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VERSO IL NATURALISMO

Francia -> Napoleone III -> si afferma la borghesia, industrializzazione, urbanizzazione,


fenomeno migratorio.
I lettori sentono l’esigenza di adottare nuove tecniche e nuovi soggetti: riprodurre la realtà in
una maniera più oggettiva grazie anche alle scienze naturali e sociali.

Fratelli de Goncourt. Vivono insieme a Parigi, scrivono libri di critica d’arte e di storia,
Journal, romanzi realisti che spianano la strada al naturalismo.
Germinie Lacerteux (1865) è un vero e proprio manifesto letterario, intento realistico mutato
nel contesto sociale, si parla di masse popolari. Germinie è una cameriera che si innamora
di Jupillon, un giovane scapestrato, quando verrà scoperta la sua reputazione verrà
compromessa e dunque finirà in un vortice di abbrutimento fisico e morale.
Lo stile utilizzato è distaccato e oggettivo.

IL NATURALISMO
Il naturalismo francese è una corrente artistico-letteraria che si è sviluppata in Francia a
partire dalla seconda metà dell'Ottocento. Il maggiore esponente della corrente letteraria del
naturalismo è stato Emile Zola che descrive la società e la psicologia delle persone
mediante i metodi che sono stati utilizzati nell'ambito delle scienze sociali. Ciò che Zola
descrive nelle sue opere letterarie è sempre la realtà della vita quotidiana francese, pertanto
scene semplici.
La realtà viene da lui rappresentata in modo impersonale, senza coinvolgimento nelle
vicende che interessano le persone che fanno parte della società francese.
Viene a crearsi una frattura tra scienze umane (letteratura) e esatte, dunque si cambia la
logica di base delle storie.
Il Naturalismo vero e proprio viene però usato come termine da Hippolyte Taine, riferendosi
agli artisti che rivolgono un’attenzione particolare alle scienze per la natura umana e sociale.
Emile Zola utilizza questo termine per indicare una scuola di scrittori che portano avanti
un'idea di romanzo incentrata sull'osservazione diretta della realtà.
Il Naturalismo porta avanti il filone del romanzo moderno, con l’attenzione alla borghesia
urbana e il proletariato, nuovi soggetti, svolta teorica e formale.
Viene definito come un grande studio psicologico e fisiologico, che contiene il concetto di
ereditarietà dei caratteri e il determinismo biologico.
Elementi biologici e naturali con elementi sociali, politici e storici.

“Romanzo sperimentale” letteratura come esperimento, scrittore-scienziato, sperimentazione


all’interno di ambienti e stili di vita, medicina sperimentale e evoluzione di Darwin, l’uomo è
determinato dal contesto storico-sociale.
I personaggi vengono costruiti in base a eredità biologica, contesto sociale e situazione
storica.

- Impersonalità narrativa
- Protagonista antieroico
- Costruzione ripetitiva e circolare
- Scomparsa del punto di vista dell’autore
- Entrata in scena del proletariato urbano
IL VERISMO
Si forma in Italia, unione dell’impersonalità narrativa di Flaubert e del metodo sperimentale
di Zola.
Capuana promuove il romanzo naturalista e dà vita al movimento verista (insieme a Verga),
era Siciliano, valorizza i Malavoglia di Verga nella sua recensione, scrive nel 1879 Giacinta,
in cui viene descritto un caso di psicopatologia femminile.
I protagonisti del Verismo hanno posizione politiche conservatrici con un forte pessimismo di
fondo, viene utilizzato spesso il discorso indiretto libero e il narratore è regresso.
Il verismo è una corrente letteraria che si è affermata nel corso dell'Ottocento in Italia grazie
allo scrittore siciliano Giovanni Verga, il quale dedicava la sua attività letteraria alla scrittura
di racconti di vita quotidiana, come per esempio le vicende dei pescatori siciliani attraverso il
celeberrimo romanzo I Malavoglia, in cui si raccontano le vicende della famiglia Malavoglia
di Aci Trezza. Come il naturalismo francese, il verismo si fonda sui principi del movimento
letterario positivista.
Il verismo si basa sul vero, ovvero racconta eventi di vita quotidiana reali, così come sono. Il
soggetto di cui spesso racconta il verismo sono le classi sociali meno abbienti, come per
esempio quella contadina e si occupa anche dei loro diritti. Oltre a raccontare la verità, uno
dei tratti tipici del verismo è per esempio quello del pessimismo, in quanto le opere veriste
danno una concezione pessimista della vita di tutti i giorni. Inoltre nelle opere veriste, gli
autori non devono mai commentare la realtà, ma devono solo limitarsi a descriverla.

VERISMO:
- poetica di natura prevalentemente letteraria
- assenza di implicazioni ideologiche
- attenzione al comportamento dell’individuo nella società
- osservazione
- parti dialogate
- impersonalità narrativa pura

NATURALISMO:
- poetica basata sul rapporto tra letteratura e riflessione filosofico-ideologica
- impegno sociale
- racconto della dimensione scientifica-economica della società
- sperimentazione
- parti descrittive
- impersonalità narrativa imperfetta

GIOVANNI VERGA
Nasce a Catania il 2 settembre del 1840 da una famiglia della piccola nobiltà agraria.
Orientamento antiborbonico e liberale, scuola presso la scuola privata di Antonino Abate,
cresce imbevuto di cultura romantica e patriottica.
1858 studia legge, ma abbandona per dedicarsi all’attività letteraria.
1865 inizia a frequentare Firenze, senso di colpa dal distacco con la famiglia, ma aveva
bisogno di affermarsi socialmente e professionalmente.
1872 Milano, Farina lo introduce negli ambienti letterari, entra a contatto con alcuni
scapigliati.
1874 inizia a focalizzarsi sul mondo siciliano.
1878 Rosso Malpelo. Cicli di romanzi ispirati alla teoria darwiniana.
1880 Vita dei Campi
1881 Malavoglia
1889 Mastro Don Gesualdo
1893 rientra in Sicilia, sfiducia verso il genere umano, atteggiamento disincantato verso il
nuovo secolo.
1920 senatore a vita
1922 muore.

Nelle opere Vita dei campi e Novelle rusticane privilegia l’ambientazione siciliana, strutture
antropologiche e codici di comportamento sulle convenzioni sociali. Nulla di nostalgico o
pittoresco, basato sulle leggi della natura umana.
Determinismo storico, sociale e psicologico, impersonalità e realismo linguistico-stilistico.
Selezione naturale, comportamenti determinati dagli impulsi naturali, privilegia
l’osservazione rispetto alla sperimentazione, realtà regionale arretrata e rurale della Sicilia,
pone maggiore attenzione ai meccanismi che condizionano le scelte dei singoli.

Il romanzo ha solo funzione di denuncia, fotografa la realtà e ne è testimone, positivista non


fiducioso nel progresso, conservatore, senza pretendere che esistano soluzioni o
consolazioni: immobilismo della storia.
I testi si raccontano da sé, impersonalità, artificio della regressione, azzera il proprio punto di
vista.
Il lettore non si identifica nei sistemi proposti dal narratore. Verga dà voce alla mentalità
arretrata e incolta delle popolazioni.
Personaggi emarginati e disadattati, sguardo profondo delle cose, realtà nella sua crudezza.

CICLO DEI VINTI


Parla dei vinti nella lotta per la vita che caratterizza l’esistenza umana. La darwiniana lotta
per le classi sociali (borghesi e nobili).
Logica ascensionale.
Il ciclo dei vinti sarebbe dovuta essere la raccolta di 5 romanzi veristi basati sull'indagine
degli effetti del progresso sugli individui e sulle comunità sociali. incompiuto--> Si sarebbe
dovuto chiamare “La marea”
I personaggi dei romanzi che compongono il ciclo, infatti, sono proprio coloro che hanno
tentato di ascendere ad una classe superiore alla propria ma, non potendo riuscirci, sono
rimasti “imprigionati” nella loro condizione e sono stati destinati al fallimento.
L’ostrica in genere sta aggrappata allo scoglio. Se essa si stacca dallo scoglio, la marea la
trascina via. Ciò simboleggia la visione Verghiana della vita e del destino. Infatti, Verga
crede che, se un individuo si distacca dalla classe sociale di cui fa parte o se cerca di
elevarsi, sarà destinato a soffrire e a fallire e persino a perdere tutto ciò che già possiede
(visione immobilistica).
VITA DEI CAMPI 1878
8 novelle
Sicilia arretrata e sofferente, destini dei singoli personaggi marchiati dal sottosviluppo
economico, pregiudizi, superstizione, diffidenza, indifferenza, cercano un riscatto individuale.
Verga non esprime un giudizio né propone soluzioni.
Narrazione polifonica, anonimo commentatore paesano, linguaggio dei personaggi.
Fantasticheria: resoconto di un viaggio, sguardo della donna con una diversa lente,
Completata definitivamente nel 1878 circa, "Fantasticheria" è una novella di Giovanni Verga,
fondamentale nella sua opera, non solo per l'avvicinamento stilistico al Verismo, ma anche
per la forte dichiarazione poetica, che prende per la prima volta in esame il mondo dei "vinti"
e i suoi principi.
Essa racconta di una nobile donna, da quanto si evince amica del narratore, che giunge ad
Aci Trezza, una frazione di un piccolo paese della Sicilia, ed essendosene innamorata,
decide di trattenersi per addirittura un mese.
In realtà ben presto, affievolitisi lo stupore e l'ammirazione per la bellezza del paesaggio, la
donna termina le attività da poter svolgere e si scopre stanca di quel luogo che tanto aveva
amato. Decide perciò di tornare a casa propria e, una volta pronta per la partenza, si chiede
come possa la gente del luogo trascorrervi una vita intera.
Rosso Malpelo: condizioni disumane dei fanciulli, aspetti emotivi e psicologici che li
accompagnano. “Rosso Malpelo” è un ragazzo così soprannominato a causa del colore dei
suoi capelli che, secondo un pregiudizio popolare, associa i capelli rossi alla malvagità. Il
ragazzo lavora in una cava di rena e, trascurato dalla madre e dalla sorella, dopo la morte
del padre, l'unico che gli aveva mostrato un po' di affetto, diventa molto cupo e si comporta
con cattiveria con tutti, anche con il suo povero asino, che percuote continuamente. Insegna
con le maniere forti ad un ragazzo che lavora con lui alla cava, a cavarsela nella vita e a
sopravvivere alla legge del più forte, l'unica legge che Rosso Malpelo conosce. Ma il
ragazzo con cui Rosso Malpelo instaura un rapporto di odio/amore si ammala e muore.
Malpelo è disperato e continua a lavorare duramente, fino a quando di lui, un giorno, si
perdono le tracce.

NOVELLE RUSTICANE 1883


Campagne e quartieri di cittadine della provincia siciliana, tutti uniti da un destino comune,
quello di essere figli di una società segnata da violenza e sopraffazione. Le leggi e i rapporti
tra le classi restano inalterati, ordine immutabile.
Un’alternativa al mondo del progresso, un motivo ricorrente è quello della roba, la lotta per il
possesso, arrampicatori sociali, rabbia e sfiducia.
Narrazione oggettiva e asciutta, desiderio di uscire dalla miseria, visione pessimistica.

La raccolta Novelle Rusticane comprende 12 novelle, tra cui La roba, Malaria e Libertà.
Le novelle sono ambientate nel mondo rurale della Sicilia, ma alle storie di singoli
personaggi si accompagnano quelle legate alle vicende della collettività, in modo tale da
analizzare gruppi sociali.
I temi dominanti sono quelli del conflitto tra le classi, della roba e dell’ascesa sociale, che poi
si svilupperanno nell’opera Mastro Don Gesualdo.
Significativo è anche il tema degli scontri sociali e politici legati all’unificazione nazionale che
non ha risolto i problemi del Sud, lasciando nella gente una profonda delusione.
Confrontando questa raccolta con Vita dei Campi, le Novelle Rusticane mostrano quindi una
maggiore attenzione ai movimenti economici e materiali dell’esistenza, in quanto spariscono
la figura tragica di Rosso Malpelo che viene sostituita da concetti astratti, così come i
personaggi appaiono dominati dalla logica del profitto e dalla volontà di ascesa sociale, ma
finiscono per essere sconfitti dalle leggi della natura.
- La roba = protagonista della novella è Mazzarò, il contadino analfabeta, il quale è riuscito
ad appropriarsi di tutti i beni del padrone ed è quindi riuscito ad accumulare tanta “roba”
sacrificando ad essa tutta la sua vita, anche gli affetti più cari. Si è impossessato dell’uliveto,
delle vigne, dei pascoli e dello stesso palazzo.
La roba è psicologicamente il sintomo di un’angoscia, l’incubo della miseria passata così
come il termine di un’adorazione esclusiva e maniacale che gli proibisce ogni distrazione e
gli impone persino la riduzione dei bisogni al minimo della sopravvivenza: è un uomo senza
pace e senza gioia, oppresso dalla propria ricchezza e tormentato dall’idea di perderla. In tal
senso, assume la figura di un eroe della rinuncia, della solitudine e della continua lotta per
accumulare beni che non gli servono, ma il suo è un eroismo vano e tragico.
Tuttavia, il racconto non è la celebrazione dell’avidità o della sete di ricchezza, bensì una
condanna all’ossessione della roba: neanche in punto di morte la figura di Mazzarò si eleva
spiritualmente e moralmente poiché, proprio nell’esclamazione finale si evidenzia lo
squilibrio che si crea fra la roba, di natura divina e la morte, atto concreto.

I MALAVOGLIA 1878
Progetto di cinque romanzi, pubblicati solo due per intero, si raffigura la lotta per la vita.
Romanzo sperimentale, struttura narrativa frammentata e contaminata, narrazione
episodica.
15 capitoli.
Famiglia Toscano è composta dall’anziano Padron Ntoni, da suo figlio Bastianazzo, sposato
con la Longa e i loro figli Ntoni, Luca, Meni, Alessi e Lia.
Si parla del loro declino in seguito a un debito, si parla del cambiamento di Ntoni, di
problematiche sociali e di carattere storico, si utilizzano proverbi, tradizioni popolari, usi
religiosi. Si parla delle tasse, della corruzione.
Malavoglia è il soprannome dei Toscano, una famiglia di pescatori di Aci Trezza.
Capofamiglia è il vecchio padron 'Ntoni. Con lui nella casa del "nespolo" vivono il figlio
Bastianazzo con la moglie Marezza detta la "Longa" e i loro cinque figli 'Ntoni, Luca, Mena,
Alessi e Lia.

Il giovane 'Ntoni parte per il servizio militare e la famiglia perde uno dei maggiori sostegni.
Per questo il vecchio 'Ntoni decide di prendere a credito una partita di lupini che conta di
rivendere al mercato di Riposto. Durante il viaggio per mare la "Provvidenza", la barca dei
Malavoglia, naufraga: il carico si perde, Bastianazzo muore. Padron 'Ntoni pressato dai
debiti è costretto a vendere la casa del "nespolo".

Una serie di sventure si abbatte sui Malavoglia troncando ogni speranza di riscatto.
Luca arruolatosi muore nella battaglia di Lissa, seguito poco dopo da Maruzza vittima di
un'epidemia di colera. L'inquieto 'Ntoni si dà al contrabbando e viene arrestato. Lia,
compromessa per una presunta relazione col brigadiere don Michele, lascia il paese e
diventa una prostituta. Mena per le difficoltà familiari non può sposare compare Alfio e triste
e sfiorita invecchia precocemente.

Alla morte del vecchio 'Ntoni, che si spegne solo e disperato in un letto d'ospedale, il suo
posto viene preso da Alessi, che dopo aver sposato la Nunziata, riscatta la casa del
"nespolo" e riprende l'attività del nonno.
Una notte, scontata la pena, torna 'Ntoni, ma solo per dare l'addio definitivo a una vita che
non gli appartiene più.

MASTRO DON GESUALDO 1888\1889


Vicenda tra il 1820 e il 1848 in Sicilia (dominio borbonico)
Ascesa economica di Gesualdo Motta che cerca di riscattarsi dal punto di vista economico-
sociale, ma è destinato a rimanere solo e infelice sotto l’indifferenza di tutti. Egli stesso
diviene un uomo-roba.
Ironia distruttiva, la sua vita si fonda sulla roba, una scelta priva di senso.
Gesualdo ha 3 famiglie (origine, Diodata e Bianca) ma non si ritrova in nessuna di queste.
Parabola discendente, persino il nome è formato da due appellativi contrapposti, non
apparterrà mai al mondo aristocratico.
Narratore si mimetizza con il mondo rappresentato, mostra le diverse voci del personaggi di
Trezza, l’italiano parlato si alterna ai vari dialetti, molteplicità e discordanza.
Il romanzo, diviso in quattro parti, si apre in medias res, su un "colpo di scena" che ci
introduce direttamente nel pieno degli eventi: un incendio sta devastando la casa dei Trao
(nobili ma decaduti) di Vizzini, tra Catania e Ragusa, e tutto il paese si mobilita per i
soccorsi. Nel caos generale, don Diego, esponente di spicco della famiglia, scopre nella
camera della sorella Bianca don Ninì Rubiera, suo cugino. Tra i vari personaggi che
accorrono alla casa, si distingue un ex muratore arricchitosi grazie alla propria
intraprendenza e ad un’indefessa etica del lavoro: appunto, Mastro-don Gesualdo Motta,
come viene definito dal "coro" popolare che gestisce la narrazione e il punto di vista sui fatti.
La doppia apposizione rimanda dispregiativamente al vecchio lavoro manuale (quello del
"mastro"), ma allude pure, con ipocrita deferenza, al nuovo status borghese, che il
protagonista s'è guadagnato con la redditizia costruzione di mulini. Gesualdo, che è
intervenuto soprattutto per tutelare dal fuoco la propria proprietà, vicina a quella che sta
bruciando, partecipa qualche giorno più tardi ad un ricevimento in casa Sganci, imparentati
con i Trao; egli è destinato a sposare Bianca, nonostante questa si sia compromessa con
don Ninì e benché gli altri nobili del paese irridano i suoi modi plebei e rozzi. Segue poi il
racconto di una “giornata tipo” dell’infaticabile Gesualdo: dall’attenta cura dei suoi affari e
delle sue terre ai difficili rapporti familiari con il fratello sfaticato, la sorella che mira solo alle
sue ricchezze e il padre, fino ai pochi momenti di pace e serenità con Diodata, una donna
che gli ha dato due figli ma che egli non vuole sposare ufficialmente per non compromettere
la propria ascesa sociale.
Anche il matrimonio con Bianca segue una logica utilitaristica: Gesualdo, coinvolto nella
difficile costruzione di un ponte, spera, all’inizio della seconda parte dell’opera, di trovare
l’appoggio dei notabili del paese acquistando ad un’asta comunale le terre del barone
Zacco, in cambio di un sussidio del comune. La situazione è però sconvolta dallo scoppio
dei moti del 1820, che da Palermo si diffondono a macchia d’olio anche nell’entroterra;
Gesualdo partecipa alla riunione dei carbonari solo per tutelare i suoi averi, ma deve
rifugiarsi presso Diodata (sposatasi con Nanni l'Orbo, che ricatta Gesualdo sapendo dei suoi
sentimenti per la moglie) mentre la moglie Bianca (che disprezza il “mastro”, e lo tratta in
maniera distaccata, sia per l'amore che nutre per don Ninì sia per la lontananza sociale e
culturale che li separa) dà alla luce Isabella, probabile frutto di una relazione adulterina con
don Ninì, scialacquatore e donnaiolo di professione, indebitato con lo stesso Gesualdo.

PARADISO CANTO I
Testo Parafrasi
La gloria di colui che tutto move La potenza di Colui (Dio) che muove ogni cosa si
per l’universo penetra, e risplende diffonde in tutto l'Universo e splende più in alcune
in una parte più e meno altrove. parti, meno in altre.
3 Io fui nel Cielo (Empireo) che è più illuminato dalla
sua luce, e vidi cose che chi scende di lassù non sa
Nel ciel che più de la sua luce prende né può riferire;
fu’ io, e vidi cose che ridire
né sa né può chi di là sù discende;
6

perché appressando sé al suo disire, infatti, avvicinandosi all'oggetto del suo desiderio
nostro intelletto si profonda tanto, (Dio), il nostro intelletto si addentra tanto in
che dietro la memoria non può ire. profondità che la memoria non lo può seguire.
9
Tuttavia, l'argomento del mio canto sarà ciò che io
Veramente quant’io del regno santo riuscii a fissare nella mia mente del regno santo
ne la mia mente potei far tesoro, (Paradiso).
sarà ora materia del mio canto.
12
O buono Apollo, concedimi la tua ispirazione per
O buono Appollo, a l’ultimo lavoro l'ultima Cantica, tanto quanto tu richiedi per
fammi del tuo valor sì fatto vaso, concedere l'agognato alloro poetico.
come dimandi a dar l’amato alloro.
15
Finora mi è stata sufficiente una sola cima del monte
Infino a qui l’un giogo di Parnaso Parnaso (l'ispirazione delle Muse); ma ora devo
assai mi fu; ma or con amendue accingermi al lavoro rimasto con l'aiuto di entrambe
m’è uopo intrar ne l’aringo rimaso. (anche di Apollo).
18
Entra nel mio petto e ispirami, proprio come quando
Entra nel petto mio, e spira tue tirasti fuori Marsia dall'involucro delle sue membra (lo
sì come quando Marsia traesti scorticasti vivo).
de la vagina de le membra sue.
21
O virtù divina, se ti concedi a me quel tanto che basti
O divina virtù, se mi ti presti a che io esprima una traccia del regno dei beati
tanto che l’ombra del beato regno impressa nella mia mente, mi vedrai venire ai piedi
segnata nel mio capo io manifesti, del tuo amato albero, e incoronarmi con le sue foglie
24 di cui tu e l'alto argomento del poema mi renderanno
degno.
vedra’mi al piè del tuo diletto legno
venire, e coronarmi de le foglie
che la materia e tu mi farai degno.
27 Capita così di rado, padre, che si colga l'alloro per il
trionfo di un condottiero o di un poeta (per colpa e
Sì rade volte, padre, se ne coglie vergogna della poca ambizione umana), che la
per triunfare o cesare o poeta, fronda di Peneo (l'alloro) dovrebbe far nascere gioia
colpa e vergogna de l’umane voglie, nella gioiosa divinità di Delfi (Apollo), quando è
30 desiderata da qualcuno.

che parturir letizia in su la lieta


delfica deità dovria la fronda
peneia, quando alcun di sé asseta. Una grande fiamma segue una debole scintilla: forse
33 dopo di me altri, con voci migliori, pregheranno
perché Cirra (Apollo) risponda.
Poca favilla gran fiamma seconda:
forse di retro a me con miglior voci
si pregherà perché Cirra risponda. La lanterna del mondo (il sole) sorge ai mortali da
36 diversi punti dell'orizzonte: ma da quel punto in cui
quattro cerchi si intersecano formando tre croci, esso
Surge ai mortali per diverse foci nasce in congiunzione con una stagione più mite e
la lucerna del mondo; ma da quella con una stella propizia (l'Ariete, all'equinozio
che quattro cerchi giugne con tre croci, primaverile) ed esercita un più benefico influsso sul
39 mondo.

con miglior corso e con migliore stella


esce congiunta, e la mondana cera
più a suo modo tempera e suggella. Quel punto aveva fatto pieno giorno in Purgatorio e
42 notte sulla Terra, e un emisfero era tutto bianco e
l'altro nero, quando vidi Beatrice voltata a sinistra e
Fatto avea di là mane e di qua sera intenta a fissare il sole: un'aquila non lo fissò mai in
tal foce, e quasi tutto era là bianco tal modo.
quello emisperio, e l’altra parte nera,
45

quando Beatrice in sul sinistro fianco


vidi rivolta e riguardar nel sole: E come il raggio riflesso è solito allontanarsi da
aguglia sì non li s’affisse unquanco. quello di incidenza e salire in alto con lo stesso
48 angolo, come un pellegrino che vuole tornare in
patria, così dal suo atteggiamento infuso nella mia
E sì come secondo raggio suole facoltà immaginativa nacque il mio, e fissai il sole al
uscir del primo e risalire in suso, di là delle normali capacità umane.
pur come pelegrin che tornar vuole,
51

così de l’atto suo, per li occhi infuso Là nell'Eden sono permesse molte cose che non lo
ne l’imagine mia, il mio si fece, sono sulla Terra, grazie a quel luogo creato come
e fissi li occhi al sole oltre nostr’uso. proprio della specie umana.
54

Molto è licito là, che qui non lece Io non potei fissare il sole a lungo, ma neppure così
a le nostre virtù, mercé del loco poco da non vederlo sfavillare tutt'intorno, come un
fatto per proprio de l’umana spece. ferro incandescente appena uscito dal fuoco;
57
e subito sembrò che al giorno ne fosse stato
Io nol soffersi molto, né sì poco, aggiunto un altro, come se Dio avesse adornato il
ch’io nol vedessi sfavillar dintorno, cielo di un secondo sole.
com’ferro che bogliente esce del foco;
60
Beatrice teneva lo sguardo fisso sulle ruote celesti; e
e di sùbito parve giorno a giorno io fissai a mia volta lo sguardo su di lei,
essere aggiunto, come quei che puote distogliendolo dal cielo.
avesse il ciel d’un altro sole addorno.
63
Nel guardarla divenni dentro tale quale diventò
Beatrice tutta ne l’etterne rote Glauco quando mangiò l'erba, che lo trasformò in
fissa con li occhi stava; e io in lei una divinità marina.
le luci fissi, di là sù rimote.
66
Elevarsi al di là dei limiti umani non si potrebbe
Nel suo aspetto tal dentro mi fei, spiegare a parole: perciò basti l'esempio mitologico a
qual si fé Glauco nel gustar de l’erba coloro ai quali la grazia divina riserva l'esperienza
che ‘l fé consorto in mar de li altri dèi. diretta.
69
Se io ero solo ciò che tu, amore che governi il Cielo,
Trasumanar significar per verba creasti per ultima (l'anima razionale), lo sai tu che mi
non si poria; però l’essemplo basti sollevasti con la tua luce.
a cui esperienza grazia serba.
72
Quando il movimento rotatorio dei Cieli, che tu rendi
S’i’ era sol di me quel che creasti eterno col desiderio delle ruote celesti di avvicinarsi a
novellamente, amor che ‘l ciel governi, te, attirò la mia attenzione con l'armonia che tu regoli
tu ‘l sai, che col tuo lume mi levasti. e stabilisci, il cielo mi sembrò a tal punto acceso dalla
75 luce del sole che la pioggia o un fiume non crearono
mai un lago tanto ampio.
Quando la rota che tu sempiterni
desiderato, a sé mi fece atteso
con l’armonia che temperi e discerni,
78 La novità del suono e la luce intensa accesero in me
il desiderio di conoscerne la causa, così acuto come
parvemi tanto allor del cielo acceso non lo sentii mai.
de la fiamma del sol, che pioggia o fiume
lago non fece alcun tanto disteso.
81 Allora Beatrice, che leggeva nella mia mente come
me stesso, prima che le chiedessi qualcosa aprì la
La novità del suono e ‘l grande lume bocca per placare il mio animo turbato e disse: «Tu
di lor cagion m’accesero un disio stesso ti rendi incapace di comprendere con una
mai non sentito di cotanto acume. falsa immaginazione, così che non vedi ciò che
84 vedresti se te fossi liberato.

Ond’ella, che vedea me sì com’io,


a quietarmi l’animo commosso,
pria ch’io a dimandar, la bocca aprio, Tu non sei in Terra, come credi: ma un fulmine,
87 lasciando la sua sede naturale (la sfera del fuoco),
non corse così velocemente come tu che torni al
e cominciò: «Tu stesso ti fai grosso luogo che ti è proprio (l'Empireo)».
col falso imaginar, sì che non vedi
ciò che vedresti se l’avessi scosso. Se io fui liberato dal primo dubbio grazie a quelle
90 brevi e sorridenti parole, fui colto da un altro dubbio,
e dissi: «Ora la mia grande meraviglia si è placata;
Tu non se’ in terra, sì come tu credi; ma adesso mi stupisco di come io possa salire oltre
ma folgore, fuggendo il proprio sito, questi corpi leggeri (aria e fuoco)».
non corse come tu ch’ad esso riedi».
93

S’io fui del primo dubbio disvestito


per le sorrise parolette brevi, Allora lei, dopo un sospiro devoto, mi guardò con
dentro ad un nuovo più fu’ inretito, l'aspetto di una madre che si rivolge al figlio che dice
96 sciocchezze, e iniziò: «Tutte le cose create sono
ordinate fra loro, e questa è la forma che rende
e dissi: «Già contento requievi l'Universo simile a Dio.
di grande ammirazion; ma ora ammiro
com’io trascenda questi corpi levi».
99

Ond’ella, appresso d’un pio sospiro, In questo ordine le creature razionali (uomini e
li occhi drizzò ver’ me con quel sembiante angeli) vedono l'impronta della virtù divina, che è il
che madre fa sovra figlio deliro, fine ultimo di tutto l'ordine medesimo.
102
In quest'ordine che dico tutte le nature ricevono la
e cominciò: «Le cose tutte quante loro inclinazione, in modi diversi, più o meno vicine al
hanno ordine tra loro, e questo è forma loro principio creatore (Dio);
che l’universo a Dio fa simigliante.
105
per cui tendono a diversi obiettivi nell'ampiezza
Qui veggion l’alte creature l’orma dell'Universo, e ciascuna è spinta da un istinto dato
de l’etterno valore, il qual è fine ad essa.
al quale è fatta la toccata norma.
108
Questo istinto porta il fuoco verso l'alto; esso muove i
Ne l’ordine ch’io dico sono accline cuori degli esseri irrazionali ed esso stringe e rende
tutte nature, per diverse sorti, coesa la terra;
più al principio loro e men vicine;
111
quest'istinto fa muovere non solo le creature prive di
onde si muovono a diversi porti intelligenza, ma anche quelle dotate di anima
per lo gran mar de l’essere, e ciascuna razionale.
con istinto a lei dato che la porti.
114
La Provvidenza, che stabilisce tutto questo, fa
Questi ne porta il foco inver’ la luna; sempre quieto con la sua luce il Cielo (Empireo) nel
questi ne’ cor mortali è permotore; quale ruota quello più veloce (Primo Mobile; Dio
questi la terra in sé stringe e aduna; risiede nell'Empireo);
117
e ci porta lì, come a un sito stabilito, la forza di
né pur le creature che son fore quell'istinto naturale che indirizza a buon fine ogni
d’intelligenza quest’arco saetta essere che muove.
ma quelle c’hanno intelletto e amore.
120
È pur vero che, come la forma molte volte non
La provedenza, che cotanto assetta, corrisponde all'intenzione dell'artista, perché la
del suo lume fa ‘l ciel sempre quieto materia non risponde come dovrebbe, così talvolta la
nel qual si volge quel c’ha maggior fretta; creatura razionale si allontana da questo corso,
123 avendo il potere (libero arbitrio) di piegare in altra
direzione, pur così ben indirizzata;
e ora lì, come a sito decreto,
cen porta la virtù di quella corda
che ciò che scocca drizza in segno lieto.
126 e come si può vedere un fulmine che cade da una
nuvola, così l'istinto naturale può far tendere l'uomo
Vero è che, come forma non s’accorda verso il basso, attirato dal falso piacere dei beni
molte fiate a l’intenzion de l’arte, terreni.
perch’a risponder la materia è sorda,
129 Non devi più stupirti, se giudico correttamente, per il
fatto che tu sali, se non come di un fiume che scorre
così da questo corso si diparte dalla montagna a valle.
talor la creatura, c’ha podere
di piegar, così pinta, in altra parte;
132 Ci sarebbe da stupirsi se tu, privo di impedimenti,
fossi rimasto a terra, proprio come un fuoco che
e sì come veder si può cadere rimanesse quieto e non salisse verso l'alto». Dopo le
foco di nube, sì l’impeto primo sue parole, Beatrice rivolse lo sguardo al Cielo.
l’atterra torto da falso piacere.
135

Non dei più ammirar, se bene stimo,


lo tuo salir, se non come d’un rivo
se d’alto monte scende giuso ad imo.
138

Maraviglia sarebbe in te se, privo


d’impedimento, giù ti fossi assiso,
com’a terra quiete in foco vivo».

Quinci rivolse inver’ lo cielo il viso.


142

Proemio della Cantica. Dante e Beatrice ascendono al Paradiso. Dubbi di Dante e


spiegazione di Beatrice circa l'ordine dell'Universo.
È mezzogiorno di mercoledì 13 aprile (o 30 marzo) del 1300.

Proemio della Cantica (1-36)


Dante dichiara di essere stato nel Cielo del Paradiso (l'Empireo) che riceve maggiormente la
luce divina che si diffonde nell'Universo: lì ha visto cose difficili da riferire a parole, poiché
l'intelletto umano non riesce a ricordare ciò che vede quando penetra in Dio. Il poeta tenterà
di descrivere il regno santo nella III Cantica e per questo invoca l'assistenza di Apollo, in
quanto l'aiuto delle Muse non gli è più sufficiente. Il dio pagano dovrà ispirarlo col suo canto,
come fece quando vinse il satiro Marsia, tanto da permettergli di affrontare l'alta materia del
Paradiso e meritare così l'alloro poetico. Apollo dovrebbe essere lieto che qualcuno desideri
esserne incoronato, poiché ciò accade raramente nei tempi moderni; Dante si augura che il
suo esempio sia seguito da altri poeti dopo di lui.

Ascesa di Dante e Beatrice (37-63)


Il sole sorge sull'orizzonte da diversi punti, ma quello da cui sorge quando è l'equinozio di
primavera si trova in congiunzione con la costellazione dell'Ariete, quindi i raggi del sole allora
sono più benefici per il mondo. Quel punto dell'orizzonte divide l'emisfero nord, in cui è già
notte, da quello sud, in cui è giorno pieno: in questo momento Dante vede Beatrice rivolta a
sinistra e intenta a fissare il sole come farebbe un'aquila. L'atto della donna induce Dante a
imitarla, proprio come un raggio di sole riflesso si leva con lo stesso angolo del primo raggio,
per cui il poeta fissa il sole più di quanto farebbe sulla Terra. Nell'Eden le facoltà umane sono
accresciute e Dante può vedere la luce aumentare tutt'intorno, come se fosse spuntato un
secondo sole.

Trasumanazione di Dante (64-81)


Dante distoglie lo sguardo dal sole e osserva Beatrice, che a sua volta fissa il Cielo. Il poeta si perde a tal punto
nel suo aspetto che subisce una trasformazione simile a quella di Glauco quando divenne una creatura marina: è
impossibile descrivere a parole l'andare oltre alla natura umana, perciò il lettore dovrà accontentarsi dell'esempio
mitologico e sperare di averne esperienza diretta in Paradiso. Dante non sa dire se, in questo momento, sia ancora
in possesso del suo corpo mortale o sia soltanto anima, ma di certo fissa il suo sguardo nei Cieli che ruotano con
una melodia armoniosa e gli sembra che la luce del sole abbia acceso in modo straordinario tutto lo spazio
circostante.
Primo dubbio di Dante e spiegazione di Beatrice (82-93)
Nel poeta si accende un fortissimo desiderio di conoscere l'origine del suono e della luce, per cui Beatrice, che
legge nella sua mente ogni pensiero, si rivolge subito a lui per placare il suo animo. La donna spiega che Dante
immagina cose errate, poiché non si trova più in Terra come ancora crede: egli sta salendo in Paradiso e nessuna
folgore, cadendo dalla sfera del fuoco in basso, fu tanto rapida quanto lui che torna al luogo che gli è proprio (il
Paradiso).

Secondo dubbio di Dante: l'ordine dell'Universo (94-142)


Beatrice ha risolto il primo dubbio di Dante, ma ora il poeta è tormentato da un altro e chiede alla donna come sia
possibile che lui, dotato di un corpo mortale, stia salendo oltre l'aria e il fuoco. Beatrice trae un profondo sospiro,
quindi guarda Dante come farebbe una madre col figlio che dice cose insensate e spiega che tutte le cose
dell'Universo sono ordinate tra loro, così da formare un tutto armonico. In questo ordine le creature razionali (uomini
e angeli) scorgono l'impronta di Dio, che è il fine cui tendono tutte le cose. Tutte le creature, infatti, sono inclini
verso Dio in base alla loro natura e tendono a fini diversi per diverse strade, secondo l'impulso che è dato loro.
Questo fa sì che il fuoco salga verso l'alto, che si muova il cuore degli esseri irrazionali, che la Terra stia coesa in
se stessa; tale condizione è comune alle creature irrazionali e a quelle dotate di intelletto. Dio risiede nell'Empireo
come vuole la Provvidenza, e Dante e Beatrice si dirigono lì in quanto il loro istinto naturale li spinge verso il loro
principio, che è Dio. È pur vero, spiega Beatrice, che talvolta la creatura non asseconda questo impulso e devia
dal suo corso naturale in virtù del suo libero arbitrio; così l'uomo talvolta si piega verso i beni terreni e non verso il
Cielo, come una saetta tende verso il basso e non verso l'alto. Dante, se riflette bene, non deve più stupirsi della
sua ascesa proprio come di un fiume che scorre dalla montagna a valle; dovrebbe stupirsi del contrario, se cioè
non salisse pur privo di impedimenti, come un fuoco che sulla Terra restasse fermo. Alla fine delle sue parole,
Beatrice torna a fissare il Cielo.
Interpretazione complessiva
Il Canto si apre con il proemio alla III Cantica, che si distende per ben 36 versi e risulta così di ampiezza tripla
rispetto al proemio del Purgatorio (I, 1-12) e addirittura quadrupla rispetto a quello dell'Inferno (II, 1-9): la maggiore
ampiezza e solennità si spiega con l'accresciuta importanza della materia trattata, dal momento che il poeta si
accinge a descrivere il regno santo come mai nessuno prima di lui aveva fatto e dovrà misurarsi con la difficoltà di
riferire cose difficili anche solo da ricordare, anticipando il tema della visione inesprimibile che tanta parte avrà nel
Paradiso. Ciò spiega anche perché Dante debba invocare l'assistenza di Apollo oltre che delle Muse, chiedendo
al dio pagano (che naturalmente è personificazione dell'ispirazione divina) di aiutarlo nell'ardua impresa e
consentirgli di cingere l'agognato alloro poetico: Apollo dovrà ispirarlo con lo stesso canto con cui vinse il satiro
Marsia che lo aveva sfidato, in maniera analoga a Calliope che aveva sconfitto le Pieridi (Purg., I, 9-12) e
sottolineando il fatto che la poesia di Dante dovrà essere ispirata da Dio e non un folle tentativo di gareggiare con
la divinità nella rappresentazione di ciò che supera i limiti umani (ciò sarà ribadito anche nell'esordio del Canto
seguente, vv. 7-9). Dante ribadisce anche il fatto che pochi, ormai, desiderano l'alloro, per cui la sua ambizione
dovrebbe rallegrare Apollo ed essere di stimolo ad altri poeti dopo di lui perché seguano il suo esempio, nel che
c'è forse una fin troppo modesta excusatio propter infirmitatem, dal momento che più volte nella Cantica egli
esprimerà l'orgoglio di essere il primo a percorrere questa strada poetica.
Dopo l'ampia e complessa descrizione astronomica che indica la stagione primaverile e l'ora del mezzogiorno (è
questa l'interpretazione più ovvia, mentre è improbabile che il poeta intenda l'alba), Dante vede Beatrice fissare il
sole e imita il suo gesto, sperimentando l'accresciuto acume dei suoi sensi nell'Eden. I due hanno iniziato a salire
verso la sfera del fuoco che divide il mondo terreno dal Cielo della Luna, anche se Dante non se n'è ancora reso
conto e ha notato solo l'aumento straordinario della luce: il poeta si sente trasumanar, diventare qualcosa di più
che un essere umano e non può descrivere questa sensazione se non con l'esempio ovidiano del pastore Glauco,
che si tramutò in una creatura acquatica e si gettò in mare dicendo addio alla Terra (come vedremo, Dante ricorrerà
spesso nella Cantica a similitudini mitologiche per rappresentare situazioni prive di termini di paragone «terreni»).
L'aumento progressivo della luce e il dolce suono con cui ruotano le sfere celesti accendono in Dante il desiderio
di capirne la ragione e Beatrice è sollecita a spiegargli che i due stanno salendo verso il Cielo, come un fulmine
che cade dall'alto contro la sua natura; ciò naturalmente suscita un nuovo dubbio nel poeta che si chiede come sia
possibile per lui, dotato di un corpo in carne e ossa, salire contro la legge di gravità, dubbio che sarà sciolto da
Beatrice con una complessa spiegazione che occupa l'ultima parte del Canto. La donna assume fin dall'inizio
l'atteggiamento che avrà sempre nella Cantica, ovvero di maestra che sospira e sorride delle ingenue domande
del discepolo e fornisce spiegazioni di carattere dottrinale: anche qui, infatti, la sua spiegazione non chiarisce il
dubbio di Dante di natura fisica (come fa un corpo grave a trascendere i corpi lievi, l'aria e il fuoco) ma inquadra il
problema nell'ambito dell'ordinamento generale dell'Universo, collegandosi ai versi iniziali che descrivevano il
riflettersi della luce divina di Cielo in Cielo. Beatrice spiega infatti che tutte le creature, razionali e non, fanno parte
di un tutto armonico che è stato creato da Dio e ordinato in modo preciso, così che ogni cosa tende al suo fine
attraverso strade diverse, come navi che giungono in porto solcando il gran mar de l'essere. Ciò vale per le cose
inanimate, come il fuoco che tende a salire verso l'alto per sua natura e la terra che è attratta verso il centro
dell'Universo, ma anche per gli esseri intelligenti, la cui anima razionale tende naturalmente a muoversi verso Dio;
ovviamente essi sono dotati di libero arbitrio, per cui può avvenire che anziché volgersi in quella direzione siano
attratti dai beni terreni, ma questo non è il caso di Dante che ha ormai purificato la sua anima nel viaggio attraverso
Inferno e Purgatorio. Egli tende dunque verso Dio che risiede nell'Empireo e ciò è un atto del tutto naturale, come
quello di un fiume che scorre dall'alto verso il basso, mentre sarebbe innaturale per Dante restare a terra, come
un fuoco la cui fiamma non tendesse verso l'alto. Tale spiegazione di natura metafisica anticipa quella che sarà la
cifra stilistica di gran parte della III Cantica, in cui spesso i dubbi scientifici di Dante verranno risolti con argomenti
dottrinali e verrà ribadito che la sola filosofia umana è di per sé insufficiente a capire i misteri dell'Universo, proprio
come lo stesso Virgilio aveva detto più volte rimandando alle chiose di Beatrice-teologia: ciò sarà evidente anche
nella spiegazione circa le macchie lunari al centro del Canto seguente, in quanto laddove la ragione umana non
può arrivare deve intervenire la fede e dunque Dante deve credere che sta salendo con tutto il corpo in Paradiso,
non essendo in grado di comprenderlo.
È interessante inoltre che Beatrice usi per tre volte l'immagine del fuoco per spiegare il movimento di Dante, prima
paragonandolo a un fulmine che corre verso la Terra (mentre lui corre verso il Cielo), poi spiegando che il fuoco
tende a salire verso il Cielo della Luna (cioè verso la sfera del fuoco, dove è diretto Dante) e infine paragonando il
fulmine che cade in basso contro la sua natura a un uomo che, altrettanto forzatamente, è attratto verso i beni
terreni. La luce come elemento visivo domina largamente l'episodio, segnando il passaggio di Dante dalla
dimensione terrena a quella celeste, anche attraverso l'immagine del sole che è evocato nella spiegazione
astronomica, poi indicato come oggetto dello sguardo di Beatrice, infine chiamato in causa con l'immagine di un
secondo sole che sembra illuminare col suo splendore il cielo: il viaggio di Dante verso la luce è ovviamente il suo
percorso verso Dio e tale immagine si ricollega a quella dei versi iniziali in cui la gloria divina si riverberava in tutto
l'Universo, e dove si diceva che Dante è giunto nel Cielo che più de la sua luce prende, ovvero quell'Empireo verso
il quale ha iniziato a salire in modo prodigioso.

Note e passi controversi

Il Parnaso citato al v. 16 è il monte della Grecia centrale che, secondo il mito, era sede di Apollo e aveva una
doppia cima; nel Medioevo si diffuse l'errata convinzione (attestata da Isidoro di Siviglia, Etym., XIV, 8) che le due
cime fossero il Citerone e l'Elicona, abitate rispettivamente da Apollo e dalle Muse, mentre in realtà l'Elicona è un
monte diverso. È possibile che qui Dante cada nella stessa confusione e indichi l'un giogo come il Citerone e l'altro
con l'Elicona.
Il satiro Marsia (vv. 20-21) è protagonista di un racconto di Ovidio (Met., VI, 382 ss.), in cui sfida Apollo in una gara
musicale e, vinto, viene scorticato vivo dal dio.
Apollo è detto delfica deità (v. 32) perché molto venerato anticamente a Delfi, mentre l'alloro è definito fronda /
peneia in riferimento al mito di Dafne, la figlia di Peneo trasformatasi in alloro per sfuggire ad Apollo (Met., I, 452
ss.).
Cirra (v. 36) era una città sul golfo di Corinto collegata con Delfi e indicata per designare Apollo stesso.
La complessa spiegazione astronomica dei vv. 37-42 è stata variamente interpretata dai commentatori, anche se
probabilmente indica che è l'equinozio di primavera e il sole è in congiunzione con l'Ariete. I quattro cerchi sono
forse l'Equatore, l'Eclittica, il Coluro equinoziale e l'orizzonte di Gerusalemme e Purgatorio, che si intersecano
formando tre croci (benché non perpendicolari). I vv. 43-45 indicano con ogni probabilità che è mezzogiorno, come
detto in Purg., XXXIII, 104, e non l'alba come alcuni hanno ipotizzato (nell'emisfero sud è giorno pieno, mentre in
quello opposto è notte).
Il pelegrin del v. 51 può essere il pellegrino che torna in patria, ma anche il falco pellegrino.
L'aumento della luce ai vv. 61-63 indica che Dante si avvicina alla sfera del fuoco, che divide il I Cielo dall'atmosfera.
La similitudine ai vv. 67-69 è tratta da Met., XIII, 898 ss. e si riferisce al pescatore della Beozia Glauco che, avendo
notato che i pesci pescati mangiavano un'erba che li faceva balzare di nuovo in acqua, fece lo stesso e si trasformò
in una creatura acquatica, gettandosi in mare.
Il sito da cui fugge la folgore (v. 92) è sicuramente la sfera del fuoco, verso cui invece Dante si avvicina.
Il ciel del v. 122 è l'Empireo, nel quale ruota velocissimo il Primo Mobile.
CANTO III
Testo Parafrasi
Quel sol che pria d’amor mi scaldò ‘l petto, Quel sole (Beatrice) che prima mi scaldò il petto di
di bella verità m’avea scoverto, amore, mi aveva svelato il dolce aspetto della verità
provando e riprovando, il dolce aspetto; con argomentazioni a favore e contrarie;
3
e io, per confessare che avevo corretto il mio errore
e io, per confessar corretto e certo ed ero sicuro di aver capito, alzai la testa più diritta
me stesso, tanto quanto si convenne quanto era necessario a parlare;
leva’ il capo a proferer più erto;
6
ma mi apparve una visione che attirò a sé il mio
ma visione apparve che ritenne sguardo così strettamente, per guardarla, che non mi
a sé me tanto stretto, per vedersi, ricordai più della mia confessione.
che di mia confession non mi sovvenne.
9 Proprio come attraverso vetri trasparenti e chiari,
oppure attraverso acque nitide e non turbate (non
Quali per vetri trasparenti e tersi, tanto profonde da non vedere i fondali), tornano i
o ver per acque nitide e tranquille, riflessi dei nostri volti così evanescenti che una perla
non sì profonde che i fondi sien persi, su una fronte bianca non colpisce meno debolmente i
12 nostri occhi, così io vidi più facce di beati pronti a
parlare;
tornan d’i nostri visi le postille
debili sì, che perla in bianca fronte
non vien men forte a le nostre pupille;
15
allora io incorsi nell'errore opposto a quello che
tali vid’io più facce a parlar pronte; accese amore tra Narciso e la sua immagine
per ch’io dentro a l’error contrario corsi specchiata nell'acqua.
a quel ch’accese amor tra l’omo e ‘l fonte.
18 Non appena mi accorsi degli spiriti, ritenendo che
fossero immagini riflesse, mi voltai indietro per vedere
Sùbito sì com’io di lor m’accorsi, di chi fossero;
quelle stimando specchiati sembianti,
per veder di cui fosser, li occhi torsi;
21 e non vidi nulla, e tornai a guardare avanti negli occhi
della mia dolce guida, che, sorridendo, ardeva nel
e nulla vidi, e ritorsili avanti suo sguardo pieno di santità.
dritti nel lume de la dolce guida,
che, sorridendo, ardea ne li occhi santi. Mi disse: «Non ti stupire se io sorrido del tuo pensiero
24 infantile, dal momento che il tuo intelletto non è
ancora sicuro dietro la verità, ma ti fa girare a vuoto
«Non ti maravigliar perch’io sorrida», come solitamente accade in questi casi:
mi disse, «appresso il tuo pueril coto,
poi sopra ‘l vero ancor lo piè non fida,
27 ciò che tu vedi sono creature reali, relegate qui per
inadempienza di voto.
ma te rivolve, come suole, a vòto:
vere sustanze son ciò che tu vedi, Dunque parla con esse e credi a tutto quello che
qui rilegate per manco di voto. sentirai; infatti, la luce verace (di Dio) che le rende
30 felici non permette loro di allontanarsi dalla verità».

Però parla con esse e odi e credi; E io mi rivolsi all'anima che sembrava più desiderosa
ché la verace luce che li appaga di parlare, e cominciai, quasi come un uomo
da sé non lascia lor torcer li piedi». indebolito dall'eccessivo desiderio:
33

E io a l’ombra che parea più vaga «O spirito ben nato, che ai raggi della vita eterna
di ragionar, drizza’mi, e cominciai, senti una dolcezza incomprensibile se non è provata,
quasi com’uom cui troppa voglia smaga: mi sarà gradito se mi dirai il tuo nome e la vostra
36 condizione».

«O ben creato spirito, che a’ rai


di vita etterna la dolcezza senti
che, non gustata, non s’intende mai,
39
Allora lei, pronta e con occhi sorridenti: «La nostra
grazioso mi fia se mi contenti carità non chiude la porta a un giusto desiderio,
del nome tuo e de la vostra sorte». proprio come quella di Dio che vuole simile a sé tutto
Ond’ella, pronta e con occhi ridenti: il Paradiso.
42
Nel mondo io fui una suora; e se tu rifletti
«La nostra carità non serra porte attentamente, il fatto che io sia più bella non ti
a giusta voglia, se non come quella nasconderà la mia identità, ma mi riconoscerai come
che vuol simile a sé tutta sua corte. Piccarda Donati, che, posta qui con questi altri beati,
45 sono nel Cielo più lento (della Luna).

I’ fui nel mondo vergine sorella;


e se la mente tua ben sé riguarda,
non mi ti celerà l’esser più bella,
48 I nostri sentimenti, che sono infiammati solo dal
piacere dello Spirito Santo, gioiscono nell'adeguarsi
ma riconoscerai ch’i’ son Piccarda, al suo ordine.
che, posta qui con questi altri beati,
beata sono in la spera più tarda.
51 E questa nostra condizione, che sembra tanto bassa,
ci è stata data perché i nostri voti furono inadempiuti
Li nostri affetti, che solo infiammati e trascurati in alcuni aspetti».
son nel piacer de lo Spirito Santo,
letizian del suo ordine formati.
54 Allora io le dissi: «Nel vostro meraviglioso aspetto
risplende qualcosa di divino che vi rende diversi da
E questa sorte che par giù cotanto, come eravate in vita:
però n’è data, perché fuor negletti
li nostri voti, e vòti in alcun canto».
57 per questo non fui rapido nel ricordare; ma ora quello
che mi dici mi aiuta, così che mi è più semplice
Ond’io a lei: «Ne’ mirabili aspetti raffigurarmi il tuo volto.
vostri risplende non so che divino
che vi trasmuta da’ primi concetti:
60 Ma dimmi: voi che siete qui felici, desiderate essere
in un luogo più alto per vedere Dio più da vicino ed
però non fui a rimembrar festino; essere in maggior comunione con Lui?»
ma or m’aiuta ciò che tu mi dici,
sì che raffigurar m’è più latino. Con le altre anime dapprima sorrise un poco; poi mi
63 rispose tanto lieta che sembrava ardere nell'amore
dello Spirito Santo:
Ma dimmi: voi che siete qui felici,
disiderate voi più alto loco
per più vedere e per più farvi amici?». «Fratello, la virtù di carità placa la nostra volontà, e ci
66 induce a volere solo ciò che abbiamo e non ci fa
desiderare altro.
Con quelle altr’ombre pria sorrise un poco;
da indi mi rispuose tanto lieta,
ch’arder parea d’amor nel primo foco: Se desiderassimo essere più in alto, i nostri desideri
69 sarebbero discordi dalla volontà di Colui (Dio) che ci
colloca qui;
«Frate, la nostra volontà quieta
virtù di carità, che fa volerne
sol quel ch’avemo, e d’altro non ci asseta. e vedrai che questo non è possibile in questi Cieli, se
72 qui è necessario essere in carità e se osservi bene la
natura della carità stessa.
Se disiassimo esser più superne,
foran discordi li nostri disiri Anzi, alla nostra condizione di beati è essenziale
dal voler di colui che qui ne cerne; conformarsi alla volontà divina, per cui tutti i nostri
75 desideri diventano uno solo;

che vedrai non capere in questi giri,


s’essere in carità è qui necesse, cosicché a tutto il regno piace il modo in cui siamo
e se la sua natura ben rimiri. disposti di Cielo in Cielo, e piace al re (Dio) che ci
78 invoglia a uniformarci alla sua volontà.

Anzi è formale ad esto beato esse E nella sua volontà è la nostra pace: essa è quel
tenersi dentro a la divina voglia, mare verso il quale si muove tutto ciò che essa crea
per ch’una fansi nostre voglie stesse; o che la natura produce».
81

sì che, come noi sem di soglia in soglia Allora mi fu chiaro che ogni punto del Cielo è
per questo regno, a tutto il regno piace Paradiso, anche se la grazia del sommo bene
com’a lo re che ‘n suo voler ne ‘nvoglia. (divina) non vi viene irraggiata in un solo modo.
84
Ma come accade quando un cibo sazia e di un altro
E ‘n la sua volontade è nostra pace: rimane ancora il desiderio, allorché si chiede di
ell’è quel mare al qual tutto si move questo e si ringrazia di quello, così feci io negli atti e
ciò ch’ella cria o che natura face». nelle parole per sapere da lei quale fu la tela di cui
87 non trasse la spola fino alla fine (quale voto non
aveva adempiuto).
Chiaro mi fu allor come ogne dove
in cielo è paradiso, etsi la grazia
del sommo ben d’un modo non vi piove.
90
Mi disse: «Una vita perfetta e un alto merito collocano
Ma sì com’elli avvien, s’un cibo sazia in un Cielo più alto una donna (santa Chiara d'Assisi),
e d’un altro rimane ancor la gola, secondo la cui regola sulla Terra ci si veste e si
che quel si chere e di quel si ringrazia, prende il velo, al fine di vegliare e dormire sino alla
93 morte con quello sposo (Cristo) che accetta ogni voto
che la carità conforma alla sua volontà.
così fec’io con atto e con parola,
per apprender da lei qual fu la tela
onde non trasse infino a co la spuola.
96 Per seguirla da fanciulla fuggii dal mondo e vestii il
suo abito, promettendo di seguire la regola del suo
«Perfetta vita e alto merto inciela Ordine.
donna più sù», mi disse, «a la cui norma
nel vostro mondo giù si veste e vela,
99 In seguito degli uomini, avvezzi al male più che al
bene, mi rapirono fuori dal dolce convento: Iddio sa
perché fino al morir si vegghi e dorma quale fu poi la mia vita.
con quello sposo ch’ogne voto accetta
che caritate a suo piacer conforma.
102 E quest'altro splendore che ti appare alla mia destra
e che si accende di tutta la luce del nostro Cielo,
Dal mondo, per seguirla, giovinetta capisce bene ciò che io dico di me stessa: fu suora e
fuggi’mi, e nel suo abito mi chiusi le fu tolto nello stesso modo il velo dal capo.
e promisi la via de la sua setta.
105

Uomini poi, a mal più ch’a bene usi,


fuor mi rapiron de la dolce chiostra: Ma dopo che fu rivolta al mondo contro il suo volere e
Iddio si sa qual poi mia vita fusi. contro ogni buona usanza, tuttavia non fu mai
108 separata dal velo del cuore (continuò a osservare in
cuore la regola).
E quest’altro splendor che ti si mostra
da la mia destra parte e che s’accende Questa è l'anima della grande Costanza d'Altavilla,
di tutto il lume de la spera nostra, che dal secondo imperatore di Svevia (Enrico VI)
111 generò il terzo (Federico II) che fu anche l'ultimo».

ciò ch’io dico di me, di sé intende; Così mi parlò, e poi iniziò a cantare 'Ave, Maria' e in
sorella fu, e così le fu tolta questo modo svanì come un oggetto che affonda
di capo l’ombra de le sacre bende. nell'acqua profonda.
114

Ma poi che pur al mondo fu rivolta Il mio sguardo, che la seguì fin che gli fu possibile,
contra suo grado e contra buona usanza, dopo averla persa di vista, si rivolse all'oggetto
non fu dal vel del cor già mai disciolta. principale del suo desiderio e fissò Beatrice;
117
ma lei folgorò il mio sguardo a tal punto che sulle
Quest’è la luce de la gran Costanza prime non potei sopportarne la vista; e questo mi
che del secondo vento di Soave rese più restio a domandare.
generò ‘l terzo e l’ultima possanza».
120

Così parlommi, e poi cominciò ‘Ave,


Maria’ cantando, e cantando vanio
come per acqua cupa cosa grave.
123

La vista mia, che tanto lei seguio


quanto possibil fu, poi che la perse,
volsesi al segno di maggior disio,
126

e a Beatrice tutta si converse;


ma quella folgorò nel mio sguardo
sì che da prima il viso non sofferse;

e ciò mi fece a dimandar più tardo.


130

Argomento del Canto


Ancora nel I Cielo della Luna. Apparizione degli spiriti difettivi: colloquio con Piccarda Donati. Piccarda spiega i
gradi di beatitudine e l'inadempienza del voto. Viene mostrata l'anima dell'imperatrice Costanza.
È il primo pomeriggio di mercoledì 13 aprile (o 30 marzo) del 1300.

Apparizione delle anime beate (1-33)


Beatrice ha svelato a Dante col suo ragionamento logico la verità circa l'origine delle macchie lunari, quindi il poeta
leva il capo per rivolgersi alla donna, ma un'improvvisa visione attira il suo sguardo e lo distoglie dal suo proposito.
Dante vede le figure di spiriti pronti a parlare, talmente evanescenti da sembrargli il riflesso di un'immagine sul pelo
dell'acqua, così il poeta cade nell'errore opposto a quello che indusse Narciso a innamorarsi della propria immagine
riflessa. Infatti Dante si volta per vedere le figure reali che pensa siano dietro di lui, senza però vedere nulla; poi
guarda Beatrice, che sorride del suo errore. La donna lo invita a non stupirsi del fatto che lei rida al suo ingenuo
pensiero e spiega che le figure che vede sono creature reali, relegate in questo Cielo per non aver rispettato il
voto. Beatrice lo invita a parlare liberamente con loro, in quanto la luce di Dio che li illumina non gli consente di
allontanarsi dalla verità.

Piccarda Donati (34-57)


Dante si rivolge all'anima che gli sembra più desiderosa di parlare e le chiede di rivelare il suo nome e la
condizione degli altri beati, appellandosi ai raggi di vita eterna che lo spirito fruisce. L'anima risponde con occhi
sorridenti e dichiara che la carità che li accende fa sì che rispondano volentieri alle giuste preghiere: rivela
dunque di essere stata in vita una suora e se Dante la guarderà meglio, la riconoscerà come Piccarda Donati.
Rivela di essere posta lì con gli altri spiriti difettivi e di essere relegata nel Cielo più basso, quello della Luna,
benché lei e gli altri gioiscano di partecipare all'ordine voluto da Dio. Essi hanno il grado più basso di beatitudine
perché i loro voti furono non adempiuti o trascurati in parte.

Spiegazione dei vari gradi di beatitudine (58-90)


Dante risponde e spiega a Piccarda che nel loro aspetto risplende qualcosa di divino che li rende diversi da come
erano in vita e che questo gli ha impedito di riconoscerla subito, poi chiede se lei o gli altri beati desiderino
acquisire un grado più elevato di beatitudine. Piccarda sorride un poco con le altre anime, poi risponde
lietamente e spiega che la carità placa ogni loro desiderio e li induce a volere solo ciò che hanno e non altro. Se
desiderassero essere in un grado superiore di beatitudine, i loro desideri sarebbero discordi dalla volontà di Dio
che li colloca lì, il che è impossibile in Paradiso dove è inevitabile essere in carità. Anzi, aggiunge, l'essere beati
comporta necessariamente l'adeguarsi alla volontà divina, per cui la posizione occupata dai beati in Paradiso
trova l'approvazione di Dio come di tutti i beati. Questo dà loro la pace, perché Dio è il termine ultimo al quale si
muovono tutte le creature dell'Universo.

L'inadempienza del voto. Costanza d'Altavilla (91-120)


Dante ha compreso il fatto che tutti i beati godono della felicità eterna, anche se in grado diverso, ma se la
risposta di Piccarda ha sciolto un suo dubbio ne ha acceso subito un altro, per cui il poeta le chiede quale sia il
voto che lei non ha portato a compimento. La beata spiega che un Cielo più alto ospita santa Chiara d'Assisi,
fondatrice nel mondo dell'Ordine delle Clarisse alla cui regola molte donne si votano e prendono il velo. Piccarda,
da giovinetta, indossò quell'abito e pronunciò i voti monastici, ma degli uomini più avvezzi al male che al bene la
rapirono dal convento e la obbligarono a una vita diversa. Piccarda indica poi un'anima splendente alla sua
destra, che ha vissuto la stessa esperienza poiché fu suora e le fu tolto forzatamente il velo, anche se in seguito
rimase in cuore fedele alla regola monastica: è l'imperatrice Costanza d'Altavilla, che da Enrico VI generò
Federico II di Svevia.
Sparizione delle anime (121-130)
Alla fine delle sue parole, Piccarda intona l'Ave, Maria e pian piano svanisce, come un oggetto che cade
nell'acqua profonda. Dante la segue con lo sguardo quanto può, poi torna a osservare Beatrice che però col suo
splendore abbaglia la vista del poeta, così che i suoi occhi dapprima non riescono a sopportare tanto fulgore.
Questo rende Dante più restio a domandare.

Interpretazione complessiva

Il Canto presenta la prima schiera di beati incontrati da Dante nel I Cielo e la protagonista assoluta è Piccarda
Donati, che spiega al poeta il motivo per cui lei e le altre anime sono rilegate nel Cielo più basso e qual è la legge
che regola i diversi gradi di beatitudine in Paradiso. La collocazione in Cielo di Piccarda era già stata preannunciata
dal fratello Forese in Purg., XXIV, 13-15 («La mia sorella, che tra bella e buona / non so qual fosse più, triunfa lieta
/ ne l'alto Olimpo già di sua corona»), in contrapposizione alla futura dannazione di Corso, su domanda diretta di
Dante che quindi conosceva la giovane; ciò è confermato in questo episodio, nel quale Dante non riconosce subito
Piccarda e se ne scusa adducendo il diverso aspetto di queste anime rispetto a quello che avevano in vita, per cui
non è stato a rimembrar festino. In effetti gli spiriti difettivi, che in vita non portarono a compimento il voto e perciò
godono del più basso grado di felicità eterna, sono gli unici beati a mostrarsi a Dante con un'immagine vagamente
umana, talmente evanescente da sembrare riflessi nell'acqua: Dante ricorre a una doppia preziosa similitudine per
descrivere queste figure diafane, quella di volti riflessi su un vetro o su uno specchio d'acqua tersa e quella di perle
bianche che si distinguono appena sulla bianca fronte di una giovane donna (ciò rientrava nella moda del tempo
ed era tipico delle giovani aristocratiche, per cui l'immagine aggiunge raffinatezza alla scena). Il ricorso alla
mefatora dell'acqua non è naturalmente nuovo, poiché Dante ha già paragonato la descrizione del Paradiso a un
viaggio per mare (II, 1 ss.; e Beatrice aveva parlato di gran mar de l'essere in I, 113) e più avanti la scomparsa di
Piccarda e degli altri beati sarà assimilata a quella di un corpo che affonda nell'acqua profonda, così come gli spiriti
del Cielo di Mercurio sembreranno pesci che si avvicinano al pelo dell'acqua per prendere il cibo (V, 100-105).
Beatrice dichiara che gli spiriti difettivi sono confinati in questo I Cielo per manco di voto, anche se in realtà lei
stessa spiegherà più avanti che i beati risiedono tutti nell'Empireo e semplicemente appaiono a Dante nel Cielo il
cui influsso hanno subìto in vita: il poeta chiede infatti a Piccarda di rivelare il proprio nome e la sorte sua e degli
altri beati, per cui la giovane si presenta e spiega che essi godono il grado più basso di beatitudine, proprio perché
indotti o forzati in vita a non rispettare il proprio voto, come nel suo caso il voto di castità seguente alla
monacazione. Questo naturalmente accende in Dante la curiosità di sapere se i beati desiderino un più alto grado
di beatitudine e la domanda fa sorridere le anime, dal momento che un simile desiderio sarebbe impossibile in
Paradiso. La risposta di Piccarda precisa una legge che coinvolge tutti i beati del terzo regno, ovvero il fatto che
essi ardono della virtù di carità e quindi, grazie ad essa, non possono che conformarsi alla volontà di Dio che li
cerne, li colloca in quella posizione; se i loro desideri fossero discordi da quelli divini ciò sarebbe incompatibile con
la loro condizione stessa di beati, proprio perché verrebbe meno l'ardore di carità che è premessa indispensabile
alla beatitudine (secondo la filosofia scolastica la carità comportava l'adeguamento alla volontà dell'oggetto amato).
Il discorso di Piccarda è conciso e stringente nella sua logica e si avvale di un preciso linguaggio filosofico, che
include latinismi puri (necesse, beato esse) e tecnicismi (formale, nel senso di causa essenziale) che saranno usati
spesso dal poeta nel corso della III Cantica; l'idea stessa della gradazione della beatitudine e della divisione dei
beati in varie schiere, se da un lato risponde a un criterio analogo rispetto a Inferno e Purgatorio, dall'altro risponde
alla trattazione che ne dà san Tommaso e che verrà ripresa nel Canto seguente, specie nel tentativo di correggere
l'opinione espressa da Platone nel Timeo riguardo alla collocazione delle anime dopo la morte.
L'ultima parte del Canto è dedicata a Piccarda personaggio, la fanciulla conosciuta da Dante a Firenze e costretta
dal fratello Corso a sposarsi contro il suo volere, rapita de la dolce chiostra ad opera di Corso medesimo e dei suoi
complici, definiti da lei uomini... a mal più ch'a bene usi (con sereno distacco dalle vicende terrene e senza l'ombra
di rancore verso l'ingiustizia patita); la conclusione della sua vicenda personale è affidata a un verso lapidario
quanto allusivo, Iddio si sa qual poi mia vita fusi, che è stato giustamente accostato ad altre celebri chiuse di
personaggi danteschi, da Ulisse (Inf., XXVI, infin che 'l mar fu sovra noi richiuso), al conte Ugolino (XXXIII, 75
Poscia, più che 'l dolor poté 'l digiuno), senza contare il manzoniano La sventurata rispose relativo alla monaca di
Monza e per il quale il grande romanziere potrebbe essersi ispirato proprio a questo passo. Piccarda rievoca la
sua vicenda umana per spiegare quale voto non ha portato a termine e per farlo indica a Dante due diverse donne,
che costituiscono due diversi esempi di devozione religiosa: la prima è santa Chiara d'Assisi, la fondatrice delle
Clarisse alla cui regola Piccarda si era votata, mentre la seconda è l'imperatrice Costanza d'Altavilla, la madre di
Federico II di Svevia che ha subìto il suo stesso destino e ora risplende accanto a lei in questo Cielo. Dante accoglie
la leggenda della monacazione di Costanza e dell'obbligo impostole di sposare Enrico VI, matrimonio da cui era
nato Federico II (accusato dalla pubblicistica guelfa di essere l'Anticristo in quanto frutto di un'unione peccaminosa,
come del resto suo figlio Manfredi); il fatto era totalmente falso, tuttavia non impedisce a Dante di collocare la
donna in Paradiso come, del resto, Manfredi in Purgatorio, a significare che la via della salvezza non è
necessariamente legata alle vicende terrene o alla condanna della Chiesa, come più volte è stato affermato nella
II Cantica e sarà ancora ribadito nella III, specie nei Canti dedicati al problema della giustizia. La spiegazione di
Piccarda accende due nuovi dubbi in Dante, relativi all'inadempienza del voto e alla collocazione effettiva dei beati
in Paradiso, che saranno spiegati da Beatrice nei Canti IV-V, mentre alla fine di questo il fulgore con cui la guida
di Dante abbaglia la sua vista lo rende a dimandar più tardo, proprio come lo sarà all'inizio del successivo perché
incerto su quale domanda rivolgerle per prima.

Note e passi controversi

Al v. 1 il sole è naturalmente Beatrice, in quanto primo amore di Dante e luce in grado di chiarire i suoi dubbi in
materia di fede.
I verbi provando e riprovando (v. 3) sono tecnicismi della Scolastica, poiché indicano i due momenti
dell'argomentazione di Beatrice del Canto precedente («riprovare» significa confutare, «provare» vuol dire portare
argomenti a favore della propria tesi).
Al v. 13 le postille sono le immagini riflesse sull'acqua.
Il v. 14 allude alla moda femminile del Due-Trecento di portare in fronte una perla appesa a una coroncina o a una
reticella.
I vv. 17-18 ricordano il mito di Narciso, che vedendo la propria immagine riflessa nell'acqua se ne innamorò
credendola reale (Dante incorre nello sbaglio opposto, poiché crede immagini riflesse quelle reali). La fonte è
Ovidio, Met., III, 407 ss.
Al v. 26 coto deriva da «cotare», «cogitare» e vuol dire «pensiero».
La spera più tarda (v. 51) è il Cielo della Luna, che è il più vicino alla Terra e quello che ha minor raggio, quindi
ruota più lento.
Al v. 57 è presente il bisticcio vóti / vòti, ovvero «voti» / «vuoti» (nel senso di non compiuti).
Al v. 63 latino significa «chiaro», «facile a intendersi» ed è attestato nella lingua del tempo.
Il primo foco del v. 69 è certamente lo Spirito Santo, cioè Dio in quanto primo amore; altri hanno pensato al primo
amore per cui arde una donna, ma sembra immagine poco adatta a raffigurare una beata.
Capére (v. 76) significa «aver luogo» ed è termine della Scolastica che deriva dal lat. capere.
Ai vv. 95-96 il voto non portato a termine è paragonato a una tela non finita di tessere.
Al v. 97 inciela («colloca in cielo») è neologismo dantesco con quest'unica occorrenza nel poema.
Lo sposo citato al v. 101 è naturalmente Cristo, poiché la donna che diventava monaca si sposava con Lui (la
metafora delle nozze mistiche deriva dalle Scritture ed è largamente usata dagli scrittori della letteratura religiosa
del Due-Trecento).
Il secondo vento di Soave (v. 119) è Enrico VI, secondo imperatore della casa sveva, mentre il terzo e ultimo è
Federico II. Il termine vento è stato interpretato come «gloria», «potenza» e anche «superbia».

CANTO VI
Testo Parafrasi
«Poscia che Costantin l’aquila volse «Dopo che Costantino portò l'aquila imperiale contro
contr’al corso del ciel, ch’ella seguio il corso del cielo (da Occidente a Oriente), che essa
dietro a l’antico che Lavina tolse, seguì dietro a Enea che prese in sposa Lavinia,
3 l'uccello divino rimase più di duecento anni
nell'estremità dell'Europa, vicino ai monti della Troade
cento e cent’anni e più l’uccel di Dio dai quali iniziò il suo volo;
ne lo stremo d’Europa si ritenne,
vicino a’ monti de’ quai prima uscìo;
6
e lì governò il mondo all'ombra delle penne sacre,
e sotto l’ombra de le sacre penne passando di mano in mano, fino a giungere nelle mie.
governò ‘l mondo lì di mano in mano,
e, sì cangiando, in su la mia pervenne.
9 Fui imperatore romano e mi chiamo Giustiniano: sono
colui che, ispirato dallo Spirito Santo, eliminai dalle
Cesare fui e son Iustiniano, leggi ciò che era superfluo e ciò che era inutile.
che, per voler del primo amor ch’i’ sento,
d’entro le leggi trassi il troppo e ‘l vano. E prima che mi dedicassi a quest'opera, credevo che
12 in Cristo ci fosse la sola natura divina, ed ero
contento di questa fede;
E prima ch’io a l’ovra fossi attento,
una natura in Cristo esser, non piùe,
credea, e di tal fede era contento; ma il benedetto Agapito, che fu sommo pontefice, mi
15 indirizzò alla vera fede con le sue parole.

ma ‘l benedetto Agapito, che fue


sommo pastore, a la fede sincera Io gli credetti; e ora vedo ciò che era nella sua fede
mi dirizzò con le parole sue. così chiaramente, come tu vedi che in un giudizio
18 contraddittorio c'è una frase vera e una falsa.

Io li credetti; e ciò che ’n sua fede era, Non appena rientrai in seno alla Chiesa, Dio volle per
vegg’io or chiaro sì, come tu vedi sua grazia ispirarmi l'alta opera (il Corpus iuris civilis)
ogni contradizione e falsa e vera. e io mi dedicai anima e corpo ad esso;
21
e affidai le armi al mio generale Belisario, che fu
Tosto che con la Chiesa mossi i piedi, assistito dal cielo a tal punto che ciò fu segno che io
a Dio per grazia piacque di spirarmi dovessi fermarmi.
l’alto lavoro, e tutto ‘n lui mi diedi;
24
Ora qui termina la mia prima risposta; ma ciò che ho
e al mio Belisar commendai l’armi, detto mi induce a far seguire una aggiunta, affinché
cui la destra del ciel fu sì congiunta, tu veda quanto ingiustamente agiscano contro il
che segno fu ch’i’ dovessi posarmi. sacrosanto simbolo dell'aquila sia coloro che se ne
27 appropriano (i Ghibellini), sia coloro che gli si
oppongono (i Guelfi).
Or qui a la question prima s’appunta
la mia risposta; ma sua condizione
mi stringe a seguitare alcuna giunta,
30 Vedi quanta virtù ha reso il segno degno di riverenza;
e ciò iniziò dal giorno in cui Pallante morì per
perché tu veggi con quanta ragione assicurargli un regno.
si move contr’al sacrosanto segno
e chi ‘l s’appropria e chi a lui s’oppone.
33 Tu sai che esso dimorò più di trecento anni ad Alba
Longa, fino al momento in cui Orazi e Curiazi
Vedi quanta virtù l’ha fatto degno lottarono ancora per lui.
di reverenza; e cominciò da l’ora
che Pallante morì per darli regno.
36 E sai cosa fece dal ratto delle Sabine fino all'oltraggio
a Lucrezia, all'epoca dei sette re di Roma, vincendo i
Tu sai ch’el fece in Alba sua dimora popoli circonvicini.
per trecento anni e oltre, infino al fine
che i tre a’ tre pugnar per lui ancora.
39 Sai che cosa fece, portato dai nobili Romani contro
Brenno e Pirro, e contro altre repubbliche e monarchi
E sai ch’el fé dal mal de le Sabine dell'Italia;
al dolor di Lucrezia in sette regi,
vincendo intorno le genti vicine.
42 per cui Torquato e Quinzio Cincinnato, che fu detto
così per la chioma trascurata, nonché Deci e Fabi
Sai quel ch’el fé portato da li egregi ebbero la fama che io volentieri onoro.
Romani incontro a Brenno, incontro a Pirro,
incontro a li altri principi e collegi; Esso abbatté l'orgoglio dei Cartaginesi che al seguito
45 di Annibale passarono le Alpi, dalle quali tu, o fiume
Po, discendi.
onde Torquato e Quinzio, che dal cirro
negletto fu nomato, i Deci e ‘ Fabi
ebber la fama che volontier mirro. Sotto di esso trionfarono, da giovani, Scipione e
48 Pompeo; e parve amaro a quel colle (Fiesole) sotto il
quale tu sei nato.
Esso atterrò l’orgoglio de li Aràbi
che di retro ad Annibale passaro
l’alpestre rocce, Po, di che tu labi. Poi, quando fu vicino il tempo in cui il Cielo volle far
51 diventare tutto il mondo sereno a sua immagine (per
la nascita di Cristo), Cesare assunse il segno
Sott’esso giovanetti triunfaro dell'aquila per volere di Roma.
Scipione e Pompeo; e a quel colle
sotto ’l qual tu nascesti parve amaro. E ciò che esso (con Cesare) fece in dal fiume Varo
54 fino al Reno, lo videro l'Isère, la Loira, la Senna e
ogni valle di cui è pieno il Rodano.
Poi, presso al tempo che tutto ’l ciel volle
redur lo mondo a suo modo sereno, Quello che fece dopo essere uscito da Ravenna ed
Cesare per voler di Roma il tolle. aver passato il Rubicone, fu un volo così veloce che
57 né la lingua né la penna potrebbero descriverlo.

E quel che fé da Varo infino a Reno, Rivolse le truppe contro la Spagna e poi verso
Isara vide ed Era e vide Senna Durazzo, e colpì Farsàlo a tal punto che il dolore
e ogne valle onde Rodano è pieno. arrivò sino al caldo Nilo.
60

Quel che fé poi ch’elli uscì di Ravenna L'aquila rivide il porto di Antandro e il fiume Simoenta
e saltò Rubicon, fu di tal volo, da cui si mosse, e il sepolcro di Ettore; e poi ripartì
che nol seguiteria lingua né penna. per l'Egitto, con nefaste conseguenze per Tolomeo.
63
Da lì scese come una folgore contro Giuba, re di
Inver’ la Spagna rivolse lo stuolo, Mauritania, e poi si portò nell'Occidente del vostro
poi ver’ Durazzo, e Farsalia percosse mondo, dove sentiva la tromba dei Pompeiani.
sì ch’al Nil caldo si sentì del duolo.
66 Di quello che esso fece col successore di Cesare
(Ottaviano), Bruto e Cassio ancora latrano
Antandro e Simeonta, onde si mosse, nell'Inferno e Modena e Perugia ne furono dolenti.
rivide e là dov’Ettore si cuba;
e mal per Tolomeo poscia si scosse. Ne piange ancora la triste Cleopatra, che,
69 fuggendogli davanti, si diede la morte improvvisa e
atroce col serpente.
Da indi scese folgorando a Iuba;
onde si volse nel vostro occidente,
ove sentia la pompeana tuba. Con Ottaviano l'aquila corse fino al Mar Rosso; con
72 lui ridusse il mondo in pace, al punto che fu chiuso il
tempio di Giano.
Di quel che fé col baiulo seguente,
Bruto con Cassio ne l’inferno latra,
e Modena e Perugia fu dolente. Ma ciò che il segno di cui parlo aveva fatto in
75 precedenza e avrebbe fatto dopo per il regno mortale
che gli è sottomesso, diventa poca cosa in apparenza
Piangene ancor la trista Cleopatra, se lo si paragona a ciò che fece col terzo imperatore
che, fuggendoli innanzi, dal colubro (Tiberio), se si guarda con chiarezza e sincerità;
la morte prese subitana e atra.
78

Con costui corse infino al lito rubro;


con costui puose il mondo in tanta pace, infatti la giustizia divina che mi ispira gli concesse, in
che fu serrato a Giano il suo delubro. mano a Tiberio, la gloria di punire il peccato originale
81 (con la crocifissione di Cristo).

Ma ciò che ‘l segno che parlar mi face Ora prendi ammirazione per ciò che aggiungo: in
fatto avea prima e poi era fatturo seguito con Tito corse a vendicare la vendetta
per lo regno mortal ch’a lui soggiace, dell'antico peccato (con la distruzione di
84 Gerusalemme).

diventa in apparenza poco e scuro, E quando la violenza dei Longobardi si rivolse contro
se in mano al terzo Cesare si mira la Santa Chiesa, Carlo Magno la soccorse sotto le ali
con occhio chiaro e con affetto puro; dell'aquila, sconfiggendo quel popolo.
87
Ormai puoi giudicare la condotta di quelli che ho
ché la viva giustizia che mi spira, accusato prima e le loro colpe, che sono causa di tutti
li concedette, in mano a quel ch’i’ dico, i vostri mali.
gloria di far vendetta a la sua ira.
90
Gli uni (i Guelfi) oppongono al simbolo imperiale i
Or qui t’ammira in ciò ch’io ti replìco: gigli gialli della casa di Francia, e gli altri (i Ghibellini)
poscia con Tito a far vendetta corse se ne appropriano per la loro parte politica, così che
de la vendetta del peccato antico. è arduo stabilire chi sbagli di più.
93
I Ghibellini facciano la loro politica sotto un altro
E quando il dente longobardo morse simbolo, giacché chi lo separa sempre dalla giustizia
la Santa Chiesa, sotto le sue ali ne fa un cattivo uso;
Carlo Magno, vincendo, la soccorse.
96
e non creda di abbatterlo coi suoi Guelfi Carlo II
Omai puoi giudicar di quei cotali d'Angiò, ma abbia timore dei suoi artigli che
ch’io accusai di sopra e di lor falli, scuoiarono leoni più feroci di lui.
che son cagion di tutti vostri mali.
99
Molte volte i figli hanno già pagato per le colpe dei
L’uno al pubblico segno i gigli gialli padri, e quindi non creda Carlo che Dio cambi il
oppone, e l’altro appropria quello a parte, proprio simbolo con i suoi gigli!
sì ch’è forte a veder chi più si falli.
102
Questo piccolo pianeta (Mercurio) accoglie i buoni
Faccian li Ghibellin, faccian lor arte spiriti che sono stati attivi nella ricerca dell'onore e
sott’altro segno; ché mal segue quello della fama:
sempre chi la giustizia e lui diparte;
105
e quando i desideri sono rivolti a questo, così
e non l’abbatta esto Carlo novello deviando dal loro fine, è inevitabile che l'amore sia
coi Guelfi suoi, ma tema de li artigli meno rivolto verso Dio.
ch’a più alto leon trasser lo vello.
108
Tuttavia, se paragoniamo i nostri premi col nostro
Molte fiate già pianser li figli merito, ciò ci induce letizia, poiché non li vediamo né
per la colpa del padre, e non si creda minori né maggiori.
che Dio trasmuti l’arme per suoi gigli!
111
In tal modo la giustizia divina addolcisce il nostro
Questa picciola stella si correda sentimento, così che esso non può mai essere rivolto
di buoni spirti che son stati attivi a un pensiero malvagio.
perché onore e fama li succeda:
114
Diverse voci producono dolci melodie; così i diversi
e quando li disiri poggian quivi, gradi della nostra beatitudine rendono una dolce
sì disviando, pur convien che i raggi armonia in questi Cieli.
del vero amore in sù poggin men vivi.
117
E dentro questa stella risplende la luce di Romeo di
Ma nel commensurar d’i nostri gaggi Villanova, la cui opera bella e grande fu poco
col merto è parte di nostra letizia, apprezzata.
perché non li vedem minor né maggi.
120
Ma i Provenzali, che agirono contro di lui, non hanno
Quindi addolcisce la viva giustizia riso (furono puniti) e dunque percorre una cattiva
in noi l’affetto sì, che non si puote strada chi è invidioso e considera un proprio danno le
torcer già mai ad alcuna nequizia. buone azioni degli altri.
123
Raimondo Berengario ebbe quattro figlie, ognuna
Diverse voci fanno dolci note; sposa di re, e ciò fu il risultato dell'opera di Romeo,
così diversi scanni in nostra vita persona umile e straniera.
rendon dolce armonia tra queste rote.
126
E poi le parole invidiose dei cortigiani lo indussero a
E dentro a la presente margarita chiedere conto dell'operato di quel giusto, che aveva
luce la luce di Romeo, di cui accresciuto le rendite statali, per cui Romeo se ne
fu l’ovra grande e bella mal gradita. andò povero e vecchio;
129
e se il mondo sapesse con quanta dignità si ridusse a
Ma i Provenzai che fecer contra lui mendicare il pane, lo loderebbe ancor più di quanto
non hanno riso; e però mal cammina già non faccia
qual si fa danno del ben fare altrui.
132

Quattro figlie ebbe, e ciascuna reina,


Ramondo Beringhiere, e ciò li fece
Romeo, persona umìle e peregrina.
135

E poi il mosser le parole biece


a dimandar ragione a questo giusto,
che li assegnò sette e cinque per diece,
138

indi partissi povero e vetusto;


e se ‘l mondo sapesse il cor ch’elli ebbe
mendicando sua vita a frusto a frusto,

assai lo loda, e più lo loderebbe».


142

Argomento del Canto


Ancora nel II Cielo di Mercurio. Giustiniano si presenta a Dante. Digressione sulla storia dell'Impero romano.
Invettiva contro i Guelfi e i Ghibellini. Condizione degli spiriti operanti per la gloria terrena. Presentazione di Romeo
di Villanova.
È la sera di mercoledì 13 aprile (o 30 marzo) del 1300.

Giustiniano narra la sua vita (1-27)


Giustiniano risponde alla prima domanda di Dante, spiegando che dopo che Costantino aveva portato l'aquila
imperiale (la capitale dell'Impero) a Costantinopoli erano passati più di duecento anni, durante i quali l'uccello
sacro era passato di mano in mano giungendo infine nelle sue. Egli si presenta dunque come imperatore romano
e dice di chiamarsi Giustiniano, colui che su ispirazione dello Spirito Santo riformò la legislazione romana. Prima
di dedicarsi a tale opera egli aveva aderito all'eresia monofisita, credendo che in Cristo vi fosse solo la natura
divina, ma poi papa Agapito lo aveva ricondotto alla vera fede e a quella verità che, adesso, egli legge nella
mente di Dio. Non appena l'imperatore fu tornato in seno alla Chiesa, Dio gli ispirò l'alta opera legislativa e si
dedicò tutto ad essa, affidando le spedizioni militari al generale Belisario che ebbe il favore del Cielo.

Ragioni della digressione sul'Impero (28-36)


Fin qui Giustiniano avrebbe risposto alla prima domanda di Dante, ma la sua risposta lo obbliga a far
seguire un'aggiunta, affinché il poeta si renda conto quanto sbagliano coloro che si oppongono al
simbolo sacro dell'aquila (i Guelfi) e coloro che se ne appropriano per i loro fini (i Ghibellini). Il simbolo
imperiale è degno del massimo rispetto, e ciò è iniziato dal primo momento in cui Pallante morì
eroicamente per assicurare la vittoria di Enea.

Storia dell'aquila: dai re alla Repubblica (37-54)


Giustiniano ripercorre le vicende storiche dell'aquila imperiale, da quando dimorò per trecento anni in Alba Longa
fino al momento in cui Orazi e Curiazi si batterono fra loro. Seguì il ratto delle Sabine, l'oltraggio a Lucrezia che
causò la cacciata dei re e le prime vittorie contro i popoli vicini a Roma; in seguito i Romani portarono l'aquila contro
i Galli di Brenno, contro Pirro, contro altri popoli italici, guerre che diedero gloria a Torquato, a Quinzio Cincinnato,
ai Deci e ai Fabi. L'aquila sbaragliò i Cartaginesi che passarono le Alpi al seguito di Annibale, là dove nasce il
fiume Po; sotto le insegne imperiali conobbero i loro primi trionfi Scipione e Pompeo, e l'aquila parve amara al colle
di Fiesole, sotto il quale nacque Dante.
Storia dell'aquila: l'età imperiale (55-96)

Nel periodo vicino alla nascita di Cristo, l'aquila venne presa in mano da Cesare, che realizzò straordinarie imprese
in Gallia lungo i fiumi Varo, Reno, Isère, Loira, Senna, Rodano. Cesare passò poi il Rubicone e iniziò la guerra
civile con Pompeo, portandosi prima in Spagna, poi a Durazzo, vincendo infine la battaglia di Farsàlo e
costringendo Pompeo a riparare in Egitto. Dopo una breve deviazione nella Troade, sconfisse Tolomeo in Egitto e
Iuba, re della Mauritania, per poi tornare in Occidente dove erano gli ultimi pompeiani. Il suo successore Augusto
sconfisse Bruto e Cassio, poi fece guerra a Modena e Perugia, infine sconfisse Cleopatra che si uccise facendosi
mordere da un serpente. Augusto portò l'aquila fino al Mar Rosso, garantendo a Roma la pace e facendo addirittura
chiudere per sempre il tempio di Giano. Ma tutto ciò che l'aquila aveva fatto fino ad allora diventa poca cosa se si
guarda al terzo imperatore (Tiberio), poiché la giustizia divina gli concesse di compiere la vendetta del peccato
originale, con la crocifissione di Cristo. Successivamente con Tito punì la stessa vendetta, con la conquista di
Gerusalemme; poi, quando la Chiesa di Roma fu minacciata dai Longobardi, fu soccorsa da Carlo Magno.

Invettiva contro Guelfi e Ghibellini (97-111)


Terminata la sua digressione, Giustiniano invita Dante a giudicare l'operato di Guelfi e Ghibellini che è causa dei
mali del mondo: i primi si oppongono al simbolo imperiale dell'aquila appoggiandosi ai gigli d'oro della casa di
Francia, i secondi se ne appropriano per i loro fini politici, per cui è arduo stabilire chi dei due sbagli di più. I
Ghibellini dovrebbero fare i loro maneggi sotto un altro simbolo, poiché essi lo separano dalla giustizia; Carlo II
d'Angiò, d'altronde, non creda di poterlo abbattere coi suoi Guelfi, dal momento che l'aquila coi suoi artigli ha
scuoiato leoni più feroci di lui. I figli spesso pagano le colpe dei padri e Dio non cambierà certo il simbolo dell'aquila
con quello dei gigli della monarchia francese.

Condizione degli spiriti nel II Cielo (112-126)


Giustiniano risponde alla seconda domanda di Dante e spiega che il Cielo di Mercurio ospita gli spiriti che in vita
hanno perseguito onore e fama, per cui quando i desideri sono rivolti alla gloria terrena è inevitabile che si
ricerchi in minor misura l'amor divino. Tuttavia, spiega Giustiniano, lui e gli altri beati sono lieti della loro
condizione, in quanto i premi sono commisurati al loro merito e la giustizia divina è tale che non possono nutrire
alcun pensiero negativo. Voci diverse producono dolci melodie, e così i vari gradi di beatitudine producono una
dolcissima armonia nelle sfere celesti.

Romeo di Villanova (127-142)


Giustiniano indica a Dante l'anima di Romeo di Villanova, che splende in questo stesso Cielo e la cui grande
opera fu sgradita ai Provenzali, che tuttavia hanno pagato cara la loro ingratitudine nei suoi confronti. Raimondo
Berengario IV, conte di Provenza, ebbe quattro figlie e grazie all'opera dell'umile Romeo tutte furono regine; poi
le parole invidiose degli altri cortigiani lo indussero a chiedere conto del suo operato a Romeo, che aveva
accresciuto le rendite statali. Egli se n'era andato via, vecchio e povero, e se il mondo sapesse con quanta
dignità si ridusse a chieder l'elemosina, lo loderebbe assai più di quanto già non faccia.

Interpretazione complessiva
Il Canto è occupato interamente dal discorso dell'imperatore Giustiniano (caso unico nel poema) che risponde alle
due domande che Dante gli ha posto alla fine del precedente, rivelando cioè la sua identità e spiegando la
condizione degli spiriti del II Cielo: nella parte centrale fa seguire alla prima risposta una «giunta» che è una
digressione sulla storia dell'Impero romano e della sua funzione provvidenziale, per cui il tema del Canto è politico
come il VI di ogni Cantica (secondo una gradazione crescente, da Firenze, all'Italia, all'Impero). La ragione della
lunga digressione è mostrare, nelle intenzioni del personaggio, la cattiva condotta di Guelfi e Ghibellini nei confronti
dell'aquila simbolo dell'Impero, in quanto i primi vi si oppongono e i secondi se ne appropriano per i loro fini politici,
causando molti dei mali politici che affliggono l'Italia e l'Europa del tempo; soluzione a questi mali è, secondo
Dante, l'Impero universale, ovvero un'autorità che imponga il rispetto delle leggi e assicuri a tutti la giustizia,
ponendo fine alla situazione di anarchia e instabilità che caratterizza soprattutto l'Italia (è lo stesso motivo presente
nel VI del Purgatorio, con esplicito riferimento alle leggi emanate da Giustiniano e non fatte rispettare). Proprio
questo spiega, forse, perché Dante affidi a Giustiniano l'alta celebrazione dell'Impero provvidenziale, nonostante
egli fosse un monarca dell'Impero orientale e avesse regnato su Costantinopoli e non su Roma: egli aveva emanato
il Corpus iuris civilis che fu poi base del diritto di tutto il mondo romanizzato del Medioevo, un'opera giuridica
immensa a cui Dante assegnava un alto valore, oltre al fatto che Giustiniano aveva tentato di ricostituire l'antica
unità dell'Impero con la riconquista di Roma e dell'Italia. A tale riguardo non è da escludere che il poeta biasimasse
Costantino per aver portato la capitale a Bisanzio, facendo fare all'aquila un volo contr'al corso del ciel e quindi
contro natura, specie perché nel Medioevo si pensava che ciò fosse avvenuto in seguito alla famigerata donazione
che per Dante era causa dei mali della Chiesa (va detto, in ogni caso, che Costantino figura tra i beati del Cielo di
Giove, gli spiriti giusti che formano proprio la figura dell'aquila, quindi l'eventuale condanna non va intesa in senso
troppo netto).
Quale che sia il motivo della scelta di Dante, il poeta mette in bocca a Giustiniano un alto e solenne discorso che
inizia con la prosopopea dell'imperatore che si presenta come l'autore della riforma legislativa e della vittoriosa
spedizione in Occidente, sia pur affidata al generale Belisario (i contrasti con quest'ultimo vengono taciuti dal
poeta), opere che hanno goduto entrambe del favore divino e, anzi, l'emanazione del Corpus sarebbe stata ispirata
addirittura dallo Spirito Santo. Il volere divino ha determinato anche la creazione dell'Impero, il cui valore
provvidenziale è al centro di tutta la successiva digressione: Giustiniano ripercorre le vicende storiche di Roma
attraverso il volo simbolico dell'aquila, simbolo politico e militare del dominio romano, dalle mitiche origini troiane
(evocate attraverso il riferimento a Enea, l'antico che Lavina tolse, e il sacrificio di Pallante), al periodo monarchico,
fino alla creazione della Repubblica, citando i più rappresentativi personaggi della storia romana (fonte principale,
se non l'unica, è sicuramente Livio). Il punto finale di tutto questo processo è ovviamente la nascita del principato
con Cesare e Augusto, voluta da Dio per unificare il mondo in un'unica legge e favorire così la venuta di Cristo:
dopo la celebrazione di coloro che per Dante erano i due primi imperatori, vi è quella del terzo (Tiberio) sotto il cui
dominio Cristo viene crocifisso, evento centrale nella storia umana e che ha la funzione di punire il peccato
originale; in seguito tale punizione viene a sua volta punita da Tito, artefice della distruzione di Gerusalemme che
Dante gli attribuisce quando era già imperatore, mentre in realtà ciò avvenne sotto Vespasiano (tale affermazione
susciterà i dubbi del poeta che saranno chiariti da Beatrice nel Canto seguente). Il disegno provvidenziale si
esaurisce qui, poiché negli anni seguenti l'Impero inizia il suo lento declino culminato proprio nel trasferimento della
capitale a Bisanzio e nella successiva divisione tra Oriente e Occidente, cui sarà Giustiniano a porre rimedio sia
pure in modo effimero; da qui si arriva velocemente a Carlo Magno, protettore della Chiesa contro i Longobardi e,
quindi, legittimo erede dell'autorità imperiale (Dante afferma una volta di più che l'Impero germanico è erede e
continuatore di quello romano, quindi legittimato a imporre la sua autorità su tutto il mondo come ribadito più volte
nel poema e nella Monarchia). Dalla digressione nasce poi l'aspra invettiva contro Guelfi e Ghibellini, che per motivi
diversi oltraggiano il sacrosanto segno e sono da biasimare in quanto causa dei mali politici dell'Europa di inizio
Trecento: l'attacco è soprattutto contro Carlo II d'Angiò, più volte biasimato da Dante nel poema (cfr. soprattutto
Purg., VII, 124 ss.; XX, 79-81) e contro cui Giustiniano rivolge un duro richiamo affinché non si illuda che la
monarchia francese possa sostituirsi all'autorità dell'Impero, che è la stessa polemica portata avanti da Dante
contro il re di Francia Filippo il Bello (cfr. Purg., XXXII, con l'analoga simbologia dell'aquila imperiale).
La risposta alla seconda domanda di Dante, ovvero la condizione degli spiriti operanti per la gloria terrena (che
godono di un minore grado di beatitudine ma non se ne dolgono, confermando quindi quanto già dichiarato da
Piccarda Donati) dà modo a Giustiniano di concludere il Canto indicando un altro beato di questo Cielo, quel Romeo
di Villanova ministro del conte di Provenza Raimondo Berengario e vittima, secondo una diffusa diceria, delle
calunnie degli altri cortigiani che lo costrinsero a lasciare la corte vecchio e povero. Non si tratta solo di un edificante
esempio di cristiana rassegnazione, dal momento che tale aneddoto ha una valenza politica che si collega al tema
centrale del Canto: la figura di Romeo, cacciato dalla Provenza nonostante il suo ben operare, adombra quella di
Dante stesso, che subì la stessa condanna da parte dei Fiorentini che si pentiranno del loro gesto, come è toccato
ai Provenzali passati sotto la tirannia degli Angioini (e il riferimento è quindi a Carlo II d'Angiò citato poco prima).
L'ingiusto destino che accomuna Dante e Romeo è anche il prodotto della decadenza politica, quindi (nel caso di
Dante) è causato dall'assenza di un potere imperiale in grado di applicare le leggi e assicurare la giustizia; secondo
alcuni Giustiniano loda la figura di Romeo per fare ammenda della sua condotta verso Belisario, il grande generale
con cui ebbe contrasti e che sollevò dal suo incarico alla fine della guerra greco-gotica, ipotesi suggestiva anche
se non suffragata da elementi certi. Di sicuro l'accenno a Romeo che, ridotto in miseria, è obbligato a chiedere
l'elemosina, ricorda molto la figura di Provenzan Salvani (Purg., XI, 133 ss.) in cui Dante si identificava in quanto
anche lui, durante l'esilio, dovrà mendicare l'aiuto dei potenti: l'umiliazione di questi personaggi è la stessa che
subirà l'orgoglioso poeta e che gli sarà profetizzata da Cacciaguida nel Canto XVII del Paradiso, proprio nel
momento in cui gli affiderà l'alta missione morale e poetica che è al centro di questa Cantica e di tutto il poema.

Note e passi controversi

I vv. 1-3 alludono al trasferimento della capitale imperiale da Roma a Bisanzio compiuto da Costantino, che portò
l'aquila simbolo dell'Impero da occidente a oriente: il percorso è contrario rispetto a quello da Troia al Lazio seguito
da Enea (l'antico che Lavina tolse, cioè prese che in moglie Lavinia), nel che alcuni studiosi hanno visto una critica
a Costantino. Da quel momento all'incoronazione di Giustiniano passarono meno di duecento anni (v. 4), ma Dante
segue probabilmente la cronologia di Brunetto Latini che nel Trésor indica le date del 333 e del 539, quindi con un
intervallo di 206 anni.
I monti citati al v. 6 sono quelli della Troade.
Al v. 10 l'imperatore si presenta con un elegante chiasmo (Cesare fui... son Iustiniano) e con i diversi tempi verbali
relativi al ruolo di imperatore in vita e all'identità personale (cfr. Purg., V, 88: Io fui di Montefeltro, io son Bonconte).
Il primo amor (v. 11) che ispirò a Giustiniano l'opera legislativa è lo Spirito Santo.
Agapito (v. 16) fu papa nel 533-536: si recò a Costantinopoli per trattare la pace coi Goti e il basileus bizantino, e
in quell'occasione avrebbe convinto Giustiniano del suo errore quanto al monofisismo (la fonte è il Trésor).
Il v. 21 indica che Giustiniano vede le verità di fede chiaramente, come Dante vede che in un giudizio contraddittorio
una frase è falsa e una è vera (è il principio aristotelico di «non contraddizione»: se si dice che Socrate o è vivo o
è morto, vuol dire che una delle due frasi è vera, l'altra per forza falsa, in quanto tertium non datur). La parola
«fede» è ripetuta tre volte da Giustiniano, ai vv. 15, 17, 19.
Nella lunga digressione sull'Impero (vv. 34-96) il soggetto è quasi sempre l'aquila, simbolo dell'autorità imperiale.
Il v. 39 allude alla leggenda degli Orazi e dei Curiazi, che secondo il racconto di Livio (Ab Urbe condita, I, 24 ss.)
lottarono a tre a tre per decidere le sorti della guerra tra Roma e Alba Longa.
I vv. 43-45 accennano alla guerra di Roma contro i Galli di Brenno (387 a.C.), contro Pirro (282-272 a.C.) e contro
altri monarchi e repubbliche dell'Italia centrale.
Torquato e Quinzio (v. 46) sono rispettivamente T. Manlio Torquato, vincitore di Galli e Latini, e L. Quinzio
Cincinnato, vincitore degli Equi, così chiamato perché era ricciuto e non per la chioma arruffata (cirro negletto);
l'errore, presente anche in Petrarca, nasce forse da una chiosa errata di Uguccione da Pisa.
Al v. 49 i Cartaginesi di Annibale sono detti anacronisticamente Aràbi, come i genitori di Virgilio erano detti
Lombardi (Inf., I, 68).
Il colle citato al v. 53 è Fiesole, distrutta secondo la leggenda dai Romani (fra cui si pensava fosse anche Pompeo,
che in realtà era in Oriente) dopo la guerra con Catilina.
I fiumi citati ai vv. 58-60 sono tutti della Gallia e videro le imprese di Cesare: Varo e Reno costituiscono i confini
occidentale e settentrionale, l'Isara è l'Isère, l'Era è prob. la Loira (ma potrebbe essere la Saône, detta Arar in
latino).
I vv. 67-39 alludono alla deviazione che Cesare avrebbe fatto nella Troade per visitare il sepolcro di Ettore, mentre
inseguiva Pompeo in Egitto: Antandro e Simeonta (Simoenta nella grafia latina) sono rispettivamente il porto della
Frigia da cui salpò Enea e il fiume che scorreva accanto a Troia.
Al v. 73 bàiulo indica «portatore» ed è latinismo.
Il lito rubro (v. 79) è il Mar Rosso, con cui si allude alla conquista da parte di Ottaviano dell'Egitto.
Il terzo Cesare (v. 86) è Tiberio, che per Dante era il terzo imperatore (dopo Cesare e Augusto).
I vv. 91-93 alludono alla distruzione del Tempio di Gerusalemme operata da Tito nel 70 d.C., giusta punizione
secondo la dottrina medievale per la crocifissione di Cristo: in realtà Tito non era ancora succeduto al padre
Vespasiano.
Al v. 106 Carlo novello è Carlo II d'Angiò, figlio e successiore di Carlo I.
I vv. 109-110 non sono chiarissimi, poiché Dante apprezzava i figli di Carlo II (specie Carlo Martello, che fu suo
amico) e non sembra verosimile che qui profetizzi le loro sventure come punizione divina del padre; forse la
massima è generale.
Al v. 118 gaggi vuol dire «premi», «riconoscimenti» (è francesismo).
Le quattro figlie (v. 133) di Raimondo Berengario IV furono Margherita, moglie di Luigi IX il Santo re di Francia;
Eleonora, moglie di Enrico III d'Inghilterra; Sancia, moglie di Riccardo conte di Cornovaglia e re dei Romani nel
1257; Beatrice, moglie di Carlo I d'Angiò. Secondo la tradizione cui si rifà Dante, questi quattro matrimoni regali
furono tutti organizzati da Romeo di Villanova.
L'espressione a frusto a frusto (v. 141) significa «a tozzo a tozzo» e allude al fatto che Romeo dovette mendicare
il pane.

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