l'umiltà nel riconoscere
anche la propria responsabilità in una comunicazione che non ha funzionato.

Parlare
Quando parliamo con qualcuno, la prima cosa da fare è spedire il messaggio nella
porta giusta. I cinque sensi sono le nostre finestre sul mondo, le nostre porte
percettive spalancate sulla realtà esterna. La vista, l’udito, il tatto, il gusto e

5
l’olfatto sono le vie d’ingresso degli stimoli che riceviamo dal mondo esterno. I
sistemi sensoriali agiscono in due direzioni: ci mettono in grado di decodificare le
informazioni provenienti dall’esterno e ci forniscono la materia per costruire o
ricostruire le esperienze con la mente. La capacità del nostro cervello di creare
immagini o suoni mai vissuti si fonda proprio sulla elaborazione di esperienze
sensoriali archiviate nella memoria, che sono poi assemblate secondo nuovi schemi
per generare prodotti originali. Pensiamo, ad esempio, alla pittura, alla musica e a
tutte le forme di creazione artistica.

Con i sensi si percepiscono immagini, suoni, sensazioni, sapori e odori che, passando
per i canali sensoriali, contribuiscono a costruire la nostra rappresentazione
interna soggettiva della realtà esterna. Quale sia la forma di archivio preferito,
però, dipende dal canale sensoriale dominate di ciascuno di noi. Secondo la P.N.L
(Programmazione Neuro-linguistica), infatti, le persone sviluppano una preferenza
per un canale sensoriale che, intorno ai 12 anni, diventa la corsia preferenziale
attraverso cui transitano le informazioni che provengono dall'esterno.

La Programmazione Neuro-linguistica ha elaborato un modello che identifica tre tipi


"umani", ovvero tre principali gruppi di persone che interpretano la realtà secondo un
canale sensoriale: il Visivo, V, l’Auditivo, A, ed il Cinestesico, K. Quest'ultimo fa
riferimento alla preferenza per il tatto, il gusto e l'olfatto.
La presenza di una via privilegiata per alcune tipologie di stimoli significa solo
mettere in ordine i dati secondo un preciso criterio, per ritrovarli ed utilizzarli con
facilità. Il nostro cervello, infatti, utilizza comunque anche gli altri sensi, anche se lo
fa in misura minore. Ad esempio, se preferisco memorizzare le esperienze come
fotografie (tipo Visivo), potrò anche aggiungere suoni o profumi, ma il primo ricordo
sarà sempre fatto di forme e colori.

Ecco un esempio più concreto. Una persona con sistema preferenziale visivo darà
maggior peso alle immagini (il concetto di ‘gatto’ richiama l’immagine dell’animale);
una persona di tipo auditivo è sintonizzata sui suoni (del gatto percepisce il
miagolio o il rumore delle fusa); una persona cinestesica, è concentrata sulle

6
sensazioni (e del gatto, la prima cosa che percepisce è la sensazione del pelo al
tatto o magari le vibrazioni delle fusa).

Quando si conversa con qualcuno, quindi, è essenziale parlare con chiarezza e con
calore al suo cervello: se entriamo dall'ingresso preferenziale, troveremo la sua
disponibilità ad ascoltare tutto quello che abbiamo da dire.

Ma lasciamo perdere le fantasie e vediamo la rete com’è. Ogni cosa che accade è
comunicazione. Prima di pensare a ciò che possiamo dire o scrivere, l’importante è
saper ascoltare e capire. Chi vuole comunicarci qualcosa e perché? Siamo sicuri di
aver capito bene le sue intenzioni e ciò che sta cercando di dirci? Non è una fatica, né
uno sforzo, se abbiamo un atteggiamento disposto ad ascoltare. Diventa facilmente
un istinto, un modo di essere. Ed è molto più interessante capire, sentire il valore e il
senso della comunicazione che limitarci al significato superficiale delle parole.

Ascoltare vuol dire, prima di tutto, mettersi nei panni degli altri. Capire le cose dal
loro punto di vista. Ma si tratta anche di percepire ciò che forse un’altra persona non
aveva intenzione di dirci, ma involontariamente “trasmette” con il suo stile, il suo
comportamento, il suo modo di esprimersi. Il “tono di voce” si può chiaramente
percepire anche in un messaggio scritto. In rete cadono (o almeno si attenuano) i
ruoli, le posizioni, le gerarchie. Si crea con sorprendente facilità una “confidenza” che
non è sempre facile in un incontro “fisico”. Ma se non sappiamo ascoltare c’è il rischio
che anche in rete ci sia solo una serie di soliloqui, un “dialogo fra sordi”.

Il dizionario Devoto-Oli definisce così la parola “ascoltare”: «Trattenersi


volontariamente e attentamente a udire, prestare la propria attenzione o
partecipazione a qualcuno o qualcosa in quanto informazione o motivo di riflessione».
Certo... non tutto quello che sentiamo dire, non tutto quello che leggiamo merita di
essere capito e approfondito. Ma ci vuole qualcosa di più di un “buon orecchio” per
cogliere i segnali interessanti che spesso non sono dove ce li aspettavamo. Se
entriamo in un dialogo, in uno scambio, abbiamo scarse probabilità di farci capire (e
di essere ascoltati) se prima non abbiamo saputo ascoltare “con attenzione e
partecipazione” – e anche riflettere.

7
Dice Karl Menninger: «Ascoltare è una cosa magnetica e speciale, una forza creativa.
Gli amici che ci ascoltano sono quelli cui ci avviciniamo. Essere ascoltati ci crea, ci fa
aprire ed espandere».

Ho trovato questa citazione sul sito listen (insieme a parecchie altre, di cui alcune
molto interessanti – per chi sa l’inglese).

Ascoltare è un affettuoso regalo che facciamo a chi sta cercando di dirci qualcosa. Ma
spesso è anche un grande regalo per chi ascolta.

L’internet ci offre infinite possibilità di ascoltare e di capire. Se non le sappiamo


cogliere, perdiamo uno dei più grandi valori della rete. E se nel dialogo non sappiamo
ascoltare non sapremo mai comunicare bene.

tratto da Gandalf - capitolo 46 del libro L’umanità dell’internet

Comunicazione come Relazione


Chi legge Pragmatica della Comunicazione Umana si lascia stupire e conquistare, riga
dopo riga, capitolo dopo capitolo. Paul Watzlawick scrive con una chiarezza espositiva
e concettuale che lo distanzia di lunghi passi dalla maggioranza dei testi dedicati
all'analisi del comportamento umano.

Nella Pragmatica della Comunicazione Umana sono enunciati i cosiddetti assiomi


della comunicazione che, dalla pubblicazione del testo (1967), hanno modificato in
modo radicale ed irreversibile il percorso della psicologia contemporanea. Capire la
psiche dell'uomo significa, in quelle pagine, analizzare e saper comprendere le
relazioni interpersonali che generano i comportamenti. L'analogia della scatola nera è
alla radice di questa svolta "pragmatica". Il cervello è chiuso nelle ossa del cranio,
come la scatola nera nelle lamiere di un aereo. Non è possibile "vedere" quello che è
contenuto nel cervello, perchè i pensieri sono impulsi elettrici che hanno un'origine
chimica. Le idee sono scariche di energia che nascono e si dissolvono nel buio dei

8
misteri cerebrali e non è possibile catturarli in una rete, per poi analizzarli con tutta
calma.

Questo presupposto guida Watzlawick in direzione di un approccio alla comunicazione


umana che egli stesso definisce "pragmatico", ovvero pratico, comportamentale e
relazionale. Quello che noi sappiamo di una persona è il suo comportamento:
possiamo vederlo, perché è disponibile immediatamente sotto i nostri occhi. L'insieme
degli stimoli, dei bisogni, delle esperienze che contribuiscono alla costruzione di ciò
che si vede, non è subito disponibile. Anzi, secondo Watzlawick, il discorso eziologico
- sulle "cause" - riveste un ruolo che è perfino secondario (almeno in ordine di
tempo), se messo a confronto con quello che possiamo vedere. In linea con il
comportamentismo, la pragmatica della comunicazione indica, come via maestra alla
comprensione della psiche, l'osservazione dell'uomo mentre comunica. L'uomo
non è e non sarà mai una monade, un pianeta isolato dagli altri, anche quando è
solo e silenzioso in mezzo al nulla. E' impossibile non comunicare, perchè ogni
comportamento è comunicazione, invia un messaggio agli altri, che lo si voglia
oppure no.

Nella comunicazione si apre la relazione, ovvero la relazione con l'altro è già


implicita nella stessa esistenza umana. Ogni persona è "una", "nessuna" e
"centomila", come insegna Pirandello. L'identità personale, quello che noi pensiamo di
noi stessi e quello che pensiamo che gli altri pensino di noi, si mette assieme, pezzo
dopo pezzo, in tutti gli scambi di parole e azioni che abbiamo con gli altri esseri
umani. George Herbert Mead, filosofo e psicologo d'inizio secolo, in Mind, Self, and
Society (1934) mise in parole chiare il processo di formazione del Sé e lo fece con
argomenti che riconducono all'esperienza del gioco. Anche Watzlawick fa ricorso a
questa analogia, per dipingere la relazione comunicativa proprio come un gioco,
dove la posta è la definizione di Sé.

Si legge nella Pragmatica della Comunicazione Umana (pag. 43) che "ogni
comunicazione implica un impegno e perciò definisce la relazione. E' un altro
modo per dire che una comunicazione non soltanto trasmette informazione, ma al
tempo stesso impone un comportamento." Ogni comunicazione ha un aspetto

9
informativo, di contenuto, e un aspetto di "comando", di relazione. Ed è questo
secondo aspetto che imprime una forma al contenuto, che ne definisce il
significato come metacomunicazione. Watzlawick aggiunge che "sembra che quanto
più una relazione è spontanea e 'sana', tanto più l'aspetto relazionale della
comunicazione recede sullo sfondo. Viceversa, le relazioni 'malate' sono
caratterizzate da una lotta costante per definire la natura della relazione,
mentre l'aspetto di contenuto della comunicazione diventa sempre meno importante."
E' probabile che chi legge abbia fatto un'esperienza di questo genere, ovvero di
scambi di opinioni, di discussioni o di litigi che avevano come oggetto argomenti di
nessuna importanza. In casi simili, quello che è in gioco non è la scelta di un mobile
rosso o di una lampada blu, ma la definizione di "chi gioca quale ruolo" all'interno
della relazione interpersonale.

Le ricerche e le osservazioni di Watzlawick hanno condotto alla distinzione di due


possibili modi di mettersi in relazione con l'altro. Il primo, che l'autore chiama
relazione simmetrica, è caratterizzato da un piano di partenza paritario, dove le
persone coinvolte si misurano con l'assunto di essere uguali. La simmetria, se corre
troppo oltre i suoi presupposti, può degenerare in patologia, ovvero in una dinamica
di competizione per dimostrare che "io sono migliore di te".
Il secondo tipo di relazione è segnata dalla complementarietà. In questo modello,
chi partecipa alla relazione si comporta in modo tale da situarsi in una posizione di
superiorità oppure di inferiorità nei confronti dell'altro. Per comprendere appieno cosa
significa la complementarietà, è importante aver chiaro che è possibile imporre
all'altro la propria "superiorità" solo se questi è disposto ad accettarla, e viceversa. Il
legame complementare, quando diventa patologico, allarga la forbice della
differenza fino agli estremi e, chi domina, lo fa in forma sempre più assoluta.

La relazione è un sistema dove i comportamenti sono circolari: non è possibile


stabilire quale è la causa e quale l’effetto, cosa viene prima e cosa viene dopo. Ogni
comportamento è, insieme, azione e risposta ad un'altro comportamento. La
circolarità mette fuori campo il dualismo causa-effetto che, come uno stampo, ha
dato forma per secoli a tutti i discorsi della scienza. Il sistema delle persone-che-
comunicano-con-altre-persone è sempre un universo a sé stante, governato da
10
regole e processi propri. Quando le regole che tengono in vita il sistema fanno "corto
circuito", la comunicazione si ammala e può essere guarita solo da chi, con un
intervento esterno, può modificare le regole del gioco.

Media
Quando si pensa ai media, in genere, lo si fa con in mente un'idea
piuttosto incerta e sfumata. Stampa, radio, televisione e Internet si
mettono a capo della nostra attenzione e si impongono come punto di
riferimento costante in qualunque discorso intorno ai media. L'indeterminato della
nostra idea è proprio l'oggetto di cui si parla, ovvero: cosa sono i media? La
risposta più semplice a questa domanda è "tecnologie". I mezzi di comunicazione,
secondo questo modo di vedere, sono nient'altro che macchine e supporti per
trasmettere le informazioni da un punto all'altro, da un'emittente a una pluralità più o
meno indistinta di destinatari. Per lungo tempo questa prospettiva è stata l'unica
chiave di interpretazione dei media e la tecnologia è ancor oggi vista come
profetessa di nuovi corsi della storia umana. Dalla nascita del telegrafo alla
televisione via cavo, i media sono stati spesso pensati come rivoluzioni tecnologiche
in grado, da sole, di rivoltare come un guanto la vita quotidiana delle persone.

Un simile modo di guardare ai media è perlomeno molto parziale e, soprattutto, non


tiene conto di un fattore di estrema importanza: la tecnica è frutto del lavoro di
uomini che cercano di dare soluzione a necessità sociali ben precise. Questo significa
che i mezzi di comunicazione fanno la loro comparsa in un contesto storico e sociale
che ne definisce il ruolo e il senso. Un felice esempio si trova nella storia della radio.
Nel 1888 Rudolph Hertz aveva già dimostrato che si potesse trasmettere con le “onde
hertziane”, ma solo nel 1920 nasce, negli Stati Uniti, la prima emittente radiofonica.

Se torniamo più vicino a noi, scopriamo che gli albori della storia di Internet non
avevano per nulla come obiettivo la condivisione dei saperi su scala planetaria.
Arpanet, la rete sperimentale di computer creata nel 1969 dall'agenzia ARPA del
Dipartimento della Difesa americano, aveva lo scopo di garantire la continuità e la
sicurezza delle comunicazioni anche in caso di attacco nucleare su vasta scala. Così, a
11
tutt'oggi, convivono nella Rete molteplici "finalità d'uso", che ne fanno un
mezzo buono per scopi politici e militari, come pure una via alternativa per
commerciare o per condividere informazioni con un numero di persone
potenzialmente infinito.

Un altro esempio di definizione e ridefinizione storica del significato di un medium è


quello della storia della televisione italiana. Le radici degli anni cinquanta vedevano
questo mezzo di comunicazione come lo strumento perfetto per realizzare, una volta
per tutte, l'unità della lingua e della cultura italiana. Ai giorni nostri, la televisione ha
mutato completamente la sua fisionomia e il suo significato sociale, perchè risponde,
in prevalenza, a bisogni di intrattenimento e di promozione commerciale o politica.

Tutti i traguardi tecnologici hanno un centro d'origine nella storia e nei bisogni
dell'uomo, ma prendono forma e identità in modo graduale e imprevedibile. Solo le
scelte e gli obiettivi di chi usa e controlla i media possono definire qual è
l'ago della bilancia di ogni singolo mezzo di comunicazione.

12

Potrebbero piacerti anche