Non c’è solo l’Amazzonia, dove pure il disastro continua. Nel 2020 altri 11mila metri quadrati di alberi
sono stati eliminati in Amazzonia, secondo il Rapporto dell’Agenzia nazionale di ricerca spaziale
(Inpe). In realtà il fenomeno della deforestazione ha una dimensione globale: in alcuni anni siamo
arrivati, nel mondo, a eliminare in media 30 milioni di ettari di foreste, pari a un campo di calcio al
secondo.
COS’È LA DEFORESTAZIONE
Se in passato la palma, albero antichissimo di cui alcuni esemplari sono stati rinvenuti
allo stato fossile insieme ad impronte di dinosauri, veniva associata nell’immaginario
collettivo alle spiagge caraibiche e al cocco, oggi l’Occidente ne conosce una versione
meno pacifica, quella legata alla produzione massiva di olio di palma.
Il problema delle palme da olio è la loro ingente richiesta di acqua e nutrienti dal terreno:
crescendo in posti caldi e umidi, toglie inevitabilmente posto alle foreste pluviali, uno
degli ecosistemi chiave della biodiversità globale.
L’olio di palma uccide gli oranghi, ma anche elefanti e decine di altre specie animali.
Il legame tra piantagioni di olio di palma e deforestazione ha raggiunto l’opinione
pubblica di tutti i paesi occidentali, Italia compresa. Anche grazie a campagne di
sensibilizzazione lanciate dalle Onlus, come ad esempio questa di GreenPeace.
Non c’è marchio di biscotti o merendine, di crackers o di taralli infatti, che nello spot
pubblicitario in TV, ultimamente non specifichi l’assenza di olio di palma nei propri
ingredienti, come per sottolineare la qualità e la sicurezza del proprio prodotto.
Proprio nel 2015 inoltre avvenne un altro fatto importante: venne firmato il Progetto
dell’Utilizzo dell’Olio di Palma, stipulato dall’UE attraverso la Dichiarazione di
Amsterdam del 7 dicembre, con il quale diversi paesi europei, si sono impegnati a
promuovere iniziative volte ad assicurare l’impiego di Olio di Palma 100% Sostenibile,
entro il 2020.
Secondo quanto riportato in un rapporto del 2016, la produzione globale di olio di palma
è aumentata da 15,2 milioni di tonnellate del 1995 a 62,6 milioni di tonnellate del
2015.
Ma se alle persone, arrivò solamente pochi anni fa l’informazione che nella produzione
di questo prodotto qualcosa non andava, è incredibile come attorno ad un solo tipo di
albero ruotino argomenti tanto importanti come diritti umani, ambiente e alimentazione.
La palma da olio oggi è il simbolo della discordia, la dimostrazione che c’è in corso
qualcosa di enorme, che coinvolge con un colpo solo, la vita e la salute degli esseri
umani, degli animali e della Natura.
I paesi dove viene prodotto l’olio, sono quelli del sud est asiatico e tra questi, quelli che
vanno per la maggiore sono Indonesia (53%) e Malesia (32%). In Malesia ha sede
proprio il Palm Oil Research Institute of Malaysia (Porim) , uno dei più grandi
centri di ricerca sugli oli e grassi di palma al mondo.
Per produrre olio di palma, è necessario coltivare le palme da olio che a loro volta
necessitano di spazio e terreni liberi: per questo motivo vengono, come già detto più
volte, abbattute intere foreste tropicali e vista l’enorme richiesta del prodotto sul
mercato mondiale, la Cambogia, la Malesia, l’Indonesia e altri Paesi della zona, stanno
facendo scomparire un patrimonio forestale prezioso per l’intera umanità.
Ma non è solo questo: con l’annientamento di ettari ed ettari di foreste, si attiva una
reazione a catena pericolosissima per l’ambiente.
Inoltre, nonostante siano le foreste pluviali quelle maggiormente colpite -le quali
rappresentano il 7% della vegetazione globale- ad accusarne il colpo c’è anche il mondo
sottomarino: le acque sotterranee stanno scomparendo e i fiumi si stanno prosciugando.
A tutto questo, negli ultimi anni si evidenzia un altro settore per il quale si produce l’olio
di palma, quello della produzione di biocarburanti, un altro mondo torbido e pieno di
contraddizioni.
La deforestazione ha un ruolo decisivo nella lotta per fermare il surriscaldamento climatico. Il 33 per
cento degli sforzi per la mitigazione climatica dipendono proprio dalla capacità che abbiamo di
preservare le foreste, gli alberi. Da qui la necessità di azioni concrete a tutti i livelli, partendo dagli
interessi delle grandi multinazionali che devono trovare conveniente chiudere il capitolo della
deforestazione selvaggia. Passaggio non facile. Quando l’organizzazione britannica Carbon Discoure
Project ha chiesto a 1.303 società mondiali di fornire elementi per dimostrare le loro azioni contro la
deforestazione, hanno risposto solo 272 imprese. È chiaro che rinunciare alla deforestazione ha un costo
che spaventa manager e azionisti delle multinazionali, anche quando si riempiono la bocca della parola
Sostenibilità. E ha un costo in termini di consensi per le autorità politiche. Ecco perché l’emergenza va
affrontata su scala globale, rilanciando anche i piccoli gesti individuali, come le azioni di singoli e di
associazioni specializzate nell’attività di piantare alberi. Gesto simbolico quanto utile.
Si tratta di ben 9.762 chilometri quadrati distrutti, una superficie equivalente a quella dell’isola di
Cipro, secondo i dati del Programma di monitoraggio satellitare
della foresta amazzonica brasiliana dell’Istituto brasiliano di ricerche spaziali (INPE). La politica
di Bolsonaro sta annientando la capacità del Brasile di combattere la deforestazione, favorendo chi
commette crimini ambientali e incoraggiando le violenze verso Popoli Indigeni e comunità
forestali tradizionali.
diretta conseguenza della necessità di creare nuove terre da destinare alle colture: buona
effettivamente bisogno. Il problema è che tali terreni vengono poi acquistati dagli
per eccellenza come combustibile: un terzo della popolazione mondiale necessita del legno
cambiamenti nel clima (anche delle singole regioni) e aumenta il dissesto idrogeologico:
questo significa che il rischio di frane, alluvioni e smottamenti è sempre più elevato.
rischiano l’estinzione definitiva e anche da questo punto di vista i mutamenti sul nostro
La situazione attuale
Attualmente, gli effetti devastanti della deforestazione sono stati messi
in evidenza, soprattutto da parte dei Paesi Sviluppati, primi responsabili
del fenomeno. I tentativi messi in atto per ridurre i fenomeni di
disboscamento sembrano per il momento nulli: i Paesi in via di sviluppo infatti
ritengono di avere il pieno diritto di sfruttare le foreste, proprio come avevano
fatto i Paesi occidentali.
Questi, dal canto loro, stanno cercando di reintegrare zone verdi con il
rimboschimento ma queste non sono comunque sufficienti ad arginare
il problema della deforestazione e le sue conseguenze.
L’Osservatorio sul clima, insieme a Greenpeace, hanno già lanciato l’allarme del problema della
deforestazione dell’Amazzonia nel 2016. Un problema che riguarda il tutto il pianeta, ma che passa
spesso in secondo piano.
Il prezzo da pagare è quello che riguarda il problema dell’eliminazione e dello sterminio della
foresta amazzonica. Un danno ambientale che sta già avendo gravi riscontri nei cambiamenti climatici.
Sono stati distrutti circa 10.000 Km2. Il risultato? Si è distrutta la più grande area pluviale del
globo. Dopo l’accusa da parte dell’osservatorio climatico, di non aver sorvegliato questa pratica
illegale, ci sono stati annunci dal Governo brasiliano.
La realtà è che non si sta investendo nella protezione della giungla brasiliano, ma in compenso
sono stati stanziati milioni di euro per aumentare l’agricoltura. Annunci che hanno inferocito gli
ambientalisti e intere Nazioni, ma che non hanno proposto una soluzione al problema
Si sta intensificando l’effetto serra, che aumenterà le zone desertiche. L’Italia, la Grecia saranno
le prime vittime. C’è una diminuzione di ossigeno che mantiene umida la terra, aiutando i vulcani e
esplodere. Rischi idrogeologi e anche una minore biodiversità sono le conseguenze del disboscamento
amazzonico.
La deforestazione nell’Amazzonia brasiliana è compiuta in gran parte da reti criminali che usano
violenza e intimidazione contro coloro che cercano di difendere la foresta pluviale. Ad affermarlo è
Human Rights Watch – l’organizzazione non governativa che si occupa della difesa dei diritti
umani–in un rapporto pubblicato il 17 settembre scorso dal titolo: «Mafie della foresta pluviale:
come la violenza e l’impunità alimentano la deforestazione nell’Amazzonia brasiliana».
Il rapporto di 165 pagine documenta come il disboscamento illegale da parte di reti criminali e i
conseguenti incendi boschivi siano collegati non solo ad atti di violenza e intimidazione contro i
difensori delle foreste ma anche all’incapacità dello stato di indagare e perseguire questi crimini.
«I brasiliani che difendono l’Amazzonia stanno affrontando minacce e attacchi da parte di reti
criminali impegnate nel disboscamento illegale», ha dichiarato Daniel Wilkinson, direttore per
l’ambiente e i diritti umani di Human Right Watch. «La situazione sta solo peggiorando sotto il
presidente Bolsonaro, il cui assalto alle locali agenzie che si occupano di ambiente sta mettendo in
grave pericolo la foresta pluviale e le persone che vivono lì».
Human Rights Watch ha intervistato più di 170 persone: oltre a una sessantina di membri di
comunità indigene e altri residenti locali negli stati di Maranhão, Pará e Rondônia, i ricercatori
hanno raccolto le testimonianze di dozzine di funzionari governativi a Brasilia e in tutta la regione
amazzonica, e i resoconti di come le politiche del presidente Jair Bolsonaro stiano minando gli
sforzi di contrasto.
Durante il suo primo anno in carica, Bolsonaro ha ridimensionato l’applicazione delle leggi
ambientali, ha indebolito le agenzie federali che si occupano di ambiente e ha criticato duramente le
organizzazioni e i singoli che lavorano per preservare la foresta pluviale.
Il rapporto fornisce i dati compilati dalla Pastoral Land Commission(CPT, in Portoghese),
un’organizzazione senza scopo di lucro, e citata dalla Procura Generale, secondo cui sono state più
di 300 le persone uccise nell’ultimo decennio nel contesto di conflitti sull’uso della terra e delle
risorse in Amazzonia.
Human Rights Watch ha documentato, in relazione agli ultimi cinque anni, 28 omicidi, oltre a 4
tentativi di omicidio e oltre 40 casi di minacce di morte. La maggior parte delle vittime sono
membri di comunità indigene o altri residenti nelle foreste che denunciavano alle autorità il
disboscamento illegale. Tra i casi documentati quello di Gilson Temponi, presidente di
un’associazione di agricoltori a Placas, nello stato del Pará, che aveva riferito ai pubblici ministeri
nel 2018 del disboscamento illegale e delle minacce di morte ricevute dai taglialegna. Nel dicembre
di quell’anno, due uomini bussarono alla sua porta e gli spararono a morte. O anche il caso di
Eusebio Ka’apor, leader del popolo Ka’apor che ha aiutato ad organizzare pattuglie forestali per
impedire ai taglialegna di entrare nel territorio indigeno dell’Alto Turiaçu nello stato di Maranhão,
ucciso nel 2015. Poco dopo la sua morte, sei dei sette membri del Consiglio direttivo del Ka’apor,
che coordina le pattuglie, hanno ricevuto minacce di morte dai taglialegna.
Purtroppo i responsabili della violenza vengono raramente consegnati alla giustizia. Degli oltre 300
omicidi registrati da CPT, solo 14 alla fine sono stati processati; delle 28 uccisioni documentate da
Human Rights Watch, solo due sono state processate; e degli oltre 40 casi o minacce, nulla è stato
fatto.
Questa mancanza di responsabilità è in gran parte dovuta al fallimento da parte della polizia di
condurre indagini adeguate. La polizia locale si giustifica dicendo che le uccisioni hanno luogo in
aree remote, in realtà Human Rights Watch ha documentato omissioni eclatanti nelle indagini su
alcuni omicidi avvenuti in città, non lontano dalle stazioni di polizia.
Le indagini sulle minacce di morte non vanno meglio: i funzionari in alcune località si rifiutano di
registrare anche le denunce delle minacce. In almeno 19 dei 28 omicidi documentati, le minacce
contro le vittime o le loro comunità hanno preceduto gli attacchi. Se le autorità avessero indagato,
gli omicidi forse sarebbero stati evitati.
Le comunità indigene e altri residenti locali hanno da tempo svolto un ruolo importante negli sforzi
del Brasile per frenare la deforestazione avvisando le autorità di attività illegali di disboscamento
che altrimenti potrebbero non essere rilevate.
Dal 2004, il Brasile ha un programma per proteggere i diritti umani e i difensori dell’ambiente, ma i
funzionari governativi intervistati concordano sul fatto che il programma fornisce una protezione
poco significativa.
Durante i primi otto mesi di mandato di Bolsonaro, la deforestazione è quasi raddoppiata rispetto
allo stesso periodo del 2018, secondo i dati ufficiali preliminari. Ad agosto 2019, gli incendi
boschivi legati alla deforestazione hanno devastato l’Amazzonia con una percentuale che non si
vedeva dal 2010.
L’Amazzonia, essendo la più grande foresta pluviale tropicale del mondo, svolge un ruolo vitale nel
mitigare i cambiamenti climatici assorbendo e immagazzinando anidride carbonica. Se tagliata o
bruciata, la foresta non solo cessa di adempiere a questa funzione, ma rilascia anche nell’atmosfera
l’anidride carbonica che aveva precedentemente immagazzinato. «L’impatto degli attacchi ai
difensori forestali del Brasile si estende ben oltre l’Amazzonia», ha detto Daniel Wilkinson. «Fino a
quando il Paese non affronterà la violenza e l’illegalità che facilitano il disboscamento illegale, la
distruzione della più grande foresta pluviale del mondo continuerà senza controllo».
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