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LA CULTURA DELL EDUCAZIONE - BRUNER

Questo libro di Bruner, pubblicato per la prima volta negli Usa nel 1996 e presentato in Italia da
Feltrinelli nel 1997 (nel 2001 la ristampa in edizione economica) raccoglie, in nove capitoli,
altrettanti saggi che, come ci dice l’autore stesso nella Prefazione, possono essere letti
separatamente. Questo schema di lavoro, se da una parte semplifica la lettura del testo, dall'altra
comporta una certa quantità di ripetizioni che solo apparentemente possono essere saltate: se nel
primo saggio infatti Bruner getta le basi degli altri otto, in ognuno di essi le osservazioni che
vengono riprese, non si ripetono mai identiche, ma ogni volta procedono da un particolare punto di
vista. L’ipotesi di lavoro che governa l’intero libro consiste nel trovare un punto d’incontro tra due
teorie della mente: il "computazionalismo" ed il "culturalismo". Il computazionalismo lavora
essenzialmente su informazioni in ingresso "ben formulate", precise e non-ambigue e sulla base di
operazioni di calcolo "produce" operazioni e comportamenti conseguenti. Il culturalismo, partendo
dall'osservazione che la mente umana è chiamata a comportarsi in un ambiente molto più caotico e
ambiguo, sostiene che la conoscenza e l'apprendimento dell'uomo avvengano in maniera meno
formalizzata e meno formalizzabile di quanto sostenga il modello computazionale. La tesi centrale
del culturalismo è che, se i significati risiedono nella nostra mente, è altresì vero che essi "hanno
origine e rilevanza nella cultura in cui sono stati creati" (p. 17). Senza voler anticipare subito le
conclusioni, va detto che per Bruner il culturalismo o la psicologia culturale è il modello mentale
più adatto ad un'efficace metodologia educativa.
Il secondo saggio si colloca quasi esclusivamente sulla relazione educativa che si svolge in classe,
più precisamente in una classe elementare con bambini e bambine di nove anni. La proposta di
Bruner, esplicita sin dalle prime battute, è quanto meno sorprendente: invece di cercare di impostare
il curriculum sulla base delle più aggiornate teorie psicologiche e didattiche, il docente dovrebbe
invece seguire la cosiddetta psicologia popolare. Sedimentata nel corso degli anni nella cultura in
cui chi insegna è presumibilmente nato e cresciuto, la psicologia popolare, oltre ad avere il
vantaggio di non dover essere insegnata ex novo, è presente anche nella cultura del bambino e si
presenta quindi come un importante territorio in comune tra insegnante e allievo. Questi
"pregiudizi" agiscono molto probabilmente anche negli stessi bambini, nei loro genitori, quindi,
questa è la conclusione di Bruner, "la posizione della psicologia cognitiva di orientamento culturale
non liquida la psicologia popolare come mera superstizione, da lasciare all'antropologo conoscitore
di usanze popolari pittoresche. Sostengo ormai da tempo - è sempre Bruner che scrive - che
spiegare quello che fanno i bambini non basta; il nuovo ordine del giorno è capire cosa pensano di
fare e quali sono le loro ragioni per farlo" (p. 62). A differenza dei primati di ordine superiore
l'uomo infatti evolve in continuazione la sua idea di mente e quindi si preoccupa di come insegnare
quello che vuole insegnare e anche di cosa vuole insegnare (già nel primo saggio Bruner si è
preoccupato di stabilire infatti che il problema dell'educazione non è diventato recentemente un
problema politico, lo è sempre stato). La conclusione cui giungiamo è quindi apparentemente in
contraddizione con la tesi esposta in apertura: la scuola "tradizionale" ha seguito e segue un
processo educativo esternalista in cui è l'adulto a cercare di capire cosa e come il bambino deve
imparare. Anche quelle pedagogie che utilizzano sistemi interpretativi psicanalitici se ne servono
per discorsi tra adulti: interessa si l'interiorità dell'alunno ma questo non viene mai coinvolto
attivamente nel processo. Bruner è invece convinto che il bambino possa e debba diventare
partecipe del processo pedagogico: non è solo il protagonista, ma deve esserne consapevole. La
sfida della nuova scuola consiste pertanto nell'invertire il vecchio schema.
Il terzo capitolo riguarda le antinomie della scuola statunitense che Bruner ha studiato a fondo e che
ha parecchie analogie con la situazione italiana. Per Bruner come ogni età rivoluzionaria, anche la
nostra è caratterizzata dalla presenza di antinomie. La prima contraddizione riguarda l'opposizione
tra lo sviluppo di tutte le potenzialità di ciascun individuo e la riproduzione della cultura data e della
società di appartenenza. E' chiaro che questi due obiettivi non possono essere perseguiti
contemporaneamente. La seconda antinomia riguarda la visione della mente umana: per alcuni
l'apprendimento è intrapsichico, avviene cioè nella mente dell'allievo, e la scuola può soltanto
fornire degli strumenti per potenziare le capacità innate; per altri invece l'apprendimento è un
fenomeno culturale e l'apprendimento dipende dal tipo di "attrezzatura mentale" che l'insegnante
fornisce allo studente. La terza antinomia, la più defilata nel normale dibattito sull'educazione,
contrappone il punto di vista particolare delle singole identità culturali (il lettore italiano non può
non pensare alle differenze culturali ormai presenze costanti nelle scuole elementari italiane, nelle
grandi come nelle piccole città) al principio per cui ci sarebbe una sola cultura o un punto di vista
privilegiato e ufficiale che dovrebbe imporsi sugli altri. A questo proposito Bruner prende in
considerazione il progetto Head Start, studiato apposta per risolvere i gravi problemi scolastici dei
giovani e giovanissimi neri e ispanici delle grandi periferie urbane delle città statunitensi. Il
progetto era gravato da un pregiudizio culturale, quello cioè per cui determinati ragazzini erano in
gravi difficoltà perché la "loro" cultura di provenienza ne comprometteva lo sviluppo positivo
(questo principio venne chiamato "deprivazione culturale"). La società americana offriva un
modello positivo alternativo, quello della famiglia tipo della middle-class che tendeva quindi ad
imporsi come modello dominante anche nella mentalità degli educatori impegnati nel progetto.
Oltre a questa difficoltà bisogna considerare che visto che il progetto in molti casi fallì, suscitò
nell'opinione pubblica, e di conseguenza nei politici, la convinzione che non solo fosse inutile ma
anche dannoso spendere denaro pubblico in favore di fasce sociali, che non solo non avrebbero mai
"migliorato" le loro prestazioni sociali, ma che avrebbero finito col mettere a rischio il tenore di vita
della classe media. Nonostante ciò Bruner è convinto che il progetto riuscì a dimostrare che nei casi
in cui funzionava le spese erano del tutto ripagate non solo in termini sociali ma anche economici
(risparmio delle spese carcerarie, polizia, istituti correttivi ecc.). Tutto questo però non basta a
risolvere le antinomie: la via da seguire secondo Bruner non consiste nel mediare tra antinomie e
cercare di sviluppare un peraltro impossibile compromesso tra proposte opposte; si tratta al
contrario di cambiare modello culturale. L'educatore deve considerare il successo scolastico non in
base ad un modello "ideale" o peggio ancora "reale". Ogni successo è essenzialmente basato
sull'interazione di diverse culture, di diversi modelli e di diverse finalità. Siamo tutti ancora vittime
del pregiudizio (di una falsa teoria della mente) per cui la mente del bambino sarebbe una tabula
rasa senza modelli culturali propri. D'altro canto, se una scuola basata sul modello culturale non va
intesa come un'istituzione che prima o poi entra in rotta di collisione con la società di cui è parte,
allo stesso tempo però una tale scuola è in grado di "ipotizzare" una società diversa, una società in
cui, ad esempio, la ricchezza non venga più considerata come la capacità o quantità di successo
personale possibile, ma come la capacità di agire e progettare insieme. Probabilmente è in questo
modello aperto, creativo, pragmatico e multiculturale che consiste la parte più importante della
proposta educativa descritta dal libro dello psicologo americano. Naturalmente oltre agli impegni
politici che Bruner indica (sarebbe da domandarsi e domandargli se e quanto di questi impegni se ne
potrà o vorrà far carico l'attuale amministrazione Bush) va infine menzionato il fondamentale ruolo
dei docenti: sembra infatti non solo in Italia, ma anche negli Usa, la classe degli insegnanti sia
sfiduciata e scettica sull'effettiva riformabilità della scuola. Bruner ci avverte: senza insegnanti
preparati e entusiasti non è possibile alcun progetto educativo al passo con i tempi. Nel capitolo
quinto si pone il problema del rapporto tra le menti (di cui diremo più avanti, a proposito dell'ultimo
capitolo); del sesto, oltre al tema della narrazione (già trattata nel primo), si segnala la prima parte
del saggio in cui si criticano le responsabilità politiche e culturali della società americana sullo stato
della scuola pubblica e si difendono gli insegnanti, in quanto non responsabili del degrado morale e
socio-economico della società statunitense. Il settimo capitolo tratta ancora della narrazione non più
come elemento didattico fondamentale ma come modello vero e proprio della "mentalità scientifica
all'opera". Il ripetuto soffermarsi di Bruner sul tema della narratività merita a questo punto una
breve analisi. Nel capitolo quarto Bruner aveva già ricordato il fatto che se la scuola si limita a
preparare alla vita vera e non è già da subito una forma di vita nel mondo, è destinata al fallimento.
Il bambino deve infatti imparare in maniera attiva, riflettendo su quello che fa, mettendolo in
comune con gli altri, sia adulti che bambini. Le fasi dell'apprendimento per Bruner sono quindi la
capacità d'azione, poi la riflessione, quindi la condivisione e infine la cultura. La riflessione non
svolge solo il ruolo fondamentale nell'apprendimento delle "scienze dello spirito", visto che
riflettere per Bruner significa essenzialmente interpretare. In maniera ben più radicale, infatti, per
Bruner apprendere consiste sempre in una forma d'interpretazione. Bruner enfatizza particolarmente
questo aspetto della scuola, in quanto la scuola statunitense, vittima e responsabile allo stesso tempo
del solipsistico modello intellettuale occidentale, riproduce se stessa quasi esclusivamente
attraverso un apprendimento individuale, separato dalla realtà vissuta dai bambini. Contrapposto a
questo atteggiamento fallimentare, che produce noia, fallimento e frustrazione, non solo per i
bambini neri, latinos, ma anche per i figli della middle class bianca, Bruner propone con forza il
metodo della narrazione, dell'attivo coinvolgimento del bambino nel proprio percorso formativo. Se
invece di insegnare la storia come una serie di fatti, proponiamo la storia come un insieme di
possibili interpretazioni non solo rendiamo i bambini discenti attivi, ma insegniamo loro il mestiere
degli storici: i bambini infatti non sono "troppo stupidi" per capirlo, anzi dimostrano di saperlo fare
molto bene (Bruner non si nasconde anche le conseguenze politiche che un'interpretazione radicale
comporterebbe in una scuola statale rinnovata: pensiamo per esempio ad un' interpretazione radicale
della Guerra del golfo partendo dagli occhi di un bambino iracheno, così come del comunismo
sovietico partendo dagli occhi di un bambino moscovita di oggi) Narrare i fatti è già un modo di
interpretarli: per narrare i fatti non basta conoscerli, non ci si limita ad elencarli, ma li si deve
"narrare", utilizzando, come ci ha spiegato Propp, delle regole o degli schemi complessi scelti di
volta in volta, tra un insieme finito di modelli, dal narratore in prima persona. Per questo secondo
Bruner la scuola contemporanea ha bisogno di poeti e narratori, ha bisogno cioè di persone che
sappiano guardare il mondo in maniera nuova e ci insegnino a farlo. Conseguentemente, come
vediamo nel capitolo successivo, il modello di curriculum sostenuto da Bruner è "a spirale". Si parte
da un tema "vicino" al bambino e progressivamente si sale verso conoscenze sempre più astratte. La
narrazione il sistema in cui si invita il bambino a narrare le conoscenze, ad esempio quelle
matematiche , partendo da se stesso, dai suoi giochi, l'altalena, come introduzione al concetto di
leva. In effetti questo è il metodo stesso dello scienziato, di colui che usa la teoria per risolvere o
descrivere problemi connessi con lo stato reale del mondo. Esattamente come nel modello narrativo,
il soggetto descrive, utilizzando una propria preconoscenza del mondo, un proprio modo di vedere
la realtà, i problemi che ai suoi occhi hanno effettivamente significato. Insegnando ai bambini come
fanno gli scienziati si insegna loro il significato della matematica. Anche nel capitolo successivo si
sottolineano le relazioni dei comportamenti umani che nascono nelle cose per passare solo
successivamente alla teoria, secondo l'antico adagio non verbis sed rebus. A questo proposito
Bruner descrive l'esperienza fatta sulle Alpi a passeggio con una sua amica italiana. Tutte le volte
che questa incontrava in montagna delle altre persone, conoscenti o estranei che fossero, si
scambiava con loro un cenno di saluto. Bruner che aveva imitato la sua amica pensò di continuare a
salutare anche una volta tornato nel paese. A quel punto venne avvisato che non era più il caso di
continuare, anche se la sua amica non sapeva spiegare il perché. Era la consuetudine. Solo in un
secondo momento la sua amica, che non ci aveva mai pensato prima, propose una soluzione basata
sul fatto che il saluto in montagna indica benevolenza, in una situazione in cui un incontro con un
malintenzionato è da scongiurare più che in paese. La teoria, come questo esempio indica, nasce
solo dopo il contatto con le cose, non c'è prima. Sempre in questo senso la psicologia culturale cerca
di risolvere certe incongruenze della psicologia cognitiva di Piaget, che per le varie fasi di crescita
del bambino propone dei "salti" logici strutturali, insistendo sul fatto che l'intelligenza non è solo un
fatto individuale, ma nasce sempre insieme agli altri, si ramifica nell'esperienza che facciamo, nei
libri che abbiamo letto, negli strumenti di cui disponiamo, nelle persone che ci circondano. In
secondo luogo l'intelligenza è localizzata, essa cioè nasce in occasione di una determinata
esperienza, ecco perché il bambino una volta che l'ha appresa non riesce subito a trasferirla in altri
contesti.
L'ultimo capitolo riepiloga il lavoro svolto, soprattutto analizza il destino della psicologia. Una
volta premessa l'idea che non si tratta di imporre un aut aut tra la psicologia di stampo positivistico
sperimentale e quella culturale, Bruner afferma che l'approccio biologico non può fare a meno di
quello culturale per comprendere come funziona e che cos'è la mente umana. Dal punto di vista
dello psicologo culturale bisogna infatti concludere che "se è vero che la mente crea la cultura,
anche la cultura crea la mente" (p. 180).In questo senso la mente è un organo intersoggettivo che si
sviluppa in contatto con gli altri individui della stessa specie. Solo l'uomo in questo senso dispone
di una mente, perché tra i primati superiori solo l'uomo impiega grande parte del suo tempo a
"insegnare" ai piccoli della sua specie, quindi solo l'uomo dimostra di disporre di un modello di
mente che egli utilizza poi per comunicare con le menti degli altri. Bruner ricorda anche in questo
contesto l'importanza della narrazione come processo di apprendimento: è la narrazione che
permette al bambino di partire dal sé e di relazionarsi con gli altri, e con le cose del mondo
circostante in maniera partecipativa. Il bambino autistico al contrario non dispone di questa
comprensione partecipativa, per lui la narrazione semplicemente non ha senso, in quanto in nessun
modo gli viene in mente che le persone che lo circondano possano essere come lui, avere pensieri
come lui ecc. Alla stesa maniera degli scimpanzé allevati in un ambiente fortemente influenzato
dagli uomini diventano "acculturati".Questo porta Bruner ad affermare che determinate reti neurali
presenti nello scimpanzé vengono attivate solo in casi di processi di negoziazione attiva, quelli
tipici delle società culturali umane. A questo proposito Bruner riporta parte di ,una lettera a lui
spedita da Tomasello, il ricercatore responsabile degli esperimenti di apprendimento sulle "scimmie
acculturate", in risposta ad un quesito di Bruner, che gli chiedeva come si potesse giustificare la
differenza di comportamento di Kanzi (la scimmia degli esperimenti) dalle altre appartenenti alla
sua specie, che non avevano vissuto dall'infanzia con gli uomini: "…fin da un'età precoce Kanzi ha
passato il periodo della sua ontogenesi costruendo un mondo che condivideva con degli esseri
umani, per lo più attraverso una negoziazione attiva. Un elemento essenziale di questo processo è
indubbiamente il comportamento di altri esseri, in questo caso gli esseri umani, che, giorno dopo
giorno, incoraggiano Kanzi a condividere con loro l'attenzione agli stessi oggetti, a ripetere certi
comportamenti che loro hanno appena mostrato, ad assumere i loro stessi atteggiamenti emotivi
verso gli oggetti e così via. Le scimmie allo stato selvatico non hanno nessuno che le impegni in
questo modo, nessuno che abbia delle intenzioni sui loro stati intenzionali" (p. 195). La mente non
sarebbe quindi un semplice organo che progredisce secondo tappe biologicamente cadenzate e
determinate, essa è altresì condizionata dall'atteggiamento di altre menti che si rivolgono
intenzionalmente ad essa, ai suoi atti intenzionali. Oltre alla fase mimetica, alla propensione per cui
imitiamo o apprendiamo dai comportamenti delle altre persone che ci circondano, un'altra cosa che
ci separa dai primati superiori è il linguaggio, la nostra peculiare capacità, per Chomsky e Fodor
innata, di dimostrare particolare sensibilità "a cogliere la struttura lessicale-sintattica di ogni
linguaggio naturale" (p. 198).Per Bruner è, e resterà, impossibile stabilire empiricamente se nel
nostro genoma risiede il segreto dell'"organo del linguaggio": non si tratta comunque di distinguere
tra innatismo e anti-innatismo. Ancora una volta è semmai il caso di considerare come il linguaggio
sia reso possibile da una "rete di attese reciproche" che fonda la cultura.
Concludendo il suo lavoro che aveva aperto con l'auspicio del superamento dell'opposizione tra
culturalismo e materialismo biologico-computazionale o, meglio, tra le due rispettive forme di
cognitivismo, Bruner afferma: "… nello studio dell'uomo il problema non è solo quello di capire i
principi causali della sua biologia e della sua evoluzione, ma di capirli alla luce dei processi
interpretativi impliciti nel fare significato. Non tener conto delle limitazioni biologiche del
funzionamento umano è peccare di superbia. Sottovalutare il potere della cultura di plasmare la
mente umana e rinunciare ad assumere il controllo su questo potere è commettere un suicidio
morale. Una psicologia ben formulata ci può aiutare a evitare entrambi questi disastri" (p. 198).

Indice
Prefazione; 1. La cultura, la mente e l’educazione; 2. Pedagoga popolare; 3. La complessità degli
obiettivi educativi; 4. Insegnare il presente, il passato e il possibile; 5. Capire e spiegare le altre
menti; 6. Le narrazioni della scienza; 7. L’interpretazioni narrative della realtà; 8. Sapere e fare; 9. Il
prossimo capitolo della psicologia. Note; Indice analitico.
L'autore
Jerome Bruner è professore di psicologia alla New York University. Dei suoi molti libri tradotti in
italiano ricordiamo: Il processo educativo. Dopo Dewey, Armando, 1998; Lo sviluppo cognitivo,
Armando, 1996; La ricerca del significato. Per una psicologia culturale, Bollati Boringhieri, 1992;
Saper fare, saper pensare, saper dire. Le prime abilità del bambino, Armando, 1992

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