Tra il 1313 e il 1317 una serie di modesti raccolti generò gravi carestie. La
mezzadria applicata a terreni via via meno fertili, gli inadeguati sistemi di
fertilizzazione e gli scarsi investimenti in agricoltura determinarono una
insufficienza alimentare rispetto alla popolazione. L’origine della crisi era nella
organizzazione dell’economia feudale che non consentiva ai piccoli contadini di
aumentare il rendimento della terra e di accumulare ricchezza da reinvestire
mentre i possidenti avevano a disposizione la maggior parte delle eccedenze ma
erano privi di stimoli ad aumentare la redditività dei propri fondi.
In questo contesto già difficile arrivò la peste, trasmessa da pulci parassite dei topi
arrivati in occidente con le navi provenienti dal mar Nero. L’ultima apparizione
risaliva al 500, nel 1300 era una malattia sconosciuta che non si sapeva come
curare e delimitare. Si manifestò in tre ondate (1347, 1360 e 1397) falciando un
terzo della popolazione europea che dai 70 milioni del 1300 si ridusse ai 45
dell’inizio del 1400. Tutto questo provocò l’abbandono delle campagne e diverse
rivolte tra i lavoratori urbani privi della protezione delle corporazioni in
Inghilterra, Spagna, Fiandre, Francia (nel 1358, nota come jacquerie, duramente
repressa) e a Firenze (nota come quella dei ciompi) .
La miseria non fu percepita come una minaccia solo durante le epidemie o per i
furti, le violenze, il disordine che le si riconducevano ma anche per l’ozio che
induceva, ritenuto un peccato nelle società che stavano uscendo dalla stasi
economica medievale. Già dal 1350 furono prese delle misure contro i poveri e si
distinsero quelli da includere e quelli da escludere dalla società.
I governi adottarono così i primi provvedimenti. Edoardo III d’Inghilterra nel 1349
emanò una ordinanza che imponeva a tutti gli uomini di lavorare accettando
qualsiasi lavoro per il salario medio in vigore prima della peste e vietava ai
mendicanti sani di chiedere l’elemosina. Nel 1387 si diede addirittura il potere ai
cittadini di costringere i vagabondi a lavorare per un mese senza paga. In Spagna
tra il 1349 e il 1351 le Cortes d’ Aragona, Castiglia e Valladolid posero dei limiti ai
salari di sarti, conciatori, fabbri, carpentieri, tagliapietre e pastori. Il re del
Portogallo andò anche oltre: tra il 1349 e il 1401 furono emanati dei
provvedimenti che impedivano le emigrazioni e i vagabondaggi costringendo i
salariati a lavorare allo stesso salario e nello stesso luogo. In Francia il re Giovanni
detto il buono nel 1351 impose ai mendicanti di trovarsi un lavoro in tre giorni o di
lasciare Parigi, pena la fustigazione, il carcere e il bando dalla città. La paura e
l’affermarsi di una nuova etica del lavoro generata dalla crescita dei commerci che
esaltava la produzione spinse in favore di un controllo della povertà. Ma tutte
queste norme erano di limitata efficacia perché non era possibile ripristinare la
situazione precedente all’epidemia.
L’ingresso nella modernità e l’avvento dell’economia di mercato capitalista
Nei primi anni del 1400 la popolazione europea era di 45 milioni, le epidemie del
secolo precedente l’avevano fortemente ridotta. Nelle città il calo demografico
offrì la possibilità di abbandonare le case più vecchie e precarie per sostituirle con
altre migliori, le strade furono ridisegnate, aperte a nuove piazze e a nuove
concezioni dello spazio. La ripresa demografica iniziò tra il 1420 e il 1470, prima in
Spagna e in Italia, poi in Inghilterra e in Francia. Le ragioni erano nell’abbandono
delle terre avvenuto negli anni della peste, concentrando il lavoro in quelle più
fertili si ottennero raccolti migliori che permisero di riservare parte dei campi a
coltivazioni pregiate come frutta, ortaggi, legumi, viti, olivi e poi canapa, lino e
gelso per ricavarne tessuti. Grazie ad una alimentazione più varia la mortalità
diminuì favorendo l’aumento della popolazione. Non fu un processo repentino,
richiese un paio di generazioni ma alla metà del 1400 era ben visibile. Gli abitanti
divennero 60 milioni nel 1460 e 69 nel 1500.
Partendo dalla rilettura dei testi originali dei classici greci e latini praticati dagli
umanisti, si arrivò a quella dei testi sacri: sentita era l’esigenza di riscoprire
l’originalità del messaggio di Cristo attraverso le parole del Vangelo, specie dopo
lo scisma d’Occidente (1378-1415) e al prevalere di interessi politici e mondani
nella curia di Roma. Tra i rappresentanti più autorevoli dell’Umanesimo cristiano
vi furono Tommaso Moro ed Erasmo da Rotterdam. Il primo nell’opera Utopia
(1516) descrisse una immaginaria comunità basata sull’amore e la comunione dei
beni, il secondo ne L’elogia della follia criticò la pedanteria dei teologi,
l’intolleranza religiosa, il fanatismo, gli eccessi di devozione e le superstizioni. Il
suo cristianesimo era un ideale pratico, per questo non si staccò dalla Chiesa
anche quando le sue idee furono messe all’indice.
L’invenzione della stampa favorì la diffusione della lettura, dei testi sacri come dei
libri tecnico-pratici. Dai torchi uscivano volumi di diritto, medicina, libri liturgici,
classici della letteratura latina e testi sui più vari argomenti, in latino e in volgare.
L’industria della carta ne ricevette un significativo impulso. Già dopo soli 50 anni
dalla sua invenzione, avvenuta nel 1455, 236 città europee avevano una stamperia
e in Europa circolavano 20 milioni di libri.
Il potere dello stato trovò il proprio limite in quello già esistente delle
congregazioni religiose, dei feudatari, delle città, degli ordini e delle corporazioni
che davano vita ad assemblee chiamate cortes in Spagna, stati generali in Francia,
diete in Europa orientale e che in Inghilterra e Svezia con il tempo divennero
parlamenti mentre in Italia non videro mai la luce poiché nella penisola la
dimensione naturale del potere politico era quella delle città. Lo stato non eliminò
quei centri di poteri, si sovrappose ad essi cercando sempre un bilanciamento.
Questo garantì le attività economiche che non furono soffocate dal potere
politico. Lo stesso surplus che si generò con gli scambi non fu trattenuto dalle
autorità ma rimase a disposizione dei mercanti-imprenditori che poterono
reinvestirlo. Con il tempo il potere dello stato si accentrò, i vari potentati locali
persero di importanza e alcune assemblee non furono più convocate, come
avvenne agli stati generali in Francia. Il loro ruolo fu comunque importante perché
l’idea che ci si dovesse opporre alla tirannide si formò al loro interno.
Il mercantilismo
La formazione degli stati richiese risorse adeguate per mantenere gli eserciti che
dovevano difenderli. Era necessario trovarle anche assoggettando con la guerra
nuovi territori la cui amministrazione, una volta conquistati, faceva crescere la
spesa pubblica, alimentando una pericolosa spirale. Fino alla rivoluzione
industriale i governi europei dovettero muoversi tra grandi difficoltà finanziarie
che furono affrontate favorendo l’arricchimento dei grandi borghesi e di riflesso
l’aumento delle entrate fiscali che la burocrazia di Stato gestiva. Fu l’inizio del
nazionalismo economico, o mercantilismo. Per mercantilismo si intende ogni
forma di protezione economica realizzata dallo stato. All’origine vi era l’idea che lo
stato potesse garantire equilibrio al sistema economico mentre i privati, mossi
solo dal proprio interesse, lo spingevano al disordine. Il mercantilismo quindi
segnava il prevalere dello stato sugli interessi particolaristici, feudali o cittadini
che fossero. Si manifestò sia nel commercio, sia nella manifattura. Spagna e
Portogallo furono i primi stati a darsi un assetto mercantilistico commerciale
creando i propri imperi coloniali. Olanda, Inghilterra e Francia seguirono
perseguendo questo obiettivo: la ricchezza prodotta doveva essere superiore a
quella consumata in modo da poter esportare la parte in eccesso in cambio di oro
o valuta pregiata. L’ampia disponibilità di metalli preziosi generò l’idea che la
ricchezza di uno Stato dipendesse dalla loro abbondanza. I re europei decisero
allora di impedire che oro e argento una volta entrati uscissero dai confini
nazionali favorendo lo sviluppo del mercato interno dove domanda e offerta si
potevano alimentare l’un l’altra. Si generò così una corsa alle materie prime che
portò allo sviluppo del commercio internazionale e alla formazione degli imperi
coloniali. La crescita economica che si ebbe nel 1500 fu stimolata proprio dai
commerci oltreoceano che furono gestiti da grandi compagnie organizzate in
forma di società per azioni in modo da ripartire i rischi dei viaggi che ottennero dai
governi la garanzia di operare in regime di monopolio e agevolazioni fiscali in
cambio dell’onere di amministrare i luoghi dove commerciavano potendo battere
moneta, dichiarare guerra, esercitare funzioni giudiziarie, garantendosi profitti
elevatissimi, pari anche al 230% delle somme investite. Solo con l’affermazione del
libero scambio, agli inizi del 1800, persero quei privilegi. I governi erano
interessati a favorire quelle imprese che facevano arrivare merci senza la
mediazione dei mercanti, metalli per coniare monete e che garantivano entrate
fiscali. Per questa ragione l’Olanda e l’Inghilterra per prime e poi la Francia, la
Danimarca, la Svezia, la Spagna e l’Austria sostennero ciascuna le proprie società
in una sida commerciale che durò sino agli inizi del 1800. Le compagnie inglesi e
olandesi furono create da privati, mentre quella francese fu creata direttamene
dal governo.