La dimensione probabilistica
In una dimensione probabilistica, imbattersi in un caso inatteso non
significa vedere contraddetta una regola, ma piuttosto, correggerne il
grado di probabilità.
Il quadro tracciato su questi presupposti dà indubbiamente una
immagine più fedele alla reale natura dei fatti linguistici:
le regole sono
1) in primo luogo uno strumento per descrivere le
regolarità osservabili nell’uso che della lingua fanno i
parlanti;
2) le regolarità non dipendono affatto dalle regole, è
vero, invece, il contrario;
3) inoltre, le regolarità non presuppongono un
discrimine netto e rigido tra ciò che ha diritto di
cittadinanza nella lingua e ciò che è escluso da essa.
Esse piuttosto, ricalcano un gradiente di accettabilità
che prevede, al suo interno, forme diverse che, a loro
volta, si contraddistinguono per differenti probabilità
di occorrenza: ciò che è probabile è generalmente
percepito come più regolare.
3. Regole ed errori
Il termine ‘errore’ individua un insieme molto vasto e articolato di
fenomeni linguistici, accomunati dall’essere percepiti in qualche
modo come devianti rispetto ad una ‘regola’ o ad una ‘norma’.
Le macrocategorie di errori: tali fenomeni possono essere in prima
istanza suddivisi in (almeno) due macrocategorie:
1) l’errore di esecuzione o di parole
→ Corrisponde a ciò che viene generalmente definito lapsus
linguae;
→ ha carattere non intenzionale e viene compiuto quando una
azione mentale volontaria non corrisponde alla sua consueta,
attesa, concretizzazione.
Il lapsus è il prodotto di una discrepanza tra il livello della
competenza (che suggerisce al parlante di applicare una certa
‘regola’) e quello dell’esecuzione ovvero della parole, dove la
‘regola’ non si concretizza e dove appare perciò un costrutto
deviante.
Chi lo commette spesso lo riconosce autonomamente e si
‘autocorregge’.
→ Esso è dunque asistematico, ma mostra significative regolarità,
analizzate soprattutto in ambito psicolinguistico (principalmente
quando esso sia correlabile a particolari disturbi o patologie).
→ Di esso non ci occuperemo nel seguito di questo volume, da
questo momento in poi con il termine ‘errore’ ci si riferirà solo
all’errore di apprendimento e acquisizione.
2) l’errore di apprendimento e acquisizione
→ Questo tipo di errore, invece, è sì inconsapevole, ma del tutto
intenzionale.
→ Esso corrisponde all’applicazione volontaria – seppure
inconscia – di una ‘regola’ che fa parte della competenza di
un parlante e che si è sviluppata a seguito di un processo di
astrazione a partire da un input.
→ L’errore di apprendimento è intenzionale ma inconsapevole
perché chi lo commette applica intenzionalmente una regola del
proprio sistema linguistico, non percependo tuttavia la
divergenza tra essa e quella degli altri parlanti
(convenzionalmente percepita come corretta e dunque usata
come termine di raffronto).
→ Nella percezione collettiva e ‘ingenua’, la tipica manifestazione
di quello che abbiamo appena definito errore di apprendimento
coincide con la mancata applicazione di una regola della
grammatica ‘ufficiale’: ma esso, talora, scaturisce dall’eccessiva
applicazione di una regola. > è il caso, ad es., di ipercorrettismi,
cioè dell’applicazione di una regola a forme che per ragioni
molteplici, non la richiedono. Ad es., le forme habbiamo e
havete sono errori prodotti dall’ applicazione di una regola alle
uniche due forme del presente indicativo del v. avere che non la
richiedono. > In questo caso, dunque, la regola ha un raggio
d’azione più ampio di quello che le viene attribuito nella varietà
considerata come norma.
→ A differenza di quanto accade nel lapsus, nell’errore di
apprendimento il parlante in genere non giunge, autonomamente,
all’autocorrezione. La correzione determina infatti una
ristrutturazione della competenza e necessita, quindi, di un
intervento esterno. La divergenza di cui si è detto poco fa emerge
dunque solo dal confronto con altre produzioni, passando dalla
dimensione individuale a quella sociale. > L’errore di
apprendimento nasce perciò dalla discrepanza tra due o più
competenze e dalla loro diversa proiezione al livello della
langue, dove, cioè una è percepita come corretta e una no . Tale
diversa rappresentazione è un fatto meramente convenzionale e
non dipende affatto dai costrutti linguistici coinvolti.
→ È evidente che l’errore di apprendimento mostra elementi di
contatto significativi con il processo dell’interferenza e del
contatto interlinguistico. In questo caso, non c’è interferenza tra
lingue diverse, ma tra livelli diversi o varietà diverse all’interno
dello stesso diasistema: si ha, dunque, una interferenza
intralinguistica.
→ Cadorna = l’errore linguistico di apprendimento da parte di un
membro di una comunità linguistica non è interno alla ‘sua
lingua’: egli pone in atto un comportamento coerente rispetto
alla sua competenza. L’errore emerge nella sua evidenza quando
viene confrontato con un’altra varietà di lingua, cioè con una
varietà di lingua ‘non sua’.
→ L’errore di apprendimento di fatto non esiste: non è deviante
rispetto ad una regola, è semplicemente la realizzazione di
un’altra regola. Esso emerge solo assumendo un punto di vista
esterno alla competenza del parlante (mentre lapsus è totalmente
interno ad essa). L’errore è tale solo per l’ascoltatore, non per il
parlante.
→ Andorno = la nozione di errore parrebbe dunque rilevante solo
nel campo dell’apprendimento di lingue seconde. Si tratta però
di una visione parziale, in quanto l’idea fondante delle
discipline che studiano le interlingue, o varietà di
apprendimento è che anche in questo caso oggetto di interesse si
ala sistematicità, cioè la presenza di regole, più che la devianza.
> Ovviamente queste regole possono dar luogo alla produzione
sistematica di costrutti devianti rispetto alla norma della lingua
target. Ma ciò che conta non è tanto la discrepanza rispetto ad
essa, quanto, piuttosto, il loro carattere sistematico, ‘regolare’
nella grammatica dell’apprendente: egli è un soggetto ‘attivo’,
che formula ipotesi sulla base di un input, cercando di costruire
un sistema linguistico logico e internamente coerente, sia pure
transitorio.
> In questo quadro, l’errore si configura come l’indicatore di una
regolarità… altra rispetto a quella della lingua target, nella
varietà assunta a riferimento. E diventa uno strumento utile per
capire quali ipotesi sta formulando l’apprendente sulla lingua che
sta imparando.
→ La questione dello status da attribuire agli errori diviene
cruciale quando si passa da un contesto di apprendimento
spontaneo ad uno guidato, quando entra in gioco un percorso di
insegnamento predeterminato, nel quale gli errori – le devianze
dalla norma della lingua di arrivo – vanno corretti e ricondotti a
quanto stabilisce la grammatica della lingua target:
→ Grassi = una didattica realmente acquisizionale dovrebbe
costruire la correzione, e quindi l’evoluzione della competenza,
a partire dalle regole sottostanti alle produzioni interlinguistiche
divergenti dal target, che andrebbero pertanto fatte emergere in
forma conscia e verbalizzata, così da poter essere scardinate,
scomposte e ricomposte in regole più targetlike.
→ In sostanza, la correzione degli ‘errori’ non dovrebbe
prescindere dall’assunzione di consapevolezza delle ‘regole’ che
li hanno prodotti. Il confronto tra lingua target e varietà di
apprendimento non dovrebbe perciò limitarsi al piano
dell’esecuzione, ma allargarsi a quello della competenza. Come è
noto, la competenza non è solo linguistica, ma anche
comunicativa: gli effetti comunicativi dell’errore sono di norma
trascurati, soprattutto in contesto scolastico; un errore andrebbe
analizzato anche in base agli effetti che produce sul destinatario
o agli ostacoli che crea alla buona riuscita della comunicazione.
Eppure molto spesso gli errori corretti con più pignoleria dagli
insegnanti sono quelli meno rilevanti per la comunicazione
(ortografia, punteggiatura, errate assegnazioni della classe
flessiva, ecc.) e trasmettono una visione della lingua slegata
dall’uso e dunque fine a sé stessa.
Linguaggio animale:
proprio la rara presenza di errori sistematici è un argomento
inconfutabile a favore del carattere non innato di alcuni
comportamenti comunicativi.
→ Masin (2013) riferisce il caso dei cercopitechi grigioverdi
africani, che usano tre gridi d’allarme diversi a seconda della
natura del pericolo: essi dispongono di un richiamo specifico
per segnalare la presenza di un rapace, di un richiamo dedicato
ai grandi felini e di un richiamo che segnala la presenza di un
serpente. Ai tre segnali d’allarme corrispondono tre reazioni
differenti (acquattarsi nell’erba, fuggire su un albero e alzarsi
sulle zampe posteriori rispettivamente). Il fatto che i giovani
cercopitechi commettano spesso errori nell’abbinamento dei
segnali al predatore e che essi vengano puniti se non
producono il segnale corretto rispetto al contesto è considerato
una prova del carattere almeno parzialmente appreso del loro
sistema di comunicazione.
4. Cerca la regola!
Un esercizio molto diffuso nei libri scolastici di matematica, soprattutto
nelle scuole primarie, consiste nell’individuare la regola che sta dietro
una determinata sequenza di numeri o di figure. Anche nell’Invalsi
(quelle italiane). L’italiano usa la parola ‘regola’, mentre l’inglese
preferisce ‘geometrical o numerical pattern’. Sarebbe più opportuno
parlare di regolarità. In matematica la ricerca di regolarità negli oggetti
e nelle situazioni è molto importante, e per questo viene indicato di
svilupparla fin dai primi passi nel mondo della scuola. È alla base di,
per es., di una delle procedure più caratteristiche del pensiero
matematico, la generalizzazione. Nella storia della matematica sono
frequentissimi i casi in cui, riflettendo sulle regolarità riscontrate in
situazioni di complessità via via crescente, si è arrivati a individuare
una categoria di oggetti più generali in cui comprendere come può
essere fatto uno spazio n-dimensionale; individuare una regolarità in
una successione può permettere di scoprire la legge in base alla quale la
successione è generata. Passare dalla scoperta di una proprietà valida in
un caso particolare all’enunciazione di un teorema generale è un
processo che spesso richiede la generalizzazione di una qualche
regolarità osservata e intuita.
6. Conclusioni
Oggi la matematica non parla di regole e vede l’insegnamento di regole
come un qualcosa che limita la potenza, l’applicabilità e il senso stesso
della disciplina. Parla piuttosto di strutture, ognuna delle quali regolata
da passioni o proprietà, e parla di modelli che descrivono attraverso
regole semplificate di funzionamento i fenomeni della realtà. La regola
non è una categoria dell’organizzazione del sapere matematico, e men
che del pensiero matematico.
1. Le regole
Etimologia di ‘regole’
Il termine regola e i suoi corrispondenti nelle altre lingue romanze e
germaniche (règle, regla, rule, regel,…) vengono dal lat. ré gǔla
‘asticella, righello’ (deverbale da ré go, regere) quindi ‘metro di
misura’, da cui per astrazione ‘linea di condotta, norma’. Questo è
infatti il valore di base del lessema regola in italiano.
De Mauro: “l’ordine costante che si riscontra nello svolgimento di una
certa serie di fatti: fenomeni che si verificano con, senza una regola;
eccezione alla regola, caso anomalo, irregolare”
Seconda accezione di De Mauro “formula che prescrive il modo di
agire in un caso determinato o in una particolare attività, in base
all’esperienza o alla convenzione”, sviluppata dalla prima con
l’aggiunta di una componente pragmatica e normativo-prescrittiva.
Le regole quindi colgono comportamenti uniformi o li producono (e,
comunque, li presuppongono); mettono ordine nel mondo. In
generale, una regola è implicitamente una regolarità ed
esplicitamente è un’affermazione che coglie una regolarità; o, più
impegnativamente, un’operazione che permette di prevedere il suo
risultato.
L’errore
Un altro concetto connesso con quello di regola, e in molti sensi
dipendente da esso, è quello di errore. [Dipende dal maneggiamento
che facciamo delle regole. Le regole (a) si seguono / (b) si rispettano /
(c) si applicano; ma anche (d) si violano.] Il risultato della violazione
della regola è in linea di principio un errore.
Secondo una prospettiva della filosofia della scienza, c’è un rapporto
necessario fra la nozione di regola e quella di errore, Winch (1958)
‘the notion of following a rule is logically inseparable from the notion
of making a mistake’.
Su questa base, epistemologi e filosofi della cognizione e del
linguaggio hanno introdotto un’importante distinzione fra due tipi di
regole. Ai linguisti che lavorano sulla pragmatica e sulla fondazione
teorica della sociolinguistica è ampiamente nota la distinzione
compiuta da Searl fra regole regolanti / regolative e regole
costitutive:
1) le regole regolanti regolano forme di comportamento già esistenti in
precedenza o esistenti indipendentemente; per es., molte regole di
etichetta regolano le relazioni interpersonali
2) le regole costitutive creano o definiscono nuove forme di
comportamento. Le regole del football o degli scacchi, per es., non si
limitano a regolare il modo di giocare, ma creano, per così dire, la
possibilità stessa di giocare a tali giochi.
È la stessa distinzione di Wright (1971):
1) norme che regolano (comandano, consentono o proibiscono) la
condotta;
> ci dicono che certe cose dovrebbero o potrebbero essere fatte.
2) regole che definiscono le diverse pratiche e istituzioni sociali.
> ci dicono come certe azioni sono effettuate. Spesso questo tipo di
regole, ma non in tutti i casi, è necessaria per eseguire una norma del
primo tipo.
In questa prospettiva, è chiaro che le regole sono regole di
comportamento: le regole regolative descrivono forme di
comportamento che si dànno indipendentemente dalle regole, le regole
costitutive generano nuove forme di comportamento, dipendenti nella
loro esistenza dalle regole stesse.
3) Eglin (1980) = un terzo tipo di regole come “istruzioni per
l’interpretazione” di azioni, processi, ecc, che sono sensibili al contesto
(‘in un contesto dato, X vale Y’).
Le eccezioni
Come abbiamo già accennato, le eccezioni sono la controparte delle
regole grammaticali;
Matthews (1997):
1) exception: “a form, etc. that does not follow a rule applying
generally to those of its class”;
2) regular: “a form which conforms to a rule whose application is
predicted by some general property of a unit”
→ Per es.,
alla regola che i parossitoni in –co, -go escono plurale in –chi, -ghi
fanno eccezione tra l’altro: amico > amici, nemico > nemici, greco
> greci, […], porco > porci.
alla regola che i proparassitoni in –co, -go escono in plurale in –ci,
-gi fanno eccezione tra l’altro: carico > carichi, […], obbligo >
obblighi
Regole che ammettono eccezioni & regole che non lo fanno
1) Le regole quali dispositivi minimali della teoria grammaticale,
assolute e predittive, sarebbero per definizione incompatibili con
eccezioni.
Se una regola predittiva ha eccezioni, non è una regola ‘con le carte in
regola’; col corollario 附 录 bisognerebbe riformulare la regola in
maniera che dia conto delle eccezioni.
2) Le regole come generalizzazioni, invece, ammettono eccezioni.
L’errore
La nozione di errore è evidente e intuitiva, ma è anche problematica per
il linguista. Nelle prospettive come quella generativista è che in linea di
principio non esistono errori linguistici, giacché il parlante applica
sempre nelle sue produzioni la propria grammatica individuale, la
competenza di parlante nativo della sua varietà materna, e di nessuno si
può dire che sbagli parlando la sua varietà natica.
Cardona (che coglie ancora una volta con incisiva sinteticità il nucleo
della questione) = in realtà il concetto di errore presuppone un
parlante che parli una lingua non sua: nella propria lingua il parlante
non può, per definizione, fare errori.
Errore è dunque identificato come tale in base al confronto con
un’altra varietà di lingua le cui forme sono ritenute ‘corrette’.
Più in generale, si può dire che un errore non è generato dal
mancato rispetto di una regola, ma da un’altra regola: chi sbaglia
secondo una certa norma è perché applica una regola non prevista da
quella norma linguistica. La nozione di errore di lingua non dipende
quindi dalla nozione di regola in quanto concetto operativo in
linguistica, ma dipende dalla nozione di regola come sinonima di
‘norma’. L’errore deriva sempre dal confronto con una norma,
intrinseca od estrinseca.
Le regole devono essere esplicite o implicite?
Se le regole sono implicite, l’errore non esiste: ogni produzione può
essere considerata non senza qualche ragione prodotta da una regola;
in questo caso, l’errore è una forma generata da un’altra regola, una
regola diversa rispetto a quella in base alla quale esso viene
identificato come errore
Frei già nel 1928 scriveva con molte ragioni una Grammaire des
fautes
Alla fine degli anni 60s è stata elaborata da Corder, nel campo
dell’acquisizione di lingue seconde, una error analysis, corrente di
studio che valorizza gli errori come momento centrale per
comprendere l’elaborazione che il discente compie dei materiali e
delle strutture della lingua che sta imparando
La nozione di errore ha quindi acquisito notevole importanza nella
linguistica applicata e glottodidattica.
L’errore è addirittura il prius empirico per individuare e stabilire
le regole, il metro per giudicare se una regola è valida oppure no:
Lehrer = a grammar needs not generate sentences containing
errors. Quindi l’errore verrebbe in un certo senso prima della regola;
e deve essere identificato indipendentemente, sulla base appunto del
confronto con una norma comunque fondata: ‘X è giusto o sbagliato?
Se X è giusto, allora la regola è R’.
La nozione di ‘scelta’
Prandi/De Santis = Ci sono regole prescrittive, che ci dicono come
dovremmo parlare, e ci sono regole descrittive, che cercano di
afferrare le regolarità che emergono dal nostro modo spontaneo e
condiviso di parlare, cioè dall’uso. Inoltre il nostro comportamento
linguistico non consiste solo nel seguire delle regole, ma – in larga
parte – nello scegliere, all’interno dei repertori che la lingua ci offre, i
mezzi di espressione che ci sembrano più adatti ai nostri scopi
comunicativi.
> occorrerebbe distinguere una “grammatica delle regole” da una
“grammatica delle scelte.” Scelta, non necessariamente opposto a
regola, è ovviamente un concetto cardine nella prospettiva
funzionalista della lingua.
Regole variabili
Ogni sistema linguistico ha fra le sue proprietà e caratteristiche
fenomenologiche anche la variabilità, e il prodotto che ne è la variazione.
Gli strumenti usati in linguistica per trattare la variabilità in modo
omogeneo al resto del sistema linguistico e recuperare la variazione nelle
regole sono fondamentalmente le regole opzionali e le regole variabili.
Una regola opzionale è una regola che può essere o non essere applicata,
senza conseguenze sulla grammaticalità del tutto: “Optional: (rule) that
may or may not apply. Thus, a grammar might include an optional rule
by which e.g. away in I threw away the bottle might be moved after the
object: I threw the bottle away.”
Le regole variabili sono regole la cui uscita varia in correlazione
(probabilistica) con fattori extralinguistici. Sono regole che non
possono essere mai violate da una singola istanziazione e che cercano di
incorporare la variabilità sociolinguistica entro la regola stessa, cogliendo
in questo modo ‘l’eterogeneità ordinata’ tipica delle realizzazioni della
lingua. Esse forniscono valori di probabilità a partire dalla distribuzione
di dati empirici in un corpus (il che non va confuso con il fatto che
esprimano la frequenza dei fenomeni).
Tipico strumento analitico della sociolinguistica variazionista americana,
il modello delle regole variabili, introdotto da Labov alla fine degli anni
60s, è stato presto abbandonato: “Over the years, as rules have discarded
by categorical linguists in favour of notionally different generations
variously called filters, templates and principles, so variable rules have
ceased to be discussed in variational linguistics”; ma ha anche
conosciuto sviluppi tuttora validi in termini di programmi statistico-
informatici per calcolare il peso dei fattori variabili e permettere in
correlazione variabili dipendenti e variabili indipendenti nell’interfaccia
fra lingua e società. Altri modelli che mirano a inglobare nelle regole la
variabilità sono la Word Grammar di R. Hudson e la grammatica di
varietà, un modello di analisi grammaticale della variazione che
incorpora nella rappresentazione mediante ‘blocchi di regole’ le
frequenze osservate, sviluppato negli anni 80s da W. Klein e N. Dittmar e
poi caduto nel dimenticatoio. Ma su tutta la questione delle regole in
relazione alla variabilità, si rimanda al cap. di Cerruti.
4. Conclusioni
il concetto di regola, i costrutti a cui esso dà luogo, e le sue
manifestazioni fenomenologiche hanno infatti un luogo molto rilevante
per i linguisti; ma costituiscono anche un campo che presenta una grande
polimorfia di aspetti, ed è tutt’altro che esente da ambiguità e da
potenziali contraddizioni.
Discutere delle regole, in fondo, significa anche discutere della natura
epistemologica delle discipline linguistiche.
La dialettica fra rigidità (delle regole) vs. libertà (dei parlanti)
che corrisponde anche a una dialettica, e a un dialogo, fra due anime della
linguistica.
→ Una linguistica completa deve tener e dar conto sia dell’esattezza e
autonomia del sistema linguistico, sia dell’intenzionalità del
parlante e del suo insieme di esperienze socio-culturali.
→ Questo complica molto la vita con le regole, che devono corrispondere
a, e assicurare, sia la categoricità delle leggi del sistema, sia la libertà
del parlante.
→ Le regole di per sé dovrebbero essere rigide, dure; ma esistono anche
regole non rigide, molli. Di qui, una divisione di compiti fra le regole
che devono avere valore predittivo, esplicativo in senso forte, e quelle
che possono avere solo valore descrittivo o probabilistico; Fermo
restando che entrambi i valori per il linguista si oppongono al valore
prescrittivo normativo.
Come per es., la natura deterministica delle RFP, nella loro forma
originaria, è fortemente problematica quando tale nozione è applicata
ad un ambito lessicale, che è per sua natura aleatorio e ampiamente
condizionato da fattori extralinguistici.
L’interazione tra le regole e il lessico, attestato o possibile, è stata in
effetti uno dei principali temi di dibattito per i morfologi negli ultimi
decenni. L’evoluzione tecnologica degli ultimi decenni, consentendo
l’accesso in tempi rapidissimi a quantità di dati linguistici fino a pochi
anni prima inimmaginabile, ha reso sempre più difficile derubricare gli
esempi problematici a eccezioni o casi marginali.
→ Per limitarsi a qualche esempio come i seguenti che, sotto diversi
aspetti, sono incompatibili con le RFP nella loro forma tradizionale.
a. il meccanismo ‘variazionale’ dell’evoluzione (contrapposto a
quello ‘trasformazionale’ lamarckiano e a quello ‘saltazionale’ che
fu dei primi genetisti) si applica per Darwin solo a livello dei
singoli organismi
b. meglio arrivarsi in land rover con pochi altri appassionati delle
stesse cose […] piuttosto che accalcarsi in un viaggio organizzato
in pulmini coi soliti caciaroni russi avvodkazzati.
In (a.) l’agg. saltazionale (che appartiene al vocabolario della teoria
dell’evoluzione) è apparentemente deviante, dal momento che
sembra contenere un suffisso –zione, benché in it. non sia attestato il
n. deverbale *saltazione costruito sul v. saltare.
(b.), dal canto suo, contiene una forma ancora meno ‘regolare’: l’agg.
avvodkazzato è perfettamente comprensibile da un parlante italiano,
anche in virtù del suo legame evidente con il nome vodka, ma è
difficile identificare con precisione gli affissi che contiene e la regola
per mezzo della quale è stato costruito. In effetti, per spiegare la
forma e il significato di questa parola sembrerebbe più utile ricorrere
ad una relazione individuale – che potremmo definire di analogia –
con l’agg. avvinazzato, escludendo così la possibilità che si possa
trattare di una ‘regola’.
Nel tentativo di rendere conto in modo più realistico dei dati realmente
osservati, diversi modelli morfologici hanno proposto, in anni più
recenti, di abbandonare o di modulare il concetto di regola in favore di
nozioni meno rigide, come quella di schema, o modello. A differenza
delle regole, i modelli prevedono gradi diversi di applicabilità, non
implicano necessariamente l’isomorfia tra forma e senso di una parola
complessa, dal momento che l’istruzione semantica è inglobata nel
modello stesso, e non sono elaborati indipendentemente dalle parole
che li esemplificano, ma al contrario emergono dal lessico esistente.
L’esistenza di lessemi devianti per una o più proprietà, problematica
per una morfologia basata sulle regole, è più compatibile con una
morfologia basata sui modelli.
Ciò implica anche un cambiamento importante dal punto di vista che il
linguista adotta nei confronti dei dati: la preoccupazione principale non
è più quella di identificare, nel lessico, gli elementi ‘centrali’ da quelli
‘devianti’, ma piuttosto quella di rendere esplicite le proprietà che
rendono i lessemi complessi realmente osservati più o meno aderente ai
modelli identificati.
La prevedibilità dell’output
In particolare, essa si basa sull’ipotesi della composizionalità (mutuata
dalla sintassi), secondo cui è possibile determinare il significato di
un’espressione linguistica a partire dal significato degli elementi che la
costituiscono.
→ Applicare tale principio al livello lessicale significa considerare che
il significato di una parola complessa è calcolabile a partire dalle
istruzioni semantiche legate alle diverse sottoparti che è possibile
identificare (ad es. radici o affissi)
→ La morfologia che ne deriva è insieme additiva (o incrementale),
poiché l’interpretazione semantica si costruisce in concomitanza con
la struttura morfologica, o orientata, dal momento che la
costruzione delle parole procede dal più semplice al più complesso
attraverso la concatenazione successiva di segmenti.
3.1. Segmentabilità
Dal punto di vista formale, attribuire una porzione discreta di
significato alle varie sottoparti di una parola complessa significa
considerare che esse sono sempre chiaramente distinguibili e che
ogni unità elementare del piano formale (fonema) può essere
attribuita univocamente all’una o all’altra di queste sottoparti.
La difficoltà (o forse la vanità) di una tale operazione dovrebbe già
essere chiara ai morfologi da tempo, dato che si sono sempre chiesti
come “in amministrazione il suffisso sarà –azione, -zione o –ione?”,
nonché la sostanziale impossibilità di trovare loro una risposta
univoca e convincente.
Oggi è consensuale l’idea che ogni elemento lessicale (gli affissi
inclusi) non deve necessariamente possedere una forma di base dalla
quale far derivare tutte le altre, ma può consistere in un insieme di
forme la cui variazione è più o meno motivata fonologicamente, e
per le quali i locutori conoscono, in base alla loro competenza
morfologico-lessicale, i contesti appropriati nei quali debbano essere
usate.
Se, tuttavia, esistono diversi lavori volti a caratterizzare la
rappresentazione dei lessemi come ‘collezioni’ di temi distinti, la
variazione degli affissi, ugualmente interessante, è assai meno
studiata in quest’ottica.
→Ad es. Montermini (2010) ha proposto una gerarchizzazione
delle forme dell’esponente della RFP che costruisce i nomi
d’azione come amministrazione, forme che vanno da /at:sjione/
(che può essere considerata come la forma di default) a quelle
contenenti una consonante sonorante (come in conversione,
espulsione, ecc.).
→Un altro caso interessante è quello del suffisso –(i)ano in italiano,
che può legarsi praticamente ad ogni n. proprio o toponimo per
formare un agg. di relazione e può contenere o meno una
semivocale /j/. Esistono buoni argomenti per sostenere che la
forma di default attuale per questo suffisso è /jano/, poiché è
quella che si osserva con la maggioranza dei derivati da n. propri
e da toponimi stranieri (che possiamo considerare, in generale, di
formazione più recente rispetto agli etnici costruiti su toponimi
italiani) contenuti nei dizionari.
→I dati neologici mostrano che la forma /jano/ è largamente
preponderante, se non l’unica scelta, quando la base non
presenta particolari problemi fonologici (finale in /a/ o /o/
semplici non accentate o in consonante: calcuttiano,
hannoveriano);
→mentre /j/ tende a non essere presente soprattutto con basi che
terminano con una sequenza poco comune in italiano (una
vocale accentata, una /e/ o una /u/ atone, uno iato , un
dittongo), tutti casi in cui la vocale o una delle vocali della
base tende ad apparire nel derivato, spesso a discapito della /j/
(deandreano, ikeano, murnauano, pessoano).
→I casi in cui nel derivato la sequenza /ano/ non è preceduta da
una vocale, infine, sono rari, e si incontrano soprattutto con
basi che terminano in /a/ atona (floridano, wojtylano).
→Un modo per interpretare questi dati è considerare che
l’esponente della RFP in questione possiede una forma
sottospecificata /Vano/, in cui la posizione vocalica è riempita
per default dalla semivocale /j/, ma può essere riempita da
un’altra vocale per ragioni di fedeltà tra la base e il derivato (o
non esserlo affatto se la vocale finale della base è /a/).
→In una prospettiva del genere, chiedersi se la vocale che precede
/ano/ in deandreano o pessoano ‘appartiene’ alla base o al suffisso
perde gran parte del suo interesse, poiché essa dipende, per
l’appunto, dall’interazione tra la forma della base e quelle
possibili per il suffisso.
3.2. Esaustività
Per principio di esaustività, si riferisce all’ipotesi secondo cui, in una
parola derivata, tutto il materiale morfologico presente svolge una
funzione, contribuendo alla costruzione del significato dell’insieme.
Elementi semanticamente inerti
Anche in questo caso, i dati empirici presentano un quadro ben più
complesso. L’esistenza di elementi inerti dal punto di vista
semantico in alcuni tipi di derivati è un fatto riconosciuto da tempo.
→Ragioni fonologiche e prosodiche
Per il fr., ad es., esiste la tendenza ad usare interfissi per ragioni
fonologiche e prosodiche, come la necessità di evitare sequenze di
fonemi simili troppo ravvicinate, come in goutte ‘goccia’ > gout-
tel-ette ‘gocciolina’
→Ragioni stilistico-pragmatiche
In altri casi, la ‘sovrabbondanza’ di sequenze morfologiche
semanticamente vuote sembra avere ragioni puramente stilistico-
pragmatiche.
In uno studio recente su 329 neologismi del fr. che contengono la
sequenza finale –logique, circa un quarto dei contesti in cui essi
apparivano non era compatibile con i significati generalmente
attribuiti all’elemento di origine greca –log– (per lo più ‘ricerca’ o
‘discorso su’)
Alcuni risultati di ricerche effettuate su Web sui corrispondenti
italiani di parole che comparivano nella ricerca menzionata:
a. Quando verremo dalle tue parti… ci condurrai in luoghi di
perdizione culinaria e birrologica.
b. Nessuna lingua che conosco ha la raffinatezza insultologica
dell’italiano, e tali possibilità di espansione creativa…
→Pressioni puramente lessicali
Il caso meno evidente, ma probabilmente più interessante, è
quello in cui tale sovrabbondanza di elementi semanticamente
inerti è determinata da pressioni puramente lessicali. Diversi
lavori negli ultimi anni hanno messo in evidenza l’esistenza di
“morphological niches” (Lindsay/Arnoff, 2013): sequenze
morfologicamente privilegiate per alcuni tipi di derivati, come
–logical in ingl., -aliser / - ariser o –alité in fr.
Proprio questi ultimi esempi mostrano che la possibilità di
incontrare sequenze semanticamente vuote è tanto più grande
quanto la distanza semantica tra due parole del lessico è piccola, o
addirittura inesistente (come nel caso di un agg. di relazione e il
suo nome base).
In un altro studio, Roché spiega le coppie come hégélisme /
hégélianisme (‘hegelismo / hegelianismo’) per cui è difficile
trovare una distinzione semantica chiara, sulla base della scarsa
carica semantica del suffisso relazionale –ien, e attribuisce la
preferenza osservata, in fr., per la seconda forma a fattori di
altro tipo, in particolare alla grande frequenza di nomi in –
ianisme nel lessico filosofico-religioso.
Seguendo uno spunto suggerito dallo stesso Roché, ho calcolato
un campione di forme in –ismo o –esimo derivate da nomi propri
rilevate sul Web. Mentre sembra ragionevole supporre che non
esiste una differenza semantica significativa tra i due suffissi, i
dati preliminari raccolti, indicano chiaramente che:
3.3. Completezza
Il principio speculare a quello dell’esaustività è quello della
completezza, ossia l’idea che in una parola complessa siano presenti
tutti gli elementi che sono necessari alla costruzione del significato.
Anche in questo caso le eccezioni sono ampie e ben documentate.
Migliorini, ad es., “la tendenza a evitare il cumulo dei suffissi”
delle parole derivate
che spiegherebbe forme come letteratura protestante (‘dei
protestanti’) o sociologia criminale (‘che concerne i criminali’).
Altri lavori hanno messo in luce che non si tratta di un fenomeno
sporadico che tocca singoli lessemi, bensì di una proprietà
costitutiva di intere serie lessicali.
→Regular polysemy
Tale fenomeno può essere messo in relazione con quella che
Booji (2010) chiama “regular polysemy”, ossia il fatto che le
RFP non formano necessariamente lessemi con un unico
significato, ma oggetti che possono entrare in reti lessicali
complesse.
Un es. tipico è quello dei derivati etnici. In it. ad es., -ese forma
derivati di due categorie lessicali diverse (n. e agg.) e che
intrattengono almeno cinque tipi di relazioni diverse con la base.
Ungheria → unghereseN ‘abitante dell’Ungheria’
unghereseA ‘relativo all’Ungheria’
(le città ungheresi)
unghereseN ‘relativo agli ungheresi’
(il carattere ungherese)
unghereseA ‘la lingua dell’Ungheria’
unghereseA ‘relativo alla lingua
ungherese’
(i verbi ungheresi)
(Un modello puramente incrementale esigerebbe che tutti i tipi di
relazioni semantico-categoriali illustrate sopra nella tabella
fossero marcati esplicitamente.)
L’elasticità che alcuni lessemi manifestano per quanto riguarda la
categoria e i significati che possono esprimere, è alla base anche
di altri casi di ‘riciclaggio’ morfologico, meno sistematici, e
perciò meno facili da osservare, ma altrettanto significativi.
→Riciclaggio morfologico:
1. Pensiamo ad es. ad un insieme lessicale come quello che va dal
v. assistere al n. assistenzialità:
assistereV > assistenteN/A > assistenzaN > assistenzialeA >
assistenzialitàN
Nel caso di assistenzialità, che a glossare per intero significa
all’incirca ‘la proprietà di ciò che è relativo al fatto di assistere’,
tutte le relazioni semantiche sono marcate da un affisso specifico
(se si fa astrazione dell’alternanza Vnte / Vnza).
2. Altri lessemi, tuttavia, sono ambigui, ad es. aderenza che può
indicare sia
1) il fatto di aderire che
2) la proprietà di ciò che è aderente
(cfr. i pneumatici stanno perdendo aderenza vs. migliorare
l’aderenza dei penumatici).
→Ambiguità semantica
I locutori sfruttano questa ambiguità per esprimere significati
complessi ‘economizzando’ i mezzi espressivi impiegati.
La produzione basata sulla concorrenza del prezzo tende a
tagliare i costi sostenuti dalla produzione basata sulla
qualità.
Lascia stare l’accoglienza degli italiani che è relativa
(infatti magari un romano o un napoletano può essere più
allegro ed accogliente di un milanese o valdostano).
→ Le parole di –Vnza negli es. qui sopra denotano chiaramente
più delle proprietà delle azioni, ed in questo senso sono
semanticamente più simili ad assistenzialità che ad assistenza
benché con quest’ultimo lessema condividano la struttura
morfologica.
I dati di queste due frasi indicano chiaramente che solo
prendendo in considerazione il contesto sintattico è possibile
avere un’idea chiara della diversità degli usi di una classe di
derivati, e se tale diversità è sistematica o occasionale.
Equiprobabilità o randomness
Una grammatica è un modello delle regolarità di una lingua, come
deviazioni dall’equiprobabilità.
Lo stato di equiprobablità o randomness corrisponde alla situazione
ipotetica in cui qualunque permutazione dell’ordine delle parole sia
legittima e in grado di veicolare esattamente lo stesso contenuto di
informazione.
Il linguaggio è ovviamente una costante violazione di tale
randomness: per es. la sequenza il cane ha morso un uomo è una frase
grammaticale, mentre la sua permutazione cane il morso ha un uomo
non lo è. La sequenza un uomo ha morso il cane è altrettanto
grammaticale della frase originale ma veicola un contenuto informativo
diverso.
Edelman: for most of the 20th century, linguists assumed that
grammars consist of algebraic rules, of which there were supposed to
be many fewer than the number of entries in the lexicon. Il ruolo del
linguista computazionale è dunque quello di individuare l’insieme di
regole ottimale per la risoluzione di un particolare compito linguistico.
Le regole formali
In ogni caso, le regole formali sono accomunate dal fatto di essere
discrete, qualitative e inviolabili (salvo eccezioni!). Gli aspetti
quantitativi o quelli relativi a dimensioni di variazione continua e
graduale delle strutture linguistiche rimangono al di fuori del raggio di
modellazione delle regole. La variazione nella frequenza d’uso delle
strutture linguistiche è un fattore che non viene rappresentato nelle
regole formali.
La grammatica opera in termini di opposizioni categoriali e
qualitative: grammaticale vs. non grammaticale, n. vs. v., argomento
vs. aggiunto, transitivo vs. intransitivo, animato vs. non animato, ecc.
per es.:
(1.)
a. Il sasso ha ucciso l’uomo.
b. *L’uomo ha ucciso il sasso.
Possono essere formulate le seguenti regole:
(2.)
a. R(x:α) A:α → R(A)
b. uccidere: [SNogg: [+ANIMATO]]
c. uomo: [+ANIMATO]
d. sasso: [–ANIMATO]
→ La regola (2a) stabilisce una condizione generale sulla
combinazione di predicati ed argomenti: un predicato R(x) può essere
applicato a un argomento A se e solo se il tipo semantico di A è
equivalente a quello richiesto da R.
→ La regola (2b) specifica invece un vincolo di selezione lessicale del
v. uccidere: l’oggetto deve essere animato
→ Una volta combinai i vincoli (2a, 2b) con le info sui tipi semantici di
uomo e sasso in (2c, 2d), un sistema computazionale a regole può
derivare la grammaticalità di (2a) e la non grammaticalità di (2b).
→ Per essere grammaticale, un’espressione linguistica non deve violare
alcuna regola della grammatica, a meno che essa non venga dichiarata
esplicitamente come eccezione.
I valori della probabilità variano con continuità tra zero, che quantifica
l’impossibilità di un evento, e uno, il valore assunto da un evento che
accade con assoluta certezza. Lo spazio delle regole probabilistiche non
è discreto, e le strutture linguistiche possibili in una lingua sono
modellate con il continuum delle distribuzioni di probabilità, senza
ridursi a pure opposizioni categoriali. Le probabilità dei vincoli della
grammatica sono ricavate automaticamente dalla distribuzione
statistica degli eventi linguistici osservati in corpora testuali. La
frequenza di occorrenza di un evento linguistico viene infatti usata per
stimare la sua probabilità. (ad es., la probabilità di una parola x può
essere stimata come il rapporto tra la frequenza di x in un corpus e il
numero complessivo di parole nel corpus.)
Le regole della grammatica sono dunque rappresentate come
generalizzazioni induttive che catturano regolarità statistiche
presenti nell’uso linguistico. Nei sistemi probabilistici, il ruolo del
linguista non è ‘scrivere’ le regole della grammatica, bensì addestrare
il sistema a svolgere un dato compito, individuando la metodologia
migliore che consenta al sistema stesso di estrarre dalla distribuzione
statistica dei dati linguistici i vincoli e le regole per svolgerlo.
Le regole probabilistiche
Queste regole sono per loro intrinseca definizione violabili.
Superano la dicotomia stessa di regole ed eccezioni, nella misura in cui
strutture produttive e strutture eccezionali sono rappresentate nello
stesso spazio probabilistico.
Ad es., le preferenze di selezione dei predicati verbali possono essere
modellate attraverso una distribuzione di probabilità P (N | Vr) : che
rappresenta la probabilità che un nome N sia l’argomento del verbo V
nel ruolo grammaticale r (es. oggetto diretto).
→ Questa probabilità può essere calcolata con il rapporto tra il numero
di volte in cui N ricorre con V in un corpus con il ruolo r, e la frequenza
totale con cui V ricorre con il ruolo r.
→ Per es., P(uomo|uccidereogg) corrisponde alla probabilità di osservare
uomo come oggetto diretto di uccidere e può essere stimata con il
rapporto tra la frequenza di uomo come oggetto di uccidere, e il numero
di volte con cui questo verbo ricorre con un oggetto diretto. Se
utilizziamo il corpus itWaC per addestrare il nostro modello
probabilistico delle preferenze di selezione di uccidere, otteniamo la
seguente distribuzione di probabilità per gli oggetti diretti che
compaiono nelle frasi (1) e (3):
(4).
a. P(uomo|uccidereogg) = 0,04
b. P(amore|uccidereogg) = 0,0016
c. P(idea|uccidereogg) = 0,0013
d. P(democrazie|uccidereogg) = 0,0008
e. P(sasso|uccidereogg) = 0
→ La natura ‘eccezionale’ di idea come oggetto diretto di uccidere,
rispetto alla ‘regolarità’ di uomo, viene rappresentata attraverso la
differenza delle loro probabilità.
→ L’impossibilità di sasso diventa solo l’estremo di un continuum che
contempla anche casi poco probabili, ma pur sempre possibili.
→ Mentre i sistemi di regole formali modellano la “departure from
equiprobability” della grammatica con la dicotomia tra strutture
possibili e impossibili;
→ i modelli probabilistici sono invece in grado di riempire lo spazio
che intercorre tra i due insiemi delle strutture possibili e
impossibili, individuando variazioni di probabilità all’interno
dell’insieme delle strutture legittimate dalla grammatica.
1. Introduzione
Due citazioni classiche
Sapir (1921): everyone knows that languages are variable.
→ ci dice che la variazione è una proprietà empirica universale e
prescientifica delle lingue.
→ non esistono lingue al mondo che non conoscano variazione.
→ in questo senso, la variazione stessa è una regola.
2. Regole di co-variazione
Definizione di ‘co-variazione’: a structural unit with two or more
variants involved in co-variation with social variables. (Cheshire) / due
o più modi diversi per dire la stessa cosa, ciascuno dei quali
correlato a qualche fatto sociale.
→ Ad es. la pronuncia del suffisso –ing è una variabile
sociolinguistica dell’inglese.
La variabile, notata convenzionalmente come (ing) ha come:
Varietà standard [ɪŋ] es. cooking [ˈkʊ.kɪŋ]
Variante sub-standard [ɪn] es. Cooking [ˈkʊ.kɪn], che correla con la
collocazione sociale bassa dei parlanti e il parlato spontaneo non
accurato.
Regole di co-variazione
Si tratta di regole che operano sulle correlazioni fra singole varianti,
ossia tratti linguistici, e fatti sociali; ossia come una regola che è
realizzata con frequenze (e dunque probabilità) differenti in
dipendenza da fatti linguistici e sociali diversi.
Una regola variabile esprime dunque un certo pattern di variazione;
ovvero, una certa configurazione di co-variazione fra tratti linguistici e
fatti sociali, data anche da rapporti gerarchici tra fattori. Tale gerarchia
è determinata dalla probabilità che ha ciascun fattore di influire sulla
realizzazione della regola. La probabilità è calcolata statisticamente a
partire da dati empirici, relativi alla frequenza con cui la regola si
realizza in un certo corpus (per metodi e strumenti informatici).
→ Un es. di regole co-variazionale può essere questo: la caduta
variabile delle occlusive alveolari nell’ing. amr., formulata da Guy
(1991)
α
<M>
β
<S> <E>
γ
<R>
4. Regole di interrelazione
Veniamo così all’ultimo tipo di regole: di interrelazione.
Campo d’applicazione delle regole di interrelazione:
Tali regole, nel senso di principi generali, operano sui rapporti fra
dimensioni di variazione, e dunque fra varietà di lingua;
Il loro campo di applicazione è quindi l’architettura della lingua.
Il termine interrelazione è stato ricavato da Bell (1984), che discutendo
dei rapporti fra diastratia e diafasia si chiede: “What is the interrelation
between the two dimensions?”
In italiano
Nell’ambito italiano, parrebbero seguire questa direzione quei tratti di
italiano popolare usati per accomodamento da parlanti giovani colti
in conversazioni spontanee con anziani.
→ Ne è un’es.: è mica meglio averci un po’ di vista? Che ’lora sì che
vedi la chiesa, il campo dove giocano a quel robo lì che so neanche
come si chiama.
2. La creazione di un’eccezione
Il principio dell’ineccepibilità della legge fonetica
Una fase cruciale per lo sviluppo della teoria del mutamento fu quella
che coincise con l’esaltazione della regola e la negazione
dell’eccezione. Alla fine del XIX secolo, i Neogrammatici tentarono di
dimostrare che dietro alle irregolarità sincroniche delle lingue vi è una
regolarità preesistente, e sancirono il principio della ineccepibilità
della legge fonetica, per cui ogni mutamento di suono è del tutto
regolare, privo di eccezioni, ed opera con “cieca necessità”.
MacMahon, 1994: The Neogrammmarians seem to have seen their
regularity hypothesis as an equivalent of one the physical laws like the
law of gravity, and therefore as an immutable consequence of the way
the world is.
→L’es. più noto dell’applicazione di tale principio è rappresentato dalla
‘correzione’ alla prima legge di Grimm da parte di Verner. La
regola prediceva che:
le occlusive sorde [p, t, k] i.e. avessero come esito in germanico
delle fricative sorde [f, θ, x] (i.e. *bhráter > sscr. bhrátar, gr. phráter
vs. got. broþar([θ])).
Tale regola risultava però violata da una serie di corrispondenze
lessicali in cui l’esito germanico è rappresentato da una fricativa
sonora: cfr. i.e. *ph té r ‘padre’ (sscr. pitár, gr. paté r, lat. pater) vs.
2
Qualcosa può dirsi per l’uso della preposizione di (< dal lat. de).
Anche in questo caso, già in lat. il secondo termine di paragone
poteva essere espresso tramite i sintagmi preposizionali formati per
lo più da a, ab, ex: il loro uso può essere definito, per la scarsa
frequenza e sistematicità nonché per il loro apparire in autori che
non ammettono varietà basse, come ‘eccezionale’, ma sicuramente
non errato rispetto alla regola dell’ablativo di comparazione. L’uso
della prep. de è attestato piuttosto tardi in epoca post-classica, e
resta marginale anche in italiano antico (es. 7), dove
“nell’espressione del secondo termine di paragone è quasi assente
l’introduttore di, a eccezione dei casi in cui precede un pron.”,
mentre la regola era rappresentata dall’introduttore che (es. 8).
(6).
Senior aetate erat de Bruchilde.
“Egli era più vecchio dell’età di Bruchilde”.
(7).
Per mala ventura se na tua penna sarà più larga di me!
(8).
Tancredi […] ebbe una moglie più bella che lla Sibilla
4. Conclusioni
Questo contributo è dedicato ad esplorare la possibilità che forme e
costrutti ‘irregolari’ di una lingua interagiscano con le sue regole nel
processo di mutamento, e il modo in cui ciò avviene. Molto in questo
ambito resta da esplorare. Gli sforzi principali negli studi sul mutamento
sono stati finora dedicati ad indagare quali meccanismi creino regolarità
nelle lingue: tra questi è stato riconosciuto il ruolo fondamentale della
grammaticalizzazione e dell’analogia, intesa “as a cover term for changes
that involve the imposition of regular patterns (rules, constraints, etc.)
from one area on another”.
Ciò che merita di essere indagato più a fondo riguarda la domanda
opposta e complementare alla precedente: ossia, quali forze specifiche
creano irregolarità in una lingua? L’uso creativo della propria lingua da
parte del singolo parlante, per rispondere alle molteplici e diverse
esigenze della comunicazione, è potenzialmente una di queste forze.
Tuttavia, non spiega da sola tutti i tipi di mutamento, né la complessità
del mutamento in sé (ammesso che questo sia spiegabile nella sua
interezza.)
Dall’altra parte, sarebbe interessante esplorare anche quanto l’irregolarità
abbia effettivamente peso nei meccanismi del mutamento, e quanto essa
sia limitata dalla regolarità intrinseca alla lingua. Tutti i casi discussi in
questo capitolo sembrano infatti riconducibili alla seguente
generalizzazione: se è vero che le regole linguistiche spesso comportano
delle eccezioni, sul piano diacronico le eventuali eccezioni presenti in una
lingua spesso contengono in sé l’indizio di un’altra regola, diversa da
quella che violano. Ossia, un’eccezione può rimandare ad una regola
precedente, ed essere divenuta tale a causa di un mutamento;
un’eccezione può entrare in competizione con la regola stessa che la
prevede, contribuendo a sostituirla o a modificarla.
Per concludere, anche le eccezioni hanno le loro regole, nel senso che,
quale che ne sia l’origine, in quanto parte di un certo ‘sistema lingua’,
obbediscono agli stessi principi che determinano l’esistenza di quel
sistema. Ma questo conferma che per studiare quel sistema e il
mutamento delle sue regole sarà necessario tener conto anche di come si
formano e trasformano le eccezioni e gli errori della lingua.
VIII. Le regole del congiuntivo (Michele Prandi)
1. Introduzione
Le lingue, in quanto strutture di lunga durata indipendenti dalle
contingenze degli atti comunicativi, tendono alla regolarità. Tuttavia,
questa spinta
← da un lato è minacciata dalle derive storiche, e
← dall’altro coesiste con la progettualità degli individui che usano la
lingua per i loro scopi.
Le strutture della lingua si distinguono da altri fatti sociali – per es. dalle
norme giuridiche – in quanto la condivisione non si fonda su un atto
istituzionale, sancito dalla presenza di una traccia registrata.
Nel caso della lingua, la condivisione nuda e semplice è un fondamento
puro e ultimo privo di un fondamento ulteriore.
Regole esplicative
- Alle generalizzazioni possiamo contrapporre le regole che hanno
l’ambizione di essere esplicative – che non si limitano a prendere atto
della realtà dei fenomeni ma cercano di fare previsioni sulla loro
struttura a partire da principi generali. A differenza delle
generalizzazioni empiriche, queste regole non sono tautologie. Per
questa ragione non ammettono eccezioni e, sono aperte alla
falsificazione: ogni dato empirico che non vi si conforma falsifica
automaticamente la regola.
Il caso più tipico è dato dalle regole che puntano a regolarità funzionali
(ma non le regolarità formali), che hanno come oggetto cioè non le
forme pure ma il rapporto bidirezionale tra l’espressione complessa,
che ha una struttura sintattica, e il suo significato, che ha una struttura
concettuale.
→ una regolarità che ha queste caratteristiche è la seguente: in una
frase della struttura oggetto – verbo – oggetto diretto, il soggetto
esprime il protagonista e l’oggetto il deuteragonista del processo. Nel
caso di un’azione, il soggetto esprime l’agente e l’oggetto diretto il
paziente.
È facile constatare che una regola del genere non avrebbe senso se
ammettesse delle eccezioni – se per es. con certi v. tr. risultasse che
l’agente fosse espresso dal complemento oggetto e il paziente dal
soggetto. Se scoprissimo casi del genere, non potremmo considerarli
come eccezioni che confermano la regola, al pari del mancato passivo
di riguardare; al contrario, questi dati toglierebbero valore alla regola
stessa.
A questo punto:
Se diciamo che gli usi di realtà come semplici eccezioni che, secondo
l’adagio tradizionale, confermerebbero la regola, è una strada
impraticabile.
Se consideriamo falsificata la generalizzazione empirica:
1). Possiamo cercare di ridisegnare il contenuto della regola, tenendo
fermo che il presupposto che il modo congiuntivo presenta in ogni caso
un valore che ne giustifica la distribuzione;
2). Possiamo mettere in questione il presupposto. Gli amici di questa
strada:
Forse c’è un unico caso nel quale le obiezioni qui discusse sembrano
dissolversi, e cioè la coesistenza dell’indicativo e del congiuntivo
nella stessa frase, come ad es. in Gli studenti che abitano a Milano e
fossero interessati sono invitati a partecipare alla presentazione del
volume. In casi come questi, l’insieme dei referenti del nome testa si
allarga o si restringe parallelamente al modo verbale: che qualcuno
abiti a Milano è un dato scontato; che qualcuno sia interessato alla
presentazione del volume, no. Resta naturalmente il fatto che la
forma con doppio indicativo – Gli studenti che abitano a Milano e
sono interessati sono invitati a partecipare alla presentazione del
volume – non implica comunque che tutti gli studenti che abitano a
Milano siano interessati alla presentazione.
VT = Varietà target
1. Premessa
Il pendolo oscilla in una ricorrente alternanza tra stagioni
metodologiche essenzialmente formaliste contrapposte a periodi a
dominanza eminentemente comunicativa.
4. Il trattamento dell’errore
Anche l’atteggiamento verso l’errore ha subito grandi cambiamenti nel
passaggio da una stagione metodologica all’altra. Solo a seguito degli
studi acquisizionali l’errore è stato considerato utile, e si è fatta strada
l’idea che l’insegnamento dipendesse dall’apprendimento, piegando
non solo il sillabo, ma anche la correzione, dell’apprendibilità di un
dato elemento. Inutile correggere allora strutture che non si è pronti ad
acquisire, mentre riguardante gli errori riparabili, l’attenzione si è
centrata sulle forme concrete di correzione.
Due modalità di correzioni:
1) la riformulazione o eterocorrezione
2) la sollecitazione o spinta all’autocorrezione
Come per es.,
Apprendente: Ieri ho arrivato tardi?
Insegnante 1: Ah sì. Sei arrivato tardi → riformulazione
Insegnante 2: Come? → sollecitazione
→ Commento metalinguistico: Arrivare vuole l’aus. essere.
E come correggere?