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La grammatica e l’errore

I. Le lingue naturali tra regole, eccezioni ed errori (N. Grandi)


1. Introduzione
«Remember always that a language is what the speakers do and not
what someone thinks they ought to do».
- Leonard Bloomfield
«nessun parlante, per definizione, può commettere errori, a meno che
non stia parlando una lingua “non sua” (avrebbe senso quindi parlare
di l’errore, solo nel contesto dell’apprendimento di una lingua
seconda)»
- Cardona, 1988
→ Ogni produzione di un parlante è infatti frutto di una grammatica
che si colloca nel quadro di variazione previsto dalla lingua.
→ Se gli errori sono deviazioni da una norma, la maggior parte di
essi rientra in realtà nel novero delle possibilità offerte dal sistema
linguistico; ma essi si collocano ai margini del sistema perché non
sono tollerati dalla maggior parte dei parlanti, non per ragioni
strutturali ma, appunto, per un mancato riconoscimento sociale.
→ In più l’errore (nel suo significato intuitivo) è un fatto spesso
relativo, da valutare non solo rispetto alla regola cui esso
contravviene (anche regola nel suo significato intuitivo e
‘ingenuo’), ma anche al contesto, linguistico ed extralinguistico,
nel quale esso si colloca.
→ In sostanza, vi sono situazioni in cui la soglia di tolleranza si alza
e si è disposti ad accettare senza batter ciglio
→ Questo volume ha lo scopo di indagare l’articolazione dei
concetti di regola, errore ed eccezione integrando angolazioni
diverse e suggerendo differenti prospettive di studio. Ma,
soprattutto, liberandoli dei molti pregiudizi che
frequentemente li accompagnano.
2. Regole ed eccezioni
 Secondo Mr. Grandi, il linguista non è necessariamente interessato a
spiegare come si parli o si scriva bene secondo i dettami della
grammatica; ma che trova accattivante il fatto che molti parlanti
scrivano e parlino in modo ‘scorretto’, a prescindere da quanto
prescritto dalla grammatica.
→ Per es. una frase come una settimana fa mi chiama il ragazzo che
gli ho venduto l’articolo la reazione del linguista non è quella di
spiegare a chi l’ha prodotta che la forma corretta sarebbe il
ragazzo a cui / al quale ho venduto l’articolo, ma piuttosto quella
di capire perché, nonostante le regole dell’it. impongano l’uso
di una certa forma del pronome relativo, un parlante abbia
usato una forma diversa, ufficialmente sbagliata, senza con
ciò pregiudicare il senso complessivo della frase.
→ Lo ‘spazio’ della lingua, dunque, è molto più ampio di quello
racchiuso nel perimetro della grammatica ufficiale. Esso assegna
un certo rilievo alle scelte dei parlanti e determina talora una
indubbia divaricazione tra norma e uso.
 È significativo notare come la percezione ‘ingenua’ che i parlanti
hanno di una lingua coincida essenzialmente con un insieme di unità
di base, le parole, e di principi combinatori, le regole, il cui scopo è
quello di stabilire un discrimine tra le combinazioni di parole giuste e
sbagliate. Gli oggetti che tipicamente rappresentano tali componenti
sono il vocabolario e la grammatica, rispettivamente. Ed essi
rappresentano l’immancabile punto di partenza di qualsiasi percorso
acquisizionale. In sostanza, abbiamo un insieme di ingredienti (le
parole) e le ricette per ‘mescolarli’ (le regole, spesso raccolte in una
sorta di ricettario, il libro di grammatica, appunto) allo scopo di
ottenere qualcosa di commestibile (le frasi ben formate o
grammaticali di una lingua).
 Regole prescrittive: parliamo e scriviamo in un certo modo e non in
un altro perché ci sono delle regole che ce lo impongono. Queste
regole sono dunque prescrittive.
Vi sono però due tipi di elementi che turbano questo quadro:
1) innanzitutto, le regole possono non applicarsi dove e come
previsto, creando costrutti devianti, cioè sbagliati – gli errori
2) in secondo luogo, vi sono elementi ai quali le regole non paiono
potersi applicare, che si caratterizzano per un comportamento
imprevedibile, che esce dal dominio e dal potere di controllo delle
regole stesse – le eccezioni
3) gli errori e le eccezioni si collocano in una sorta di periferia, in
un’area grigia ai margini del sistema. In sostanza, ciò che emerge da
questa visione è una presunta primogenitura della regola: essa viene
percepita come la premessa per l’uso. Gli errori vanno sanzionati e
corretti; alle eccezioni bisogna rassegnarsi.

 Analogia tra lingua e matematica


1) La visione normativa della lingua è analoga a quella che si ha della
matematica: essa viene percepita come il regno dell’oggettività,
senza spazio alcuno per deviazioni rispetto a quello che le regole
prescrivono.
2) Ma le analogie tra lingua e matematica non si fermano alla
percezione spiccatamente prescrittiva che di esse hanno coloro che di
tali discipline si occupano solo superficialmente. La matematica, al
pari della lingua, dispone di ‘operazioni’ (le ricette) che
consentono di comporre le unità di base (gli ingredienti) per
ottenere un insieme potenzialmente infinito di numeri. In fondo, il
principio che ci permette di ottenere il significato di forme come
mangiabile o tritacarne non è dissimile a quello dell’addizione:
sommiamo significati parziali e ‘semplici’ per ottenere un significato
‘complesso’ del tutto composizionale, allo stesso modo in cui uno più
uno fa due, due più due fa quattro, ecc. anche in questo caso, quindi
esistono regole che ci impongono di combinare le unità di base in un
certo modo per ottenere il risultato atteso.
3) Anche nel caso della matematica la primogenitura della regola è
tutt’altro che scontata: essa, sovente, è l’espressione di una
generalizzazione derivata dall’osservazione di un qualche fenomeno
e dei suoi ‘confini’, che spesso coincidono con quelle che vengono
definite eccezioni. Le eccezioni, come osserva Berruto, sono il
contrario e simmetrico delle regole e le presuppongono; non è
concepibile un’eccezione senza una regola.
→ Bolondi cita un caso emblematico della divisione tra numeri: essa
è sempre possibile (è, in sostanza, la regola), a meno che il
divisore sia zero. È corretto definire questo come caso
eccezionale? Il GRADIT definisce l’eccezione come un “fatto,
situazione, caso che esce dalla norma, dalla regola”, aggiungendo
che l’eccezione è dunque occasionale, spesso imprevedibile, non
generalizzabile, non classificabile. Eppure, a ben vedere, il caso
dello zero è regolarissimo e, in quanto tale, non ammette
eccezioni! In effetti, come affermano Simon e Wiese, “what
appears to be an exception in one scientific account is an
instantiation of the rules in a competing analysis.”

 Il rapporto relativo tra le nozioni di regola, eccezione e errore:


è solo la scuola a rendere esplicita la conoscenza di ‘regole’ che in
realtà utilizziamo da tempo in modo inconsapevole e che
abbiamo ricavato autonomamente (cioè senza alcun
insegnamento) analizzando la produzione di chi ci sta attorno e
procedendo per tentativi, ovvero correzioni di percorso. E questi
tentativi prevedono, inevitabilmente, ‘errori’, alcuni dei quali – a
partire dalle immancabili formazioni analogiche del tipo io ando, io
piangio, ecc. – sono generati proprio dalla presenza di eccezioni, di
elementi non generalizzabili che escono dal perimetro delle regole
stesse: tra vado e andare vi è un rapporto suppletivo; tra piango e
piangere vi è allomorfia del morfema lessicale. In entrambi i casi
nel dominio dell’imprevedibilità. Quindi: una eccezione blocca
l’applicazione della regola e determina la creazione di una forma di
fatto inspiegabile.

L’analogia è notoriamente un processo paradigmatico che mira a


livellare le incongruenze all’interno di paradigmi, sulla base del
quarto proporzionale: cantare : canto = andare : X. La forma
analogica ando è il prodotto naturale della applicazione della stessa
‘regola’ che lega canto, cantare, mangio e mangiare, cammino e
camminare, ecc. Tuttavia essa è un errore, secondo la grammatica
dell’italiano. Vado è la forma corretta, sebbene essa non sia
giustificabile nei termini dell’applicazione di una regola: come si è
visto, è una eccezione.
→ McMahon rileva il paradosso della situazione “analogy is
irregular but creats regularity”.
→ Come segnala Montermini, una regola sarebbe “un mecccanismo
la cui applicazione è automatica e che ha un alto grado di
generalità”; l’analogia “corrisponde piuttosto ad una relazione
locale tra singole coppie (o piccoli gruppi di parole).”
→ Però come affermano Blevins e Blevins, citati dallo stesso
Montermini, “a rule can be understood as a highly general
analogy”.
Le regole, dunque, sono in realtà una astrazione a partire
dall’uso, sono prima di tutto un meccanismo di analisi
dell’esistente e solo in seguito diventano un processo creativo,
come afferma Berruto le regole presuppongono le regolarità prima
di produrle.
→ “A rule is a generalisation over empirical observations that
allows predictions with regard to data yet to be collected” come
asseriscono Simon e Wiese (2011). Si tratta di regole
primariamente descrittive, il cui perimetro è dato proprio dai
casi che ad esse non sottostanno e che sfuggono alle
generalizzazioni. Il loro valore predittivo cessa quando emerge
l’eccezione.

→ Si consideri, ad es., il caso del suffisso diminutivo it. –ino.


Lasciando per il momento da parte le complesse sfumature
pragmatiche che spesso lo accompagnano, esso di norma indica:
1) ridotta dimensione fisica quando si unisce a nomi che
designano oggetti (librino, piattino);
2) una limitata quantità se la base è un nome non numerabile
(zuccherino);
3) l’esemplare giovane o il cucciolo se la base è un nome
animato non umano (giraffino), ecc.
4) Ogni capacità predittiva cessa però di fronte a una forma
come caratterino, il cui significato complessivo non è
composizionale, è imprevedibile, non risponde ad alcuna delle
possibili generalizzazioni ricavate dall’analisi del rapporto tra
base ed affisso. Caratterino dunque costituisce una eccezione ai
principi che spiegano il comportamento di –ino.
→ Un secondo es. del suffisso –bile ci mostra però come ciò che
esce dalla regola non sia sempre di default eccezionale. Il suffisso
–bile forma agg. deverbali, il cui significato è riassumibile nella
parafrasi ‘che può essere V’:
1) mangiabile
2) cantabile
3) percorribile
4) digeribile
5) Questa generalizzazione, tuttavia, non coglie appieno il
comportamento del suffisso: forma come papabile o carrabile
non possono essere descritte in questi termini, visto che la base è
indubbiamente nominale. Esse non paiono tuttavia derubricabile
al rango di mere eccezioni,
→ sia perché il loro significato non è affatto imprevedibile
(appare del tutto compatibile con la parafrasi menzionata poco
sopra);
→ sia perché sono in buona – e nutrita – compagnia:
camionabile, ciclabile, tascabile, ecc.
→ La soluzione in questo caso è duplice: 1) o si ipotizza la
presenza di due regole distinte, seppure parzialmente
sovrapponibili, 2) o si allargano le maglie della rete e si
attenuano i vincoli relativi all’entrata del processo in esame,
ammettendo che i processi di formazione di parole possano avere
un grado di flessibilità superiore a quanto si è a lungo ritenuto.
→ possiamo affermare che formazioni come mangiabile e
tascabile si caratterizzano per un diverso indice di
occorrenza. Le forme che rispondono al primo schema sono
senza dubbio più frequenti di quelle riconducibili al secondo, ma
senza che questa differenza possa essere descritte nei termini di
due moduli qualitativamente distinti, uno aperto (quello
rispondente alla regola) e uno chiuso (quello delle eccezioni)

 Il cambiamento nella concezione, o nello status, di regola cui si


è fatto cenno sopra è quindi particolarmente evidente
nell’ambito della morfologia derivazionale, dove si è di recente
passati dalla rappresentazione della struttura interna di parole
complesse sotto forma di ‘Regole di formazione di parola (Word
formation rules)’, di tipo essenzialmente sequenziale e addittivo,
accompagnate da una serie di restrizioni per evitare che le
regole ipergenerino, che producano più forme rispetto a quelle
ammissibili, agli schemi di matrice costruzionista, nei quali il
ruolo della analogia assume una posizione centrale e il
confine tra regola e (presunte) eccezioni si fa più labile.
 il quadro della teoria costruzionista:
l’impressione di avere a che fare con una regola si ha quando
una serie di corrispondenze lessicali è talmente sistematica e
generalizzata da sembrare automatica; in realtà, nessuna
corrispondenza è talmente generale da avere il carattere di
obbligatorietà che, per definizione, dovremmo attribuire ad una
regola. Se per regola intendiamo un’operazione che, dato un
input adeguato, si applica automaticamente per fornire un
output univoco e prevedibile […], siamo costretti ad ammettere
che in morfologia non esistono regole. Persino un fenomeno che
è spesso considerato come il prototipo della ‘regola’
morfologica, la costruzione del plurale dei nomi in ing. […],
non è interamente regolare e conosce un certo numero di
eccezioni, dovute perlopiù ad accidenti storici. Possiamo
considerare, infatti, che la morfologia è costitutivamente
irregolare a causa degli oggetti che manipolano:
le parole non sono unità linguistiche inerte, ma costituiscono
l’interfaccia tra la lingua e la conoscenza del mondo […], e di
conseguenza sono, per definizione, soggette a qualsiasi tipo di
influenza extralinguistica, storica, sociale, pragmatica, ecc.

 come illustra Lenci, le regolarità delle lingue possono essere


efficacemente rappresentate come vincoli probabilistici:
I valori della probabilità variano con continuità tra zero, che
quantifica l’impossibilità di un evento, e uno, il valore assunto
da un evento che accade con assoluta certezza. Lo spazio delle
regole probabilistiche non è discreto, e le strutture linguistiche
possibili in una lingua sono modellate con il continuum delle
distribuzioni di probabilità, senza ridursi a pure opposizioni
categoriali. Le probabilità dei vincoli della grammatica sono
ricavate automaticamente dalla distribuzione statistica degli
eventi linguistici osservati in corpora testuali. La frequenza di
occorrenza di un evento linguistico viene infatti usata per
stimarne la sua probabilità. Le regole della grammatica sono
dunque rappresentate come generalizzazioni induttive che
catturano regolarità statistiche presenti nell’uso linguistico.
Nei sistemi probabilistici, il ruolo del linguista non è
“scrivere” le regole della grammatica, bensì addestrare il
sistema a svolgere un dato compito, individuando la
metodologia migliore che consenta al sistema stesso di estrarre
dalla distribuzione statistica dei dati linguistici i vincoli e le
regole per svolgerlo.

 La dimensione probabilistica
In una dimensione probabilistica, imbattersi in un caso inatteso non
significa vedere contraddetta una regola, ma piuttosto, correggerne il
grado di probabilità.
Il quadro tracciato su questi presupposti dà indubbiamente una
immagine più fedele alla reale natura dei fatti linguistici:
le regole sono
1) in primo luogo uno strumento per descrivere le
regolarità osservabili nell’uso che della lingua fanno i
parlanti;
2) le regolarità non dipendono affatto dalle regole, è
vero, invece, il contrario;
3) inoltre, le regolarità non presuppongono un
discrimine netto e rigido tra ciò che ha diritto di
cittadinanza nella lingua e ciò che è escluso da essa.
Esse piuttosto, ricalcano un gradiente di accettabilità
che prevede, al suo interno, forme diverse che, a loro
volta, si contraddistinguono per differenti probabilità
di occorrenza: ciò che è probabile è generalmente
percepito come più regolare.

→ Come nota Cerruti, il quadro non è completo, resta scoperto


l’aspetto cruciale della percezione delle regolarità = la
percezione delle regolarità nell’uso della lingua non avviene in
astratto, ma dipende in primis dal contesto extralinguistico.
Anche nella formulazione delle generalizzazioni ricavabili
dell’analisi di queste regolarità la componente sociale non può
essere trascurata. Alcune delle regole della lingua possono
essere correttamente descritte solo in un quadro di co-
variazione. Un singolo tratto linguistico può avere due o più
varianti correlate a variabili correlate a variabili di ordine
sociale, la cui occorrenza è prevedibile: in sostanza, la scelta tra
le varianti è spesso determinata da parametri sociali. La stessa
variante può essere percepita come regola o come eccezione (o,
talora, errore) se considerata in rapporto ai diversi valori che
uno stesso parametro sociale può assumere ai segmenti della
comunità linguistica che questi valori identificano.
→ Ad es. la pronuncia tendenzialmente fricativa (quasi
interdentale) dell’affricata [ts] è assai diffusa nelle varietà
emiliane e, soprattutto, romagnole e non è limitata alle situazioni
informali. Essa è percepita come assolutamente naturale da una
percentuale rilevante di chi la utilizza, mentre ‘stona’
all’orecchio avvezzo alla realizzazione affricata.
 La regola tenderà a coincidere con la variante usata
(principalmente nei contesti formali) dalla componente
maggioritaria di una comunità linguistica. In questa
prospettiva, una eccezione a una regola di questo tipo non è
dunque misurabile solo in termini probabilistici, ma deve essere
valutata anche “rispetto ad un pattern di variazione; ovvero
sarà data da un pattern di variazione diverso”
 L’eccezione o l’errore assumono dunque un carattere relativo:
uno stesso fenomeno linguistico potrà essere percepito come
‘regolare’ o ‘eccezionale’ se viene osservato da angolature
diverse.
 In altri termini, come nota Grassi, perciò la nozione di
eccezione è inscindibilmente legata a quella di variazione e
variabilità delle regole (Grassi).
 Visione della prototipicità
Una visione di questo tipo è vicina alla rappresentazione dei
fatti linguistici nei termini di una costellazione di manifestazioni
progressivamente meno prototipiche attorno a un centro
prototipico, che contraddistingue l’approccio tipologico. Si può
in effetti supporre che i valori della probabilità di un evento
linguistico siano sostanzialmente in accordo con quelli della
tipicità (e, allargando ulteriormente il campo, con quelli della
marcatezza): l’occorrenza di una struttura non prototipica o di
una struttura marcata dovrebbe essere meno probabile di una
prototipica o non marcata. Si può quindi affermare che una
forma come mangiabile rappresenta tipicamente il
comportamento del suffisso –bile, mentre tascabile, che è meno
probabile, si caratterizza come una sua manifestazione non
prototipica.
Ciò che complica il quadro è che l’identificazione
dell’eccezione con la non prototipicità diviene meno scontata
quando si passa al livello della comparazione interlinguistica.
L’ordine dei costituenti della frase indipendente dichiarativa
assertiva in hixkaryana, una lingua del gruppo Karib parlata, da
poco meno di 1000 persone, in Brasile è OVS:

toto y-ahos i-ye kamara


man 3:3-grab-DISTANT.pst jaguar
‘The jaguar grabbed the man’

→ Il WALS censisce 565 lingue con ordine SOV, 488 con


ordine SVO, 95 con ordine VSO, 25 con ordine VOS, 4 con
ordine OSV e 11 con ordine OVS. Evidentemente, l’ordine
OVS, al pari degli altri ordini in cui il soggetto segue l’oggetto,
è atipico, in prospettiva interlinguistica. Il numero di lingue in
cui è attestato è decisamente limitato. È un costrutto
interlinguisticamente eccezionale e raro (o con bassa probabilità
di occorrenza). La sua scarsa occorrenza è stata spiegata
essenzialmente con vincoli di natura funzionale.
→ In italiano, una frase con ordine dei costituenti OVS è
possibile, ma si caratterizza per un elevato indice di marcatezza:
una sequenza come il gelato, mangia il bambino è accettabile
solo con un contorno intonativo particolare, con una pausa –
resa graficamente dalla virgola – tra il primo sintagma nominale
ed il verbo, in un numero assai limitato di contesti, ecc.
Una struttura interlinguisticamente eccezionale e che, in it.,
rappresenta un ‘evento’ abbastanza inconsueto in termini
probabilistici è però in hixkaryana la prassi. Le frasi
indipendenti dichiarative assertive non marcate hanno by default
un impianto che prevede l’oggetto diretto in posizione iniziale,
il v. in posizione intermedia e il soggetto in posizione finale. La
struttura OVS è la norma, la ‘regola’, l’evento che presenta
valori di probabilità prossimi a uno, per riprendere la citazione
di Lenci. Ciò che è eccezionale in ottica comparativa diventa
regola se il campo di indagine si restringe.

3. Regole ed errori
 Il termine ‘errore’ individua un insieme molto vasto e articolato di
fenomeni linguistici, accomunati dall’essere percepiti in qualche
modo come devianti rispetto ad una ‘regola’ o ad una ‘norma’.
 Le macrocategorie di errori: tali fenomeni possono essere in prima
istanza suddivisi in (almeno) due macrocategorie:
1) l’errore di esecuzione o di parole
→ Corrisponde a ciò che viene generalmente definito lapsus
linguae;
→ ha carattere non intenzionale e viene compiuto quando una
azione mentale volontaria non corrisponde alla sua consueta,
attesa, concretizzazione.
Il lapsus è il prodotto di una discrepanza tra il livello della
competenza (che suggerisce al parlante di applicare una certa
‘regola’) e quello dell’esecuzione ovvero della parole, dove la
‘regola’ non si concretizza e dove appare perciò un costrutto
deviante.
Chi lo commette spesso lo riconosce autonomamente e si
‘autocorregge’.
→ Esso è dunque asistematico, ma mostra significative regolarità,
analizzate soprattutto in ambito psicolinguistico (principalmente
quando esso sia correlabile a particolari disturbi o patologie).
→ Di esso non ci occuperemo nel seguito di questo volume, da
questo momento in poi con il termine ‘errore’ ci si riferirà solo
all’errore di apprendimento e acquisizione.
2) l’errore di apprendimento e acquisizione
→ Questo tipo di errore, invece, è sì inconsapevole, ma del tutto
intenzionale.
→ Esso corrisponde all’applicazione volontaria – seppure
inconscia – di una ‘regola’ che fa parte della competenza di
un parlante e che si è sviluppata a seguito di un processo di
astrazione a partire da un input.
→ L’errore di apprendimento è intenzionale ma inconsapevole
perché chi lo commette applica intenzionalmente una regola del
proprio sistema linguistico, non percependo tuttavia la
divergenza tra essa e quella degli altri parlanti
(convenzionalmente percepita come corretta e dunque usata
come termine di raffronto).
→ Nella percezione collettiva e ‘ingenua’, la tipica manifestazione
di quello che abbiamo appena definito errore di apprendimento
coincide con la mancata applicazione di una regola della
grammatica ‘ufficiale’: ma esso, talora, scaturisce dall’eccessiva
applicazione di una regola. > è il caso, ad es., di ipercorrettismi,
cioè dell’applicazione di una regola a forme che per ragioni
molteplici, non la richiedono. Ad es., le forme habbiamo e
havete sono errori prodotti dall’ applicazione di una regola alle
uniche due forme del presente indicativo del v. avere che non la
richiedono. > In questo caso, dunque, la regola ha un raggio
d’azione più ampio di quello che le viene attribuito nella varietà
considerata come norma.
→ A differenza di quanto accade nel lapsus, nell’errore di
apprendimento il parlante in genere non giunge, autonomamente,
all’autocorrezione. La correzione determina infatti una
ristrutturazione della competenza e necessita, quindi, di un
intervento esterno. La divergenza di cui si è detto poco fa emerge
dunque solo dal confronto con altre produzioni, passando dalla
dimensione individuale a quella sociale. > L’errore di
apprendimento nasce perciò dalla discrepanza tra due o più
competenze e dalla loro diversa proiezione al livello della
langue, dove, cioè una è percepita come corretta e una no . Tale
diversa rappresentazione è un fatto meramente convenzionale e
non dipende affatto dai costrutti linguistici coinvolti.
→ È evidente che l’errore di apprendimento mostra elementi di
contatto significativi con il processo dell’interferenza e del
contatto interlinguistico. In questo caso, non c’è interferenza tra
lingue diverse, ma tra livelli diversi o varietà diverse all’interno
dello stesso diasistema: si ha, dunque, una interferenza
intralinguistica.
→ Cadorna = l’errore linguistico di apprendimento da parte di un
membro di una comunità linguistica non è interno alla ‘sua
lingua’: egli pone in atto un comportamento coerente rispetto
alla sua competenza. L’errore emerge nella sua evidenza quando
viene confrontato con un’altra varietà di lingua, cioè con una
varietà di lingua ‘non sua’.
→ L’errore di apprendimento di fatto non esiste: non è deviante
rispetto ad una regola, è semplicemente la realizzazione di
un’altra regola. Esso emerge solo assumendo un punto di vista
esterno alla competenza del parlante (mentre lapsus è totalmente
interno ad essa). L’errore è tale solo per l’ascoltatore, non per il
parlante.
→ Andorno = la nozione di errore parrebbe dunque rilevante solo
nel campo dell’apprendimento di lingue seconde. Si tratta però
di una visione parziale, in quanto l’idea fondante delle
discipline che studiano le interlingue, o varietà di
apprendimento è che anche in questo caso oggetto di interesse si
ala sistematicità, cioè la presenza di regole, più che la devianza.
> Ovviamente queste regole possono dar luogo alla produzione
sistematica di costrutti devianti rispetto alla norma della lingua
target. Ma ciò che conta non è tanto la discrepanza rispetto ad
essa, quanto, piuttosto, il loro carattere sistematico, ‘regolare’
nella grammatica dell’apprendente: egli è un soggetto ‘attivo’,
che formula ipotesi sulla base di un input, cercando di costruire
un sistema linguistico logico e internamente coerente, sia pure
transitorio.
> In questo quadro, l’errore si configura come l’indicatore di una
regolarità… altra rispetto a quella della lingua target, nella
varietà assunta a riferimento. E diventa uno strumento utile per
capire quali ipotesi sta formulando l’apprendente sulla lingua che
sta imparando.
→ La questione dello status da attribuire agli errori diviene
cruciale quando si passa da un contesto di apprendimento
spontaneo ad uno guidato, quando entra in gioco un percorso di
insegnamento predeterminato, nel quale gli errori – le devianze
dalla norma della lingua di arrivo – vanno corretti e ricondotti a
quanto stabilisce la grammatica della lingua target:
→ Grassi = una didattica realmente acquisizionale dovrebbe
costruire la correzione, e quindi l’evoluzione della competenza,
a partire dalle regole sottostanti alle produzioni interlinguistiche
divergenti dal target, che andrebbero pertanto fatte emergere in
forma conscia e verbalizzata, così da poter essere scardinate,
scomposte e ricomposte in regole più targetlike.
→ In sostanza, la correzione degli ‘errori’ non dovrebbe
prescindere dall’assunzione di consapevolezza delle ‘regole’ che
li hanno prodotti. Il confronto tra lingua target e varietà di
apprendimento non dovrebbe perciò limitarsi al piano
dell’esecuzione, ma allargarsi a quello della competenza. Come è
noto, la competenza non è solo linguistica, ma anche
comunicativa: gli effetti comunicativi dell’errore sono di norma
trascurati, soprattutto in contesto scolastico; un errore andrebbe
analizzato anche in base agli effetti che produce sul destinatario
o agli ostacoli che crea alla buona riuscita della comunicazione.
Eppure molto spesso gli errori corretti con più pignoleria dagli
insegnanti sono quelli meno rilevanti per la comunicazione
(ortografia, punteggiatura, errate assegnazioni della classe
flessiva, ecc.) e trasmettono una visione della lingua slegata
dall’uso e dunque fine a sé stessa.

3.1. Gli errori impossibili


 La prevedibilità degli errori di acquisizione e apprendimento
Sono prevedibili per due ragioni:
1) se gli errori, intesi come devianze da una norma, sono in realtà
manifestazioni di ‘altre grammatiche’, diverse da quella assunta a
riferimento, in certe condizioni, da una comunità linguistica, non
c’è ragione di supporre che i principi che li determinano siano
diversi da quelli che stanno alla base delle regolarità della
grammatica ‘ufficiale’.
→ Per es. una forma ufficialmente sbagliata come a me mi piace
è riconducibile al fenomeno del raddoppiamento clitico (o
duplicazione pronominale): un pronome clitico occorre
generalmente in un sintagma verbale, accanto al sintagma
nominale a cui si riferisce. I costrutti prodotti dal
raddoppiamento clitico sono ‘corretti’ in spagnolo, in rumeno,
in alcune lingue slave meridionali, in albanese, ecc. in italiano,
no; o, almeno, non nelle varietà diafasicamente orientate verso
il polo formale. Il loro diverso statuto è dovuto alla
percezione che di essi hanno i parlanti, non certo alla
struttura formale che è, di fatto, identica.
→ In una frase come una settimana fa mi chiama il ragazzo che
gli ho venduto l’articolo, il pronome relativo invariabile che –
ufficialmente sbagliato in questo contesto – è frutto di un
processo di semplificazione dei paradigmi che pare
caratterizzate ampi segmenti dell’impianto strutturale delle
lingue europee e che ha portato a una drastica riduzione
morfosintattiche. Si pensi all’ing., dove l’uso di that come
relativo invariabile surclassa quello di who, whose, whom ecc.
anche in varietà alte e formali. Senza alcuna obiezione sulla
sua ‘correttezza’.
2) l’etichetta stessa di errore linguistico di apprendimento indica
che l’errore non avrebbe ragion d’essere senza la presenza di una
componente appresa nel sistema di comunicazione che lo ‘ospita’.
Considerazione non banale. Un sistema di comunicazione
biologicamente fondato, genericamente predeterminato, non
lascia spazio agli errori. A meno che essi non siano la
conseguenza di un difetto nella trasmissione dei geni che
sovrintendono alla comunicazione stessa. L’errore nel linguaggio
animale, ad es., è pressoché inesistente. Inoltre, i sistemi di
comunicazione innati non ammettono variazione. La correlazione
tra assenza di variazione e assenza di errori nei sistemi di
comunicazione non appresi è significativa alla luce di quanto
riguardo al ruolo cruciale della co-variazione linguistica e
sociale nell’analisi delle devianze dalla norma.
→ L’assenza di variazione rende del tutto irrilevante la nozione
di norma, di fatto la priva di qualunque fondamento: senza
variazione non ha evidentemente senso individuare una varietà
da assumere a riferimento, rispetto alla quale ‘misurare’ e
valutare usi devianti.
→ L’assenza di variazione annulla la divergenza tra norma e uso,
cancella la nozione di accettabilità e impone solo giudizi
binari di tipo sì/no sulla grammaticalità di una forma
linguistica.

 Linguaggio animale:
proprio la rara presenza di errori sistematici è un argomento
inconfutabile a favore del carattere non innato di alcuni
comportamenti comunicativi.
→ Masin (2013) riferisce il caso dei cercopitechi grigioverdi
africani, che usano tre gridi d’allarme diversi a seconda della
natura del pericolo: essi dispongono di un richiamo specifico
per segnalare la presenza di un rapace, di un richiamo dedicato
ai grandi felini e di un richiamo che segnala la presenza di un
serpente. Ai tre segnali d’allarme corrispondono tre reazioni
differenti (acquattarsi nell’erba, fuggire su un albero e alzarsi
sulle zampe posteriori rispettivamente). Il fatto che i giovani
cercopitechi commettano spesso errori nell’abbinamento dei
segnali al predatore e che essi vengano puniti se non
producono il segnale corretto rispetto al contesto è considerato
una prova del carattere almeno parzialmente appreso del loro
sistema di comunicazione.

 Nelle lingue storico-naturali l’incidenza degli errori di


apprendimento non è uniforme nei livelli di analisi. Ci sono errori
che non vengono mai commessi, ci sono aree della grammatica
nelle quali gli errori proliferano (morfologia) e altre nelle quali
sono decisamente sporadici (la sintassi, su tutte).

Moro (2006) nella sua sintetica rassegna di errori linguistici,


introduce dunque un ulteriore tipo di errore, omissione:
l’errore in questo caso non è più la forma attestata (magari rara)
che devia dalla norma stilistica e socialmente marcata,
generando raccapriccio nei «colti», ma la forma assente, la
forma sempre rifiutata, la forma omessa che nessun parlante
produce: come per es. la sequenza nome-articolo in italiano (tipo
*casa la). Il linguista cerca di dare una spiegazione proprio di
queste omissioni, che ovviamente non possono essere solo
ricondotte a fatti storici, casuali o convenzionali.
→ Ragione dietro lo squilibrio nella distribuzione degli errori tra i
vari livelli di analisi. Secondo Moro la ragione di questa
asimmetria va ricercata nel possibile fondamento biologico di
alcune strutture di linguaggio umano, a partire dalla sintassi.
Una conclusione di questo tipo sarebbe coerente con la
presenza di una guida biologica determinata renderebbe di
fatto inammissibile l’errore, inscindibilmente legato alla
componente appresa. Si tratta di un terreno tanto affascinante
quanto sdrucciolevole, che, proprio per questo non
investigheremo oltre.
→ È indubbiamente vero che una struttura come casa la non
viene prodotta da alcun parlante dell’italiano, in nessuno
stadio dell’apprendimento della sua lingua e in nessun contesto
d’uso. Ma è vero che una struttura di quel tipo viene prodotta
da parlanti di lingue in cui l’articolo è posposto al nome (il
basco, il lakhota, ecc.), i quali, specularmente, non dovrebbero
invece produrre erroneamente forme come la casa. Ancora una
volta, perciò, è complesso proiettare a livello interlinguistico
generalizzazioni che, a livello intralinguistico, paiono
convincenti.
4. Conclusioni: quando l’errore diventa norma (e viceversa)
 L’errore di omissione
Non è la forma deviante dalla norma linguistica in uso, bensì la
forma assente, sempre rifiutata che nessun parlante produce, tipo
casa la in italiano.
Pare configurarsi come una sorta di errore di linguaggio, più che di
lingua.
 L’errore di esecuzione o lapsus (parole)
Ha una dimensione che coincide con quello del singolo parlante: esso
è del tutto non intenzionale, emerge dal confronto tra competenza ed
esecuzione, sfocia spesso in un’autocorrezione.
 L’errore di apprendimento o di acquisizione (dimensione della
langue)
Invece, estende il suo parametro alla dimensione della langue, è
esterno alla competenza ed è del tutto intenzionale.
→ Esso non è un fatto linguistico, non viola una regola, ma
rappresenta una deviazione da una norma, cioè da un uso
convenzionalmente avvertito come corretto all’interno di una
gamma di varietà
→ La percezione di questa deviazione è un fatto esclusivamente
sociale: dipende, ad es., dal livello di standardizzazione della
lingua, dalla presenza o meno di forti pressioni normative, dagli
ambiti d’uso della lingua, ecc.
→ La norma, ovvero il parametro di riferimento che ‘misura’ gli
errori (e che stabilisce cosa è sbagliato e cosa non lo è) è
instabile e transitoria, perché esso è di per sé convenzionale: la
norma varia e spesso lo fa proprio sotto la pressione degli errori, o
meglio, dei comportamenti devianti.
→ Potremmo affermare che la lingua cambia anche quando il
rapporto tra errore di apprendimento e norma violata
corrispondente si ribalta, cioè, quando la norma diviene
minoritaria in termini di numero di occorrenze e di frequenza
rispetto alla costruzione deviante. Questo presuppone:
 Da un lato che la devianza sia uniforme all’interno di una
porzione significativa della comunità, in altre parole che un
numero consistente di parlanti compia il medesimo ‘errore’, e
che dunque, l’errore sia il frutto dell’azione di un processo
linguistico generale come la rianalisi, l’analogia, ecc.
→Es. si consideri un caso abbastanza indicativo.
Nel passaggio dal lat. alle lingue romanze, la vocale breve
tonica in sillaba aperta divenne dittonga (dĕ ce(m) > dieci;
pĕ de(m) > piede, ecc; bŏ num > buono, ecc.)
Nel paradigma del v. sŏ náre:
la 1ª pers. sing. del presente indicativo, sŏ no > la forma
dittongata italiana suono;
l’infinito ‘sonare’, al contrario, non ha il dittongo, dal
momento che la ŏ non è tonica (sŏ náre > it. sonare; si veda,
tra le centinaia di es., Canzoni da sonare a una, due, tre et
quattro di Girolamo Frescobaldi, 1634)
il paradigma del v. sonare in it. si caratterizza dunque
inizialmente per un’allomorfia del morfema radicale (o/uo),
prodotta dall’evoluzione del vocalismo tonica appena
descritta (quindi, in sostanza, da una regola che agisce in
diacronia). Questo paradigma parzialmente incongruente
subisce un prevedibile livellamento analogico (canto :
cantare = suono : X), che produce la forma suonare,
ufficialmente ‘sbagliata’ in quanto non riconducibile ai
meccanismi evolutivi appena tracciati, che soppianta, nel
tempo, la forma ‘corretta’ sonare. Questo ribaltamento è
possibile perché, sebbene l’origine dell’errore sia individuale,
esso è comunque prodotto dell’azione di un processo
generale, che innesca una serie di innovazioni individuali
convergenti.
Ovviamente la definitiva consacrazione a norma della forma
errata suonare e il conseguente passaggio della forma corretta
sonare al rango di variante desueta e la sua successiva
espulsione dal sistema sono l’esito di un processo che ha
preso le mosse nelle varietà in uso in contesti non sorvegliati
(parlato informale) e si è progressivamente espandendo in
altri ambiti di impiego dal basso livello di standardizzazione
della lingua. È solo la piena accettazione sociale che sancisce
il rovesciamento dei ‘rapporti di forza’ tra suonare e sonare.
 Dall’altro, vi sia un’attenuazione del ‘controllo sociale’ sulla
lingua.

→ In altri termini, la percezione dell’errore non è un fatto assoluto,


ma relativo, sia in sincronia che in diacronia.
1) in sincronia, essa dipende in primo luogo dalla varietà di lingua
utilizzata e dal contesto in cui la produzione linguistica si colloca:
> nelle varietà basse sugli assi diafasico e diastratico e in quella di
orale sull’asse diamesico, l’errore tende a nascondersi;
> mentre quando ci si sposta verso il polo alto degli assi diafasico e
diastratico e verso quello della scrittura nella dimensione
diamesica, l’errore appare in tutta la sua evidenza
In altri termini, la stessa struttura linguistica può essere percepita
come sbagliata e sanzionabile in alcuni contesti e può invece
passare del tutto inosservata in altri, nei quali si avverta un
controllo meno pressante sulla lingua.
Riferendoci all’errore linguistico non dobbiamo parlare di forme
corrette o sbagliate, ma di forme più o meno devianti, dove il
valore dipende in via pressoché esclusiva da fattori
extralinguistici. Va da sé che la dimensione sociolinguistica è
componente imprescindibile nell’analisi dell’errore linguistico.
2) in diacronia, tanto l’errore linguistico quanto l’eccezione
possono fungere da sintomi di un cambiamento in atto, da spie
di un percorso evolutivo che potrà arrivare, talora, a rovesciare il
rapporto tra regola ed errore o tra regola ed eccezione,
trasformando in norma la devianza. Essi costituiscono un elemento
diagnostico di grande rilevanza negli studi sul cambiamento.
Oppure, le eccezioni e gli errori possono rappresentare le vestigia
di precedenti regolarità, tracce residuali di regole riconducibili a
uno stato precedente della lingua, fungendo, dunque, da elementi
chiave nel processo di ricostruzione. In entrambi i casi pare
evidente che:
Frank Zappa = senza deviazione dalla norma, il progresso non è
possibile.

 L’errore intenzionale: spesso a finalità umoristico-ludiche (che ha a


che fare con ‘gioco’), del tipo muoro.
→ La genesi di questa forma è interessante. Essa è stata prodotta da un
personaggio televisivo non madrelingua italiano, Joe Bastianich. Si
tratta dunque di un probabile errore di apprendimento. Il successo
crescente del programma ha trasformato questa forma in una sorta di
tormentone, che ha innescato un inarrestabile processo di
emulazione il cui esito è stato l’ingresso della forma muoro negli usi
linguistici di un numero crescente di italofoni e di contesti. Si tratta,
in sostanza, di una deviazione consapevole e volontaria rispetto alla
forma ‘regolare’ muoio. Un errore di questo tipo può ovviamente
innescare, come effetto a catena, una serie di errori di
apprendimento e acquisizione. Se così fosse, abbiamo un percorso
ciclico, innescato da un errore di apprendimento sulla L2 e chiuso
da un errore di apprendimento sulla L1.
II. Regole, eccezioni, errori in matematica (Giorgio Bolondi)
1. Casistica
Sono molto pochi gli oggetti della matematica che vengono
ufficialmente denominati ‘regole’, e quali essi siano è variabile da
contesto a contesto e da lingua a lingua, senza regolarità alcuna.

2. Gli assiomi sono regole? I teoremi sono regole? Le procedure sono


regole?
La regola del tre è una procedura per risolvere una categoria di
problemi
La regola di Ruffini è una algoritmo;
Le regole di de l’Hopital sono teoremi;
La chain rule è una formula;
Nella maggior parte degli altri casi, le procedure, gli algoritmi, i
teoremi e le formule non vengono chiamati regole. Negli articoli di
ricerca degli ultimi cent’anni è molto improbabile trovare la parola
‘regola’ e così pure nei trattati ad uso degli studenti universitari.

3. Regole e norme nella classe di matematica


È interessante domandarsi perché l’idea di regola sia così radicata
nell’immagine della matematica che molti hanno. Una possibile
risposta viene dalla riflessione didattica.
All’interno della classe di matematica si instaurano delle norme. Si
pensi al contratto didattico introdotto da Brousseau che lo definisce
come l’insieme dei comportamenti dell’insegnante attesi dallo studente
e l’insieme dei comportamenti dello studente attesi dall’insegnante.
Questo contratto si concretizza in un insieme di regole che
condizionano l’azione dello studente, alcune delle quali sono ormai
classici oggetti di studio:
Una nave trasporta 20 pecore e 16 capre. Quanti anni ha il capitano?
Una percentuale altissima di allievi risponde senza esitazione ‘36’.
Regola implicita del tipo ‘il maestro ha messo dei numeri quindi si
aspetta che io faccia delle operazioni con essi’.
Balacheff ha introdotto la nozione di costume didattico, si tratta di
regole di funzionamento della classe di matematica, dal carattere più
generale, che derivano da convinzioni entrate più in profondità. Per
descrivere in particolare gli aspetti normativi della discussione
matematica in classe si usa parlare anche di norme sociomatematiche.
In conclusione si può dire che non ci sono regole di matematica ma ci
sono molte regole nelle classi di matematica.

4. Cerca la regola!
Un esercizio molto diffuso nei libri scolastici di matematica, soprattutto
nelle scuole primarie, consiste nell’individuare la regola che sta dietro
una determinata sequenza di numeri o di figure. Anche nell’Invalsi
(quelle italiane). L’italiano usa la parola ‘regola’, mentre l’inglese
preferisce ‘geometrical o numerical pattern’. Sarebbe più opportuno
parlare di regolarità. In matematica la ricerca di regolarità negli oggetti
e nelle situazioni è molto importante, e per questo viene indicato di
svilupparla fin dai primi passi nel mondo della scuola. È alla base di,
per es., di una delle procedure più caratteristiche del pensiero
matematico, la generalizzazione. Nella storia della matematica sono
frequentissimi i casi in cui, riflettendo sulle regolarità riscontrate in
situazioni di complessità via via crescente, si è arrivati a individuare
una categoria di oggetti più generali in cui comprendere come può
essere fatto uno spazio n-dimensionale; individuare una regolarità in
una successione può permettere di scoprire la legge in base alla quale la
successione è generata. Passare dalla scoperta di una proprietà valida in
un caso particolare all’enunciazione di un teorema generale è un
processo che spesso richiede la generalizzazione di una qualche
regolarità osservata e intuita.

5. Elementi generici ed eccezioni


L’idea di eccezione ha alcune sue manifestazioni caratteristiche
soprattutto in geometria. Talvolta si preferisce parlare di caso
eccezionale, come di quello in cui una proprietà o una procedura
(dunque una possibile regola) non funziona. Si pensi alla divisione tra
numeri che si può sempre eseguire, con un’eccezione: quando il
divisore è zero. Questa più che un’eccezione, potrebbe essere definita
come un caso escluso dalla definizione (la regola?). La matematica
moderna ha introdotto l’uso del prefisso quasi per individuare proprietà
che valgono per tutti gli elementi di una famiglia di oggetti, tranne
‘pochi’. L’eccezione è quindi il comportamento di pochi oggetti,
rispetto al comportamento della maggioranza degli oggetti della stessa
famiglia, spesso individuato come più semplice.

6. Conclusioni
Oggi la matematica non parla di regole e vede l’insegnamento di regole
come un qualcosa che limita la potenza, l’applicabilità e il senso stesso
della disciplina. Parla piuttosto di strutture, ognuna delle quali regolata
da passioni o proprietà, e parla di modelli che descrivono attraverso
regole semplificate di funzionamento i fenomeni della realtà. La regola
non è una categoria dell’organizzazione del sapere matematico, e men
che del pensiero matematico.

III. Le regole in linguistica (Berruto)

1. Le regole
 Etimologia di ‘regole’
Il termine regola e i suoi corrispondenti nelle altre lingue romanze e
germaniche (règle, regla, rule, regel,…) vengono dal lat. ré gǔla
‘asticella, righello’ (deverbale da ré go, regere) quindi ‘metro di
misura’, da cui per astrazione ‘linea di condotta, norma’. Questo è
infatti il valore di base del lessema regola in italiano.
De Mauro: “l’ordine costante che si riscontra nello svolgimento di una
certa serie di fatti: fenomeni che si verificano con, senza una regola;
eccezione alla regola, caso anomalo, irregolare”
Seconda accezione di De Mauro “formula che prescrive il modo di
agire in un caso determinato o in una particolare attività, in base
all’esperienza o alla convenzione”, sviluppata dalla prima con
l’aggiunta di una componente pragmatica e normativo-prescrittiva.
 Le regole quindi colgono comportamenti uniformi o li producono (e,
comunque, li presuppongono); mettono ordine nel mondo. In
generale, una regola è implicitamente una regolarità ed
esplicitamente è un’affermazione che coglie una regolarità; o, più
impegnativamente, un’operazione che permette di prevedere il suo
risultato.

 L’eccezione – caso contrario e simmetrico della regola


De Mauro s.v. così definisce: “fatto situazione, caso che esce dalla
norma, dalla regola”.
 Le eccezioni però almeno in un certo senso sono anch’esse previste
da una regola, una regola secondaria che appunto regoli le eccezioni,
specifichi che cosa va inteso e che cosa vale come eccezione.
L’eccezione presuppone la regola.

 L’errore
Un altro concetto connesso con quello di regola, e in molti sensi
dipendente da esso, è quello di errore. [Dipende dal maneggiamento
che facciamo delle regole. Le regole (a) si seguono / (b) si rispettano /
(c) si applicano; ma anche (d) si violano.] Il risultato della violazione
della regola è in linea di principio un errore.
Secondo una prospettiva della filosofia della scienza, c’è un rapporto
necessario fra la nozione di regola e quella di errore, Winch (1958)
‘the notion of following a rule is logically inseparable from the notion
of making a mistake’.
Su questa base, epistemologi e filosofi della cognizione e del
linguaggio hanno introdotto un’importante distinzione fra due tipi di
regole. Ai linguisti che lavorano sulla pragmatica e sulla fondazione
teorica della sociolinguistica è ampiamente nota la distinzione
compiuta da Searl fra regole regolanti / regolative e regole
costitutive:
1) le regole regolanti regolano forme di comportamento già esistenti in
precedenza o esistenti indipendentemente; per es., molte regole di
etichetta regolano le relazioni interpersonali
2) le regole costitutive creano o definiscono nuove forme di
comportamento. Le regole del football o degli scacchi, per es., non si
limitano a regolare il modo di giocare, ma creano, per così dire, la
possibilità stessa di giocare a tali giochi.
È la stessa distinzione di Wright (1971):
1) norme che regolano (comandano, consentono o proibiscono) la
condotta;
> ci dicono che certe cose dovrebbero o potrebbero essere fatte.
2) regole che definiscono le diverse pratiche e istituzioni sociali.
> ci dicono come certe azioni sono effettuate. Spesso questo tipo di
regole, ma non in tutti i casi, è necessaria per eseguire una norma del
primo tipo.
In questa prospettiva, è chiaro che le regole sono regole di
comportamento: le regole regolative descrivono forme di
comportamento che si dànno indipendentemente dalle regole, le regole
costitutive generano nuove forme di comportamento, dipendenti nella
loro esistenza dalle regole stesse.
3) Eglin (1980) = un terzo tipo di regole come “istruzioni per
l’interpretazione” di azioni, processi, ecc, che sono sensibili al contesto
(‘in un contesto dato, X vale Y’).

2. Le regole nella lingua; regole, eccezioni, errori, scelte


 Regole dei linguisti & regole della lingua
1) regole dei linguisti: affermazioni che colgono regolarità nella lingua
2) regole della lingua: la regolarità stesse della, e nella, lingua

 Regole dei linguisti


Quelle dei linguisti presuppongono quelle della lingua, i parlanti
parlando applicano sempre delle regole, le produzioni linguistiche sono
un comportamento governato da regole.

 Dittmar (1989): i tre principali problemi che le regole pongono alla


ricerca linguistica:
1) Come dovrebbero essere formulate?
2) Come spiegano i comportamenti […]?
3) su che base descrivono regolarità? [riflettono dati obiettivi o
intuizioni?]
Per Dittmar, come per molta sociolinguistica, non v’è dubbio che il
comportamento linguistico sia in essenza comportamento sociale. Ne
consegue che “non ci sono differenze sostanziali tra regole linguistiche
e regole sociali”
 Il potere esplicativo delle regole in sociologia è ordinabile in uno
schema implicazionale, nell’ordine:
‘regole regolative ⊃ regole costitutive ⊃ istruzioni’
 Le regole linguistiche, essendo fondamentalmente ‘istruzioni’ o
‘regole costitutive sensibili al contesto’, “sono oggetto fondamentale
della sociologia”
 Mentre “le regole di Chomsky seguono il paradigma della scienza
naturale. Sono un’illustrazione delle regole regolative […].”
 Ma si può ritenere che la lingua costituisca contemporaneamente, e in
maniera intimamente intricata, sia una forma di comportamento
sociale e culturale, funzionale, sia un sistema formale con basi
biologicamente delineate, nessuno dei due varianti essendo
riconducibile all’altro;
 con la conseguenza che presumibilmente la lingua come/in quanto è
un comportamento sociale dovrà/potrà essere trattata da una o più
famiglie di regole, mentre la lingua come/in quanto è un sistema
formale dovrà/potrà essere trattata da altre famiglie di regole.

 Per quanto riguarda la regola, si tratta di un tipico concetto


trasversale. Parlare di ‘regole della grammatica’, in senso non tecnico,
fa ampiamente parte del linguaggio comune e dell’orizzonte di
riferimento di qualunque parlante.
Cardona = “ogni grammatica, quale che ne sia l’impostazione, è per
definizione un insieme di regole”. Lo stretto legame tra regole e
grammatica vige infatti sia in un’ottica tradizionale sia in un’ottica
formale generativista. La grammatica è fatta di regole.

 Le eccezioni
Come abbiamo già accennato, le eccezioni sono la controparte delle
regole grammaticali;
Matthews (1997):
1) exception: “a form, etc. that does not follow a rule applying
generally to those of its class”;
2) regular: “a form which conforms to a rule whose application is
predicted by some general property of a unit”
→ Per es.,
alla regola che i parossitoni in –co, -go escono plurale in –chi, -ghi
fanno eccezione tra l’altro: amico > amici, nemico > nemici, greco
> greci, […], porco > porci.
alla regola che i proparassitoni in –co, -go escono in plurale in –ci,
-gi fanno eccezione tra l’altro: carico > carichi, […], obbligo >
obblighi
 Regole che ammettono eccezioni & regole che non lo fanno
1) Le regole quali dispositivi minimali della teoria grammaticale,
assolute e predittive, sarebbero per definizione incompatibili con
eccezioni.
Se una regola predittiva ha eccezioni, non è una regola ‘con le carte in
regola’; col corollario 附 录 bisognerebbe riformulare la regola in
maniera che dia conto delle eccezioni.
2) Le regole come generalizzazioni, invece, ammettono eccezioni.

 L’errore
La nozione di errore è evidente e intuitiva, ma è anche problematica per
il linguista. Nelle prospettive come quella generativista è che in linea di
principio non esistono errori linguistici, giacché il parlante applica
sempre nelle sue produzioni la propria grammatica individuale, la
competenza di parlante nativo della sua varietà materna, e di nessuno si
può dire che sbagli parlando la sua varietà natica.
Cardona (che coglie ancora una volta con incisiva sinteticità il nucleo
della questione) = in realtà il concetto di errore presuppone un
parlante che parli una lingua non sua: nella propria lingua il parlante
non può, per definizione, fare errori.
 Errore è dunque identificato come tale in base al confronto con
un’altra varietà di lingua le cui forme sono ritenute ‘corrette’.
 Più in generale, si può dire che un errore non è generato dal
mancato rispetto di una regola, ma da un’altra regola: chi sbaglia
secondo una certa norma è perché applica una regola non prevista da
quella norma linguistica. La nozione di errore di lingua non dipende
quindi dalla nozione di regola in quanto concetto operativo in
linguistica, ma dipende dalla nozione di regola come sinonima di
‘norma’. L’errore deriva sempre dal confronto con una norma,
intrinseca od estrinseca.
 Le regole devono essere esplicite o implicite?
Se le regole sono implicite, l’errore non esiste: ogni produzione può
essere considerata non senza qualche ragione prodotta da una regola;
in questo caso, l’errore è una forma generata da un’altra regola, una
regola diversa rispetto a quella in base alla quale esso viene
identificato come errore
 Frei già nel 1928 scriveva con molte ragioni una Grammaire des
fautes
Alla fine degli anni 60s è stata elaborata da Corder, nel campo
dell’acquisizione di lingue seconde, una error analysis, corrente di
studio che valorizza gli errori come momento centrale per
comprendere l’elaborazione che il discente compie dei materiali e
delle strutture della lingua che sta imparando
La nozione di errore ha quindi acquisito notevole importanza nella
linguistica applicata e glottodidattica.
 L’errore è addirittura il prius empirico per individuare e stabilire
le regole, il metro per giudicare se una regola è valida oppure no:
Lehrer = a grammar needs not generate sentences containing
errors. Quindi l’errore verrebbe in un certo senso prima della regola;
e deve essere identificato indipendentemente, sulla base appunto del
confronto con una norma comunque fondata: ‘X è giusto o sbagliato?
Se X è giusto, allora la regola è R’.

 La nozione di ‘scelta’
Prandi/De Santis = Ci sono regole prescrittive, che ci dicono come
dovremmo parlare, e ci sono regole descrittive, che cercano di
afferrare le regolarità che emergono dal nostro modo spontaneo e
condiviso di parlare, cioè dall’uso. Inoltre il nostro comportamento
linguistico non consiste solo nel seguire delle regole, ma – in larga
parte – nello scegliere, all’interno dei repertori che la lingua ci offre, i
mezzi di espressione che ci sembrano più adatti ai nostri scopi
comunicativi.
> occorrerebbe distinguere una “grammatica delle regole” da una
“grammatica delle scelte.” Scelta, non necessariamente opposto a
regola, è ovviamente un concetto cardine nella prospettiva
funzionalista della lingua.

3. Tipi/sensi di regole in linguistica


 La nozione di regola nella grammatica generativa
 Matthews (1997) = regole: formalizzazione di una parte costitutiva
della conoscenza innata di un parlante della propria lingua (trad. di
Beccaria, 2004).
→ In questa prospettiva, le regole servono a rendere esplicita la
grammatica come simulazione della competenza.
 Chomsky (1981) = supponiamo che quello che chiamiamo ‘sapere
una lingua’ non sia un fenomeno unitario, ma che debba essere
risolto in diverse componenti, divise anche se interagenti.
Una di esse riguarda gli aspetti ‘computazionali’ della lingua, - cioè
le regole che formano le costruzioni sintattiche o gli schemi
fonologici o semantici dei diversi tipi, e che determinano il ricco
potere espressivo del linguaggio umano […];
assumo che la competenza grammaticale sia un sistema di regole che
generano e correlano determinate rappresentazioni mentali, incluse,
in particolare, le rappresentazioni della forma e del significato […];
una lingua è generata da un sistema di regole e di principi, che
entrano in complesse costruzioni mentali per determinare la forma e
il significato delle frasi.
→ In questa prospettiva, le regole sono uno dei due fondamentali
ingredienti della competenza linguistica: la conoscenza di una
lingua è conoscenza del lessico e delle regole (applicate a
rappresentazioni mentali).
→ Principio programmatico che dagli 60s ha goduto di largo
successo; ma ha anche conosciuto uno sviluppo che ha portato a
ridimensionare notevolmente la portata delle regole stesse.
→ Le regole come formulazioni simboliche, e in particolare le
classiche regole di riscrittura o regole di struttura sintattica (F →
SN SV), introdotte da Chomsky (1957), ritenute 40 anni fa un
grimaldello decisivo della modellizzazione teorica, e tuttora molto
utili per un principiante per rendersi conto della sintassi ingenua
della lingua, e come primo passo per accostarsi alla dimensione
formale della grammatica, nella teoria sintattica attuale sono
diventate un ferrovecchio inutilizzato.
 Regole in diversi autori
In Puglielli (1977), le regole sono abbondantemente presenti
nell’indice analitico e ne vengono distinti ben 10 tipi (per uno dei
quali, le regole trasformazionali, si distinguono ulteriori 4 sottotipi);
30 anni dopo in Puglielli / Frascarelli (2008) ‘regola’ è scomparsa,
azzerata, dall’indice analitico. Il termine rule è assente per es.
nell’indice di un manuale dell’approccio minimalista come Hornstein
7 Nunes / Grohman (2015), dove si sottolinea anche che le regole di
struttura sintagmatica sono state soppiantate completamente dalla
teoria X-barra. In Donati (2008), le regole compaiono nel titolo (la
sintassi, regole e strutture), ma scompaiono quasi completamente nel
testo.

 La nozione di regola nelle scienze del linguaggio


Nelle scienze del linguaggio, l’ampio raggio d’applicazione del termine
e della nozione di regola si estrinseca plurivocamente.
 Che cosa vuol dire ‘regole descrittive’? In che cosa si estrinsecano?
Berruto lo distingue negli usi che se ne fanno in linguistica almeno
cinque valori/tipi/sensi/‘vesti’/aspetti della nozione di regola, sensi che
possono essere variamente in sovrapposizione.
(i.) la veste delle regole come principi generali, generalizzazioni e
astrazioni fondate su un modello teorico e convalidate dai dati
empirici.
→ per es. la ‘regola combinatoria’ dell’operazione merge
Donati (2008) = la regola merge/salda prende due oggetti sintattici
semplici (parole) o complessi (costituenti) e li salda in un terzo
oggetto sintattico complesso;
→ o il cosiddetto ‘principio di proiezione estesa’, EPP
Hornstein / Nunes / Grohmann (2005) = all clauses must have
subjects;
Graffi (1994) = le rappresentazioni ad ogni livello sintattico (cioè
FL, struttura-p e struttura-s) sono proiettate dal lessico e tutte le
frasi devono avere un soggetto.
(ii.) la veste che vede le regole come norme specifiche, operanti
potenzialmente in tutti i livelli di analisi e in tutti i punti
particolari del sistema linguistico.
→ Sono queste tipicamente le regole della ‘grammatica tradizionale’
(iii.) la veste come istruzioni operative relative alle fasi di un
processo, per ottenere un certo prodotto.
→ Sono di questo tipo le regole di riscrittura in una classica
grammatica a struttura sintagmatica, distinguibili in numerosi
sottotipi ma aventi la forma comune di contenere un elemento in
entrata e uno o più in uscita; la regola rappresenta lo sviluppo
dell’elemento in entrata nella fase successiva della formazione di
un ‘prodotto’
F → SN (+) SV
SN → N (+) Agg
N → libro
Agg → nuovo …
→ Sono di questo tipo le regole di formazione dei lessemi utilizzate
ampiamente in morfologia: per es. le due regole di suffissazione
[[X]N + ale]A : dentale, palatale, nasale, *alveolare
[[V]V + tore]N : scopritore, *moritore (con opportune restrizioni, in
qst. caso SOGG del v. deve essere un ‘agente’)
→ Le regole conversazionali utilizzate in pragmatica:
come per es. Dittmar (1989) = “se il turno in atto è costruito in
modo da coinvolgere [implicare] l’uso della tecnica ‘il parlante
che ha il turno seleziona il successivo’, allora la persona così
selezionata ha il diritto e l’obbligo di prendere il turno successivo
per parlare”
(iv.) le regole assunte come formalizzazioni di conoscenze
interiorizzate
→ Come per es. nella teoria ‘X-barra’ la strutturazione generale
sottostante di ogni sintagma avente la testa X:
secondo Berruto, tale schema corrisponde alla nozione di regola
come formalizzazione di un ‘pezzo’ di conoscenza, di competenza
linguistica.
→ In semantica, le formalizzazioni di conoscenze interiorizzate
inconsce sono regole usate per spiegare le condizioni che
determinano la denotazione. Come la “regola di modificazione
intersettiva” utilizzata Delfitto / Zamparelli (2009), che effettua
l’intersezione dei significati di espressioni che non si potrebbero
combinare altrimenti, per es. prendendosi l’una come argomento
dell’altra:
[[ [SN ragazzo vegetariano] ]] = [[ragazzo]]<et> [[vegetariano]]<et>
(<et> è “una funzione che prende input entità <e> e dà in output
V o F [t, valore di verità]”)
Regola di Modificazione intersettiva: in una struttura della forma
[X A B], se il tipo semantico di [[A]] e di [[B]] è <et>, allora il
significato di X sarà [[A]]∩[[B]]
Si tratta in entrambi i casi di notazioni che rendono espliciti i
processi in atto fornendovi una formalizzazione all’interno di un
modello esplicativo, dove dunque è particolarmente rilevante il
compito per es. Simone assegna alle regole, di “notazioni che
rendono espliciti i processi messi in atto”.
Questo genere di regole è in sovrapposizione con la veste (i), in
quanto anche il primo tipo indubbiamente è inteso formulare
conoscenze facenti parte della competenza innata del parlante, ma
quello che mi pare rilevante per distinguerle è il fatto che in questo
caso è molto spiccata (iv)la componente di formalizzazione della
rappresentazione, all’interno di un paradigma logico-formale di
carattere esplicativo forte, del genere di quelli delle scienze esatte.
(v.) le regole con meri dispositivi simbolici, convenzioni ‘formali’,
di rappresentazione e descrizione dei fenomeni, che, senza ambire
ad essere predittive o a costruire comunque pezzi della competenza
linguistica né ad essere il frutto di una formalizzazione logica,
consentono precisione e rigore descrittivo, rappresentando uno
strumento economico di descrizione.
Forma canonica delle regole di riscrittura (iii): con due membri
uniti da una freccia destrorsa, X → Y, e con eventuale indicazioni
sul contesto di applicazione, X → Y/ ( ) z ( ); la freccia è da
intendere o leggere più comunemente ‘diventa’ (piuttosto che
‘riscrivere’). Le regole di questo tipo sono particolarmente utili
per indicare processi diacronici, mutamenti.
Si tratta di un tipo di regole molto usato in fonetica, fonologia e
morfonologia.
→ Per es. una semplice regola fonetica, quella di palatalizzazione
della velare:
[k] → [ʧ] / V ant
che rappresenta la generalizzazione retrostante a fenomeni come nŭ
ce(m) [‘nukem] → noce [‘no:ʧe]; amico → amici;
→ Poi una regola morfonologica, la cancellazione in formazione di
parola della vocale finale atona della base davanti alla vocale
iniziale del suffisso (Thornton, 2005)
V[-acc] → Ø/ + V (giornale → giornalaio)
→ Un’altra regola del genere ma più sofisticata, con l’uso dei tratti, è
quella della desonorizzazione delle consonanti ostruenti in
posizione finale formulata da Loporcaro (2003)
a. [-snt] → [-son] / ##
b. [-snt] → [-son] / #
c. [-snt] → [-son] / $
Tale regola consente di apprezzare la dinamica e l’estensione
diacronica dei contesti com’è testimoniata per es. dal ted.: la
desonorizzazione,
sorta in posizione prepausale, in fine assoluta di enunciazione (in
a.)
si è estesa alla posizione finale di parola (in b.)
e in ted. alla posizione finale “di sillaba” o meglio di morfema (in
c.)
La regola non agisce in ing. (band [bænd])
In neerlandese (band [bant]), russo (drug [druk], drugi n. pl.
[‘drugi]), turco (kitap [ki’tap]), arriva alla fase b., e in tedesco alla
fase c. (kind [kint], kindern. pl. [‘kində]; tag [tak], tagen. pl. [‘ta:gə])
 Ma l’assortimento delle regole in linguistica non si arresta qui. Finora
si è trattato di regole ‘assolute’, categoriche, il cui prodotto date le
condizioni di applicazione è da aspettarsi sicuro a meno che si diano
eccezioni da motivare indipendentemente; e che dànno conto del
nucleo invariabile del sistema linguistico, o almeno lo trattano come se
fosse invariabile, omogeneo, unitario;

 Regole variabili
Ogni sistema linguistico ha fra le sue proprietà e caratteristiche
fenomenologiche anche la variabilità, e il prodotto che ne è la variazione.
Gli strumenti usati in linguistica per trattare la variabilità in modo
omogeneo al resto del sistema linguistico e recuperare la variazione nelle
regole sono fondamentalmente le regole opzionali e le regole variabili.
Una regola opzionale è una regola che può essere o non essere applicata,
senza conseguenze sulla grammaticalità del tutto: “Optional: (rule) that
may or may not apply. Thus, a grammar might include an optional rule
by which e.g. away in I threw away the bottle might be moved after the
object: I threw the bottle away.”
Le regole variabili sono regole la cui uscita varia in correlazione
(probabilistica) con fattori extralinguistici. Sono regole che non
possono essere mai violate da una singola istanziazione e che cercano di
incorporare la variabilità sociolinguistica entro la regola stessa, cogliendo
in questo modo ‘l’eterogeneità ordinata’ tipica delle realizzazioni della
lingua. Esse forniscono valori di probabilità a partire dalla distribuzione
di dati empirici in un corpus (il che non va confuso con il fatto che
esprimano la frequenza dei fenomeni).
Tipico strumento analitico della sociolinguistica variazionista americana,
il modello delle regole variabili, introdotto da Labov alla fine degli anni
60s, è stato presto abbandonato: “Over the years, as rules have discarded
by categorical linguists in favour of notionally different generations
variously called filters, templates and principles, so variable rules have
ceased to be discussed in variational linguistics”; ma ha anche
conosciuto sviluppi tuttora validi in termini di programmi statistico-
informatici per calcolare il peso dei fattori variabili e permettere in
correlazione variabili dipendenti e variabili indipendenti nell’interfaccia
fra lingua e società. Altri modelli che mirano a inglobare nelle regole la
variabilità sono la Word Grammar di R. Hudson e la grammatica di
varietà, un modello di analisi grammaticale della variazione che
incorpora nella rappresentazione mediante ‘blocchi di regole’ le
frequenze osservate, sviluppato negli anni 80s da W. Klein e N. Dittmar e
poi caduto nel dimenticatoio. Ma su tutta la questione delle regole in
relazione alla variabilità, si rimanda al cap. di Cerruti.

4. Conclusioni
il concetto di regola, i costrutti a cui esso dà luogo, e le sue
manifestazioni fenomenologiche hanno infatti un luogo molto rilevante
per i linguisti; ma costituiscono anche un campo che presenta una grande
polimorfia di aspetti, ed è tutt’altro che esente da ambiguità e da
potenziali contraddizioni.
Discutere delle regole, in fondo, significa anche discutere della natura
epistemologica delle discipline linguistiche.
 La dialettica fra rigidità (delle regole) vs. libertà (dei parlanti)
che corrisponde anche a una dialettica, e a un dialogo, fra due anime della
linguistica.
→ Una linguistica completa deve tener e dar conto sia dell’esattezza e
autonomia del sistema linguistico, sia dell’intenzionalità del
parlante e del suo insieme di esperienze socio-culturali.
→ Questo complica molto la vita con le regole, che devono corrispondere
a, e assicurare, sia la categoricità delle leggi del sistema, sia la libertà
del parlante.
→ Le regole di per sé dovrebbero essere rigide, dure; ma esistono anche
regole non rigide, molli. Di qui, una divisione di compiti fra le regole
che devono avere valore predittivo, esplicativo in senso forte, e quelle
che possono avere solo valore descrittivo o probabilistico; Fermo
restando che entrambi i valori per il linguista si oppongono al valore
prescrittivo normativo.

 Quanto alla funzione delle regole


Il problema da discutere è: se le regole, o meglio quali tipi di regole, in
linguistica siano ‘regolative’ o ‘costitutive’; o di nessuno dei due tipi
ma per lo più di un terzo tipo, ‘procedurale’. Ci sono poi gli aspetti
metodologici e la relativa questione del rapporto fra regole e dati
empirici, altro punto nodale nel lavoro dei linguisti.

 Come valutazione complessiva, si può dire che le regole (dei linguisti)


hanno goduto di vasta e acclarata applicazione nell’apparato teorico e
nell’armamentario metodologico della linguistica, non sempre tuttavia
confortata da altrettanta efficacia esplicativa/operativa; il che ha
conferito loro alterna fortuna, e una sorte differente in settori diversi
delle scienze del linguaggio. Nel complesso, oggi in linguistica si opera
molto meno con ‘regole’ rispetto ad una trentina di anni or sono.
IV. Regole e irregolarità nella formazione delle parole (Montermini)
1. Introduzione
 La rinascita della morfologia (a partire dagli anni 70s) ha avuto nella
nozione di regola uno dei suoi cardini fondamentali. Le regole della
morfologia derivazionale, largamente ispirate al paradigma
generativista, consistevano principalmente in una serie di operazioni
atte ad ottenere un determinato risultato a partire da uno o più input.

 Halle (1973), ‘Regola di formazione di parola’ (RFP, Word


formation rule), la prima formulazione del concetto di regola di
formazione di parola > Aronoff (1976) ne propone un trattamento più
completo, che ha contribuito a rendere popolare una nozione che è alla
base di gran parte delle teorie morfologiche attuali.

 Come per es., la natura deterministica delle RFP, nella loro forma
originaria, è fortemente problematica quando tale nozione è applicata
ad un ambito lessicale, che è per sua natura aleatorio e ampiamente
condizionato da fattori extralinguistici.
L’interazione tra le regole e il lessico, attestato o possibile, è stata in
effetti uno dei principali temi di dibattito per i morfologi negli ultimi
decenni. L’evoluzione tecnologica degli ultimi decenni, consentendo
l’accesso in tempi rapidissimi a quantità di dati linguistici fino a pochi
anni prima inimmaginabile, ha reso sempre più difficile derubricare gli
esempi problematici a eccezioni o casi marginali.
→ Per limitarsi a qualche esempio come i seguenti che, sotto diversi
aspetti, sono incompatibili con le RFP nella loro forma tradizionale.
a. il meccanismo ‘variazionale’ dell’evoluzione (contrapposto a
quello ‘trasformazionale’ lamarckiano e a quello ‘saltazionale’ che
fu dei primi genetisti) si applica per Darwin solo a livello dei
singoli organismi
b. meglio arrivarsi in land rover con pochi altri appassionati delle
stesse cose […] piuttosto che accalcarsi in un viaggio organizzato
in pulmini coi soliti caciaroni russi avvodkazzati.
In (a.) l’agg. saltazionale (che appartiene al vocabolario della teoria
dell’evoluzione) è apparentemente deviante, dal momento che
sembra contenere un suffisso –zione, benché in it. non sia attestato il
n. deverbale *saltazione costruito sul v. saltare.
(b.), dal canto suo, contiene una forma ancora meno ‘regolare’: l’agg.
avvodkazzato è perfettamente comprensibile da un parlante italiano,
anche in virtù del suo legame evidente con il nome vodka, ma è
difficile identificare con precisione gli affissi che contiene e la regola
per mezzo della quale è stato costruito. In effetti, per spiegare la
forma e il significato di questa parola sembrerebbe più utile ricorrere
ad una relazione individuale – che potremmo definire di analogia –
con l’agg. avvinazzato, escludendo così la possibilità che si possa
trattare di una ‘regola’.

 Nel tentativo di rendere conto in modo più realistico dei dati realmente
osservati, diversi modelli morfologici hanno proposto, in anni più
recenti, di abbandonare o di modulare il concetto di regola in favore di
nozioni meno rigide, come quella di schema, o modello. A differenza
delle regole, i modelli prevedono gradi diversi di applicabilità, non
implicano necessariamente l’isomorfia tra forma e senso di una parola
complessa, dal momento che l’istruzione semantica è inglobata nel
modello stesso, e non sono elaborati indipendentemente dalle parole
che li esemplificano, ma al contrario emergono dal lessico esistente.
L’esistenza di lessemi devianti per una o più proprietà, problematica
per una morfologia basata sulle regole, è più compatibile con una
morfologia basata sui modelli.
Ciò implica anche un cambiamento importante dal punto di vista che il
linguista adotta nei confronti dei dati: la preoccupazione principale non
è più quella di identificare, nel lessico, gli elementi ‘centrali’ da quelli
‘devianti’, ma piuttosto quella di rendere esplicite le proprietà che
rendono i lessemi complessi realmente osservati più o meno aderente ai
modelli identificati.

2. Lo status dei dati in morfologia derivazionale


 Fonte dati di prima e quelle di oggi
Fino alla metà degli anni ‘90: le opere lessicografiche (dizionari
generalisti o specialisti), qualche raro corpus (ad es. letterario),
l’intuizione dei linguisti, l’intuizione di altri parlanti nativi della lingua;
Gran parte dei lavori di morfologia erano basati su queste risorse (dati
lessicografici), il che non ha impedito la realizzazione di studi empirici
anche su larga scala, prendendo in considerazione, ad es., l’insieme
delle parole costruite mediante lo stesso procedimento contenute in uno
o più dizionari. L’uso dei dati lessicografici, tuttavia è rischioso,
soprattutto nel caso in cui si vogliano studiare proprietà, come quelle
semantiche, difficilmente oggettivabili e per le quali, per così dire, il
fattore umano – in questo caso le scelte operate dal compilatore o dai
compilatori del dizionario – ha una parte preponderante.
L’evoluzione degli strumenti informatici e la loro diffusione hanno
apportato un cambiamento decisivo agli studi linguistici in generale, e
morfologici e lessicografici in particolare. Molti dizionari sono stati
resi disponibili in formato elettronico, rendendo le ricerche molto più
agevole e rapide.
Hanno cominciato ad essere realizzati e diffusi corpora e altre risorse
sempre più grandi e diversificate, al punto che oggi avere una solida
base empirica è una caratteristica quasi imprescindibile per qualsiasi
lavoro di morfologia, in particolare derivazionale, perlomeno nelle
lingue a più ampia diffusione.
Un ulteriore impulso a questa tendenza è venuto da Internet e dalla sua
democratizzazione attraverso il Web. Oggi un linguista può avere
accesso, quasi istantaneamente, a un numero virtualmente infinito di
produzioni linguistiche in varie lingue diverse, la maggior parte delle
quali reali. Naturalmente, l’uso di Internet come database richiede un
certo numero di cautele, ma è innegabile che, dal punto di vista della
ricerca dei dati in linguistica, esso ha costituito una vera e propria
rivoluzione, sia quantitativa che qualitativa.
→Per es. numero di forme
in –cida e –cidio in
diverse risorse
linguistiche.

Il grafico a sinistra mostra il


numero di forme reperite nel
GRADIT, nel corpus Coris e
quelle che è stato possibile
ricavare da una serie di ricerche estensive (ma necessariamente non
esaustive) sul Web tra il dicembre 2012 e il giugno 2013.

 Il Web nella ricerca


Il Web viene ancora usato da molti linguisti come una risorsa
tradizionale, semplicemente più grande e veloce. Il risultato è che, da
un lato, gran parte delle sue potenzialità vengono ignorate o non
pienamente sfruttate, e dall’altro vengono trascurate le precauzioni
che è necessario adottare quando ci si serve di uno strumento che, per
dimensioni e caratteristiche, non è comparabile ad alcuna delle risorse
linguistiche che gli preesistevano.
Nell’ambito di linguistica computazionale il “Web as a corpus” è ormai
un ambito di ricerca a tutti gli effetti, e tuttavia l’attitudine di molti
linguisti nei confronti di Internet continua a riflettere quella più
generale, che oscilla tra l’entusiasmo incondizionato e il rigetto totale.
Un uso indiscriminato dei dati del Web presenta certamente diversi
aspetti problematici, alcuni dei quali sono ben descritti in letteratura e
suggeriscono una certa cautela nell’impiego dei dati che è possibile
ottenere. Tuttavia, in assenza di una risorsa comparabile al Web, che
non ne presenti gli inconvenienti, è chiaro che esso è diventato
insostituibile al giorno d’oggi per chi si interessi alla creatività
lessicale.
Proprio la varietà che il Web ci offre invita a riconsiderare radicalmente
l’atteggiamento dei linguisti nei confronti dei dati: piuttosto che
oscillare tra il prescrittivismo rigido che spinge a rifiutare in blocco
l’uso di dati obiettivamente poco controllabili, e il relativismo
assoluto, secondo cui qualsiasi forma, purché attestata, merita di essere
considerata sullo stesso piano delle altre, è indubbiamente più utile
elaborare criteri espliciti per valutare i dati reali in relazione all’insieme
del lessico e delle generalizzazioni che esso rende possibili.
Lo scopo della teoria, cioè, non deve essere quello di selezionare i dati,
attribuendo loro etichette di accettabilità o non accettabilità quanto
piuttosto quello di costruire uno spazio concettuale all’interno del quale
collocare l’osservabile, in questo caso le forme realmente create dai
parlanti, in base a principi che possono essere considerati generali.

 Differenze tra il Web e le risorse di ricerca precedenti


Infine, è utile sottolineare un’ulteriore differenza, più qualitativa che
quantitativa, tra il Web e le risorse linguistiche che lo hanno preceduto:
1). grazie anche alle sue caratteristiche sociolinguistiche, Internet
consente, più di ogni altro strumento, di avere accesso a tutte quelle
forme che sono costruite dai locutori ‘al momento (on-line)’ che sono
difficili da reperire anche in corpora di grandissime dimensioni. Ciò
include sia parole create in maniera cosciente (neologismi,
occasionalismi, formazioni scherzose) che inconscia (lapsus, ‘errori’
morfologici); alcune di queste possiedono tutte le proprietà per poter
diventare item lessicali a pieno titolo, altre trovano la loro ragione di
esistere unicamente nella situazione discorsiva all’interno della quale
sono state prodotte.
2). Paradossalmente, è soprattutto a partire da questi dati spontanei che
possiamo costruire un modello credibile della competenza morfologico-
derivazionale dei parlanti. Si tratta, in effetti, di parole che non hanno
subito gli stessi fenomeni di erosione, stratificazione o slittamento
semantico cui è sottoposto il lessico attestato, istituzionalizzato (e di
conseguenza dizionarizzato). In altre parole si tratta, per usare un
termine alla moda in linguistica, di dati più ‘ecologici’.

3. Proprietà delle regole di formazione di parola


 Nella versione originaria, le regole di formazione di parola (RFP)
erano meccanismi rigidi che possedevano la doppia caratteristica di
essere selettive e deterministiche.
→ Selettive: perché ogni regola definisce in maniera univoca e discreta
un insieme degli input possibili (nel caso della morfologia
derivazionale, dei lessemi di base) e di quelli impossibili.
→ Deterministiche: perché, dato un certo input, esiste un output
accettabile, il quale è dotato di caratteristiche che sono interamente
prevedibili.
→ La possibilità che un lessema possa costituire un input più o meno
adeguato per una regola non è contemplata, così come non lo è la
possibilità che una regola possa avere più di un output possibile o
che quest’ultimo non possieda tutte le proprietà previste dalla
regola. Eppure, come vedremo, i dati lessicali pullulano di esempi
che contraddicono questi principi.

 La prevedibilità dell’output
In particolare, essa si basa sull’ipotesi della composizionalità (mutuata
dalla sintassi), secondo cui è possibile determinare il significato di
un’espressione linguistica a partire dal significato degli elementi che la
costituiscono.
→ Applicare tale principio al livello lessicale significa considerare che
il significato di una parola complessa è calcolabile a partire dalle
istruzioni semantiche legate alle diverse sottoparti che è possibile
identificare (ad es. radici o affissi)
→ La morfologia che ne deriva è insieme additiva (o incrementale),
poiché l’interpretazione semantica si costruisce in concomitanza con
la struttura morfologica, o orientata, dal momento che la
costruzione delle parole procede dal più semplice al più complesso
attraverso la concatenazione successiva di segmenti.

 In realtà esistono abbondanti argomenti, teorici ed empirici, che


vanno contro ognuno dei due aspetti.
→ Per quanto riguarda il secondo (deterministico), ad es., è
addirittura banale opporre all’idea di una morfologia che
procederebbe sempre dal semplice al complesso esempi di parole
che presentano lo stesso grado di complessità e che sono,
tuttavia, morfologicamente legate.
→ Si pensi ad es., alla conversione o a insiemi di parole come
catechismo, catechista, catechizzare, per i quali è oggettivamente
impossibile trovare una sequenzialità, se non al prezzo di astrazioni
teoriche che restano arbitrarie.
→ Per quanto riguarda il primo (selettivo), la pertinenza di una
morfologia puramente incrementale è già stata ampiamente criticata,
per quanto riguarda sia la flessione che la derivazione. A sua volta,
l’ipotesi della composizionalità si basa sull’idea che nel significato
di una parola morfologicamente complessa, tutto ciò che non è
immediatamente prevedibile a partire dalle RFP derivi dalla sua
permanenza nel lessico, la quale favorisce i fenomeni di
slittamento semantico, metaforizzazione, ecc. In realtà, tale
concezione attribuisce un peso notevole ed eccessivo al fattore
tempo nella costruzione del significato.
→ L’arbitrarietà dei segni linguistici è un elemento costitutivo del
linguaggio, e in quanto tale deve essere considerata come valida, in
qualsiasi momento, per tutte le parole di una lingua, per tutti gli
elementi che costituiscono l’interfaccia tra essa e la conoscenza del
mondo.

 I principi della segmentabilità, dell’esaustività, della completezza


delle parole sono i corollari che chi adotta l’ipotesi della
composizionalità deve necessariamente, implicitamente o
esplicitamente, accettare.

3.1. Segmentabilità
 Dal punto di vista formale, attribuire una porzione discreta di
significato alle varie sottoparti di una parola complessa significa
considerare che esse sono sempre chiaramente distinguibili e che
ogni unità elementare del piano formale (fonema) può essere
attribuita univocamente all’una o all’altra di queste sottoparti.
 La difficoltà (o forse la vanità) di una tale operazione dovrebbe già
essere chiara ai morfologi da tempo, dato che si sono sempre chiesti
come “in amministrazione il suffisso sarà –azione, -zione o –ione?”,
nonché la sostanziale impossibilità di trovare loro una risposta
univoca e convincente.
 Oggi è consensuale l’idea che ogni elemento lessicale (gli affissi
inclusi) non deve necessariamente possedere una forma di base dalla
quale far derivare tutte le altre, ma può consistere in un insieme di
forme la cui variazione è più o meno motivata fonologicamente, e
per le quali i locutori conoscono, in base alla loro competenza
morfologico-lessicale, i contesti appropriati nei quali debbano essere
usate.
 Se, tuttavia, esistono diversi lavori volti a caratterizzare la
rappresentazione dei lessemi come ‘collezioni’ di temi distinti, la
variazione degli affissi, ugualmente interessante, è assai meno
studiata in quest’ottica.
→Ad es. Montermini (2010) ha proposto una gerarchizzazione
delle forme dell’esponente della RFP che costruisce i nomi
d’azione come amministrazione, forme che vanno da /at:sjione/
(che può essere considerata come la forma di default) a quelle
contenenti una consonante sonorante (come in conversione,
espulsione, ecc.).
→Un altro caso interessante è quello del suffisso –(i)ano in italiano,
che può legarsi praticamente ad ogni n. proprio o toponimo per
formare un agg. di relazione e può contenere o meno una
semivocale /j/. Esistono buoni argomenti per sostenere che la
forma di default attuale per questo suffisso è /jano/, poiché è
quella che si osserva con la maggioranza dei derivati da n. propri
e da toponimi stranieri (che possiamo considerare, in generale, di
formazione più recente rispetto agli etnici costruiti su toponimi
italiani) contenuti nei dizionari.
→I dati neologici mostrano che la forma /jano/ è largamente
preponderante, se non l’unica scelta, quando la base non
presenta particolari problemi fonologici (finale in /a/ o /o/
semplici non accentate o in consonante: calcuttiano,
hannoveriano);
→mentre /j/ tende a non essere presente soprattutto con basi che
terminano con una sequenza poco comune in italiano (una
vocale accentata, una /e/ o una /u/ atone, uno iato , un
dittongo), tutti casi in cui la vocale o una delle vocali della
base tende ad apparire nel derivato, spesso a discapito della /j/
(deandreano, ikeano, murnauano, pessoano).
→I casi in cui nel derivato la sequenza /ano/ non è preceduta da
una vocale, infine, sono rari, e si incontrano soprattutto con
basi che terminano in /a/ atona (floridano, wojtylano).
→Un modo per interpretare questi dati è considerare che
l’esponente della RFP in questione possiede una forma
sottospecificata /Vano/, in cui la posizione vocalica è riempita
per default dalla semivocale /j/, ma può essere riempita da
un’altra vocale per ragioni di fedeltà tra la base e il derivato (o
non esserlo affatto se la vocale finale della base è /a/).
→In una prospettiva del genere, chiedersi se la vocale che precede
/ano/ in deandreano o pessoano ‘appartiene’ alla base o al suffisso
perde gran parte del suo interesse, poiché essa dipende, per
l’appunto, dall’interazione tra la forma della base e quelle
possibili per il suffisso.

3.2. Esaustività
Per principio di esaustività, si riferisce all’ipotesi secondo cui, in una
parola derivata, tutto il materiale morfologico presente svolge una
funzione, contribuendo alla costruzione del significato dell’insieme.
 Elementi semanticamente inerti
Anche in questo caso, i dati empirici presentano un quadro ben più
complesso. L’esistenza di elementi inerti dal punto di vista
semantico in alcuni tipi di derivati è un fatto riconosciuto da tempo.
→Ragioni fonologiche e prosodiche
Per il fr., ad es., esiste la tendenza ad usare interfissi per ragioni
fonologiche e prosodiche, come la necessità di evitare sequenze di
fonemi simili troppo ravvicinate, come in goutte ‘goccia’ > gout-
tel-ette ‘gocciolina’
→Ragioni stilistico-pragmatiche
In altri casi, la ‘sovrabbondanza’ di sequenze morfologiche
semanticamente vuote sembra avere ragioni puramente stilistico-
pragmatiche.
In uno studio recente su 329 neologismi del fr. che contengono la
sequenza finale –logique, circa un quarto dei contesti in cui essi
apparivano non era compatibile con i significati generalmente
attribuiti all’elemento di origine greca –log– (per lo più ‘ricerca’ o
‘discorso su’)
Alcuni risultati di ricerche effettuate su Web sui corrispondenti
italiani di parole che comparivano nella ricerca menzionata:
a. Quando verremo dalle tue parti… ci condurrai in luoghi di
perdizione culinaria e birrologica.
b. Nessuna lingua che conosco ha la raffinatezza insultologica
dell’italiano, e tali possibilità di espansione creativa…
→Pressioni puramente lessicali
Il caso meno evidente, ma probabilmente più interessante, è
quello in cui tale sovrabbondanza di elementi semanticamente
inerti è determinata da pressioni puramente lessicali. Diversi
lavori negli ultimi anni hanno messo in evidenza l’esistenza di
“morphological niches” (Lindsay/Arnoff, 2013): sequenze
morfologicamente privilegiate per alcuni tipi di derivati, come
–logical in ingl., -aliser / - ariser o –alité in fr.
Proprio questi ultimi esempi mostrano che la possibilità di
incontrare sequenze semanticamente vuote è tanto più grande
quanto la distanza semantica tra due parole del lessico è piccola, o
addirittura inesistente (come nel caso di un agg. di relazione e il
suo nome base).
In un altro studio, Roché spiega le coppie come hégélisme /
hégélianisme (‘hegelismo / hegelianismo’) per cui è difficile
trovare una distinzione semantica chiara, sulla base della scarsa
carica semantica del suffisso relazionale –ien, e attribuisce la
preferenza osservata, in fr., per la seconda forma a fattori di
altro tipo, in particolare alla grande frequenza di nomi in –
ianisme nel lessico filosofico-religioso.
Seguendo uno spunto suggerito dallo stesso Roché, ho calcolato
un campione di forme in –ismo o –esimo derivate da nomi propri
rilevate sul Web. Mentre sembra ragionevole supporre che non
esiste una differenza semantica significativa tra i due suffissi, i
dati preliminari raccolti, indicano chiaramente che:

il primo suffisso –ismo tende a legarsi direttamente al nome


di base;
mentre il secondo –esimo preferisce i derivati in –(i)ano:
-(n)ismo -anismo 4.9% -(n)esimo -anesimo
95% 14,8% 85,2%
crocismo crocianismo crocesimo crocianesimo
330 76 0 9400
hegelismo hegelianismo hegelesimo hegelianesimo
22000 2700 0 450
manzonismo manzonianismo manzonesimo manzonianesimo
13000 84 0 51

→Questa distribuzione si spiega, tra l’altro, con la distribuzione


globale dei nomi in –ismo e in –esimo nel lessico dell’italiano.
La figura mostra la percentuale dei lessemi del GRADIT
contenenti uno dei due suffissi preceduto da /an/, da /n/ o da
un’altra sequenza, e mostra in maniera chiara l’attrazione
reciproca tra –esimo e –(i)ano e la sostanziale indifferenza tra
quest’ultimo e –ismo.

3.3. Completezza
Il principio speculare a quello dell’esaustività è quello della
completezza, ossia l’idea che in una parola complessa siano presenti
tutti gli elementi che sono necessari alla costruzione del significato.
Anche in questo caso le eccezioni sono ampie e ben documentate.
 Migliorini, ad es., “la tendenza a evitare il cumulo dei suffissi”
delle parole derivate
che spiegherebbe forme come letteratura protestante (‘dei
protestanti’) o sociologia criminale (‘che concerne i criminali’).
 Altri lavori hanno messo in luce che non si tratta di un fenomeno
sporadico che tocca singoli lessemi, bensì di una proprietà
costitutiva di intere serie lessicali.
→Regular polysemy
Tale fenomeno può essere messo in relazione con quella che
Booji (2010) chiama “regular polysemy”, ossia il fatto che le
RFP non formano necessariamente lessemi con un unico
significato, ma oggetti che possono entrare in reti lessicali
complesse.
Un es. tipico è quello dei derivati etnici. In it. ad es., -ese forma
derivati di due categorie lessicali diverse (n. e agg.) e che
intrattengono almeno cinque tipi di relazioni diverse con la base.
Ungheria → unghereseN ‘abitante dell’Ungheria’
unghereseA ‘relativo all’Ungheria’
(le città ungheresi)
unghereseN ‘relativo agli ungheresi’
(il carattere ungherese)
unghereseA ‘la lingua dell’Ungheria’
unghereseA ‘relativo alla lingua
ungherese’
(i verbi ungheresi)
(Un modello puramente incrementale esigerebbe che tutti i tipi di
relazioni semantico-categoriali illustrate sopra nella tabella
fossero marcati esplicitamente.)
L’elasticità che alcuni lessemi manifestano per quanto riguarda la
categoria e i significati che possono esprimere, è alla base anche
di altri casi di ‘riciclaggio’ morfologico, meno sistematici, e
perciò meno facili da osservare, ma altrettanto significativi.
→Riciclaggio morfologico:
1. Pensiamo ad es. ad un insieme lessicale come quello che va dal
v. assistere al n. assistenzialità:
assistereV > assistenteN/A > assistenzaN > assistenzialeA >
assistenzialitàN
Nel caso di assistenzialità, che a glossare per intero significa
all’incirca ‘la proprietà di ciò che è relativo al fatto di assistere’,
tutte le relazioni semantiche sono marcate da un affisso specifico
(se si fa astrazione dell’alternanza Vnte / Vnza).
2. Altri lessemi, tuttavia, sono ambigui, ad es. aderenza che può
indicare sia
1) il fatto di aderire che
2) la proprietà di ciò che è aderente
(cfr. i pneumatici stanno perdendo aderenza vs. migliorare
l’aderenza dei penumatici).
→Ambiguità semantica
I locutori sfruttano questa ambiguità per esprimere significati
complessi ‘economizzando’ i mezzi espressivi impiegati.
La produzione basata sulla concorrenza del prezzo tende a
tagliare i costi sostenuti dalla produzione basata sulla
qualità.
Lascia stare l’accoglienza degli italiani che è relativa
(infatti magari un romano o un napoletano può essere più
allegro ed accogliente di un milanese o valdostano).
→ Le parole di –Vnza negli es. qui sopra denotano chiaramente
più delle proprietà delle azioni, ed in questo senso sono
semanticamente più simili ad assistenzialità che ad assistenza
benché con quest’ultimo lessema condividano la struttura
morfologica.
I dati di queste due frasi indicano chiaramente che solo
prendendo in considerazione il contesto sintattico è possibile
avere un’idea chiara della diversità degli usi di una classe di
derivati, e se tale diversità è sistematica o occasionale.

Tra gli es. già citati:


a. il meccanismo ‘variazionale’ dell’evoluzione (contrapposto a
quello ‘trasformazionale’ lamarckiano e a quello ‘saltazionale’
che fu dei primi genetisti) si applica per Darwin solo a livello
dei singoli organismi
b. meglio arrivarsi in land rover con pochi altri appassionati
delle stesse cose […] piuttosto che accalcarsi in un viaggio
organizzato in pulmini coi soliti caciaroni russi avvodkazzati.
a. Quando verremo dalle tue parti… ci condurrai in luoghi di
perdizione culinaria e birrologica.
b. Nessuna lingua che conosco ha la raffinatezza insultologica
dell’italiano, e tali possibilità di espansione creativa…
→ riportati un’altra volta qua sopra, mostrano un’altra falla di molti
studi morfologici tradizionali, quella che chiamerei l’ipotesi
dell’autosufficienza, ossia l’idea che l’osservazione di un certo
numero di derivati in isolamento (ad es. tratti da un dizionario) sia
sufficiente per caratterizzare con precisione l’insieme delle proprietà
semantiche definite da una RFP.

4. Conclusione: dalle regole ai modelli


 Patterns in morfologia
Per ovviare al carattere eccessivamente rigido e deterministico delle
regole, molti modelli di morfologia preferiscono oggi analizzare le
relazioni lessicali piuttosto in termini di schemi o modelli (patterns).
Una caratteristica della morfologia basata sulle regole è quella di
stabilire distinzioni binarie e discrete.
→ Dal punto di vista delle unità lessicali, ciò significa distinguere, in
esse, le proprietà determinate dalla regola, per definizione interamente
prevedibili, da quelle idiosincratiche, che sono invece attribuite ad altri
fattori, pragmatici o storici, ecc., generalmente meno controllabili.
→ Dal punto di vista dei procedimenti stessi, ciò significa distinguere
la nozione di regola, un meccanismo la cui applicazione è automatica e
che ha un alto grado di generalità, da quella di analogia, che
corrisponde piuttosto ad una relazione locale tra singole coppie (o
piccoli gruppi) di parole. In questa prospettiva, ad es., parole come
saltazionale e avvodkazzato, sarebbero considerate formate per
analogia piuttosto che per regola.
 Il concetto di corrispondenza
Eppure, come osservano Blevins / Blevins (2009), “a rule can be
understood as a highly general analogy”. La differenza tra i due
concetti (rule vs. analogy) sarebbe più quantitative che qualitative, ma
la loro natura è identica, si tratta cioè di schemi che emergono dalle
corrispondenze rilevabili tra gli elementi lessicali.
Il concetto stesso di corrispondenza è graduale, poiché due lessemi
possono essere in corrispondenza per uno o più dei diversi livelli che li
definiscono (fonologico, sintattico-categoriale, semantico, ma anche
puramente lessicale).
L’impressione di avere a che fare con una regola si ha quando una serie
di corrispondenze lessicali talmente sistematica e generalizzata da
sembrare automatica; in realtà, nessuna corrispondenza è talmente
generale da avere il carattere di obbligatorietà che, per definizione,
dovremmo attribuire ad una regola.
 Regola in morfologia
Se per regola intendiamo un’operazione che, dato un input adeguato, si
applica automaticamente per fornire un output univoco e prevedibile,
siamo costretti ad ammettere che in morfologia non esistono regole.
Persino un fenomeno che spesso considerato come il prototipo della
‘regola’ morfologica, la costruzione del plurale dei n. in inglese, non è
interamente regolare e conosce un certo numero di eccezioni, dovute
perlopiù ad accidenti storici.
Possiamo considerare che la morfologia è costitutivamente irregolare
a causa degli oggetti che manipolano: le parole non sono unità
linguistiche inerte, ma costituiscono l’interfaccia tra la lingua e la
conoscenza del mondo, e di conseguenza sono, per definizione,
soggette a qualsiasi tipo di influenza extralinguistica, storica,
sociale, pragmatica, ecc.
In conclusione, per superare la dicotomia regolare / irregolare, almeno
nell’ambito della morfologia derivazionale, possiamo considerare che
lo scopo principale della teoria non deve essere quello di elaborare
principi che permettano di tracciare una linea netta tra dati di due tipi,
quanto piuttosto quello di costruire, tramite parametri espliciti, uno
spazio all’interno del quale i dati realmente osservati possono
essere valutati.
V. Modelli computazionali del linguaggio tra regole e probabilità

 Il Trattamento automatico delle lingue (TAL) e il trionfo dei


modelli statistici
Il sistema informatico dell’IBM ha partecipato al quiz televisivo
Jeopardy! e ha sconfitto gli altri concorrenti umani. Watson analizza
linguisticamente la traccia iniziale identificandone la struttura sintattica
e predicativa, genera un insieme di risposte potenziali sulla base degli
indizi estratti dall’input e delle informazioni disponibili nella base di
conoscenza del sistema, e infine produce la risposta con la maggiore
probabilità di correttezza. È in grado di rispondere a domande
formulate in linguaggio naturale, grazie all’integrazione di alcune delle
più sofisticate tecnologie per il trattamento automatico delle lingue
(TAL).
Il procedimento con cui Watson individua la risposta corretta è infatti
intrinsecamente statistico e probabilistico. Il sistema decide di
giocare, se la probabilità di trovare la risposta giusta supera una soglia
di rischio che varia a seconda dell’andamento del gioco. Il successo di
Watson è dunque il simbolo del predominio nella linguistica
computazionale di ultima generazione dei modelli statistici rispetto
a quelli tradizionali ‘a regole’ che hanno invece rappresentato il
paradigma dominante fino agli anni ’80.

 Equiprobabilità o randomness
Una grammatica è un modello delle regolarità di una lingua, come
deviazioni dall’equiprobabilità.
Lo stato di equiprobablità o randomness corrisponde alla situazione
ipotetica in cui qualunque permutazione dell’ordine delle parole sia
legittima e in grado di veicolare esattamente lo stesso contenuto di
informazione.
Il linguaggio è ovviamente una costante violazione di tale
randomness: per es. la sequenza il cane ha morso un uomo è una frase
grammaticale, mentre la sua permutazione cane il morso ha un uomo
non lo è. La sequenza un uomo ha morso il cane è altrettanto
grammaticale della frase originale ma veicola un contenuto informativo
diverso.
Edelman: for most of the 20th century, linguists assumed that
grammars consist of algebraic rules, of which there were supposed to
be many fewer than the number of entries in the lexicon. Il ruolo del
linguista computazionale è dunque quello di individuare l’insieme di
regole ottimale per la risoluzione di un particolare compito linguistico.

 Le regole formali
In ogni caso, le regole formali sono accomunate dal fatto di essere
discrete, qualitative e inviolabili (salvo eccezioni!). Gli aspetti
quantitativi o quelli relativi a dimensioni di variazione continua e
graduale delle strutture linguistiche rimangono al di fuori del raggio di
modellazione delle regole. La variazione nella frequenza d’uso delle
strutture linguistiche è un fattore che non viene rappresentato nelle
regole formali.
La grammatica opera in termini di opposizioni categoriali e
qualitative: grammaticale vs. non grammaticale, n. vs. v., argomento
vs. aggiunto, transitivo vs. intransitivo, animato vs. non animato, ecc.
per es.:
(1.)
a. Il sasso ha ucciso l’uomo.
b. *L’uomo ha ucciso il sasso.
Possono essere formulate le seguenti regole:
(2.)
a. R(x:α) A:α → R(A)
b. uccidere: [SNogg: [+ANIMATO]]
c. uomo: [+ANIMATO]
d. sasso: [–ANIMATO]
→ La regola (2a) stabilisce una condizione generale sulla
combinazione di predicati ed argomenti: un predicato R(x) può essere
applicato a un argomento A se e solo se il tipo semantico di A è
equivalente a quello richiesto da R.
→ La regola (2b) specifica invece un vincolo di selezione lessicale del
v. uccidere: l’oggetto deve essere animato
→ Una volta combinai i vincoli (2a, 2b) con le info sui tipi semantici di
uomo e sasso in (2c, 2d), un sistema computazionale a regole può
derivare la grammaticalità di (2a) e la non grammaticalità di (2b).
→ Per essere grammaticale, un’espressione linguistica non deve violare
alcuna regola della grammatica, a meno che essa non venga dichiarata
esplicitamente come eccezione.

Le frasi seguenti, tratte dal corpus itWaC, rappresentano però chiare


violazioni della regola:
(3)
a. La burocrazia uccide le idee.
b. Il terrorismo uccide la democrazia.
c. Hai ucciso il mio amore.
→ Poiché gli oggetti diretti non sono animati, queste frasi sono
analizzabili solo specificando i nomi idea, democrazia e amore come
eccezioni alla regola (2b), che può essere concepita come una regola
default, ovvero una regola generalmente valida salvo particolari
eccezioni.
→Le strutture eccezionali sono pertanto tipicamente rappresentate
come un modulo qualitativamente distinto rispetto all’insieme
potenzialmente aperto di strutture generate dalle regole della
grammatica. Le eccezioni ‘immagazzinate’ in una struttura statica e
finita (es. una base di conoscenza lessicale) si contrappongono al
componente dinamico e autenticamente generativo delle regole.
→ Questa architettura tradizionale dei sistemi per il TAL è del tutto
simile a molti modelli tipici della tradizione simbolica razionalista in
linguistica. Le esemplificazioni di segregazioni tra regole ed eccezioni
sono innumerevoli, come ad es. i modelli dual route della flessione in
morfologia, o le teorie che collocano in sottosistemi qualitativamente
diversi della grammatica le strutture sintattiche produttive e le strutture
semi-idiomatiche lessicalizzate.

 I modelli statistici e le rappresentazioni delle regolarità linguistiche


come vincoli probabilistici
A differenza dei sistemi che rappresentano le regolarità della lingua
con regole discrete e qualitative, i modelli statistici le rappresentano
come vincoli probabilistici.
La probabilità serve per modellare matematicamente eventi aleatori,
che possono avere esiti diversi e con gradi variabili di incertezza sul
loro accadimento. La probabilità è uno strumento quantitativo che
ci consente di ragionare in una situazione di incertezza, facendo
previsioni sul possibile verificarsi di un evento.

(Manning / Schutze, 1999) The argument for a probabilistic approach


to cognition is that we live in a world filled with uncertainty and
incomplete information. To be able to interact successfully with the
world, we need to be able to deal with this type of information. […]
The cognitive processes used for language are identical or at least very
similar to those used for processing other forms of sensory input and
other forms of knowledge. These processes are best formalized as
probabilistic processes or at least by means of some quantitative
framework that can handle uncertainty and incomplete information.

I valori della probabilità variano con continuità tra zero, che quantifica
l’impossibilità di un evento, e uno, il valore assunto da un evento che
accade con assoluta certezza. Lo spazio delle regole probabilistiche non
è discreto, e le strutture linguistiche possibili in una lingua sono
modellate con il continuum delle distribuzioni di probabilità, senza
ridursi a pure opposizioni categoriali. Le probabilità dei vincoli della
grammatica sono ricavate automaticamente dalla distribuzione
statistica degli eventi linguistici osservati in corpora testuali. La
frequenza di occorrenza di un evento linguistico viene infatti usata per
stimare la sua probabilità. (ad es., la probabilità di una parola x può
essere stimata come il rapporto tra la frequenza di x in un corpus e il
numero complessivo di parole nel corpus.)
Le regole della grammatica sono dunque rappresentate come
generalizzazioni induttive che catturano regolarità statistiche
presenti nell’uso linguistico. Nei sistemi probabilistici, il ruolo del
linguista non è ‘scrivere’ le regole della grammatica, bensì addestrare
il sistema a svolgere un dato compito, individuando la metodologia
migliore che consenta al sistema stesso di estrarre dalla distribuzione
statistica dei dati linguistici i vincoli e le regole per svolgerlo.

 Le regole probabilistiche
Queste regole sono per loro intrinseca definizione violabili.
Superano la dicotomia stessa di regole ed eccezioni, nella misura in cui
strutture produttive e strutture eccezionali sono rappresentate nello
stesso spazio probabilistico.
Ad es., le preferenze di selezione dei predicati verbali possono essere
modellate attraverso una distribuzione di probabilità P (N | Vr) : che
rappresenta la probabilità che un nome N sia l’argomento del verbo V
nel ruolo grammaticale r (es. oggetto diretto).
→ Questa probabilità può essere calcolata con il rapporto tra il numero
di volte in cui N ricorre con V in un corpus con il ruolo r, e la frequenza
totale con cui V ricorre con il ruolo r.
→ Per es., P(uomo|uccidereogg) corrisponde alla probabilità di osservare
uomo come oggetto diretto di uccidere e può essere stimata con il
rapporto tra la frequenza di uomo come oggetto di uccidere, e il numero
di volte con cui questo verbo ricorre con un oggetto diretto. Se
utilizziamo il corpus itWaC per addestrare il nostro modello
probabilistico delle preferenze di selezione di uccidere, otteniamo la
seguente distribuzione di probabilità per gli oggetti diretti che
compaiono nelle frasi (1) e (3):
(4).
a. P(uomo|uccidereogg) = 0,04
b. P(amore|uccidereogg) = 0,0016
c. P(idea|uccidereogg) = 0,0013
d. P(democrazie|uccidereogg) = 0,0008
e. P(sasso|uccidereogg) = 0
→ La natura ‘eccezionale’ di idea come oggetto diretto di uccidere,
rispetto alla ‘regolarità’ di uomo, viene rappresentata attraverso la
differenza delle loro probabilità.
→ L’impossibilità di sasso diventa solo l’estremo di un continuum che
contempla anche casi poco probabili, ma pur sempre possibili.
→ Mentre i sistemi di regole formali modellano la “departure from
equiprobability” della grammatica con la dicotomia tra strutture
possibili e impossibili;
→ i modelli probabilistici sono invece in grado di riempire lo spazio
che intercorre tra i due insiemi delle strutture possibili e
impossibili, individuando variazioni di probabilità all’interno
dell’insieme delle strutture legittimate dalla grammatica.

 Il successo dei modelli probabilistici in TAL


Ormai i modelli probabilistici rappresentano il paradigma dominante
del TAL.
Due motivi più di natura ‘tecnica’:
1). Poiché i modelli probabilistici si basano su grammatiche acquisite
automaticamente dal sistema a partire dai dati statistici, essi
consentono una maggiore rapidità di sviluppo rispetto ai modelli a
regole che dipendono da grammatiche sviluppate manualmente.
2). Inoltre, gli algoritmi per l’addestramento dei modelli statistici sono
del tutto indipendenti dalla lingua. Un sistema può imparare a svolgere
il medesimo compito linguistico in più lingue diverse, a patto che sia
addestrato su dati adeguati. Lo stesso algoritmo per rappresentare le
preferenze semantiche di uccidere può essere applicato a kill o töten,
avendo a disposizione un corpus dell’ing. o del ted. dal quale estrarre le
statistiche necessarie per stimare le probabilità.
Il motivo più sostanziale della fortuna dei modelli statistici è legato
alle loro migliori prestazioni nello svolgere compiti linguistici.

 Il difetto dei sistemi a regole


Ma le applicazioni per il TAL si trovano ad operare in condizioni ben
lontane da quelle spesso idealizzate che sono fotografate da qualunque
sistema di regole. La situazione di un sistema linguistico-
computazionale in questo senso assomiglia molto a quella di un
sociolinguistico che nel TAL si siano diffusi modelli di tipo
probabilistico. I sistemi per il TAL ‘aperti’ come Watson, ovvero non
specializzati su un particolare dominio, sono sempre più spesso
chiamati ad affrontare uno spettro di variabilità linguistica amplissima,
che va dalla prosa giornalistica fino ai microtesti su Twitter o
Facebook. La variazione delle strutture della lingua è estremamente
alta: essa riguarda tutti i livelli, dall’ortografia alla semantica, e
difficilmente può essere gestita con insiemi di regole formali
tradizionali.
L’affermazione di Sapir che “all grammars leak” è dunque ancor più
vera per le grammatiche computazionali. Si pensi alle frasi in (3) che
violano il vincolo sull’animatezza dell’oggetto di uccidere. Si può
certamente replicare sostenendo che queste sono frasi metaforiche, ma
ciò sposta semplicemente i termini della questione senza risolverla.
Ugualmente non efficace è la soluzione di assumere che non si tratti
dello stesso verbo uccidere. La semplice moltiplicazione dei sensi dei
lessemi, oltre a non essere soddisfacente sul piano teorico, non aiuta un
sistema computazionale ad affrontare il problema del loro
riconoscimento.
Il vero tallone d’Achille dei sistemi a regole è però la gestione delle
ambiguità. Si consideri ad es.:
(5). La banca centrale ha abbassato i tassi di interesse di tre punti
per tre anni.
I sistemi per il TAL scompongono l’analisi linguistica in una serie di
fasi che comprendono:
la segmentazione del testo in input,
l’analisi morfologica e
la disambiguazione morfo-sintattica delle unità lessicali,
l’analisi sintattica e infine
l’interpretazione semantica.
A ciascuno di questi livelli, le sequenze in es. contiene molteplici casi
di ambiguità:
centrale può essere un nome, un aggettivo o anche l’imperativo del
verbo centrare con un pronome clitico.
tasso può riferirsi all’omonimo animale oppure a una quantità
monetaria o essere una forma del verbo tassare, ecc.
I sistemi a regole assegnano a una espressione linguistica tutte le
analisi compatibili con la grammatica, ma non forniscono un criterio
di scelta tra queste analisi. Ecco ad es., quattro analisi sintattiche
alternative del sintagma verbale in (5), in realtà un sottoinsieme di tutte
quelle teoricamente possibili:
(6). (Le parentesi [] sono usate per indicare l’incassamento dei
costituenti sintagmatici.
a. [ha abbassato [i tassi di interesse] [di tre punti] [per tre anni]].
b. [ha abbassato [i tassi di interesse [di tre punti]] [per tre anni]].
c. [ha abbassato [i tassi di interesse] [di tre punti [per tre anni]]].
d. [ha abbassato [i tassi di interesse [di tre punti [per tre anni]]]].
→ Naturalmente l’analisi corretta in questo caso è (6a), ma le altre sono
comunque legittime combinazioni di costituenti preposizionali in
italiano: se l’input fosse ha abbandonato i tassi di interesse dei conti
per tre anni, l’analisi sarebbe (6b), con il SP dei conti correnti
modificatore dell’oggetto diretto.
→ I sistemi probabilistici sono in grado di risolvere il problema
dell’ambiguità sfruttando un fatto fondamentale, ovvero che le analisi
alternative, sebbene possibili, non sono tutte equiprobabili.
→ questo è ciò che rende la maggior parte delle ambiguità invisibili,
dal momento che il contesto è generalmente in grado di fornirci
informazioni sufficienti a scegliere l’analisi o interpretazione
appropriata. Per es., la probabilità che tasso si riferisca a un animale è
molto bassa dato il fatto che nella stessa frase si trovano parole come
banca oppure interesse.
→ I modelli probabilistici possono determinare qual è l’analisi più
probabile di una struttura linguistica in un dato contesto, combinando
informazioni sulle distribuzioni statistiche delle strutture linguistiche
ricavate dai corpora. L’abilità dei sistemi probabilistici di risolvere e
gestire le ambiguità nel linguaggio è uno dei motivi fondamentali
che spiegano le prestazioni di un sistema come Watson.

 Il tallone d’Achille dei modelli probabilistici


Questo è rappresentato dalla natura finita dei corpora sui quali
vengono stimate le probabilità e dalla distribuzione zipfiana dei dati
linguistici, che sono sistematicamente affetti da una rarità di
attestazioni.
→ per es., in (4), P(sasso|uccidereogg) = 0, perché in itWaC sasso non
ricorre mai come oggetto di uccidere. Dal momento che anche
cammello non compare con questo verbo nel corpus, il modello assegna
zero anche a P(cammello|uccidereogg), inferendo incorrettamente che
cammello non è un argomento possibile di uccidere.
→ Il fatto che le dimensioni di itWaC siano comunque ragguardevoli
(quasi 2 miliardi di parole), mostra l’importanza del fenomeno della
rarità dei dati linguistici.
→ Casi come questo sono da sempre citati come argomenti contro la
plausibilità dei modelli statistici in linguistica.
→ In realtà mostrano più limitatamente che la stima delle probabilità
dei vincoli della grammatica richiede metodi più sofisticati di quelli
usati in (4).
→ I modelli di ultima generazione sono in grado di attenuare
l’effetto negativo della rarità dei dati linguistici consentendo stime
più accurate delle probabilità dei vincoli della grammatica, anche se il
problema delle strutture grammaticali non osservate nei corpora
continua comunque a gettare ombre sulle prestazioni e sulla plausibilità
linguistica dei modelli statistici.

 I sistemi TAL ed elaborazione linguistica umana


L’approccio statistico è proprio un segno della distanza dei sistemi per
il TAL rispetto alle modalità di elaborazione linguistica umana: i
sistemi informatici sono costretti a perseguire strategie di analisi
probabilistica, proprio perché non possiedono la competenza linguistica
di un parlante nativo.
Anche i sistemi più evoluti per il TAL sono tuttora legati a una strategia
sequenziale di elaborazione linguistica.
→ Ad es. i moduli di analisi sintattica non hanno generalmente accesso
a conoscenze di tipo semantico. Il problema di ambiguità di (5) non
esisterebbe se il sistema fosse dotato di un maggiore grado di
parallelismo nell’accesso all’informazione semantica e pragmatica, così
come è tipico per l’elaborazione umana.
→Il ruolo dei modelli probabilistici nei processi cognitivi
In realtà, i modelli probabilistici non hanno solamente una valenza
ingegneristica. Hanno anche un ruolo fondamentale nella comprensione
dei processi cognitivi: la natura probabilistica dei processi umani di
acquisizione ed elaborazione è ben illustrata e argomentata in alcuni
studi.
Uno dei vantaggi dei modelli probabilistici è proprio quello di
consentire un elevato parallelismo dell’elaborazione del linguaggio,
problematico invece per i modelli a regole che devono affrontare il
complesso problema dell’ordinamento delle regole e della loro
interazione.
In questo senso, con tutte le differenze del caso, il metodo
probabilistico con cui Watson elabora il linguaggio è forse più simile a
quello umano di quanto non sembri a prima vista.
→L’ipotesi sulla natura probabilistica dell’elaborazione linguistica
umana, e la possibilità che questa dimensione riguardi solo l’uso
del linguaggio.
→ si potrebbe dunque continuare a modellare la competenza
grammaticale con sistemi di regole formali discrete, limitando gli effetti
probabilistici alla sfera dell’esecuzione.
Sebbene questo tipo di ipotesi sia legittima, si scontra però con una
ricca serie di evidenze empiriche che mostrano come molti fenomeni
della grammatica si collochino anch’essi nell’ambito del continuo.
→ un caso esemplare è dato dalla distinzione tra complementi e
aggiunti che gioca un ruolo chiave in ogni descrizione sintattica. Da
Vater, la sua caratterizzazione come opposizione categoriale è stata
spesso messa in discussione, dal momento che vi sono molte strutture
che violano tutti i test sintattici normalmente utilizzati per decidere
sullo status di aggiunto o di complemento, e che, dunque, si pongono
come casi intermedi e non pienamente decidibili. Somers propone ad
es. che complementi e aggiunti formino un’opposizione scalare, e
Dowty arriva ad ipotizzare che ogni sintagma dovrebbe essere
simultaneamente rappresentato come argomento e aggiunto. Le
evidenze empiriche suggeriscono che la differenza tra complementi e
aggiunti sia di natura gradiente e, dunque, più affine ad una
modellazione continua di tipo probabilistico.
Con le preferenze di selezione, la modellazione probabilistica è
perfettamente compatibile con la presenza di estremi ben distinti e
fortemente polarizzati. Non si deve dimenticare che certezza e
impossibilità appartengono comunque allo spettro dei valori assegnati
dalle distribuzioni di probabilità. Sostenere una rappresentazione
probabilistica della distinzione tra argomenti e aggiunti non significa
quindi negare che questa distinzione esista o che non ci siano casi
incontrovertibili di complementi o di aggiunti. Significa piuttosto
mettere la grammatica in grado di rappresentare anche casi di
variazione graduale tra i due estremi.
L’esplorazione delle potenzialità dei modelli probabilistici promette una
maggiore capacità descrittiva della complessità, gradualità e variabilità
dei fenomeni linguistici. Il loro successo nella realizzazione di
strumenti per il TAL non può dunque essere confinato al semplice
dominio dell’applicazione ingegneristica, ma apre interessanti
prospettive per la descrizione linguistica e la modellazione cognitiva.
L’approccio probabilistico per il TAL può gettare nuovi ponti tra teoria
ed applicazione, per una visione diversa della grammatica e della
nozione stessa di regola.
VI. Regole e eccezioni nella variazione sociolinguistica (M. Cerruti)

1. Introduzione
 Due citazioni classiche
 Sapir (1921): everyone knows that languages are variable.
→ ci dice che la variazione è una proprietà empirica universale e
prescientifica delle lingue.
→ non esistono lingue al mondo che non conoscano variazione.
→ in questo senso, la variazione stessa è una regola.

Weinrich / Labov / Herzog (1968): language is an object


possessing orderly heterogeneity.
→ ci dice che la variazione è tutt’altro che casuale e caotica;
→ la variazione è strutturata, mostra una ‘ordinata eterogeneità’.
→ la variazione, dunque, ha delle regole.

 Tre tipi principali di regole nella variazione sociolinguistica


1. regole di co-variazione
2. regole di co-occorrenza
3. regole di interrelazione
ognuna di queste regole è dotata delle proprie eccezioni.

2. Regole di co-variazione
 Definizione di ‘co-variazione’: a structural unit with two or more
variants involved in co-variation with social variables. (Cheshire) / due
o più modi diversi per dire la stessa cosa, ciascuno dei quali
correlato a qualche fatto sociale.
→ Ad es. la pronuncia del suffisso –ing è una variabile
sociolinguistica dell’inglese.
La variabile, notata convenzionalmente come (ing) ha come:
Varietà standard [ɪŋ] es. cooking [ˈkʊ.kɪŋ]
Variante sub-standard [ɪn] es. Cooking [ˈkʊ.kɪn], che correla con la
collocazione sociale bassa dei parlanti e il parlato spontaneo non
accurato.

 Regole di co-variazione
Si tratta di regole che operano sulle correlazioni fra singole varianti,
ossia tratti linguistici, e fatti sociali; ossia come una regola che è
realizzata con frequenze (e dunque probabilità) differenti in
dipendenza da fatti linguistici e sociali diversi.
Una regola variabile esprime dunque un certo pattern di variazione;
ovvero, una certa configurazione di co-variazione fra tratti linguistici e
fatti sociali, data anche da rapporti gerarchici tra fattori. Tale gerarchia
è determinata dalla probabilità che ha ciascun fattore di influire sulla
realizzazione della regola. La probabilità è calcolata statisticamente a
partire da dati empirici, relativi alla frequenza con cui la regola si
realizza in un certo corpus (per metodi e strumenti informatici).
→ Un es. di regole co-variazionale può essere questo: la caduta
variabile delle occlusive alveolari nell’ing. amr., formulata da Guy
(1991)
α
<M>
β
<S> <E>
γ
<R>

[t], [d] → <Ø> / C #

→ La regola descrive la caduta variabile delle occlusive alveolari,


nell’inglese americano, e si può leggere così:
[t] e [d] cadono (→<Ø>) in finale di parola precedute dalla
consonante (/C #) in dipendenza da alcuni fattori ({…});
1). Cadono più probabilmente in parole monomorfemiche
(α<M>, es. mist);
2). Cadono meno probabilmente nelle forme del passato di
verbi semideboli (β<S>, kept);
3). Cadono ancora meno probabilmente nelle forme di verbi
regolari o deboli (γ<R>, es. packed);
4). Cadono con probabilità inversamente proporzionale al crescere
dell’età (<E>). (Più l’età è avanzata, meno probabile che [t/d]
cadono in ø in finale di parola precedute dalla consonante.)

 Nodi critici delle regole variabili


1. se facciano parte della competenza di un parlante nativo
2. se possano avere valore predittivo
3. se siano condivise allo stesso modo da tutti i membri di una comunità
linguistica
4. se abbiano valore esplicativo
5. se conoscano eccezioni

 Le eccezioni alle regole variabili – un pattern di variazione diverso


1). Premessa teorica – infalsificabilità delle regole variabili:
Dal momento che queste regole danno spiegazioni probabilistiche; e le
spiegazioni probabilistiche, per la loro natura, sono falsificabili.
Popper (1977): probability statements will not be falsifiable.
Probability hypotheses do not rule out anything unobservable;
probability estimates cannot contradict, or be contradicted by, a basic
statement.
I casi inattesi non contraddicono una regola, ma al Massimo ne
correggono il grado di probabilità.

2). L’eccezione alle regole variabili


Una regola variabile esprime un pattern di variazione. >
Un’eccezione alla regola consiste quindi in un’eccezione non rispetto
a un valore di probabilità ma rispetto a un pattern di variazione;
ovvero, sarà data un pattern di variazione diverso.
In questi termini, una regola variabili conosce eccezioni. Nella
concezione laboviana (1972), una regola variabile vale per tutti i
membri di una certa comunità linguistica; una comunità linguistica è
definita proprio dalla condivisione di una data regola variabile:
“the speech community is defined by the uniformity of abstract patterns
of variation.”
Un’eccezione alla regola starà quindi a indicare l’appartenenza a una
comunità linguistica diversa; o l’appartenenza a una sottocomunità,
identificata da un pattern di variazione specifico.
→ Per es., la variabile fonologica dell’ing. br. /ju/
ha come variante standard [ju:], per es. new [nju:];
ha come variante sub-standard [u], come ad es. new [nu:].
Il pattern di variazione relativo vede dunque la seconda variante
correlare con fatti quali la collocazione sociale bassa dei parlanti e
il parlato spontaneo non accurato.
→ Nell’ing. di Norwich, invece, tale variante [u] gode di prestigio
‘coperto’ presso gli uomini della comunità (perché associata al
parlato di classi sociali che incarnano stereotipi di genere valutati
positivamente), e tende perciò a comparire anche nel parlato
sorvegliato di colti; il pattern di variazione relativo alla comunità
maschile è quindi eccezionale a quello più generale.

3). Attribuzione di prestigio


La stessa assegnazione di prestigio è in buona misura arbitraria,
dipende dalla valutazione positiva o negativa di usi sociali della lingua.
E bisogna considerare che la marcatezza sociolinguistica di un certo
tratto, tendenzialmente consapevole per fatti di variazione fonologica,
non lo è altrettanto per fenomeni di variazione ad altri livelli.
Quando entrino in gioco fatti strutturali, per spiegare l’eccezione a una
regola occorre quindi tenere in conto anche fattori diversi dal prestigio e
non necessariamente extra-linguistici.
→ il che vale per un fenomeno come la caduta delle occlusive
alveolari, discussa prima
Guy (1991) riferisce che:
1) i più giovani del campione mostrano un pattern di variazione
eccezionale rispetto a quello della comunità; per questi, la regola si
realizza con probabilità analogiche nel caso sia di parole
monomorfemiche (mist) sia di forme verbali semideboli (kept). In
gioco, qui, non è il prestigio sociale ma un procedimento di
rianalisi: i più giovani tendono infatti a rianalizzare una forma
semidebole, come kept, nei termini di una forma monomorfemica,
come mist.

4). nodo critico del modello laboviano


Il modello di Labov, concepito sulla base di fatti di variazione
fonologica, è fondato sul concetto di variabile sociolinguistica, la
variazione è interna al sistema; opera ‘in superficie’, mantenendo
invariata la struttura retrostante.
Ne consegue che:
→ il parlante nativo di una certa lingua ha competenza di una sola
grammatica, che è isomorfa (composizione analoga) alla grammatica
della comunità cui appartiene;
→ i membri di una stessa comunità condividono uno stesso insieme
di regole, che sono realizzate variabilmente;
→ i giudizi della grammaticalità dei parlanti non riflettono
differenze strutturali.

5). Altri modelli (generaivisti)


Altri modelli, che sono concepiti sulla base di fatti di variazione
strutturale, collocano invece la variazione in posizione esterna al
sistema.
È così nell’approccio generativista tradizionale (Chomsky, 1986)
È così generalmente nei modelli che prevedono grammatiche
multiple (le competing grammars di Kroch, 1989; De Camp, 1971;
Bickerton, 1971;)
Qui la variazione ← è data dalla scelta fra grammatiche diverse;
→ in questi termini, ad es., le varietà basse dell’ing. che consentono
strutture frasali con soggetto nullo, hanno una grammatica diversa
dalle varietà ‘alte’.
Di conseguenza:
→ un parlante nativo ha competenza di più di una grammatica;
→ le regole sono realizzate categoricamente;
→ i giudizi di grammaticalità dei parlanti riflettono differenze
strutturali.

6). Ancora altri approcci più recenti


Questi approcci pongono soluzioni diverse, e spesso intermedie.
Per Adger / Smith (2005), ad es.,
→ un parlante nativo ha una sola grammatica, come nel modello
laboviano,
→ ma la variazione è esterna al sistema linguistico, come nel
modello generativista, questo perché, diversamente dai precedenti
modelli, la variazione è data non dalla scelta di regole, ma dalla
selezione di elementi lessicali.
→ Per es., nel caso del default singular dell’ing.,
in varietà sub-standard esiste un elemento lessicale be che presenta
un tratto di accordo diverso da quello che ha l’elemento be nella
varietà standard; la scelta del primo elemento conduce a una forma
fonetica diversa da quella a cui conduce la scelta del secondo (es.
they was free vs. they were free); il che può avvenire al di sotto del
livello di consapevolezza del parlante.

7). La natura diversa dei fatti di variazione


Esistono, ovviamente, fatti di variazione di natura differente: un dato
modello tende ad attagliarsi più convenientemente alla descrizione
di certi fatti di variazione piuttosto che altri. Inoltre, fatti di natura
diversa mostrano pattern di variazione tipici diversi.
Per fatti di variazione a livello fonologico
Si è notato per es. come, con una certa regolarità, certi tratti
linguistici funzionino sia come marche sociali che come marche
situazionali e conoscano distribuzione parallela in diastratia e
diafasia, cioè con i tratti diffusi presso gli strati sociali più bassi che
occorrono più frequentemente in situazioni informali e quelli diffusi
presso gli strati sociali più alti in situazioni formali.
→ il che non può essere dato come presupposto per analisi di altri
livelli. Lo stesso Labov afferma che: it would be surprising if
abstract syntactic phenomena, as the decline of V-to-I movement,
were to exhibit the pattern of the socially evaluated sociolinguistic
variables like (dh) and (ing).

8). I giudizi di grammaticalità dei parlanti


Proprio questi giudizi sono di particolare interesse per una questione
centrale per lo studio della variazione; ovvero se esistano differenze
strutturali sistematiche (non idiolettali, non superficiali) tra le
competenze di parlanti nativi della stessa lingua.
→ La questione è stata affrontata in relazione all’italiano.
Le differenze nei giudizi della grammaticalità ad es. rispetto a frasi
come:
‘stavolta la torta è venuta alta all’improvviso’ o ‘non mi aspetto che
si lamenti nessuno’
inducono a ritenere che:
differenze strutturali ‘profonde’ fra le competenze native di
italiano esistano e
siano da ascriversi all’esistenza di diverse varietà
sociogeografiche native di italiano.
Non si danno competenze native diversificate su base diafasica
(situazioni comunicative diverse); ciascun individuo, nei limiti della
competenza personale della propria varietà sociogeografica di
lingua, spazia all’interno di una grammatica di varietà di registro.
3. Regole di co-occorrenza
Passiamo ora alle regole di co-occorrenza, che è un termine usato per
definire una varietà di lingua.

 Defizione di varietà – un insieme di tratti che tendono a co-occorrere


La varietà di lingua, ovvero quell’insieme di tratti che tendono a co-
occorrere, è difatti il campo di applicazione di regole.
Una varietà è la realizzazione concreta di una lingua presso una certa
classe di parlanti o di usi, ed è definita da un insieme di tratti
linguistici che tendono a co-occorrere, cioè a comparire insieme, in
dipendenza da certi fattori sociali.
→ Ad es., tratti quali
1). me come soggetto di prima persona: l’ho fatto me
2). ci come dativale di terza persona: a lui non ci scrivo
3). e forme verbali analogiche: venghino
> varianti delle variabili me→io, ci→gli, venghino→vengano
rispettivamente, tendono a co-occorrere nelle produzioni linguistiche di
parlanti incolti;
> ciò da luogo a una varietà di lingua, detta nella fattispecie italiano
popolare.

 Regole come istruzioni


Le regole qua, sono intese, alla pari delle regole co-variazionali, nel
senso di regole come istruzioni, quindi governano il presentarsi
insieme di un certo numero di tratti linguistici in dipendenza dagli
stessi fattori sociali.
Le eccezioni a queste regole si danno in misura diversa a seconda di
quanto siano forti i legami fra tratti.
→Labov ricorda ad es. come nella lingua delle omelie tali legami siamo
estremamente rigidi: thou hast non ammette alternative (*you hast, *thou
have sono inammissibili).
 Legami tendenziali fra tratti linguistici
Più in generale, i legami fra tratti sono invece tendenziali.
I legami sono particolarmente forti nelle varietà diatopiche e diastratiche;
I legami sono assai deboli nelle varietà di registro; (Berretta, 1988) “i
tratti linguistici che caratterizzano registri diversi paiono sì cooccorrere
con regolarità, ma non essere solidali fra loro in senso sistemico”.
Queste differenze fra classi di varietà, geografiche e sociali da un lato e
di registro dall’altro, sono riconducibili alla diversa natura delle une
rispetto alle altre.
Le varietà socio-geografiche sono quelle intimamente connesse
all’identità del parlante; abbiamo accennato non a caso all’esistenza di
diverse varietà socio-geografiche native di una stessa lingua.
La variazione di registro è invece una dimensione più ‘costruita’; per
dirla con Moretti (2011) “nessuno è parlante nativo delle varietà
formali; esse, infatti, non vengono imparate nella socializzazione
primaria, ma solo più tardi, quando si entra effettivamente in contatto
con tipi di testi e situazioni che le presentano”.

 Parametri di fattori determinanti per una certa configurazione di


co-occorrenza
Dopo aver notato che certi tratti tendono a co-occorrere in una data
varietà, ci si può chiedere quali fattori concorrano a determinare una
certa configurazione di co-occorrenza piuttosto che un’altra.
1. Teoria dei parametri
Nei termini della teoria dei parametri, la fissazione di un parametro
su un dato valore determina tendenzialmente il valore di altri
parametri;
→ la fissazione del parametro del soggetto nullo sul valore pro-drop
(pronoun dropping), ad es., rende ammissibili strutture in italiano come
mangiamo, arrivò Gianni, chi dici che verrà? (di contro a *mangeon, *
arrivait Jean, *qui dis-tu que viendra?, in una lingua non pro-drop
come il francese).

2. I parametri della grammatica generativa e le variabili


sociolinguistiche.
I parametri della grammatica generativa presentano in effetti
similarità evidenti con le variabili sociolinguistiche.
Le differenze fondamentali sono che:
→ i valori dei parametri si realizzano a livello di lingue, e dunque non
hanno per definizione valore sociale, mentre
→ le varianti delle variabili si realizzano a livello di varietà, e dunque
hanno per definizione valore sociale.

3. Assegnazione di marcatezza sociolinguistica


In prospettiva sociolinguistica è quindi centrale chiedersi quali fattori
conferiscano la stessa marcatezza sociolinguistica ai tratti co-occorrenti
in una certa varietà. Fattori linguistici ‘interni’, che come detto sono
all’opera, concorrono con fattori di altra natura.
 i costi di processazione cognitiva
Una pista percorribile ha a che fare con i costi di processazione.
L’impegno cognitivo richiesto dalla produzione di un certo tratto
può favorire, o al contrario sfavorire, la comparsa di quel tratto, e
di altri che richiedano costi analoghi, in una data varietà.
Si è notato che certi tratti hanno il valore di marche di collocazione
sociale bassa e/o di informalità in lingue diverse (tratti quali la
semplificazione di nessi consonantici, o la regolarizzazione di
paradigmi come per es. venghino); e che tali tratti si caratterizzano
per essere più ‘immediati’ in termini di processabilità
dell’informazione, quindi meno impegnativi cognitivamente, rispetto
ai corrispondenti standard.
Varietà sub-standard di lingue diverse parrebbero del resto
particolarmente interessate da processi di semplificazione; le varietà
standard, al contrario, sarebbero contraddistinte da una maggiore
complessità strutturale.
 Il tutto, però, senza dimenticare che il valore di marcatezza
sociolinguistica è in molti casi arbitrario e può essere diversamente
consapevole a seconda della natura dei fenomeni di variazione.

4. Regole di interrelazione
Veniamo così all’ultimo tipo di regole: di interrelazione.
 Campo d’applicazione delle regole di interrelazione:
Tali regole, nel senso di principi generali, operano sui rapporti fra
dimensioni di variazione, e dunque fra varietà di lingua;
Il loro campo di applicazione è quindi l’architettura della lingua.
Il termine interrelazione è stato ricavato da Bell (1984), che discutendo
dei rapporti fra diastratia e diafasia si chiede: “What is the interrelation
between the two dimensions?”

 Due piani diversi di interrelazione


1). un primo piano è connesso alla diversa natura delle stesse
dimensioni di variazione, e quindi delle diverse classi di varietà a cui
queste danno luogo;
→ Sul primo piano, la diatopia è da intendere come la dimensione di
variazione primaria, in cui interviene la diastratia;
→ La diafasia, a sua volta, agisce all’interno delle altre due.
→ Coseriu (1988): diatopia > diastratia > diafasia
Infatti, un individuo parla una data varietà diatopica di lingua,
nelle forme proprie della fascia sociale a cui appartiene, all’interno
della quale ha a disposizione un certo ventaglio di scelte di
registro. Su questo piano, non esistono eccezioni.
2). un secondo piano è legato alla fenomenologia empirica della
variazione;
→ Sul secondo piano, è molto discussa la relazione fra diastratia e
diafasia. È altamente frequente il caso per cui un certo tratto
linguistico sia marcato contemporaneamente in diastratia e
diafasia.
→ Bell concepisce la variazione diafasica, e più in particolare la
sottodimensione dei registri, come derivata da quella diastratica.
Ovvero, tratti che in origine valgono da indicatori di varietà sociali
vengono in seguito ad assumere il valore di marche di registro; e ciò,
secondo Bell, esiste sostanzialmente per accomodamento alla
varietà sociale dell’interlocutore.
→ In questa prospettiva, la gamma di variazione tra varietà sociali
diverse è da ritenersi maggiore della gamma di variazione fra registri
diversi.

 In italiano
Nell’ambito italiano, parrebbero seguire questa direzione quei tratti di
italiano popolare usati per accomodamento da parlanti giovani colti
in conversazioni spontanee con anziani.
→ Ne è un’es.: è mica meglio averci un po’ di vista? Che ’lora sì che
vedi la chiesa, il campo dove giocano a quel robo lì che so neanche
come si chiama.

 Non mancano posizioni contrarie a quelle di Bell:


Finegan / Biber concepiscono la dimensione diastratica come derivata
da quella diafasica, dal momento che non tutte le fasce sociali hanno le
stesse possibilità di accesso a testi scritti formali;
da questo punto di vista, sarebbe quindi la gamma di variazione tra
registri diversi a doversi ritenere maggiore di quella fra varietà sociali
diverse.

 Confronto fra le diverse posizioni al riguardo del rapporto fra


diastratia e diafasia
Nondimeno, le diverse posizioni possono non essere reciprocamente
esclusive, ma cogliere comportamenti tipici di fatti di variazione
diversi.
Inoltre, ciascuna posizione riflette una certa configurazione dei rapporti
fra varietà di lingua; e tale configurazione non può avere valore
generale: può essere propria di una realtà sociolinguistica e non di
un’altra e, nell’ambito di una stessa realtà sociolinguistica, può essere
caratteristica di un dato momento storico ma non di un altro, e/o valida
a livello di repertorio comunitario ma non a livello individuale. In altri
termini, ciò che è regola qui e ora per una certa comunità può essere
un’eccezione altrove e/o in un periodo diverso e/o per il singolo
individuo.

 La situazione sociolinguistica italiana e oltre


Nella situazione sociolinguistica italiana, la variazione diatopica può
essere considerata la dimensione di variazione principale, l’elemento
di differenziazione primario all’interno della lingua; seppure dinamiche
recenti conducano a un ampliamento della gamma di variazione
diafasica a fronte di una relativa riduzione della differenziazione
diastratica e diatopica.
Diverso è il caso di francese, ad es. nel XIX secolo il primato
diastratico è passato alla dominazione diatopica, fino a un attuale
primato di diafasia che oggi è il più saliente (Gadet, 2005).
Rispetto alla configurazione dei rapporti fra varietà nel repertorio
linguistico, il luogo in cui si osservano le eccezioni è tendenzialmente
il repertorio individuale. Le regole di interrelazione operano a livello
dell’architettura di una lingua, che è parte organizzata del repertorio
comunitario; il repertorio individuale può essere costruito diversamente
rispetto a questo, e diventare così il luogo in cui si manifestano le
eccezioni.
→ Nel caso italiano, si configurano evidentemente come casi
eccezionali gli usi da parte di giovani colti, menzionati sopra,
dell’italiano popolare come varietà di accomodamento con anziani:
l’italiano popolare, una varietà sociale, viene ad assumere nel repertorio
individuale di quei giovani la funzione di varietà situazionale.
5. Conclusione
In conclusione, possiamo abbozzare una sistemazione di questi tre tipi di
regole in relazione ai rispettivi campi di applicazione.
tipi di regole operano a livello campi di
(di analisi) di applicazione
regole di co- → variabile
variazione sociolinguistica
(correlazioni fra
singole varianti,
ossia tratti
linguistici, e fatti
sociali)
regole di co- → varietà di lingua
occorrenza (insieme di tratti
che tendono a co-
occorrere)
regole di → architettura della
interrelazione lingua
(rapporti fra
dimensioni di
variazione, e
dunque fra varietà
di lingua)
(con riflessi sul
repertorio
linguistico)
Variabile, varietà e architettura, seguendo Berruto, possono difatti
essere intesi come veri e propri livelli di analisi della variazione
sociolinguistica, ossia intralinguistica. (Un quarto livello, quello del
repertorio, pertiene più tipicamente alla variazione interlinguistica).
Come per i livelli d’analisi della linguistica generale, ogni livello è
composto da gruppi di unità appartenenti al livello immediatamente
inferiore. In questo quadro, i tre tipi di regole sociolinguistiche che si
sono individuati hanno dunque come campo d’applicazione le unità
fondamentali dei rispettivi livelli di analisi.
VII. Regole e eccezioni nel mutamento linguistico

1. Introduzione: regole, irregolarità, e i meccanismi del mutamento


Il funzionamento di una lingua come sistema è indubbiamente affidato
all’esistenza di regole, laddove per regola si intende, da punto di vista del
linguista, (Simon/Wiese, 2011) “a generalisation over empirical
observations that allows predictions with regard to data”.
All’interno di ambiti diversi, tra i quali, in particolare, la sociolinguistica
e il funzionalismo, è stato però riconosciuto come il tentativo di dare della
lingua una rappresentazione ‘regolarizzante’ si scontri con il suo uso
concreto da parte dei parlanti, uso che comporta necessariamente
variazione (spesso correlata a fattori socio-culturali e geografici), ed è
soggetto ad un continuo mutamento.
Sono proprio questi due elementi, variazione e mutamento, che più
interferiscono con le regole della lingua, rendendo intuibile come tali
regole siano tutt’altro che rigide o inviolabili.
Dunque, come nel caso sincronico della lingua, anche nell’osservazione
del suo sviluppo diacronico, per comprendere i meccanismi che
determinano tale sviluppo sembra necessario guardare non solo alle
regole linguistiche ma anche alle loro eventuali ‘violazioni’.
 Mutamento come la sostituzione di un elemento A con un elemento
B
Il mutamento linguistico può essere descritto come la sostituzione di un
elemento A con un elemento B, definibile come innovazione, attraverso
una certa gradualità.
Tale gradualità implica che A e B coesistano per un periodo anche
molto lungo prima che la forma innovativa B si imponga su quelle
preesistente A (in tal caso, A può sopravvivere come pattern residuale).
D’altra parte, un’innovazione può non imporsi mai e dunque
scomparire, o può affiancarsi alla forma preesistente in un sistema che
ammette la presenza di più varianti, spesso distribuite diversamente a
livello diastratico e/o diafasico.
Pertanto, il mutamento si basa sulla concorrenza di forme diverse,
secondo il meccanismo così descritto da Lazzeroni:
Ogni lingua è un diasistema, un insieme di sistemi presenti alla
competenza dei parlanti che in parte si sovrappongono e in parte
divergono. Le differenze co-occorrono con variabili extra-
linguistiche, sociali o situazionali. Il mutamento linguistico si attua
nel diasistema, innescato dalla dinamica delle varianti: esso è un
prodotto dell’interferenza, non importa (il meccanismo è lo stesso)
se interlinguistica o intralinguistica.
Per tali ragioni, il mutamento linguistico dev’essere rappresentato non
come (1): A > B, ma come (2):

I linguisti storici hanno mostrato che l’elemento B può inizialmente


configurarsi come un errore, stigmatizzato come tale dalla norma
grammaticale. Oltre al caso ben noto di alcuni ‘errori’ del latino che
stanno alla base delle forme romanze, un es. molto chiaro è
rappresentato dalla sostituzione da parte dei pronomi italiani lui e lei di
quelli di più antica attestazione egli ed ella, che oggi sopravvivono in
registri stilistici più ricercati dello scritto.
A
In A> >B
realtà, lui e lei erano usati già nel
B Quattrocento, ma appartenevano ad un
registro basso, mentre la norma era
rappresentata da egli / ella. Nel 1525 Pietro Bembo bollava come
scorretto il ricorso a lui in funzione di soggetto, tanto da contribuire alla
sua (parziale) regressione. Questo conferma come “nella gran parte dei
casi, la forma innovativa, che incalza e si prepara (magari nel giro di
qualche secolo) a scalzare quella precedente, è percepita come un
‘errore’, cioè come violazione del buon uso. Se l’‘errore’ si imporrà,
non sarà più considerato tale.
A differenza della nozione di errore, quella di eccezione non è stata
trattata in modo sistematico nella letteratura sul mutamento. Per tale
ragione, nelle sezioni successive ci concentreremo su di essa,
considerando in particolare due aspetti:
(i). cosa descrivere come eccezione alla luce dei meccanismi del
mutamento linguistico;
(ii). come le eccezioni entrino in gioco nel farsi e disfarsi delle regole
durante il processo di trasformazione della lingua.

2. La creazione di un’eccezione
 Il principio dell’ineccepibilità della legge fonetica
Una fase cruciale per lo sviluppo della teoria del mutamento fu quella
che coincise con l’esaltazione della regola e la negazione
dell’eccezione. Alla fine del XIX secolo, i Neogrammatici tentarono di
dimostrare che dietro alle irregolarità sincroniche delle lingue vi è una
regolarità preesistente, e sancirono il principio della ineccepibilità
della legge fonetica, per cui ogni mutamento di suono è del tutto
regolare, privo di eccezioni, ed opera con “cieca necessità”.
MacMahon, 1994: The Neogrammmarians seem to have seen their
regularity hypothesis as an equivalent of one the physical laws like the
law of gravity, and therefore as an immutable consequence of the way
the world is.
→L’es. più noto dell’applicazione di tale principio è rappresentato dalla
‘correzione’ alla prima legge di Grimm da parte di Verner. La
regola prediceva che:
le occlusive sorde [p, t, k] i.e. avessero come esito in germanico
delle fricative sorde [f, θ, x] (i.e. *bhráter > sscr. bhrátar, gr. phráter
vs. got. broþar([θ])).
Tale regola risultava però violata da una serie di corrispondenze
lessicali in cui l’esito germanico è rappresentato da una fricativa
sonora: cfr. i.e. *ph té r ‘padre’ (sscr. pitár, gr. paté r, lat. pater) vs.
2

got. fadar ([ð]) al posto dell’atteso *faþar([θ]).


Tali corrispondenze apparentemente irregolari erano in realtà
accomunate da una soggiacente regolarità, che è stata poi descritta
in termini di vera e propria ‘legge’- Legge di Verner:
le occlusive sorde i.e. diventano fricative sonore in germanico
→ se si trovano tra elementi sonori e
→ se non sono immediatamente precedute dall’accento
indoeuropeo, qual è documentato dal sanscrito e dal greco.
Nell’ottica dei Neogrammatici questa scoperta confermava la teoria
dell’ineccepibilità della legge fonetica, che studi successivi hanno
mostrato essere inaccettabile, dando prova, al contrario, di come il
mutamento di suono possa attuarsi senza completare il suo corso, non
estendendosi a tutto il lessico di una lingua nell’appropriato contesto e
lasciando forme residuali.
Tuttavia, i Neogrammatici fissavano un punto di grande importanza: il
mutamento linguistico non produce soltanto nuove regolarità, ma
nel far questo, può creare al tempo stesso eccezioni alle nuove regole,
eccezioni che, in realtà, non sono altro che il residuo di una regola
precedente. Questo vale non solo per la fonetica, ma anche per gli altri
ambiti della linguistica.

2.1. Regole con eccezioni o eccezioni regolari?


 La grammatica latina prevedeva che il participio perfetto ha
funzione passiva per tutti i verbi che non siano deponenti (v. che
presentano forma passiva e hanno valore attivo).
→ Violano questa regola alcuni part. con valore attivo: cenátus
‘che ha mangiato’, iurátus ‘che ha giurato’, pransus ‘che ha
mangiato’, potus ‘che ha bevuto’.
→ In realtà, il part. perf. latino deriva dall’agg. verbale
risultativo i.e. in *-to-, che era indifferente alla diatesi (come
dimostrato dal sscr. e dal gr.), coerentemente con quanto accade
sul piano interlinguistico: una forma come il gr. adákrutos poteva
assumere sia significato attivo (‘che non piange’) che passivo
(‘che non è (stato) pianto’).
→ In lat., però, l’agg. in *-to- è diventato parte del paradigma del
v. con funzione di participio, per cui si è generalizzato il suo
impiego con valore passivo. Dunque, forme come quelle citate
sopra non sono altro che il residuo di uno stato di cose
precedente.
→ Se tali principi erano interpretati come eccezioni dai grammatici
latini, in it. l’uso attivo di forme quali mangiato o cenato in
genere non è contemplato nei dizionari, benché esso sia stato
attestato per secoli in opere letterarie (3), e benché tali forme
siano tuttora in voga soprattutto nel parlato.
(3)
Una sera che questo oriuolajo avea cenato meco, e che ancora
si stava discorrendo a tavola dopo cenati, entrò Elia.
(Alfieri, Vita XII)

 In questo caso potremmo dire che forme divenute ‘eccezionali’ a


causa di un mutamento – ossia, forme che si sottraggono ad una
regola sviluppatasi da un mutamento –, possono trasformarsi
successivamente in errori, poiché la loro irregolarità finisce per
essere stigmatizzata come inaccettabile dalla norma.
由于语言纵向发展变化而由主流成为例外的表达方式,有可能
逐渐地成为错误,因为他们的不规则性常常不被“主流”所接

2.2. Regole universali ed eccezioni apparenti


 Quanto osservato finora è valido anche in una prospettiva
comparativa. Infatti, un elemento linguistico che è regola nella
grammatica di una data lingua, ma che sembra configurarsi come
eccezione rispetto ad una regola universale, spesso può essere
spiegato come conseguenza di un cambiamento linguistico e/o
sociale.
 È noto, ad es., che quando l’articolo definito (in it. il, la, …) si
sviluppa dal pron. dimostrativo (in it. questo, quello, …) – tendenza
molto diffusa nelle lingue del mondo – i due occupano la stessa
posizione, prima del nome (come in gr., ing., it.) o dopo di esso
(come in armeno, islandese, rumeno). Il bulgaro presenta una
situazione anomala, poiché il dimostrativo è anteposto al nome,
mentre l’articolo è posposto.
→ In realtà, tra i secoli IX e XIII, quando l’articolo cominciava a
svilupparsi, il dimostrativo poteva essere usato in entrambe le
posizioni.
Solo successivamente alla grammaticalizzazione della definitezza,
la posizione del dimostrativo diventa fissa prima del nome, laddove
l’articolo (Kuteva / Heine, 2008) “found itself ‘frozen’ in the same
position in which that source could be used at the beginning of the
grammaticalization process”.
 Si può dire che il caso del bulgaro, quindi, non viola una tendenza
universale, poiché il fenomeno attestato trova una spiegazione in
diacronia.

3. La creazione di una regola


Una certa classe di elementi si sottrae sincronicamente ad una regola, ma
l’osservazione diacronica ci permette di ricondurli ad una regola, ma
l’osservazione diacronica ci permette di ricondurli ad una regola
precedente. Casi simili sembrerebbero dunque difendere l’assunto dei
Neogrammatici per cui “there must exist a rule for the irregularities: the
task is to find this rule” (Verner).
Piuttosto che guardare alle irregolarità di una lingua cercando la regola
sottostante, il linguista può guardare alle regole e cercare di trovare
eventuali eccezioni sottostanti. Questo metodo risulta particolarmente
efficace per l’osservazione del mutamento. Se è vero che la compresenza
di varianti gioca un ruolo decisivo nel mutare delle lingue, anche un
elemento che si configura come eccezione ad una regola e che quindi
appartiene alla lingua del parlante in quanto diasistema, può finire per
avere un ruolo analogo a quello delle varianti stesse, o degli errori:
competere con una regola già esistente ed eventualmente sostituirla,
oppure fornire il materiale linguistico per innovarla.
 Due case studies del latino e dell’italiano
- Una premessa:
quando oggetto di studio è una lingua (o uno stadio di lingua) a
corpus chiuso, può rivelarsi più complesso individuare ciò che in essa
costituiva un’eccezione. La testimonianza delle grammatiche o, più
genericamente, di testi che trattano di fatti linguistici, è fondamentale
per conoscere quello che a livello normativo valeva come regola.
Talvolta quei testi ci danno notizia anche delle eccezioni registrate
dalla grammatica. Tuttavia, ciò non sembra bastare.
Per studiare fenomeni eventualmente sfuggiti all’occhio del
‘normativizzatore’, dobbiamo considerare che nella lingua può essere
descritto come ‘regola’ anche ciò che presenta le caratteristiche di
high preponderance/frequency e di enough predictability, per usare le
definizioni di Givón. Di contro, ‘eccezione’ sarà definibile come ciò
che non è altamente frequente o sufficientemente predicibile.
Ciò implica che l’eccezione possa configurarsi non solo come un
elemento che, ridefinendo il campo di applicazione della regola per
tutti i parlanti, appartiene alla grammatica ed è dunque condivisa
dalla comunità, ma anche come un elemento che appartiene al
singolo parlante, da cui può essere introdotta.
Gli studi che, cercando di indagare le cause del mutamento, sono
giunti a riconoscere l’importanza del ruolo del parlante e del suo uso
creativo della lingua. L’attività comunicativa del singolo parlante
comprende infatti non solo l’uso degli strumenti grammaticali
che la sua lingua gli mette a disposizione, ma anche,
eventualmente, di mezzi linguistici che siano ‘meno
grammaticalizzati’ e, più in generale, innovativi:
To the degree that language activity is truly creative, it is no
exaggeration to say that languages change because speakers
want to change them. This doesn’t mean, of course, that they
intend to restructure the linguistic system. It does mean,
however, that they do not want to express themselves the same
way they did yesterday, and in particular not the same way as
somebody else did yesterday. To this extent, language is not
comparable to fashion (Lehman, 1985).
Questa forza creativa individuale è chiaramente uno degli elementi
che determinano la variazione sincronica propria dei parlanti e delle
lingue, ma può avere un effetto significativo anche sullo sviluppo
diacronico, considerato, come si è già visto, il legame tra i due
aspetti. Riformulando tutto questo in termini più vicini al nostro
tema, il parlante può usare ed usa le regole della sua lingua, ma può
decidere di variare tali regole per particolari scopi comunicativi ed
espressivi, ma anche sociali, ovviamente sempre nel rispetto della
mutua comprensione con l’ascoltatore

3.1. L’eccezione sostituisce la sua regola


In latino, tra le strategie canoniche di comparazione, vi erano quelle
in (4), che prevedevano l’uso dell’agg. con una marca dedicata di
comparativo, ed il secondo termine di paragone codificato dal caso
ablativo o da quam più il caso del primo termine; questo
comparativo sintetico è stato sostituito in italiano da una
costruzione analitica (più o con agg.), mentre l’espressione del
secondo termine di paragone è affidata alla preposizione di:
(4).
a. ego sapientior te sum
b. ego sapientior sum quam tu
‘io sono più saggio di te’.
In realtà, già in latino arcaico, la regola di formazione del
comparativo prevedeva un’eccezione: quando per ragioni fonetiche
non era possibile aggiungere –ior all’agg., si ricorreva ad un
comparativo perifrastico con plus o magis.
Posto che, accanto alle costruzioni canoniche di comparatico,
esistevano una serie di altri costritti con analoghe funzioni ‘meno
integrati nella grammatica’, tanto da poter affermare che “the
history of how the comparison in latin is rather the history of how
the canonical constructions survived until they were ousted amd
replaced by new formationsm which remain current in Romance”, il
dato interessante è che le costruzioni con plus o magis venivano
usate con una certa libertà, e non solo quando la norma
grammaticale lo imponeva.
Si vede l’es. in (5a), dove infestus è usato con plus, nonostante
ammetta il suffisso di comparativo (5b):
(5).
a. Tibi infesta solist /plus quam cuiquam.
‘A te solo lei è ostile più che a chiunque altro’.
b. Non estis vos illis infestiores, quam civitas est ipsa.
‘Voi non siete più ostili a loro di quanto non lo sia la nostra stessa
città’.
Dunque, il mutamento dal comparativo sintetico latino a quello
analitico italiano può essere riscritto come la sostituzione di una
regola prevista dalla grammatica con una sua eccezione, attraverso il
superamento dell’originario ambito di applicazione dell’eccezione
stessa: il costrutto con plus viene esteso prima ‘liberamente’, poi
sistematicamente e regolarmente, anche ad agg. che ammettevano la
combinazione con –ior.

Qualcosa può dirsi per l’uso della preposizione di (< dal lat. de).
Anche in questo caso, già in lat. il secondo termine di paragone
poteva essere espresso tramite i sintagmi preposizionali formati per
lo più da a, ab, ex: il loro uso può essere definito, per la scarsa
frequenza e sistematicità nonché per il loro apparire in autori che
non ammettono varietà basse, come ‘eccezionale’, ma sicuramente
non errato rispetto alla regola dell’ablativo di comparazione. L’uso
della prep. de è attestato piuttosto tardi in epoca post-classica, e
resta marginale anche in italiano antico (es. 7), dove
“nell’espressione del secondo termine di paragone è quasi assente
l’introduttore di, a eccezione dei casi in cui precede un pron.”,
mentre la regola era rappresentata dall’introduttore che (es. 8).
(6).
Senior aetate erat de Bruchilde.
“Egli era più vecchio dell’età di Bruchilde”.
(7).
Per mala ventura se na tua penna sarà più larga di me!
(8).
Tancredi […] ebbe una moglie più bella che lla Sibilla

Tuttavia anche in questo caso, sarà proprio il costrutto riservato


all’eccezione a soppiantare la precedente regola.

3.2. L’eccezione modifica la regola


In it. moderno stra-, derivato dalla prep. lat. extra, funge da prefissa
valutativo con valore accrescitivo-migliorativo: si unisce
tipicamente ad agg., ma anche a v. e ad avv., e solo raramente a n.,
come si legge nella letteratura sull’argomento.
In realtà, attraverso corpora di it. scritto e parlato, è possibile
constatare che l’impiego di stra- come intensificatore di basi
nominali attualmente è in espansione, soprattutto in un tipo di
linguaggio espressivo e/o informale: ne sono es. strabellezza,
stracattiveria, straevento, strafaccia, strafesta, straforza,
straignoranza, straimportanza, strapasticceria, straprofumo,
stravantaggio, tratti dalla lingua del web.
Se ripercorriamo la storia di stra- come intensificatore dalle origini
della sua comparsa (XII secolo), dai dati numerici del corpus OVI
ricaviamo che il prefisso si univa inizialmente solo ad agg. e,
marginalmente, ad avv., poco più tardi anche a v.
Questa può essere considerata come la regola morfologica che è alla
base della formazione di derivati in stra-. Ma in it. antico, su
modello di questa regola vengono creati gli unici due nomi in stra-
documentati come hapax nel corpus e risalenti al XIV sec.:
strameraviglia e strabbondanza. Al primo corrisponde l’agg. coevo
strameraviglioso; il secondo è stato presumibilmente introdotto
dall’autore del testo al posto di soprabbondanza – attestato altro in
it. antico e nella sua stessa opera – per esigenza di variatio, dato che
nel passo ricorre anche soprabbondanza.
(9).
Come la strabundanza della chiarezza del Sole agrava tanto il
nostro viso, che la virtù non puote corrispondere; così la luce di
quell’angelo era sì soprabbondante che l’occhio nol potea
sostenere di guatare.
(Anonimo, L’Ottimo Commento alla Commedia, Purg. 17)

Altri hapax nominali in stra- sono attestati sporadicamente per tutta


la storia dell’it., finché, dopo l’introduzione di Strapaese, coniato
per denominare un movimento letterario sorto tra il 1926 e il 1932, e
“foggiato con un leggero arbitrio”, nascono “per irradiazione” una
serie di altri nomi formati con lo stesso prefisso. Il mutamento
attuale, ossia la proliferazione di nomi in stra- che è conseguenza
dell’estensione dell’originaria regola morfologica, e che certamente
porterà alla lessicalizzazione di nuove forme, altro non è che la
generalizzazione di ciò che Migliorini definiva arbitrio, ossia la
generalizzazione di quelle eccezioni che arbitrarie non sono, poiché
basate semplicemente sull’estensione di una regola.
Concludendo, questo caso mostra come l’osservazione sincronica di
una lingua può portarci a constatare uno stato di cose innovativo,
che però, esaminato diacronicamente, si rivela innescato da
un’eccezione già esistente da lungo tempo: tale eccezione può
dunque essere reinterpretata come una seconda regola potenziale,
che entra in competizione con quella da cui ha avuto origine, e ne
ridetermina il campo di applicazione.

4. Conclusioni
Questo contributo è dedicato ad esplorare la possibilità che forme e
costrutti ‘irregolari’ di una lingua interagiscano con le sue regole nel
processo di mutamento, e il modo in cui ciò avviene. Molto in questo
ambito resta da esplorare. Gli sforzi principali negli studi sul mutamento
sono stati finora dedicati ad indagare quali meccanismi creino regolarità
nelle lingue: tra questi è stato riconosciuto il ruolo fondamentale della
grammaticalizzazione e dell’analogia, intesa “as a cover term for changes
that involve the imposition of regular patterns (rules, constraints, etc.)
from one area on another”.
Ciò che merita di essere indagato più a fondo riguarda la domanda
opposta e complementare alla precedente: ossia, quali forze specifiche
creano irregolarità in una lingua? L’uso creativo della propria lingua da
parte del singolo parlante, per rispondere alle molteplici e diverse
esigenze della comunicazione, è potenzialmente una di queste forze.
Tuttavia, non spiega da sola tutti i tipi di mutamento, né la complessità
del mutamento in sé (ammesso che questo sia spiegabile nella sua
interezza.)
Dall’altra parte, sarebbe interessante esplorare anche quanto l’irregolarità
abbia effettivamente peso nei meccanismi del mutamento, e quanto essa
sia limitata dalla regolarità intrinseca alla lingua. Tutti i casi discussi in
questo capitolo sembrano infatti riconducibili alla seguente
generalizzazione: se è vero che le regole linguistiche spesso comportano
delle eccezioni, sul piano diacronico le eventuali eccezioni presenti in una
lingua spesso contengono in sé l’indizio di un’altra regola, diversa da
quella che violano. Ossia, un’eccezione può rimandare ad una regola
precedente, ed essere divenuta tale a causa di un mutamento;
un’eccezione può entrare in competizione con la regola stessa che la
prevede, contribuendo a sostituirla o a modificarla.
Per concludere, anche le eccezioni hanno le loro regole, nel senso che,
quale che ne sia l’origine, in quanto parte di un certo ‘sistema lingua’,
obbediscono agli stessi principi che determinano l’esistenza di quel
sistema. Ma questo conferma che per studiare quel sistema e il
mutamento delle sue regole sarà necessario tener conto anche di come si
formano e trasformano le eccezioni e gli errori della lingua.
VIII. Le regole del congiuntivo (Michele Prandi)

1. Introduzione
Le lingue, in quanto strutture di lunga durata indipendenti dalle
contingenze degli atti comunicativi, tendono alla regolarità. Tuttavia,
questa spinta
← da un lato è minacciata dalle derive storiche, e
← dall’altro coesiste con la progettualità degli individui che usano la
lingua per i loro scopi.

Questa realtà complessa comporta un certo numero di conseguenze:


1) In primo luogo, occorre distinguere le regole prescrittive che la società
tende a imporre agli usi individuali, dalle regole descrittive, che
individuano regolarità nella struttura. (nella grammatica tradizionale
troviamo un misto di questi due tipi di regole.)
2) In secondo luogo, lo spazio delle regole va rigorosamente distinto dai
margini di scelta lasciati all’iniziativa del parlante.

L’oggetto delle regole descrittive è la langue di Saussure → che


possiamo definire come un sistema relativamente stabile di presupposti
grammaticali e lessicali condivisi, o meglio, assunti come condivisi dalla
comunità dei parlanti.
Nelle scienze sociali, ciò che fonda l’oggetto è il principio di
condivisione: essere è essere condiviso. In questo sistema condiviso sul
quale la comunità dei parlanti fa affidamento, la lingua è un oggetto
sociale che si presenta come un sistema di strutture a priori.
Definizione relazionale e funzionale di a priori → tutto ciò che in una
certa pratica è dato come presupposto, e quindi non messo in discussione
dai soggetti della pratica, che al contrario vi si appoggiano come a un
suolo solido e affidabile.
Possiamo concepire le forme a priori come → tra la natura empirica e la
funzione di a priori, non c’è contraddizione. Finché gli viene riconosciuta
la sua funzione, un presupposto – per es. l’idea che l’universo abbia un
centro – non è messo in discussione ma assunto come a priori; quando
viene messo in discussione, cessa di funzionare come un presupposto –
come un a priori.

Le strutture della lingua si distinguono da altri fatti sociali – per es. dalle
norme giuridiche – in quanto la condivisione non si fonda su un atto
istituzionale, sancito dalla presenza di una traccia registrata.
Nel caso della lingua, la condivisione nuda e semplice è un fondamento
puro e ultimo privo di un fondamento ulteriore.

All’interno delle regole descrittive possiamo distinguere almeno due


livelli, che hanno un rapporto molto diverso con le eccezioni: un livello di
generalizzazioni empiriche e un livello di regole esplicative. Le
generalizzazioni empiriche sono inevitabilmente inseparabili da un
numero più o meno grande di eccezioni e quindi non sono falsificabili. Le
regole esplicative cercano di fondare le regolarità descrittive su criteri e
principi di ordine generale. Le regole esplicative non ammettono
eccezioni e sono quindi falsificabili.

2. Generalizzazioni empiriche e spiegazioni


Tra le regole della grammatica possiamo distinguere le generalizzazioni
empiriche dalle spiegazioni.
 Le generalizzazioni empiriche
- Hanno lo scopo di descrivere i dati così come si presentano nella
complessità della lingua, secondo il principio di descrizione.
→ un es. di generalizzazione empirica (nella morfologia flessionale):
Nella relazione tra il sing. e il plur. dei n., si constata una certa
regolarità.
Il plur. si forma in base al genere, che rimane invariato: per es.,
o→i; a→e. Una caratteristica di questo tipo di regole è di presentare
inevitabilmente eccezioni.
Per es. il paradigma uovo – uova è un’eccezione a due livelli: il plur.
prende una desinenza difforme dal modello; inoltre, il n. cambia
genere.
- Lo spazio logico delle eccezioni:
→ si giustifica per la natura stessa dei dati linguistici,
→ i dati linguistici sono a loro volta il risultato di due spinte in
conflitto tra di loro:
1) la spinta alla regolarità, giustificata da ragioni funzionali;
2) le derive (variazioni) storiche, provocate da ragioni eccentriche
rispetto alla funzionalità, incuranti delle regolarità funzionali
→ un es. classico di una deriva che travolge le funzioni: la perdita
delle desinenze di caso nel passaggio dal latino alle lingue
romanze, dovuta all’erosione della struttura fonetica della sezione
post-tonica delle parole. A differenza dei casi, la distinzione tra
singolare e plurale è sopravvissuta; tuttavia, la sua regolarità, per
quanto è alta, non è assoluta.
- Regole ed eccezioni come concetti correlativi
Il rapporto tra regole e eccezioni, in casi come questo, è chiaro.
L’eccezione limita l’ambito di applicazione della regola e, conferma la
regola. Detto in termini più tecnici, regola ed eccezione sono concetti
correlativi, come padre e figlio in Aristotele: da una parte, l’eccezione
rende possibile la formulazione della regola; dall’altra, la presuppone.
(Morfologia) → un es. estremo della correlazione tra regole e eccezioni
è dato dalle coniugazioni francesi.
Se accettiamo la correlazione tra regole ed eccezioni, le coniugazioni si
riducono a tre, accompagnate da una enorme nebulosa di forme
irregolari.
Se viceversa pretendiamo di formulare regole senza eccezioni
arriviamo a 138 coniugazioni. La valutazione in realtà pecca di
ottimismo.
Se teniamo conto del fatto che diversi usi dello stesso verbo possono
presentare paradigmi distinti, secondo G. Gross arriviamo a circa 500
coniugazioni.
Questo es. Non fa che estremizzare una conseguenza epistemologica
critica della correlazione tra regole ed eccezioni: le regole che
ammettono eccezioni non hanno potere predittivo e non sono quindi
falsificabili. In altre parole, le regole non sono ipotesi sulla struttura dei
fatti.
Questo limite non crea problemi alle grammatiche puramente
descrittive, ma ostacola un progetto di grammatica le cui regole
abbiamo potere predittivo e siano falsificabili, come ad es. la
grammatica generativa di Chomsky.
(Sintassi) → un caso esemplificativo di regola sintattica è la
formazione del passivo in it., che interessa i v. intr. in modo
decisamente regolare.
Naturalmente anche questa regola comporta eccezioni:
la frase attiva Le decisioni del governo riguardano tutti noi, ad es., non
ha la forma correlativa passiva Tutti noi siamo riguardati dalle
decisioni del governo.
Ancora una volta l’eccezione non minaccia la validità generale della
regola ma ne limita l’applicazione, le impedisce di valere come regola
predittiva e falsificabile.

- Lexique-Grammaire, Maurice Gross, il senso della sua rivolta critica


al modello chomskiano di grammatica generativa e il suo progetto
alternativo della grammatica generativa:
A questo punto, per fare una grammatica generativa dobbiamo
cambiare strategia: non puntare su regole relative alla struttura delle
frasi ma sulla descrizione del comportamento dei singoli usi dei singoli
v. – cioè degli schemi di frase correlati ai singoli verbi nelle loro
diverse accezioni. Possiamo puntare sull’identificazione di classi di v.
con proprietà relazionali – e quindi ricadute sintattiche-omogenee; una
di queste classi comprenderà i v. tr. che rifiutano il passivo, e
riguardare ne farà parte.
- Le regolarità empiriche della morfologia e della sintassi non hanno
valore predittivo e non sono falsificabili perché sono tautologie. Hanno
eccezioni perché sono tautologie interne a un fatto sociale. Nei fatti
sociali come le lingue, a differenza che nella matematica e nella
geometria, le tautologie non si organizzano a priori in sistemi.
Tipicamente, le lingue manifestano regolarità, che però possono essere
identificate a posteriori nella loro realtà – le regole – come nei loro
limiti: le eccezioni. Le regolarità sono essenziali sia per la condivisione
sociale, sia per l’apprendimento individuale; tuttavia, gli schemi e i
paradigmi documentati nella struttura di una lingua sono sempre
imperfetti, in quanto la spinta alla regolarità entra in conflitto con la
natura idiografica dei dati storici e sociali. Le tautologie non possono
essere spiegate, ma semplicemente descritte per quello che sono,
limiti inclusi.

 Regole esplicative
- Alle generalizzazioni possiamo contrapporre le regole che hanno
l’ambizione di essere esplicative – che non si limitano a prendere atto
della realtà dei fenomeni ma cercano di fare previsioni sulla loro
struttura a partire da principi generali. A differenza delle
generalizzazioni empiriche, queste regole non sono tautologie. Per
questa ragione non ammettono eccezioni e, sono aperte alla
falsificazione: ogni dato empirico che non vi si conforma falsifica
automaticamente la regola.
Il caso più tipico è dato dalle regole che puntano a regolarità funzionali
(ma non le regolarità formali), che hanno come oggetto cioè non le
forme pure ma il rapporto bidirezionale tra l’espressione complessa,
che ha una struttura sintattica, e il suo significato, che ha una struttura
concettuale.
→ una regolarità che ha queste caratteristiche è la seguente: in una
frase della struttura oggetto – verbo – oggetto diretto, il soggetto
esprime il protagonista e l’oggetto il deuteragonista del processo. Nel
caso di un’azione, il soggetto esprime l’agente e l’oggetto diretto il
paziente.
È facile constatare che una regola del genere non avrebbe senso se
ammettesse delle eccezioni – se per es. con certi v. tr. risultasse che
l’agente fosse espresso dal complemento oggetto e il paziente dal
soggetto. Se scoprissimo casi del genere, non potremmo considerarli
come eccezioni che confermano la regola, al pari del mancato passivo
di riguardare; al contrario, questi dati toglierebbero valore alla regola
stessa.

3. Un esempio di regola esplicativa: la distribuzione del congiuntivo


Un es. interessante di regola esplicativa è fornito dai tentativi di
spiegare l’uso del congiuntivo in it. in frase subordinata sulla base di
una correlazione regolare tra il modo e il valore modale del contenuto
della frase che lo contiene.
 Sul piano puramente formale, dire che un v. come spiacere prende il
congiuntivo nella frase soggettiva, che dubitare lo prende nella frase
oggettiva, mentre sapere e sognare hanno l’oggettiva all’indicativo,
sono tautologie della lingua italiana. Lo stesso vale per la differenza tra
la congiunzione sebbene, che regge il congiuntivo, e dopo che, che
regge l’indicativo.
Le grammatiche non si limitano a prendere atto di queste tautologie –
certi v. e certe congiunzioni reggono il congiuntivo, altri reggono
l’indicativo – ma azzardano una spiegazione, cioè la formulazione di
una regola in grado di prevedere la distribuzione dei due modi:
l’indicativo sarebbe il modo della realtà mentre il congiuntivo
sarebbe il modo della non realtà. È chiaro che una regola del genere,
per essere valida, non può ammettere eccezioni, se ci sono dati che non
rientrano nella previsione, la regola è falsificata e va riformulata.
Tradizionalmente, il congiuntivo è il modo della non realtà, e la sua
distribuzione è motivata dal valore modale di non realtà della frase che
lo contiene. Questo è un caso tipico di regola esplicativa. Secondo gli
autori che sostengono la validità di questa regola, la presenza di
eccezioni non mette in discussione il fatto che il congiuntivo abbia un
valore ‘proprio’.

2.1. Pars destruens: la regola è falsificata


il comportamento del congiuntivo in frase indipendente che è
regolarmente associato alla non realtà è il dato empirico che ha
ispirato la regola tradizionale. Il problema nasce se estendiamo la
portata della regola alle frasi subordinate. Nelle frasi subordinate, la
generalizzazione tradizionale è falsificata a due livelli: 1) in ciò che
afferma; 2) in ciò che pressupone. La regola afferma una correlazione
tra il congiuntivo e la non realtà.
I dati mostrano che la presenza del modo congiuntivo non è condizione
né necessaria né sufficiente della non realtà del contenuto di una frase
subordinata.
→ non è necessaria perché l’indicativo è compatibile con la non realtà.
In Ho sognato che mio figlio sposava un’ereditiera
La frase completiva contiene il v. all’indicativo ma il suo contenuto è
dato come non reale.
→ non è sufficiente perché la presenza del congiuntivo non è
incompatibile con la realtà del contenuto della frase che lo contiene.
Nelle frasi seguenti, ad es.:
Mi dispiace che il tempo si sia guastato.
Non mi dispiace che il tempo si sia guastato.
Mi sorprende che Pietro abbia superato l’esame.
Non mi sorprende che Pietro abbia superato l’esame.
non si percepisce alcuna contraddizione tra la presenza del
congiuntivo e la presupposizione di realtà associata al contenuto della
completiva.

A questo punto:
Se diciamo che gli usi di realtà come semplici eccezioni che, secondo
l’adagio tradizionale, confermerebbero la regola, è una strada
impraticabile.
Se consideriamo falsificata la generalizzazione empirica:
1). Possiamo cercare di ridisegnare il contenuto della regola, tenendo
fermo che il presupposto che il modo congiuntivo presenta in ogni caso
un valore che ne giustifica la distribuzione;
2). Possiamo mettere in questione il presupposto. Gli amici di questa
strada:

Wandruszka & Giorgi


W. individua una falla vistosa del punto di vista tradizionale nell’area
delle frasi subordinate completive.
I v. e i predicati fattivi, per es. dispiacere e essere contento, reggono il
cong. in it. standard e presuppongono la realtà del contenuto della
completiva, sia quando sono affermati, sia quando sono negati: Mi
dispiace che il mio gatto ti abbia graffiato.
Secondo l’autore, in questi usi il cong. non segnala la non realtà, ma un
dato diverso; il contenuto della frase che contiene il cong. non è asserito
ma presupposto: “il contenuto della frase dipendente non viene
comunicato, asserito come uno stato di cose realizzato (come per es. in
Credo che sia partito), bensì presupposto come fatto già accaduto.”
→ questo valore del cong. come segnale di presupposizione non
sostituisce i valori tradizionali (volitivo 意志的 o dubitativo), ma vi si
aggiunge e ne condivide lo spirito: resta l’idea che il cong. dia un suo
contributo proprio al valore modale della frase che lo contiene.
→ le proposte loro ammettono vistose eccezioni:
La loro ipotesi sembra confermata da un dato caratteristico della
sintassi italiana: le proposizioni dislocate a sinistra, o prolettiche, e
quindi dotate di un valore comunicativo tipico dei contenuti
presupposti reggono sistematicamente il cong.:
è un fatto che Luca è partito senza telefonare;
Che Luca sia partito senza telefonare è un fatto.
Ci sono però casi nei quali un’informazione presupposta è data
all’indicativo. Come sorprendersi o dispiacere, accorgersi è un v.
fattivo. Tuttavia, regge l’indicativo sia quando è affermato, sia
quando è negato:
Luca si è accorto che il fuoco si è spento.
Luca non si è accorto che il fuoco si è spento.

Giorgi e pianesi (1997)


L’ipotesi: il cong. è il modo della soggettività: “emotional factives,
such as be surprised, regret and be worried, depict a situation in
which the event described in the complement clause causes the
subject to be in a particular emotional state. On the other hand,
evaluative true factive predicates such as be strange, be odd, be
relevant, be important, and the like report an evaluation of a fact by
the speaker”.
→ le proposte loro ammettono vistose eccezioni:
La loro ipotesi è messa in sacco in modo diretto dalla presenza del
cong. con un n. come fatto, che designa un dato oggettivo, lontano da
ogni sguardo soggettivo:
il fatto che Luca sia partito senza telefonare.
Ma soprattutto, la generalizzazione non spiega come mai il modo
della soggettività compaia proprio nel v. della subordinata, il cui
contenuto è presupposto come reale indipendentemente dallo sguardo
intenzionale del soggetto.

Un punto di comune delle ipotesi alternative:


ciò che condanna loro alla stessa sorte dell’idea tradizionale al di là
della differenza del contenuto è la condivisione del presupposto.
Affermare che il cong. è in tutti i suoi usi l’espressione di un contenuto
non reale o di un contenuto presupposto, o di una visione soggettiva,
presuppone che il cong. abbia sempre, in tutti i suoi usi, un valore e
uno solo.

L’ipotesi di Prandi: l’idea che il cong. abbia sempre un valore e uno


solo è falsa. La strategia corretta non è cercare di risolverlo, bensì
dissolverlo mettendo in discussione il presupposto.

2.2. Pars costruens: i criteri della distribuzione del congiuntivo e i


loro parametri
La Pars destruens suggerisce con forza l’idea che non possiamo parlare
di uno e un solo valore modale del congiuntivo – la non realtà – in
grado di giustificare la sua distribuzione.
La Pars costruens imbocca una strada diversa: non si può pensare a un
valore assoluto del congiuntivo in tutti i suoi usi ma solo a valori
relativi a ciascuno dei diversi usi – delle diverse costruzioni in cui
compare.
Il cong. si trova:
→ nelle frasi indipendenti > è scelto dal parlante e assume
effettivamente un valore di non realtà.
→ nelle frasi subordinate > possono essere completive: espressioni di
argomenti del termine predicativo
principale (casi più tipici: v. principale);
in questo caso, il modo è selezionato dal termine
predicativo che lo regge, e il cong. non ha un
valore proprio;
> possono essere margini: che si collocano alla
periferia di un processo principale saturo e lo
collegano a un processo a sua volta saturo;
in questo caso, il modo è selezionato dalla
congiunzione, o è scelta del parlante. È illusorio
pensare che la scelta del modo corrisponda a una
scelta tra realtà e non realtà.
2.2.1. Il congiuntivo nella fase indipendente
Nelle frasi indipendenti, è un dato pacifico che il congiuntivo segnali la
non realtà: - Sia la luce. E la luce fu.
Tuttavia, questo non implica: né che il cong. ne abbia il monopolio;
né che l’indicativo implichi la realtà.
In frasi indipendenti, il congiuntivo è condizione sufficiente ma non
necessaria della non realtà del contenuto.

1). In primo luogo, l’emergere del condizionale erode il terreno di


competenza del cong. latino.
Nella divisione del lavoro tra i due modi:
 Il cong. Conserva → i valori ottativi: La fortuna ci assista;
i valori interrogativi: Che stia piovendo?
i valori esortativi-imperativi (questi ultimi in distribuzione
complementare con l’imperativo, ristretto alle seconde persone):
Allontanati; Si allontani.
 Al condizionale passano ← tutti gli altri valori modali (in
particolare quelli epistemici)
Piero dovrebbe essere arrivato;
Qualcuno potrebbe andarsene;
E io dovrei ascoltarti?
 Il condizionale soppianta il cong. nell’apodosi del periodo
ipotetico:
Se non piovesse, verrei;
Se non fosse piovuto, sarei venuto.

2). In secondo luogo, l’indicativo si presta senza difficoltà


all’espressione di modalità epistemiche non reali. All’interno
dell’indicativo,
 La distinzione tra realtà e non realtà dipende in modo cruciale
dal tempo.
Un’affermazione al passato o al presente difficilmente autorizza a
mettere in discussione la realtà: Giovanni è arrivato; Giovanni sta
tagliando l’arrosto;
Un’affermazione al futuro si presta all’espressione di una vasta
gamma di modalità non reali:
> dall’ordine Onorerai il padre e la madre;
> alla possibilità del presente: A quest’ora, Angela sarà arrivata a
Basilea;
 Inoltre, la presenza di un avv. modale come forse o probabilmente
è sufficiente a sospendere la realtà di un fatto nonostante la
presenza del modo indicativo.
Probabilmente Giovanni ha perso il treno;
Forse Giovanni è arrivato.

2.2.2. Frasi completive: il verbo come perno della relazione


In una frase completiva, la struttura e il contenuto della subordinata
sono controllati da un termine reggente: un v. o un predicato
nominale o un nome. In particolare il termine reggente è
responsabile sia della scelta del modo verbale, sia del valore modale
della subordinata. A differenza di quanto ipotizzato dalla regola
tradizionale, tra i due valori (realtà o non) non c’è una correlazione
regolare.

(1). La subordinata all’indicat. e il suo contenuto è dato come reale.


So che Giovanni è partito.
È risaputo che Giovanni è partito.
(2). La subordinata al cong. e il suo contenuto è dato come non reale.
Temo che Giovanni sia partito.
È probabile che Giovanni sia partito.
(3). La subordinata all’indicat. e il suo contenuto è dato come non reale.
Ho sognato che Giovanni è partito.
(4). La subordinata al cong. e il suo contenuto è dato come reale.
Rimpiango che Giovanni sia partito.
È una fortuna che Filippo sia partito.
→ gli es. mostrano che il modo della subordinata è selezionato dal
v./termine reggente senza che ci siano rilevabili criteri semantici
coerenti. In queste condizioni, il modo non dà un contributo proprio al
contenuto della completiva, che emana direttamente e tautologicamente
dal v. L’oggetto di temere è coerente solo se esprime un fatto non reale,
mentre l’oggetto di rimpiangere è coerente solo se esprime un fatto
reale.
Il dato che un v. fattivo come dispiacere regga il cong. mentre un v.
creatore di mondi irreali regga l’indicat. dissolve l’idea stessa che il
cong. possa dare un contributo attivo al valore modale di una frase
completiva.

2.2.3. Margini: la congiunzione come perno della relazione


Le subordinate margini (o non completive), collegano in una relazione
data (per es. la causa o il fine) due processi saturi e virtualmente
indipendenti. In presenza di un margine il perno della relazione si sposta
dal v. principale alla congiunzione. Di conseguenza, la selezione del
modo verbale e la definizione dello statuto modale del contenuto sulla
subordinata passano anche alla congiunzione.
Analogamente ai v., alcune congiunzioni reggono l’indicativo, altre
reggono il cong., altre ancora reggono entrambi i modi. Anche
nell’ultimo caso, la scelta non è libera, ma ha un valore che dipende a
sua volta dalla congiunzione.
Come quando è controllato dal v. il modo verbale retto da una
congiunzione non è in correlazione biunivoca con il valore modale della
subordinata.

a). In alcuni casi, tipo la relazione di causa o fine, una correlazione


può sembrare evidente.
(1). L’alternanza tra il cong. e l’indicat. corrisponde all’alternanza
dell’incertezza del futuro e la realtà del passato:
Partiamo prima che nevichi.
Dopo che è nevicato siamo partiti.
(2). L’alternanza tra l’indicat. e il cong. corrisponde a: la causa si
colloca nel passato, il fine nel futuro.
Il treno è in ritardo perché è nevicato.
Ho spedito la relazione oggi stesso perché la possano leggere
tutti.
→ ma, come nel caso del controllo verbale, l’ipotesi di una correlazione
sistematica non regge.

(b). Nel caso della relazione concessiva:


La relazione concessiva è coerente solo se la protasi 条 件 / 假 设 从 句 e
l’apodosi 条件句中结论句 sono date entrambe come reali.
(1). Le uniche congiunzioni che codificano la realtà della protasi sono
quelle che reggono il cong. sebbene, quantunque, benché: Sebbene
piova partiremo per la montagna.
(2). Viceversa, la congiunzione che regge l’indicat., anche se, non
codifica la realtà della protasi:
→ Se il riferimento è a un fatto del passato – Anche se è nevicato la
strada è in buono stato. – è ragionevole inferire la realtà della protasi.
Ma un’inferenza non è un valore codificato.
→ Se il riferimento è al presente-futuro, la realtà viene sospesa, perché
non è codificata dalla congiunzione e sarebbe inaccessibile
all’inferenza. Una frase come Anche se piove partiremo per la
montagna è ambivalente tra:
Un’interpretazione concessiva – Piove, ma partiremo ugualmente
per la montagna.
Un’interpretazione condizionale concessiva – Non sappiamo se
piove o se pioverà, ma in ogni caso partiremo per la montagna.
Conclusione:
come nelle frasi completive, anche tra le relazioni marginali il cong.
non è condizione né necessaria né sufficiente per un valore modale
non reale della subordinata che lo contiene.
(non è necessaria perché l’indicat. è compatibile con la non realtà, come
nel caso della relazione condizionale concessiva: Anche se piove
partiremo per la montagna; non è sufficiente perché il cong. è
compatibile con la realtà, come nelle relazioni concessive introdotte da
sebbene, benché, quantunque: Sebbene piova partiremo per la
montagna.)

il comportamento del cong. nelle subordinate, siano esse completive o


margini, si spiega a una condizione: quando è controllato dall’esterno –
da un v. o da una congiunzione – il cong. di per sé non ha un valore
proprio, indipendente dall’uso, e quindi è sbagliato aspettarsi che dia un
contributo specifico al valore modale della subordinata. In altre parole,
la presupposizione sulla quale si fonda l’approccio tradizionale – il
cong. ha un valore che giustifica la sua distribuzione – si rivela ancora
una volta sbagliata.

4. Lo spazio delle scelte


Secondo la nostra ipotesi, la presenza di un ventaglio di opzioni tra cui il
parlante sceglie è una condizione necessaria perché una forma linguistica
(in particolare il modo, indicativo o congiuntivo) possa avere un valore
proprio e contribuire con questo valore al contenuto dell’espressione
complessa che la contiene.
Tuttavia, non è detto che la presenza di una scelta sia anche condizione
sufficiente. In altre parole, non è detto che in regime di scelta scatti
un’associazione diretta tra modi e modalità.
Nelle frasi indipendenti, è così: il cong. è effettivamente incompatibile
con la realtà, anche se poi la non realtà è del tutto compatibile con l’uso
dell’indicativo. Nelle subordinate, invece:
3.1. Frasi subordinate completive
- Con alcuni v., la scelta tra l’indicat. e il cong. nella frase completiva è
lasciata al parlante, e potremmo pensare che abbia delle conseguenze
sul significato.
→ con il v. dire, potremmo pensare che il parlante che sceglie
l’indicat. fa suo l’oggetto della diceria: Dicono che Matteo è scappato
di casa, mentre il parlante che sceglie il cong. prende le distanze:
Dicono che Matteo sia scappato di casa.
→ lo stesso vale con l’oggetto di credere: Credo che Leo sia in
arrivo; Credo che Dio esiste.
- Ma questa elegante simmetria è disturbata da un’incertezza sul
registro: il parlante che enuncia Dicono che Matteo è scappato di casa
potrebbe essere un parlante che sottoscrive la diceria, ma non è
escluso che usi un registro medio-basso privo del cong. In questo caso,
la presenza dell’indicat. non può essere significativa.
- Dall’altra parte, come osserva Sgroi (2010), anche i parlanti che
usano con disinvoltura il cong. sembrano guidati nella scelta, più
da ragioni di registro che da un criterio semantico univoco: se non
fosse così, il credente che affermasse Credo che Dio esista entrerebbe
in contraddizione con sé stesso.
- L’osservazione degli usi di registro basso porta un ulteriore
argomento all’idea che il cong., controllato dal v. principale, non dia
un contributo proprio al contenuto della completiva. Dato un periodo
come Mi dispiace che Giorgio ha perso il treno, il contenuto della
completiva è presupposto come reale né più né meno che in presenza
del cong. Correlativamente, in Dubito che Giorgio ha preso il treno, la
realtà della completiva è sospesa né più né meno che in presenza del
congiuntivo. In casi come questi, la domanda pertinente è “fino a
che punto il nostro orecchio è disposto a sopportare un indicativo
al posto di un congiuntivo”. Per es. Dubito che Giorgio ha preso il
treno.
3.2. Frasi subordinate con valore di margine
- Tra i margini, l’ambito delle scelte dà un risultato complementare a
quanto documentato dalle completive: non ci sono casi di congiuntivo
della realtà, ma in compenso la non realtà è gestita in sinergia tra
cong. e indicat.
→ di anche se abbiamo esaminato solo l’uso con l’indicativo.
Tuttavia, la congiunzione condivide l’intero spettro di usi di se, e cioè
il sistema di combinazioni di modi e tempi del periodo ipotetico.
Nel registro medioalto, se lascia aperta la scelta tra indicativo e
congiuntivo. La scelta, tuttavia, non è correlata a un’alternanza tra
realtà e non realtà, ma a un’alternanza tra diversi gradi di non
realtà. In particolare, esprime:
(1). l’irrealtà;
Se il treno fosse arrivato in orario sarei riuscito a fare lezione.
(2). una possibilità di grado relativamente basso e;
Se il treno arrivasse in orario riuscirei a fare lezione.
(3). una possibilità di grado relativamente alto.
Se il treno arriva in orario riesco a fare lezione.
Nel registro medio-basso ignora il cong. e restringe la scelta a
tempi diversi dell’indicat.; in particolare, l’imperfetto si specializza
nell’espressione della non realtà. A maggior ragione, la caduta del
cong. non tocca il confine tra realtà e non realtà, ma si limita a
rimodellare l’ambito della non realtà: invece di tre opzioni, ne
abbiamo due: irrealtà e possibilità:
(1). Irrealtà;
Se il treno arriva in orario riesco a fare lezione.
(2). Possiblità.
Se il treno arrivava in orario riuscivo a fare lezione.

All’interno dei margini, la scelta del congiuntivo è condizione


sufficiente ma non necessaria della non realtà del contenuto. Entrambi
i sistemi – il medioalto come il mediobasso – confermano la
compatibilità tra l’indicativo e la non realtà all’interno della reggenza
della congiunzione se. Come sebbene codifica la realtà nonostante
regga il cong., se richiede la non realtà anche quando regge
l’indicativo. La condizione è una causa o un motivo non reale, e
quindi incompatibile con la realtà della protasi.

3.3. Il caso delle frasi relative


- Rispetto alle completive e ai margini, le relative occupano una
posizione gerarchica più bassa: non si collocano al livello della frase
e del processo, ma del sintagma nominale, nel quale entrano come
modificatori del nome testa.
- Le frasi relative non sono introdotte da una congiunzione, ma da un
pronome che cumula le funzioni di ripresa anaforica del nome testa e
di connessione grammaticale. A differenza di una congiunzione, il
pronome relativo non pone ipoteche sul modo verbale, la cui scelta
rimane dunque interamente libera.
Partendo da questa premessa, è ragionevole chiedersi se nelle relative
la scelta del cong. sia, come nelle frasi indipendenti, condizione
sufficiente della non realtà.
- Nelle relative appositive, che qualificano un referente identificato
indipendentemente, il fondamento stesso della scelta del congiuntivo
viene meno, e il modo verbale canonico è l’indicativo o, nel caso, il
condizionale.
- In presenza di relative restrittive, che danno un contributo essenziale
all’identificazione del referente, lo statuto modale della subordinata
diventa pertinente, e incide sullo statuto del referente. In queste
condizioni potremmo pensare a una divisione del lavoro ragionevole
tra indicativo e congiuntivo. Confrontiamo gli es.:
(1). Cerco un cane.
→ Se pensiamo allo statuto del referente, questa frase è ambivalente:
può significare che cerchiamo un cane identificato – per es. è
scappato e speriamo di trovarlo – oppure che cerchiamo un cane non
identificato: per es., abbiamo intenzione di comprarne uno.
→ Nei termini di Donnellan (1966) è ambivalente tra un uso
referenziale (identifica un cane) e un uso predicativo (qualifica come
cane l’oggetto non identificato della nostra ricerca).
(2). Cerco un cane che ha il pelo bianco a chiazze marrone.
→ sembra sensato concludere che questa frase si specializzi per
l’interpretazione referenziale – ci stiamo riferendo a un cane che ha
certe caratteristiche.
(3). Cerco un cane che abbia il pelo bianco a chiazze marrone.
→ lasciando a questa frase l’interpretazione predicativa – stiamo
definendo le caratteristiche che dovrebbe avere il cane che
cerchiamo.

Ma queste valutazioni sono insidiose.


In primo luogo, non è escluso che stiamo attribuendo al congiuntivo
la responsabilità di un valore che l’espressione referenziale riceve in
realtà come complemento oggetto del v. cercare. Dati due es. come È
il libro più bello che ho letto quest’anno e È il libro più bello che
abbia letto quest’anno, il libro è dato comunque come identificato,
indipendentemente dal modo; la scelta si riduce a una questione di
registro, e la scelta del congiuntivo si rivela condizione non
sufficiente della non realtà.
Correlativamente, come il cong. non esclude l’interpretazione
referenziale, non possiamo affermare che la frase all’indicat. escluda
l’interpretazione predicativa se non siamo certi che chi la usa
possiede nel suo repertorio attivo l’alternativa al congiuntivo. Ancora
una volta, una questione di valore grammaticale si capovolge in una
differenza di registro.

Forse c’è un unico caso nel quale le obiezioni qui discusse sembrano
dissolversi, e cioè la coesistenza dell’indicativo e del congiuntivo
nella stessa frase, come ad es. in Gli studenti che abitano a Milano e
fossero interessati sono invitati a partecipare alla presentazione del
volume. In casi come questi, l’insieme dei referenti del nome testa si
allarga o si restringe parallelamente al modo verbale: che qualcuno
abiti a Milano è un dato scontato; che qualcuno sia interessato alla
presentazione del volume, no. Resta naturalmente il fatto che la
forma con doppio indicativo – Gli studenti che abitano a Milano e
sono interessati sono invitati a partecipare alla presentazione del
volume – non implica comunque che tutti gli studenti che abitano a
Milano siano interessati alla presentazione.

5. Conclusioni: eccezioni che non confermano regole


- Una prima conclusione riguarda le ‘regole del congiuntivo’.
In frase indipendente, il cong. è oggetto di una scelta, ed è condizione
sufficiente della non realtà del processo descritto. Entro questi limiti, è
corretto definire il cong. come modo della non realtà.
Non è invece giustificato definire l’indicativo come modo della realtà
in senso stretto. La realtà dello stato di cose descritto all’indicativo non
è codificata ma ha lo statuto di inferenza sollecitata, di defaulti, pronta
a cadere per lasciare il posto a un’opzione ammessa in presenza di un
ambiente concettuale incompatibile. Tra inferenza sollecitata e
l’opzione ammessa non c’è la relazione che vale tra regole ed
eccezioni, dato che i criteri dell’alternanza non sono imprevedibili ma
possono essere descritti con esattezza.
In frase subordinata, anche in presenza di margini di scelta, il cong.
perde non solo il suo valore di modo della non realtà, ma più in
generale ogni valore autonomo in grado di influenzare il contenuto
della frase in cui occorre. Il suo uso diventa, in un senso tecnico del
termine, arbitrario, o giustificato da ragioni di registro ininfluenti sulla
dimensione ideativa del contenuto.
- Una seconda conclusione riguarda il rapporto tra regole ed
eccezioni.
Ci sono regole, come quelle morfologiche, per le quali la coesistenza
con le eccezioni è un dato di fatto – una tautologia da accettare alla luce
del principio di ragion sufficiente. In questi casi, regole e eccezioni
sono correlative: da un lato, la formulazione stessa della regola richiede
che si identifichi l’eccezione; dall’altro, l’eccezione presuppone la
regola.
Quando però dalla dimensione puramente formale si passa alla
dimensione funzionale, e in particolare alla relazione tra forme e
contenuti, le regole cambiano natura. I dati che non rientrano nella
regola non sono correlativi alla regola – condizioni della sua stessa
formulazione che la presuppongono – ma controesempi che ne mettono
in discussione la validità e costringono a riformularla. In questo ambito,
parlare di eccezioni è sbagliato e accettare la loro coesistenza con la
regola è fuorviante. È questa la ragione per la quale la presenza di
eccezioni alla regola tradizionale sulla distribuzione del congiuntivo ha
portato a una riformulazione radicale dell’intero problema.
IX. Errori, regole ed eccezioni nell’apprendimento (Andorno)
1. Introduzione
L’errore = (Cadorna) lo stesso concetto di errore presuppone un
parlante che parli una lingua (ancora) ‘non sua’, cioè una lingua in via
di apprendimento; mentre un parlante nativo adulto, per definizione,
non farebbe errori, in quanto è sulla base del suo comportamento che le
regole di una lingua vengono individuate.

VDA = Varietà di apprendimento


L’idea fondante delle discipline che studiano le VDA, ovvero le
interlingue, è che oggetto di interesse sia la sistematicità (cioè la
presenza di regole) più che la devianza.
Nelle VDA, (Labov) “systemacity is an empirical matter”, (Young) è
su tale assunto di sistematicità che l’area di ricerca si fonda.

VT = Varietà target

Due aspetti dei problemi di descrizione della sistematicità delle


VDA:
1). Il rapporto fra le VT e le VDA di una lingua
2). La descrizione e l’interpretazione della variabilità interna alle VDA.

2. Esistono gli errori?


La sistematicità nelle VDA è stata rintracciata negli errori o più
precisamente nei systematic error of the learner from which we
reconstruct his knowledge of the language to date, i.e. transitional
competence. È stata più volte messa in discussione l’opportunità di
considerare l’errore in chiave psicolinguistica e cognitiva, come diretta
manifestazione di strategie di apprendimento; l’errore rischia cioè di
essere reificato sul piano cognitivo anche quando è solo il risultato di
una comparazione fra le strutture di due sistemi, la VDA e la VT.
la comparative fallacy:
A un primo livello, la fallacia del considerare l’errore una strategia
“consiste nello scambiare l’osservazione di una differenza per
l’esistenza psicologica di una differenza nella mente dell’apprendente”,
l’errore rischia di essere reificato sul piano cognitivo anche quando è
solo il risultato di una comparazione fra le strutture di due sistemi, la
VDA e la VT.
In secondo luogo, consiste nel ‘mistake of studying the systematic
character of a language by comparing it to another’. La VT è
certamente un oggetto rilevante per lo studio di una VDA, in quanto
costituisce l’input che innesca l’acquisizione, ma le regole di una VDA
possono solo essere ricostruite in modo induttivo dal comportamento
linguistico dell’apprendente, senza appoggiarsi a priori sul sistema della
VT.
Percorrendo fino in fondo le obiezioni contenute nell’idea della
comparative fallacy, anche le VDA andrebbero considerate, come le
VT, prive di errore per definizione: la nozione di errore non troverebbe
spazio quindi nemmeno nello studio delle VDA.
L’errore può invece assumere una diversa e più consistente realtà
psicologica in un’ottica interazionale: le produzioni errate di un
apprendente possono produrre reazioni specifiche da parte
dell’interlocutore, che rende così l’errore riconoscibile.

3. Eccezioni (ovvero esistono le regole?)


Possono costituire eccezione singole forme come l’assenza di aus. in
una singola forma verbale (es. capito invece di ho capito) in una VDA
→ queste eccezioni possono spiegarsi come esito di un percorso di
apprendimento diverso da quello seguito dal resto del sistema (nel caso
citato, la fossilizzazione di una routine acquisita – capito? – ne
impedisce la rianalisi come forma verbale).
Possono trovarsi eccezioni che coinvolgono intere classi di forme (es.
un’oscillazione nell’uso dell’aus. che coinvolga più lessemi in vari
contesti) → in tal caso, il problema si pone piuttosto in termini di
variabilità delle regole.
Studiare le VDA come sistemi governati da regole pone il problema
della presenza di frequenti eccezioni, ovvero di fenomeni di mancato
rispetto alle regole.

3.1. Instabilità e variabilità nella variazione intraindividuale


1. variazione evolutiva
L’asse di variazione più studiato e caratteristico per le VDA è quello
evolutivo, ovvero la variazione intraindividuale nel tempo intesa
come effetto del processo di acquisizione.
- Strumenti di descrizione:
“Grammatica di varietà”, costituita da regola di riscrittura di
strutture della VT con la loro frequenza di ricorrenza: l’evoluzione
di VDA qui descritta come variazione della frequenza delle strutture
al variare del tempo d’esposizione alla VT, in un progressivo
avvicinamento al modello della VT.
- Le scale di implicazione:
le strutture VDA sono disposte in ordine di comparsa nel tempo, alla
ricerca di rapporti di implicazione; risultato di questa operazione è
la ricostruzione di ‘tappe di apprendimento’ cronologicamente
ordinate, che rimandano a sistemi transitori in successione.
L’esistenza di correlazioni fra tappe di apprendimento e scale
implicazionali tipologiche ha rafforzato l’idea che le VDA siano da
considerarsi a tutti gli effetti sistemi linguistici.
2. variabilità correlata ai task di elicitazione dei dati.
Questa variazione è considerata un effetto del ricorso a diversi tipi
di risorse cognitive e in particolare all’accesso ai livelli implicito,
subconscio ed esplicito e conscio della competenza linguistica.
→ un caso discusso, specialmente nelle VDA di seconde lingue, è
quello dei giudizi di grammaticalità, che conducono spesso a una
rappresentazione delle regole diversa da quella risultante da task di
produzione e di comunicazione: perciò tale strumento di elicitazione
è particolarmente favorito da studi di ambito generativo.
→ La discussione se si dia e quale peso abbia invece nelle VDA
l’instabilità, ovvero la variazione intraindividuale libera, è tuttora
accesa.

3.2. La variazione interindividuale


Le questioni in gioco in questo caso riguardano:
da un lato 1) la generalizzabilità dei risultati osservati su singoli
apprendenti – ovvero se i parlanti di una VDA possano essere
considerati un gruppo (almeno parzialmente) omogeneo, o
possiedano idioletti individuali – e
dall’altro 2) l’identificazione di eventuali fattori responsabili di
variazione interindividuale. Se, da un lato, l’esistenza di percorsi e
tappe comuni nell’acquisizione di una stessa VT è un risultato ormai
dato per consolidato, la definizione dei limiti dell’omogeneità è
tuttora oggetto di ampie discussioni.
I fattori di variazione interindividuale più spesso indagati sono:
1) crosslinguistic influence, la conoscenza di altre lingue, in
particolare la madrelingua
2) la diversa modalità di esposizione alla VT (soprattutto nella
dicotomia fra apprendimento naturale, o in immersione e guidato)
→ gli studi di Preston/Bayley (2009) mostrano che:
il peso di alcuni fattori di variazione (ad es. l’aktionsart verbale nel
favorire la marcatura di perfettività) rimane costante in gruppi di
parlanti diversi per madrelingua e livello di competenza;
mentre il peso di altri varia (es. la struttura fonetica del verbo nella
marcatura di perfettività).
→ osservazione di tali patterns permette di mettere meglio a fuoco
la natura delle sistematicità osservate nello sviluppo delle VDA,
eventualmente riuscendo a correlarle a tratti di sistematicità e
variazione osservati per le VT.
4. Per concludere: la natura delle regole nelle VDA
La ricerca di regole delle VDA ha avuto l’obiettivo primario, come
necessità fondante della disciplina, di verificare l’esistenza stessa di
tratti di sistematicità indipendenti da quelli delle VT. Solo più
recentemente si è dedicato spazio alla riflessione sulla specificità delle
regole delle VDA e sulle somiglianze superficiali o profonde che esse
intrattengono con le regole osservate per le VT.
4.1. L’emergere e il controllo delle regole
La variabilità del comportamento degli apprendenti pone il
problema metodologico di definire il momento in cui una regola di
VT può essere detta acquisita.
Pallotti discute come vari studi abbiano dato risposta al problema,
in particolare distinguendo esplicitamente il momento dell’emergere
(emergence) di una regola in singole forme da quello del suo pieno
controllo, ovvero della sua adozione in tutti i contesti e le forme
previste dalla VT (mastery).
→ per l’ambito dell’italiano L2, il percorso dell’acquisizione della
morfologia è stato trattato prevalentemente dal punto di vista
dell’emergere di nuove strutture (Banfi/Bernini):
1) prima tappa:
costruzione di una flessione verbale nel momento in cui due
diverse forme dello stesso verbo compaiono associate a due valori
tempo-aspettuali distinti (-Ø = non perfettivo; -to = perfettivo)
2) le tappe successive:
→ sono individuate all’emergere di una nuova forma verbale in
associazione a uno specifico valore funzionale (imperfetto →
imperfettivo passato), o di una nuova coppia di opposizioni
funzionali associate a forme precedentemente in variazione libera
(infinito = non fattuale).
→ attenzione viene poi data alle direzioni di espansione di tali
regole nel sistema, ad es. al modo in cui la marcatura dell’aspetto
perfettivo viene estesa nel repertorio verbale in correlazione
all’aktionsart del v.;
→ è però il momento dell’emergere dell’opposizione, e non
quello del suo pieno controllo, ad essere individuato come soglia
di una nuova tappa di acquisizione.
Altri studi ancora, preferiscono descrivere il percorso di
acquisizione dall’emergere al possesso di una regola, definendo
esplicitamente soglie di tolleranza per la variazione.

4.2. Le regole delle VDA iniziali


Vari autori hanno individuato caratteri specifici che informerebbero
le VDA iniziali e da cui si allontanerebbero nel progressivo
avvicinarsi a VT.
Nello studio dell’evoluzione da VDA iniziali a VT, secondo alcuni
studiosi, si possono osservare il nascere della grammatica e le forze
che guidano la formazione di grammatiche specifiche.
Molte proposte teoriche recenti hanno individuato la specificità
delle regole delle VDA nella loro variabilità, della quale sono state
date diverse interpretazioni. Alcuni ritengono che le grammatiche
delle VDA includano o tollerino regole variabili. Secondo altri, le
grammatiche VDA iniziali includono regole e categorie
sottospecificate rispetto alle VT, e il percorso di acquisizione è una
progressiva acquisizione dell’insieme di tratti che specificano le
regole e le categorie delle VT.
In ambito generativista, mentre alcuni ritengono la variazione
effetto dell’oscillazione fra grammatiche diverse, o dell’inefficienza
del processing (e quindi un fatto di esecuzione); altri alludono
all’esistenza di regole variabili e alla loro persistenza e maggior
diffusione nelle VDA: così la nozione di gradience.
Prospettive costruzioniste infine superando la dicotomia fra fattori
di competenza ed esecuzione, vedono nella variabilità delle VDA
iniziali il consolidarsi di regolarità item-based, precedenti la
successiva evoluzione verso VT rule-based: le VDA iniziali
fotograferebbero la fase di formazione di una sistema di regole auto-
organizzantesi, emergenti attraverso il progressivo radicamento di
singoli costrutti; l’instabilità sarebbe da intendersi come la sostanza
stessa del processo che progressivamente informa tale competenza.

4.3. Regole in VDA di lingue seconde e lingue native


Una diversa natura cognitiva delle regole delle VDA di prime e di
seconde lingue si invoca spesso per giustificare le differenze
esistenti fra i due fenomeni di apprendimento – in particolare la
diversa velocità del processo di acquisizione e la varietà dell’esito
finale.
Alcuni autori hanno suggerito la nozione di multicompetence con
cui si intende proporre come un unico oggetto di studio la
competenza del parlante plurilingue. Lo studio separato
dell’acquisizione di prime e seconde lingue e la stessa distinzione
fra “parlante” e “apprendente” di una lingua sarebbe, in questa
prospettiva, soggetto a una monolingual fallacy: la fallacia
consisterebbe nell’assumere la competenza – supposta stabile,
uniforme tra individui e acquisita ‘una volta per tutte’ del parlante
nativo monolingue come il tertium comparationis di qualsiasi
descrizione linguistica.
Un cambiamento di prospettiva, che tolga il parlante ‘nativo’
monolingue e i sistemi stabilizzati dal centro della descrizione
linguistica, avrebbe sensibili conseguenze nel ridefinire il modo in
cui le regole, non solo delle VDA ma anche delle VT – nonché la
stessa dicotomia fra varietà di apprendimento e target –, vanno
pensate e descritte.
X. Reazioni all’errore ed eccezioni all’inevitabilità delle regole nella
Didattica delle Lingue Seconde (Grassi)

1. Premessa
Il pendolo oscilla in una ricorrente alternanza tra stagioni
metodologiche essenzialmente formaliste contrapposte a periodi a
dominanza eminentemente comunicativa.

2. Oltre il pendolo: l’inevitabilità delle regole


Due macrocategorie di base di metodi didattici:
1). approcci radicalmente orientati allo sviluppo delle sole competenze
d’uso
2). orientamenti che ammettono ricorsi alle regole.
→ Ciò ha ispirato a Celce-Mursia la felice immagine del pendolo, che
oscilla in una ricorrente alternanza tra stagioni metodologiche
tendenzialmente formaliste contrapposte a periodi di dominanza
eminentemente comunicativa

3. Basi scientifiche dell’inevitabilità delle regole


Secondo la teoria dell’acquisizione delle abilità (Bialystok /
Shaewood), l’apprendimento sarebbe dato dalla trasformazione di una
prestazione controllata in automatica, attraverso la conversione di
conoscenze dichiarative o esplicite in conoscenze procedurali o
implicite.
Corroborano queste ipotesi gli studi che, partendo con lo scindere i
meccanismi di comprensione da quelli dell’apprendimento, hanno
portato al superamento dell’ipotesi krasheniana di sufficienza
dell’input comprensibile.
È infatti emerso che né un pur ampio, coinvolgente e stimolante input,
comprensibile e intellettivamente negoziato, né atteggiamenti
costruttivi verso la L2, la sua cultura, i suoi parlanti da soli bastano per
il raggiungimento di un’accuratezza grammaticale all’altezza delle
competenze discorsive e ricettive che di tali disponibilità e
atteggiamenti si giovano invece appieno.
Necessita anche di una qualche attenzione ai dettagli formali
dell’input e si elabora l’attualmente imprescindibile ipotesi del
noticing (IN) secondo la quale per imparare un qualsiasi aspetto della
L2 occorre notare lo scarto (gap) – la distanza tra le proprie produzioni
e quelle dei modelli – o il ‘buco’ (hole) – la mancanza di strumenti
formali tra le proprie risorse linguistiche.
È sulla scia dell’IN che il movimento del pendolo ha cambiato verso,
con la fioritura di studi volti a incentivare quelle che nel frattempo si
erano venute a chiamare ‘focalizzazioni formali’ (‘Form-focused
Instruction’/‘focused on form’ FonF)
Se l’attenzione alla forma è la scintilla dell’apprendimento, allora come
si solleciti tale attenzione diventa il nodo metodologico centrale, da
indagare però mantenendo saldi i dettami comunicativi di fondo
incorporati in glottodidattica dagli anni ’70, condensabili nella visione
della lingua come strumento di comunicazione. In tal senso è indubbio
che il FonF più coerente con i dettami comunicativi sia quello detto
incidentale e reattivo, consistente in un intervento riparativo che
provoca un momentaneo spostamento dell’attenzione dal messaggio al
codice. Il FonF si sostanzia essenzialmente nel trattamento dell’errore:
è questo l’anello che lega le regole e gli errori in didattica.

4. Il trattamento dell’errore
Anche l’atteggiamento verso l’errore ha subito grandi cambiamenti nel
passaggio da una stagione metodologica all’altra. Solo a seguito degli
studi acquisizionali l’errore è stato considerato utile, e si è fatta strada
l’idea che l’insegnamento dipendesse dall’apprendimento, piegando
non solo il sillabo, ma anche la correzione, dell’apprendibilità di un
dato elemento. Inutile correggere allora strutture che non si è pronti ad
acquisire, mentre riguardante gli errori riparabili, l’attenzione si è
centrata sulle forme concrete di correzione.
Due modalità di correzioni:
1) la riformulazione o eterocorrezione
2) la sollecitazione o spinta all’autocorrezione
Come per es.,
Apprendente: Ieri ho arrivato tardi?
Insegnante 1: Ah sì. Sei arrivato tardi → riformulazione
Insegnante 2: Come? → sollecitazione
→ Commento metalinguistico: Arrivare vuole l’aus. essere.
E come correggere?

La maggior parte degli studi è costituita da tentativi di dimostrare la


superiorità ora di un feedback esplicito, ora di uno implicito. I risultati
di questo dibattito sono sintetizzati da autorevoli meta-analisi (Spada)
che così sintetizza: la correzione / istruzione esplicita è più efficace di
quella implicita e i suoi effetti sono durevoli. Ma il 90% degli studi ha
misurato gli effetti attraverso test discreti e chiusi (mirati a un solo
elemento), senza alcun uso comunicativo esteso della L2. Quanto
permesso su conoscenze dichiarative vs. procedurali, insieme alla teoria
del Transfer Appropriate Processing, evidenzia i limiti alla
generalizzabilità dei risultati sin qui ottenuti; limiti che richiedono alla
ricerca futura di ben delimitare i tipi di apprendimento e di conoscenza
studiati.
A nostro avviso, i due problemi ora citati (in particolare la difficoltà nel
determinare il grado di implicitezza effettiva del FonF) portano altrove,
ovvero alla questione se la nostra mente proceda e apprenda comunque
attraverso regole, che, nel caso non vengano fornite esplicitamente,
sono comunque autonomamente elaborate.

5. Apprendere senza regole?


Molti studi hanno equiparato assenza di info. grammaticali ad
implicitezza. La tecnica del ricordo stimolato ha dimostrato la falsità di
questo assunto: il contesto didattico in generale e la cornice dell’attività
in atto nello specifico, forniscono un frame nel quale anche una
reazione dell’insegnante apparentemente implicita e puramente
discorsiva quale Come? allerta l’apprendente a passare ad un livello
metalinguistico.
Il background del discente è poi un altro fattore determinante per
l’effettiva ‘implicitezza’ di un dato FonF, confermando che la dicotomia
implicito/esplicito configuri un falso problema.
Esperimenti che portano all’attenzione conscia e a verbalizzare le
proprie riflessioni metalinguistiche. I dati qui menzionati puntano ad
altro: vorrebbero far riflettere ulteriormente sulla didattica con o senza
regole, non però partendo dalle intenzioni degli insegnanti o dai dettami
dei metodi, bensì considerando l’approccio con cui i soggetti stessi si
accostano all’apprendimento linguistico. È infatti a nostro avviso
soprattutto l’atteggiamento mentale dei discenti a rendere implicita
o esplicita l’attività dell’apprendimento, a prescindere dall’input o
FonF loro proposti. Pare che il trattamento ‘esplicito’ ha avuto
maggiore impatto sui soggetti del gruppo che avevano un
background di apprendimento formale delle lingue, e buona
scolarizzazione.

6. La glottodidattica e le ‘eccezioni’: variabilità e variazione


Nozioni acquisizionali come sillabo interno, interlingua, sequenze di
acquisizione sono tutte pluridecennali; eppure l’insegnamento ha in sé
una tendenza normativa che fatica a relativizzare. La visione degli
insegnanti si ancora strenuamente a norme certe e ad un parlante nativo
idealizzato, dalla competenza completa e granitica, verso il cui profilo
far tendere le produzioni degli apprendenti.
L’idea che anche i non nativi posseggono una varietà di stili come
postulato dal Continuous Competence Model di Tarone non ha
applicazioni metodologiche. Un modo in cui la variabilità può entrare
proficuamente in glottodidattica ha a che vedere con la linguistica dei
corpora. L’analisi di corpora fornisce la materia prima, ovvero,
informazioni empiriche sulla distribuzione di frequenza e le co-
occorrenze di forme e funzioni nei diversi generi e contesti d’uso.
Una didattica realmente acquisizionale dovrebbe costruire la
correzione e quindi l’evoluzione della competenza, a partire dalle
regole sottostanti alle produzioni interlinguistiche divergenti dal
target, che andrebbero pertanto fatte emergere in forma conscia e
verbalizzata, così da poter essere scardinate, scomposte e
ricomposte in regole più targetlike.

l’inserimento didattico di attività di riflessione e discussione


metalinguistica tra studenti sembra candidarsi a dare nuova forza
al moto del pendolo. Queste teorie infatti, forti dei progressi delle
neuroscienze, aggrediscono gli assunti cognitivisti alla radice,
affermando che la nostra mente non presenta affatto
‘rappresentazioni’ astratte e simboliche di regole, bensì connessioni
neurologiche dinamiche, probabilistiche e variabili tra unità
linguistiche concrete.
Basti dire che i modelli usage-based con cui gli emergentisti
simulano l’apprendimento sono ‘nutriti’ con input considerato per
il suo solo valore di ‘evento d’uso’, e mai come fonte di
generalizzazioni metalinguistiche: una frase come Con il verbo
arrivare si usa l’aus. essere non viene considerata come informativa
a livello di sistema, bensì puramente come istanziazione che
rinforza i legami fonetici, morfosintattici e semantico-lessicale tra,
ad es., il e verbo e si e usa. La performance è parte della competence.

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