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Per

non dimenticare e per non far dimenticare, Edith Bruck, a sessant’anni dal
suo primo libro, sorvola sulle ali della memoria eterna i propri passi, scalza e
felice con poco come durante l’infanzia, con zoccoli di legno per le quattro
stagioni, sul suolo della Polonia di Auschwitz e nella Germania seminata di
campi di concentramento.
Miracolosamente sopravvissuta con il sostegno della sorella più grande Judit,
ricomincia l’odissea. Il tentativo di vivere, ma dove, come, con chi? Dietro di sé
vite bruciate, comprese quelle dei genitori, davanti a sé macerie reali ed
emotive. Il mondo le appare estraneo, l’accoglienza e l’ascolto pari a zero, e
decide di fuggire verso un altrove. Che fare con la propria salvezza?
Bruck racconta la sensazione di estraneità rispetto ai suoi stessi familiari che
non hanno fatto esperienza del lager, il tentativo di insediarsi in Israele e lì di
inventarsi una vita tutta nuova, le fughe, le tournée in giro per l’Europa al
seguito di un corpo di ballo composto di esuli, l’approdo in Italia e la direzione
di un centro estetico frequentato dalla “Roma bene” degli anni Cinquanta,
infine l’incontro fondamentale con il compagno di una vita, il poeta e regista
Nelo Risi, un sodalizio artistico e sentimentale che durerà oltre sessant’anni.
Fino a giungere all’oggi, a una serie di riflessioni preziosissime sui pericoli
dell’attuale ondata xenofoba, e a una spiazzante lettera finale a Dio, in cui
Bruck mostra senza reticenze i suoi dubbi, le sue speranze e il suo desiderio
ancora intatto di tramandare alle generazioni future un capitolo di storia del
Novecento da raccontare ancora e ancora.
Edith Bruck, di origine ungherese, è nata nel 1931 in una povera, numerosa
famiglia ebrea. Nel 1944, poco più che bambina, il suo primo viaggio la porta
nel ghetto del capoluogo e di lì ad Auschwitz, Dachau, Bergen-Belsen.
Sopravvissuta alla deportazione, dopo anni di pellegrinaggio approda
definitivamente in Italia, adottandone la lingua.
Nel 1959 esce il suo primo libro Chi ti ama così, un’autobiografia che ha per
tappe l’infanzia in riva al Tibisco e la Germania dei lager. Nel 1962 pubblica il
volume di racconti Andremo in città, da cui il marito Nelo Risi trae l’omonimo
film. È autrice di poesia e di romanzi come Le sacre nozze (1969), Lettera alla
madre (1988), Nuda proprietà (1993), Quanta stella c’è nel cielo (2009, trasposto
nel film di Roberto Faenza Anita B.), e ancora Privato (2010), La donna dal
cappotto verde (2012). Presso La nave di Teseo sono usciti La rondine sul
termosifone (2017) e Ti lascio dormire (2019).
Nelle sue opere ha reso testimonianza dell’evento nero del XX secolo. Nella sua
lunga carriera ha ricevuto diversi premi letterari ed è stata tradotta in svariate
lingue. È traduttrice tra gli altri di Attila József e Miklós Radnóti. Ha
sceneggiato e diretto tre film e svolto attività teatrale, televisiva e giornalistica.
Oceani. 117
Dello stesso autore
presso La nave di Teseo

La rondine sul termosifone


Ti lascio dormire
Edith Bruck
Il pane perduto

La nave di Teseo
© 2021 La nave di Teseo editore, Milano

Published by arrangement with The Italian Literary Agency srl, Milano,
Italia

ISBN 978-88-3460-578-3

Prima edizione digitale gennaio 2021


Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore.
È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.
Sommario

La bambina scalza
11152
Nuova vita
La realtà
La fuga
Uno, due, tre, uno, due, tre...

Lettera a Dio
La storia
quella vera
che nessuno studia
che oggi ai più dà soltanto fastidio
(che addusse lutti infiniti)
d’un sol colpo ti privò dell’infanzia

Nelo Risi
La bambina scalza

Tanto tanto tempo fa c’era una bambina che, al sole della primavera, con le sue
treccine bionde sballonzolanti correva scalza nella polvere tiepida. Nella viuzza
del villaggio dove abitava, che si chiamava Sei Case, c’era chi la salutava e chi
no. A volte si fermava e si introduceva di soppiatto nella cantina dove era
spesso confinata e legata Juja; dicevano che era pazza ma a lei sembrava
appena diversa dalle altre donne giovani e, con il suo cuoricino colmo di pietà,
ascoltava i suoi lamenti contro la famiglia cattiva che non le aveva fatto
sposare il suo ragazzo di nome Elek.
Lei avrebbe voluto farle una carezza anche se era sporca, ma quando si
avvicinò, non priva di paura, Juja le strappò il nastro rosso da una delle trecce,
e prima che le strappasse anche l’altro fuggì, preoccupata all’idea di essere
sgridata dalla madre o dalla sorella maggiore Judit, che si atteggiava a
vicemadre.
Le sorelle grandi grandi erano nella capitale a fare le apprendiste sarte,
anche un fratello era in una città meno importante. A casa restavano un fratello
pallidino più grande e lei, la più piccola, spesso chiamata Grattina, essendo
l’ultima di sei figli vivi; le avevano dato quel nome della pasta che la madre
grattava dal fondo della madia.
“Grattina, stai zitta” le dicevano se capiva troppo, invece di Ditke che era il
suo vezzeggiativo.
Nelle sue corse qualche contadino baffuto le aizzava contro il cane e quando
assillava la madre con i suoi troppi “perché?” lei non aveva tempo di
risponderle, al più alzava lo sguardo viola-azzurro al cielo dicendole: “Chiedi a
Lui e ringrazialo che è passato un altro inverno e la legna umida non piange
più nella stufa.”
“E il nastro, il nastro?!” le aveva urlato appena era rientrata a casa come
fosse senza una gamba.
“L’ho perso, l’ho perso” mentiva non potendo dire la verità, perché la
madre, quando aveva scoperto che andava a trovare Juja la pazza, non aveva
troppo esitato ad allungare la mano o a mandarla a letto senza cena, ben
sapendo che quell’ultima mocciosa di figlia che aveva cacato al mondo (così
diceva, se era esasperata) era attratta dai matti, dai vecchi seduti muti in strada
al primo sole e dai bavosi balbuzienti che voleva capire. Aveva una curiosità
poco sana, ma la madre riconosceva che era la prima della classe a scuola,
nonostante le leggi razziali, che il villaggio non applicava pienamente. E le tre
ragazze ebree, pur confinate all’ultimo banco, non subivano le leggi con la
stessa severità delle città. La piccola Ditke era seduta accanto alle due
correligionarie: Piri, figlia della merciaia Roth, Eva, figlia del bottegaio delle
spezie Reisman e lei, figlia di Stein Schreiber, di un padre che in mancanza
d’altro portava le bestie altrui per venderle al mercato della città più vicina per
un misero guadagno.
Piri la guardava di traverso, perché era troppo povera per il padre, che al
contrario del suo, con la barba e i riccioli, aveva l’aspetto di un goi1 e
frequentava poco la piccola sinagoga. Eva, la dodicesima figlia di un padre
ortodosso, era un’amica. Ma quando per un tema sulla primavera Ditke risultò
l’unica premiata della classe e quasi scoppiò della felicità, tutte la invidiarono.
Quel giorno non camminava ma volava a casa sbandierando il premio che
consisteva in una cartolina con una rondine a colori e una scritta sul retro:
“Alla mia alunna più brava, più meritevole” firmato Tarpai Klara, l’insegnante.
Per strada gridava di gioia: “Mamma!” La gente, i vicini si affacciavano, solo i
suoi sembravano spariti, e giunta all’ingresso vide la madre e la sorella al sole
nel cortile che estraevano le piume dei cuscini.
“Psss, che sventoli, che sventoli? Non vedi, giù le mani, non fiatare! Raccogli
subito una a una le piume che hai fatto svolazzare!”
“Guardate, guardate!” agitava ancora la cartolina, mostrando la scritta sul
retro e creando una nuova nuvola.
“Ci mancava solo che non ti premiassero! Non fai che recitare poesie al
posto delle preghiere” borbottava la madre, ma con uno sguardo benevolo e un
sorriso appena accennato capace di tramutare la sua espressione severa in una
dolcezza magica che le restituiva bellezza e giovinezza.
“Mi dai un premio anche tu, mamma? Un bacio.” Le chiese quel dono, raro,
se non nei momenti di lutto, di partenze e arrivi. Quando la madre era andata al
matrimonio della seconda figlia Mirjam, sposata con un giovane polacco
fuggito dal suo paese. E quando il padre decorato in guerra era tornato a casa,
escluso dall’esercito nel 1942. E quando era morta la nonna materna che era
vecchia vecchia agli occhi della dodicenne Ditke, che fissava quel corpo
immobile per terra avvolto in un lenzuolo bianco finché, su due assi, non era
stata portata via, nel piccolo cimitero vicino a casa di Eva, ma né suo padre, né
quello di Piri erano presenti perché si diceva che erano kohen. La piccola Ditke
tristemente elencava dentro di sé i nomi delle famiglie ebraiche del villaggio:
Szàmeth, i due Grosz, Kràmer, Klein, Printz, Weisz, due Reisman, Ròth e Bieber,
fratello di sua madre. Solo i tre membri della comunità senza barba e riccioli
erano venuti.
“Loro sono nobili, papà?” chiese al padre.
“Come sacerdoti. Meditano, studiano, sono kohanim e fanno dozzine di
figli” mormorava.
“E non ricordano neanche i loro nomi” commentava la madre.
“Non discutete adesso qui” si intromise Ditke stringendo la mano materna
calda, morbida mentre cercava di decifrare la preghiera rituale che iniziava.
“Sia il Suo grande nome benedetto per tutta l’eternità. Venga il suo regno
durante la vostra vita e durante l’esistenza di tutto il popolo d’Israele...”
Al nome di Israele, sua madre, fino ad allora senza una lacrima, era
scoppiata in un pianto che non poteva non arrivare al cielo. E il padre la
stringeva a sé come non l’aveva mai stretta, ripetendo il suo nome, Frida,
Friduska (in ebraico Deborah). E in una strana, insolita, unita felicità i tre figli
si aggrappavano ai genitori: Judit, la più religiosa, Jonas, il più pallido, e la
piccola Ditke. Sara, Mirjam e David raramente tornavano a casa.
Dopo la settimana di lutto rituale, seduta per terra e accudita soprattutto da
Judit, la madre s’era sollevata piena di dolori. Invece di camminare, sgranchire
le membra, fissava lo sguardo sulla eterna vestaglia della nonna, che non la
lasciava mai lavare. L’aveva presa nelle mani tremanti e, turbata alla vista di
una delle due tasche ricucita, chiamava i figli accanto come se quella tasca
celasse qualcosa di brutto, di sacro, o un tesoro segreto.
Piano piano, con gli occhiali, aveva cominciato a disfare il filo, scuro come
l’indumento, dove la figura della nonna sempre più piccola era persa. Il filo al
primo tocco si era disfatto e, col fiato sospeso, tutti volevano vedere cosa c’era
all’interno.
La madre, non priva di timore, infilando la mano e, non credendo ai propri
occhi alla vista delle diverse banconote, aveva emesso un rumoroso respiro
misto: “Ah, ah, ah!” I figli restarono a bocca aperta e, alla sola vista delle due
fedi d’oro e di una catenina con la stella di Davide, gridarono con gioia, mentre
la madre, stringendo quegli oggetti, piangeva.
“Con questi” sollevò la mano “costruiremo una nuova casetta prima che ci
cada addosso questa vecchia catapecchia. Non è tempo di costruire ma... vostro
zio, il mio buon fratello Berti, ci accoglierà nella sua grande casa nel quartiere
dei signori e delle temute autorità: il Comune, la Gendarmeria, il giudice e
maestro Rinkó. In un paio di mesi avrete sopra la testa un tetto con le tegole
rosse, non questa paglia marcia.” E così avvenne.
Il padre, Judit e Ditke, con l’aiuto di uno zingaro amico, pestavano a piedi
nudi l’amalgama per i mattoni di fango.
Il sole splendeva come non mai. Le nuvole si allontanavano allo sguardo
scrutatore della madre che cucinava all’aperto.
Dall’alba al tramonto lavoravano tutti. Ditke, per la prima volta, attendeva
con ansia la chiusura estiva della scuola e parlava della casa come fosse un
castello, senza rendersi conto che sarebbe stata solo uno stanzone, la cucina e
poi, forse, un’altra stanzina.
Nel villaggio qualche volta capitava anche un giornale, che Gyula passava al
padre di lei, e lui lo leggeva senza farlo vedere né ai figli, né alla moglie, che era
in costante allarme celato.
C’era anche un omino con un tamburino che diffondeva le notizie del
mondo richiamando con il suo battere gli abitanti, che erano soprattutto donne
in nero, scolari e vecchi. Ditke non mancava mai tra loro, ascoltava l’omino che
parlava del glorioso esercito tedesco e ungherese e gli alleati che combattevano
in Russia, a Kursk: gli inciampava la lingua, la voce si perdeva tra i colpi del
tamburino, diventando tutta confusa e incomprensibile per la gente
semianalfabeta.
I ragazzi ridevano, le vecchie si segnavano con la croce, gli uomini
scuotevano la testa bianca bestemmiando e sputando il tabacco masticato.
Ciò che meravigliava Ditke era di essere l’unica ebrea presente nella piccola
comunità; gli altri sapevano già tutto?, perché rimanevano a casa, cosa
temevano tanto?
Il tetto rosso presto splendeva e il salice piangente verdeggiava dietro la
finestra dell’unica stanza dove dormivano i tre figli nello stesso letto e la
mamma e il papà su un lettino in cucina.
Nella piccola casa era grande la felicità. L’ultimo giorno di scuola Ditke,
gonfia di orgoglio, al ritorno a casa teneva lo sguardo fisso sul tetto come fosse
la bussola per trovare il tesoro.
Non è che stessero male dallo zio Berti, risposato dopo pochi mesi di
vedovanza con una bella vedova giovane, Jolanka, con un figlio adolescente
Ervin, che molestava Ditke; voleva trascinarla nel bosco, oltre la diga dove
scorreva il vecchio fiume Tisza. Il ragazzo malizioso la provocava come fosse
un uomo e lei una donna: “Donna!” disse la madre, quando Ditke, spaventata,
corse da lei con le gambe insanguinate.
“Da adesso sei una donna, e avrai quella cosa lì ogni mese” le indicò la fonte
senza dire altro e senza pronunciare il nome del pube, come fosse il posto della
vergogna.
Solo per colpa di quel ragazzaccio, stava male dallo zio che amava, ma non
diceva niente neanche a Judit, perché la rimproverava di specchiarsi troppo e la
chiamava la bella specchiatrice, smorfiosa.
Lo zio buono era proprietario di un negozio con un’osteria adiacente e
spesso si sedeva con il padre di Ditke, Adam, Shalom in ebraico, a bere una
birra o un bicchierino di pálinka che sua sorella gli rimproverava.
“Ma sii buona, Frida” le diceva il fratello; ben pasciuto, alto. “Adam fa quello
che può, dove c’è scritto che un povero uomo deve mantenere sei figli? Io ho
solo una figlia e la mia adorata nipote Erika, neanche un maschio e non mi
lamento di niente e non credere che io sia migliore di tuo marito, sono solo più
fortunato.”
Il discorso del fratello maggiore, uno dei tanti sparsi, aveva intenerito il
cuore della sorella e per qualche tempo regnò l’idillio nella piccola casa. Finché
Ditke non era tornata a casa piangendo perché un suo compagno-amico non
l’aveva salutata. I genitori, ammutoliti, non sapevano cosa dirle di fronte a
quella disperazione. Il padre, taciturno come al solito, quando si arrabbiava per
qualcosa, se n’era andato sbattendo la porta. La madre, delegata alla cura dei
figli, tra profondi sospiri, le diceva che non era niente, solo uno scherzo, un
dispetto dei maschi.
“No, no” gridava lei, e la madre, inghiottendo le sue lacrime e le parole, la
strinse a sé, come se quel tocco fosse la bacchetta magica.
Al sentirsi dire “Ditke, Ditke” le sue lacrime cessarono, dimenticava tutto e
la vita le sorrideva di nuovo e nel suo cuore rabbuiato splendeva il sole. Judit le
stava per dire qualcosa, ma, a un’occhiata materna, aveva chiuso la bocca. Ma
dietro il silenzio del padre e l’amore improvviso della madre, Ditke avvertiva
qualcosa di grave. Fin da piccolissima rigettava le cose che potevano farle
troppo male, non voleva né sentirle, né vederle, lasciava che la giudicassero
superficiale e impreparata alle avversità piccole o grandi della vita. Giocava.
Studiava. Immaginava un futuro da adulta felice, ricca, per aiutare i genitori:
anzitutto sostituire i denti mancanti della mamma, curare i dolori delle ossa del
papà dovuti alle guerre, e pagare l’operazione del fratello pallido che soffriva
per l’appendicite, e il medico condotto non veniva a visitarlo.
Nella sua testa di notte si rincorrevano tanti pensieri, piani, e una riserva di
speranza, ma le sarebbero bastati per tutta la vita?
Una delle rare volte in cui tornavano a casa da Budapest le due sorelle
maggiori, Mirjam la bruna, sposata già incinta, le aveva portato la prima
bambola vera, e lei era al settimo cielo dalla gioia. Saltava come se avesse le ali
e la mamma le diceva che poteva acchiappare anche un uccello al volo. Sara, la
bionda primogenita, sembrava vergognarsi della povertà. Era come gonfia di
rabbia, scontenta, seria, si sentiva meno bella di Mirjam, scherzosa, leggera. Per
Ditke non erano solo belle, ma eleganti cittadine della capitale dove presto
sarebbe andata anche lei.

Il primo vero grande spavento lo avevano avvertito tutti quando Judit era
tornata a casa dopo essere stata dallo zio Berti, sempre soccorrevole, che
abitava vicino alla sua ex scuola, e il maestro Rinkó, che aveva incrociato, con
un sorriso beffardo, l’aveva salutata con “Heil Hitler!”. Con sguardo sconvolto
la ascoltavano come se quello fosse il nome del demonio; la cucina, i muri
bianchi si adombrarono, nell’aria aleggiava quel nome come una macchia
scura. Né Ditke, né Jonas, né Judit sapevano bene di chi fosse quel nome. Solo i
genitori lo sapevano, ma come dirlo ai figli e cosa dire? Con quel saluto era
entrata un’ombra permanente, una nebbia nelle anime che non produceva né
parole, né illuminazione.
Dalla bocca del padre sfuggì una bestemmia e sputò fuori: “Non bastava
quel vile di Horthy, quell’assassino di Szálasi!” e come al solito sbattendo la
porta se ne era andato.
“Che il buon Dio ci protegga da loro” mormorava la madre. “Hanno
infettato perfino questo buco fangoso e ignorante. Il mondo è malato, figli miei,
il male ha contagiato tutta l’Europa. Ma non abbiate paura, Dio non ci
abbandonerà a questi cani rabbiosi che incitano anche la brava gente ai crimini
più nefasti.”
“Adesso capisco cosa diceva cantando un gruppo di ragazzi per strada
mentre passavo” rifletteva a voce alta Ditke e si metteva a cantare:
Éljen a Szálasi meg a Hitler
üssök a zsidót a bikacsökkel
egy cini két cini
megdöglött a förabi
Bátorság éljen Szálasi2
“E non cantare! Morditi la lingua!” gridava la madre e la piccola Ditke se la
mordeva fino a farla sanguinare e piangeva di dolore. “Non l’ho inventata io.” E
la madre le faceva sciacquare la bocca con l’aceto per fermare il sangue. Come
quando si era ferita il ginocchio a casa di Eva per colpa del padre che un sabato
pomeriggio era apparso sulla porta in un lungo camicione bianco e l’aveva
cacciata via perché non voleva la figlia di un padre poco ortodosso.

“Mamma, cosa succede, perché non ci vogliono? Anche noi siamo


ungheresi, no?”
“Per loro no, solo ebrei. Siamo ebrei. La nostra patria promessa è la
Palestina” assumeva un tono da favola. “Oh, è il paradiso terrestre che ci
attende a braccia aperte, lì si ameranno tutti, ricchi e poveri, grandi e piccoli
come fossimo una sola grande famiglia...”
“E quando ci andiamo, mamma?”
“Verrà, verrà quell’ora, adesso calmati, di nuovo si aprirà il Mar Rosso...”
“Non ti credo, non ti credo, sei una bugiarda, mamma, non mi dici la verità!”
“Vuoi dare della bugiarda a tua madre? Tu! L’ultima dei miei figli, ma
perché ti ho messo al mondo?”
“Non te l’ho chiesto io. Potevi risparmiarmi.”
Madre e figlia evidentemente pentite per le frasi pronunciate si guardarono
ammutolite. Ditke che aveva sentito cento volte le favole sulla Terra Promessa
che li attendeva, in fondo al suo cuore voleva credere alla madre ma “quell’ora”
era estremamente lontana anche per la sua fantasia fertile.
“Mamma, non volevo...” balbettava facendo un passo verso la figura amata.
E lei, alzando gli occhi, diceva qualcosa in yiddish al suo interlocutore
quotidiano che Ditke tentava di decifrare e in un tono rappacificante, chissà
perché, per la prima volta chiese alla madre se Dio parlava anche lo yiddish.
“Certo!” esclamò convinta, e Ditke era scoppiata in una risatina mista al
pianto.
“Sei impazzita?” temeva davvero della sanità mentale della piccola
dall’umore troppo altalenante. E l’atmosfera nella nuova casetta, anche il
silenzio, l’aria stavano diventando minacciose.

La vacanza estiva non era fatta di giochi, di corse con le due amiche di
Ditke; Lenke, la sorella minore di Endre, portava i giornali della città, che
venivano letti solo dal padre e subito finivano nella stufa. Con la seconda
Lenke, sua coetanea e più vicina della loro casetta, si incontravano sempre di
meno. La scusa era il lavoro. Ma anche Ditke e Judit dovevano lavorare, fare le
braccianti, scavare le patate, raccogliere le pannocchie e la frutta per averne
una parte secondo la generosità dei proprietari terrieri. Perfino la madre che
soffriva il caldo andava con loro. Per il padre non c’era più nessuna offerta,
anche la popolazione si stava impoverendo.
Non andava più bene come prima neanche l’osteria dello zio Berti. La guerra
aveva decimato gli abitanti del villaggio; i vecchi più che bere fumavano, le
donne pregavano nella grande chiesa protestante e si facevano consolare dal
parroco molto umano con moglie e due bei bambini. Il prete cattolico veniva
una sola volta a settimana per dare lezioni a scuola ed era severo, punitivo e
sgridava anche Ditke che rispondeva alle domande al posto delle compagne.
“Tu stai zitta, non ti riguarda, ripeti cinque volte il nostro Signore Cristo è
risorto.”
“Io non posso” balbettava la povera Ditke terrorizzata.
“Allora vattene!” E lei sfatta dalla vergogna volava a casa. Non come quando
sventolava la cartolina-premio con la rondine, ma accecata dalle lacrime.
La madre inutilmente l’interrogava: lei non riusciva a parlare, né voleva
raccontare l’accaduto, perché il nome di Cristo non si pronunciava mai a casa.
Preferiva mentire, dire che era stata colpita cinque volte con la verga sulle
unghie perché parlava con Eva durante la lezione di storia.
“Non è la fine del mondo, non disperarti” la consolavano la madre, la sorella
e il fratello; tutti si mostravano così buoni e amorevoli, come se intuissero il
vero motivo di quel pianto; l’ennesimo episodio di razzismo contagioso.
L’ombra che aleggiava in casa e fuori stava diventando sempre più scura e
penetrante.
Il sole estivo non sembrava riscaldare le anime. Anche i fiori nei bei
giardinetti erano assetati e le persone non cantavano più come prima, nelle
sere, nei cortili, le bellissime canzoni popolari, mentre sbucciavano le
pannocchie seccate o staccavano le foglie dai rametti di menta. Il silenzio
diventava sempre più minaccioso, solo i ragazzi cantavano quella canzone che
Ditke aveva ripetuto a casa alla madre che le aveva fatto mordere la lingua. Ma
lei non le aveva raccontato di aver anche risposto a quel canto rovesciando il
testo, dicendo “che crepino Szálasi e Hitler”.
Sapeva che la madre si sarebbe preoccupata che gliela facessero pagare. Gli
ebrei andavano alla sinagoga a testa china, lungo i muri come fossero ladri o
clandestini. A volte i giovani gli tiravano la barba o li facevano finire nei
fossati.
Se si recavano all’unica pompa dell’acqua potabile venivano spinti in fondo
alla fila e non di rado sputavano nei loro secchi. E tutto era diventato legittimo,
anche un bambino si sentiva potente imitando i grandi.
La paura, celata soprattutto ai piccoli, si esprimeva nei genitori con
impazienza, nervosismo e proibizioni di uscire e sfidarsi in una corsa nelle
viuzze. O scendere oltre la diga nel bosco pieno di more, di bacche e acetoselle
che Ditke raccoglieva per la salsa che preparava la madre. Il bosco nascondeva
tesori masticabili, rami secchi per la stufa e legna da rubare nei lunghi inverni
gelidi. Era anche un parco giochi, angoli segreti per ragazzi innamorati. E dalla
parte interna della diga lungo l’abitato una pista per le slitte fatte a casa.
La diga era il corso per tutti, in specie la domenica all’uscita dalla chiesa, le
vecchie contadine con i fazzoletti sulla testa e le gonne lunghe scure sembrava
seguissero un funerale.
Ditke chiedeva spesso ai genitori cosa stesse succedendo e poneva tanti
“perché, perché?”. La madre le rispondeva con sospiri muti, il padre diceva che
sarebbe passato tutto con la fine della guerra e il male non avrebbe vinto, che la
Germania che aveva avvelenato l’Europa avrebbe dovuto soccombere ed era già
in agonia.

L’estate scomparve in un baleno, come se non ci fosse mai stata. Il sole era
freddo, nemico, l’aria autunnale entrava dalla finestra che una mano invisibile
aveva rotto con un sasso lanciato dalla fionda.
“Il vetro! Dio mio, Il vetro!” si disperava la madre. “Che il Dio rompa la
mano di chi lo ha fatto, che...”
“Calmati, sono solo dei ragazzi, Frida, giocano. Lo farò aggiustare io da
Gyula, adesso chiudo il buco con un cartone. Le tue maledizioni sono vane
come le tue preghiere.”
Inutilmente la consolavano sia il marito che i due figli, Judit la più ascoltata
e Jonas il più protetto. Ditke si incontrava spesso con il ginnasiale Endre. E a
scuola recitava con fervore, come tutti, i versi patriottici. Inni al Dio degli
ungheresi, come se esistesse! E il martirio del popolo sempre calpestato.
Pur essendo considerata soltanto un’ebrea, le sfuggiva anche qualche
lacrimuccia per il suo Paese, dove era nata e dove correva felice nella polvere
scalza.

L’autunno precoce secondo sua madre era voluto da Dio come tutto ed era
sfociato presto in uno degli inverni più gelidi mai visti, sempre opera di Dio per
punire le sue creature che agivano contro i suoi comandamenti e anche nel suo
nome. Il mondo retrocesso alla barbarie.
“Mamma, mamma smetti di attribuire a Dio tutto il Bene e non il Male. Dio
non è buono e cattivo insieme? Mamma, non c’è niente di giusto. Spiegami
perché a scuola non c’erano né Piri né Eva!”
“Non possono ma tu sì, per merito di tuo padre e delle sue medaglie nelle
guerre mondiali, per la Patria, poveraccio.”
“Sii buona con papà. Io sono così felice quando gli lavo i piedi stanchi o la
schiena magra e giovane come quella di un ragazzo. Papà è il mio amore.
Anche il tuo?”
La madre fece un sorriso dolceamaro. Lei chiedeva e voleva sapere tutto e
nello stesso tempo era una bambina che si vezzeggiava da sola; parlava con la
sua bambola, diceva al salice di non piangere, le piaceva tutto ciò che sbucava
dal suolo, anche l’odore della terra. E pensava anche molto, ma la madre
scambiava la sua sensibilità per debolezza e a casa la chiamavano la saccente
presuntuosa.
Delle sue compagne assenti nessuno le dava spiegazioni a casa. Solo la
buona maestra Tarpai Klara le diceva, vedendo il suo sguardo perso sui loro
posti vuoti, “mi dispiace” con un’espressione di chi non è in grado di fare
niente.

Anche il Natale aveva fretta di arrivare e le grida dei maiali sotto i


coltellacci erano come un allarme di dolore universale, insopportabile all’udito.
Quella sirena di agonie tremende che risuonavano in tutto il villaggio spezzava
il cuore e le orecchie.
Non cadeva come al solito neppure la neve immacolata a vestire di bianco
gli alberi, i tetti e le stradine fangose. Come se neanche il cielo sapesse che fare,
piangere con la pioggia o illuminare la vista con i suoi allegri danzanti fiocchi.
Tutto era grigio tendente allo scuro, i giorni e le notti si assomigliavano.
“Neanche il cielo vuole più festeggiare niente” mormorava la mamma a
letto, mentre da fuori giungevano rumori e la paura ghiacciava il sangue a tutti,
che solo nell’udire le prime note si calmavano.
“Sono venuti! Sono venuti a cantare come ogni Natale,” urlava felice Ditke,
“sono loro i miei amici, sentite, sentite.”
Per la nascita benedetta
del nostro Signore Cristo
cantiamo versi angelici
per la santa festa
versi che nei campi di Betlemme
risuonavano da tempo così;
sia gloria ed elevazione per gli uomini
di buona volontà per tutti i popoli
e le nazioni.

“Adesso fanno gli auguri!”


“Iddio ci dia più sere di Natale, non così tristi, più gioiose, e l’augurio di
cuore.”

Come al solito nel villaggio davano dei soldini o un po’ di dolci ai ragazzi
che cantavano sotto le finestre e per la prima volta madre e padre, sollevati
dallo spavento ignoto, gli offrivano da quel poco che avevano senza discutere.
A Ditke, pur non festeggiandolo, piaceva il Natale per gli alberi addobbati
con noci, caramelle e mele avvolte in carte d’argento o d’oro e la candelina in
cima con la sua fiammella che aggiungeva un po’ di luce alle lampade a
petrolio.
L’albero più bello e più scintillante che si poteva ammirare sempre era nella
grande casa della piccola Lenke, dove Ditke più che per l’albero andava per
vedere il ginnasiale Endre in vacanza scolastica.
Si immaginava già come sposa al suo fianco, non per gioco come accadeva
da più piccoli, e si rammaricava che ciò non si sarebbe mai potuto avverare
perché lui era cattolico e lei ebrea. Peccato, quante belle poesie potevano
leggere insieme a letto! Amavano ambedue studiare, leggere gli stessi poeti, e
lui si identificava con il poeta che leggevano insieme, e lei con la donna che il
poeta amava, e stare a guardarsi era un incanto. E il padre di Endre, che lei
chiamava zio Gyula, con una strizzata di occhio sembrava benedirli.
Il silenzio natalizio improvvisamente venne interrotto dal suono sinistro del
tamburino. E l’omino che sembrava di neve, ma dalla voce più energica del
solito, aveva reso pubblica la notizia che gli ebrei dopo le sei non potevano
uscire di casa, né lasciare il villaggio, né viaggiare. Ma gli adulti lo sapevano già
da tempo?, si chiedeva Ditke e finalmente aveva capito l’assenza dei tanti
familiari, zie e zii e altri parenti al funerale della nonna.
Sul villaggio era sceso un silenzio bianco. Le fioche luci nelle piccole case
sembravano quelle di un cimitero. La neve improvvisa e abbondante bloccava
gli usci. I vetri delle finestre all’esterno erano ghiacciati, all’interno tutti
piangevano insieme alla legna bagnata nella stufa.
“Che altro vuole ancora Iddio da noi?” chiedeva la madre con un sospiro nel
semibuio. “Vuole metterci alla prova?” e le sue domande restavano sospese
nell’aria affumicata.
Sulla bocca del padre tremavano bestemmie trattenute. La madre ordinava a
Ditke, sempre più magra, di uscire dalla finestra per riempire i secchi di neve
per avere l’acqua a casa, perché l’unica fontana era ghiacciata.
Per liberare l’uscita era arrivato zio Gyula con uno dei suoi contadini e
insieme avevano spalato la neve. Ditke saltava di gioia quando avevano aperto
la porta e l’ambiente si era illuminato di quel biancore esterno che quasi
accecava.
Il fiato dei due uomini era come una nuvola calda e, prima che cadesse la
neve dai loro stivali alti sul pavimento di terra battuta, se ne andarono.
“Dio vi benedica” li salutava la madre con infinita gratitudine. Il padre gli
strinse la mano forte.
“Vedi, mamma, vedi: dopo il male viene il bene, dopo la pioggia viene il sole,
dopo il buio viene la luce, dopo...”
“Stai recitando una delle tue poesie?”
“No, mamma, l’ha scritta la vita, non io.”
“Chiamala vita...”
Il padre, come sconfitto, umiliato, si era riseduto al tavolo della cucina con
la testa tra le mani.
“Papà, papà” si misero a ballare i tre figli per allontanarlo dai suoi pensieri
neri.
“Adam” gli si avvicinò anche la moglie e in un tono pacifico, dolce,
mormorò che era l’ora di fare un bel tè con la neve.
Da semiprigionieri, con l’aiuto dello zio Berti spinsero i giorni verso la
Pasqua, festa della liberazione dall’Egitto. Grazie a Mosè salvato dall’acqua,
figlio dell’acqua, raccontava la mamma, cosa che a Ditke suonava sempre come
una delle favole più fantastiche: “Mosè era figlio di Amram e di Jokebed, e
doveva essere ucciso per ordine del faraone Ramses secondo. Invece,
miracolosamente, venne salvato dalla figlia del sovrano e allevato alla corte e
cresciuto come figlio della principessa. Ma da adulto uscì dal palazzo per vedere
i suoi fratelli schiavi, preferiva stare con loro, anche se era maltrattato dal
popolo di Dio. Un giorno uccise il crudele ispettore egiziano che sorvegliava il
lavoro e dovette fuggire. Si sposò, ebbe un figlio che si chiamava Gherson e nel
deserto di Madian gli apparve l’Eterno... E...” continuava Ditke “...a Mosè si
rivelò con nome glorioso: ‘Io sono quegli che sono, Yahweh, in ebraico egli è,
ho veduto l’afflizione del mio popolo che è in Egitto e sono venuto per
liberarlo’” sfuggiva un sorrisino storto a Ditke e uno sguardo severo della
madre che le chiudeva la bocca.

Il cielo si riaprì alla tredicesima primavera di Ditke che, liberandosi dalle


scarpe consumate, dopo un lungo respiro correva di nuovo scalza nella polvere
tiepida. Ma questa volta la seguiva anche Juja, la pazza che sputava alle sue
spalle, insultandola con parolacce.
A casa non ne aveva fatto parola, ma durante la settimana della Pasqua
ebraica non si mosse più. Sia lei che il padre seguirono il rituale festivo con
insolita serietà e spiritualità, ma privi di gioia e canti. I figli sopportavano
meglio anche lo stomaco semivuoto per la mancanza del pane e con l’azzimo
scarso che doveva durare otto giorni.
Ma la buona vicina di casa Lidi aveva donato subito la farina per il pane alla
fine della festa, che cadeva quasi sempre in aprile, e le mani amate della madre
con gioia visibile stavano lavorando nella madia, dando pugni e schiaffi alla
pasta. Nelle grandi ciotole di legno, durante la notte, sarebbero ben lievitate per
essere infornate all’alba.
La madre era già semisveglia per preparare il fuoco quando bussarono forte
alla fragile porta, e si svegliarono di colpo tutti.
Prima che potessero chiedere “Chi è?”, ai successivi colpi, sempre più
violenti, la porta cedette. Nel vano apparvero due gendarmi che urlavano di
uscire entro cinque minuti, con un solo ricambio di abiti, lasciando valori e
denari a casa.
“Il pane, il pane!” gridava la madre.
“Svelti, svelti!” ripetevano loro.
Il padre in mutande gli mostrava le sue decorazioni di guerra.
“Non valgono niente né tu, né queste” e le buttarono per terra.
“Papà, papà reagisci, fai qualcosa, tu che sai sparare spara, ribellati!” urlava
la piccola Ditke che venne stordita da uno schiaffo. Tutto ciò che accadde in
quei minuti non poteva essere qualcosa di reale per nessuno.
La madre parlava delle pagnotte da infornare mentre buttava alla rinfusa dei
vestiti nell’unica valigia e nei sacchi. Ditke cercava la sua bambola che, nella
confusione, non si sa come, era finita schiacciata sotto una delle ciotole con la
pasta da lievitare. Judit seguiva a ogni passo la madre come un’ombra benefica,
Jonas si nascose dietro il padre che si aggirava nella casa alla ricerca di niente,
ed era ancora in mutande. I due gendarmi a Ditke sembravano sempre più
grandi, enormi, facevano grasse risate, riempivano il vano della porta, mentre
noi ci rimpicciolivamo.
“Via, via, svelti!” abbaiavano e bestemmiavano.
La madre ripeteva “il pane, il pane”, come se volesse salutare le pagnotte e
difenderle, e persino controllarne la lievitazione. Ditke, per prima, venne spinta
fuori e stupita guardava nel cortile la famiglia dei Reisman, con tutti i figli più
piccoli, compresa Eva. Oltre il pane, la madre chiamava i figli lontani, Sara,
Mirjam e David, come se potessero essere dietro la porta scardinata dalla quale
vennero spinti tutti fuori, mentre il padre insisteva di chiuderla.
Anche la ragione sembrava abbandonarli e i giovani gendarmi si divertivano
a guardarli.
Con i Reisman, per la prima volta così vicini, avevo scambiato un saluto
muto. Il bambino più piccolo in braccio alla madre di Eva piangeva disperato e
in quel pianto c’era un dolore puro, universale. Un dolore e un grido come
quelli dei maiali di Natale sotto i lunghi coltellacci. Gli aguzzini che parlavano
la loro lingua li ferivano con ogni parola, dirigendoli come fossero pecore verso
la piccola sinagoga, dove c’erano già tutti gli ebrei del villaggio. Chiedevano
muti con lo sguardo da bestie spaventate “Che succede, che succede?” come se
le loro parole, le loro domande, non avessero più né senso, né valore. Le uniche
voci che contavano erano quelle dei gendarmi che pretendevano soldi, valori, le
fedi, gli orologi da polso che ben pochi avevano. Perquisivano donne e uomini,
controllavano gli orli dei vestiti e i cuscinetti delle giacche con parole sempre
più offensive: “Pezzenti, straccivendoli, spilorci, nasoni che pisciano in bocca,
brutti, sporchi ebrei via, via da qui!”
“Dove, dove?” si sentiva una voce.

“Il treno, il treno! Lo stesso di Endre!” sfuggì dalla mia bocca,


improvvisamente adulta, quando la nostra triste carovana sui carri trainati da
cavalli giunse alla stazione attraverso il villaggio, con qualche lacrima al nostro
passaggio e qualche segno della croce dietro le finestre chiuse.
“Dio, Dio, pane, pane!” invocava ancora la mamma, spinta sul treno nel caos
più totale dai gendarmi e da giovani croci frecciate.
Le famiglie cercavano di restare insieme e appena dentro lo scompartimento
crollavano tutti sulle lunghe panche di legno con una stanchezza millenaria.
Nel silenzio religioso si udiva solo il rumore ritmico del treno che sembrava
andare verso l’infinito.
Il ta tam, ta tam spaccava i nervi, aumentava i battiti dei cuori e il pianto del
bimbo nelle braccia della madre di Eva, che finalmente, superando il pudore e
celandosi con una sciarpa, gli aveva chiusa la bocca con il seno.
Nessuno avrebbe potuto dire se il viaggio stesse durando molto o poco, il
tempo reale, come la mia infanzia, era sparito e quello interiore ciascuno lo
viveva solo secondo i propri sensi.
Io volevo tornare nella pancia della mamma e non nascere mai più. Judit si
mostrava forte, Jonas era di un pallore bianco, papà pieno di rabbia inesplosa.
La mamma continuava a invocare i figli lontani e pensava alle cinque pagnotte
già troppo cresciute e crollate su se stesse. I più religiosi mormoravano
preghiere irritanti mentre un segnale indicava il capoluogo della regione. Il
treno cominciava a rallentare e piano piano aveva raggiunto la stazione dove
oltre a noi scesero tutti gli ebrei della zona.
A furia di urli e spinte i fascisti armati ci avviarono a piedi in un quartiere
murato della città, che molti di noi vedevano per la prima volta.
“Il ghetto, il ghetto”, correva da una bocca all’altra la parola nuova.
L’ingresso sbarrato venne aperto e in un batter d’occhio le famiglie aggrappate
le une alle altre come greggi vennero ammassate nelle case già semioccupate da
cittadini di ogni dove.
E lì, oltre il muro alto, apparve subito, come sospeso nell’aria nebulosa di un
aprile mai così freddo, un gigantesco straniero dalla voce grossa, che urlava in
tedesco. Una specie di Moloch che non aveva il simbolo delle croci frecciate.
“È la svastica!” pronunciò mio padre spaventato.
Quell’abbaiare era facile da decifrare per noi, assomigliava alla lingua
yiddish che anche i miei genitori parlavano.
“Geld! Gold! Wertigkeit!3” “Schmutzige, verdamte hunden!4”
I suoi insulti non li percepivo come quelli nella mia lingua madre che mi
ferivano come coltellate.
Dall’alto ordinava a due fascisti ungheresi che apparvero dal nulla di
perquisire quei maiali e, prima che cominciassero, alcuni consegnarono
qualcosa. Soprattutto i signori dall’aspetto borghese, ben vestiti, privi di barba e
zucchetti. Forse maestri, professori, medici?
Ora la loro vita valeva come quella di tutti? Diventavamo uguali? Nacque
anche tra di noi un po’ di solidarietà: c’era chi donava al più povero un paio di
scarpe buone, chi un cappotto, chi una maglia calda ed era bello. Il nemico
comune, il destino comune ci aveva uniti?
Le donne cominciavano litigare per l’unica cucina.
Il cibo fornito da chissà chi era scarso come lo spazio ridotto al minimo. La
richiesta di soldi continuava. I nervi cominciavano a cedere e le domande ad
aumentare: Fino a quando ci tengono qui, quando torneremo a casa, che sarà di
noi?
Improvvisamente ci apparve David raccontando il suo viaggio da
clandestino su un treno merci. La nostra gioia era grande. La mamma ora
piangeva per le due figlie maggiori chiedendo al cielo dove fossero, che fine
avessero fatto, e dove potessero essere suo fratello Berti e le sue sorelle, e che
fine avessero fatto gli inquilini di quelle case semivuote, con le impronte dei
quadri sui muri. Dove, dove sono finiti?
Venerdì sera all’inizio della festa di Shabat la mamma spezzò una candela in
tre pezzi, li accese e ci riunimmo a un tavolo per la magra cena.
Tra le voci che correvano da una casa all’altra c’era solo una certezza. Nel
ghetto esisteva un bel tempio aperto e l’indomani sotto un sole insolito, alto e
di un caldo terapeutico andavano tutti a pregare. La sinagoga superava le case
come la chiesa protestante del nostro villaggio. Tra una preghiera e l’altra tutti
cercavano i parenti senza trovarli. Dov’erano spariti? Qualcuno spargeva la
voce raccontando di un lungo treno con vagoni bestiame partito dallo stesso
ghetto. L’informazione l’aveva avuta da un fascista suo vicino di casa. Il treno
aveva lasciato l’Ungheria. La notizia sembrava inverosimile anche a mio padre,
per una volta ottimista.
“Siamo nel ’44, i russi e gli americani sono dietro la porta, il nazifascismo sta
morendo.”
Le parole di papà erano oro, balsamo per un piccolo gruppo di persone che
lo ascoltavano come fosse un esperto di guerra. E l’interrogavano, gli
chiedevano come sapesse queste cose, da chi. La radio non l’aveva nessuno e
non c’era più nemmeno l’omino con il tamburo o un giornale, e nessuno poteva
uscire dal ghetto.
I tedeschi venivano regolarmente a insultare e a chiedere valori, e ogni volta
saltava fuori qualcosa.

Un giorno è successo il miracolo! Oltre il muro apparve zio Gyula al posto


del tedesco e con dei sacchi fece calare ogni ben di Dio: pane, patate, fagioli,
marmellate, verdura, farina, piselli, frutta sciroppata. Tutti noi increduli
piangevamo di gioia, persino papà tratteneva a fatica le lacrime. Io chiesi subito
di Endre e di Lenke, di come stesse il villaggio, come fosse un malato.
“E la nostra casa?”
Lui scosse la testa, si mise il dito sulla bocca, temeva di essere scoperto o
forse non voleva dire niente, era arrivato lì con la complicità di un fascista del
villaggio? Aveva una gran fretta di andarsene presto. Comunque fosse, la
nostra gratitudine, meraviglia e speranza erano incontenibili.
“Ricordate,” ci disse la mamma, “c’è il bene, ci sono i santi e Dio, ci ha
mandato Lui Gyula.”
“È mio amico,” precisò papà, “e un uomo.” Non siamo stati mai così ricchi di
cibi, che sono stati divisi con le altre famiglie numerose, e c’era anche un
regalo per il medico che si occupava della pancia dolente di Jonas.
Per la prima volta il mio tredicesimo compleanno è stato festeggiato con
una torta, ma la mamma ancora sospirava per il pane perduto.
Mancava solo una settimana alla fine di maggio, che amavo con i suoi
profumi di lillà che rubavo dagli alberi e, invece che dai liberatori russi che
secondo mio padre stavano arrivando, il ghetto venne invaso da stormi di corvi
neri, armati, con sembianze umane.
Con la velocità della luce che mancava e il sole tramontato ci hanno cacciati
dalle case con urli, spinte e bestemmie, ornate nella bella lingua ungherese e
tedesca, maledicendo la nostra razza con tutti i nostri avi: profeti pidocchiosi,
zecche, cancri, elencavano continuamente, sorvegliando la folla in cammino;
sotto gli sguardi indifferenti dei pochi passanti e di chi si chiudeva nella
propria casa.
Non c’era tempo né per piangere, né per parlare, solo per stare attenti ai
passi e ai bimbi che potevano sfuggire dalle mani tremanti dei genitori, per
sostenere i più vecchi che barcollavano come ubriachi e ciechi. Sembrava
l’esodo dall’Egitto senza un Mosè, senza che apparisse l’Eterno, e invece del
Mar Rosso si aprirono con un rumore lacerante i vagoni per bestiame, e la
mandria umana veniva spinta dentro con violenza.
“Buon viaggio!” urlava con un sorrisino beffardo un soldato ungherese
scaraventando dentro un secchio per i bisogni e, stendendo il braccio con la
mano libera per il saluto fascista, chiuse la porta scorrevole e il rumore della
sbarra esterna di ferro ci assordò i sensi.
Ammassati all’interno dove c’era appena lo spazio per i piedi risuonavano i
nomi dei gruppi familiari. Noi eravamo tutti insieme.
“Che fortuna, grazie al cielo” ripeteva la mamma e io le stringevo la mano e
non gliel’avrei lasciata neanche se me l’avessero tagliata.
Dal finestrino sbarrato si cercava di capire la direzione del treno che si
muoveva a scatti sui binari stridenti.
Alla vista del secchio s’era bloccato ogni stimolo fisico, durante il viaggio
verso l’ignoto. Un’unica domanda girava nella mente: “Dove ci portano, dove ci
portano?”. Le voci, mute come una danza macabra, aleggiavano nell’aria
vaporosa di fiati.
Mancava una settimana alla fine del dolce maggio, la sua luce carezzevole
era tramutata in un bagno turco dalle pareti scure.
Alla mamma cominciava a mancare l’aria e per distrarla David, il mio
fratello canterino, adorato, le chiese di mangiare.
Lei si era ravvivata subito e aveva tirato fuori ciò che era rimasto dei viveri
portati da zio Gyula. Ma il nostro villaggio ci sembrava già lontano, in un
altrove, con la porta che aveva tentato di richiudere mio padre. Quel nostro
mondo era finito, un luogo da favola nel bene e nel male.
Mamma e papà sono invecchiati di colpo a quarantotto anni. E noi figli di
colpo eravamo già genitori dei nostri genitori.
Io ero attaccata al corpo della mamma, come una sanguisuga al suo collo,
quando aveva troppo male alla testa.
Il viaggio – che non si poteva chiamare tale, ma trasporto merci – non
sembrava breve come dalla casa al ghetto, ma infinito, e stavamo accoccolati
giorni e notti l’uno sull’altro, tra pianti, preghiere, paura, vergogna di chi dietro
un cappotto teso faceva i suoi bisogni intrattenibili.
All’improvviso sentimmo una grande frenata, si aprirono i vagoni e i soldati
tedeschi, lungo i binari, urlavano di svuotare la merda delle merde e quasi
invidiavamo chi aveva afferrato per primo il secchio e camminava fuori dietro
un soldato armato. In attesa che tornasse, sgomitavamo tra di noi per un po’ di
luce, di aria. Qualcuno azzardava la domanda: “Dove ci portate, siamo ancora
in Ungheria?”
“Nichts fragen! Nichts antworten!5” diceva con la voce quasi umana un
giovane soldato.
L’uomo con il secchio svuotato era tornato e non facevamo che chiedergli
“Cos’hai visto? Cos’hai saputo? Dove siamo? Cos’hai scoperto?”, come se
tornasse da chissà dove.
Alle ondate di domande scuoteva la testa e alle sue spalle si richiusero tutti i
vagoni all’unisono.
Da fuori ci giunsero ordini, passi militari e alla fine una canzone a ritmo di
marcia, che deciframmo mentre il treno si allontanava:
In meiner Heimat dort blühen die Rosen
in meiner Heimat dort blühet das Glück
Du Mӓdchen weine nicht, weine nicht
wenn man von Scheide spricht
gib mir deinen letzen Kuss
als Abschied Kuss...6
La mamma, come se togliessero il boccone dalla bocca dei propri figli, diede
alla madre di Eva con il bimbo un vasetto di albicocche sciroppate e tre piccole
fette di pane.
Ciò che rimase intatto erano le salsicce di maiale che nessuno toccava, solo
io e papà le avremmo mangiate, ma la mamma ci guardava di traverso ed era
meglio la fame che procurarle un dolore.
Nel vagone era la prima volta che lei mi pettinava, che mi intrecciava i
capelli con quell’unico nastro rosso (che non mi aveva strappato Juja la pazza),
dividendolo in due pezzi uguali. E non c’era nessuno più felice di me, sentendo
le sue mani tranquille sulla mia testa come fossero in dolce riposo.
L’indomani mi aveva pettinato Judit poi David, il mio maestro di canzoni
nuove, imparate in città, il mio fratellone bello dai grandi occhi vellutati come
papà. Ma occhi viola-azzurri non ne aveva nessuno in famiglia come la
mamma, erano gli occhi più belli che abbia mai visto e deve esserci caduto
dentro anche papà, nonostante la sua famiglia contraria al loro matrimonio. Di
conseguenza i nonni non amavano neanche noi figli. Poveri nonni e zie, e zii,
dove saranno finiti tutti? E le sorelle e i fratelli della mamma?
A Jonas non era rimasto più tempo per pettinarmi, perché al quarto giorno
il treno ha frenato bruscamente.

1 “Gentile”.
2 Viva Szálasi e Hitler/ colpiamo l’ebreo con un nerbo di toro / uncini due cini (non ha significato) / è
crepato il rabbino capo / coraggio (saluto fascista) viva Szálasi! (Primo ministro e fondatore del Partito
fascista croci frecciate).
3 Soldi! Oro! Valori!

4 Puzzolenti, maledetti cani.

5 Niente domande! Niente risposte!

6 Nella mia Patria fioriscono le rose / nella mia Patria fiorisce la felicità / tu ragazza non piangere /

quando si parla di separazione / dammi l’ultimo bacio / il bacio di addio.


11152

Qualcuno aveva aperto con violenza il nostro vagone, come pure gli altri, e ci
siamo trovati davanti dei cani inferociti, tenuti da uomini armati che urlavano
come quel Moloch nel ghetto e tra urli, spinte, selezione, Rechte, Linke! Rechte,
Linke! Rechte, Linke!7, abbai, colpi; ho perso mio padre, David, Jonas, Judit,
ritrovandomi aggrappata alla carne di mia madre, nella fila di sinistra, con le
donne anziane.
“Cerca tuo padre, tuo padre!” mi supplicava la mamma. E io le ho indicato
un uomo magro, già lontano, nudo tra tanti uomini.
“Dove, dove sono tutti?” continuava con quel “dove”, come impazzita,
mentre uno dei soldati mi si era avvicinato dicendomi di andare dall’altra parte.
“Destra, destra!” ripeteva piano.
“No, no, no!” stringevo più forte il fianco di mia madre. “Obbedisci!
Obbedisci!” ripeteva la mamma e allo stesso tempo pregava il soldato di
lasciarle l’ultima dei suoi figli. Il soldato l’ha colpita con il calcio del fucile e a
furia di colpi mi ha spinto dall’altra parte, tra le donne più giovani, dove ho
trovato mia sorella Judit.
“Judit, Judit, Judit!” urlavo stravolta. “Mi hanno separata dalla mamma, la
mamma, la mamma” ripetevo mentre venni spogliata, e cadevano le mie trecce
con i fiocchi e venivo rasata, disinfettata, rivestita con una lunga palandrana
grigia, zoccoli di legno ai piedi e sul collo appeso un numero: 11152, da allora il
mio nome.
“Mamma, mamma, mamma!” ripetevo a Birkenau, dove si camminava sulle
ceneri. Ad Auschwitz, dove ci spostarono nel lager C, baracca 11. Per cinque
settimane ho continuato a ripetere e ho pianto per la mamma. La povera Judit
disperata mi teneva tra le braccia dicendomi: “Sono qui io, Ditke, Ditke, siamo
insieme, torneremo a casa insieme e ritroverai la mamma.”
Ma la kapò del blocco, Aliz, una polacca, stufa dei miei pianti, mi fece
scendere dal letto a castello dicendomi: “Vieni, ti faccio vedere io dove è tua
madre!”
Scesi di corsa e la seguii fuori, all’ingresso della baracca.
“Vedi quel fumo?” mi indicò un punto oltre i numerosi blocchi.
“Sì...”
“Senti la puzza di carne umana?”
“Ma...”
“Tua madre era grassa?”
“Un po’...”
“Allora è diventata sapone come la mia! Noi crepavamo qui nel nostro Paese
da anni, mentre voi festeggiavate ancora la Pasqua! No?”
“Um...”
“Pensavate che i vostri cari ungheresi non vi lasciassero portar via?”
“Io...”
“Vai, vai e smettila di piangere, tua madre è andata a sinistra, eh? È
bruciata!”
Ero rimasta senza parole. Judit inutilmente mi chiese cosa mi aveva detto
quella polacca. Non gliel’ho detto, né glielo avrei mai detto, né ho creduto a
quello che ho sentito, e ho negato anche a me stessa ciò che avevo udito.
Poteva essere impazzita, disanimata, se era da anni in quel pianeta fuori dal
mondo.
In cinque, in fila, all’alba e al tramonto, venivano a contarci o per radunarci
tra un blocco e l’altro i soldati con i cani, e un uomo col camice bianco, che si
diceva dottore, indicava con un dito alcune di noi donne che sparivano senza
più fare ritorno. Nella latrina e nel lavatoio comune si sparsero le voci che
quelle donne erano selezionate per i bordelli o destinate a esperimenti
scientifici.
Le deportate da ogni dove d’Europa prima di noi ci avvisarono che era bene
essere invisibili per il dottore. Ma come? Io sempre alle spalle di Judit chiudevo
gli occhi credendo che se io non avessi visto quel medico neanche lui avrebbe
visto me. Il luogo delle notizie era sempre la latrina dove ci lasciavano andare
due volte al giorno.
Lì non si lavorava, era un campo di sterminio. La razione del cibo consisteva
in un finto caffè la mattina, una brodaglia a pranzo, già svuotata da qualche
pezzo di patata o di rapa da chi era incaricata a distribuircela, le nostre stesse
compagne. A cena un quadratino di pane con un formaggio puzzolente che si
chiamava quardli.
All’inizio tutto era tanto immangiabile quanto buono dopo, e mangiavamo
di nascosto per non farci strappare il cibo dalla mano o dalla bocca, perfino tra
sorelle, madri e figlie. Saremmo diventate presto come Aliz?
La fame, i pidocchi, la paura di essere selezionate, le malattie e i suicidi
contro il filo spinato ed elettrificato ci occupavano la mente di giorno e di
notte. Giorni e notti che sembravano mesi, anni.
Io non piangevo più per la mamma, dovevo pensare ai pidocchi che
portavano il tifo petecchiale, allo stomaco che borbottava, alla prossima
selezione, al foruncolo che significava morte, alla pipì che urgeva senza che
potessimo uscire.
Per fortuna non sapevamo come, ma non avevamo più il ciclo mensile.
“La pipì, la pipì” gemevo.
Judit-madre mi aveva suggerito di farla nella gavetta, poi in qualche modo
l’avremmo svuotata. Ma Marika, la ladra incaricata di servire nella nostra Stube
di dodici ragazze, una nuova deportata come noi da un paesino della nostra
zona, se n’era accorta e di sua iniziativa mi punì lasciandomi cinque ore sulle
ginocchia.
“Troia, puttana, carogna” la insultava Judit. “Non tornerai mai a casa perché
ti strozzerò io con le mie mani! Lo giuro su Dio! Bestia maledetta, creperai!”
Marika, una bella donna alta e in carne, rise trionfante in faccia a Judit,
minacciando anche lei, se non avesse chiuso il becco. Poi si era allontanata,
entrando nell’unica stanza vera, dove stavano le funzionarie con qualche
privilegio, che eseguivano gli ordini dei tedeschi con più o meno zelo e avevano
potere su di noi nel bene e nel male.
Un giorno morì la madre delle due ragazze capitate al nostro fianco nella
fila. E da quella stanza delle privilegiate, con le loro gerarchie, erano sbucati
fuori un lenzuolo per avvolgere il corpo della morta, una candela e il libro della
preghiera. Loro rimasero chiuse nella stanza, noi, in massa, eravamo accanto al
cadavere per terra e piangevamo quella madre, l’unica anziana capitata tra noi
per sbaglio, per svista, durante la rapida selezione all’arrivo? Era una fortuna
che la mamma non fosse con noi, forse da qualche parte con i vecchi? E quelle
perché sono rimaste chiuse nella stanza, temevano che arrivasse un tedesco che
le avrebbe punite? Oh, capire le regole, le rigide discipline, i ruoli, non era
facile, né conoscere i trucchi della possibile sopravvivenza, né essere guardiane
della nostra vita senza nuocere alle altre, nella lotta quotidiana per arrivare
all’indomani.
Con Judit abbiamo spidocchiato Eva, scoperta nel nostro blocco. Stava male
e all’appello o non veniva o non l’abbiamo mai vista. Il blocco era grande, pieno
e non si poteva girare liberamente neanche all’interno.
Erano passati tre mesi o tre anni? Ogni giorno, ogni ora, ogni minuto si
moriva: chi per la selezione, chi all’appello, chi per la fame, chi per malattie e
chi, come Eva, suicida, fulminata dalla corrente del filo spinato, rimanendo a
lungo appesa come Cristo sulla croce.
La sua immagine si è impressa in me e Judit, Eva era parte di noi, del nostro
villaggio, della mia infanzia lontana. Da quel giorno ci promettemmo l’un
l’altra di non suicidarci, perché Judit aveva già tentato più volte di farla finita.
Poi mi diceva di non temere, perché non mi avrebbe mai lasciata sola, aveva
promesso alla mamma di riportarmi a casa. Ma quando, da dove, che cosa
sapeva più di me, cosa mi è stato taciuto di quel luogo, dove sono stata anche
selezionata, ma mi salvai approfittando del caos e dei pianti dei bambini che i
tedeschi caricavano sul camion della morte.

Finalmente, come fosse la liberazione, ci spostarono nei vagoni dalla Polonia


in Germania.
Ci misero in un campo con trentadue baracche che si chiamava Dachau.
Oltre un ponte appena intravisto, anche lì, c’era quel fumo di cui parlava Aliz.
E anche lì c’erano una kapò polacca di nome Lola e le sue compagne. Ma lì si
lavorava finché non si crollava sotto il peso delle traverse dei binari. Il cibo era
scarso e la debolezza aumentava, i tedeschi ci incitavano a lavorare più svelte,
ridacchiando delle nostre facce smunte e dei nostri occhi affamati, mentre
lanciavano i würstel per i loro cani lupo.
Il freddo settembrino non faceva che raddoppiare le nostre sofferenze. Judit
cercava di aiutarmi, ma come? Ciascuna doveva portare il proprio peso e
sperare che quel lavoro per Ercoli potesse finire al più presto.
E lì un giorno successe un miracolo! Un soldato, dopo aver mangiato, mi
gettò addosso la sua gavetta con l’ordine di lavarla come ogni giorno. E dentro,
nel fondo, mi aveva lasciato della marmellata, che per me era la speranza, il
bene del cielo e della terra, la forza per andare avanti, la volontà di
sopravvivere e credere che in fondo al buio c’è la luce. E come il male feconda
il male, così dal bene nasce il bene. E qualche tempo dopo, che non è calcolabile
né reale in circostanze estreme, io e Judit facevamo parte di un piccolo
comando di quindici donne scelte per lavorare nella cucina di un castello dove
soggiornavano ufficiali dell’esercito con le loro famiglie.
In cucina?! Suonava come fosse il Paradiso, la Terra Promessa della mamma,
in contatto con il cibo!
Pelare le patate, le carote, le rape bianche e rosse, pulire i cavoli. Spiavamo
lo sguardo del giovane militare che ci sorvegliava e alla sua prima distrazione,
svelte, buttavamo nella bocca qualche buccia, qualche punta di carota e foglie
di cavolo.
Se una donna SS non mi avesse dato uno schiaffo del tutto immotivato
all’uscita, ogni mattina, e qualche volta non ci avessero trattenute per assistere
all’impiccagione dei ragazzi con la lingua di fuori, avremmo potuto dirci
fortunate. E se alla fine del lavoro i bimbi degli ufficiali non ci avessero sputato
addosso con delle smorfie disgustate.
Certo, di umano avevamo poco e li spaventavamo come loro spaventavano
me che, al di là del dolore, mi chiedevo cosa sarebbero diventati questi bambini
crescendo.
E lì, in quel castello a pochi chilometri di cammino dal campo, mi capitò il
secondo miracolo: il cuoco, al quale dovevo portare le patate sbucciate, mi
aveva chiesto: “COME TI CHIAMI?”; qualcosa di incredibile per me, numero
11152. Avvicinandosi mi aveva detto che anche lui aveva una bambina, come
me, “come te” ripeteva e, estraendo dal taschino del suo camice bianco un
pettinino, me lo mise in mano indicando i miei poveri capelli rispuntati. E se
non era lui Iddio, chi era?
Mi sentivo rinata. Avevo un nome, esistevo.
Un giorno, oltre il recinto del nostro campo, per la prima volta, abbiamo
scoperto degli uomini. Uomini appena vivi. E, pur essendo proibito avvicinarsi
al filo, gridavamo i nostri nomi, chiedendo i loro nomi, buttandogli qualche
patata rubata a rischio della nostra vita. Ma erano così sfiniti che non avevano
la forza per risponderci, per lottare e afferrare ciò che gli gettavamo, né di dire i
loro nomi. Ma potevano abbandonarsi fino a quel punto gli uomini?
Quel benedetto lavoro di colpo si era interrotto. Finimmo di scavare trincee
al freddo autunnale con la vanga, con i piedi avvolti in stracci negli zoccoli e i
cappotti smisurati che erano stati distribuiti da una stanza-magazzino dove si
diceva fosse nascosto un bambino. Durante un appello infinito, punitivo, ci
giunse una notizia incredibile: nel crematorio, di cui si sapeva già, a una grande
ballerina un tedesco aveva ordinato di ballare nuda. E lei aveva cominciato la
danza più seducente della sua carriera, strusciando attorno al soldato, sempre
più vicino. Il soldato, incantato da quelle movenze, non si era accorto che gli
aveva sottratto la pistola. E lei gli aveva scaricato addosso tutte le pallottole.
Noi, sotto la pioggia scrosciante, applaudimmo tremanti e la kapò del campo,
non della baracca, con un bel cappotto di tweed di chissà chi, ci fece zittire a
colpi di manganello, prima che arrivasse il soldato di turno per contarci.

Sembrava che il sole si fosse spento per sempre e il mese dei morti divorasse
le vite e non credemmo più alle notizie della latrina dove si sussurrava di
bombardamenti; di chi e dove?
Della festa di Natale lì non c’era traccia, solo la neve nemica e i nostri
ricordi, i miei e quelli di Judit, il mio sostegno, che mi scaldava le mani come la
mamma e pregava come lei. Io non avevo imparato a pregare per colpa del
padre di Eva, che insegnava l’ebraico per compiacere Dio, ma a colpi di
bacchetta sulla testa a ogni lettera dell’alfabeto. Per me era cattivo e mi faceva
paura come gli altri ultraortodossi, che camminavano veloci sulle strade e non
guardavano in faccia a nessuno, volavano nelle loro palandrane come non
fossero sulla terra, ma in un altrove sconosciuto. Anche se avessi imparato, in
quei luoghi non avrei potuto neanche pronunciare il nome di Dio. Ed ero anche
arrabbiata con Lui. Come poteva rimanere indifferente a quello scempio?
“Tutto è colpa dell’uomo” diceva mia madre. “Dove mette i piedi non cresce
più neanche l’erba!”
“Allora l’uomo è più forte di Dio?” le chiedevo.
“Tutti pagheranno per le proprie azioni” mi rassicurava lei. E come si poteva
non credere a una madre?

Dopo mesi o anni, dopo il millesimo appello, improvvisamente ci


trasferirono a Kaufering, un lager piccolo dove non si lavorava. La fame, il
freddo, le malattie ci stavano decimando e chi ci dormiva accanto già morta ci
raggelava e non vedevamo l’ora che la portassero via.
Le ragazze borghesi, più fragili di noi, avevano meno difese, come gli
uomini, la nostra vita precedente e dura ci aveva avvantaggiate e abbiamo
resistito di più. Lottammo contro i pidocchi, la fame, senza strappare dalla
bocca altrui il boccone, cosa che accadeva spesso anche tra madre e figlia.
L’educazione morale della mamma aveva retto anche là, dove stavamo
diventando nemici persino tra noi. L’aria la sentivamo sospesa, minacciosa, ma
la disciplina era meno dura, l’organizzazione meno rigida. Ci ammazzeranno
tutti – ci assaliva il pensiero – come a quegli uomini a Dachau oltre il filo
spinato?
I giorni si trascinavano faticosi come noi stesse.
All’improvviso di nuovo ci spostarono a Landsberg, un altro piccolo campo;
uno dei cento sottocampi di Dachau, diceva la kapò, meno disumana delle altre;
sistemate alla peggio, presto finimmo a Bergen Belsen dove, incredule, nel
mese di febbraio vedemmo arrivare un nuovo gruppo di deportate con valigie,
cappotti, stivali e cappelli.
“Chi siete, da dove venite?” Judit giurava che avevano risposto da Budapest.
Era tutto incredibile, come se avessero detto “dalla luna”.

Dopo una breve sosta, ci spostarono in un altrove ignoto e quando aprirono


la porta scorrevole del vagone, Judit svenne quattro volte di seguito. E io,
disperata, urlavo di non lasciarmi e le strofinavo la bocca con la neve, la
scuotevo gridando terrorizzata di aprire gli occhi, che non poteva
abbandonarmi, che sarei stata io a portarla a casa dalla mamma, di non lasciarsi
morire o che saremmo morte insieme. Lei si riprese e, stordita, non capiva cosa
le era successo e dove eravamo.
“Questo non è un campo, non è un campo. Dicono che il posto si chiama
Kristianstadt. Vedo solo un bel palazzo illuminato, andremo lì? Niente più
campi, Judit. È finita!”
Lei si mise in piedi e non credette ai suoi occhi alla vista del palazzo. Era
una caserma?
“È quasi come il castello vicino a Dachau!”
“Achtung! Achtung!” ci raggiunse una voce e apparve un ufficiale in
uniforme verde. Ci chiedemmo chi fossero. Forse avremmo lavorato in cucina?
Ma eravamo troppe anche per il palazzo.
“Achtung! Achtung!” ripeteva un altro ufficiale con accanto un soldato e ci
guidarono verso un edificio lungo e basso e ci ordinarono di entrare dentro.
All’interno non c’era altro che mucchi di paglia sparsa.
Niente kapò. Niente di niente. E adesso?, ci chiedemmo sempre più
spaventate e gelate. È la fine?
Due soldati ci portarono un bidone di brodaglia calda e distribuirono una
mestolata nelle nostre gavette che si scontravano sbilanciandosi.
“In ordine! Bestie! In fila!” cercavano inutilmente di fermare l’assalto.
“Ancora un po’, ancora un po’!” dicevamo, misurando le porzioni che nella
lotta prepotente fuoriuscivano dalla mestola. Arrivarono altri due pentoloni e
Judit, sempre in prima fila, era riuscita farsi dare un’altra mestolata, tanto non
potevano riconoscerci, tutte eravamo uguali, imbacuccate in stracci, emaciate,
con lo sguardo di cani affamati che lottano per un pezzo d’osso.
Con un nuovo fiato annusavamo l’ambiente e dopo un lungo riposo sotto la
paglia gelida, strette l’una accanto all’altra, scoprimmo che non eravamo chiuse
dentro. Potevamo uscire, ma per dove? Non c’era neanche la torre di guardia
come ad Auschwitz e Dachau, solo quel palazzo illuminato, dove si vedevano
muovere gli ufficiali all’interno. Erano dell’esercito regolare? Uomini maturi e
senza svastica. Chi erano? Che facevano lì? E noi? Sembravamo abbandonate. E
solo il terzo giorno tornarono i soldati giovani con i pentoloni. Pane niente.
Solo rape, patate in un liquido grigiastro e denso, di farina? Qualsiasi cosa
fosse, era buonissima, calda e ci riportò alla vita a ogni cucchiaiata.
Judit aveva intuito che da qualche parte ci doveva essere una cantina e la
sera uscì a cercarla, tornando con qualche rapa e delle patate. Pensavamo
spesso di scappare. Ma i tedeschi ci avrebbero sicuramente ammazzate e
nessuno ci avrebbe aiutato. Forse speravano che scappassimo per spararci. È
per questo che avevano lasciato aperta la lunga stalla? Non c’era molto tempo
per scappare o non scappare perché, dopo una breve permanenza in quel luogo
singolare, due guardie ci ordinarono di uscire e, mettendoci in fila, ci avviarono
a piedi chissà per dove.

“Marsch! Lauffen schnell!8” Ci incitavano inutilmente in uno stato di


spaventapasseri, perse nei nostri stracci, con i volti smunti, lividi e i geloni che
avevano scavato buchi alle ginocchia, alle caviglie e ai piedi.
“Camminare! Svelti! Avanti!” ci ripetevano le due guardie. “Chi non ce la fa
lo deve dire e sarà ricoverato in ospedale.”
Quattro sorelle con la speranza di un letto alzarono subito una mano e i
fucili dei soldati risposero con quattro colpi.
“Avete capito? O camminare, o morire! Ja? Marsch!”
Avevamo capito. Eccome se avevamo capito, la lezione sarebbe bastata per
tutta la vita se fossimo sopravvissute. In quel luogo si imparava tutto sull’uomo
e sul mondo. Di sera eravamo arrivati in un villaggio lindo con dei fiori sui
balconi, legna perfettamente in ordine al riparo, le finestre sbarrate. I soldati
entrarono in una fattoria e uscirono delusi, parlando tra di loro del “no” che
avevano ricevuto dal fattore, avendo chiesto di lasciarci dormire nella stalla.
Bestemmiavano e dalle loro tracolle traevano del lardo e pane e a noi
indicavano la spazzatura dove frugare. Judit scoprì il trogolo dei maiali, ma ci
cacciarono via anche da lì.

Ricominciammo a camminare sulle stradine interne, abitate da “ciechi”. Il


secondo fattore ci fece entrare per dormire nella stalla, dove c’era un soffitto
pieno di sacchi di grano che abbiamo bucato a morsi, per riempire lo stomaco
gemente.
All’alba, il fattore con le due guardie urlavano, minacciavano, dicevano che
eravamo barbari, distruttori e che se ci fossimo comportati ancora come
vandali non ci avrebbero più permesso di riposare e saremmo morti tutti
durante la marcia. Le nostre orecchie erano sorde sia agli insulti che alle
minacce. Non ci importava più né di morire, né di vivere. Eravamo esauste,
indifferenti, ma alla vista di un pane intero che una mano aveva gettato dalla
finestra, diventavamo delle tigri per strapparne un pezzo e più che in bocca
finiva nella neve, sbriciolato. Cominciava la semina dei morti, per un colpo di
pistola, per esaurimento delle forze o per malattia, o per un sì o un no dei
fattori alla richiesta delle nostre guardie di farci riposare, per una notte, nelle
stalle.
Il dodici marzo Judit compiva diciotto anni e io, la più piccola, accettai di
calarmi da una finestrella della cantina, alla ricerca di qualcosa da mangiare.
Gli urli delle ragazze, “Butta a me qualcosa! Butta a me! A me! A me!”,
avevano attirato l’attenzione delle guardie. Judit supplicava le ragazze di
allontanarsi subito dalla finestrella.
La guardia con il fucile e il forcone, arrivando, aveva giurato che avrebbe
spaccato la testa di chi si fosse trovato laggiù; lo aveva già fatto, sottolineava,
con un altro trasporto di maledetti e il mio cuore era impazzito dalla paura, ma
la testa ragionava più che mai e la vita, in qualsiasi condizione, era più forte,
più cara e mi nascosi sotto una grande botte vuota. La guardia inutilmente la
colpì più volte con le punte del forcone e se ne andò. Quando i suoi passi si
allontanarono, piano piano, sgusciai fuori e risalii alla vita.

La marcia infinita continuava e anche la semina dei cadaveri. Dalle finestre,


anche se aprivano, non cadeva più la manna. Gli abitanti, appena ci vedevano,
fuggivano come fossimo appestate. Non restava che nutrirci di rifiuti, bucce
avare di patate, foglie e torsoli di cavoli, scorze degli alberi. Le guardie
mangiavano di nuovo lardo con pane nero. E forse, stanchi anche loro di
camminare e sparare, avevano inventato un giochino: quando a fatica
raggiungevamo una stradina in salita e sotto i nostri zoccoli si erano formate
suole alte di ghiaccio, ci indicavano di ridiscendere e risalire. Eravamo in
marcia quasi da cinque settimane e rimanevamo sempre meno in piedi. Anche
io ero crollata e Judit, con una generosa compagna, mi trascinarono sulle strade
ghiacciate come fossi una slitta.
Ci siamo ritrovate di nuovo a Bergen Belsen, ma nel campo maschile! E, Dio
mio! Era ricoperto di cadaveri nudi! Alcuni ancora gementi. Un’immagine che è
penetrata per sempre nell’anima.
Dopo una zuppa nelle baracche, forse di quei morti al gelo, e due notti di
riposo, ci ordinarono il peggior lavoro immaginabile.
Distribuirono due stracci bianchi a noi pochi sopravvissuti della marcia; li
dovevamo attorcigliare sulle caviglie dei morti e trascinarli nel Todzelt, la
tenda della morte, dove c’era già una piramide umana.
Qualcuno di loro diceva, con l’ultimo sguardo, “no, no, no”, qualcuno
balbettava il proprio nome e l’origine, qualcuno riuscì a dire: “Racconta, non ci
crederanno, racconta, se sopravvivi, anche per noi.”
Soffocate dal pianto facevamo cenno di “Sì, sì, sì”. Eravamo già verso la fine
di marzo. Qualcuno sparse la voce che i liberatori stessero bombardando la
Germania. Non potevamo crederci. Ce l’avevano già detto ad Auschwitz quasi
un anno fa. Un anno! Una vita fa!
“Io non voglio più vivere. Basta, basta!” ripetevo a Judit spaventata.
“No, no, no!” mi scuoteva. “Vuoi dare soddisfazione a questi assassini? Non
senti il nervosismo nell’aria e la disorganizzazione? Sta succedendo qualcosa.
La kapò chiede chi di noi se la sente di andare alla stazione vicina, solo otto
chilometri, a portare dei giubbotti ai militari. In cambio avremo una doppia
razione di zuppa e pane. Andiamo. Ce la faremo. Ditke, dobbiamo tornare a
casa sì o no?”
“Sì... sì...”
Seguite da due guardie, con un gruppo di quindici ragazze per quella doppia
zuppa con pane che era la vita, ci avviammo con dodici giubbotti ciascuna.
Erano leggerissimi, di nylon azzurrino, e li riempimmo di pidocchi. Pur
pesando poco, dopo un tratto per me erano diventati un macigno.
“Non ce la faccio, non ce la faccio più” avvisai Judit.
“Aspetta un po’, ti prego, la luce comincia a calare, ti prego, poi troveremo
una soluzione.”
Io gemevo come la neve sotto i nostri zoccoli.
“Judit, Judit, Judit, basta!”
“Passamene quattro e quattro buttali giù quando le guardie accendono una
sigaretta, hai capito?”
“Sì, sì, sì” volevo gridare, ma non potevo, e neanche aspettare. Ma invece
delle guardie se ne accorsero le nostre compagne e, nonostante le suppliche di
Judit di non imitare la sua piccola sorellina troppo debole, tutte buttarono
qualche giubbotto giù sulla neve, che era diventata azzurra.
“Halt!” gridò una delle guardie che era inciampata nei mucchi.
Ci fermammo di colpo terrorizzate.
“Chi ha cominciato?” Ci rivolse la stessa domanda più volte, in tono sempre
più aggressivo. Le compagne mi gettarono un’occhiata, ma il nostro silenzio
mortale continuava, finché il soldato non aveva sfoderato la pistola, puntandola
su di noi e dicendo che avrebbe ucciso una sì e una no. Di calcolare a chi
toccasse e a chi no non c’era tempo e io feci un minuscolo passo avanti. Lui se
ne accorse subito e mi si avventò contro, colpendomi la nuca con l’arma e
crollai sanguinante nella neve. Judit, con tutte le sue forze, aggredì la guardia,
che non avrebbe mai immaginato un simile gesto e lui, scivolando, cadde per
terra, mentre lei correva da me, mi stringeva tra le braccia e mi diceva di
pregare insieme: “Shemá Israel, Adonai Elohenu, Adonai Echad.9” Io contavo i
passi della guardia che si avvicinava, pulendosi dalla neve l’uniforme e gli
stivali. Quando ce la trovammo davanti, io chiusi gli occhi, aspettando i colpi.
Il soldato invece di sparare fece un discorso: “Se una merdosa nullità, una
lurida ebrea, ha il coraggio di mettere le sue mani su un tedesco! Se ce la fa,
merita di sopravvivere. Dio vi maledica!” E mi ha allungato il braccio, per
tirarmi su. L’ennesimo miracolo! Judit mi ripulì del sangue con la neve.
Raccogliemmo tutti i giubbotti e con indicibile fatica arrivammo alla stazione.
I giovanissimi soldati ci guardarono come fossimo fantasmi. Al ritorno, la
guardia che aveva apprezzato il coraggio di Judit mi aveva aiutato a rialzarmi
ogni volta che avevo dovuto svuotare la pancia, dolente di una diarrea acquosa,
intrattenibile, mentre pensavo solo al pane, alla zuppa doppia.
Giunte nel campo, l’uomo era sparito. La zuppa non era doppia e il pane
non c’era.

7 Destra, sinistra!
8 Via! Camminare veloci!
9 Ascolta Israele, Dio Nostro, Dio Unico.
Nuova vita

Abbiamo vissuto tra agonia, morti, freddo, fame, fino all’ultimo appello del 15
aprile, ma dall’alba alle nove non venne nessuno a contarci. La kapò che ci
metteva in fila a bastonate, perché alcune di noi non riuscivano più a stare in
piedi, era sparita.
L’abbandono totale era la morte?
Judit, l’eroina, ebbe un’idea folle: “Vado fuori, nella cucina dei tedeschi” mi
disse piano e prima che potessi cercare di dissuaderla era già in corsa e di corsa
tornò con una rapa gridando: “Non c’è più nessuno! Neanche un tedesco! Non
ci sono i tedeschi!”
Le ragazze con gli occhi di fuori la guardavano come se delirasse. E da lì non
passò più di qualche minuto, quando vedemmo arrivare una jeep con dei
soldati e, terrorizzate, ci mettemmo sull’attenti.
I soldati avevano un’uniforme diversa, ma a noi tutte le uniformi facevano
paura. Uno di loro ci avvicinò con molta cautela, con un’espressione tra
stupore, incredulità, disgusto e pietà, dicendoci qualcosa, gesticolando attorno
ai nostri stracci: “Away, away!” Sopraggiunse anche un camion e ci avvicinò di
corsa un altro soldato, con gli occhi in cui erano visibili le lacrime trattenute. E
indicando se stesso, ripeteva: “American jewish, jew, hebrew american. You are
free! Liberation! Free, free, free!” Mia madre avrebbe detto che era il Messia.
Noi, pazze di gioia e lacrime, urlavamo con quel poco di fiato che ci era
rimasto. E obbligate a svestirci e a buttare nel falò acceso i nostri stracci, nude e
tremanti, al contrario che di fronte ai tedeschi, io arrossivo dalla vergogna con
quel poco di sangue che mi teneva ancora in vita. Imbiancate come fantasmi di
DDT in ogni piega del nostro corpo, fatto di pelle e ossa, ci diedero un vestito
rosa di cotone a fiorellini e via, tutte su dei camion, all’ospedale militare di
Bergen Belsen.
E incominciò la cura; ci diedero da mangiare il minimo, aumentando molto
lentamente, un po’ di più, un po’ di più.
Il tre maggio, al mio quattordicesimo compleanno, mi affacciai dalla finestra
e un militare americano mi mostrò una busta gridando: “Ok? Sugar, sugar.
Sweet, you sweet”. “Ok” ripetevo avendo capito dal suono che doveva essere:
“Va bene?”
Con Judit non osavamo ancora parlare del futuro, pur essendo piene di
futuro. Era diventato un argomento tabù.
Non sentire più la lingua tedesca, se non nel sonno, era la vera cura, oltre
alle medicine. I medici, gli infermieri ci trattavano come fossimo dei poppanti e
in due mesi crescemmo, e balbettavamo, stavamo in piedi e uscimmo al sole di
fine giugno. Su un documento ci restituirono i nostri nomi, la data di nascita,
l’origine, il numero da deportate e i luoghi della prigionia e ci sentivamo rinate,
libere e disperse nel mondo dei vivi. Viva era anche la mia prima punitrice,
nella quale ci siamo imbattute, e prima che aprissi bocca mi diede un bacio
violento che mi fece sanguinare il naso e mentre Judit cercava di tamponarlo, la
carogna era sparita.
Denunciarla o non denunciarla?, ci chiedemmo con Judit e vinse il “no”.
Pensarla punita avrebbe fatto male a noi. Lasciammo il giudizio all’Alto, come
avrebbe detto la nostra mamma.
La mamma... Dove era la mamma? E papà, David, Jonas, Sara e Mirjam?
Non osavamo chiedercelo ma in segreto speravamo di ritrovarli. Ma quando,
dove?

Da Bergen Belsen, con i nostri documenti, ci spostarono in un paesino


vicino che si chiamava Celle.
Un uomo triste, alto, magro, allampanato, ci registrò di nuovo con nome,
luogo di origine, nomi dei campi e il nostro numero di prigioniere e ci
consegnò il documento che è ancora in mio possesso.
Sistemate in grandi dormitori, uomini e donne separati, cominciò l’attesa di
essere rimpatriate. Ma quando?
Dopo due mesi di ospedale cominciavamo ad avere un corpo guardabile,
capelli più decenti, e i ragazzi più o meno coetanei cominciavano a corteggiarci.
Io e Judit diventammo amiche con due fratelli della Transilvania; Áron,
diciott’anni, e Miki, di quattordici. Più che parlare del nostro passato o del
nostro futuro, come se il tempo si fosse fermato lì, Áron sognava, pianificavano
di rubare un pollo nel paesino vicino. Miki mi ha fatto innamorare delle opere e
cantavamo brani della Tosca e della Traviata. Io invocavo l’amore di Alfredo, lui
i dolci baci e languide carezze. Mentre Judit e Áron erano andati a caccia di un
pollo, ed erano ritornati con una gallina che nessuno voleva ammazzare, ma
mangiare sì. Tirammo a sorte e tra le decine di partecipanti, aspiranti al
banchetto più desiderato del mondo, toccò a un ragazzo di Budapest l’ingrato
compito, ma lontano dai nostri occhi. E noi a strappare le piume, a pulirla e a
preparare il fuoco con le braci, rapidi, in estasi. Seduti in cerchio, ci godevamo
con gli occhi, che lacrimavano per il fumo, la lenta cottura dei dieci pezzettini.
Erano quasi pronti, quando all’improvviso si avvicinò un militare inglese e,
dopo un’occhiata maligna al nostro tesoro, buttò tutto all’aria con dei calci,
dicendo che non si ruba. Che gli abitanti erano molto arrabbiati e che se
avessimo ripetuto quel gesto ci avrebbero cacciati via.
Io che sono incapace di odiare, non avevo mai conosciuto quel sentimento
nocivo anzitutto a se stessi, odiavo quell’inglese, perché aveva fatto finire nella
polvere il nostro sogno, presto divorato da diversi cani.
Chiedere notizie sul nostro rimpatrio nell’ufficio dei liberatori era del tutto
vano. La risposta era sempre la stessa: “Gli ungheresi sono stati deportati per
ultimi e saranno rimpatriati per ultimi.”
L’impazienza, l’ansia cominciavano a divorarci, la sorte dei nostri cari ad
angosciarci: non sapere niente di nessuno e attendere giorno dopo giorno e
settimane dopo settimane e mesi dopo mesi era insopportabile... Dopo la
partenza di Áron e Miki, che mi aveva dato il primo bacio, scandalizzando e
indignando Judit, ci decidemmo a partire, con dei soldati ungheresi che nel
frattempo avevamo incontrato lì in abiti civili. Ci giurarono di non essere
fascisti, ci pregarono di poter venire con noi, perché chissà quando sarebbero
potuti tornare a casa e dove sarebbero finiti. Non avevano alcun documento e
dovevano essere clandestini. “Che fare?” ci chiedemmo di nuovo. “E che dire?
ricominciare con l’odio, con la vendetta, credergli o no?” A dire di sì, c’era la
speranza che non sarebbero stati più fascisti.

Con la lista delle associazioni ebraiche sparse in tutta Europa che ci


avrebbero rifornito di viveri, sia noi che altri gruppi, ci avviammo verso casa,
senza aspettare il turno del rimpatrio. Spaesati, nella confusione caotica umana,
passammo in mezzo ai militari o malvisti o ignorati. La gente era respingente
ovunque, frettolosa, impaurita, sospettosa, snervata e desiderosa di liberarsi di
noi al più presto. Alla stazione di Bergen Belsen, dove avevamo portato i
giubbotti ai giovani nazisti che ci guardavano come fossimo fantasmi e dove mi
ero salvata la vita per l’ennesima volta, salimmo su un treno merci carico di
carbone, diretto a Pilsen, in Boemia.
Da lì, con i nostri clandestini utili e più orientati di noi, dispersi nel mondo
dei vivi, raggiungemmo Bratislava, dove cominciammo a tremare, essendo un
luogo già familiare e un tempo ungherese, e dove abitava una sorella di mia
mamma che si chiamava Honei.
Al centro di assistenza facemmo rifornimento, sempre per due, ma molto
abbondante, da eterne affamate, e lo dividemmo con i nostri affamati.
Nonostante i dubbi nei loro confronti, uomini di poche parole e forse con nomi
falsi, dividere il cibo era un rito, mettere i piedi sul suolo immaginato di
Bratislava ci faceva sentire davvero liberi. Era sconvolgente e quasi non ci
accorgemmo che i nostri clandestini erano spariti e udimmo solo le loro voci:
“Dio vi benedica! Dio vi benedica!”
Raggiungemmo, con mezzi di fortuna, Budapest. Rimanemmo lì alla stazione
con il nostro sacco tra le mani, travolte e urtate dai passanti dallo sguardo
indifferente e cupo. Solo un gruppo di soldati vedemmo allegri: cantavano in
russo con aria trionfante, con il loro copricapo con la stella rossa.
Non vedendo più militari tedeschi e le croci frecciate, finalmente ci è venuto
un sorriso istintivo, mentre, continuando a cantare, con una bottiglia di vodka,
il gruppo ci avvicinava sempre di più. Io che ricordavo quella canzone, come la
marcia tedesca, per averla sentita da qualche prigioniero russo in uno dei
sottocampi di Dachau, gli sorridevo, mentre un passante ci avvisava a voce
bassa, in ungherese, in tono sprezzante, di stare attente perché “quelli lì
stuprano le giovani e le vecchie, tutte”. Judit mi stava tirando via e protestai:
“Non tirarmi! Non tirarmi! Sai cosa cantano?”
“No, ma andiamo, andiamo, andiamo via!” Lei mi spingeva mentre io
cantavo:
Devushka, devushka
Kak tebia svať
Idí sudá
davaí pisdá
Jìob tvoìú máť!10

“Vergognati! Come fai a pronunciare queste parole terribili? Se ti sentisse la


mamma, ti romperebbe la testa.”
“Non l’ho inventata io.”
Continuammo la corsa senza troppo fiato. Quando ci apparve la città,
ovunque ferita, e ovunque macerie, grigiore, distruzione anche umana: negozi
vuoti, tristezza, teste basse, corpi rattrappiti, volti chiusi. Solo i russi
scorrazzavano, in macchina o a piedi, non sempre ben piantati al suolo.
Sembravano dominare al posto delle croci frecciate, da vincitori.
Judit aveva ancora una gran voglia di litigare: per le brutte parole che avevo
detto, o per l’ansia, l’emozione, o forse per la paura di non ritrovare nessuno.
Ci siamo rivolte subito all’ufficio assistenza, dove un signore che non si
presentò e non ci chiese niente, ci diede millecinquecento pengő, con la
ricevuta, precisando che era la somma unica di aiuto per andare al nostro
villaggio, e buon viaggio.
L’indirizzo di Mirjam, nostra sorella, che abitava a Budapest, ci batteva con
ritmo veloce nel cuore, che ogni tanto mi sembrava fermarsi. Giunte nel cortile,
dove affacciavano molti balconcini, alla prima persona che sbucò fuori per
battere un vecchio tappeto chiedemmo dove abitava la signora Rottenberg, ma
non rispose. Faceva finta di non sentirci? L’avevamo spaventata? Odiava gli
ebrei? Ma era una zona ebraica! La nostra diffidenza presto svanì, tramutata in
un grido di gioia. Su un balconcino apparve Mirjam, con un piccolo bambino
tra le braccia.
“Tomika” ci disse, indicando il bambino, e continuò: “Sono già vedova. Mio
marito è morto congelato in marcia verso i campi, dopo anni di lavori forzati” e
aggiunse che avrebbe potuto sfamarci solo per qualche giorno perché era tutto
razionato con la tessera annonaria o al mercato nero. Eravamo ancora
all’ingresso, noi agitate, lei in atteggiamento quasi di difesa di fronte ai nostri
abbracci e al pianto che ci strozzava.
“Il bambino, il bambino” disse “è spaventato.” Si liberò del nostro assalto,
dicendo: “Niente pianti! Niente parole! Avanti!”
Appena dentro, nel piccolo appartamento con noi già pieno, ci disse, in
breve, che di spazio non ne aveva, ma saremmo potute andare a Miskolc da
Sara, che si era sposata con un uomo benestante, dove si trovava già nostro
fratello David, sopravvissuto, ma nostro padre no.
“Lavatevi. Cerco qualcosa di pulito da mettervi, prima che vi avviciniate al
bambino. Vi preparo qualcosa da mangiare. Per raccontare c’è tempo. Anche
qui abbiamo sofferto molto, la fame, il terrore: il Danubio era rosso di sangue,
per la gente fucilata dai fascisti, c’era il ghetto. Ah, potrei raccontare,
raccontare...”
Poi accennò molto confusamente a un diplomatico spagnolo che aveva
salvato migliaia di ebrei a Budapest. E io scoprii solo negli anni Ottanta che il
falso console spagnolo era il commerciante italiano Giorgio Perlasca di Padova,
e quel sant’uomo me lo trovai accanto, alto, magro, mite, umile, con dei lampi
di dolcezza sul volto e fermezza nello sguardo e mi chiesi: “Che dirgli? Grazie?”
Ci sono parole che è possibile esprimere a un ex fascista che ha compiuto
qualcosa di incredibile nei tempi più bui in Ungheria, alleata alla Germania
nazista? Cosa si può dire a un uomo qualsiasi che non ce la faceva più a vedere
i massacri dei propri simili? Fu un moto dell’anima a ispirargli l’idea geniale di
spacciarsi per il console generale di Spagna, cosa che gli permise di salvare, a
rischio della propria vita, migliaia di innocenti destinati all’annientamento per
ragioni puramente razziali. E così fece il vero diplomatico svedese Raoul
Wallenberg, che aveva agito allo stesso modo, nella stessa epoca, a Budapest,
da dove, all’arrivo dell’armata sovietica, la sua vita luminosa prima finì in
prigione, poi venne inghiottita nell’oscurità più fitta, senza un raggio di luce, di
verità sulla sua morte a soli trentadue anni.
Ma allora eravamo del tutto ignare di questi grandi giusti e delle loro azioni
e ascoltavamo nostra sorella Mirjam con la voglia incontenibile di parlare o
scappare via. Ma per dove? Ci sentivamo un peso, anche per noi stesse. Ci
chiedemmo se fosse stata la vita a indurirla: prima era sempre allegra, leggera,
piena di vitalità, quasi frivola, attraente, corteggiata. Ma sembrava molto
cambiata, più respingente che accogliente, e il nostro cuore si rattrappì.
“È vero che i russi violentano le donne?” chiedemmo, tanto per dire
qualcosa.
“Sì, state attente.”
“E David come sta? Cosa ha raccontato di papà?”
“Chiederete tutto a lui. Adesso lavatevi, lavatevi, non abbiamo niente di
buono da raccontare: vedervi vive è l’unica cosa bella. Ma che vita vi aspetta?”
“Vita” ripetevamo in coro.
La città mille volte sognata era colorata solo della bandiera rossa e ovunque
vi era la traccia della battaglia.
Il Danubio blu ha digerito presto il sangue dei morti ed è diventato di colore
giallo come la stella sul petto dei fucilati. Il precoce grigiore autunnale
sembrava un manto che avvolgeva tutto, senza che un volto sorridesse, se non i
russi. Chissà perché la mamma aspettava i russi... Tra me e Judit scambiammo
un dialogo muto come per dire che tra noi e chi non aveva vissuto le nostre
esperienze s’era aperto un abisso, che noi eravamo diverse, di un’altra specie.
Cosa stava succedendo? Il nostro avanzo di vita non era che un peso, mentre ci
aspettavamo un mondo che ci attendesse, che si inginocchiasse. Ciò che ci
turbava era reale o immaginario? Comunque fosse, nel breve periodo passato
con Mirjam eravamo infelici, le sue possibilità economiche erano scarse, per di
più nella casa minuscola, non eravamo libere neanche di parlare perché ci
bloccava. Per il bambino? Per autodifesa ci tacitava e con Judit non era
un’impresa facile farla smettere di parlare e piangere.
Deluse e speranzose partimmo verso la casa di Sara, anche per incontrare
David. Ci chiudemmo ben bene sul treno e, dato che non eravamo attese
neanche lì da nessuno, con l’indirizzo in mano, trovammo la bella villa e
bussammo al portone, forte, sempre più emozionate all’idea di rivedere nostro
fratello.
Una donna in nero ci aprì il portone e ci diede uno sguardo come fossimo
due mendicanti, poi cacciò un urlo: “Donna Sara, donna Sara, forse sono sue
sorelle!?”
Donna Sara era ferma sul patio, bella, bionda, in un abito premaman color
ruggine e sui polsi brillavano due braccialetti d’oro. Non si mosse, ci guardò
con i suoi occhi azzurri e come se non ci riconoscesse.
“Sara, Sara!” si mise a chiamarla Judit e, invece di accoglierci con un
abbraccio, disse alla donna di prepararci subito un catino d’acqua nel cortile
per lavarci.
“Ma noi veniamo da casa di Mirjam, non abbiamo pidocchi, siamo pulite,
dov’è David, dov’è?”
“È al lavoro con mio marito.”
“Chiamalo! Mirjam ha detto che sapevi del nostro arrivo” protestò Judit.
“Sciocchezze! Io aspetto un bambino, ho bisogno di calma. Venite, venite per
un bacio, ma lavatevi.”
Forse sarebbe stato meglio morire che baciarla?, ci chiedevamo tra noi,
mute. Ma che le era successo. Era sempre stata troppo seria e fredda, voleva
essere nata in una famiglia ricca, ma un’accoglienza così...
Eravamo disperate con la voglia di fuggire, ma dove?
“Ma in che mondo siamo tornate? Ma perché abbiamo lottato tanto per la
nostra sopravvivenza? Perché, perché? David, David!” invocavamo nella
speranza di un abbraccio vero, un’intesa senza parole.
Sara, probabilmente pentita, si limitò a chiedere di avere un po’ di pazienza,
di mangiare qualcosa che ci avrebbe servito la donna Maria e aggiunse che
avremmo visto presto anche David, con la sua espressione quasi severa per cui
da piccole la chiamavamo “sacco di rabbia”.

Finalmente sopraggiunse David, il fratello ventenne molto amato e, dopo un


nostro lungo abbraccio e un pianto con le nostre lacrime fuse, ci disse una volta
per sempre che era con nostro padre, e che tornando dal lavoro non c’era più
sul suo giaciglio tra i malati terminali, e che aveva dovuto cercarlo nel Todzelt
e frugando l’aveva trovato e avvolto nella sua unica coperta e aveva balbettato
una preghiera quasi senza fiato. E anche lui s’era salvato per miracolo, grazie a
una nostra cugina, e ci promise che ci avrebbe raccontato più tardi...
La nostra voglia di dire ci fermentava dentro; al contrario di Judit io mi
stavo gonfiando di parole. E presto quasi raddoppiò il mio peso, da quaranta a
ottanta chili. Dicevano che era per la mancanza del ciclo, bloccato nei campi
con qualcosa, che poi sarebbe tornato e mi sarei sgonfiata.
Presto arrivò anche il marito di Sara, che aveva l’aspetto di un signore
gradevole, sorridente, che parlava con un dialetto strano e ci accolse molto
meglio di Sara e mi diede subito un nome nuovo: Munzi, commentato da una
smorfia di sua moglie. E non tardava una battuta nei nostri confronti di ebrei,
che venivamo da un buco fangoso, e di nostra sorella, di cui lui aveva fatto una
grande signora. E ci avvisò che nel Paese anche i fascisti si fingevano
comunisti.
Dopo una breve permanenza da Sara, sempre più scomode nella nostra
pelle, decidemmo di andare nel nostro villaggio, senza David, che lavorava con
il cognato in una fabbrica di vernici. Sapevamo già che nostra madre e il
fratellino Jonas non sarebbero più tornati.

Arrivate a casa nel villaggio, sconvolte dall’emozione, ci hanno guardate da


nemici, con stupore, incredulità e paura delle nostre vendette o denunce.
I vicini si difendevano dicendo: “Io non vi ho fatto male, io non ho preso
niente, io non ero cattivo, gli ebrei hanno portato anche il comunismo, i nuovi
padroni, io ho dato a tuo padre anche un prestito, io ho conservato il miglio che
mi ha affidato vostra madre, io l’anatra, io...”
“La casa, la casa, la nostra casa!”
Corremmo a vederla. E la trovammo svuotata, scassata con qualche cuscino
sporco di merda, la macchina Singer della mamma decapitata. In fondo al
cortile, tra il letame che debordava dalla stalla vicina, abbiamo trovato e
raccolto qualche foto di famiglia. E al limite delle nostre forze, con un dolore
lancinante, ci siamo voltate indietro per non tornare mai più, senza nemmeno
incontrare coloro dei quali avevamo un buon ricordo: lo zio Gyula, il figlio
Endre, la figlia Lenke e la vicina Lidi.
Ma perché David non ci aveva avvisato della condizione in cui era la casa,
anche se non avrebbe potuto dissuaderci dal venire? Ci sentivamo sempre più
sole e abbandonate.
Mirjam si stava risposando con un nostro cugino che aveva perso la moglie
e due figli e si erano subito trasferiti in Cecoslovacchia.
Judit decise di andare a Budapest, in un gruppo sionista, nella speranza di
raggiungere la Palestina al posto della mamma.
“Vieni con me” insisteva a lungo per convincermi. “Qui non c’è posto per
noi, che vuoi fare?”
“Scrivere.”
“Scrivere che cosa? Che ti metti in testa? A chi scrivi?”
“A me.”
“Impareremo un mestiere, la lingua dei nostri Avi, saremo a casa nostra, la
Terra Promessa dal Signore a Mosè.”
“Ho già sentito questa favola.”
“Non possiamo separarci, io e te siamo una sola rinate insieme.”
“No, siamo in due e sto studiando il pianoforte da Sara e ho cominciato
anche a scrivere e mi sto sgonfiando.”
“Obbedisci, sei ancora una mocciosa, stai così bene da Sara?”
“Non sto bene da nessuna parte, ma non obbedisco più a nessuno.”
“Aspetti che Sara, che è sempre così nervosa, ti butti fuori? Finirai per
strada!”
“Allora vivrò per strada.”
“E che farai, la puttana?”
“Se non c’è di meglio...”
“Io ti ho salvata, io ti ammazzo!”
“Io mi sono partorita da sola in un anno di travaglio. Non litighiamo, io non
ci vado di nuovo nei dormitori.”
“E che ne sai che è un dormitorio?”
“Non sopporto la folla, ho bisogno di vedere sempre una via d’uscita.”
“Mi lasci sola per un pianoforte? Puoi scrivere ovunque.”
“Io non so scrivere in ebraico come te, solo in ungherese.”
“Imparerai.”
“Quando? Io ho bisogno di scrivere adesso.”
“Per dimagrire?”
“Per necessità, per respirare.”
“Non fare la solita saccente, ragiona, cerca di essere normale per una volta.”
“Lo sono.”
“Mi lasci andare da sola?”
Pianse molto con me e mi sentivo più orfana che mai, ma resistetti
nonostante il dolore e il senso di colpa.
“C’è zio Moriz in Palestina! Non te lo ricordi? Ma tu eri appena nata quando
è partito. La mamma parlava di lui come di un santo.”
“Ma non si faceva sentire mai, non ci chiamava. È lui che faceva il
panettiere?”
“Come fai a ricordare tutto?”
“Come si fa a non ricordare?”
“Anch’io avevo buona memoria a scuola, non solo tu. Ti prego qui non si
può più vivere. Non sanno che farsene di noi.”
“E noi sappiamo dove e come vivere?”
“In Palestina.”
“Adesso chi vive in Palestina? Gli inglesi, quelli che hanno distrutto il
nostro pollo a Celle! È stata una crudeltà. I soldati americani erano umani.”
“E se Sara continuerà a trafiggerti con i suoi sguardi azzurri?”
“Andrò da David.”
“Ma si è appena sposato e vivono in una stanza perché nell’altra hanno
messo un inquilino invalido. Io non ti lascio sola.”
“Ti raggiungerò presto. Mi farai sapere se la Terra Promessa esiste per
davvero.”
“Come fai a non crederlo, ad avere dubbi nella parola della mamma e in
quella di Dio?” Mi aveva fulminato con uno sguardo di fuoco. “Valeva la pena
di salvarsi.”
“Non so. Viviamo, vedremo vivendo. Le nostre vere sorelle e fratelli sono
quelli dei lager. Gli altri non ci capiscono, pensano che la nostra fame, le nostre
sofferenze equivalgano alle loro. Non vogliono ascoltarci; è per questo che io
parlerò alla carta.”
“E secondo te sei normale?”
“Sì, la carta ascolta tutto. Va’ in salute, e in un’ora fortunata, come si dice in
yiddish, e scrivimi per adesso da Sara.”
A vederla andare via mi sentivo in mezzo al deserto senza la voce
dell’Eterno.
Il cuore di Sara rimase freddo, gelido come l’inverno. Io perdevo peso,
scrivendo di nascosto più che alla luce e, con indumenti troppo scarsi, cosa che
deve aver suscitato la pietà dei vicini che mi hanno fatto dei guanti e una
sciarpa di lana.
Un giorno mio cognato, che trafficava in sale con la Romania, aveva portato
con sé anche mia sorella e io rimasi sola nella casa dove il burro era
inaccessibile, chiuso a chiave. La serva Maria mi sorvegliava come fossi una
ladra, la vecchia zitella, incaricata di darmi lezioni di pianoforte, spettegolava e
insisteva con i solfeggi. Io volevo suonare liberamente le canzoni della mamma
e del papà e lei una volta chiuse il piano schiacciandomi le mani sui tasti e
quasi spezzandomi le dita. Quella botta mi ricordava altre botte: guai se mi
toccavano con violenza. Invano mi chiese scusa, la poverina. Ignorava i miei
problemi.
Durante l’assenza di mio cognato e Sara si presentò in casa un medico ebreo
di un paese vicino, dicendo di essere loro amico, che avrebbe dormito lì come
sempre.
Appena mi misi a letto mi assalì, io sono diventata una furia. E lui si è
offeso! Io ai suoi occhi ero una povera stupida ragazza di campagna e credeva
di avere un diritto di classe a far di me la sua preda.
Poi da vile mi pregava di tacere sull’accaduto.
Ma c’era Maria, la serva che spiava, e ha riferito chissà che a Sara, appena
era tornata. Lei non aspettava altro per poter allontanarmi con uno schiaffo,
chiamandomi puttana e via.

Per vent’anni non l’ho più rivista. Mi presentai da David, nel paese della
moglie. Lui mi ascoltò e rimase muto e perplesso. Dalla giovane coppia
dormivo in una stanza divisa in due con un telo. Di notte ascoltavo i loro
gemiti d’amore. E di giorno l’inquilino Ivan, sulla sedia a rotelle, suonava la
chitarra e io cantavo con lui le sue composizioni disperate. Qualche
pomeriggio, in fondo al giardino, sulla discesa verso il fiume Bodrog, scrivevo o
leggevo i libri che mi prestava lui; romanzi, poesie... E mi piaceva tutto.
Inghiottii ogni riga, ogni pagina e divorai i volumi uno dopo l’altro. Al
tramonto del sole che amavo, scrivevo sul mio quaderno a matita. Avevo già
corteggiatori e da un bel ragazzo borghese ho ricevuto il secondo bacio, che
aveva spaventato mio fratello, perché quel ragazzo di famiglia benestante non
mi avrebbe mai sposata e temeva che gli cedessi.
“Piaci anche a Feri” mi ha fatto sapere.
“Feri chi? Rozenthal? L’amico di papà? Ma potrebbe essere mio padre!”
“Vuole fidanzarsi con te.”
“Io no.”
“Facciamo un bel fidanzamento e ti sistemi con un uomo serio. Mi sono già
messo d’accordo con lui. Lo faccio per te, tu sarai protetta e io tranquillo.
Ascoltami. Noi ce ne andremo da qui da un giorno all’altro.”
Con il cuore e le gambe tremanti lasciai che avvenisse il fidanzamento,
senza scambiare con l’uomo nemmeno un bacio.
Io lo interrogavo sugli incontri, su mio padre e le loro bevute insieme,
lontano da noi. Cercavo in lui qualcosa che mi facesse conoscere meglio mio
padre, troppo taciturno, e la causa delle liti con la mamma.
Purtroppo non mi rivelò niente. Né aveva niente da dirmi o da darmi e partì
presto per il Canada, dove poi seppi che aveva sposato una nostra lontana
cugina. David faceva parte di un gruppo di “nuovi” comunisti e nel frattempo,
in gran segreto, si preparava a lasciare l’Ungheria, organizzando per prima cosa
la mia fuga in Slovacchia, da un suo fratello di lager. Nel frattempo, dopo aver
venduto la casa della moglie, aveva comprato qualche gioiello, che molti
vendevano per la penuria del cibo, e me lo aveva affidato perché lo portassi via.

A capodanno del 1946 mi trovai a Bratislava, oltre il confine dell’Ungheria,


ero attesa da un giovane che mi accolse con abbracci e parlava ungherese
abbastanza bene, con accenti buffi ed errori grammaticali. La casa dove andai
era grande e semivuota, non c’era quasi niente, solo letti. E oltre alla moglie
dell’ex compagno di lager di mio fratello, il giovane Alex, c’era un andirivieni
continuo di gente dall’aria persa, che, come me, non sapeva cosa fare della
propria vita e come ricominciare a vivere. Non si trovavano più bene né con se
stessi né con gli altri: qualcosa si era spezzato, qualcosa era cambiato
definitivamente nelle nostre vite.
In quella specie di comunità, inutilmente avevo atteso mio fratello, e col
tempo ho saputo che era finanziato dalle agenzie ebraiche con lo scopo di
inviarci tutti in Palestina. Infatti qualche volta apparve un giovane biondo,
robusto, l’“ebreo nuovo”, che, con una lingua babelica spiegò che saremmo
partiti presto per la nostra terra dove si svolgeva una guerra clandestina contro
gli occupanti inglesi e arabi. Presto saremmo stati trasferiti in un campo di
transito in Germania, nella periferia di Monaco, dove avremmo dovuto fare
degli esercizi militari, e aggiunse: “E coraggio! Niente lamentele e niente ai wei
ai wei yiddish.”
Non mi restava che piangere e raggiungere Judit. Ma dove? Mi rivolsi a un
agente giunto dalla Palestina, gli diedi i dati di Judit e lui mi disse che la nave
con cui viaggiava verso la nostra terra dei sogni era stata sequestrata dagli
inglesi e i migranti erano stati portati a Cipro.
David si era trasferito nella città di Sara. La moglie era in attesa di un
bambino. I gioielli che mi aveva affidato mi erano stati rubati. Come, quando e
da chi non sapevo. Nella solitudine, in quella vita promiscua e provvisoria, mi
ero innamorata di un uomo che mi mangiava con un sorriso bianco, con
un’ombra di cinismo e qualcosa di falso negli angoli della bocca vorace, di uno
che sa di piacere alle donne e di notte era spesso assente dalla casa comune.
Perché avevo scelto proprio lui, che mi aveva sverginato con un colpo che
faceva venire in mente la macellazione kasher, per cui si tagliava la gola della
gallina con un solo gesto e la si buttava ancora sanguinante nel cortile della
sinagoga! Era disgustato dal sangue? Perché quella violenza senza una carezza?
Era lui a voler punire in me le donne o ero io a voler punire me stessa? Perché
l’ho lasciato fare? Mi buttavo via, io? Volevo gettare alle ortiche la mia vita
inutile, la mia giovinezza in un mondo abbrutito, i miei sedici anni difesi con
tutte le mie forze e mi disprezzavo. O lo amavo? Ero malata? O assetata di
amore, perché c’era una persona per la quale esistevo, mi desiderava anche se
aveva altre donne, e godeva del suo piacere, senza conoscere il mio. Perché?
Perché?

Tempo dopo l’ho incontrato e ci siamo scambiati un cenno di saluto nel


campo di transito alla periferia di Monaco, dove la gente sostava fuori dal
recinto con le pentole vuote chiedendoci da mangiare, e gli diedi tutto quello
che potevo.
Altri mesi e mesi di attesa, fatti di canzoni ebraiche, marce, passi militari,
discorsi sull’antica patria che hanno rianimato tutti noi sopravvissuti. E mi
parvero così belli, come quelli che udii nel partito comunista nascente nel
paesino dove era rimasto David. A chi non piacciono parole come democrazia,
giustizia sociale, uguaglianza, pane per tutti, terra ai braccianti oppressi,
sfruttati, schiavizzati, cultura e coscienza al popolo, ai lavoratori e agli operai,
sradicare per sempre il fascismo, il potere dei signori e delle chiese, eccetera,
spazzare via la nobiltà, i borghesi che si nutrono del sangue dei popoli... su la
testa, popolo, viva il proletariato! Le parole degli istruttori-agenti-guerrieri non
somigliavano alle favole di mia madre, delle quali sentivo il sapore nella bocca,
invece le loro voci erano rudi, aspre, nuove, diverse da noi, un’altra specie
anche loro, sicuri di sé, delle proprie parole nuove, di fronte a noi inermi,
martiri dei ghetti e dei campi, affamati di amore e di pace.

“È nato! È nato! I russi sono stati i primi a firmare! La radio, la radio.


Ascoltiamo! Parla Ben Gurion. L’inno, l’inno, attenti. La Ha Tikvah!11” Pur non
sapendone bene il significato, l’inno che sorgeva dal cuore, affogava gli occhi di
lacrime, che scendevano. E l’inno risuonava nel camion che ci portava in
Francia a Marsiglia, dove ho visto per la prima volta il mare! Il mare, dove, in
piena estate, ci misero in un ennesimo campo di raccolta, in attesa sempre più
impaziente e faticosa di partire per il neonato Israele, dove avrei incontrato
finalmente Judit e forse il fratello di mio padre. Peccato che il sogno della
mamma non si sia potuto avverare e che per noi sia diventato una realtà
inimmaginabile, fatta di pura emozione e nostalgia biblica.
L’Arca di Noè giunse a settembre nel porto di Marsiglia e ci sistemarono
nella stiva, dove c’era già una moltitudine umana di etnie e costumi
sconosciuti; gente di colore con barbe lunghe e palandrane, i piedi scalzi, le
bocche mute che masticavano radici, mormoravano e masticavano, sputando
saliva verde.
“Chi sono?” mi sfuggì ad alta voce e mi sentivo di nuovo diversa e di
un’altra specie, di un altrove, piena di stupore, sulla nave vecchia che
sballonzolava come fosse la culla di Mosè sul Nilo, verso lo Stato poppante.
Alle mie spalle udii una voce: “Sono etiopi, marocchini, neri”, e voltandomi
vidi un ragazzo alto, dal sorriso un po’ storto, la pelle olivastra, che, correndo
trafelato, era salito per ultimo sulla nave. Non lo avevo mai visto prima. Mi tese
il braccio lungo, la mano ampia dalla stretta secca e, parlando in ungherese con
un sorrisetto avaro, disse il suo nome: “Sono Braun Gabi da Budapest. E tu?”
“Sono Ditke, vengo da un villaggio che non puoi conoscere.”
“Sei sola?”
“No.”
“E con chi sei?”
“Con mia sorella e mio fratello.”
“E dove sono? Qui su questo traghetto?”
“In Israele.”
“Allora sei sola, no? Io me lo sono spassata a Parigi.”
“Che facevi?”
“La bella vita.”
“Da solo?”
“Le ragazze belle non mancano in Francia, ma non come te.”
“Stiamo ballando troppo, ho la nausea.”
“Soffri di mal di mare? Io no, farò il marinaio.”
“Sto male.”
“Vieni su, vomita in mare.” Mi aveva trascinato sul ponte, e in nove giorni e
dieci notti, tra un vomito e l’altro, mi ero innamorata delle sue mani che mi
tenevano la fronte come facevo io quando la mamma vomitava.
Mi accompagnava anche al bagno, se avevo male alla pancia. Il suo sguardo
diventava cattivo solo quando non lo lasciavo frugare nel mio corpo, così
sofferente durante tutto il viaggio, che quasi all’arrivo non stavo in piedi.

Signorina, signorina, / come ti chiami? / Vieni qua, dammi la fica... / ...figlia di puttana.
10

La speranza.
11
La realtà

Dopo aver cantato l’inno nella confusione, dove mi lasciavo urtare, spostare e
non desideravo altro che il bagno sulla terra ferma, sotto i piedi vidi la scritta
WC. Intanto il mio ragazzo era scomparso e a malapena lo avevo intravisto su
un camion che partiva verso chissà dove.
Raggiunsi la fila in attesa di essere registrata. Gli uomini e le donne,
secondo l’età, vennero arruolati nell’esercito e io, ancora diciassettenne, venni
trasferita in un campo seminato nella sabbia di prefabbricati con il tetto di
lamiera.
Dove, dove sono, mamma, mamma! La invocavo di notte, tra gli ululati degli
sciacalli.
E della realtà che temevo quando non volevo partire con Judit? Dov’è Judit,
dov’è? Il sogno si è infranto ed è andato in fumo con la mamma, come la sua
attesa dei russi e quella di papà, che aspettava il socialismo.
Dietro di me tabula rasa, davanti una fila con una ciotola per il cibo e una
donna energica di nome Ruth che manteneva l’ordine, soprattutto tra i più
impazienti, sotto il sole ancora bollente d’oriente.
La lingua tra noi era quella babelica, essendo arrivati da ovunque e sistemati
un po’ secondo le nostre provenienze, gli ungheresi sono diventati ungheresi, i
romeni romeni, mentre nei nostri Paesi eravamo solo ebrei. Nell’ufficio del
campo seppi che Judit e David erano già nel Paese. Con inattesa rapidità mi
informarono che mio fratello con la moglie e un bambino vivevano in una
cooperativa agricola e il bambino si chiamava come mio padre, in ebraico
Shalom.
Judit viveva in un quartiere periferico a Haifa con il marito sposato a Cipro
e avevano un figlio di nome Haim12.
Lo zio di nome Joel era a Tel Aviv con due figli maschi: Avi e Itai.
E con che soldi vado a trovarli?, mi chiedevo giorno dopo giorno, finché
seppi che tutti viaggiavano in autostop.
Le macchine private scarseggiavano e il primo viaggio lo feci soprattutto
sulle jeep militari e i camion, cercando di spiegare dove ero diretta, con
l’indirizzo di Judit in mano.

La piccola casa era su un terreno infossato, con una grande terrazza, dove
vidi un bambino in carrozzina. Piccolo piccolo, che meraviglia, con un faccino
che tendeva al sorriso e due grandi occhi di brillanti neri.
Mi chinai per baciarlo inondandolo di lacrime che lo fecero gridare e
accorrere mia sorella in grembiule, ciabatte, che a momenti sveniva.
“Dio, Dio!” urlava di gioia e rimproveri perché non ero partita con lei.
E mi raccontava di sé e io raccontai di me tacendo di quell’uomo in
Slovacchia, ma parlando del ragazzo conosciuto sulla nave.
“E adesso che farai? Verrai ad abitare da noi o da David, che è arrivato tre
mesi fa? Qui, ai singoli non danno alloggio. La vita è dura ma siamo a casa, a
casa degli arabi che vogliono buttarci nel mare. Mio marito, in mancanza di
altro, fa il vigile. Non è felice, voleva fare il pittore, come te la scrittrice. Scrivi
ancora?”
“Più di prima, le parole da dire stanno aumentando, se fossero bambini
concepiti ne partorirei tanti quanti ne sono stati annientati.”
“Io non ti capisco, non ti capirò mai. Che vuoi dire? Studia l’ebraico, impara
un mestiere. Vieni, entriamo nella mia povera casa; due stanzette e una cucina.
La terrazza è grande, va bene per il bimbo ma mi impedisce la vista. Haifa è
bella, devi vedere il Carmelo!”
“Io voglio vedere David, lo zio Joel tu l’hai già visto, somiglia a papà?”
“Sono corsa da lui incinta, non ha niente di papà. La moglie, una polacca
tutta dipinta, mi ha messo davanti un caffellatte senza zucchero; anche qui
mancano molte cose. Il Paese non è ancora un Paese, è appena nato, è piccolo
come lui. Lo zio è taciturno come le nostre zie, poveracce, tutte scomparse. Nel
nostro villaggio non c’è un solo ebreo. Ma parliamo di altro. Mio marito è bello,
ma più piccolo di me, e non mi fa mettere le scarpe con i tacchi. Oggi torna
tardi, ha il turno pomeridiano. Mangiamo qualcosa? Ti faccio il dolce con la
ricotta che faceva la mamma? Ti ricordi del tedesco che voleva ucciderti? E sai
chi ho incontrato qui? Aliz, la carogna, il nostro kapò ad Auschwitz. La
denunciamo? E sai chi ho incontrato ancora? Marika, l’altra carogna! E la
buona Terez, che mi aveva aiutato a trascinarti alla fine della marcia.”
“Il bimbo sta piangendo.”
“Lui sa già tutto, gli ho raccontato che non ha né nonna né nonno.”
“Hai fatto male. Io voglio tornare a Pardes Hanna prima di sera. Devo
andare, devo andare presto.” Volevo fuggire dai suoi discorsi.
“Io non ti lascio andare.”
“Tornerò presto.”
“Perché questa fretta? Chi ti aspetta, che fai, la civetta con qualcuno?”
“No. Ho bisogno di andarmene. Domani vado da David e dopo dallo zio.
Voglio vederli.”
“Non mi hai detto che effetto ti ha fatto mettere i piedi sulla nostra terra. Io
l’ho baciata.”
“Io sulla nave sono stata male. Ho vomitato tutto il tempo e, appena
arrivata, sono rimasta scioccata, nel bagno del porto ho trovato la carta con la
scritta in ebraico.”
“Ma stupidina, sono giornali! Sei felice che siamo qui?”
“Non so... sulla bocca della mamma era la favola più bella.”
“Vuoi dire che sei delusa per colpa della mamma? Mangia.”
“No, no.... Forse è colpa mia, non mi trovo più bene da nessuna parte, non
mi piace il mondo e non posso cambiarlo.”
“Magari potessi cambiarlo, ma temo che sarà il mondo a cambiare te.”
“Hai chiamato Haim il tuo bambino: è bello.”
“Sì. Dobbiamo sostituire quelli che...”
“Sì sì, ho capito. Basta, adesso vado.”
“Ecco mio marito, si chiama Ámos.”
L’uomo, perso nell’uniforme, dall’espressione offesa, pensieroso, fece
qualche timido passo verso di me e quasi si ritrasse mentre lo salutavo con un
bacio.
“Non vi somigliate.”
“Vuoi dire che lei è più bella di me?” gli chiese Judit.
“No, no.”
“Fin da piccola si specchiava, come fosse la più bella del reame” aggiunse
Judit, tutt’altro che brutta, solo complessata, seria, litigiosa, un po’ come la
mamma.
Prima che ricordasse di me bambina e il nostro vissuto con la morte, baciai
con il cuore il bimbo “Vita”, Judit che mi era più che sorella e Ámos, dal bel
viso e il cuore corazzato, introverso.

Lasciai la casa più che mai smarrita, con le gambe malferme, come fossi
ubriaca, turbata. In strada, alzai il pollice e fermai subito un furgone, guidato da
un militare che mi ispirava fiducia. Gli dissi il nome del campo e rispose con un
“ok”.
“Io sono Ditke” pronunciai in ebraico e dall’accento capì subito che ero
ungherese. Mischiando quattro lingue insieme, mi fece capire che aveva perso
un fratello in guerra, che erano circondati da nemici anche dietro la porta di
casa, e anche a noi, nuovi arrivati, sarebbe toccato difendere la nostra terra.
“Tu perché non sei nell’esercito? Soldat? Soldat?”
“Oh no, non ho l’età e non voglio uniformi: né ammazzare, né morire. Io
vengo da Auschwitz.”
“Auschwitz, Auschwitz: basta! Tu devi essere forte, vivere e morire con
dignità.”
“Voglio scendere” gli dissi, al centro della città.
“Ok, ok, ok!”
Poi sembrò pentirsi e venne con me dicendo: “Andiamo al Caffè Nizza da
Ungar. Magyar, magyar, ti offro anche una torta Sacher.”
L’uomo robusto dietro al banco aveva un volto familiare, mi ricordava lo zio
Berti che era scomparso, e mi veniva da piangere a ricordare lo zio più amato.
Distogliendo lo sguardo dall’uomo e voltandomi verso la porta a vetri
dell’ingresso, vidi apparire come un fantasma il ragazzo della nave, Gabi. Gli
corsi incontro abbracciandolo come fosse Jonas, il mio fratellino pallido
perduto. Anche lui mi strinse a sé, da innamorato, ma subito geloso del soldato
che mi stava dando solo un passaggio, e che con un altro “ok” e uno “shalom”
in tono sgarbato, mi aveva mollato lì, con il mio marinaio. Io gli raccontai di
me, di Judit, di David. Lui non aveva nessuno, era figlio unico, gli piacevano i
motori e faceva il meccanico su una nave militare. Aveva una paga magra e
scherzando mi disse che conveniva sposarsi, certo a spese dell’esercito, magari
ottenere un alloggio e un assegno familiare. Lo ascoltavo stordita, mentre lui
giurava di amarmi. Temendo, ma neanche troppo, che fossi io a volerlo
sposare. Ci siamo lasciati, con la promessa di rivederci presto.

David abitava in una delle casette sparse su un terreno arido, nudo vicino a
Zikhron Ya’aqov. Era più che felice di rivedermi, ma i suoi grandi occhi
brillavano solo nel guardare il suo piccolo Shalom e la moglie Valeria. Era
povero, taciturno, con un animo in rivolta, come mio padre. La moglie amata,
una sopravvissuta, aveva problemi di polmoni e lui al cuore. Non erano adatti
per zappare la terra pietrosa.
Improvvisamente mi saltò in mente di raccontargli del ragazzo Gabi... e la
sua reazione, alla mia idea di sposarmi, fu sproporzionata.
“È uno sconosciuto, cosa dici?!”
“E tu? Che volevi farmi sposare con l’amico di papà? Per chissà quanto
ancora devo stare in quel campo. Non voglio passare tutta la vita lì in trenta
dentro una stanza, in fila per mangiare. Qui ancora le pallottole svolazzano. Ci
vorrebbe un sanatorio per noi, altro che i campi di transito!”
“Ma non sai chi è...”
“E quando sai chi è?”
“Può essere un mascalzone, un bugiardo, un farabutto. Di dove è?”
“E che differenza fa di dove è?”
“Ma hai diciassette anni...”
“Che me ne faccio dei miei diciassette anni?”
“E lui quanti ne ha?”
“Ventidue. Mi piace, è bello, è di Budapest.”
“E che sa fare?”
“Niente. Il marinaio. C’è qualcuno che fa quello che gli piace fare?”
“Tu hai sempre la risposta giusta, eh?”
“E il marito di nostra cugina Adele, che fa lo spazzino? Che si può fare se
non si parla l’ebraico?”
“Fai quello che ti pare, tanto tu non ascolti nessuno! Aspetta, appena compi
diciott’anni potrai diventare una bellissima soldatessa e imparerai anche la
lingua.”
“Io non prenderò mai un’arma in mano.”
“Piuttosto ti fai ammazzare?”
“Credo di sì. Preferisco avere avuto un padre martire che un padre
assassino.”
“Io avrei fatto il militare per amore di Israele.”
“Lo so. Io no. Le guerre portano guerre. Io disarmerei tutto il mondo.”
“Sogna, sogna tu. Avrai un brutto risveglio.”
“L’ho già avuto.”
Alla fine ci siamo lasciati con il mio amato fratello riconciliati, pentiti,
commossi, con reciproche scuse e, dopo aver giocato a lungo con il bambino,
mangiato, bevuto, con altri baci e abbracci me ne sono andata.

Un rabbino dell’esercito mi ha unito con Gabi a bordo in una sala


dell’esercito. Abbiamo ballato, cantato e ci siamo ubriacati di Coca Cola e
gazzosa. Un amico di Gabi, Dov, che faceva il cuoco sulla nave, ci aveva
proposto di occupare, nel seminterrato di una grande villa di proprietà di un
tedesco, dove lui stesso abitava con la moglie, una stanza ancora vuota, che
diventò il nostro povero nido d’amore. Il bagno-doccia-cucina era in comune
con un’altra coppia di sposi che abitava lì. Il letto pieghevole proveniva dalla
nave, come anche un ripiano e la biancheria. La licenza per il matrimonio era di
una settimana, che passammo a far l’amore come due cani che non possono
separarsi. Al cibo pensava il cuoco, Dov, grasso, piccolo, il contrario di Gabi.
Sottraeva dalla cucina della nave tutto ciò che poteva. L’affitto e la luce non si
pagavano. Il padrone di casa era un fantasma misterioso e invisibile. Ciò che si
avvertiva da sopra era la sua ostilità muta, verso lo Stato che aveva requisito
quello spazio e verso di noi che lo occupavamo, camminava rumorosamente e
ascoltava brani di Mozart che teneva a tutto volume e mi facevano venire
nostalgia delle lezioni di pianoforte.
Piano piano abbiamo ammobiliato la stanzetta con un armadietto, un
tavolino, due sedie e perfino un tappetino sul pavimento di cemento. Mi accorsi
che mio marito aveva un vago tic nervoso. Dopo la settimana di passione,
dovette ripartire e io non sapevo né per dove né quando sarebbe tornato. La
moglie del cuoco Dov, piccola, magra, insignificante, parlava in un ungherese
di qualche paesino, non era di sicuro ebrea e si chiamava Piri, abbreviamento di
Piruska, come la mia compagna di scuola, neanche lei sopravvissuta.
Piri mi propose di andare con lei a fare le pulizie nell’ospedale militare di
Haifa.
“Lavoro è lavoro” disse.
“Già” risposi, e finii tra i letti dei soldati feriti, a mangiare i loro avanzi.
All’uscita la direttrice del personale mi fece aprire la borsa, per perquisirla e
rimasi senza fiato, offesa a morte per essere stata trattata come una ladra. Le
ginocchia mi tremavano di nuovo e il cuore era rimasto senza ossigeno.
“Non te la prendere. È così, ci controllano ogni giorno. Il magazzino è pieno
di roba e c’è chi ruba maglie, lenzuola, cuscini, è una cosa normale.”
“Non per me.”
Tornare a casa dopo anni di giacigli in comune mi sembrava il paradiso,
anche se era una stanzetta, dove non mancava la sbarra su una minuscola
finestra al livello del terreno che dava sul cortile esterno, ma bastava una
tendina di pizzo per addolcire la vista.
La presenza, oltre il muro, della giovane coppia, anche se poco
comunicativa, e di Piri, non mi facevano sentire sola, e, chiudendo gli occhi
come quando ero bambina, non sognavo più che da grande avrei aiutato i miei
genitori, ma di far pace con la realtà, di non essere più così nuda e feribile
anche da uno sguardo storto. Di dimenticare la favola della povera mamma e
non pensare più al latte e al miele, ma al sangue che ancora scorreva là, dove si
imparava a sparare prima di camminare! Il Paese “vecchio” neonato che aveva
bisogno di cura e di difesa, di forze giovani e amore per vivere, gli stessi miei
bisogni, e dove mi aspettavo di trovare cuori e braccia aperte e non armate.
Non capivo neppure come mai di sabato si lavorasse. Per di più, i medici ci
facevano pulire i loro appartamenti privati, dopo che erano stati rimbiancati.
Gabi, rientrato da qualche giorno, si è arrabbiato subito, per il mio lavoro
all’ospedale e scoprendo che scrivevo.
“Cosa scrivi?!” mi ha gridato afferrando il quaderno che avevo in mano.
“Una cosa mia.”
“Fammi leggere.”
“No e non toccarlo.”
“Te lo faccio a pezzi” cominciò a strapparlo.
“Puoi farne quello che ti pare: strappalo, brucialo, tanto lo rifarò. È
indistruttibile: è scritto dentro di me e nessuno potrà cancellarlo. Ma si può
sapere cos’hai? Perché sei tornato così rabbioso?”
“Ho litigato con il mio superiore.”
“Perché?”
“Perché mi sono addormentato.”
“Sono stata anche da Judit e da David. Adoro i loro figli. Perché non
facciamo un bambino?”
“Un bambino? In questa miseria? Ma tu sei pazza, non sai quello che dici. E
come facciamo a mantenerlo?”
“Ce la faremo. La mia mamma diceva che dove c’è da mangiare per due c’è
per tre.”
“Non ti voglio vedere incinta... Di figli non voglio neanche sentirne parlare.
Il tuo corpo lo voglio così com’è”, quasi mi buttò sul letto.
Dopo due giorni ripartì di nuovo, senza che io sapessi per dove. E a ogni
ritorno era pronto a litigare per i miei viaggi da Judit, da David, come se gli
togliessi una parte di affetto, anche se lui non c’era. Per di più, mi interrogava
su chi avevo incontrato, chi avevo visto, come se andassi a divertirmi. Era
ossessionato dalla gelosia e i suoi interrogatori cominciavano a stancarmi.
Andammo avanti così per mesi.
Disapprovava anche il mio lavoro, tanto che alla fine lo lasciai e andai al
Caffè Nizza, dove ci eravamo incontrati, a vendere gelati. Nel frattempo feci
anche un corso di ebraico e il vecchio Ungar mi consigliò anche un corso da
cameriera, perché ero una bella ragazza e avrei avuto sicuramente un sacco di
mancia. Gabi detestava tutto quello che facevo. Ma la paga del soldato-
marinaio era troppo scarsa. Lui amava il suo lavoro di meccanico e il dondolio
del mare era la sua culla, come la mia vagina era per lui il ventre materno.
Con il diploma di cameriera professionale trovai lavoro in un grande
ristorante sul lungomare di Haifa. Il proprietario era un ebreo tedesco piccolo,
con una moglie magra e triste. C’erano altri due camerieri, oltre a me, venivano
dalla Transilvania, e tre ragazzi arabo-israeliani che friggevano il pesce.
Preparavano i cibi orientali, lavavano i piatti, le pentole e facevano le pulizie,
dormendo tutti e tre in un magazzino interrato come la mia stanza. Avvertivo
una certa solidarietà naturale con loro e cercai di farglielo capire, quasi mi
vergognavo io al posto del proprietario che gli dava ordini in un tono da
schiavista, oscurando lo sguardo anche della moglie che era costantemente alla
cassa. Con me abbassava il suo tono autoritario e, per le poche parole che
scambiava con la moglie, usava la lingua tedesca. Con la numerosa clientela
araba che abitava nella zona, parlava l’arabo. Con i marinai parlava ebraico.
Con gli americani l’inglese. Aveva mille occhi e faceva correre tutti tra i tavoli
senza sosta, anche oltre il nostro turno. L’incasso, anche in dollari, in un solo
giorno era il doppio di un mio stipendio di un anno. Ma sulla mancia aveva
ragione Ungar: era abbondante, ma anche accompagnata da qualche manata sul
sedere o da un invito a spasso o da una strizzatina di occhio. Un marinaio
americano aveva allungato troppo la mano e mi fece piangere. Il proprietario
invece di rimproverare lui, se la prese con me: “Che c’è da piangere? Sei un
uovo dipinto? Non ti si può toccare? Ti ha rotto qualcosa? Ti ha fatto male?”
“Sì, sì, sì” risposi.
La moglie l’aveva trafitto con uno sguardo, ma rimase muta. Temeva quel
pallone gonfiato? Non andai più volentieri neanche al lavoro, anche se
guadagnavo bene. Volevo una casa più decente, una famiglia vera, un marito
che dopo il servizio militare fosse meno aggressivo.
Un giorno invitai i tre ragazzi arabi per un caffè e si presentarono con delle
bottiglie di birra, che mi offrirono. Cominciai a bere dalla bottiglia e loro
gridavano: “È piscia, è piscia, è piscia!” E rimasi così male che non riuscii più a
guardarli in faccia.

Un venerdì sera Gabi mi aveva gettato addosso la minestra perché era


troppo calda. Era il suo primo gesto violento, mi ha chiesto mille volte scusa e,
col tempo, glielo avevo perdonato, pur non dimenticando, ma la seconda
violenza no.
Un sabato, invece che aspettarlo a casa, raggiunsi Judit al mare con il
bambino. Appena arrivata, neppure mi spogliai – avevo il ciclo –, me lo vidi
davanti infuriato, che mi dava della puttana che vuole farsi vedere in bikini.
Mentre mi insultava, urlando “puttana”, mi diede ripetutamente dei calci,
ordinandomi di tornare a casa subito.
“Mai più” mi ripetevo, a ogni nuovo calcio, di fronte a gruppi di famiglie
all’ombra, con i bambini, pur amandolo. Il mio “mai più” era sicuro, in me, e
non piansi.
Per una volta, neppure Judit si era mossa di fronte all’inatteso assalto, che
l’aveva letteralmente paralizzata e stringeva a sé il bambino come se lui potesse
far del male anche al piccolo, ma si era allontanato rapidamente. Io tornai a
casa con Judit, subendo tutti i suoi rimproveri per aver sposato un pazzo.
L’indomani, non avendo niente da mettermi per cambiarmi, avrei voluto
prendere le mie cose. Con Judit ci avvicinammo piano piano alla finestrina
sbarrata e spiando all’interno assistemmo alla distruzione totale di tutto.
Guardavo desolata mio marito che combatteva contro un paio di calze di nylon,
che non riusciva a rompere, a fare a pezzi.
Mi comprai le cose necessarie e non mancai dal lavoro neanche un solo
giorno. Lì presto apparve lui, con un’espressione pentita, deformata, con quel
suo tic sulla bocca, e mi supplicava: “Mamma, mammina, amore mio, torna a
casa, io ti amo, ti amo. Non ti toccherò mai più, lo giuro: tesoro, credimi, e
guardami. Ti ho portato le mutandine, guardami.”
“Non posso, non posso, voglio solo il divorzio.”
“Guarda le tue mutandine, hai le tue cose.”
“Voglio solo il divorzio.”
“E se non te lo do?”
“Ti denuncio.”
“No, no, no,” disse da vile, “sì, sì, sì, ti do il divorzio.”

Da Judit mi trasferii in una stanza ammobiliata, in un appartamento di una


vecchia signora sola, vicino al Caffè Nizza. Tra i suoi inquilini c’erano tre
giovani ragazzi un po’ sfuggenti, come fossero clandestini, e un uomo più
maturo, che mi aveva colpito per lo sguardo intenso, pensieroso, e un bel viso
dalla pelle olivastra. Mi guardavano tutti con diffidenza e ogni tanto si
riunivano tra loro e quello che mi aveva colpito parlava con la voce da
cospiratore della formazione di un partito comunista. E li udii dire: “Il nostro
padre.” Alludevano a Stalin!
Rimasi perplessa, disorientata, soprattutto per quel “nostro padre”, più che
turbata per quel tono che suonava come una preghiera.
“Ma chi sono? Che vogliono?” mi chiesi, smettendo di spiarli. Alla prima
occasione chiesi all’uomo più maturo di cosa stessero discutendo.
“Di poesie” mi rispose e mi fece il dono più bello della mia vita: tutte le
poesie di József Attila, il mio poeta preferito e più amato, citando l’autore
stesso: “Il mio cuore ha già vagabondato tanto, ma adesso si è edificato e ha
appreso che il vivente, solo chi vive può amare immortalmente.”
“Che significato hanno questi versi,” mi chiesi, “perché li ha scelti per me?”
Con una stretta di mano se ne andò e mi dispiacque che mentisse. “Non è
vero che parlavate di poesia!”
La mia frase lo aveva bloccato, ma prima che mi desse tempo di chiedergli
alcunché, si allontanò rabbuiato. Non sapevo perché, ma quell’uomo mi
piaceva, lo trovavo attraente, sensibile, ma perché quella bugia sulla riunione?

Ámos, il marito di Judit, di poche parole, mi spiegò che in Israele non


esisteva un partito comunista, ma i comunisti sì, ed erano malvisti, e l’influenza
del partito degli ortodossi era molto forte nel Paese, l’ateismo per loro era
intollerabile nello Stato ebraico.
“Sono perseguitati?” chiesi. “Non è ognuno libero di essere quello che è se
non nuoce a nessuno?”
“Nessuno è quello che è: tutti si adeguano si uniformano ai vari regimi. La
vita è difficile fuori dal gregge. Il socialismo e la democrazia vanno rafforzati,
ma qui quello che urge di più è la pace. Vivere sulle sabbie mobili è snervante.
Il comunismo, nella realtà, diventa dittatura. I dittatori ipnotizzano la massa
che non pensa, si unisce al più forte, applaude chi fa promesse. I dittatori sono
dei plagiatori, ladri di mente, di sogni, sanno, annusano i desideri della gente e
gli dicono ciò che vuole sentirsi dire. Vecchio gioco che si ripete da quando il
mondo è mondo.”
Judit guardava con gratitudine il marito, che, per una volta non aveva
respinto con uno sguardo le mie domande e la mia persona troppo disinvolta e
autonoma, a suo giudizio, “sposata e divorziata come fosse stato un gioco”. Il
mio divorzio era giudicato male anche da David, che colpevolizzava me. Io gli
avevo risposto che avrei divorziato mille volte, se fossi stata infelice.
“L’infelicità è meglio viverla da soli che in due” gli avevo detto.
Il mio ex marito mi propose spesso di risposarlo, portandomi una borsa di
paglia da Napoli, una collana di conchiglie da Genova. Pur non essendo
indifferente nei suoi confronti, appena vedevo nell’angolo della bocca quel tic,
dicevo di “no, no e no”, e lui passava subito all’offesa, ridendo del mio lavoro di
cameriera e mostrando la mia fotografia nel suo portafogli, in segno di amore.
Un giorno tornando dal lavoro, la vecchia affittuaria, molto agitata, mi
venne incontro e in un yiddish cantilenante da polacca, mi disse che era venuta
la polizia e aveva portato via i suoi ragazzi, chissà dove e se sarebbero tornati.
Mi dispiacque per quello più maturo, che mi aveva regalato il libro; avrei voluto
conoscerlo meglio, parlare con lui e leggere con lui le poesie, come le avevo
lette con Endre nella vita precedente. Aspettavo con ansia il suo ritorno, ma
non osavo andare alla polizia, detestavo le uniformi, persino quella da vigile di
Ámos mi infastidiva. E per puro caso lui era di servizio nelle vicinanze del
Caffè Nizza, dove andavo spesso. Mi aveva informato, essendo la mia residenza
da loro, che era arrivato un avviso per me, che riguardava il mio servizio
militare, che da divorziata avrei dovuto fare. Judit e David dicevano che era
inevitabile.
“E se mi risposo?” gli risposi.
“Sei pazza. Con chi?”
“Uno qualsiasi. L’assegno familiare fa comodo a tutti. Io non posso fare la
soldatessa.”
“Magari imparerai bene la lingua e un mestiere” ripetevano.
“Non sopporto il dormitorio e gli ordini. No, no e no.”

Al Caffè Nizza conoscevo da tempo un altro marinaio, di nome Tomi Bruck,


che accettò subito la mia proposta. E, su richiesta di un organizzatore o agente
di balletti, appena celebrato il finto matrimonio con Bruck, dal quale divorziai
subito dopo, partii per Atene. La paga era buona, l’agente, un ebreo, e la
moglie, una danzatrice-solista, avevano creato un gruppo di ballo. Non capivo
bene cosa potevo fare, ma mi pareva qualcosa di favoloso. Vedere Atene,
viaggiare, ballare, un sogno. Il balletto era composto da una zingara bionda,
una ragazza tedesca imbronciata, una donna matura e la moglie dell’agente. La
solista era l’unica vera professionista.
Cominciammo le prove, che duravano tutto il giorno, e presto mi ritrovai
sull’aereo, al mio primo volo, e mi sembrava che volassi io. I miei familiari
erano scandalizzati. La novità mi aveva scombussolata senza però scalfire l’io
profondo, dove continuava a fermentare il mio vissuto sempre presente. Ero in
fuga dal mio matrimonio, dal servizio militare o dalla delusione del mondo,
incapace di ascoltare?
Il ballo lo studiavo anche da piccola a scuola ed ero molto brava e volevo
anche fare la ballerina o l’acrobata. Ero piena di progetti disapprovati dalla
mamma. Volevo fare di tutto e fino ad allora avevo fatto soltanto quello che
potevo e non l’unica cosa che volevo: scrivere... un libro, un diario, ma non
avevo più preso la matita in mano... da quando non scrivevo? Forse avevo
sbagliato tutto io o mi ero ritrovata in un mondo sbagliato? Per Judit e David
ero una persona perduta, una ballerina!

“Vita”.
12
La fuga

Forse la ballerina più triste che il pubblico di Atene avesse visto su un


palcoscenico, con tre musicisti ebrei, grigi, che suonavano un valzer di Strauss
facendo piangere le corde dei loro violini. E noi quattro con l’aria da
sopravvissute volteggiavamo nei costumi lunghi, larghi, bianchi sul bianco,
dalle maniche alate, da uccelli, vagamente smarrite che svolazzavano urtandosi:
gli applausi non mancavano, soprattutto per quelle nuvole bianche nella
penombra del locale dove capitò anche il re Faruk. Il problema era bere, se i
clienti ti invitavano. Io odiavo l’alcol, non bevevo neppure il vino né un
aperitivo, ma non avevo i soldi per riscattarmi e andarmene dal balletto e,
nell’oscurità, imparai a rovesciare sul pavimento lo champagne.
Nell’albergo appena dignitoso dormivo con la zingara dagli occhi azzurri,
allegra, protettiva, figlia di un musicista di Budapest, anche lei divorziata da un
marito ebreo. Eravamo diventate inseparabili; non era molto bella e la
trascinavo con me essendo la più carina, la più giovane e la più invitata del
balletto, appena migliorato.
Atene e il mare erano incantevoli, come le canzoni e le danze popolari
greche, ma non lo sguardo furbo e bugiardo degli uomini.
La cosa più bella che mi era capitata e che mi aveva restituito il mio “io”, fu
l’invito per la festa ebraica delle famiglie benestanti, che ci trattavano con
gentile curiosità.

Dopo Atene, andammo a Istanbul, città grande, bella, febbrile, dai mercati
vivaci e un mare stupendo. I musulmani per fortuna non bevevano, avevano
solo sguardi ambigui, ma non di rado tentavano approcci violenti.
Io ho fatto amicizia con il proprietario del locale, uomo gentile, rispettoso,
con un padre malato, che sembrava un’immagine sacra. Gli facevo compagnia
appena potevo, mi piaceva tenere la sua mano tremante, smagrita, asciugavo la
fronte madida, vedendolo rianimarsi a ogni mio gesto.
Nel locale avevo un numero tutto mio e, più che ballare, cantavo in inglese e
correvo dal vecchio che mi sorrideva intenerito e grato.
“Ha il cancro,” mi diceva il figlio, “ed è stato un grande pianista.”
Nella casa sembrava che vivessero solo loro due. Sono davvero padre e
figlio?, mi chiesi, scoprendo qualcosa di strano e femminile nei giovani, la lacca
sulle unghie.
Durante le mie brevi presenze nell’albergo, un giorno mi resi conto di essere
osservata da un uomo solo piuttosto basso, apparentemente timido, serio. Mi
guardava anche una donna che apparve accanto alla sua figura, dall’aria
energica, né bella, né brutta, scoprii che parlavano la lingua ungherese.
Sembrava che lei stesse incoraggiando l’uomo ad avvicinarsi a me, insisteva.
Lui si era alzato e lei quasi lo spinse nella mia direzione e voltando il tacco uscì
dall’albergo.
“Sono Max” mi disse l’uomo. “Ho un gruppo di ballo, il Gruppo Max. Vorrei
che lei facesse parte del mio balletto. Siamo in partenza per Zurigo. Le nostre
ragazze sono tutte professioniste. Anche mia moglie è ballerina e coreografa.
Abbiamo ragazze austriache, una ungherese e una contorsionista cinese. Alle
nostre ragazze è proibito bere. Io stesso le accompagno dopo lo spettacolo in
albergo. Sono ben pagate e sempre in locali di primo ordine. Posso darti del tu?
Vieni con noi? Una delle nostre ragazze ha persino accanto il fratello. Il mio
balletto è noto e serio.”
L’uomo era convincente e gli dissi subito di sì e mi riscattai da sola
dall’agente precedente. Mi dispiaceva solo separarmi dalla mia amica zingara,
Jolanka, ma Max non la voleva e il nostro lungo abbraccio non era d’addio,
restammo in contatto anche da lontano.

Mi addolorava anche di lasciare il vecchio e il figlio Gúndüz, ma Zurigo mi


era più familiare, era più Occidente, e poi dovevamo partire per Napoli e mi
sembrava che l’Italia fosse il centro del mondo. Tutte le promesse di Max erano
vere. La severità nei confronti delle ragazze mi parve persino troppo dura: era
rigorosamente vietato sedersi a bere con i clienti, dopo lo spettacolo.
In albergo dormivo con la ragazza cinese, di una bellezza e grazie rare.
C’erano l’esile, eterea Elfi con il fratello e Lili, la più in carne, che era una
danzatrice del ventre. La moglie di Max, Helen, una maestra con la bacchetta. E
io faticavo molto con un numero comune: il mambo. I bravi orchestrali mi
accompagnavano mentre cantavo Because of you e Rainbow e tutto era meglio
della pulizia in ospedale e il cumulo di piatti sulle braccia, e il proprietario
gonfio di tirannia. La città mi apparve molto pulita, bianca e dall’aria fredda,
dopo il brulichio, la bellezza e la vitalità e il colore di Istanbul. La gente era
discreta, abbottonata e gli applausi piuttosto tiepidi. La lingua tedesca, anche se
dal tono e dal suono e dalla pronuncia diversi, leggermente mi turbava. La
nostra lingua comune nel gruppo era diventata l’inglese che tutti parlavano
male, ma parlavano. La mia compagna di stanza non andava molto oltre il
sorriso e sembrava innamorata di se stessa, della propria immagine, nel grande
specchio, nella stanza dove si esercitava contorcendosi come un serpente.
Neanche nel balletto nascevano amicizie, solo qualche confidenza con l’ebrea
Lili, che aveva a Vienna un figlio piccolo, affidato al marito austriaco.
“Ma come hai fatto a sposare un austriaco?” osai chiederle e rimase muta,
con il volto dall’espressione vinta, rassegnata, inondato di rossore.
La città, dall’aspetto neutro come in guerra, mi parve priva di chioschi, di
profumi di spezie, di voci e musica nei caffè. Non emanava alcun odore o
calore. I passanti, uomini incravattati, non si voltavano per guardare le donne
con gli occhi voluttuosi come in Atene o Istanbul e le donne ben vestite
avevano un’aria solida, senza la morbidezza delle turche e delle greche, ed
erano vagamente maschili nei loro tailleur. Dopo gli ambigui e indecifrabili
volti delle due città precedenti, rumorose, con i loro splendidi monumenti e
rituali, l’introversa Zurigo ci induceva a camminare quasi in punta di piedi, a
sorridere con misura durante la nostra esibizione e adeguarci, uniformarci alla
civiltà del luogo che ci era estraneo, forse troppo poco accogliente. Sulle strade
non c’erano i ragazzini scatenati, né mendicanti, né commenti degli uomini alle
nostre spalle. Il clima, come fosse contagioso, condizionava anche i rapporti fra
noi, quasi inesistenti. Né confidenze né amicizia: prove, disciplina, noia e
solitudine; sarebbe stato meglio il servizio militare?
Uno, due, tre, uno, due, tre...

Dall’ordinata Zurigo siamo arrivate alla soleggiata Napoli, abbiamo preso un


bel sospiro di sollievo.
La città stessa, la gente, l’aria, il cielo, erano sorridenti. Ci hanno avvisato
subito di stare attente alle nostre borse, di non dare confidenza e mi dispiaceva
il pregiudizio verso quella città vibrante, simpatica. La pensione Santa Lucia,
sul lungomare, mi sembrava il paradiso, e il locale a pochi passi, Casina delle
rose, un giardino dell’Eden. Dalla mia stanzetta singola vedevo e leggevo
un’insegna: Zi’ Teresa, un ristorante. All’interno, oltre la vetrata, gli occhi degli
avventori erano ipnotizzati dal teleschermo, il totem, l’oggetto miracoloso
appena giunto in Italia da cui proveniva il suono di una chitarra e una voce,
che invocava una certa Maruzzella.
Per la prima volta mi trovavo bene subito, dopo il mio lungo e triste
pellegrinaggio; “Ecco,” mi dicevo, “questo è il mio Paese.” La parola patria non
l’ho mai pronunciata: in nome della patria i popoli commettono ogni
nefandezza. Io abolirei la parola “patria”, come tante altre parole: “mio”, “zitto”,
“obbedisci”, “la legge è uguale per tutti”, “nazionalismo”, “razzismo”, “guerra” e
quasi anche la parola “amore”, privata della sua sostanza.
Ci vorrebbero parole nuove, anche per raccontare Auschwitz, una lingua
nuova, una lingua che ferisce meno della mia, natia. La lingua di chi canta con
la voce e le corde che piangono la ignoravo del tutto. La prima parola che ho
imparato è stata “ciao”, me l’aveva detta la ragazzina che stava pulendo la mia
stanza; “ciao” le avevo risposto e lei aveva sorriso della mia pronuncia della “o”.
Il locale, che forse non conosceva neppure Max, era all’aperto, un vero e
grande giardino fiorito, sotto il cielo stellato, con un bar sotto il tetto e una
pista da ballo al centro, con dei tavoli intorno. Era maggio, il mese della mia
nascita. Mi sembrava tutto un incanto, mi stavo quasi riappacificando con la
vita, non la mia, ma con il sole e il mare, che forse non mi avrebbe più fatto
vomitare. Al tramonto, il proprietario dallo sguardo azzurro, che per la prima
volta aveva avuto l’idea di ingaggiare un balletto, incontrandoci si emozionò e
noi con lui. La novità del locale era annunciata sul giornale del luogo, e i
manifesti con la nostra foto erano distribuiti in città. E io, scoprendoli, mi
vergognai come fossi a casa mia e qualcuno potesse riconoscermi. Finalmente,
dopo prove su prove, anche con un maestro delle illuminazioni, il primo sabato
dall’arrivo avvenne il debutto con il giardino affollato di famiglie, uomini,
donne, bambini, giovani e meno giovani. Il nostro numero era accompagnato
da una musica sudamericana e una araba per la danza del ventre e un pezzo di
musica classica, per la ragazzina Elfi, che sembrava un angelo. Gli applausi
erano generosi, entusiasti e i nostri inchini ripetuti.
Io non cantavo più nella città del canto, non c’era l’orchestra. La musica,
ballabile, proveniva più che altro da dischi con canzoni americane, soprattutto
di Sinatra e di cantanti italiani noti all’epoca.
La gente ai tavoli beveva birra, vino, spremute e qualche whisky. Eravamo
libere di andare via o rimanere. Il proprietario chiese a Max, il nostro custode,
di restare un po’ perché c’erano alcuni giovani che desideravano ballare con
noi e soprattutto due attori famosi che volevano un ballo con me e spiegò che
erano Ugo Tognazzi e Walter Chiari. Continuava a ripetere quei nomi che non
mi dicevano nulla. Quello che si chiamava Tognazzi mi stringeva sornione,
parlandomi di “radio”, “io”, “programma”, mostrando in continuazione le dita
corte e ripetendo “uno, due, tre”. E imparai finalmente a contare in italiano fino
a tre, è stata la mia prima lezione. In seguito, avrei scritto tutti i miei versi e i
miei libri in questa lingua, dopo il primo, pubblicato sessant’anni fa.
Napoli mi sembrava una città vocifera, povera, ricca, degradata, umana e
insistente. Ai mercati ti volevano vendere, imporre la merce o le figure del
presepe: ti mettevano sotto il naso i pastori, i Gesù Bambino, la Madonna, gli
angeli, Totò, il trio De Filippo, e i corni portafortuna. Liberarsi del venditore
non era facile. Nella città nobile e chiassosa i baciamano non erano rari e la
fantasia come il canto di casa.
Come le grida dei venditori e i cesti calati dalle finestre, i panni eternamente
sventolanti nei vicoli.
Essere turisti, stranieri, in una città, in un Paese, è diverso dal viverci, forse
si resta all’apparenza, che non è poco. Ma non trovai neppure traccia dei latin
lover italiani: solo tre uomini che volevano farmi vedere qualcosa che ignoravo
e non mi avevano sfiorato, se non con un baciamano imbarazzante. Un signore
rossiccio, con un alto grado di miopia, mi aveva portato a Ercolano, dove rimasi
sbalordita, e cercò di farmi capire con mani e piedi, gesticolando, ciò che era
avvenuto nel 79 d.C.: “Pompei, Ercolano, kaputt” spiegava con una leggera
balbuzie. Non avevo mai visto una distruzione simile, peggio delle bombe su
Berlino e Dresda! Infine il pover’uomo, in un mercato dell’usato, volle
regalarmi una gonna bianca che costava cinquecento lire e per non offenderlo
accettai e lo ringraziai come fosse qualcosa di prezioso.
Un altro corteggiatore mi portò sulla costiera amalfitana, dove rimasi
incantata.
Il terzo, una figura nobile, bruno, in un completo bianco, mi fece sbarcare
sull’isola di Ischia: “Sant’Angelo” ripeteva, con il mare ai piedi della montagna.
Dopo Zurigo, mi pareva di essere nel paese delle meraviglie, ma, alla prima
volta sulla spiaggia di Napoli, in bikini, siamo state maltrattate e cacciate via
dalla polizia, che ci guardava con malizia, indicando i nostri costumi scarsi,
mentre i ragazzi presenti ridevano discutendo tra loro e con gli agenti, come
per dirgli “Lasciatele!” e non facevano che pascolare su di noi i loro occhi.
Poi ci spiegarono che in Italia non si usava ancora il due pezzi, ma il
costume intero, e mi chiesi se l’Italia fosse meno evoluta della Grecia. Avrei
capito la Turchia, con le donne imbacuccate, ma l’Italia, con tutti i nudi nelle
chiese e i seni delle donne che sbucavano dalle scollature, ovunque, non erano
più provocanti? Mi parve una cosa strana...
Per sapere qualcosa dell’Italia fascista a fianco alla Germania di Hitler,
c’erano i film dei grandi registi del Neorealismo: Rossellini, De Sica, De Santis...
che facevano capire la storia, il costume, la cultura, con immagini parlanti che
avrebbero potuto essere anche mute, come i film di Chaplin.
Il cinema e la televisione, per chi non poteva leggere i libri, erano la
migliore scuola per apprendere anche la lingua e perfino le canzoni, e
l’estroversione dei napoletani, che mimavano le parole. Dopo un paio di mesi,
avendo una facilità particolare per le lingue e il coraggio di parlare anche se
male, già parlavo e mi correggevano.
A Napoli, come per magia, Lili, la danzatrice del ventre, con l’accordo di
Max, si mise con un signore nobile, un avvocato siciliano. La cinese restò con
Max e l’evanescente Elfi era tornata a Vienna con il fratello. L’avvocato voleva
che io rimanessi con Lili a Roma, in attesa del loro matrimonio, e ci sistemò in
un appartamentino a via Vaina, 8. L’uomo le promise che sarebbe riuscito a far
venire in Italia anche il figlio.

Roma! L’ombelico del mondo! Niente più danza. Libertà! La città eterna,
dopo la sorridente Napoli, sembrava che fosse sempre esistita dai tempi dei
tempi come Gerusalemme. L’avvocato di nome Simon è rimasto con noi per
qualche giorno, facendoci da guida. Non aveva bisogno di parlare, bastavano i
nostri occhi, calamitati dagli affreschi della Cappella Sistina.
Le piazze, i palazzi, qualche chiesa di passaggio, il lungotevere che tagliava
la città in due. San Pietro con il papa Pio XII, che mi sembrava una figura
ieratica, come risucchiata dalla fede, o malata.
Nei vicoli, nei quartieri, c’era ancora sui muri l’impronta del conflitto, della
guerra, nonostante fossero passati diversi anni.
La città mi parve maestosa, ma avevo visto più mendicanti che a Napoli.
Simon cercava di spiegarci che l’Italia era una e trina: il Sud, che preferiva per
il calore umano, il centro, con il Vaticano, popolato da gente di ogni dove,
anche da emigrati interni, e il Nord, più ricco e più freddo, anche umanamente.
Ma tutta l’Italia era bella e l’avvocato ci precisò che gli ebrei a Roma c’erano
prima dei romani. Ci mostrò anche il ghetto, la grande sinagoga, dove avevo
fatto visita anche per conto mio, ma, vedendola, mi veniva da piangere, mi
faceva sentire persa, nel cuore del cattolicesimo. Avvertivo una dolorosa
nostalgia della mia famiglia di origine, come durante le feste di Pasqua in
Grecia. Mi mancavano anche Judit e David e mi ripromettevo di andare presto
a trovarli.
Simon e Lili preparavano i documenti per il loro matrimonio civile. Lui
andava e tornava dalla Sicilia, lei era calma e serena, sembravano già una
vecchia coppia affiatata e più che parlare, sussurravano tra loro. Lei aveva uno
sguardo umido, da cane fedele, lui, uomo piccolo di statura, grassottello, era più
rassicurante che bello, ma ambedue emanavano pace e serenità e un legame
così naturale, come se si conoscessero da una vita, non da qualche mese. Lei
sapeva di letto, di sessualità evidente, con una pelle ambrata e come scivolosa
di olio o sudore d’amore.
Lui era sempre in abiti chiari, sbarbato e profumato, con la testolina dai
capelli lisci e ben pettinati, come quella di un bambino privilegiato e ben
curato.
Lei, nell’appartamento romano di lui, era sempre a letto e mangiava, con
un’espressione apatica e indifferente. Stare con lei era come essere soli, capirla
era impossibile, faceva fatica anche a parlare, usciva solo quando tornava
Simon. Gli altri giorni giaceva come anestetizzata, disinteressata di tutto, e non
capivo nemmeno come era finita nel balletto e si muoveva sul palcoscenico
come una sonnambula ipnotizzata.
“Come si chiama il tuo bambino?” le chiesi.
Con un soffio di voce mi disse: “Simon.”
Era il nome Simon che l’aveva legata a quell’uomo di mezza età? E lui era
scapolo o divorziato? Aveva figli? Non sapevo niente neanche di lui o sapeva
qualcosa solo lei. Insieme erano due tombe bisbiglianti e io soffocavo se non
parlavo con qualcuno, se non facevo qualcosa. Mi sentivo del tutto inutile e mi
iscrissi a un corso di inglese, e una signorina zitella, come quella dalla quale da
mia sorella Sara prendevo lezioni di piano, mi dava lezioni di grammatica
italiana e impazzivo con tutti quegli “ebbi”, “ebbero”, “fossero”, “fossi”, “fu”.
L’inglese lo sapevo abbastanza e mi misero nel corso più avanzato, cosa che
non volevo, e il primo compito era sul Macbeth di Shakespeare.
Finalmente ripresi in mano il mio quadernetto, che avevo abbandonato, e ho
iniziato a scrivere in italiano, così: “Sono nata in un piccolo villaggio
ungherese...”

L’attesa dei documenti non finiva mai e Lili se ne andò in Sicilia con Simon.
Io finii in una stanza ammobiliata a due passi da piazza di Spagna, al prezzo di
sedicimila lire al mese più duecento lire extra per la doccia. La stanza era buia e
dava su un cortile interno dove scorrazzavano i topi tra la spazzatura.
Nell’anticamera troneggiava l’immagine di papa Pio XII, del re Umberto e di
Mussolini. La padrona di casa, la signora Ida, mi scrutava come fossi un’aliena.
Con la sua voce rauca, bronchitica, mi inseguiva dappertutto, aveva una
curiosità morbosa. Spettegolava la sera con la figlia e il mite marito, poi
andavano tutti nel bar di fronte dove dall’alto dominava la televisione, che si
vendeva a rate come l’aspirapolvere e la lavatrice. La sera, da sola, nel silenzio,
sotto la lampadina centrale, avara di luce, scrivevo finché non venivo interrotta
dalla signora Ida, al ritorno dal bar, che mi sgridava che dovevo mangiare,
cenare con loro, o uscire e andare da Otello a via della Croce, dove c’era gente
del cinema.
“Lei è una bella signorina, esca, si faccia vedere in giro, che magari le
faranno fare l’attrice. Che sta lì a scrivere, ad accecarsi.”
Dopo qualche tempo, le diedi retta e mangiavo con loro la zuppa di fagioli o
cavoli in cucina o andavo da Otello, dove i tavoli erano uniti ai due lati della
sala e non si stava soli.
Io capitai accanto a un certo Tonino, che poi seppi che si chiamava Cervi, in
compagnia di una signora elegante, molto ben pettinata, che sapeva di lacca. Mi
diede la mano curata e disse di chiamarsi Nadia. Seppi presto che era una
famosa sarta, e mi chiese che lingue parlassi oltre il mio italiano, sempre
migliore.
“Inglese, tedesco, un po’ di francese.”
“Perfetto” esclamò, guardando Tonino e dicendogli che avrei potuto
sostituire Sylvie. Poi mi propose un lavoro, se fossi stata libera.
“Sì, sì” risposi.
I giorni successivi mi ritrovai in un istituto di bellezza a via dei Condotti,
con il ruolo di direttrice, al posto di quella Sylvie francese, tornata a Parigi.
Per qualche giorno ascoltai le istruzioni della signora G., la titolare
dall’atteggiamento e dal tono sempre sgradevole, che aveva aperto il noto
istituto di bellezza in società con un giovane parrucchiere dalle mani d’oro,
scoperto da lei.
Elencava ogni giorno i miei compiti: occuparmi della cassa, del telefono,
degli appuntamenti, delle vestaglie per le signore, delle riviste, delle
ordinazioni, del bar, della vendita nella boutique, dei rifornimenti del materiale,
di sorvegliare il personale, di consegnare i conti alla sera, d’intrattenere
secondo l’importanza la clientela in attesa di un colpo di pettine dalle mani
d’oro, di trattare con i guanti bianchi attori, attrici, principesse, top model,
mantenute di alto bordo, soubrette e, soprattutto, la principessa Torlonia e
Paola Ruffo di Calabria, Valentina Cortese e Anna Magnani, che aveva il volto
più intenso che abbia mai visto. “Fai aspettare i nuovi ricchi e i cafoni. Hai
capito tutto?! Hai capito tutto?! Perché mi guardi muta?! Sei spaventata? Se fai
bene il tuo lavoro resti, se no te ne vai. Qui sei tra la crema di Roma e sappi
comportarti. Se Mastroianni o un’altra star del cinema deve tingersi i capelli
per un film, resterai qui a loro disposizione dopo la chiusura. È chiaro?! Hai
capito?!” ripeteva.
“Sì, signora.”
“Sì, signora un cazzo, con quel tono da orfanella.”

A dir poco, ero sconvolta, preferivo mille volte un uomo padrone a una
donna. Le donne erano peggio degli uomini anche nei lager, ma ottantamila lire
al mese per me era tanto. Anche il lavoro era tanto, almeno dodici ore e oltre,
se venivano le celebrità. Lì conobbi Delia Scala, Franca Valeri, Lea Massari,
Sandra Milo, Flora Mastroianni, Zsa Zsa Gabor, Margaret d’Inghilterra, Elsa
Martinelli e molte signore, intime della signora G., che si definiva socialista.
Solo di domenica tornavo alla scrittura, durante la settimana correvo in
lungo e in largo tra i vari reparti dell’istituto. La sera, con i piedi gonfi e vari
dolori, crollavo dopo un tè e un pezzo di pane, come da bambina. Qualche volta
mangiavo da Otello per mille lire, come fossi in una famiglia, essendo diventata
amica della moglie e delle figlie. Feci amicizia con una ragazza olandese al
lavoro, dove aveva venduto i suoi lunghi splendidi capelli per farne del tupet,
che confezionavamo per uomini e donne.
L’Italia all’epoca correva verso il cosiddetto boom e l’incasso che
consegnavo la sera era intorno ai due milioni. Solo io non riuscivo più a correre
tanto, a inghiottire. All’arrivo, nella tarda mattinata, la signora G. mi salutava
così: “Faccia di merda, vatti a truccare!”
Tutti la temevano per il suo linguaggio scurrile e per il carattere
insopportabile; pur avendo momenti di umana generosità, soffriva per amore,
mormoravano.
Mi feriva anche l’arroganza della Martinelli, che battendo i piedi, mi
richiamò al mio dovere di chiamarla Contessa Mancinelli Scotti.
Nessuno sapeva di me niente, delle mie esperienze, del mio passato. Ogni
tanto la signora G. mi sgridava se sorridevo poco ai clienti o mi facevo
prendere dalla tristezza, che dovevo reprimere così come dovevo sopportare le
umilianti offese. E spesso mi chiedeva: “Cos’è quella faccia da funerale? Qui
devi sorridere anche se non ti va. E i cazzi tuoi lasciali fuori da qui. Queste
stronze, a parte qualche vera signora, vanno coccolate. Chiaro?!”

Da Otello avevo conosciuto da tempo un profugo armeno che faceva il


critico letterario e per la prima volta lo trovai in compagnia di un uomo, che mi
aveva presentato dicendomi che era un poeta e regista. L’uomo mi chiese
subito del mio libro, ma io ero immersa nel suo volto, nei suoi occhi eruditi,
fissa sulla sua bocca carnosa, bevevo la sua voce con le erre aristocratiche che
avrei voluto sempre ascoltare, le mani inquiete dal palmo tenero, delicato, che
volevo per sempre sentire, il volto bello marcato e fragile da non perdere mai
più di vista, un uomo che è penetrato all’istante nella mia anima, mi ha
svuotato dell’energia, facendomi tremare le ginocchia. Un sentire così
immediato, irrazionale, misterioso, totale mi faceva paura, per uno sconosciuto
di cui ignoravo anche il nome, che mi era sfuggito, perché il suo essere mi
aveva reso stordita, e avvertii di sprofondare in qualcosa d’inspiegabile da cui
non sarei più risalita.

Nelo, l’uomo eletto tra milioni di uomini, mi si dava e scompariva. Mi


cercava e mi abbandonava. Mi voleva e non mi voleva.
Tra i “no” inattesi e i “sì” attesi, il tempo con lui sembrava dilatarsi come in
una prigione da dove né io né lui ci saremmo più liberati da allora per i
successivi sessant’anni, di gioia, di passione, di sofferenza, di tenerezza, di
pazienza, dolore, amandoci in salute e malattia fino al suo ultimo fiato tra le
mie braccia.
Poco dopo l’inizio della nostra convivenza, mi chiese di lasciare il lavoro,
dove avevano scoperto, guardando le riviste, i servizi sul mio primo libro
appena uscito. La Martinelli era accorsa per far vedere alla signora G. la mia
fotografia sulla copertina di una rivista popolare e la soubrette Delia Scala un
servizio interno con immagini della mia famiglia ritrovate nel dopoguerra tra il
letame che debordava oltre la siepe nel nostro cortile.
“Perché non m’hai detto niente di te?! Sei proprio una stronza” urlava la
signora G. “Non hai detto che scrivi! Non hai detto chi sei! Sei proprio una
stronza!”
“Me ne vado, datemi la liquidazione.”
“Cosa!? Non hai il permesso di lavoro e io ti faccio sbattere fuori dall’Italia.”
“Ho diritto alla liquidazione” le risposi in tono fermo con uno sguardo che
valeva un giudizio.
Lei parve capire, abbassò gli occhi e disse: “Va bene, va bene, vai da Giorgio,
il ragioniere! Ti darà qualcosa.”
Infatti mi diede un terzo del dovuto.
Appena a casa il mio compagno mi rimproverò: “Mai subire sfruttamento e
umiliazioni. Mi puoi spiegare perché non sei andata via prima?”
“Sì, perché avevo bisogno del lavoro.”
“Prima di tutto viene la propria dignità e la libertà.”
“Belle parole...”

Giunse anche il giorno del nostro matrimonio, celebrato al Campidoglio da


Francesco Fausto Nitti, uno dei fondatori di Giustizia e Libertà.
Dopo la breve cerimonia ognuno di noi è tornato al proprio lavoro, lui alle
sue poesie o al montaggio di un film o di un documentario e io, da allora, ai
miei tantissimi impegni: giornalismo, TV, romanzi, versi, cinema, testimonianze
sulla Shoah. Viaggi per rivedere i pochi familiari, che non ci sono più, nei vari
angoli del mondo, con l’eterna nostalgia, per Israele, nella nuova diaspora:
Mirjam a Brooklyn, Judit, che dopo un andirivieni tra Argentina e America
voleva essere seppellita nella Terra Promessa, dove volò in fin di vita, Sara, che
mi chiese perdono venti anni dopo lo schiaffo, e giace sul suolo argentino,
David sotto la terra rosso-ruggine del Brasile. Anche i loro figli sono sparsi.
La bellissima figlia di Judit, Deborah, nata nove anni dopo Haim, secondo
mia sorella, gemella nell’aldilà, gliel’ha data Dio stesso, per far sopravvivere
almeno il nome di nostra madre e il destino benigno ha voluto che capitasse a
vivere in Italia, vicino a me.
“Tu hai libri, ma non hai figli” mi diceva Judit a ogni sua visita a Roma,
come se, a confronto dei suoi figli, i libri non fossero niente.
“Anche i libri sono figli” rispondevo, prevedendo il suo sguardo che diceva
“poverina”.

Da figlia adottiva dell’Italia, che mi ha dato molto di più del pane


quotidiano, e non posso che essergliene grata, oggi sono molto turbata per il
Paese e per l’Europa, dove soffia un vento inquinato da nuovi fascismi,
razzismi, nazionalismi, antisemitismi, che io sento doppiamente; piante
velenose che non sono mai state sradicate e buttano nuovi rami, foglie che il
popolo imboccato mangia, ascoltando le voci grosse nel suo nome, affamato
com’è di identità forte, urlata, e italianità pura, bianca; che tristezza, che
pericolo.
Anche la mia identità si è scossa negli ultimi tempi e, invece di gioire per le
laureae ad honorem, le onorificenze, la nomina all’Accademia ungherese, ho
avvertito un sentire nuovo. Risentimento? Forse verso il mondo che, un tempo
assassino, mi aveva escluso dal consorzio civile e voleva sopprimermi.
E mi chiedevo: “Tutto questo è per la scrittrice o il risarcimento alla
sopravvissuta da chi non mi deve niente?”
A stento riconoscevo me stessa, ovunque durante le cerimonie, chiedendomi
chi fossi in mezzo alla folla, agli applausi, agli oratori, ministri, rettori,
professori, presidenti di regioni, sindaci, vescovi, crocerossine, vigili del fuoco,
carabinieri, volontari, musicisti, cittadini e selfie, selfie, selfie...
“Di chi stanno parlando?!” mi domandavo.
Imbarazzata, emozionata, sdoppiata, scissa da me stessa e forse felice per ciò
che stavo vivendo, mentre camminavo sul tappeto rosso, mi aveva preso una
nostalgia dolorosa di me scalza, in corsa nella tiepida polvere della primavera
sulla viuzza Sei Case dove ero IO, senza passato, solo futuro, una vita fa. Non la
protagonista di una specie di favola, a fianco a un rettore con l’ermellino, e io
con la toga nera e un bavaglino bianco da bambina privilegiata.
Se ci ripenso, mi pare il più bel gioco che abbia mai giocato.
Lettera a Dio

Dalla prima lettera che Ti avevo scritto con il pensiero all’età di nove anni, ne
sono passati ottanta! E mi sono sentita arrossire sia allora che due notti fa per
la stessa idea che non mi ha mai abbandonata.
Mi pareva una bestemmia che non ho mai pronunciata, forse spudoratezza o
lucida follia. Ma adesso Ti scrivo davvero, finché vedo.
Scrivo a Te, che non leggerai mai i miei scarabocchi, non risponderai mai
alle mie domande, ai miei pensieri di una vita.
Pensieri elementari, piccoli, quelli della bambina che è in me, non sono
cresciuti con me e non sono invecchiati con me e neppure cambiati molto.
Forse mi urge mettere sulle pagine ciò che ho accumulato nella mente perché il
destino mi sta privando della vista. Già faccio fatica a decifrare la mia scrittura
sghemba e le righe ubriache ma ho fretta, il tempo stringe. Sto constatando che
ogni parola e ogni riga tende verso l’alto sempre di più e chi può sapere se non
arrivi fino a Te, sempre che Tu ci sia o sia fatto di silenzio, di invisibilità e
senza immagine al tuo popolo a cui appartengo. Figlia di una madre che ha
rivolto più parole a Te che ai sei figli e a un marito colpevole perché povero.
Figli che secondo mia madre le hai dato Tu e si rivolgeva a Te chiedendoti
tutto: scarpe, cappotti, farina, carne per il santo sabato, e lo zucchero al posto
della zacarina per il nostro tè a cena. Non c’era nulla che non chiedesse a Te: la
legna per la stufa fredda, un tetto nuovo per la casa, la primavera anticipata,
l’inverno meno rigido e gli stivali per papà, e che il fango argilloso non gli
strappasse le suole durante i suoi viaggi d’affari e che non tornasse come quasi
sempre a mani vuote.
Ti confesso che mi irritavano le sue richieste, mi facevano arrabbiare i suoi
discorsi continui con Te che non l’hai mai aiutata nemmeno a farle passare la
stitichezza e tutta rossa nello sforzo mi stringeva le mani invocandoti.
Io pensavo che in quella cabina di legno marcio non doveva neanche
nominarti.
Ma lei diceva che Tu sei ovunque, ma se Tu eri ovunque essendo il Solo
Unico, se eri dappertutto non eri da nessuna parte perché uno è uno. Contare
sapevo già prima delle elementari, e sapevo anche leggere e scrivere. Io ho
sempre scritto e quando non potevo da piccola perché avevo solo un quaderno
dalla scuola, scrivevo con il pensiero a tutti, anche a Te. A mio padre che non
ha mai giocato con me e la prima volta che mi ha baciato era in uniforme per
andare in guerra. Lo vedevo triste ma mi pareva più dritto del solito, più bello,
più alto al contrario della mamma che era crollata su se stessa.
Forse era passato un anno da quel primo bacio paterno e il secondo me lo
diede quando era tornato cupo, abbattuto, sudato e più vecchio, si sentiva
umiliato perché l’avevano cacciato dall’esercito essendo ebreo. Nei miei muti
pensieri a letto ho scritto anche a mamma dicendole che papà spesso dice delle
cose giuste ma per lei non era così, come se un padre povero non potesse avere
mai ragione. Gli negava anche la paternità ripetendo che noi figli siamo stati
dati da Te. E lei li aveva messi al mondo quanti hai voluto Tu.
Nelle mie lettere immaginarie avevo chiesto a mamma che se papà non
c’entrava niente con la nostra nascita, perché aveva il dovere di mantenerci?
Invece a Te ho pensato ogni sera della mia vita. Ti interrogavo su tante cose
ma non ho mai udito la Tua voce come Mosè, non mi hai mai degnato di una
sola risposta, come non hai degnato mia madre con la sua fede irremovibile in
Te. Al contrario di me, dubbiosa e alla mercé del piccolo villaggio fin da
quando avevo aperto gli occhi sul mondo che ci era nemico come fosse
naturale. E se Tu vedevi tutto, eri tutto, occhi, orecchie, come mai non hai visto
il nostro travaglio? Sai cosa faceva mio padre per sopravvivere: con un carro
prestato trasportava nella città vicina per terzi volatili da cortile, qualche
vitellino e perfino maiali che facevano rabbrividire la mamma. Partiva di notte
per essere lì all’alba e tornava più abbattuto che trionfante perché cedeva al
primo acquirente essendo negato per gli affari. Da ebreo tutti credevano che
fosse molto bravo, ma era impaziente e si accontentava del minimo profitto.
Per di più era un’anima buona, un sognatore, promettendosi e promettendoci
che un giorno avrebbe avuto un suo carro proprio con almeno un cavallo.
Mi chiedo da sempre e non ho ancora la risposta a che servono le preghiere
se non cambiano niente e nessuno, se Tu non puoi fare niente o non senti, non
vedi o se sei l’invenzione di una mente superiore, inimmaginabile o sei Tu che
hai inventato Te stesso? Io, che ho sempre scritto d’un fiato giorno dopo
giorno, ora improvvisamente mi fermo con la mano sospesa e lo sguardo fisso
sul vuoto, è nel vuoto che Ti cerco.
Noi non abbiamo né il Purgatorio né il Paradiso ma l’Inferno l’ho
conosciuto, dove il dito di Mengele indicava la sinistra che era il fuoco e la
destra l’agonia del lavoro, gli esperimenti e la morte per la fame e il freddo.
I casi di sopravvivenza avvennero senza merito magari a costo della vita
altrui o al servizio del nemico. Perché non hai spezzato quel dito? Nella
Cappella Sistina Tu lo tendi verso Adamo-Adam – uomo in ebraico – senza
sfiorarlo come quel medico che era il Sì e il No prendendo il Tuo posto, hai
lasciato che Ti sostituisse! E porgesse quell’indice di fuoco contro milioni di
innocenti che Ti invocavano e adoravano come mia madre. Non temevi che Ti
rinnegassero o avevi rivolto il dito anche contro Te stesso seguendo il destino
del Tuo popolo eletto? Noi usciti da quell’Inferno siamo abbandonati a noi
stessi, ma Tu non sei mortale, non sei il Nostro Eterno Unico? Parole belle,
consolanti, fatte di speranze, necessarie come pane per chi ha fame, e di fame
non manca il mondo come non manca di abbondanza per pochi.
La giustizia è una parola che dovrebbe sparire dai dizionari e non andrebbe
pronunciata invano come il Tuo nome. Ma Tu ne hai tanti di nomi e anche
dalla mia bocca sfugge qualche volta “Dio mio!”, ma in un sussurro, quando il
Male è troppo e sono indignata per ciò che è accaduto, accade e accadrà.
Tutto si ripete. Tu pure sei l’Unica Infinita Ripetizione, il più grande mistero
che esiste, se esiste, questa è la domanda che non avrà mai risposta, o Ti si
crede ciecamente o Ti si dubita lucidamente, o la domanda resta sospesa tra me
e me.
Oh, Tu, Grande Silenzio, se Tu sapessi delle mie paure, di tutto ma non di
Te. Se sono sopravvissuta, avrà un senso. No?
Ti prego, per la prima volta ti chiedo qualcosa: la memoria, che è il mio pane
quotidiano, per me infedele fedele, non lasciarmi nel buio, ho ancora da
illuminare qualche coscienza giovane nelle scuole e nelle aule universitarie
dove in veste di testimone racconto la mia esperienza da una vita. Dove le
domande più frequenti sono tre: se credo in Te, se perdono il Male e se odio i
miei aguzzini. Alla prima domanda arrossisco come se mi chiedessero di
denudarmi, alla seconda spiego che un ebreo può perdonare solo per se stesso,
ma non ne sono capace perché penso agli altri annientati che non
perdonerebbero me. Solo alla terza ho una risposta certa: pietà sì, verso
chiunque, odio mai, per cui sono salva, orfana, libera e per questo Ti ringrazio,
nella Bibbia Hashem, nella preghiera Adonai, nel quotidiano Dio.
Nota al testo

Al primo segnale di un’improvvisa amnesia, che per chiunque sarebbe stata


normale, anche per l’età, io restai senza fiato. Mi mancava l’ossigeno, come se
stessi perdendo la vita stessa.
“Tu come scrivi? Come scrivi?” chiedevo allarmata a Olga, la donna ucraina
che dopo la fine del mio amato marito è rimasta con me, incapace di vivere
sola, e mi è una buona sorella.
“Io scrivo con la penna” rispondeva lei senza capire il mio sguardo smarrito.
“Io scrivo a mano, poi batto sulla mia vecchia Olivetti. Ma tu su cosa scrivi?”
Cercavo la parola oscurata nella mia mente lucida, dalla memoria leggendaria.
“Computer” ha pronunciato quel nome sfuggito, forse perché non lo uso?
Comunque fosse, lì per lì, all’istante, spaventata, avevo deciso di sorvolare a
ritroso sulla mia esistenza, in tempo, essendo sulla soglia della fine dietro la
porta, con la vista di lince aggredita dalla maculopatia. E oggi, persino per me è
inverosimile il mio lungo cammino, che sembra una favola nella selva oscura
del Novecento, con la sua lunga ombra nera sul terzo millennio.
Ringrazio Olga Ushchak, il mio angelo custode, ed Eugenio Murrali, giovane
scrittore, che mi hanno dato le mani, gli occhi e la paziente assistenza nel
trasferire il mio manoscritto sul loro computer.
Speciale grazie alla mia preziosa, attenta lettrice Michela Meschini. Il destino
benigno ci ha avvicinate all’Università di Macerata – dove opera – senza
allontanarci più.

I versi di Nelo Risi citati nell’esergo sono tratti da La neve nell’armadio, in Nelo
Risi, Tutte le poesie, Mondadori, Milano 2020.

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