non dimenticare e per non far dimenticare, Edith Bruck, a sessant’anni dal
suo primo libro, sorvola sulle ali della memoria eterna i propri passi, scalza e
felice con poco come durante l’infanzia, con zoccoli di legno per le quattro
stagioni, sul suolo della Polonia di Auschwitz e nella Germania seminata di
campi di concentramento.
Miracolosamente sopravvissuta con il sostegno della sorella più grande Judit,
ricomincia l’odissea. Il tentativo di vivere, ma dove, come, con chi? Dietro di sé
vite bruciate, comprese quelle dei genitori, davanti a sé macerie reali ed
emotive. Il mondo le appare estraneo, l’accoglienza e l’ascolto pari a zero, e
decide di fuggire verso un altrove. Che fare con la propria salvezza?
Bruck racconta la sensazione di estraneità rispetto ai suoi stessi familiari che
non hanno fatto esperienza del lager, il tentativo di insediarsi in Israele e lì di
inventarsi una vita tutta nuova, le fughe, le tournée in giro per l’Europa al
seguito di un corpo di ballo composto di esuli, l’approdo in Italia e la direzione
di un centro estetico frequentato dalla “Roma bene” degli anni Cinquanta,
infine l’incontro fondamentale con il compagno di una vita, il poeta e regista
Nelo Risi, un sodalizio artistico e sentimentale che durerà oltre sessant’anni.
Fino a giungere all’oggi, a una serie di riflessioni preziosissime sui pericoli
dell’attuale ondata xenofoba, e a una spiazzante lettera finale a Dio, in cui
Bruck mostra senza reticenze i suoi dubbi, le sue speranze e il suo desiderio
ancora intatto di tramandare alle generazioni future un capitolo di storia del
Novecento da raccontare ancora e ancora.
Edith Bruck, di origine ungherese, è nata nel 1931 in una povera, numerosa
famiglia ebrea. Nel 1944, poco più che bambina, il suo primo viaggio la porta
nel ghetto del capoluogo e di lì ad Auschwitz, Dachau, Bergen-Belsen.
Sopravvissuta alla deportazione, dopo anni di pellegrinaggio approda
definitivamente in Italia, adottandone la lingua.
Nel 1959 esce il suo primo libro Chi ti ama così, un’autobiografia che ha per
tappe l’infanzia in riva al Tibisco e la Germania dei lager. Nel 1962 pubblica il
volume di racconti Andremo in città, da cui il marito Nelo Risi trae l’omonimo
film. È autrice di poesia e di romanzi come Le sacre nozze (1969), Lettera alla
madre (1988), Nuda proprietà (1993), Quanta stella c’è nel cielo (2009, trasposto
nel film di Roberto Faenza Anita B.), e ancora Privato (2010), La donna dal
cappotto verde (2012). Presso La nave di Teseo sono usciti La rondine sul
termosifone (2017) e Ti lascio dormire (2019).
Nelle sue opere ha reso testimonianza dell’evento nero del XX secolo. Nella sua
lunga carriera ha ricevuto diversi premi letterari ed è stata tradotta in svariate
lingue. È traduttrice tra gli altri di Attila József e Miklós Radnóti. Ha
sceneggiato e diretto tre film e svolto attività teatrale, televisiva e giornalistica.
Oceani. 117
Dello stesso autore
presso La nave di Teseo
La nave di Teseo
© 2021 La nave di Teseo editore, Milano
Published by arrangement with The Italian Literary Agency srl, Milano,
Italia
ISBN 978-88-3460-578-3
Prima edizione digitale gennaio 2021
Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore.
È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.
Sommario
La bambina scalza
11152
Nuova vita
La realtà
La fuga
Uno, due, tre, uno, due, tre...
Lettera a Dio
La storia
quella vera
che nessuno studia
che oggi ai più dà soltanto fastidio
(che addusse lutti infiniti)
d’un sol colpo ti privò dell’infanzia
Nelo Risi
La bambina scalza
Tanto tanto tempo fa c’era una bambina che, al sole della primavera, con le sue
treccine bionde sballonzolanti correva scalza nella polvere tiepida. Nella viuzza
del villaggio dove abitava, che si chiamava Sei Case, c’era chi la salutava e chi
no. A volte si fermava e si introduceva di soppiatto nella cantina dove era
spesso confinata e legata Juja; dicevano che era pazza ma a lei sembrava
appena diversa dalle altre donne giovani e, con il suo cuoricino colmo di pietà,
ascoltava i suoi lamenti contro la famiglia cattiva che non le aveva fatto
sposare il suo ragazzo di nome Elek.
Lei avrebbe voluto farle una carezza anche se era sporca, ma quando si
avvicinò, non priva di paura, Juja le strappò il nastro rosso da una delle trecce,
e prima che le strappasse anche l’altro fuggì, preoccupata all’idea di essere
sgridata dalla madre o dalla sorella maggiore Judit, che si atteggiava a
vicemadre.
Le sorelle grandi grandi erano nella capitale a fare le apprendiste sarte,
anche un fratello era in una città meno importante. A casa restavano un fratello
pallidino più grande e lei, la più piccola, spesso chiamata Grattina, essendo
l’ultima di sei figli vivi; le avevano dato quel nome della pasta che la madre
grattava dal fondo della madia.
“Grattina, stai zitta” le dicevano se capiva troppo, invece di Ditke che era il
suo vezzeggiativo.
Nelle sue corse qualche contadino baffuto le aizzava contro il cane e quando
assillava la madre con i suoi troppi “perché?” lei non aveva tempo di
risponderle, al più alzava lo sguardo viola-azzurro al cielo dicendole: “Chiedi a
Lui e ringrazialo che è passato un altro inverno e la legna umida non piange
più nella stufa.”
“E il nastro, il nastro?!” le aveva urlato appena era rientrata a casa come
fosse senza una gamba.
“L’ho perso, l’ho perso” mentiva non potendo dire la verità, perché la
madre, quando aveva scoperto che andava a trovare Juja la pazza, non aveva
troppo esitato ad allungare la mano o a mandarla a letto senza cena, ben
sapendo che quell’ultima mocciosa di figlia che aveva cacato al mondo (così
diceva, se era esasperata) era attratta dai matti, dai vecchi seduti muti in strada
al primo sole e dai bavosi balbuzienti che voleva capire. Aveva una curiosità
poco sana, ma la madre riconosceva che era la prima della classe a scuola,
nonostante le leggi razziali, che il villaggio non applicava pienamente. E le tre
ragazze ebree, pur confinate all’ultimo banco, non subivano le leggi con la
stessa severità delle città. La piccola Ditke era seduta accanto alle due
correligionarie: Piri, figlia della merciaia Roth, Eva, figlia del bottegaio delle
spezie Reisman e lei, figlia di Stein Schreiber, di un padre che in mancanza
d’altro portava le bestie altrui per venderle al mercato della città più vicina per
un misero guadagno.
Piri la guardava di traverso, perché era troppo povera per il padre, che al
contrario del suo, con la barba e i riccioli, aveva l’aspetto di un goi1 e
frequentava poco la piccola sinagoga. Eva, la dodicesima figlia di un padre
ortodosso, era un’amica. Ma quando per un tema sulla primavera Ditke risultò
l’unica premiata della classe e quasi scoppiò della felicità, tutte la invidiarono.
Quel giorno non camminava ma volava a casa sbandierando il premio che
consisteva in una cartolina con una rondine a colori e una scritta sul retro:
“Alla mia alunna più brava, più meritevole” firmato Tarpai Klara, l’insegnante.
Per strada gridava di gioia: “Mamma!” La gente, i vicini si affacciavano, solo i
suoi sembravano spariti, e giunta all’ingresso vide la madre e la sorella al sole
nel cortile che estraevano le piume dei cuscini.
“Psss, che sventoli, che sventoli? Non vedi, giù le mani, non fiatare! Raccogli
subito una a una le piume che hai fatto svolazzare!”
“Guardate, guardate!” agitava ancora la cartolina, mostrando la scritta sul
retro e creando una nuova nuvola.
“Ci mancava solo che non ti premiassero! Non fai che recitare poesie al
posto delle preghiere” borbottava la madre, ma con uno sguardo benevolo e un
sorriso appena accennato capace di tramutare la sua espressione severa in una
dolcezza magica che le restituiva bellezza e giovinezza.
“Mi dai un premio anche tu, mamma? Un bacio.” Le chiese quel dono, raro,
se non nei momenti di lutto, di partenze e arrivi. Quando la madre era andata al
matrimonio della seconda figlia Mirjam, sposata con un giovane polacco
fuggito dal suo paese. E quando il padre decorato in guerra era tornato a casa,
escluso dall’esercito nel 1942. E quando era morta la nonna materna che era
vecchia vecchia agli occhi della dodicenne Ditke, che fissava quel corpo
immobile per terra avvolto in un lenzuolo bianco finché, su due assi, non era
stata portata via, nel piccolo cimitero vicino a casa di Eva, ma né suo padre, né
quello di Piri erano presenti perché si diceva che erano kohen. La piccola Ditke
tristemente elencava dentro di sé i nomi delle famiglie ebraiche del villaggio:
Szàmeth, i due Grosz, Kràmer, Klein, Printz, Weisz, due Reisman, Ròth e Bieber,
fratello di sua madre. Solo i tre membri della comunità senza barba e riccioli
erano venuti.
“Loro sono nobili, papà?” chiese al padre.
“Come sacerdoti. Meditano, studiano, sono kohanim e fanno dozzine di
figli” mormorava.
“E non ricordano neanche i loro nomi” commentava la madre.
“Non discutete adesso qui” si intromise Ditke stringendo la mano materna
calda, morbida mentre cercava di decifrare la preghiera rituale che iniziava.
“Sia il Suo grande nome benedetto per tutta l’eternità. Venga il suo regno
durante la vostra vita e durante l’esistenza di tutto il popolo d’Israele...”
Al nome di Israele, sua madre, fino ad allora senza una lacrima, era
scoppiata in un pianto che non poteva non arrivare al cielo. E il padre la
stringeva a sé come non l’aveva mai stretta, ripetendo il suo nome, Frida,
Friduska (in ebraico Deborah). E in una strana, insolita, unita felicità i tre figli
si aggrappavano ai genitori: Judit, la più religiosa, Jonas, il più pallido, e la
piccola Ditke. Sara, Mirjam e David raramente tornavano a casa.
Dopo la settimana di lutto rituale, seduta per terra e accudita soprattutto da
Judit, la madre s’era sollevata piena di dolori. Invece di camminare, sgranchire
le membra, fissava lo sguardo sulla eterna vestaglia della nonna, che non la
lasciava mai lavare. L’aveva presa nelle mani tremanti e, turbata alla vista di
una delle due tasche ricucita, chiamava i figli accanto come se quella tasca
celasse qualcosa di brutto, di sacro, o un tesoro segreto.
Piano piano, con gli occhiali, aveva cominciato a disfare il filo, scuro come
l’indumento, dove la figura della nonna sempre più piccola era persa. Il filo al
primo tocco si era disfatto e, col fiato sospeso, tutti volevano vedere cosa c’era
all’interno.
La madre, non priva di timore, infilando la mano e, non credendo ai propri
occhi alla vista delle diverse banconote, aveva emesso un rumoroso respiro
misto: “Ah, ah, ah!” I figli restarono a bocca aperta e, alla sola vista delle due
fedi d’oro e di una catenina con la stella di Davide, gridarono con gioia, mentre
la madre, stringendo quegli oggetti, piangeva.
“Con questi” sollevò la mano “costruiremo una nuova casetta prima che ci
cada addosso questa vecchia catapecchia. Non è tempo di costruire ma... vostro
zio, il mio buon fratello Berti, ci accoglierà nella sua grande casa nel quartiere
dei signori e delle temute autorità: il Comune, la Gendarmeria, il giudice e
maestro Rinkó. In un paio di mesi avrete sopra la testa un tetto con le tegole
rosse, non questa paglia marcia.” E così avvenne.
Il padre, Judit e Ditke, con l’aiuto di uno zingaro amico, pestavano a piedi
nudi l’amalgama per i mattoni di fango.
Il sole splendeva come non mai. Le nuvole si allontanavano allo sguardo
scrutatore della madre che cucinava all’aperto.
Dall’alba al tramonto lavoravano tutti. Ditke, per la prima volta, attendeva
con ansia la chiusura estiva della scuola e parlava della casa come fosse un
castello, senza rendersi conto che sarebbe stata solo uno stanzone, la cucina e
poi, forse, un’altra stanzina.
Nel villaggio qualche volta capitava anche un giornale, che Gyula passava al
padre di lei, e lui lo leggeva senza farlo vedere né ai figli, né alla moglie, che era
in costante allarme celato.
C’era anche un omino con un tamburino che diffondeva le notizie del
mondo richiamando con il suo battere gli abitanti, che erano soprattutto donne
in nero, scolari e vecchi. Ditke non mancava mai tra loro, ascoltava l’omino che
parlava del glorioso esercito tedesco e ungherese e gli alleati che combattevano
in Russia, a Kursk: gli inciampava la lingua, la voce si perdeva tra i colpi del
tamburino, diventando tutta confusa e incomprensibile per la gente
semianalfabeta.
I ragazzi ridevano, le vecchie si segnavano con la croce, gli uomini
scuotevano la testa bianca bestemmiando e sputando il tabacco masticato.
Ciò che meravigliava Ditke era di essere l’unica ebrea presente nella piccola
comunità; gli altri sapevano già tutto?, perché rimanevano a casa, cosa
temevano tanto?
Il tetto rosso presto splendeva e il salice piangente verdeggiava dietro la
finestra dell’unica stanza dove dormivano i tre figli nello stesso letto e la
mamma e il papà su un lettino in cucina.
Nella piccola casa era grande la felicità. L’ultimo giorno di scuola Ditke,
gonfia di orgoglio, al ritorno a casa teneva lo sguardo fisso sul tetto come fosse
la bussola per trovare il tesoro.
Non è che stessero male dallo zio Berti, risposato dopo pochi mesi di
vedovanza con una bella vedova giovane, Jolanka, con un figlio adolescente
Ervin, che molestava Ditke; voleva trascinarla nel bosco, oltre la diga dove
scorreva il vecchio fiume Tisza. Il ragazzo malizioso la provocava come fosse
un uomo e lei una donna: “Donna!” disse la madre, quando Ditke, spaventata,
corse da lei con le gambe insanguinate.
“Da adesso sei una donna, e avrai quella cosa lì ogni mese” le indicò la fonte
senza dire altro e senza pronunciare il nome del pube, come fosse il posto della
vergogna.
Solo per colpa di quel ragazzaccio, stava male dallo zio che amava, ma non
diceva niente neanche a Judit, perché la rimproverava di specchiarsi troppo e la
chiamava la bella specchiatrice, smorfiosa.
Lo zio buono era proprietario di un negozio con un’osteria adiacente e
spesso si sedeva con il padre di Ditke, Adam, Shalom in ebraico, a bere una
birra o un bicchierino di pálinka che sua sorella gli rimproverava.
“Ma sii buona, Frida” le diceva il fratello; ben pasciuto, alto. “Adam fa quello
che può, dove c’è scritto che un povero uomo deve mantenere sei figli? Io ho
solo una figlia e la mia adorata nipote Erika, neanche un maschio e non mi
lamento di niente e non credere che io sia migliore di tuo marito, sono solo più
fortunato.”
Il discorso del fratello maggiore, uno dei tanti sparsi, aveva intenerito il
cuore della sorella e per qualche tempo regnò l’idillio nella piccola casa. Finché
Ditke non era tornata a casa piangendo perché un suo compagno-amico non
l’aveva salutata. I genitori, ammutoliti, non sapevano cosa dirle di fronte a
quella disperazione. Il padre, taciturno come al solito, quando si arrabbiava per
qualcosa, se n’era andato sbattendo la porta. La madre, delegata alla cura dei
figli, tra profondi sospiri, le diceva che non era niente, solo uno scherzo, un
dispetto dei maschi.
“No, no” gridava lei, e la madre, inghiottendo le sue lacrime e le parole, la
strinse a sé, come se quel tocco fosse la bacchetta magica.
Al sentirsi dire “Ditke, Ditke” le sue lacrime cessarono, dimenticava tutto e
la vita le sorrideva di nuovo e nel suo cuore rabbuiato splendeva il sole. Judit le
stava per dire qualcosa, ma, a un’occhiata materna, aveva chiuso la bocca. Ma
dietro il silenzio del padre e l’amore improvviso della madre, Ditke avvertiva
qualcosa di grave. Fin da piccolissima rigettava le cose che potevano farle
troppo male, non voleva né sentirle, né vederle, lasciava che la giudicassero
superficiale e impreparata alle avversità piccole o grandi della vita. Giocava.
Studiava. Immaginava un futuro da adulta felice, ricca, per aiutare i genitori:
anzitutto sostituire i denti mancanti della mamma, curare i dolori delle ossa del
papà dovuti alle guerre, e pagare l’operazione del fratello pallido che soffriva
per l’appendicite, e il medico condotto non veniva a visitarlo.
Nella sua testa di notte si rincorrevano tanti pensieri, piani, e una riserva di
speranza, ma le sarebbero bastati per tutta la vita?
Una delle rare volte in cui tornavano a casa da Budapest le due sorelle
maggiori, Mirjam la bruna, sposata già incinta, le aveva portato la prima
bambola vera, e lei era al settimo cielo dalla gioia. Saltava come se avesse le ali
e la mamma le diceva che poteva acchiappare anche un uccello al volo. Sara, la
bionda primogenita, sembrava vergognarsi della povertà. Era come gonfia di
rabbia, scontenta, seria, si sentiva meno bella di Mirjam, scherzosa, leggera. Per
Ditke non erano solo belle, ma eleganti cittadine della capitale dove presto
sarebbe andata anche lei.
Il primo vero grande spavento lo avevano avvertito tutti quando Judit era
tornata a casa dopo essere stata dallo zio Berti, sempre soccorrevole, che
abitava vicino alla sua ex scuola, e il maestro Rinkó, che aveva incrociato, con
un sorriso beffardo, l’aveva salutata con “Heil Hitler!”. Con sguardo sconvolto
la ascoltavano come se quello fosse il nome del demonio; la cucina, i muri
bianchi si adombrarono, nell’aria aleggiava quel nome come una macchia
scura. Né Ditke, né Jonas, né Judit sapevano bene di chi fosse quel nome. Solo i
genitori lo sapevano, ma come dirlo ai figli e cosa dire? Con quel saluto era
entrata un’ombra permanente, una nebbia nelle anime che non produceva né
parole, né illuminazione.
Dalla bocca del padre sfuggì una bestemmia e sputò fuori: “Non bastava
quel vile di Horthy, quell’assassino di Szálasi!” e come al solito sbattendo la
porta se ne era andato.
“Che il buon Dio ci protegga da loro” mormorava la madre. “Hanno
infettato perfino questo buco fangoso e ignorante. Il mondo è malato, figli miei,
il male ha contagiato tutta l’Europa. Ma non abbiate paura, Dio non ci
abbandonerà a questi cani rabbiosi che incitano anche la brava gente ai crimini
più nefasti.”
“Adesso capisco cosa diceva cantando un gruppo di ragazzi per strada
mentre passavo” rifletteva a voce alta Ditke e si metteva a cantare:
Éljen a Szálasi meg a Hitler
üssök a zsidót a bikacsökkel
egy cini két cini
megdöglött a förabi
Bátorság éljen Szálasi2
“E non cantare! Morditi la lingua!” gridava la madre e la piccola Ditke se la
mordeva fino a farla sanguinare e piangeva di dolore. “Non l’ho inventata io.” E
la madre le faceva sciacquare la bocca con l’aceto per fermare il sangue. Come
quando si era ferita il ginocchio a casa di Eva per colpa del padre che un sabato
pomeriggio era apparso sulla porta in un lungo camicione bianco e l’aveva
cacciata via perché non voleva la figlia di un padre poco ortodosso.
La vacanza estiva non era fatta di giochi, di corse con le due amiche di
Ditke; Lenke, la sorella minore di Endre, portava i giornali della città, che
venivano letti solo dal padre e subito finivano nella stufa. Con la seconda
Lenke, sua coetanea e più vicina della loro casetta, si incontravano sempre di
meno. La scusa era il lavoro. Ma anche Ditke e Judit dovevano lavorare, fare le
braccianti, scavare le patate, raccogliere le pannocchie e la frutta per averne
una parte secondo la generosità dei proprietari terrieri. Perfino la madre che
soffriva il caldo andava con loro. Per il padre non c’era più nessuna offerta,
anche la popolazione si stava impoverendo.
Non andava più bene come prima neanche l’osteria dello zio Berti. La guerra
aveva decimato gli abitanti del villaggio; i vecchi più che bere fumavano, le
donne pregavano nella grande chiesa protestante e si facevano consolare dal
parroco molto umano con moglie e due bei bambini. Il prete cattolico veniva
una sola volta a settimana per dare lezioni a scuola ed era severo, punitivo e
sgridava anche Ditke che rispondeva alle domande al posto delle compagne.
“Tu stai zitta, non ti riguarda, ripeti cinque volte il nostro Signore Cristo è
risorto.”
“Io non posso” balbettava la povera Ditke terrorizzata.
“Allora vattene!” E lei sfatta dalla vergogna volava a casa. Non come quando
sventolava la cartolina-premio con la rondine, ma accecata dalle lacrime.
La madre inutilmente l’interrogava: lei non riusciva a parlare, né voleva
raccontare l’accaduto, perché il nome di Cristo non si pronunciava mai a casa.
Preferiva mentire, dire che era stata colpita cinque volte con la verga sulle
unghie perché parlava con Eva durante la lezione di storia.
“Non è la fine del mondo, non disperarti” la consolavano la madre, la sorella
e il fratello; tutti si mostravano così buoni e amorevoli, come se intuissero il
vero motivo di quel pianto; l’ennesimo episodio di razzismo contagioso.
L’ombra che aleggiava in casa e fuori stava diventando sempre più scura e
penetrante.
Il sole estivo non sembrava riscaldare le anime. Anche i fiori nei bei
giardinetti erano assetati e le persone non cantavano più come prima, nelle
sere, nei cortili, le bellissime canzoni popolari, mentre sbucciavano le
pannocchie seccate o staccavano le foglie dai rametti di menta. Il silenzio
diventava sempre più minaccioso, solo i ragazzi cantavano quella canzone che
Ditke aveva ripetuto a casa alla madre che le aveva fatto mordere la lingua. Ma
lei non le aveva raccontato di aver anche risposto a quel canto rovesciando il
testo, dicendo “che crepino Szálasi e Hitler”.
Sapeva che la madre si sarebbe preoccupata che gliela facessero pagare. Gli
ebrei andavano alla sinagoga a testa china, lungo i muri come fossero ladri o
clandestini. A volte i giovani gli tiravano la barba o li facevano finire nei
fossati.
Se si recavano all’unica pompa dell’acqua potabile venivano spinti in fondo
alla fila e non di rado sputavano nei loro secchi. E tutto era diventato legittimo,
anche un bambino si sentiva potente imitando i grandi.
La paura, celata soprattutto ai piccoli, si esprimeva nei genitori con
impazienza, nervosismo e proibizioni di uscire e sfidarsi in una corsa nelle
viuzze. O scendere oltre la diga nel bosco pieno di more, di bacche e acetoselle
che Ditke raccoglieva per la salsa che preparava la madre. Il bosco nascondeva
tesori masticabili, rami secchi per la stufa e legna da rubare nei lunghi inverni
gelidi. Era anche un parco giochi, angoli segreti per ragazzi innamorati. E dalla
parte interna della diga lungo l’abitato una pista per le slitte fatte a casa.
La diga era il corso per tutti, in specie la domenica all’uscita dalla chiesa, le
vecchie contadine con i fazzoletti sulla testa e le gonne lunghe scure sembrava
seguissero un funerale.
Ditke chiedeva spesso ai genitori cosa stesse succedendo e poneva tanti
“perché, perché?”. La madre le rispondeva con sospiri muti, il padre diceva che
sarebbe passato tutto con la fine della guerra e il male non avrebbe vinto, che la
Germania che aveva avvelenato l’Europa avrebbe dovuto soccombere ed era già
in agonia.
L’estate scomparve in un baleno, come se non ci fosse mai stata. Il sole era
freddo, nemico, l’aria autunnale entrava dalla finestra che una mano invisibile
aveva rotto con un sasso lanciato dalla fionda.
“Il vetro! Dio mio, Il vetro!” si disperava la madre. “Che il Dio rompa la
mano di chi lo ha fatto, che...”
“Calmati, sono solo dei ragazzi, Frida, giocano. Lo farò aggiustare io da
Gyula, adesso chiudo il buco con un cartone. Le tue maledizioni sono vane
come le tue preghiere.”
Inutilmente la consolavano sia il marito che i due figli, Judit la più ascoltata
e Jonas il più protetto. Ditke si incontrava spesso con il ginnasiale Endre. E a
scuola recitava con fervore, come tutti, i versi patriottici. Inni al Dio degli
ungheresi, come se esistesse! E il martirio del popolo sempre calpestato.
Pur essendo considerata soltanto un’ebrea, le sfuggiva anche qualche
lacrimuccia per il suo Paese, dove era nata e dove correva felice nella polvere
scalza.
L’autunno precoce secondo sua madre era voluto da Dio come tutto ed era
sfociato presto in uno degli inverni più gelidi mai visti, sempre opera di Dio per
punire le sue creature che agivano contro i suoi comandamenti e anche nel suo
nome. Il mondo retrocesso alla barbarie.
“Mamma, mamma smetti di attribuire a Dio tutto il Bene e non il Male. Dio
non è buono e cattivo insieme? Mamma, non c’è niente di giusto. Spiegami
perché a scuola non c’erano né Piri né Eva!”
“Non possono ma tu sì, per merito di tuo padre e delle sue medaglie nelle
guerre mondiali, per la Patria, poveraccio.”
“Sii buona con papà. Io sono così felice quando gli lavo i piedi stanchi o la
schiena magra e giovane come quella di un ragazzo. Papà è il mio amore.
Anche il tuo?”
La madre fece un sorriso dolceamaro. Lei chiedeva e voleva sapere tutto e
nello stesso tempo era una bambina che si vezzeggiava da sola; parlava con la
sua bambola, diceva al salice di non piangere, le piaceva tutto ciò che sbucava
dal suolo, anche l’odore della terra. E pensava anche molto, ma la madre
scambiava la sua sensibilità per debolezza e a casa la chiamavano la saccente
presuntuosa.
Delle sue compagne assenti nessuno le dava spiegazioni a casa. Solo la
buona maestra Tarpai Klara le diceva, vedendo il suo sguardo perso sui loro
posti vuoti, “mi dispiace” con un’espressione di chi non è in grado di fare
niente.
Come al solito nel villaggio davano dei soldini o un po’ di dolci ai ragazzi
che cantavano sotto le finestre e per la prima volta madre e padre, sollevati
dallo spavento ignoto, gli offrivano da quel poco che avevano senza discutere.
A Ditke, pur non festeggiandolo, piaceva il Natale per gli alberi addobbati
con noci, caramelle e mele avvolte in carte d’argento o d’oro e la candelina in
cima con la sua fiammella che aggiungeva un po’ di luce alle lampade a
petrolio.
L’albero più bello e più scintillante che si poteva ammirare sempre era nella
grande casa della piccola Lenke, dove Ditke più che per l’albero andava per
vedere il ginnasiale Endre in vacanza scolastica.
Si immaginava già come sposa al suo fianco, non per gioco come accadeva
da più piccoli, e si rammaricava che ciò non si sarebbe mai potuto avverare
perché lui era cattolico e lei ebrea. Peccato, quante belle poesie potevano
leggere insieme a letto! Amavano ambedue studiare, leggere gli stessi poeti, e
lui si identificava con il poeta che leggevano insieme, e lei con la donna che il
poeta amava, e stare a guardarsi era un incanto. E il padre di Endre, che lei
chiamava zio Gyula, con una strizzata di occhio sembrava benedirli.
Il silenzio natalizio improvvisamente venne interrotto dal suono sinistro del
tamburino. E l’omino che sembrava di neve, ma dalla voce più energica del
solito, aveva reso pubblica la notizia che gli ebrei dopo le sei non potevano
uscire di casa, né lasciare il villaggio, né viaggiare. Ma gli adulti lo sapevano già
da tempo?, si chiedeva Ditke e finalmente aveva capito l’assenza dei tanti
familiari, zie e zii e altri parenti al funerale della nonna.
Sul villaggio era sceso un silenzio bianco. Le fioche luci nelle piccole case
sembravano quelle di un cimitero. La neve improvvisa e abbondante bloccava
gli usci. I vetri delle finestre all’esterno erano ghiacciati, all’interno tutti
piangevano insieme alla legna bagnata nella stufa.
“Che altro vuole ancora Iddio da noi?” chiedeva la madre con un sospiro nel
semibuio. “Vuole metterci alla prova?” e le sue domande restavano sospese
nell’aria affumicata.
Sulla bocca del padre tremavano bestemmie trattenute. La madre ordinava a
Ditke, sempre più magra, di uscire dalla finestra per riempire i secchi di neve
per avere l’acqua a casa, perché l’unica fontana era ghiacciata.
Per liberare l’uscita era arrivato zio Gyula con uno dei suoi contadini e
insieme avevano spalato la neve. Ditke saltava di gioia quando avevano aperto
la porta e l’ambiente si era illuminato di quel biancore esterno che quasi
accecava.
Il fiato dei due uomini era come una nuvola calda e, prima che cadesse la
neve dai loro stivali alti sul pavimento di terra battuta, se ne andarono.
“Dio vi benedica” li salutava la madre con infinita gratitudine. Il padre gli
strinse la mano forte.
“Vedi, mamma, vedi: dopo il male viene il bene, dopo la pioggia viene il sole,
dopo il buio viene la luce, dopo...”
“Stai recitando una delle tue poesie?”
“No, mamma, l’ha scritta la vita, non io.”
“Chiamala vita...”
Il padre, come sconfitto, umiliato, si era riseduto al tavolo della cucina con
la testa tra le mani.
“Papà, papà” si misero a ballare i tre figli per allontanarlo dai suoi pensieri
neri.
“Adam” gli si avvicinò anche la moglie e in un tono pacifico, dolce,
mormorò che era l’ora di fare un bel tè con la neve.
Da semiprigionieri, con l’aiuto dello zio Berti spinsero i giorni verso la
Pasqua, festa della liberazione dall’Egitto. Grazie a Mosè salvato dall’acqua,
figlio dell’acqua, raccontava la mamma, cosa che a Ditke suonava sempre come
una delle favole più fantastiche: “Mosè era figlio di Amram e di Jokebed, e
doveva essere ucciso per ordine del faraone Ramses secondo. Invece,
miracolosamente, venne salvato dalla figlia del sovrano e allevato alla corte e
cresciuto come figlio della principessa. Ma da adulto uscì dal palazzo per vedere
i suoi fratelli schiavi, preferiva stare con loro, anche se era maltrattato dal
popolo di Dio. Un giorno uccise il crudele ispettore egiziano che sorvegliava il
lavoro e dovette fuggire. Si sposò, ebbe un figlio che si chiamava Gherson e nel
deserto di Madian gli apparve l’Eterno... E...” continuava Ditke “...a Mosè si
rivelò con nome glorioso: ‘Io sono quegli che sono, Yahweh, in ebraico egli è,
ho veduto l’afflizione del mio popolo che è in Egitto e sono venuto per
liberarlo’” sfuggiva un sorrisino storto a Ditke e uno sguardo severo della
madre che le chiudeva la bocca.
1 “Gentile”.
2 Viva Szálasi e Hitler/ colpiamo l’ebreo con un nerbo di toro / uncini due cini (non ha significato) / è
crepato il rabbino capo / coraggio (saluto fascista) viva Szálasi! (Primo ministro e fondatore del Partito
fascista croci frecciate).
3 Soldi! Oro! Valori!
6 Nella mia Patria fioriscono le rose / nella mia Patria fiorisce la felicità / tu ragazza non piangere /
Qualcuno aveva aperto con violenza il nostro vagone, come pure gli altri, e ci
siamo trovati davanti dei cani inferociti, tenuti da uomini armati che urlavano
come quel Moloch nel ghetto e tra urli, spinte, selezione, Rechte, Linke! Rechte,
Linke! Rechte, Linke!7, abbai, colpi; ho perso mio padre, David, Jonas, Judit,
ritrovandomi aggrappata alla carne di mia madre, nella fila di sinistra, con le
donne anziane.
“Cerca tuo padre, tuo padre!” mi supplicava la mamma. E io le ho indicato
un uomo magro, già lontano, nudo tra tanti uomini.
“Dove, dove sono tutti?” continuava con quel “dove”, come impazzita,
mentre uno dei soldati mi si era avvicinato dicendomi di andare dall’altra parte.
“Destra, destra!” ripeteva piano.
“No, no, no!” stringevo più forte il fianco di mia madre. “Obbedisci!
Obbedisci!” ripeteva la mamma e allo stesso tempo pregava il soldato di
lasciarle l’ultima dei suoi figli. Il soldato l’ha colpita con il calcio del fucile e a
furia di colpi mi ha spinto dall’altra parte, tra le donne più giovani, dove ho
trovato mia sorella Judit.
“Judit, Judit, Judit!” urlavo stravolta. “Mi hanno separata dalla mamma, la
mamma, la mamma” ripetevo mentre venni spogliata, e cadevano le mie trecce
con i fiocchi e venivo rasata, disinfettata, rivestita con una lunga palandrana
grigia, zoccoli di legno ai piedi e sul collo appeso un numero: 11152, da allora il
mio nome.
“Mamma, mamma, mamma!” ripetevo a Birkenau, dove si camminava sulle
ceneri. Ad Auschwitz, dove ci spostarono nel lager C, baracca 11. Per cinque
settimane ho continuato a ripetere e ho pianto per la mamma. La povera Judit
disperata mi teneva tra le braccia dicendomi: “Sono qui io, Ditke, Ditke, siamo
insieme, torneremo a casa insieme e ritroverai la mamma.”
Ma la kapò del blocco, Aliz, una polacca, stufa dei miei pianti, mi fece
scendere dal letto a castello dicendomi: “Vieni, ti faccio vedere io dove è tua
madre!”
Scesi di corsa e la seguii fuori, all’ingresso della baracca.
“Vedi quel fumo?” mi indicò un punto oltre i numerosi blocchi.
“Sì...”
“Senti la puzza di carne umana?”
“Ma...”
“Tua madre era grassa?”
“Un po’...”
“Allora è diventata sapone come la mia! Noi crepavamo qui nel nostro Paese
da anni, mentre voi festeggiavate ancora la Pasqua! No?”
“Um...”
“Pensavate che i vostri cari ungheresi non vi lasciassero portar via?”
“Io...”
“Vai, vai e smettila di piangere, tua madre è andata a sinistra, eh? È
bruciata!”
Ero rimasta senza parole. Judit inutilmente mi chiese cosa mi aveva detto
quella polacca. Non gliel’ho detto, né glielo avrei mai detto, né ho creduto a
quello che ho sentito, e ho negato anche a me stessa ciò che avevo udito.
Poteva essere impazzita, disanimata, se era da anni in quel pianeta fuori dal
mondo.
In cinque, in fila, all’alba e al tramonto, venivano a contarci o per radunarci
tra un blocco e l’altro i soldati con i cani, e un uomo col camice bianco, che si
diceva dottore, indicava con un dito alcune di noi donne che sparivano senza
più fare ritorno. Nella latrina e nel lavatoio comune si sparsero le voci che
quelle donne erano selezionate per i bordelli o destinate a esperimenti
scientifici.
Le deportate da ogni dove d’Europa prima di noi ci avvisarono che era bene
essere invisibili per il dottore. Ma come? Io sempre alle spalle di Judit chiudevo
gli occhi credendo che se io non avessi visto quel medico neanche lui avrebbe
visto me. Il luogo delle notizie era sempre la latrina dove ci lasciavano andare
due volte al giorno.
Lì non si lavorava, era un campo di sterminio. La razione del cibo consisteva
in un finto caffè la mattina, una brodaglia a pranzo, già svuotata da qualche
pezzo di patata o di rapa da chi era incaricata a distribuircela, le nostre stesse
compagne. A cena un quadratino di pane con un formaggio puzzolente che si
chiamava quardli.
All’inizio tutto era tanto immangiabile quanto buono dopo, e mangiavamo
di nascosto per non farci strappare il cibo dalla mano o dalla bocca, perfino tra
sorelle, madri e figlie. Saremmo diventate presto come Aliz?
La fame, i pidocchi, la paura di essere selezionate, le malattie e i suicidi
contro il filo spinato ed elettrificato ci occupavano la mente di giorno e di
notte. Giorni e notti che sembravano mesi, anni.
Io non piangevo più per la mamma, dovevo pensare ai pidocchi che
portavano il tifo petecchiale, allo stomaco che borbottava, alla prossima
selezione, al foruncolo che significava morte, alla pipì che urgeva senza che
potessimo uscire.
Per fortuna non sapevamo come, ma non avevamo più il ciclo mensile.
“La pipì, la pipì” gemevo.
Judit-madre mi aveva suggerito di farla nella gavetta, poi in qualche modo
l’avremmo svuotata. Ma Marika, la ladra incaricata di servire nella nostra Stube
di dodici ragazze, una nuova deportata come noi da un paesino della nostra
zona, se n’era accorta e di sua iniziativa mi punì lasciandomi cinque ore sulle
ginocchia.
“Troia, puttana, carogna” la insultava Judit. “Non tornerai mai a casa perché
ti strozzerò io con le mie mani! Lo giuro su Dio! Bestia maledetta, creperai!”
Marika, una bella donna alta e in carne, rise trionfante in faccia a Judit,
minacciando anche lei, se non avesse chiuso il becco. Poi si era allontanata,
entrando nell’unica stanza vera, dove stavano le funzionarie con qualche
privilegio, che eseguivano gli ordini dei tedeschi con più o meno zelo e avevano
potere su di noi nel bene e nel male.
Un giorno morì la madre delle due ragazze capitate al nostro fianco nella
fila. E da quella stanza delle privilegiate, con le loro gerarchie, erano sbucati
fuori un lenzuolo per avvolgere il corpo della morta, una candela e il libro della
preghiera. Loro rimasero chiuse nella stanza, noi, in massa, eravamo accanto al
cadavere per terra e piangevamo quella madre, l’unica anziana capitata tra noi
per sbaglio, per svista, durante la rapida selezione all’arrivo? Era una fortuna
che la mamma non fosse con noi, forse da qualche parte con i vecchi? E quelle
perché sono rimaste chiuse nella stanza, temevano che arrivasse un tedesco che
le avrebbe punite? Oh, capire le regole, le rigide discipline, i ruoli, non era
facile, né conoscere i trucchi della possibile sopravvivenza, né essere guardiane
della nostra vita senza nuocere alle altre, nella lotta quotidiana per arrivare
all’indomani.
Con Judit abbiamo spidocchiato Eva, scoperta nel nostro blocco. Stava male
e all’appello o non veniva o non l’abbiamo mai vista. Il blocco era grande, pieno
e non si poteva girare liberamente neanche all’interno.
Erano passati tre mesi o tre anni? Ogni giorno, ogni ora, ogni minuto si
moriva: chi per la selezione, chi all’appello, chi per la fame, chi per malattie e
chi, come Eva, suicida, fulminata dalla corrente del filo spinato, rimanendo a
lungo appesa come Cristo sulla croce.
La sua immagine si è impressa in me e Judit, Eva era parte di noi, del nostro
villaggio, della mia infanzia lontana. Da quel giorno ci promettemmo l’un
l’altra di non suicidarci, perché Judit aveva già tentato più volte di farla finita.
Poi mi diceva di non temere, perché non mi avrebbe mai lasciata sola, aveva
promesso alla mamma di riportarmi a casa. Ma quando, da dove, che cosa
sapeva più di me, cosa mi è stato taciuto di quel luogo, dove sono stata anche
selezionata, ma mi salvai approfittando del caos e dei pianti dei bambini che i
tedeschi caricavano sul camion della morte.
Sembrava che il sole si fosse spento per sempre e il mese dei morti divorasse
le vite e non credemmo più alle notizie della latrina dove si sussurrava di
bombardamenti; di chi e dove?
Della festa di Natale lì non c’era traccia, solo la neve nemica e i nostri
ricordi, i miei e quelli di Judit, il mio sostegno, che mi scaldava le mani come la
mamma e pregava come lei. Io non avevo imparato a pregare per colpa del
padre di Eva, che insegnava l’ebraico per compiacere Dio, ma a colpi di
bacchetta sulla testa a ogni lettera dell’alfabeto. Per me era cattivo e mi faceva
paura come gli altri ultraortodossi, che camminavano veloci sulle strade e non
guardavano in faccia a nessuno, volavano nelle loro palandrane come non
fossero sulla terra, ma in un altrove sconosciuto. Anche se avessi imparato, in
quei luoghi non avrei potuto neanche pronunciare il nome di Dio. Ed ero anche
arrabbiata con Lui. Come poteva rimanere indifferente a quello scempio?
“Tutto è colpa dell’uomo” diceva mia madre. “Dove mette i piedi non cresce
più neanche l’erba!”
“Allora l’uomo è più forte di Dio?” le chiedevo.
“Tutti pagheranno per le proprie azioni” mi rassicurava lei. E come si poteva
non credere a una madre?
7 Destra, sinistra!
8 Via! Camminare veloci!
9 Ascolta Israele, Dio Nostro, Dio Unico.
Nuova vita
Abbiamo vissuto tra agonia, morti, freddo, fame, fino all’ultimo appello del 15
aprile, ma dall’alba alle nove non venne nessuno a contarci. La kapò che ci
metteva in fila a bastonate, perché alcune di noi non riuscivano più a stare in
piedi, era sparita.
L’abbandono totale era la morte?
Judit, l’eroina, ebbe un’idea folle: “Vado fuori, nella cucina dei tedeschi” mi
disse piano e prima che potessi cercare di dissuaderla era già in corsa e di corsa
tornò con una rapa gridando: “Non c’è più nessuno! Neanche un tedesco! Non
ci sono i tedeschi!”
Le ragazze con gli occhi di fuori la guardavano come se delirasse. E da lì non
passò più di qualche minuto, quando vedemmo arrivare una jeep con dei
soldati e, terrorizzate, ci mettemmo sull’attenti.
I soldati avevano un’uniforme diversa, ma a noi tutte le uniformi facevano
paura. Uno di loro ci avvicinò con molta cautela, con un’espressione tra
stupore, incredulità, disgusto e pietà, dicendoci qualcosa, gesticolando attorno
ai nostri stracci: “Away, away!” Sopraggiunse anche un camion e ci avvicinò di
corsa un altro soldato, con gli occhi in cui erano visibili le lacrime trattenute. E
indicando se stesso, ripeteva: “American jewish, jew, hebrew american. You are
free! Liberation! Free, free, free!” Mia madre avrebbe detto che era il Messia.
Noi, pazze di gioia e lacrime, urlavamo con quel poco di fiato che ci era
rimasto. E obbligate a svestirci e a buttare nel falò acceso i nostri stracci, nude e
tremanti, al contrario che di fronte ai tedeschi, io arrossivo dalla vergogna con
quel poco di sangue che mi teneva ancora in vita. Imbiancate come fantasmi di
DDT in ogni piega del nostro corpo, fatto di pelle e ossa, ci diedero un vestito
rosa di cotone a fiorellini e via, tutte su dei camion, all’ospedale militare di
Bergen Belsen.
E incominciò la cura; ci diedero da mangiare il minimo, aumentando molto
lentamente, un po’ di più, un po’ di più.
Il tre maggio, al mio quattordicesimo compleanno, mi affacciai dalla finestra
e un militare americano mi mostrò una busta gridando: “Ok? Sugar, sugar.
Sweet, you sweet”. “Ok” ripetevo avendo capito dal suono che doveva essere:
“Va bene?”
Con Judit non osavamo ancora parlare del futuro, pur essendo piene di
futuro. Era diventato un argomento tabù.
Non sentire più la lingua tedesca, se non nel sonno, era la vera cura, oltre
alle medicine. I medici, gli infermieri ci trattavano come fossimo dei poppanti e
in due mesi crescemmo, e balbettavamo, stavamo in piedi e uscimmo al sole di
fine giugno. Su un documento ci restituirono i nostri nomi, la data di nascita,
l’origine, il numero da deportate e i luoghi della prigionia e ci sentivamo rinate,
libere e disperse nel mondo dei vivi. Viva era anche la mia prima punitrice,
nella quale ci siamo imbattute, e prima che aprissi bocca mi diede un bacio
violento che mi fece sanguinare il naso e mentre Judit cercava di tamponarlo, la
carogna era sparita.
Denunciarla o non denunciarla?, ci chiedemmo con Judit e vinse il “no”.
Pensarla punita avrebbe fatto male a noi. Lasciammo il giudizio all’Alto, come
avrebbe detto la nostra mamma.
La mamma... Dove era la mamma? E papà, David, Jonas, Sara e Mirjam?
Non osavamo chiedercelo ma in segreto speravamo di ritrovarli. Ma quando,
dove?
Per vent’anni non l’ho più rivista. Mi presentai da David, nel paese della
moglie. Lui mi ascoltò e rimase muto e perplesso. Dalla giovane coppia
dormivo in una stanza divisa in due con un telo. Di notte ascoltavo i loro
gemiti d’amore. E di giorno l’inquilino Ivan, sulla sedia a rotelle, suonava la
chitarra e io cantavo con lui le sue composizioni disperate. Qualche
pomeriggio, in fondo al giardino, sulla discesa verso il fiume Bodrog, scrivevo o
leggevo i libri che mi prestava lui; romanzi, poesie... E mi piaceva tutto.
Inghiottii ogni riga, ogni pagina e divorai i volumi uno dopo l’altro. Al
tramonto del sole che amavo, scrivevo sul mio quaderno a matita. Avevo già
corteggiatori e da un bel ragazzo borghese ho ricevuto il secondo bacio, che
aveva spaventato mio fratello, perché quel ragazzo di famiglia benestante non
mi avrebbe mai sposata e temeva che gli cedessi.
“Piaci anche a Feri” mi ha fatto sapere.
“Feri chi? Rozenthal? L’amico di papà? Ma potrebbe essere mio padre!”
“Vuole fidanzarsi con te.”
“Io no.”
“Facciamo un bel fidanzamento e ti sistemi con un uomo serio. Mi sono già
messo d’accordo con lui. Lo faccio per te, tu sarai protetta e io tranquillo.
Ascoltami. Noi ce ne andremo da qui da un giorno all’altro.”
Con il cuore e le gambe tremanti lasciai che avvenisse il fidanzamento,
senza scambiare con l’uomo nemmeno un bacio.
Io lo interrogavo sugli incontri, su mio padre e le loro bevute insieme,
lontano da noi. Cercavo in lui qualcosa che mi facesse conoscere meglio mio
padre, troppo taciturno, e la causa delle liti con la mamma.
Purtroppo non mi rivelò niente. Né aveva niente da dirmi o da darmi e partì
presto per il Canada, dove poi seppi che aveva sposato una nostra lontana
cugina. David faceva parte di un gruppo di “nuovi” comunisti e nel frattempo,
in gran segreto, si preparava a lasciare l’Ungheria, organizzando per prima cosa
la mia fuga in Slovacchia, da un suo fratello di lager. Nel frattempo, dopo aver
venduto la casa della moglie, aveva comprato qualche gioiello, che molti
vendevano per la penuria del cibo, e me lo aveva affidato perché lo portassi via.
Signorina, signorina, / come ti chiami? / Vieni qua, dammi la fica... / ...figlia di puttana.
10
La speranza.
11
La realtà
Dopo aver cantato l’inno nella confusione, dove mi lasciavo urtare, spostare e
non desideravo altro che il bagno sulla terra ferma, sotto i piedi vidi la scritta
WC. Intanto il mio ragazzo era scomparso e a malapena lo avevo intravisto su
un camion che partiva verso chissà dove.
Raggiunsi la fila in attesa di essere registrata. Gli uomini e le donne,
secondo l’età, vennero arruolati nell’esercito e io, ancora diciassettenne, venni
trasferita in un campo seminato nella sabbia di prefabbricati con il tetto di
lamiera.
Dove, dove sono, mamma, mamma! La invocavo di notte, tra gli ululati degli
sciacalli.
E della realtà che temevo quando non volevo partire con Judit? Dov’è Judit,
dov’è? Il sogno si è infranto ed è andato in fumo con la mamma, come la sua
attesa dei russi e quella di papà, che aspettava il socialismo.
Dietro di me tabula rasa, davanti una fila con una ciotola per il cibo e una
donna energica di nome Ruth che manteneva l’ordine, soprattutto tra i più
impazienti, sotto il sole ancora bollente d’oriente.
La lingua tra noi era quella babelica, essendo arrivati da ovunque e sistemati
un po’ secondo le nostre provenienze, gli ungheresi sono diventati ungheresi, i
romeni romeni, mentre nei nostri Paesi eravamo solo ebrei. Nell’ufficio del
campo seppi che Judit e David erano già nel Paese. Con inattesa rapidità mi
informarono che mio fratello con la moglie e un bambino vivevano in una
cooperativa agricola e il bambino si chiamava come mio padre, in ebraico
Shalom.
Judit viveva in un quartiere periferico a Haifa con il marito sposato a Cipro
e avevano un figlio di nome Haim12.
Lo zio di nome Joel era a Tel Aviv con due figli maschi: Avi e Itai.
E con che soldi vado a trovarli?, mi chiedevo giorno dopo giorno, finché
seppi che tutti viaggiavano in autostop.
Le macchine private scarseggiavano e il primo viaggio lo feci soprattutto
sulle jeep militari e i camion, cercando di spiegare dove ero diretta, con
l’indirizzo di Judit in mano.
La piccola casa era su un terreno infossato, con una grande terrazza, dove
vidi un bambino in carrozzina. Piccolo piccolo, che meraviglia, con un faccino
che tendeva al sorriso e due grandi occhi di brillanti neri.
Mi chinai per baciarlo inondandolo di lacrime che lo fecero gridare e
accorrere mia sorella in grembiule, ciabatte, che a momenti sveniva.
“Dio, Dio!” urlava di gioia e rimproveri perché non ero partita con lei.
E mi raccontava di sé e io raccontai di me tacendo di quell’uomo in
Slovacchia, ma parlando del ragazzo conosciuto sulla nave.
“E adesso che farai? Verrai ad abitare da noi o da David, che è arrivato tre
mesi fa? Qui, ai singoli non danno alloggio. La vita è dura ma siamo a casa, a
casa degli arabi che vogliono buttarci nel mare. Mio marito, in mancanza di
altro, fa il vigile. Non è felice, voleva fare il pittore, come te la scrittrice. Scrivi
ancora?”
“Più di prima, le parole da dire stanno aumentando, se fossero bambini
concepiti ne partorirei tanti quanti ne sono stati annientati.”
“Io non ti capisco, non ti capirò mai. Che vuoi dire? Studia l’ebraico, impara
un mestiere. Vieni, entriamo nella mia povera casa; due stanzette e una cucina.
La terrazza è grande, va bene per il bimbo ma mi impedisce la vista. Haifa è
bella, devi vedere il Carmelo!”
“Io voglio vedere David, lo zio Joel tu l’hai già visto, somiglia a papà?”
“Sono corsa da lui incinta, non ha niente di papà. La moglie, una polacca
tutta dipinta, mi ha messo davanti un caffellatte senza zucchero; anche qui
mancano molte cose. Il Paese non è ancora un Paese, è appena nato, è piccolo
come lui. Lo zio è taciturno come le nostre zie, poveracce, tutte scomparse. Nel
nostro villaggio non c’è un solo ebreo. Ma parliamo di altro. Mio marito è bello,
ma più piccolo di me, e non mi fa mettere le scarpe con i tacchi. Oggi torna
tardi, ha il turno pomeridiano. Mangiamo qualcosa? Ti faccio il dolce con la
ricotta che faceva la mamma? Ti ricordi del tedesco che voleva ucciderti? E sai
chi ho incontrato qui? Aliz, la carogna, il nostro kapò ad Auschwitz. La
denunciamo? E sai chi ho incontrato ancora? Marika, l’altra carogna! E la
buona Terez, che mi aveva aiutato a trascinarti alla fine della marcia.”
“Il bimbo sta piangendo.”
“Lui sa già tutto, gli ho raccontato che non ha né nonna né nonno.”
“Hai fatto male. Io voglio tornare a Pardes Hanna prima di sera. Devo
andare, devo andare presto.” Volevo fuggire dai suoi discorsi.
“Io non ti lascio andare.”
“Tornerò presto.”
“Perché questa fretta? Chi ti aspetta, che fai, la civetta con qualcuno?”
“No. Ho bisogno di andarmene. Domani vado da David e dopo dallo zio.
Voglio vederli.”
“Non mi hai detto che effetto ti ha fatto mettere i piedi sulla nostra terra. Io
l’ho baciata.”
“Io sulla nave sono stata male. Ho vomitato tutto il tempo e, appena
arrivata, sono rimasta scioccata, nel bagno del porto ho trovato la carta con la
scritta in ebraico.”
“Ma stupidina, sono giornali! Sei felice che siamo qui?”
“Non so... sulla bocca della mamma era la favola più bella.”
“Vuoi dire che sei delusa per colpa della mamma? Mangia.”
“No, no.... Forse è colpa mia, non mi trovo più bene da nessuna parte, non
mi piace il mondo e non posso cambiarlo.”
“Magari potessi cambiarlo, ma temo che sarà il mondo a cambiare te.”
“Hai chiamato Haim il tuo bambino: è bello.”
“Sì. Dobbiamo sostituire quelli che...”
“Sì sì, ho capito. Basta, adesso vado.”
“Ecco mio marito, si chiama Ámos.”
L’uomo, perso nell’uniforme, dall’espressione offesa, pensieroso, fece
qualche timido passo verso di me e quasi si ritrasse mentre lo salutavo con un
bacio.
“Non vi somigliate.”
“Vuoi dire che lei è più bella di me?” gli chiese Judit.
“No, no.”
“Fin da piccola si specchiava, come fosse la più bella del reame” aggiunse
Judit, tutt’altro che brutta, solo complessata, seria, litigiosa, un po’ come la
mamma.
Prima che ricordasse di me bambina e il nostro vissuto con la morte, baciai
con il cuore il bimbo “Vita”, Judit che mi era più che sorella e Ámos, dal bel
viso e il cuore corazzato, introverso.
Lasciai la casa più che mai smarrita, con le gambe malferme, come fossi
ubriaca, turbata. In strada, alzai il pollice e fermai subito un furgone, guidato da
un militare che mi ispirava fiducia. Gli dissi il nome del campo e rispose con un
“ok”.
“Io sono Ditke” pronunciai in ebraico e dall’accento capì subito che ero
ungherese. Mischiando quattro lingue insieme, mi fece capire che aveva perso
un fratello in guerra, che erano circondati da nemici anche dietro la porta di
casa, e anche a noi, nuovi arrivati, sarebbe toccato difendere la nostra terra.
“Tu perché non sei nell’esercito? Soldat? Soldat?”
“Oh no, non ho l’età e non voglio uniformi: né ammazzare, né morire. Io
vengo da Auschwitz.”
“Auschwitz, Auschwitz: basta! Tu devi essere forte, vivere e morire con
dignità.”
“Voglio scendere” gli dissi, al centro della città.
“Ok, ok, ok!”
Poi sembrò pentirsi e venne con me dicendo: “Andiamo al Caffè Nizza da
Ungar. Magyar, magyar, ti offro anche una torta Sacher.”
L’uomo robusto dietro al banco aveva un volto familiare, mi ricordava lo zio
Berti che era scomparso, e mi veniva da piangere a ricordare lo zio più amato.
Distogliendo lo sguardo dall’uomo e voltandomi verso la porta a vetri
dell’ingresso, vidi apparire come un fantasma il ragazzo della nave, Gabi. Gli
corsi incontro abbracciandolo come fosse Jonas, il mio fratellino pallido
perduto. Anche lui mi strinse a sé, da innamorato, ma subito geloso del soldato
che mi stava dando solo un passaggio, e che con un altro “ok” e uno “shalom”
in tono sgarbato, mi aveva mollato lì, con il mio marinaio. Io gli raccontai di
me, di Judit, di David. Lui non aveva nessuno, era figlio unico, gli piacevano i
motori e faceva il meccanico su una nave militare. Aveva una paga magra e
scherzando mi disse che conveniva sposarsi, certo a spese dell’esercito, magari
ottenere un alloggio e un assegno familiare. Lo ascoltavo stordita, mentre lui
giurava di amarmi. Temendo, ma neanche troppo, che fossi io a volerlo
sposare. Ci siamo lasciati, con la promessa di rivederci presto.
David abitava in una delle casette sparse su un terreno arido, nudo vicino a
Zikhron Ya’aqov. Era più che felice di rivedermi, ma i suoi grandi occhi
brillavano solo nel guardare il suo piccolo Shalom e la moglie Valeria. Era
povero, taciturno, con un animo in rivolta, come mio padre. La moglie amata,
una sopravvissuta, aveva problemi di polmoni e lui al cuore. Non erano adatti
per zappare la terra pietrosa.
Improvvisamente mi saltò in mente di raccontargli del ragazzo Gabi... e la
sua reazione, alla mia idea di sposarmi, fu sproporzionata.
“È uno sconosciuto, cosa dici?!”
“E tu? Che volevi farmi sposare con l’amico di papà? Per chissà quanto
ancora devo stare in quel campo. Non voglio passare tutta la vita lì in trenta
dentro una stanza, in fila per mangiare. Qui ancora le pallottole svolazzano. Ci
vorrebbe un sanatorio per noi, altro che i campi di transito!”
“Ma non sai chi è...”
“E quando sai chi è?”
“Può essere un mascalzone, un bugiardo, un farabutto. Di dove è?”
“E che differenza fa di dove è?”
“Ma hai diciassette anni...”
“Che me ne faccio dei miei diciassette anni?”
“E lui quanti ne ha?”
“Ventidue. Mi piace, è bello, è di Budapest.”
“E che sa fare?”
“Niente. Il marinaio. C’è qualcuno che fa quello che gli piace fare?”
“Tu hai sempre la risposta giusta, eh?”
“E il marito di nostra cugina Adele, che fa lo spazzino? Che si può fare se
non si parla l’ebraico?”
“Fai quello che ti pare, tanto tu non ascolti nessuno! Aspetta, appena compi
diciott’anni potrai diventare una bellissima soldatessa e imparerai anche la
lingua.”
“Io non prenderò mai un’arma in mano.”
“Piuttosto ti fai ammazzare?”
“Credo di sì. Preferisco avere avuto un padre martire che un padre
assassino.”
“Io avrei fatto il militare per amore di Israele.”
“Lo so. Io no. Le guerre portano guerre. Io disarmerei tutto il mondo.”
“Sogna, sogna tu. Avrai un brutto risveglio.”
“L’ho già avuto.”
Alla fine ci siamo lasciati con il mio amato fratello riconciliati, pentiti,
commossi, con reciproche scuse e, dopo aver giocato a lungo con il bambino,
mangiato, bevuto, con altri baci e abbracci me ne sono andata.
“Vita”.
12
La fuga
Dopo Atene, andammo a Istanbul, città grande, bella, febbrile, dai mercati
vivaci e un mare stupendo. I musulmani per fortuna non bevevano, avevano
solo sguardi ambigui, ma non di rado tentavano approcci violenti.
Io ho fatto amicizia con il proprietario del locale, uomo gentile, rispettoso,
con un padre malato, che sembrava un’immagine sacra. Gli facevo compagnia
appena potevo, mi piaceva tenere la sua mano tremante, smagrita, asciugavo la
fronte madida, vedendolo rianimarsi a ogni mio gesto.
Nel locale avevo un numero tutto mio e, più che ballare, cantavo in inglese e
correvo dal vecchio che mi sorrideva intenerito e grato.
“Ha il cancro,” mi diceva il figlio, “ed è stato un grande pianista.”
Nella casa sembrava che vivessero solo loro due. Sono davvero padre e
figlio?, mi chiesi, scoprendo qualcosa di strano e femminile nei giovani, la lacca
sulle unghie.
Durante le mie brevi presenze nell’albergo, un giorno mi resi conto di essere
osservata da un uomo solo piuttosto basso, apparentemente timido, serio. Mi
guardava anche una donna che apparve accanto alla sua figura, dall’aria
energica, né bella, né brutta, scoprii che parlavano la lingua ungherese.
Sembrava che lei stesse incoraggiando l’uomo ad avvicinarsi a me, insisteva.
Lui si era alzato e lei quasi lo spinse nella mia direzione e voltando il tacco uscì
dall’albergo.
“Sono Max” mi disse l’uomo. “Ho un gruppo di ballo, il Gruppo Max. Vorrei
che lei facesse parte del mio balletto. Siamo in partenza per Zurigo. Le nostre
ragazze sono tutte professioniste. Anche mia moglie è ballerina e coreografa.
Abbiamo ragazze austriache, una ungherese e una contorsionista cinese. Alle
nostre ragazze è proibito bere. Io stesso le accompagno dopo lo spettacolo in
albergo. Sono ben pagate e sempre in locali di primo ordine. Posso darti del tu?
Vieni con noi? Una delle nostre ragazze ha persino accanto il fratello. Il mio
balletto è noto e serio.”
L’uomo era convincente e gli dissi subito di sì e mi riscattai da sola
dall’agente precedente. Mi dispiaceva solo separarmi dalla mia amica zingara,
Jolanka, ma Max non la voleva e il nostro lungo abbraccio non era d’addio,
restammo in contatto anche da lontano.
Roma! L’ombelico del mondo! Niente più danza. Libertà! La città eterna,
dopo la sorridente Napoli, sembrava che fosse sempre esistita dai tempi dei
tempi come Gerusalemme. L’avvocato di nome Simon è rimasto con noi per
qualche giorno, facendoci da guida. Non aveva bisogno di parlare, bastavano i
nostri occhi, calamitati dagli affreschi della Cappella Sistina.
Le piazze, i palazzi, qualche chiesa di passaggio, il lungotevere che tagliava
la città in due. San Pietro con il papa Pio XII, che mi sembrava una figura
ieratica, come risucchiata dalla fede, o malata.
Nei vicoli, nei quartieri, c’era ancora sui muri l’impronta del conflitto, della
guerra, nonostante fossero passati diversi anni.
La città mi parve maestosa, ma avevo visto più mendicanti che a Napoli.
Simon cercava di spiegarci che l’Italia era una e trina: il Sud, che preferiva per
il calore umano, il centro, con il Vaticano, popolato da gente di ogni dove,
anche da emigrati interni, e il Nord, più ricco e più freddo, anche umanamente.
Ma tutta l’Italia era bella e l’avvocato ci precisò che gli ebrei a Roma c’erano
prima dei romani. Ci mostrò anche il ghetto, la grande sinagoga, dove avevo
fatto visita anche per conto mio, ma, vedendola, mi veniva da piangere, mi
faceva sentire persa, nel cuore del cattolicesimo. Avvertivo una dolorosa
nostalgia della mia famiglia di origine, come durante le feste di Pasqua in
Grecia. Mi mancavano anche Judit e David e mi ripromettevo di andare presto
a trovarli.
Simon e Lili preparavano i documenti per il loro matrimonio civile. Lui
andava e tornava dalla Sicilia, lei era calma e serena, sembravano già una
vecchia coppia affiatata e più che parlare, sussurravano tra loro. Lei aveva uno
sguardo umido, da cane fedele, lui, uomo piccolo di statura, grassottello, era più
rassicurante che bello, ma ambedue emanavano pace e serenità e un legame
così naturale, come se si conoscessero da una vita, non da qualche mese. Lei
sapeva di letto, di sessualità evidente, con una pelle ambrata e come scivolosa
di olio o sudore d’amore.
Lui era sempre in abiti chiari, sbarbato e profumato, con la testolina dai
capelli lisci e ben pettinati, come quella di un bambino privilegiato e ben
curato.
Lei, nell’appartamento romano di lui, era sempre a letto e mangiava, con
un’espressione apatica e indifferente. Stare con lei era come essere soli, capirla
era impossibile, faceva fatica anche a parlare, usciva solo quando tornava
Simon. Gli altri giorni giaceva come anestetizzata, disinteressata di tutto, e non
capivo nemmeno come era finita nel balletto e si muoveva sul palcoscenico
come una sonnambula ipnotizzata.
“Come si chiama il tuo bambino?” le chiesi.
Con un soffio di voce mi disse: “Simon.”
Era il nome Simon che l’aveva legata a quell’uomo di mezza età? E lui era
scapolo o divorziato? Aveva figli? Non sapevo niente neanche di lui o sapeva
qualcosa solo lei. Insieme erano due tombe bisbiglianti e io soffocavo se non
parlavo con qualcuno, se non facevo qualcosa. Mi sentivo del tutto inutile e mi
iscrissi a un corso di inglese, e una signorina zitella, come quella dalla quale da
mia sorella Sara prendevo lezioni di piano, mi dava lezioni di grammatica
italiana e impazzivo con tutti quegli “ebbi”, “ebbero”, “fossero”, “fossi”, “fu”.
L’inglese lo sapevo abbastanza e mi misero nel corso più avanzato, cosa che
non volevo, e il primo compito era sul Macbeth di Shakespeare.
Finalmente ripresi in mano il mio quadernetto, che avevo abbandonato, e ho
iniziato a scrivere in italiano, così: “Sono nata in un piccolo villaggio
ungherese...”
L’attesa dei documenti non finiva mai e Lili se ne andò in Sicilia con Simon.
Io finii in una stanza ammobiliata a due passi da piazza di Spagna, al prezzo di
sedicimila lire al mese più duecento lire extra per la doccia. La stanza era buia e
dava su un cortile interno dove scorrazzavano i topi tra la spazzatura.
Nell’anticamera troneggiava l’immagine di papa Pio XII, del re Umberto e di
Mussolini. La padrona di casa, la signora Ida, mi scrutava come fossi un’aliena.
Con la sua voce rauca, bronchitica, mi inseguiva dappertutto, aveva una
curiosità morbosa. Spettegolava la sera con la figlia e il mite marito, poi
andavano tutti nel bar di fronte dove dall’alto dominava la televisione, che si
vendeva a rate come l’aspirapolvere e la lavatrice. La sera, da sola, nel silenzio,
sotto la lampadina centrale, avara di luce, scrivevo finché non venivo interrotta
dalla signora Ida, al ritorno dal bar, che mi sgridava che dovevo mangiare,
cenare con loro, o uscire e andare da Otello a via della Croce, dove c’era gente
del cinema.
“Lei è una bella signorina, esca, si faccia vedere in giro, che magari le
faranno fare l’attrice. Che sta lì a scrivere, ad accecarsi.”
Dopo qualche tempo, le diedi retta e mangiavo con loro la zuppa di fagioli o
cavoli in cucina o andavo da Otello, dove i tavoli erano uniti ai due lati della
sala e non si stava soli.
Io capitai accanto a un certo Tonino, che poi seppi che si chiamava Cervi, in
compagnia di una signora elegante, molto ben pettinata, che sapeva di lacca. Mi
diede la mano curata e disse di chiamarsi Nadia. Seppi presto che era una
famosa sarta, e mi chiese che lingue parlassi oltre il mio italiano, sempre
migliore.
“Inglese, tedesco, un po’ di francese.”
“Perfetto” esclamò, guardando Tonino e dicendogli che avrei potuto
sostituire Sylvie. Poi mi propose un lavoro, se fossi stata libera.
“Sì, sì” risposi.
I giorni successivi mi ritrovai in un istituto di bellezza a via dei Condotti,
con il ruolo di direttrice, al posto di quella Sylvie francese, tornata a Parigi.
Per qualche giorno ascoltai le istruzioni della signora G., la titolare
dall’atteggiamento e dal tono sempre sgradevole, che aveva aperto il noto
istituto di bellezza in società con un giovane parrucchiere dalle mani d’oro,
scoperto da lei.
Elencava ogni giorno i miei compiti: occuparmi della cassa, del telefono,
degli appuntamenti, delle vestaglie per le signore, delle riviste, delle
ordinazioni, del bar, della vendita nella boutique, dei rifornimenti del materiale,
di sorvegliare il personale, di consegnare i conti alla sera, d’intrattenere
secondo l’importanza la clientela in attesa di un colpo di pettine dalle mani
d’oro, di trattare con i guanti bianchi attori, attrici, principesse, top model,
mantenute di alto bordo, soubrette e, soprattutto, la principessa Torlonia e
Paola Ruffo di Calabria, Valentina Cortese e Anna Magnani, che aveva il volto
più intenso che abbia mai visto. “Fai aspettare i nuovi ricchi e i cafoni. Hai
capito tutto?! Hai capito tutto?! Perché mi guardi muta?! Sei spaventata? Se fai
bene il tuo lavoro resti, se no te ne vai. Qui sei tra la crema di Roma e sappi
comportarti. Se Mastroianni o un’altra star del cinema deve tingersi i capelli
per un film, resterai qui a loro disposizione dopo la chiusura. È chiaro?! Hai
capito?!” ripeteva.
“Sì, signora.”
“Sì, signora un cazzo, con quel tono da orfanella.”
A dir poco, ero sconvolta, preferivo mille volte un uomo padrone a una
donna. Le donne erano peggio degli uomini anche nei lager, ma ottantamila lire
al mese per me era tanto. Anche il lavoro era tanto, almeno dodici ore e oltre,
se venivano le celebrità. Lì conobbi Delia Scala, Franca Valeri, Lea Massari,
Sandra Milo, Flora Mastroianni, Zsa Zsa Gabor, Margaret d’Inghilterra, Elsa
Martinelli e molte signore, intime della signora G., che si definiva socialista.
Solo di domenica tornavo alla scrittura, durante la settimana correvo in
lungo e in largo tra i vari reparti dell’istituto. La sera, con i piedi gonfi e vari
dolori, crollavo dopo un tè e un pezzo di pane, come da bambina. Qualche volta
mangiavo da Otello per mille lire, come fossi in una famiglia, essendo diventata
amica della moglie e delle figlie. Feci amicizia con una ragazza olandese al
lavoro, dove aveva venduto i suoi lunghi splendidi capelli per farne del tupet,
che confezionavamo per uomini e donne.
L’Italia all’epoca correva verso il cosiddetto boom e l’incasso che
consegnavo la sera era intorno ai due milioni. Solo io non riuscivo più a correre
tanto, a inghiottire. All’arrivo, nella tarda mattinata, la signora G. mi salutava
così: “Faccia di merda, vatti a truccare!”
Tutti la temevano per il suo linguaggio scurrile e per il carattere
insopportabile; pur avendo momenti di umana generosità, soffriva per amore,
mormoravano.
Mi feriva anche l’arroganza della Martinelli, che battendo i piedi, mi
richiamò al mio dovere di chiamarla Contessa Mancinelli Scotti.
Nessuno sapeva di me niente, delle mie esperienze, del mio passato. Ogni
tanto la signora G. mi sgridava se sorridevo poco ai clienti o mi facevo
prendere dalla tristezza, che dovevo reprimere così come dovevo sopportare le
umilianti offese. E spesso mi chiedeva: “Cos’è quella faccia da funerale? Qui
devi sorridere anche se non ti va. E i cazzi tuoi lasciali fuori da qui. Queste
stronze, a parte qualche vera signora, vanno coccolate. Chiaro?!”
Dalla prima lettera che Ti avevo scritto con il pensiero all’età di nove anni, ne
sono passati ottanta! E mi sono sentita arrossire sia allora che due notti fa per
la stessa idea che non mi ha mai abbandonata.
Mi pareva una bestemmia che non ho mai pronunciata, forse spudoratezza o
lucida follia. Ma adesso Ti scrivo davvero, finché vedo.
Scrivo a Te, che non leggerai mai i miei scarabocchi, non risponderai mai
alle mie domande, ai miei pensieri di una vita.
Pensieri elementari, piccoli, quelli della bambina che è in me, non sono
cresciuti con me e non sono invecchiati con me e neppure cambiati molto.
Forse mi urge mettere sulle pagine ciò che ho accumulato nella mente perché il
destino mi sta privando della vista. Già faccio fatica a decifrare la mia scrittura
sghemba e le righe ubriache ma ho fretta, il tempo stringe. Sto constatando che
ogni parola e ogni riga tende verso l’alto sempre di più e chi può sapere se non
arrivi fino a Te, sempre che Tu ci sia o sia fatto di silenzio, di invisibilità e
senza immagine al tuo popolo a cui appartengo. Figlia di una madre che ha
rivolto più parole a Te che ai sei figli e a un marito colpevole perché povero.
Figli che secondo mia madre le hai dato Tu e si rivolgeva a Te chiedendoti
tutto: scarpe, cappotti, farina, carne per il santo sabato, e lo zucchero al posto
della zacarina per il nostro tè a cena. Non c’era nulla che non chiedesse a Te: la
legna per la stufa fredda, un tetto nuovo per la casa, la primavera anticipata,
l’inverno meno rigido e gli stivali per papà, e che il fango argilloso non gli
strappasse le suole durante i suoi viaggi d’affari e che non tornasse come quasi
sempre a mani vuote.
Ti confesso che mi irritavano le sue richieste, mi facevano arrabbiare i suoi
discorsi continui con Te che non l’hai mai aiutata nemmeno a farle passare la
stitichezza e tutta rossa nello sforzo mi stringeva le mani invocandoti.
Io pensavo che in quella cabina di legno marcio non doveva neanche
nominarti.
Ma lei diceva che Tu sei ovunque, ma se Tu eri ovunque essendo il Solo
Unico, se eri dappertutto non eri da nessuna parte perché uno è uno. Contare
sapevo già prima delle elementari, e sapevo anche leggere e scrivere. Io ho
sempre scritto e quando non potevo da piccola perché avevo solo un quaderno
dalla scuola, scrivevo con il pensiero a tutti, anche a Te. A mio padre che non
ha mai giocato con me e la prima volta che mi ha baciato era in uniforme per
andare in guerra. Lo vedevo triste ma mi pareva più dritto del solito, più bello,
più alto al contrario della mamma che era crollata su se stessa.
Forse era passato un anno da quel primo bacio paterno e il secondo me lo
diede quando era tornato cupo, abbattuto, sudato e più vecchio, si sentiva
umiliato perché l’avevano cacciato dall’esercito essendo ebreo. Nei miei muti
pensieri a letto ho scritto anche a mamma dicendole che papà spesso dice delle
cose giuste ma per lei non era così, come se un padre povero non potesse avere
mai ragione. Gli negava anche la paternità ripetendo che noi figli siamo stati
dati da Te. E lei li aveva messi al mondo quanti hai voluto Tu.
Nelle mie lettere immaginarie avevo chiesto a mamma che se papà non
c’entrava niente con la nostra nascita, perché aveva il dovere di mantenerci?
Invece a Te ho pensato ogni sera della mia vita. Ti interrogavo su tante cose
ma non ho mai udito la Tua voce come Mosè, non mi hai mai degnato di una
sola risposta, come non hai degnato mia madre con la sua fede irremovibile in
Te. Al contrario di me, dubbiosa e alla mercé del piccolo villaggio fin da
quando avevo aperto gli occhi sul mondo che ci era nemico come fosse
naturale. E se Tu vedevi tutto, eri tutto, occhi, orecchie, come mai non hai visto
il nostro travaglio? Sai cosa faceva mio padre per sopravvivere: con un carro
prestato trasportava nella città vicina per terzi volatili da cortile, qualche
vitellino e perfino maiali che facevano rabbrividire la mamma. Partiva di notte
per essere lì all’alba e tornava più abbattuto che trionfante perché cedeva al
primo acquirente essendo negato per gli affari. Da ebreo tutti credevano che
fosse molto bravo, ma era impaziente e si accontentava del minimo profitto.
Per di più era un’anima buona, un sognatore, promettendosi e promettendoci
che un giorno avrebbe avuto un suo carro proprio con almeno un cavallo.
Mi chiedo da sempre e non ho ancora la risposta a che servono le preghiere
se non cambiano niente e nessuno, se Tu non puoi fare niente o non senti, non
vedi o se sei l’invenzione di una mente superiore, inimmaginabile o sei Tu che
hai inventato Te stesso? Io, che ho sempre scritto d’un fiato giorno dopo
giorno, ora improvvisamente mi fermo con la mano sospesa e lo sguardo fisso
sul vuoto, è nel vuoto che Ti cerco.
Noi non abbiamo né il Purgatorio né il Paradiso ma l’Inferno l’ho
conosciuto, dove il dito di Mengele indicava la sinistra che era il fuoco e la
destra l’agonia del lavoro, gli esperimenti e la morte per la fame e il freddo.
I casi di sopravvivenza avvennero senza merito magari a costo della vita
altrui o al servizio del nemico. Perché non hai spezzato quel dito? Nella
Cappella Sistina Tu lo tendi verso Adamo-Adam – uomo in ebraico – senza
sfiorarlo come quel medico che era il Sì e il No prendendo il Tuo posto, hai
lasciato che Ti sostituisse! E porgesse quell’indice di fuoco contro milioni di
innocenti che Ti invocavano e adoravano come mia madre. Non temevi che Ti
rinnegassero o avevi rivolto il dito anche contro Te stesso seguendo il destino
del Tuo popolo eletto? Noi usciti da quell’Inferno siamo abbandonati a noi
stessi, ma Tu non sei mortale, non sei il Nostro Eterno Unico? Parole belle,
consolanti, fatte di speranze, necessarie come pane per chi ha fame, e di fame
non manca il mondo come non manca di abbondanza per pochi.
La giustizia è una parola che dovrebbe sparire dai dizionari e non andrebbe
pronunciata invano come il Tuo nome. Ma Tu ne hai tanti di nomi e anche
dalla mia bocca sfugge qualche volta “Dio mio!”, ma in un sussurro, quando il
Male è troppo e sono indignata per ciò che è accaduto, accade e accadrà.
Tutto si ripete. Tu pure sei l’Unica Infinita Ripetizione, il più grande mistero
che esiste, se esiste, questa è la domanda che non avrà mai risposta, o Ti si
crede ciecamente o Ti si dubita lucidamente, o la domanda resta sospesa tra me
e me.
Oh, Tu, Grande Silenzio, se Tu sapessi delle mie paure, di tutto ma non di
Te. Se sono sopravvissuta, avrà un senso. No?
Ti prego, per la prima volta ti chiedo qualcosa: la memoria, che è il mio pane
quotidiano, per me infedele fedele, non lasciarmi nel buio, ho ancora da
illuminare qualche coscienza giovane nelle scuole e nelle aule universitarie
dove in veste di testimone racconto la mia esperienza da una vita. Dove le
domande più frequenti sono tre: se credo in Te, se perdono il Male e se odio i
miei aguzzini. Alla prima domanda arrossisco come se mi chiedessero di
denudarmi, alla seconda spiego che un ebreo può perdonare solo per se stesso,
ma non ne sono capace perché penso agli altri annientati che non
perdonerebbero me. Solo alla terza ho una risposta certa: pietà sì, verso
chiunque, odio mai, per cui sono salva, orfana, libera e per questo Ti ringrazio,
nella Bibbia Hashem, nella preghiera Adonai, nel quotidiano Dio.
Nota al testo
I versi di Nelo Risi citati nell’esergo sono tratti da La neve nell’armadio, in Nelo
Risi, Tutte le poesie, Mondadori, Milano 2020.