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Unificazione della Germania

L’unificazione della Germania, avvenuta nel 1871, fu realizzata dalla monarchia prussiana
attraverso la progressiva annessione degli stati della Confederazione germanica grazie a una
sequenza di campagne militari e alla capacità dello sviluppo economico e politico dell’area.
La Prussia era lo stato tedesco più dinamico economicamente e più compatto dal punto di vista
sociale e politico, più attrezzato militarmente. Artefice dell’unificazione germanica fu il cancelliere
Ottone di Bismarck (eletto dal re nel 1862), era un convinto antiliberale: riteneva che l’unità e la
forza dello stato fossero da privilegiare rispetto a ogni esigenza di libertà; attuò una serie di
provvedimenti che conferirono al sistema politico prussiano un carattere sempre più autoritario.
L’idea-guida di Bismarck era ottenere l’unificazione attraverso la progressiva espansione della
Prussia. Riuscì a ottenere alla sua politica l’appoggio non solo del blocco del potere dominante ma
anche quello dell’opinione pubblica liberale. Realizzò l’unificazione attraverso uno scontro prima
con l’Austria, che sconfisse sul piano politico e anche militare, poi con la Francia, attirando nella
propria orbita tutti gli stati minori tedeschi. Nel gennaio del 1871, a Versailles, nacque il Secondo
Reich, una nuova grande potenza economica, politica e militare nel cuore stesso dell’Europa.

La svolta del 1848


Il biennio precedente allo scoppio rivoluzionario del ‘48 parve avvalorare l’ipotesi moderata, con
l’elezione al soglio pontificio di Pio IX, che mostrava inclinazioni liberali, e il cauto riformismo di
quasi tutti i sovrani della penisola. Ma il moderatismo di queste riforme, che deluse le aspettative di
liberali e democratici, e la crisi economica europea, che investì anche l’Italia, crearono una
situazione favorevole all’accensione della miccia rivoluzionaria.
La rivoluzione scoppiò a Palermo, dove la monarchia aveva con più forza manifestato la propria
opposizione alla politica di riforme. L’insurrezione democratica puntava alla promulgazione di una
Costituzione e all’indipendenza da Napoli. L’ improvviso cedimento di Ferdinando II impresse una
forte accelerazione a tutta la crisi italiana. Toscana, Piemonte e Stato Pontificio seguirono l’esempio
napoletano, concedendo Costituzioni, sia pure molto moderate. Nel Lombardo - Veneto, il rifiuto
degli austriaci di concedere riforme, unito all’eco che scuotevano l’impero asburgico, portò allo
scoppio della rivoluzione: i veneziani cacciarono gli austriaci, liberarono i patrioti dal carcere e fu
proclamata la repubblica di San Marco sotto un governo provvisorio; i milanesi in cinque giorni di
durissimi combattimenti (“cinque giornate di Milano”), una vera e propria guerra di popolo
sconfissero le truppe austriache comandate dal generale Radetzky. A questo punto occorreva
decidere come proseguire la lotta.
Prima guerra di indipendenza -> A Milano i moderati, che avevano assunto la guida
dell’insurrezione, cercarono l’appoggio del Piemonte, proponendo a Carlo Alberto un intervento
armato. Carlo Alberto esitava ad intervenire perché da un lato temeva i riflessi internazionali della
decisione di muovere guerra all’Austria e dubitava dell’efficienza dell’esercito piemontese;
dell’altra lo attiravano la possibilità di realizzare il disegno espansionistico e la prospettiva di
assumere un ruolo di sovrano “nazionale”. Il 23 marzo sciolse i suoi dubbi e dichiarò guerra
all’Austria. Dopo le prime vittorie ed il tradimento dei sovrani che inizialmente l’appoggiavano, la
reazione militare austriaca, fecero frenare le speranze di successo: sconfitto a Custoza nel luglio del
1848, Carlo Alberto si ritirò.
Dopo il fallimento dei moderati, furono i democratici e i mazziniani a riprendere la guida della lotta
nazionale. A Roma, Pio IX, investito dal dissenso popolare, fu costretto a fuggire.
Fu eletta a suffragio universale un’Assemblea costituente che dichiarò la fine del potere temporale
del papa e proclamò la Repubblica romana. Lo stesso accade in Toscana.
La situazione interna e internazionale non era favorevole al successo del programma repubblicano
e unitario. Carlo Alberto, mosso dal proposito di recuperare prestigio e di riprendere il controllo del
movimento nazionale, decise di rompere la tregua con l’Austria; venne sconfitto definitivamente
dopo pochi giorni a Novara e dovette abdicare in favore del figlio Vittorio Emanuele II.
Mentre la rivoluzione europea si spegneva, le città italiane, che si erano liberate dagli austriaci,
venivano rimpossessati dagli stessi.

Il Piemonte liberale e Cavour


Nonostante la sconfitta nella guerra del 1848-49, il regno piemontese si affermò sempre più
decisamente come punto di riferimento fondamentale per il processo di unificazione del paese. Lo
statuto albertino rimase in vigore e, sotto la guida di Cavour, iniziò una incisiva opera di
modernizzazione economica e politica. Nel resto della penisola la repressione colpì duramente le
forze liberali e patriottiche, scavando un solco fra i governanti e l’opinione pubblica progressista.
Cavour fu il principale artefice della stagione riformistica degli anni cinquanta. La sua esperienza di
imprenditore lo rendeva particolarmente sensibile ai temi del rinnovamento dell’economia, della
società e dello stato. Solo modernizzandosi, pensava Cavour, il Piemonte avrebbe potuto mettersi
alla testa del processo di unificazione. La stabilità del governo, che non poggiava su una salda e
definita maggioranza parlamentare. Questo venne risolto dal connubio, un accordo parlamentare, da
parte del leader del centro-destra Cavour, con la sinistra moderata dell’opposizione. Una condizione
indispensabile per dare vita al modello di monarchia parlamentare con un ruolo del parlamento e del
governo rispetto al sovrano. La politica cavouriana fu liberista, nella convinzione che vi fosse uno
stretto legame tra protezionismo e socialismo. Ciò non impedì a Cavour di promuovere un vasto
programma di intervento nel settore delle infrastrutture e del credito, alleandosi con il ceto più
avanzato a costo di aggravare il debito pubblico. Cavour respingeva la politica di Mazzini e
considerava la monarchia liberale e costituzionale la prospettiva vincente per il problema italiano,
che egli concepiva in termini di una progressiva espansione dello statuto piemontese.
La ricerca delle necessarie alleanze internazionali spinse Cavour a impegnare il Piemonte della
guerra di Crimea, con scarsi risultati pratici ma con utili effetti propagandistici.
L’influenza politica di Cavour e del Piemonte cresceva negli anni cinquanta quanto più profonda
appariva la crisi del movimento democratico e mazziniano. Una nuova ondata di gravi insuccessi
colpì le iniziative insurrezionali fino alla tragica spedizione di Pisacane nel Mezzogiorno.

La conquista dell’Unità
La crisi dei democratici assegnò ai moderati la guida del processo unitario, il cui centro era ormai
divenuto il Piemonte. Nel 1857 fu fondata la Società nazionale italiana, organizzazione
clandestina per aggregare coloro che erano disposti a lottare per l’indipendenza intorno a casa
Savoia. Nei tardi anni cinquanta Cavour strinse legami sempre più forti con la Francia, in cui
individuava l’alleato migliore per giungere a uno scontro diretto con l’Austria. Questi rapporti
giunsero a compimento con gli accordi di Plombieres(1858) che impegnavano Napoleone III a
entrare in guerra a fianco del Piemonte nel caso di un’aggressione austriaca; in cambio otteneva
Nizza, la Savoia e l’egemonia di un’Italia confederale. Nel 1859, Cavour riuscì a trascinare
l’Austria in quella che poi sarebbe chiamata seconda guerra di indipendenza: ma gli iniziali
successi franco-piemontesi furono seguiti dal ritiro unilaterale di Napoleone III, che, preoccupato
dalle conseguenze interne ed internazionali della guerra, firmò con l’Austria l’armistizio di
Villafranca, che restituiva all’Italia la sola Lombardia. Grande fu la delusione di Cavour e dei
patrioti italiani: ma il processo unitario non si arrestò, perché nel frattempo Toscana, Parma,
Modena e le legazioni pontificie si erano ribellate, votando plebisciti di annessione al Piemonte.
Cavour riuscì a ottenere il consenso internazionale ai plebisciti: ma nel 1860 fu l’iniziativa dei
democratici a riaccendere la situazione, con la spedizione dei Mille che portò Garibaldi e i suoi
volontari in una trionfale marcia dalla Sicilia a Napoli, con conseguente sgretolamento dello stato
borbonico. L’impresa era stata compiuta da Garibaldi in nome di Vittorio Emanuele, ma la
conquista garibaldina del Mezzogiorno aprì un duro conflitto con Cavour, preoccupato di
un’evoluzione democratico - repubblicana della lotta per l’ indipendenza e delle possibili reazioni
internazionali, soprattutto nel caso di un attacco alla sovranità del papa. Cavour inviò allora una
spedizione che si impadronì dello Stato pontificio (Roma esclusa), costringendo Garibaldi a
piegarsi all’autorità del sovrano, nelle cui mani consegnò le regioni meridionali, che votarono con
plebisciti l’annessione al Piemonte. Il 17 marzo 1861 nasceva il regno d’Italia sotto Vittorio
Emanuele II.

La nuova Italia e il governo delle Destra


Nel quindicennio successivo all’unità, l’Italia fu guidata dalla Destra storica, un raggruppamento
politico di estrazione aristocratico – borghese, centro – settentrionale, e di orientamento liberale.
Gli uomini della Destra compirono scelte importanti e positive, ma in qualche caso anche gravide
per il futuro del paese.
Il primo problema che la Destra dovette affrontare fu il completamento dell’unificazione
nazionale. Se il Veneto venne annesso al regno d’Italia come frutto della vittoria prussiana contro
l’Austria nel 1866, ben più complessa fu la questione di Roma, ancora soggetta al dominio
temporale del papa e presidiata dai francesi. Mentre la sinistra mazziniana e garibaldina era
favorevole a un’azione di forza per conquistare la capitale, i liberali esitavano a intraprendere azioni
che avrebbero messo in pericolo il giovane stato anche sul piano internazionale. Infine, nel 1870,
approfittando della crisi francese seguita alla sconfitta con la Prussia, le truppe italiana entrarono a
Roma.
Grave era il ritardo economico – sociale dell’Italia nei confronti dei paesi più avanzati:
• Debito pubblico
• Arretratezza dell’agricoltura
• Fragilità dell’apparato industriale
• Debolezza infrastrutture
• Eterogeneità linguistica, culturale, amministrativa
• L’analfabetismo
La Destra li affrontò con la scelta di un deciso accentramento politico – amministrativo, con
l’estensione a tutto il regno della legislazione sabauda.

La politica della Destra attuò le seguenti decisioni:


• Libero scambio
• Sviluppo infrastrutture
• Risanamento del bilancio pubblico
• Aumento della pressione fiscale
L’ultimo punto ebbe ripercussione sociali e diede origine a conflitti che il governo affrontò con la
forza, come problemi di ordine pubblico.
Nel Mezzogiorno, dove i ceti popolari finirono con il percepire l’unificazione come una “conquista
dei piemontesi” e dove il disagio sociale si univa la propaganda borbonico – clericale contro il
nuovo stato, il conflitto esplose con il sanguinoso fenomeno del brigantaggio, stroncato dall’esercito
italiano con una vera e propria guerra, destinata a provocare, oltre che molte vittime, profonde
lacerazioni nel rapporta fra il Mezzogiorno e lo stato liberale unitario.

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