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lunghissime
di Francesca Capelli - articolo pubblicato da Newton - Ottobre 1998
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è tipica di chi si attribuisce compiti di controllo e gestione all'interno di un rapporto.
"La bugia a fin di bene riflette una visione un po' onnipotente di sé e una scarsa
fiducia nelle capacità altrui di affrontare la realtà, per quanto spiacevole e dolorosa
possa essere", afferma Roberta Rossi, psicologa e sessuologa dell'Istituto di
sessuologia clinica di Roma.
Insomma, se non siamo ipocriti, dobbiamo riconoscere che nel nostro sistema sociale
la verità è sì un valore, ma solo a livello teorico. Un esempio? Tutti coloro che
lavorano in un'azienda sanno che, nei momenti di crisi, bisogna fingere con i clienti e
con la concorrenza che gli affari non sono mai andati così bene. Certo, un conto è la
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strategia d'impresa, un altro i rapporti interpersonali - d'amore o di amicizia - che
dovrebbero essere sempre basati sulla massima onestà e chiarezza. "Ma essere leali
non significa dire sempre la verità, in ogni circostanza e a qualsiasi costo", sottolinea
la psicologa Roberta Rossi. "Tenere qualche segreto è una prova di indipendenza e
maturità: sono i bambini che raccontando tutto alla mamma, gli adulti sanno anche
tacere. Soprattutto, una verità sbattuta in faccia in modo brutale può essere anche
un gesto aggressivo, attuato con lo scopo preciso di ferire". Un coltello per colpire alla
schiena, nascosto dall'alibi della sincerità. "In amore, poi, confessare una scappatella
"senza conseguenze" è anche un modo per liberarsi dei sensi di colpa e scaricarli sul
partner", prosegue Roberta Rossi. Un elogio della bugia, dunque? "Sì, se si tratta di
episodi singoli, parentesi che si aprono e si chiudono all'interno di un rapporto.
Purché non diventino pretesti per costruire una doppia vita". La bugia, dunque, è un
comportamento strategico solo se isolata. Altrimenti si innesca un circolo perverso dal
quale non è più possibile uscire: menzogne sempre più grandi e gravi, usate per
coprire le precedenti. E dal momento che sostenere queste complicate
"sceneggiature" è stressante (oltre a richiedere una memoria impeccabile), prima o
poi si finisce con l'essere scoperti.
A meno che non si abbia a che fare con persone che "vogliono" credere alle
menzogne. Con loro il gioco funziona a meraviglia. Ma allora si esce dall'ambito delle
bugie raccontate agli altri e si entra nel campo minato degli inganni che tendiamo a
noi stessi. "Bugie vitali": così le ha definite Daniel Goleman, ex docente di Psicologia
all'Università americana di Harvard e "scopritore" della cosiddetta intelligenza
emotiva (la capacità di riconoscere e gestire le emozioni). Secondo Goleman, la
mente di ognuno di noi ha una "parte cieca", incapace di vedere le cose
come stanno in realtà. E' grazie a questa "lacuna" della coscienza che possiamo
raccontarci le bugie vitali: realtà negate, o alterate nel loro significato, perché troppo
brutali e dolorose per essere sopportate. Così ci convinciamo che se non entriamo più
in un vestito dipende da un lavaggio sbagliato e non dal fatto che siamo ingrassati. O
crediamo che il partner faccia tardi la sera perché trattenuto in ufficio. Fino ad
accettare situazioni gravissime. Molti psicoterapeuti riferiscono come certi pazienti,
che da bambini hanno subito maltrattamenti in famiglia, tendano a descrivere i
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genitori violenti come persone affettuose ed espansive. Magari un po' severe, ma
sempre preoccupate del benessere dei figli.
La bugia vitale non funziona solo a livello del singolo individuo. Intere famiglie, gruppi
o sistemi sociali mettono in atto meccanismi di selezione delle informazioni,
ignorando quelle potenzialmente destabilizzanti. Non bisogna quindi stupirsi se le
violenze in famiglia vengono commesse per anni sotto lo sguardo di tutti prima di
essere denunciate. E si può interpretare in questa chiave il fatto che, durante il
nazismo, buona parte dei tedeschi negassero, in perfetta buona fede, quello che
avveniva nei lager. L'autoinganno è dunque un baratto con il quale accettiamo
un calo dell'attenzione in cambio del sollievo dall'ansia e dallo stress. Ma c'è
un prezzo da pagare per tutto questo: la mancanza di consapevolezza. Se dunque
una modica quantità di illusione può essere benefica, è altrettanto vero che ignorare i
problemi ci impedisce di risolverli. Perché non possiamo cambiare ciò che non
vediamo. L'antropologo e psicologo statunitense Gregory Bateson sosteneva che
"esiste sempre un valore ottimale oltre il quale ogni cosa diviene tossica: l'ossigeno, il
sonno, la psicoterapia e la filosofia. Qualsiasi variabile biologica ha bisogno di
equilibrio". Lo stesso vale per la sincerità e l'inganno. In qualche punto tra i due poli
di comportamento - vivere una vita di bugie e dire sempre la pura verità - c'è il
sentiero giusto che conduce al benessere e assicura la sopravvivenza.
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C'è un principio della comunicazione che mi sta molto a cuore ed è questo: < Il
significato di una comunicazione è la risposta che riceviamo >.
Quante volte ci è capitato di sentire qualcuno che diceva: "Ho parlato con lui, ma
proprio non capisce. Gli ho ripetuto il concetto in tutte le salse, ma non ci sente da
quell'orecchio!". Questo è il classico esempio di un messaggio che è caduto
nel vuoto dell'incomunicabilità.
Il principio di cui parliamo ci offre una chiave per capire dov'è finito il
messaggio che non è arrivato a destinazione. Se la risposta della persona che
vogliamo informare o convincere è assente oppure è diversa da quella che
attendiamo, il significato della comunicazione è uguale a 0. Una formuletta
semplice semplice che ci mette in gioco in modo totale nel processo comunicativo.
Siamo noi i primi responsabili dell'esito delle nostre parole. Questo significa che da un
lato siamo molto fortunati ma, dall'altro, adesso sappiamo che addossare sugli altri
l'accusa di "non aver capito" è una solenne fesseria. Possiamo dirci fortunati perchè,
se la responsabilità è nelle nostre mani, possiamo procurarci tutti gli strumenti
necessari per chiarire il nostro messaggio e per renderlo più efficace. Il primo passo
da fare in questa direzione è indossare i panni dell'altro: ascoltiamo le sue parole,
guardiamo i suoi occhi e il suo corpo per capire quello che si aspetta da noi. A questo
punto, se siamo stati capaci di < vestirci > con il modo di essere dell'altro, allora
smetteremo di dire che "non ha capito": non vorremo darci degli stupidi, vero?
La capacità di ascolto e di scelta della strada giusta non sono abilità magiche. Lo
diventano se si impara ad usarle bene, con l'esercizio e con l'umiltà nel riconoscere
anche la propria responsabilità in una comunicazione che non ha funzionato.
Parlare
Quando parliamo con qualcuno, la prima cosa da fare è spedire il messaggio nella
porta giusta. I cinque sensi sono le nostre finestre sul mondo, le nostre porte
percettive spalancate sulla realtà esterna. La vista, l’udito, il tatto, il gusto e
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l’olfatto sono le vie d’ingresso degli stimoli che riceviamo dal mondo esterno. I
sistemi sensoriali agiscono in due direzioni: ci mettono in grado di decodificare le
informazioni provenienti dall’esterno e ci forniscono la materia per costruire o
ricostruire le esperienze con la mente. La capacità del nostro cervello di creare
immagini o suoni mai vissuti si fonda proprio sulla elaborazione di esperienze
sensoriali archiviate nella memoria, che sono poi assemblate secondo nuovi schemi
per generare prodotti originali. Pensiamo, ad esempio, alla pittura, alla musica e a
tutte le forme di creazione artistica.
Con i sensi si percepiscono immagini, suoni, sensazioni, sapori e odori che, passando
per i canali sensoriali, contribuiscono a costruire la nostra rappresentazione
interna soggettiva della realtà esterna. Quale sia la forma di archivio preferito,
però, dipende dal canale sensoriale dominate di ciascuno di noi. Secondo la P.N.L
(Programmazione Neuro-linguistica), infatti, le persone sviluppano una preferenza
per un canale sensoriale che, intorno ai 12 anni, diventa la corsia preferenziale
attraverso cui transitano le informazioni che provengono dall'esterno.
Ecco un esempio più concreto. Una persona con sistema preferenziale visivo darà
maggior peso alle immagini (il concetto di ‘gatto’ richiama l’immagine dell’animale);
una persona di tipo auditivo è sintonizzata sui suoni (del gatto percepisce il
miagolio o il rumore delle fusa); una persona cinestesica, è concentrata sulle
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sensazioni (e del gatto, la prima cosa che percepisce è la sensazione del pelo al
tatto o magari le vibrazioni delle fusa).
Quando si conversa con qualcuno, quindi, è essenziale parlare con chiarezza e con
calore al suo cervello: se entriamo dall'ingresso preferenziale, troveremo la sua
disponibilità ad ascoltare tutto quello che abbiamo da dire.
Ma lasciamo perdere le fantasie e vediamo la rete com’è. Ogni cosa che accade è
comunicazione. Prima di pensare a ciò che possiamo dire o scrivere, l’importante è
saper ascoltare e capire. Chi vuole comunicarci qualcosa e perché? Siamo sicuri di
aver capito bene le sue intenzioni e ciò che sta cercando di dirci? Non è una fatica, né
uno sforzo, se abbiamo un atteggiamento disposto ad ascoltare. Diventa facilmente
un istinto, un modo di essere. Ed è molto più interessante capire, sentire il valore e il
senso della comunicazione che limitarci al significato superficiale delle parole.
Ascoltare vuol dire, prima di tutto, mettersi nei panni degli altri. Capire le cose dal
loro punto di vista. Ma si tratta anche di percepire ciò che forse un’altra persona non
aveva intenzione di dirci, ma involontariamente “trasmette” con il suo stile, il suo
comportamento, il suo modo di esprimersi. Il “tono di voce” si può chiaramente
percepire anche in un messaggio scritto. In rete cadono (o almeno si attenuano) i
ruoli, le posizioni, le gerarchie. Si crea con sorprendente facilità una “confidenza” che
non è sempre facile in un incontro “fisico”. Ma se non sappiamo ascoltare c’è il rischio
che anche in rete ci sia solo una serie di soliloqui, un “dialogo fra sordi”.
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Dice Karl Menninger: «Ascoltare è una cosa magnetica e speciale, una forza creativa.
Gli amici che ci ascoltano sono quelli cui ci avviciniamo. Essere ascoltati ci crea, ci fa
aprire ed espandere».
Ho trovato questa citazione sul sito listen (insieme a parecchie altre, di cui alcune
molto interessanti – per chi sa l’inglese).
Ascoltare è un affettuoso regalo che facciamo a chi sta cercando di dirci qualcosa. Ma
spesso è anche un grande regalo per chi ascolta.
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misteri cerebrali e non è possibile catturarli in una rete, per poi analizzarli con tutta
calma.
Si legge nella Pragmatica della Comunicazione Umana (pag. 43) che "ogni
comunicazione implica un impegno e perciò definisce la relazione. E' un altro
modo per dire che una comunicazione non soltanto trasmette informazione, ma al
tempo stesso impone un comportamento." Ogni comunicazione ha un aspetto
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informativo, di contenuto, e un aspetto di "comando", di relazione. Ed è questo
secondo aspetto che imprime una forma al contenuto, che ne definisce il
significato come metacomunicazione. Watzlawick aggiunge che "sembra che quanto
più una relazione è spontanea e 'sana', tanto più l'aspetto relazionale della
comunicazione recede sullo sfondo. Viceversa, le relazioni 'malate' sono
caratterizzate da una lotta costante per definire la natura della relazione,
mentre l'aspetto di contenuto della comunicazione diventa sempre meno importante."
E' probabile che chi legge abbia fatto un'esperienza di questo genere, ovvero di
scambi di opinioni, di discussioni o di litigi che avevano come oggetto argomenti di
nessuna importanza. In casi simili, quello che è in gioco non è la scelta di un mobile
rosso o di una lampada blu, ma la definizione di "chi gioca quale ruolo" all'interno
della relazione interpersonale.
Media
Quando si pensa ai media, in genere, lo si fa con in mente un'idea
piuttosto incerta e sfumata. Stampa, radio, televisione e Internet si
mettono a capo della nostra attenzione e si impongono come punto di
riferimento costante in qualunque discorso intorno ai media. L'indeterminato della
nostra idea è proprio l'oggetto di cui si parla, ovvero: cosa sono i media? La
risposta più semplice a questa domanda è "tecnologie". I mezzi di comunicazione,
secondo questo modo di vedere, sono nient'altro che macchine e supporti per
trasmettere le informazioni da un punto all'altro, da un'emittente a una pluralità più o
meno indistinta di destinatari. Per lungo tempo questa prospettiva è stata l'unica
chiave di interpretazione dei media e la tecnologia è ancor oggi vista come
profetessa di nuovi corsi della storia umana. Dalla nascita del telegrafo alla
televisione via cavo, i media sono stati spesso pensati come rivoluzioni tecnologiche
in grado, da sole, di rivoltare come un guanto la vita quotidiana delle persone.
Se torniamo più vicino a noi, scopriamo che gli albori della storia di Internet non
avevano per nulla come obiettivo la condivisione dei saperi su scala planetaria.
Arpanet, la rete sperimentale di computer creata nel 1969 dall'agenzia ARPA del
Dipartimento della Difesa americano, aveva lo scopo di garantire la continuità e la
sicurezza delle comunicazioni anche in caso di attacco nucleare su vasta scala. Così, a
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tutt'oggi, convivono nella Rete molteplici "finalità d'uso", che ne fanno un
mezzo buono per scopi politici e militari, come pure una via alternativa per
commerciare o per condividere informazioni con un numero di persone
potenzialmente infinito.
Tutti i traguardi tecnologici hanno un centro d'origine nella storia e nei bisogni
dell'uomo, ma prendono forma e identità in modo graduale e imprevedibile. Solo le
scelte e gli obiettivi di chi usa e controlla i media possono definire qual è
l'ago della bilancia di ogni singolo mezzo di comunicazione.
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