14-VICO Giambattista Vico (Napoli, 23 giugno 1668 – Napoli, 23 gennaio 1744) è stato un filosofo,
storico e giurista italiano. Giambattista Vico nella sua autobiografia, “vita di Giambattista vico scritta
da se medesimo” del 1725. In quest’opera il Vico narra in terza persona, definendo la propria
posizione, rivendicando il valore delle proprie scelte e la coerenza del proprio pensiero, tutto
proiettato all’elaborazione della “Scienza nuova”.Per Vico l’intera dimensione dell’individuo si risolve
nell’impegno intellettuale; ma per Vico questo non comportò conflitti con realtà politiche e istituzionali.
L’autobiografia ci offre la tragica esistenza della contrapposizione tra l’alto impegno culturale di Vico
e il vuoto sociale di contorno,tutto il senso di una vita si può risolvere, secondo Vico, nella scrittura di
un libro ( e la “Scienza nuova” è per Vico il libro della vita). Una simile immagine biografica è
rivoluzionaria, se si considera la provenienza sociale dell’autore, priva dei privilegi e dei vantaggi che
potevano permettersi gli intellettuali di origine nobiliare, e segnata invece dalle difficoltà domestiche e
dai guai quotidiani propri della piccola borghesia urbana meridionale. Il Vico nacque a Napoli il 23
giugno 1668; figlio di un povero libraio, compì in varie scuole studi filosofici, letterari e giuridici e fu
precettore presso la famiglia Rocca. Fra le sue molte letture: Tacito, Platone, Bacone, Epicuro,
Cartesio, , Aristotele, Galilei, Agostino Dante, Petrarca, Boccaccio, Virgilio, Orazio, Cicerone, il che
testimonia le complesse direzioni della sua ricerca. Dopo 9 anni tornò a Napoli. Nel gennaio del 1699
ottenne la cattedra di retorica all'università di Napoli. Fra il 1699 e il 1706 compose sei orazioni ( o
discorsi inaugurali) in latino, recitate in apertura dell’anno accademico. A queste si aggiungerà, più
importante di tutte, una settima orazione, il “de nostri temporis studiorum ratione” ( il metodo degli
studi del nostro tempo, 1708). Nel 1710 Vico pubblica a Napoli il “de antiquissima italorum sapientia”
( l’antichissima sapienza italica), nella quale intende costruire una metafisica attraverso l’analisi delle
locuzioni latine, nelle quali Vico vede nascosta l’antica sapienza italica. Scrisse altre opere latine con
il titolo generico di “diritto universale” e lavorò per il resto della sua vita all’elaborazione e alle diverse
redazioni della sua opera maggiore: la “scienza nuova”. Nel frattempo la vita di Vico veniva
amareggiata dal mancato ottenimento, di una cattedra più prestigiosa e remunerativa. Ormai deluso
per la scarsa rispondenza che la “scienza nuova” trovava nella cultura contemporanea, ottenne dal
nuovo re Carlo III di Borbone, la carica onoraria di storiografo regio; morì a Napoli il 20 gennaio 1744.
COME INTERPRETARE OGGI IL PENSIERO DI VICO Alcuni storici hanno interpretato la
“solitudine” di Vico come un segno della sua estraneità alla cultura del suo tempo. Queste
interpretazioni, però, si fermano all’aspetto più esteriore del pensiero vichiano: la problematica
affrontata dal Vico, infatti, si situa pienamente entro la cultura del tempo, egli acquisisce la tensione
critica che impronta il nuovo sapere e si impegna nell’indagare i limiti e i fondamenti della ragione. Gli
aspetti apparentemente conservatori di certe posizioni di Vico ( che sostiene per esempio la
preminenza della monarchia come forma di governo più perfetta) vengono in realtà rovesciati dal
procedimento del suo pensiero e del suo linguaggio: esso rivoluziona la concezione della storia, e
non per le informazioni inserite nelle sue opere, bensì per il modo diverso di rapportarsi al passato:
individuando delle leggi storiche universali, valide per tutti i popoli possibili, Vico propone un’ottica
antropologica, che resta essenziale anche per la cultura di oggi. REDAZIONI E
STRUTTURA DELLA “SCIENZA NUOVA La prima “scienza nuova” apparve a Napoli nel 1725, col
titolo di “principii di una scienza nuova d’intorno alla natura delle nazioni”, articolata in 5 libri. Vico
insisteva qui innanzitutto su 3 principi fondamentali, cioè su 3 usanze originarie o “sensi comuni” su
cui si costituisce la civiltà: la credenza in una religione, la celebrazione di solenni matrimoni e la
sepoltura dei morti. Insoddisfatto però dell’ordine di esposizione della materia, egli si impegnò in un
fitto lavoro di annotazione e correzione, da cui prese avvio la scrittura della seconda redazione, che
apparve nel 1730 a spese dell’autore. Questa redazione presenta ormai la struttura definitiva del
capolavoro vichiano, che non subì più radicali modifiche, anche se venne arricchita da numerose
annotazioni e correzioni. Nella redazione definitiva, molto più ampia della prima, la “scienza nuova” si
articola ancora in 5 libri, preceduti da un’introduzione e seguiti da una conclusione.- Il primo
libro, è costituito da 4 capitoli: nel primo Vico espone le sue ipotesi sulla cronologia della storia
umana dalla origini alla seconda guerra cartaginese; il secondo capitolo , presenta delle massime,
ovvero i postulati di partenza di tutta la nuova scienza; seguono poi i capitoli “de principi” e “del
metodo”.- Nel secondo libro , Vico si propone di decifrare il sapere originario dell’umanità:
attraverso la poesia, e quindi il linguaggio poetico, secondo Vico, si possono ricostruire i modelli
comportamentali e organizzativi della fase primitiva dell’uomo. A partire dalla “sapienza poetica”, è
quindi possibile, secondo Vico, trarre alla luce tutto il sistema culturale dell’uomo in questa sua fase
primitiva; e il secondo libro definisce e ricostruisce nei loro differenti aspetti la “ morale poetica”.
Il terzo libro : vi si afferma il carattere primitivo della poesia omerica e si nega l’esistenza di omero
come individuo storico.- Il quarto libro, Vico vi fissa il divenire dell’umanità attraverso tre stadi, in
cui si succedono tre diverse nature: la natura “poetica” o “divina”, che identifica la divinità della natura
e si esprime ancora con un linguaggio non articolato; la natura “eroica”, propria di coloro che sono
designati dal mito come “eroi”, che con la forza impongono ordine sulle “risse” e le violenze
barbariche, fissano la struttura familiare ed esercitano il loro dominio su tutti gli altri uomini e sulle
terre coltivate; infine la natura “Umana”, in cui si conquistano il sapere razionale e l’organizzazione
civile. Alle tre nature corrispondono tre diverse specie di costumi, di diritti naturali, di governi, di
lingue e caratteri, di istituzioni giuridiche e di autorità.- Il quinto libro, ipotizza una ripetizione del
ciclo già indicato nel libro precedente: il crollo della civiltà antica e lo sviluppo del Medioevo È la
“divina provvidenza” a regolare questo movimento di civiltà. UNA NUOVA “ARTE CRITICA” La nuova
“scienza” vichiana vuole essere una nuova “arte critica”. La filosofia e la filologia costituiscono le basi
metodologiche di questa “critica”: la ragione filosofica, che aspira al “vero”, deve confrontarsi con la
coscienza del “certo” fornita dalla filologia; quest’ultima studia le forme dell’autorità, cioè i rapporti di
dominio, di subalternità, che si creano tra gli uomini. Come il diritto, anche il linguaggio, la poesia e il
mito si sviluppano a partire da un rapporto di subalternità: la loro interpretazione diventa allora,
automaticamente, un interpretazione delle forme di dominio esercitate dagli uomini che in esse si
esprimono.
15-ILLUMINISMO L
'illuminismo fu un movimento politico, sociale, culturale e filosofico sviluppatosi
intorno al XVIII secolo in Europa. Nacque in Inghilterra ma ebbe il suo massimo sviluppo in Francia,
poi in tutta Europa e raggiunse anche l'America.Il termine "illuminismo" è passato a significare
genericamente qualunque forma di pensiero che voglia "illuminare" la mente degli uomini,
ottenebrata dall'ignoranza e dalla superstizione, servendosi della critica, della ragione e dell'apporto
della scienza. Il concetto di illuminismo, a differenza di altri concetti storiografici, ha origine nell’epoca
stessa a cui si riferisce, è definito dalla coscienza stessa di uomini e di intellettuali che sentono di far
parte del “secolo dei lumi”, e che in vari modi si impegnano per “illuminare” l’orizzonte intero del
mondo contemporaneo, per rovesciare valori e norme sociali e creare modi di vita più razionali e più
felici.L'età dei lumi": con questa espressione, che mette in evidenza l'originalità e la caratteristica di
rottura consapevole nei confronti del passato, si indica la diffusione in Europa del nuovo movimento
di pensiero degli illuministi francesi, che affondava le sue radici nella cultura inglese. Voltaire,
Montesquieu, riconoscevano infatti di essersi ispirati a quella filosofia inglese fondata sulla ragione
empirica e sulla conoscenza scientifica L’illuminismo è un tentativo di sottoporre tutto lo sviluppo
della realtà al controllo della ragione con l’intento di emancipare l’uomo dai pregiudizi, dagli errori e
dall’ignoranza. La ragione viene considerata come metro assoluto di giudizio, esente dai limiti e dalle
leggi imposti dalla tradizione => tramite la ragione l’uomo deve riscoprire l’ordine delle cose e quello
delle parole: nasce così una concezione integralmente “laica” della dimensione collettiva. Proprio in
nome di una Ragione comune a tutti e indifferente a qualsiasi differenziazione nazionale, si afferma
nell’illuminismo un aperto cosmopolitismo [cosmopolitismo significa ‘essere o sentirsi cittadino del
mondo’; è una parola che deriva dal greco (kòsmos ‘mondo’ + polìtes ‘cittadino’ + il suffisso italiano
-ismo) ], che comporta ovviamente un’attenzione verso le culture più disparate, e dal quale consegue
l’affermazione di valori civili come la tolleranza politica e religiosa, la libertà, il rispetto per gli altri.
Per quanto riguarda la più specifica dimensione letteraria, l’Illuminismo mantiene una sostanziale
fiducia nella tradizione classica e nella poetica oraziana dell’ “utile dulci”, ricercando una nitidezza
espressiva sorretta d un linguaggio chiaro e razionale, ma nello stesso tempi si confronta con le
“cose”, con gli oggetti della realtà. MUTAMENTI SOCIALI: FRANCIA E INGHILTERRA Nel corso
del 700 si producono dei mutamenti strutturali della società del tempo. Questo processo è molto
intenso in Inghilterra e in Francia; il fenomeno più travolgente è senza dubbio la rivoluzione
industriale, particolarmente rapida in Inghilterra nella seconda metà del secolo. Il lavoro dell’uomo è
sempre meno legato alla fruizione degli oggetti prodotti, ma è indirizzato alla produzione su vasta
scala di meri destinate allo scambio, alla circolazione in un mercato senza confini. Nel corso del 700
cambia la qualità della vita: la riduzione delle epidemie e delle carestie, l’espansione della
produzione agricola ( determinata sia dall’aumento dei terreni coltivati, sia dall’introduzione di nuove
tecniche di coltura) e vari altri fattori portano ad una notevole riduzione della mortalità e ad un
sensibile aumento demografico in quasi tutto l’Occidente. Questi grandi mutamenti sono legati in
prima istanza all’espansione e allo sviluppo della classe borghese, che si pone come soggetto di
primo piano della trasformazione economica e produttiva. Il rapporto tra illuminismo e borghesia non
deve tuttavia essere giudicato troppo schematicamente: l’espansione borghese nel 700 è frutto di
varie sovrapposizioni e interferenze tra classi e gruppi sociali: forte è infatti il contributo di una parte
della stessa nobiltà ad iniziative economiche “borghesi” e frequenti sono le acquisizioni di titoli e
rendite fondiarie da parte di elementi della borghesia. Di fronte a questi complicati meccanismi
sociali, l’illuminismo potrebbe allora essere definito un elaborazione ideologica, coincidente, sul piano
della cultura, con lo sviluppo economico e sociale della borghesia.ITALIA La seconda metà del 700
rappresenta per l’Italia un periodo di pace: l’equilibrio venutosi a creare tra i Borbone e gli Asburgo
dopo la pace di Aquisgrana (1748) esclude il nostro paese dai più gravi conflitti tra le potenze
europee. Anche se in misura ridotta rispetto alla Francia e all’Inghilterra, anche da noi si avvia il
processo di trasformazione della vita sociale, parzialmente frenato da disastrose calamità: tremende
carestie, terremoti catastrofici, epidemia di peste. Grazie a questo periodo di pace, vennero
promosse importanti riforme in particolare negli stati asburgici: esse furono volte soprattutto alla
politica economica e agraria e a quella giurisdizionale, e videro una forte limitazione dei poteri e delle
attribuzioni della chiesa, in nome della sovranità dello stato; risultati particolarmente significativi di
ottennero nel campo della scuola e dell’educazione, oltre che in quelli amministrativo e finanziario,
con l’elaborazione di catasti, l’eliminazione di antiquati modi di riscossione delle imposte ecc. ci fu
una laicizzazione della società civile e dei meccanismi istituzionali, dalla quale restò ovviamente
escluso lo stato pontificio. Per la varietà di singole situazioni sociali, vennero a crearsi nuove fratture
e differenze tra le regioni più progredite e quelle più arretrare: tra nord e sud. FORME DI
TRASMISSIONE DELLA CULTURA IN EUROPA: L'ENCYCLOPÉDIE Rispetto alla situazione
dell’inizio del secolo, le forme di trasmissione della cultura non subiscono trasformazioni radicali: i
fittissimi scambi epistolari, la diffusione del giornalismo letterario,costituiscono i principali sostegni
della circolazione internazionale delle nuove idee. La più ambiziosa e rivoluzionaria iniziativa degli
intellettuali illuministi è costituita dalla grande “Encyclopédie”, progettata da d’Alembert e Diderot, il
cui primo volume uscì a Parigi nel 1751 e si concluse nel 1772. L’” Encyclopédie” costituisce un
risultato essenziale dell’illuminismo, con la sua curiosità problematica per tutti i campi della
conoscenza e gli aspetti concreti della realtà. Si fonda così un nuovo modo di sistemazione delle
conoscenze, non più rivolto a conservare e trasmettere una cultura già data, ma suscitare, invece, un
sapere in movimento. L’estrema novità di questo progetto si scontrava però con le notevoli difficoltà
economiche dell’industria libraria, dovute alle sue dimensioni ancora molti limitate. Il mercato librario
era certamente in espansione, e si veniva formando un pubblico di nuovi lettori; ma gli intellettuali
illuministi non avevano nessuna possibilità di vivere semplicemente con la vendita dei loro scritti.
L’espansione del pubblico di lettori è collegata naturalmente all’aumento dell’alfabetizzazione, che in
Italia si verifica soprattutto nel Settentrione, anche se in misura molto minore rispetto alla Francia e
all’Inghilterra. CARATTERI DELL’ILLUMINISMO IN ITALIA Le diverse realtà dei paesi europei fanno
si che il movimento illuministico, se pure internazionale e cosmopolita, presenti caratteri diversi nei
vari paesi. In Inghilterra, per esempio, non si può parlare nemmeno di un vero e proprio “movimento”,
ma piuttosto di un diffuso atteggiamento empirico e di un pragmatismo sempre pronto a confrontarsi
con problemi e situazioni concrete. L’illuminismo francese, costretto a svilupparsi sotto una
monarchia assoluta, che non gli concede possibilità di diretta azione “pratica”, parte da una forte
matrice razionalistica e ne ricava posizioni assai più radicali, giungendo all’utopia. In Italia, c’è una
fortissima presenta dell’illuminismo francese: Montesquieu, Voltaire, Diderot, Rousseau vengono letti
e tradotti tempestivamente. Dell’Illuminismo italiano gli storici hanno distinto più fasi: una prima fase,
tra la fine degli anni 40 e gli anni 50, caratterizzata da una forte diffusione, tra gli uomini di cultura
italiani, di punti di vista riformatori e illuministici; una seconda fase contraddistinta da una fattiva
collaborazione tra intellettuali e potere illuminato (1770-75); una terza fase, infine, in cui quella
collaborazione si interrompe per dare inizio ad un riformismo più autocratico e diretto dall’alto (
1775-90). La maggior parte dei riformatori e degli illuministi italiani appartiene alla nobiltà e al clero,
che dunque evita rotture troppo forti con la tradizione, e raramente rifiuta fino in fondo i privilegi e le
regole sociali. La mancanza di una solida borghesia capace di sostenere le riforme, la frantumazione
politica del paese e il suo estremo particolarismo, indebolirono la capacità di azione e di
penetrazione della cultura illuministica italiana e limitarono la sua incidenza sui successivi sviluppi
della nostra letteratura.
16-CARLO GOLDONI Carlo Goldoni nasce a Venezia nel 1707 da una famiglia borghese.Carlo è
insofferente ai collegi nei quali è inserito, mentre matura la passione per il teatro. I primi esperimenti
di composizione teatrale risalgono agli anni 20 ( “il colosso”, componimento satirico perduto che gli
vale l’espulsione dal collegio); bisogna però attendere il 1730 perché due dei suoi intervalli per
musica, “il buon padre” e “ la cantatrice”, siano messi in scena.Si laurea in giurisprudenza e
intraprende la carriera di avvocato. Proprio a Milano, nel 1734, incontra Giuseppe Imer, capocomico
al teatro San Samuele di Venezia, che, dopo aver assistito ad una rappresentazione della
tragicommedia “Belisario”, scrittura Goldoni come poeta comico della sua compagnia. È il primo
incarico da professionista. Tra il 1741 e il 43, per interessamento della famiglia della moglie, riceve
per tre anni l’incarico di console della Repubblica di Genova presso Venezia, senza ottenerne alcun
guadagno; dopo la stesura della prima commedia integralmente scritta, “la donna di garbo” (1742-4),
i debiti lo costrinsero a fuggire da Venezia. Sarà prima a Rimini poi in Toscana. Per esigenze
economiche, nel 1745 Goldoni deve lasciare la professione di commediografo per dedicarsi a quella
di avvocato ( a Pisa), mentre le sue opere cominciano a fare il giro dei teatri italiani con buon
successo. Goldoni ottiene un nuovo contratto da Girolamo Medebach, capocomico del teatro
Sant’Angelo di Venezia, per il quale scriverà un gran numero di commedie: “L’uomo prudente”, “la
vedova scaltra”, Goldoni non rinnova il contratto e si trasferisce al San Luca, dove è scritturato per 10
anni e dove vedono la luce commedie importanti come: “la cameriera brillante”, “Il filosofo
inglese”.Nel 1762 Goldoni Decide di abbandonare Venezia e si trasferisce a Parigi con la famiglia,
con l’incarico di dirigere il teatro italiano. Anche il lavoro alle “Comedie Italienne” delude le
aspettative di Goldoni : il pubblico francese identificava la commedia italiana con la commedia
dell’arte e accolse con freddezza le novità goldoniane. Nel 1792, in piena Rivoluzione francese,
l’Assemblea legislativa sopprimeva le pensioni di corte, e per Goldoni e la moglie la pensione era
l’unica rendita. Morì in miseria nel 1793. UNA PERIODIZZAZIONE DELL’OPERA GOLDONIANA
Nonostante sia difficile operare una troppo netta storicizzazione dell’opera goldoniana, che ha
carattere unitario [Ferroni lo definisce un “continente” inesplorato]. può comunque essere
didatticamente utile distinguere al suo interno diverse fasi.- La prima fase termina nel 1748,
anno nel quale accetta l’offerta di Medebac e diventa autore stabile al teatro Sant’Angelo: è una fase
di sperimentazione e ricerca, di continuo confronto con le tradizioni teatrali e in particolare con la
commedia dell’arte. È in rapporto a quest’ultima che Goldoni costituisce la propria tecnica
drammatica, sostituendo man mano i testi scritti all’improvvisazione; attento ai caratteri degli attori,
ciascuno dei quali era legato ad una maschera e ad un ruolo fisso, egli venne progressivamente
assegnando alla maschera tratti più personali. Il suo primo “personaggio”, Momolo, a cui dedica parti
scritte di commedie, nasce appunto dal tentativo di modificare i tratti della maschera di “Pantalone”,
attraverso le doti caratteriali e gestuali di un prestigioso attore, il Golinetti.- La seconda fase va
dal 1748 al 1753, il periodo del teatro Sant’Angelo, che porta alla definizione e all’affermazione della
“riforma goldoniana”- La terza fase va dal 1753 al 59, quindi comincia con il trasferimento al
teatro San Luca e con la “crisi” creativa di Goldoni. Si assiste ad una battuta d’arresto della riforma e
a una serie di sperimentazioni di ambiente esotico o a sfondo storico.- La quarta fase, quella
delle grandi stagioni del San Luca, dal 1759 al 62, è determinata dal confronto tra la formula della
“riforma” e un sotterraneo malessere individuale e sociale, da cui scaturisce una eccezionale vena di
comicità.- L’ultima fase, che corrisponde all’esperienza francese, si sviluppa tra molte difficoltà: i
nuovi tentativi teatrali non possono armai più contare su quel continuo riscontro col mondo veneziano
LA “RIFORMA” GOLDONIANA Nella tradizione della commedia dell’arte il teatro era considerato
luogo di evasione distante dai problemi della realtà. La riforma goldoniana si prefigge invece di
restituire alla commedia le finalità pedagogiche che le erano proprie, e ciò, secondo Goldoni, poteva
avvenire solo recuperando il “mondo” attraverso il “teatro”: mondo e teatro sono le parole chiave
della “riforma” goldoniana. Il “Mondo” mostra i caratteri naturali degli uomini, gli atteggiamenti, le
passioni e i costumi, nella loro concretezza sociale e nei loro aspetti positivi e negativi, il “teatro” è il
modo per tradurre il “mondo” in comunicazione sociale. In questo modo il pubblico avrebbe ritrovato
sulla scena se stesso, i propri problemi e i propri valori, i propri vizi e le proprie virtù, e ne avrebbe
tratto un salutare messaggio educativo, oltre ai momenti di puro divertimento. Occorreva per far ciò in
primo luogo abbandonare il canovaccio e sostituirlo con il copione; in secondo luogo abbandonare le
maschere, al posto della quali dovevano subentrare azioni di persone reali, e soprattutto rivendica il
ruolo di vero autore,toglie l’arbitrio agli attori. Il “teatro” attinge insomma dal “mondo” tutta una serie di
riferimenti, di allusioni e richiami alla vita quotidiana: la nobiltà, la borghesia, la servitù, il popolo, nei
loro vari strati e livelli, si presentano agli occhi dello spettatore nei loro concreti comportamenti e
nelle loro abitudini sociali, nelle loro manie, nelle loro virtù, nella loro stessa dimensione economica.
Il teatro di Goldoni assume così la qualità di un modernissimo realismo. Nella convivenza di tante
classi sociali sulle scene goldoniane, sono i borghesi ad assumere il ruolo centrale.Goldoni cerca la
lingua di conversazione di borghesi e dei popolani, non troviamo un linguaggio letterario aulico, alto
ma troviamo un linguaggio normale,ecco in cosa consiste il realismo goldoniano, C’è un continuo
passare dalla lingua al dialetto e viceversa => il linguaggio viene distinto in livelli diversi che
corrispondono agli strati sociali dei personaggi che ne fanno uso: si va dal tono più basso delle classi
popolari a quello medio dei bottegai e della piccola borghesia, a quello più elevato e “Pulito” delle
ricche famiglie. nelle prime opere i borghesi mostrano una fisionomia tutta positiva, a partire dalla
figura di Momolo, nel quale esistevano i solidi valori dell’onore, della laboriosità, del buon senso. I
nobili appaiono invece privi di valori e i servi mantengono la schematicità di quelli della commedia
dell’arte, e si segnalano per la gratuita intelligenza, la capacità di giocosa provocazione,
l’aggressività verso i padroni. Ma la positività degli eroi “borghesi”, fortemente sottolineata nella fase
del teatro Sant’Angelo, viene in seguito ad oscurarsi: un nuovo spazio assumono le figure dei servi e
soprattutto il mondo popolare e plebeo, che con la sua vita “corale” rivela una purezza e una vitalità
oramai inattingibili dai borghesi. Anche l’amore è centrale nell’opera Goldoniana, essendo
componente essenziale del “Mondo”: portandolo sulla scena, l’autore pare, da un lato, liberarsi della
fissità degli intrecci della commedia dell’arte, dall’altro rinchiudersi in un altrettanto schematica
sottomissione dei sentimenti ad una dimensione moralistica: l’amore finisce per essere subordinato
a regole sociali e familiari, a esigenze di “reputazione” e “onore”. Goldoni cerca la lingua
ESPERIENZE FUORI DALLA “RIFORMA”Molti sono, nell’opera goldoniana, i momenti di resistenza
a quel coerente rapporto tra “mondo” e “teatro” in cui l’autore stesso vedeva il senso della sua
riforma. Molto spesso, infatti, l necessità dettate dalla pratica quotidiana dello spettacolo, lo portano
fuori dai principi stessi della “riforma”. Innanzitutto non mancano commedie in cui è molto forte la
continuità con la commedia dell’arte; poi ci sono addirittura dei “generi” teatrali completamente
svincolati dai principi della “riforma”: oltre a 18 tragicommedie, in cui hanno molto spazio l’esotico e il
fantastico, Goldoni scrive numerosissimi libretti melodrammatici.L’IDEOLOGIA DI GOLDONI
L’ideologia di Goldoni è stata definita come una sorta di “illuminismo popolare”, animato
dall’aspirazione al progresso civile, che critica ogni forma di ipocrisia e astrazione e riconosce valore
e dignità alle forme di espressione delle differenti classi sociali e ai costumi dei diversi popoli e paesi.
Tuttavia, l’aspirazione ad un pacifico mondo razionale si lega sempre, in Goldoni, all’accettazione
delle gerarchie sociali, alla distinzione dei diversi ruoli della nobiltà, della borghesia e del popolo.
Secondo Goldoni l’individuo può affermarsi indipendentemente dalla classe cui appartiene,
attraverso l’ “onore” e la “reputazione” che sa conquistarsi di fronte all’intera opinione pubblica, ma
l’apertura di Goldoni verso un mondo nuovo, verso rapporti più liberi e “civili”, si colloca all’interno di
un sistema sostanzialmente conservatore, che non mette in discussione il ruolo-guida della nobiltà.
Anche nel linguaggio si evince questa differenziazione, ma rispetto, dei diversi strati sociali. C’è un
continuo passare dalla lingua al dialetto e viceversa => il linguaggio viene distinto in livelli diversi che
corrispondono agli strati sociali dei personaggi che ne fanno uso: si va dal tono più basso delle classi
popolari a quello medio dei bottegai e della piccola borghesia, a quello più elevato e “Pulito” delle
ricche famiglie. Un interesse notevole ha anche il francese usato da Goldoni negli ultimi anni. LE
MEMORIE Composti in francese pubblicati nel 1787 a Parigi sono l’ultima opera di Goldoni. Egli
raccoglie il materiale autobiografico presente nelle prefazioni alle diverse edizioni delle sue opere
teatrali (le così dette memorie italiane) e lo riorganizza, trasformandolo in una compiuta narrazione
della propria vita, interpretata come la fortunata realizzazione di una insopprimibile vocazione
teatrale. Ne risulta una storia dettagliata della carriera artistica dell’autore e dei suoi rapporti con il
teatro, non priva peraltro di varie inesattezze e addirittura di talune falsificazioni. Nel racconto
spiccano, tuttavia, alcune pagine particolarmente estrose ed efficaci (come quella della fuga
giovanile da Rimini con una compagnia di comici), che riconfermano la straordinaria abilità dello
scrittore nel delineare i personaggi e nel costruire – come avviene in molti episodi dei Mémoires – dei
dialoghi briosi e vivacissimi.Sono composte di tre parti.In queste Memorie la seconda parte è la più
importante per la storia del teatro; anche perché la grande riforma operata dal Goldoni viene vissuta
attraverso le reazioni dei partigiani dell’una e dell’altra tendenza. Se il poeta avesse avuto altro
temperamento, questa seconda parte sarebbe stata tutta polemica; ma il Goldoni, pur provando
amarezza o dolore, non ha mai accenti aspri. Sembra che si studi di vedere solo il lato buono degli
uomini, e il meglio della vita. Risaltano nell’opera le virtù morali di colui che fu non soltanto un grande
artista, ma un vero galantuomo.
LA LOCANDIERA Una delle commedie più celebri e generalmente annoverate tra i “capolavori”
goldoniani.La trama si svolge attraverso tre atti divisi in 62 scene. “La locandiera” è una commedia in
tre atti scritta da Carlo Goldoni e rappresentata per la prima volta nel 1753 al teatro Sant’Angelo di
Venezia. Non riscuotendo inizialmente grande successo tra il pubblico si è rivelato in seguito una
delle opere più importanti di Goldoni. La commedia si svolge interamente all’interno di una locanda
fiorentina, gestita da una giovane donna di nome Mirandolina maestra nell’arte di sedurre gli
uomini,padrona di una locanda a Firenze ereditata dal padre, che risulta essere la protagonista
intorno alla quale ruotano tutte le vicende. Goldoni ce la presenta come una donna astuta e
seducente che riesce a far cadere ai suoi piedi tutti gli uomini presenti nella taverna.Nella locanda ci
sono marchesi ,conti , cavalieri che oltre ad essere attratti dalla locanda, sono attratti dalla
locandiera. Il marchese e il conte si sfidano tra loro nell’illusione di poterla conquistare, chi con
laprotezione chi con i regali , cercano di conquistare il cuore di Mirandolina,gareggiando a più non
posso. Il cavaliere non è stato mai conquistato da uan donna ed esprime il suo disprezzo nei
confronti delle donne. Il fulcro dell’opera sta nella seduzione che riesce a piegare il cavaliere da parte
di Mirandolina,perchè Mirandolina prende come una sfida il fatto che il cavaliere si senta immune al
fascino delle donne,decide di sedurlo di farlo innamorare ma alla fine ammetterà di essersi
innamorato e subisce la vergogna di essere stato preso in giro. Mirandolina sposerà il cavaliere
Fabrizio che è innamorato di lei e rifiuta la proposta di matrimonio del cavaliere. ATTO 1: La scena si
apre presentandoci, in un colloquio pieno di ripicche, il Marchese di Forlipopoli, di antica nobiltà ma
squattrinato e il Conte d'Albafiorita, assai ricco, ma dal titolo comprato: entrambi sono innamorati di
Mirandolina, la locandiera. In scena entra poi Fabrizio, cameriere della locanda, anch'egli innamorato
della sua padrona. Il quarto personaggio è il Cavaliere di Ripafratta, che afferma più volte di stimare
poco le donne e tanto meno la locandiera. A questo punto appare in scena Mirandolina, che disgusta
gli sciocchi spasimanti e si prefigge come scopo di far innamorare di lei il Cavaliere. Giungono poi
alla locanda due commedianti, Ortensia e Dejanira, che si spacciano una per baronessa e l'altra per
contessa. La loro finzione è scoperta solo dall'astuta Mirandolina che, divertita dal lazzo, sta al gioco.
ATTO 2: Il secondo atto si apre con un astuto segno di attenzione della locandiera che fa servire il
pranzo al Cavaliere per primo, il quale apprezza la cortesia e comprende come Mirandolina riesce ad
"incantare" tutti. Il Cavaliere decide di ripartire subito perché non vuole essere ammaliato
nuovamente dalla locandiera, ma Mirandolina lo raggiunge, desolata e piangente per la sua
improvvisa decisione, e simula addirittura uno svenimento. Il povero misogino-innamorato non sa che
fare e le sussurra dolci parole d'amore: Mirandolina trionfa felice, l'impresa è fatta. ATTO 3: In un
colloquio con Fabrizio, alternando i comandi alle promesse, ella lo lega a sé ancor di più, mentre il
Cavaliere le manda in regalo una boccetta piena di spirito di melissa, in caso di altri svenimenti.
Mirandolina rifiuta e il Cavaliere va in collera. La bella locandiera allora comincia a manifestare un po’
di paura per il gioco pericoloso che sta facendo e perciò decide di sposare Fabrizio. Ripafratta (il
Cavaliere) divenuto geloso esplode contro Fabrizio e si rivela (innamorato) anche davanti al
Marchese e al Conte. Tutto si sta per concludere in un duello con tanto di spade, quando Mirandolina
fa sapere la sua decisione. Il Cavaliere se ne va furioso e Mirandolina prega il Conte e il Marchese di
alloggiare presso un'altra locanda. “La locandiera” risulta essere una commedia “dei caratteri” nella
quale Goldoni indaga a fondo sulla psicologia dei personaggi, che risultano mutare ed evolvere
durante le commedia, ed attraverso essi delinea i tratti caratteristici della società del Settecento Le
classi sociali che vengono principalmente trattate sono quella della nobiltà e della borghesia; il
popolo invece rimane ai margini della storia. Il Marchese d’Albafiorita ed il Conte di Forlimpopoli
rappresentano due sfaccettature della nobiltà contemporaneamente esistenti nel Settecento. • Il
Marchese appartiene alla nobiltà di “sangue” ormai caduta in rovina e ancora convinta che lavorare
sia disonorevole. • Il Conte per il Marchese non è propriamente un nobile in quanto nelle sue vene
non circola sangue blu, avendo acquistato il titolo che porta. Tra di essi naturalmente nascono
continue discussioni o di tipico stampo sociale o al riguardo della avvenente Mirandolina.
Quest’ultima è invece la rappresentante della classe sociale emergente all’epoca di Goldoni. Essa si
rivela come una donna d’ affari, o meglio una donna imprenditrice, il cui unico scopo è l’affermazione
individuale.Mirandolina non vuole infatti perdere la sua autonomia e per poter far funzionare al
meglio la sua locanda preferisce “accontentarsi” e sposarsi con Fabrizio, un uomo proveniente dalla
sua stessa classe sociale. Questa elaborazione e trattazione dei caratteri anche nei loro più piccoli
particolari risulta essere il frutto della riforma del teatro comico operata da Goldoni, che si era
difficilmente imposto sulla ormai tradizionale Commedia dell’Arte riuscendoci però grazie alle
personalità di Medebach e Vendramin. Con questa “rivoluzione” Goldoni riuscì ad imporre l’uso di un
copione interamente scritto, che ridava importanza sia alle opere stesse che rimanevano immutate
nel corso del tempo, sia al drammaturgo che riassumeva un ruolo centrale nella delineazione di
un’opera. Alle commedie vennero restituiti i valori di realismo sociale e psicologico che con le
“maschere” della Commedia dell’Arte erano stati totalmente persi a causa della forte tipizzazione
data ai “personaggi” e alla non esistenza di un testo teatrale vero e proprio. Goldoni ridiede inoltre
alla commedia un intento etico e morale, precedentemente perso per il prevalere dell’intento comico:
infatti quando il testo venne pubblicato a stampa, Goldoni lo fece precedere dalla lettera di dedica al
patrizio fiorentino Rucellai e da una nota dell’autore a chi legge, in cui vengono chiaramente esposti i
motivi e le giustificazioni morali della composizione della commedia. Nella lettera Goldoni cerca di
ricondurre le eventuali contraddizioni riscontrabili nell’opera entro i confini e lo statuto della
composizione letteraria mentre nella nota al lettore l’utilità morale della commedia viene individuata
nell’essere un esempio da “evitare”. Ma se l’esempio da evitare più dichiarato, e più conforme agli
schemi del tempo, è la misoginia e la presunzione di casta del Cavaliere, quello su cui sottilmente più
insiste l’autore è l’intento simulatore di Mirandolina. Goldoni, insomma, sembra far di tutto perché la
figura di Mirandolina venga apprezzata in quanto pura e semplice “finzione teatrale”, ma venga
smascherata e rifiutata, condannata, in quanto possibile figura sociale. Infine da Goldoni viene data
grande importanza non solo alle trame ma anche alle ambientazioni stesse: l’intera commedia de “La
locandiera” si svolge tra le mura della locanda che diventa il palcoscenico di tutte le vicende da cui i
vari personaggi entrano ed escono e dove hanno luogo non solo i diverbi ma anche dei “monologhi”,
dalla funzione rivelatrice dei pensieri di ogni personaggio. La lingua usata è il volgare fiorentino che
conferisce all’intera opera un carattere più naturale e maggiormente attrattivo per il “grande”
pubblico. Ciò che rende credibile l’opera di Goldoni,è il fatto che a pagare un prezzo è il cavaliere, un
rappresentante delle classi elevate e non Fabrizio,va a pagare un potente e non un umile. IL
LINGUAGGIO La sintassi del racconto è semplice e lineare. È paratattica e presenta frasi molto brevi
con un uso abbondante della punteggiatura. Il modello resta invariato sia nei dialoghi fra i vari
personaggi che nei monologhi. Il lessico usato è piuttosto quotidiano e ricco di espressioni gergali
tipiche di quel tempo. Il linguaggio di alcuni personaggi però viene modificato a seconda delle
circostanze o dell’interlocutore. Per esempio Fabrizio, quando dialoga con i clienti della locanda
acquista un tono elegante ed ossequioso, mentre con Mirandolina usa un linguaggio più familiare.
Mirandolina stessa parla in modo più posato e ricercato con il Cavaliere, il Conte e il Marchese, nei
suoi monologhi invece è molto sciolta. Così come Ortensia e Dejanira, le quali tra loro usano una
parlata dal gergo dialettale, quando discorrono con gli altri personaggi invece hanno un modo di
esprimersi più raffinato. LUOGHI IN CUI SI SVOLGONO LE SCENEIl passaggio dal luogo pubblico
al privato determina certamente cambiamenti di esperienza. Infatti si può notare come il rapporto tra
Mirandolina e il Cavaliere sia più freddo e distaccato quando si trovano in sale affollate, mentre
diventa molto più amichevole e confidenziale (se così si può dire all’interno della finzione) quando si
trovano loro due da soli. Si può fare un discorso analogo anche per quanto riguarda Ortensia con
Dejanira e Fabrizio con Mirandolina; le coppie infatti hanno un legame stretto e d’intesa fra loro. Di
fronte ad altre persone invece tutto cambia e si comportano con molta normalità, anzi quasi come se
si conoscessero appena. ANALISI PERSONAGGI E LORO CARATTERISTICHE ● MIRANDOLINA.
è spigliata seducente, ma allo stesso tempo si presenta come una semplice e sincera dama, si
presenta in questo modo per arrivare ai suoi fini.Il fascino di Mirandolina è ambiguo,perchè non sa
nemmeno lei perchè sta fingendo ma non riesce a smettere in qualche modo, prima è sincera, poi è
semplice, poi prende in giro,quindi è qualcosa di innovativo, in lei convivono l’aspirazione alla libertà
perché comunque c’erano dei limiti alla condizione femminile,e allo stesso tempo c’è l’infrangibilità
dei limiti da lei imposti perchè comunque era una dama ed era una locandiera. L’interesse
economico è l’attenzione principale della locandiera che si occupa con professionalità
dell’andamento della sua locanda. Si manifesta soprattutto nell atto I nel dialogo con Fabrizio in cui
dice che se tratta bene i clienti lo fa “per tenere in credito” la sua locanda. Poi lo ritroviamo nel
monologo della scena ventitreesima atto I dove riferendosi al Conte e al Marchese dice: “se dovessi
attaccarmi ad uno di questi due, certamente lo farei con quello che spende di più”. Il desiderio di
potere è un tratto peculiare del carattere di Mirandolina. Alla fine della commedia infatti si assiste al
trionfo del suo volere su tutti. “mi piace l’arrosto, e del fumo non so che farne” frase significativa della
scena nona atto I. Indica la sua grande determinazione con la quale può raggiungere qualsiasi
obiettivo. Il suo programma di seduzione è incentrato in particolar modo sul Cavaliere. Vuole riuscire
a farlo innamorare di lei per dimostrargli che non è vero che odia le donne. “Tratto con tutti ma non
m’innamoro mai di nessuno. Voglio burlarmi di tante caricature di amanti spasimanti; e voglio usar
tutta l’arte per vincere, abbattere e conquassare quei cuori barbari e duri che son nemici di noi, che
siamo la miglior cosa che abbia prodotto al mondo la bella madre natura” in questo frammento tratto
dalla scena nona atto I spiega in maniera chiara ed evidente quello che è il suo programma, oltre che
di seduzione, di vita. Anche nell’ultima scena dell’atto I rinforza il fatto che riuscirà a far cadere ai
suoi piedi il Cavaliere. ●CAVALIERE. L’alterigia fa parte del carattere del personaggio. Lui infatti
tende a prendere le distanze dagli altri come se fosse superiore. All’inizio della scena quarta atto I lui
entra quasi con un'aria di presunzione domandando il motivo della contesa tra il Cavaliere e il
Marchese lasciando intendere che in realtà non gliene importa molto. Oppure nelle scene
dodicesima e tredicesima atto I, nel dialogo col Marchese cerca di dargli dei consigli. La mentalità
feudale è espressa nella scena quattordicesima atto I in cui dice di essere un “garbatissimo
cavaliere”. Il disprezzo per le donne è il punto focale che lo distingue da qualsiasi altro personaggio.
È proprio così che si presenta già nella scena quarta atto I dove espone la sua misoginia. Nella
scena sedicesima atto I invece ammette di essersi un pochino divertito dopo aver passato un po’ di
tempo a interloquire con Mirandolina che gli ha portato la biancheria pulita in camera, ma non per
questo si lascerà travolgere dai sentimenti. ● MARCHESE. Lo distingue Il culto delle vuote
apparenze perché si attacca sempre al fatto di essere un nobile di antica casata anche se poi è uno
spiantato taccagno. Dalle prime scene dell’atto I di comprende benissimo questo suo atteggiamento.
Poi mostra la vigliaccheria perché non ha neanche il coraggio di battersi per ciò a cui tiene. Nella
scena diciassettesima atto III infatti fa di tutto per non essere coinvolto nello scontro tra il Conte e il
Cavaliere. ● CONTE. La volgare ostentazione del denaro è il suo costante connotato e non
perde occasione per sottolinearlo, maggiormente per mettere in ridicolo il Marchese. Crede che sia
segno di generosità invece si presenta spesso pesante e grossolano già dalla prima scena come
anche nella atto I quando regala gli orecchini di diamante a Mirandolina e pensa di averla
conquistata. ● FABRIZIO. Interesse borghese tipico per un uomo del suo rango sociale. Si manifesta
nella scena secondo atto I quando il Conte lo invita a chiedere uno zecchino al Marchese e lui
obbedisce subito oppure nella scena decima atto I quando ricorda a Mirandolina il suo impegno di
sposarlo e si conforta nel fatto che i forestieri vanno e vengono dalla locanda mentre lui resta
sempre. O ancora nell’ultima scena atto III dove finalmente realizza il suo desiderio di avere la mano
della locandiera. DIFFERENZA SOCIALE, DEL DENARO, DEL CULTO DELLE APPARENZE. ●
Differenza sociale. Questo tema lo incontriamo già a partire dalla prima scena. La locanda accoglie
infatti persone provenienti da differenti strati sociali. Benché Mirandolina faccia parte della piccola
borghesia e venga a contatto con classi molto più elevate, non cerca di garantirsi la protezione di
quelle. ● Denaro. Anche questo tema è molto presente, soprattutto nella diatriba tra il Conte e il
Marchese. Il primo che considera il denaro come un suo punto di forza, il secondo che non lo
possiede e ostenta per non sfigurare. Nella scena dodicesima atto III il Marchese si dispera perché
ha donato una boccetta che non credeva fosse oro e invece lo era, a una donna che credeva fosse
una dama e invece non lo era, e per di più dovrà pagare al Cavaliere ma non ha soldi. Mirandolina
pensa al denaro come il ricavato dal suo lavoro così come Fabrizio lavora per guadagnarlo. Nella
scena ventitreesima atto I infatti la locandiera puntualizza che il suo principale interesse è quello di
far innamorare il Cavaliere e un grande gioiello non varrebbe lo stesso piacere. ● Culto delle
apparenze. I personaggi che maggiormente fingono sono il Marchese e le due commedianti. Infatti la
scena ventunesima atto I è quella che meglio identifica questo argomento poiché è dove si
concentrano questi personaggi e scoppiano in un’animata discussione quasi surreale. DIFFERENZE
NELLA CONCEZIONE DELLE DONNE DEI VARI PERSONAGGI MASCHILI. ● CAVALIERE.
Disprezza le donne, non le ha mai amate e le considera “un’infermità insopportabile”. Le considera
impertinenti, irriconoscenti, approfittatrici e attaccate ai beni materiali. Più volte hanno provato a farlo
sposare ma non ha mai voluto perché quando considera che per avere dei figli dovrebbe tollerare
una donna, gli passa subito la voglia. Il suo denaro vuole spenderlo solo con gli amici e dice inoltre di
stimare quattro volte di più un buon cane da caccia che una donna. Giudica pazzo chi spende i suoi
averi per una donna. Nei confronti del sesso femminile ha un atteggiamento molto aggressivo. ●
MARCHESE. Una donna gli è dovuta per il titolo nobiliare. Egli infatti vuole offrire protezione e
essere degno di farla felice. Però bisogna anche che una donna porti rispetto e che sia una perfetta
nobildonna. ● CONTE. Una donna è un oggetto di valore, ha un prezzo e bisogna avere la possibilità
di acquistarlo. Deve essere riempita di doni e attenzioni ai quali si deve mostrare riconoscente. Il
sesso femminile è anche molto capriccioso e difficile da comprendere, ma allo stesso tempo amabile
e 18 grazioso. Il Conte dice di essere sempre stato solito a trattare con le donne e che ne conosce
pregi e difetti. ● FABRIZIO. La donna è semplicemente la madre dei suoi figli e l’amministratrice delle
faccende domestiche. Per la sua mentalità borghese, la vede come un qualcosa di necessario per la
vita sociale ma ha comunque una visione positiva.
17-PARINI Giuseppe Parini ( cognome in cui egli modificò l’originario Parino) nasce a Bosisio in
Brianza nel 1729. Figlio di un modesto commerciante di seta, all’età di 10 anni viene mandato a
Milano presso una prozia che, prima di morire, lo nomina erede di una modesta pensione annua, a
patto che proceda negli studi per diventare sacerdote.Nel frattempo i suoi interessi si rivolgevano
soprattutto alla cultura classica e alla poesia; e nel 1752 pubblicò una raccolta di liriche ( “Alcune
poesie di Ripano Eupilino”) che gli consentì l’ammissione all’Accademia dei Trasformati, alla cui
attività collaborò intensamente con componimenti poetici su temi che venivano proposti
dall'Accademia stessa, e con contributi in prosa, tra il “Dialogo sopra la nobiltà” (1757) e il “discorso
sopra la poesia” (1761). Nel 1754 viene assunto come precettore in casa del duca Serbelloni,In
quegli anni scrive le prime odi ( “sopra la guerra” , “la vita rustica”, 1758 e la “salubrità
dell’aria”,1759).Pubblica alcune opere di impegno civile e le due prime parti del “giorno” ( “il mattino”
e “il mezzogiorno”). Nel 1768 ottiene importanti incarichi governativi: redige per quasi un anno “la
gazzetta di Milano” e viene nominato professore di eloquenza e belle arti alle scuole Palatine, che in
seguito vennero trasferite a Brera. Dopo le incertezze provocate dall’attività riformatrice di Giuseppe
II, che gli ispirarono l’ode “la tempesta”, nel 91 fu nominato sovrintendente delle scuole di Brera: nello
stesso anno uscì la raccolta delle “odi”, scrive le altre due parti del “Giorno” ( il vespro e la notte), che
però rimangono incompiute. Negli ultimi anni della sua vita Parini prende le distanze dagli eccessi del
Terrore; infine partecipa alla Municipalità democratica istituita a Milano all’arrivo dei Francesi ( 1796),
ma presto se ne ritira sdegnato. Muore nell’agosto del 1799.
IDEOLOGIA CLASSICISTA E POSIZIONE SOCIALE DEL PARINI La cultura del Parini si basa su
una fedeltà alla tradizione classica, fedele all’insegnamento di Orazio per cui si basa sulla cura per la
forma- L’equilibrio espressivo Facendo convergere la tradizione classica e il punto di vista
illuministico, il Parini si configura come un “poeta civile” impegnato a diffondere una moderata
razionalità in tutta la vita sociale à- rimuovendo tutti i pregiudizi e le prepotenze che deformano i reali
rapporti tra gli uomini.- facendo sviluppare le conoscenze pratiche capaci di renderli più
felici.Battendosi contro i pregiudizi socio culturali il Parini mostra diffidenza, per quanto riguarda
l’aspetto religioso, verso ogni residuo della superstizione medievale e verso il cattolicesimo della
controriforma. La sua idea di una “società naturale” si lega all’immagine di una antica società agraria:
pacifica e laboriosa, dai ritmi di vita lenti, semplici e autentici, dove il lavoro di tutti è basato sulla
collaborazione sociale.Parini confronta continuamente questo suo modello sociale
classico/razionale/naturale con la società nobiliare contemporanea. Egli accetta la disuguaglianza e
le gerarchie sociali perché il suo obiettivo non è la distruzione della nobiltà ma la critica del
comportamento della nobiltà contemporanea, parassitaria, oziosa, prepotente, indifferente ad ogni
attività utile alla collettività. Questo non significa che per Parini la guida della società non debba
spettare alla nobiltà, ma significa che deve spettare ad una nobiltà riformata, “rieducata” agli antichi
valori di: laboriosità, severità, autentico eroismo e dedita alla razionale ricerca del bene comune.
Questa prospettiva è evidente nel “Dialogo sopra la nobiltà” Parini è illuminista per:- Idee di
libertà, fratellanza ed uguaglianza fra gli uomini.- Mira ad una società giusta per liberare il
popolo dalla sopraffazione e dalla prepotenza dei ceti nobiliari. Ma è un illuminista moderato perché
dell’illuminismo accoglie solo le idee che non contrastano con la coscienza di sacerdote (per Parini è
blasfemo assegnare alla ragione il posto di Dio) perciò sia verso l’illuminismo francese che verso
l’illuminismo italiano del Caffè ebbe posizioni contrastanti.Illuminismo francese A favore per i principi
di : 1) Eguaglianza di tutti gli uomini 2) Solidarietà ed amore per l’umanità Contro perché :Anche se è
contro il fanatismo religioso, le guerre di religione, la controriforma, respinge le posizioni antireligiose
di Voltaire e crede nella religione come garanzia di salvezza.Critica della nobiltà Parini è
contro:L’aristocrazia: improduttiva, oziosa e vuota (sperpera solo ricchezze, non lavora, non ricopre
cariche, non coltiva studi).Dice che: “nobile è colui che da tutti servito a nullo serve”.Va contro il
cavalier servente perché dice che è una legalizzazione dell’adulterio.Parini però non è ostile né
estremista verso la nobiltà ma vuole che sia rieducata in modo da riavere il ruolo sociale di un
tempo.Illuministi del Caffè Parini è contro:1)Il fatto che questi respingevano il classicismo
tradizionale, ogni forma di purismo e volevano una letteratura solo utile.2)Sul piano economico gli
illuministi esaltavano commercio ed industria.Parini invece :1)Era fedele alla tradizione classica ed
aveva il culto dei modelli antichi. Era convinto che la letteratura doveva essere utile ma riprende il
concetto di Orazio di “Utile et Dulce”.2)Era fisiocratico, cioè vedeva nell’agricoltura l’origine della
ricchezza delle nazioni ed anche della moralità perché base di una vita semplice e sana.
IL GIORNO Il Giorno è il capolavoro di Parini: incompiuto poema in endecasillabi sciolti,ci ha
lavorato circa 40 anni senza averlo mai completato.Finge di adottare delle convenzioni del genere
didascalico ma in realtà non è altro che una satira feroce della vita dei nobili contemporanei,una
critica velata attraverso l'immagine di sé come precettore del giovane aristocratico il modo migliore di
trascorrere la giornata.Attraverso gli insegnamenti di questo precettore Parini ridicolizza gli aspetti
vani di una nobiltà priva di valori e funzione sociale, ma troviamo una nota che stona quasi, il
linguaggio classicheggiante, che è in contrasto con la pochezza della realtà rappresentata nell’opera
e qui scatta l’elemento ironico. Parini attua l’ironia nella sua opera,attraverso l’iperbole,antifrasi,la
perifrasi,tutte figure per mostrare e mascherare la sua ironia.La rappresentazione di questo giovine
signore è tutta iperbolica, tutte le sue azioni vengono rappresentate attraverso l’iperbole,per esempio
se deve scegliere tra il caffè e il cioccolatte,usa l’iperbole,pure quando si deve vestire,sembra che
deve andare in guerra. Tutto questo serve per elevare il discorso. Tutte queste tecniche servono a
dare vita all’antifrasi.Quando cade il velo dell'ironia c’è l'indignazione della sofferenza dei ceti
popolarii, e questo è un elemento nuovo che introduce Parini, perchè prima gli umili nella letteratura
o venivano esclusi o erano oggetto di satira. L’opera è divisa in quattro parti, e il poeta in vita ne
pubblicò solo due: Il Mattino nel 1763 e Il Mezzogiorno nel 1765. Negli ultimi anni della sua vita si
dedicò con grande impegno alla composizione delle due parti mancanti, Il Vespro e La Notte.
L’oggetto del poema è il racconto di una giornata esemplare della vita di un giovane nobile, scandita
nei quattro momenti della giornata, corrispondenti alle quattro parti dell’opera. Il racconto è svolto dal
punto di vista del precettore, che intende guidare il “Giovin signore” attraverso le distinte tappe della
sua giornata. Il precettore incarna una prospettiva decisamente critica. In questo modo le meschinità,
le vanità, i vizi e la corruzione del mondo aristocratico divengono oggetto di una caricatura feroce e di
una denuncia antinobiliare. Prendendo quindi a enunciare i propri insegnamenti, il precettore mostra
come la propria funzione sia piuttosto quella di scrivere la vita reale del suo rampollo che non quella
di educarlo veramente a qualcosa. La descrizione si apre all’alba che vede tutti i comuni mortali
riprendere i propri lavori, mentre il Giovin signore va finalmente a dormire, stanco del teatro e del
gioco. Parini utilizza il meccanismo antifrastico, per mezzo del quale il narratore giustifica questa
diversità, affermando che tutti gli altri devono lavorare proprio perché il Giovin signore possa invece
oziare e divertirsi. Dietro questa maschera ironica si nasconde la denuncia dell'assurdità e ingiustizia
della classe nobiliare. Parini attua l’ironia nella sua opera,attraverso l’iperbole,antifrasi,la
perifrasi,tutte figure per mostrare e mascherare la sua ironia.La rappresentazione di questo giovine
signore è tutta iperbolica, tutte le sue azioni vengono rappresentate attraverso l’iperbole,per esempio
se deve scegliere tra il caffè e il cioccolatte,usa l’iperbole,pure quando si deve vestire,sembra che
deve andare in guerra. Tutto questo serve per elevare il discorso. Tutte queste tecniche servono a
dare vita all’antifrasi.MODELLI E FONTI Nel Settecento vi è un grande ricorso alla poesia per
tematiche di carattere filosofico, sociale, politico, perfino tecnico – scientifico. L’opera di Parini si
colloca all’interno di questa tendenza, non soltanto italiana, ma europea. È risaputo infatti che Parini
prese come modelli opere a livello internazionale. Nella tradizione letteraria italiana, l’uso del
poemetto sopracitato conta numerosi esempi tra Seicento e Settecento, benché nessuno di essi
possa competere con il risultato artistico raggiunto da Parini. Insieme a questo modello dobbiamo
considerare i classici, ai quali Parini guarda costantemente. È opportuno ricordare Le Georgiche di
Virgilio e Le Satire di Orazio. Ma non va comunque dimenticata l’ideologia fondamentale del Poema,
rappresentata dalla cultura illuminista e specialmente da quella di Rousseau che Parini predilige. LA
METRICA E LO STILE Parini sceglie come metro della sua opera l’endecasillabo sciolto, cioè privo di
rime, il quale è proprio di una poesia didascalica, divulgativa, polemica, satirica, largamente diffusa
nel Settecento. Poiché si riscontra sia in situazioni epiche che in contesti didascalici e il suo uso è già
attestato nel Rinascimento, l’endecasillabo sciolto risponde alla volontà classicistica di riprodurre
l’andamento narrativo didascalico dell’esametro latino. È interessante, però, notare come Parini
giustifichi questa scelta di metro non per questa tradizione illustre, ma per la consapevolezza di
utilizzare uno stile “alla moda” cioè pienamente aggiornato e moderno. Sapientissima è la
costruzione dell’endecasillabo pariniano, piegato a tutte le sfumature espressive e narrative grazie ad
un’attenta dosatura di cesure, accenti, fonemi. L’utilizzo dell’enjambement dà solennità al costrutto
sintattico. D’altra parte lo scopo pariniano è quello di far cooperare organicamente la metrica e lo
stile. In più la satira pariniana non agisce abbassando il registro eroico in modo da deformarlo e
sconvolgerlo, ma piuttosto mantenendo fermo il registro eroico sul piano formale, applicato però ad
oggetti, personaggi e situazioni inadeguati ad esso, cioè niente affatto eroici. Insomma, Parini non
trasporta nel fango gli eroi tradizionali, ma innalza il fango al livello degli eroi classici. Infine è da
ricordare l’incredibile raffinatezza dello stile pariniano, che riguarda ogni piano del discorso: la
morfologia, il lessico, le costruzioni sintattiche e le figure retoriche. I PROTAGONISTI: IL
PRECETTORE E IL GIOVIN SIGNORE Il protagonista ufficiale del Giorno è il Giovin signore, a cui il
narratore si rivolge attraverso la seconda persona singolare. Il fatto è che di questo protagonista non
viene detto neppure il nome ed egli non pronuncia nemmeno una battuta. È un personaggio per cui
la personalità è l’identità. Al contrario, una posizione più complessa è quella del narratore, il quale
può essere interpretato come il vero protagonista dell’opera. Il narratore presenta se stesso come
precettore della vita e quindi dei piaceri del Giovin signore, quindi si mostra inserito in un
meccanismo di complicità nei confronti del Giovine. Ma si tratta, anche qui, di una maschera: dietro la
finzione del precettore si nasconde un dissimulato castigatore dei costumi corrotti. In qualunque
modo vi è una complicità tra il Giovin signore ed il precettore. Il primo, vivendo senza senso critico
una vita di apparenze, la crede eroica, così che il precettore ne offre la corrispondente definizione
linguistica, proponendo un’interpretazione appunto eroica dei miseri eventi, cui è ridotta la giornata
tipo di un aristocratico. LE FAVOLE MITOLOGICHE Alcune parti che formano il poema pariniano
contengono favole mitologiche. Per esempio, Il Mattino e Il Mezzogiorno ospitano due favole
ciascuno: Il Mattino quella di Amore e Imene e quella dell’origine della cipria; Il Mezzogiorno quella
del Piacere e quella del gioco del tric trac. Nella Notte si trova, infine, la favola dell’origine e degli
sviluppi del canapè. La funzione di tali inserti mitologici entro la trama del poema è molteplice. Da
una parte servono per nobilitare la materia del racconto, poiché i miti costituiscono esemplificazioni
dell’origine e del significato storico di fenomeni sociali, e pertanto rispondono alla cultura
dell’Illuminismo; però d’altra parte servono anche a sottolineare la struttura raffinata del poema.
Un’importanza particolare riveste la favola del Piacere, poiché in essa viene affrontato il tema della
diseguaglianza tra gli uomini e quindi la loro divisione in classi sociali. La favola narra che gli uomini
erano originariamente uguali, legati a bisogni primari ed attenti solo a fuggire i dolori. Le diversità
nacquero allorché fu mandato sulla Terra dagli Dei il Piacere; nel tentativo di raggiungere questo gli
uomini si divisero, con la conseguenza che quelli che seppero sviluppare una sensibilità più raffinata
primeggiarono, mentre rimasero al rango di subalterni tutti gli altri.
IL MATTINO “Il Mattino” esce, come primo poemetto anonimo, nel 1763 e rappresenta una prima
parte del primitivo progetto pariniano non concluso. Nella seconda redazione Parini introduce, come
apertura alla sua opera “Il Mattino”, un nobile di giovane età e fa emergere come, già dall’alba,
questo rappresentante di una nobiltà in disfacimento, presenti un comportamento di superiorità, di
uomo simboleggiante una parte di classe nobiliare priva di ogni virtù, ma piena di vizi. L’opera inizia
con l'alba, in cui Parini fa chiaramente notare come questo sia il momento in cui tutti i “comuni
mortali”riprendono il proprio lavoro, mentre per il “Giovin signore” è il momento in cui finalmente
arriva il riposo, dopo gli avvenimenti mondani, come il teatro ed il gioco. Proprio qui il narratore
sottolinea come sia necessario il lavoro delle persone “comuni”, affinché il nobile possa oziare e
divertirsi. In Chiave antifrastica viene manifestata la denuncia di Parini dell’assurdità e dell’ingiustizia
di questo comportamento. Arriva poi il momento del risveglio; in questo momento il giovane deve
affrontare alcune preoccupazioni su come debbano essere i suoi movimenti, come ad esempio lo
sbadigliare in modo aristocratico. Viene poi portata la colazione al “Giovin signore” e anche qui c’è la
necessità di scegliere tra vari cibi. In seguito arrivano le prime visite: il maestro di ballo, di canto, di
violino, che esaltano, ancora in chiave antifrastica, le virtù del nobile. Una volta che il giovane si è
levato da letto,avviene la vestizione, con abiti alla moda e tipici di una vanità aristocratica; si compie
anche il rito dell incipriatura, che sottolinea la personalità del giovane. Il pensiero del nobile viene poi
rivolto alla propria dama, di cui egli è cavalier servente; invia così un messaggero, per sapere se
abbia o meno trascorso una piacevole notte. Nel frattempo il signore è impegnato a leggere libri
illuministi, ancora in chiave ironica, in quanto Parini cerca di fare emergere l’intelligenza di tale figura.
Infine il “Giovin Signore”, pronto per mostrarsi, sale sulla carrozza, e si dirige dalla propria dama per il
pranzo.
18-VITTORIO ALFIERI Vittorio Alfieri nasce ad asti nel 1749. Di nobile origine, trascorre l’infanzia in
famiglia; poi entra nella Reale Accademia di Torino. La vera formazione, però, comincia nel 1767,
quando il giovane Alfieri, uscito dall’accademia, iniziò una lunga serie di viaggi attraversando l’Italia e
l’Europa. Alfieri definirà questo suo periodo di vagabondaggio con il termine “insofferenza dello
stare”, infatti i suoi viaggi sono guidati non da un desiderio di formazione ma da una smania di
spostarsi, di uscire, da una irrequietezza che lo rende indifferente anche rispetto ai posti che visita,
cercando di afferrare qualcosa di inafferrabile. In questi Viaggi Alfieri ha modo di leggere testi
fondamentali della cultura illuminista (Voltaire, Helvetius, Rousseau, Montesquieu, e anche le “Vite
Parallele” di Plutarco). Tornato a Torino nel 1772, comincia a interessarsi del mondo letterario e
teatrale. La vocazione tragica gli sopraggiunse quando, in seguito al fiasco di una tragedia “Antonio e
Cleopatra”, si accese in lui un “nuovo ed altissimo amore di gloria”.Comincia il suo processo di
“Spiemontizzazione” dove si assiste:- Al rifiuto per la vita oziosa e vana precedentemente
vissuta- Al rifiuto di quella cultura illuministica da cui si era superficialmente imbevuto- Al
rifiuto di tutto l’universo della nobiltà piemontese Si immerse così nella lettura di classici italiani e
latini e, a partire dal 1776 compì una serie di “viaggi letterari” in Italia. Comincia a comporre le sue
prime opere, scrivendo per il teatro e scegliendo la tragedia. Si apre la fase “eroica” della sua vita (
dominata dall’amore per la contessa d’Albany), in cui scrisse i capolavori teatrali ( “saul”, “mirra”), le
poesie, poi raccolte nelle “rime”, e i trattati politici. L’ultima parte della sua esistenza la trascorre
prima a Parigi ( si trasferì nel 1787) e poi a Firenze, dove muore nel 1803.
IDEOLOGIA ALFIERANA Alfieri definisce tirannide qualsiasi forma di regime politico, la letteratura se
è autentica e tende all’esporre la verità non potrà mai conciliarsi col potere, ma un elemento
fondamentale che fa riflettere in alfieri è il fatto che lui stesso esprime il suo ambivalente
atteggiamento nei confronti del potere,da un lato c’è questa ribellione contro il tiranno e allo stesso
tempo è attratto è affascinato dal potere che esercita il tiranno, ha il fascino verso il potere. Alfieri può
essere considerato un intellettuale a metà strada tra illuminismo e romanticismo.Alfieri è illuminista
per:- Cultura ,maturata dalla lettura degli illuministi francesi .- Odio per la tirannide e
desiderio di libertà e non tollera limiti o costrizioni. Il titano è un vinto, sa di perdere, ma lotta
ugualmente. Rifiuta l’illuminismo per :- La tendenza illuministica a regolare in modo razionale
anche la vita sentimentale ed esalta, invece, il “forte sentire”, le passioni sfrenate senza controllo.-
Il cosmopolitismo perché era nazionalista.- Diritti egualitari, perché disprezzava sia il popolo
che la borghesia ( che mirava all’utile e alle cose materiali).Anticipa il Romanticismo per:-
Individualismo esasperato.- Temperamento ribelle ed inquieto.- Amore per la libertà.-
Esaltazione del “cuore contro la ragione”.ALFIERI E LA TRAGEDIA Come detto in precedenza,
Alfieri sceglie il genere tragico. Esso era particolarmente adatto:§ per chi volesse provarsi in una
espressione originale pur restando legato alla tradizione classica§ per chi volesse un lavoro rigoroso
e disciplinato, come quello tragico (divisione in atti e scene, scelta personaggi, organizzazione
dialogo), dovendosi fare scrittore quasi dal nulla ricostruendo completamente la propria educazione
letteraria- la tragedia era inoltre un genere destinato a un pubblico eletto, di tipo nobile tale da
escludere quindi ogni complicità con il pubblico borghese e mostrando uno sdegnoso disprezzo
verso quel teatro contemporaneo che gli appariva così frivolo (per questo spesso l’autore
deliberatamente destinò questo suo teatro ad occasioni private, un teatro da “camera”)- per ciò
che riguarda le edizioni a stampa delle sue opere egli rifiutò di prenderne in considerazione l’aspetto
commerciale la stampa a proprie spese era scelta come modo per raggiungere una società nobiliare
colta (infatti curava sempre l’eleganza delle edizioni) e per fissare definitivamente i propri
testi.METODO DI SCRITTURA Alfieri scrive le sue tragedie rifacendosi ad un metodo ben preciso,
che consta di tre fasi: IDEARE consiste in:- distinguere atti e scene e stabilire il numero dei
personaggi- scrivere un breve riassunto scena per scena STENDERe scrivere i dialoghi in
prosa VERSEGGIARE cioè trasformare i dialoghi in endecasillabi sciolti (metro “nobile” per
eccellenza).LA SCRITTURA DRAMMATICA ALFIERANA Per quanto riguarda la scrittura
drammatica dell’Alfieri, riscontriamo: - Una non comune collocazione delle parole-
Trasposizioni sintattiche- Frequenti fratture dell’equilibrio metrico- L’utilizzo frequente di
punti si sospensione.- I suoi punti di riferimento per la sua ricerca del verso sciolto sono: -
Virgilio- Seneca.Inoltre alfieri si concentra su:§ Invenzione egli ricava i suoi soggetti da un
repertorio di tipo letterario e storico impegnandosi a “disinventare” cioè a introdurre nuove situazioni
drammatiche nei soggetti utilizzati.§ Sceneggiatura danno una importanza centrale ai soliloqui,
eliminando:- “confidenti” tipici del teatro francese- Tutti gli espedienti tradizionali come
riconoscimenti,improvvise apparizioni § Rispetta unità aristoteliche per un'esigenza di
concentrazione e di assolutezza. IL SISTEMA
TRAGICO ALFIERIANO- Le voci dei personaggi sulla scena si esprimono con forza e irruenza
in una scena di un teatro vuoto e nudo- Lo spazio e il tempo sembrano fissi- La tragedia
emerge più che da ostacoli politici, sociali, mitici, religiosi dalla volontà stessa degli eroi, da una
inquietudine distruttiva che li turba dall’interno.- La situazione base della tragedia dell’Alfieri può
essere schematicamente riassunta in uno scontro tra:- Eroi positivi a esempi di virtù politica, di
fedeltà e di dolcezza.- Eroi negativi che schiacciano ogni valore umano sotto la tirannica brama
di potere.Queste sono le figure centrali alle quali si aggiungono personaggi che complicano i loro
rapporti:- Figure “machiavelliche”à collaboratori di tiranno Il tiranno e il suo nemico sono:-
Quasi sempre trascinati da una forza superiore- Spesso risulta labile il confine che li separa
infatti entrambi hanno bisogno l’uno dell’altro.A tali contrasti si sovrappongono spesso rapporti
familiari cosicché abbiamo tragedie familiari- L’istanza autobiografica: le tragedie
sembrano indirizzate a far emergere terribili malesseri personali forse il modo più interessante di
leggere le tragedie alfieriane può essere quello di un unico, grande, dramma autobiografico.Le opere
dell’alfieri non ebbero mai tanta fortuna, questo dipende sicuramente da alcuni limiti delle sue
tragedie come: la mancanza di carica scenica, ovvero di azione; e per il fatto che la loro teatralità
era troppo astratta e “vuota” sembrava rifiutare sdegnosamente il contatto con gli spettatori.IL
CORPUSIl corpus alfieriano è composto da 19 tragedie, i quali personaggi sono tratti dalla storia
antica, moderna e biblica.- “Saul” è attinta da una inconsueta tematica biblica il “Saul” è una
tragedia particolare dove, certo, si ritrova il classico scontro tra un eroe e un tiranno ma dove la
tragedia scaturisce soprattutto da un malessere interiore dello stesso Saul, che oscilla tra l’affetto del
suo genero/fidato soldato e suddito e l’odio per quest’ultimo perché sa che sarà proprio lui a
prendere il suo posto da re.Da qui l’esplosione dell’io di Saul che vuole imporre se stesso a tutto
l’universo ma che è insidiato da una serie di ostacoli esterni ma soprattutto da una forza superiore, la
provvidenza divina, contro cui egli non può far nulla e che gli provoca vari turbamenti interiori, che
sfociano nella pazzia, fino alla morte finale.David, l’eletto di Dio, immagine di bontà e giustizia, gli
appare come un freno per la sua volontà di potenza e questo scatena la sua ira, ma nonostante ciò,
quando gli si trova di fronte reagisce con inesorabile dolcezza alla sua figura e ciò gli rivela l’ira di
Dio.Gli affetti familiari (soprattutto la fragile ma strenua resistenza della dolce Micol) trattengono a
lungo la furia di Saul che alla fine si afferma in solitudine dopo alcune “decisioni tiranniche”. La sua
volontà di potenza alla fine si risolve nel confronto definitivo con la morte che lo libera da quel
malessere interiore che non gli permetteva di stare in pace neanche con se stesso- “Mirra”,qui
Alfieri ci fa capire che ha studiato i classici latini , il soggetto viene preso dalle metamorfosi di Ovidio.
La vicenda si incentra sull’amore incestuoso di Mirra per il padre Ciniro (re di Cipro), e rifiuta le nozze
con Pereo di cui era promessa sposa e finisce con il confessare la malsana attrazione.Questa è la
tragedia del “non detto” infatti si incentra sul silenzio di Mirra, e sul rifiuto di confessare perfino a se
stessa la vera ragione del suo turbamento che la spinge a Rifiutare continuamente le nozze con il
bello e valoroso Pereo Le fa desiderare la fuga dalla casa familiare e la morte Mirra non si scontra
con un tiranno esterno ingiusto o prepotente ma soltanto con i suo io interiore. Solo alla fine,
nell’ultimo atto, quasi inavvertitamente Mirra rivela il suo segreto quando respinge Pereo proprio
durante la cerimonia nuziale portandolo al suicidio.Questa confessione d’amore provoca subito la
fine di ogni affetto per l’”empia” fanciulla che con un fulmineo gesto si suicida morendo in solitudine i
genitori infatti, che tanto l’avevano amata fino a pochi istanti prima si allontanano inorriditi dalla
scena. La parola poetica di alfieri è una parola drammatica, erano necessari l’interpretazione e le
motività del pubblico, al centro della drammaturgia c’è sempre lo scontro tra tiranno ed eroe, e il
vincente sarà sempre il tiranno perché l’eroe che rappresenta la libertà è soltanto un'utopia.
VITA SCRITTA DA ESSO Nella sua autobiografia ("Vita scritta da esso") composta dal 1790 al 1803
e pubblicata postuma Vittorio Alfieri:
§ si allacciò alla grande diffusione del genere autobiografico nel 700’ (Memories di Goldoni, Le
confessioni di Rousseau)§ mirò a descrivere i suoi sentimenti, il suo itinerario interiore più che le
vicende esterne e gli avvenimenti.Mirò cioè a fare un ritratto di sé, a dare una certa immagine di sé:
uomo di forti e violenti sentimenti, bramoso di libertà, ribelle ed inquieto, mai del tutto pacificato con
se stesso e con la società contemporanea.L'opera quindi è interessante non come fonte di
informazioni per la biografia dell'Alfieri, ma come testimonianza di un nuovo modo di sentire che, pur
in piena età illuministica, si differenziava profondamente dagli ideali illuministici: al posto
dell'equilibrio e della razionale consapevolezza indicati da poeti come Voltaire, Alfieri valorizza ed
esalta intenso sentire, furori e tristezze, inquietudini esistenziali.
L’opera subì un lungo lavoro di§ Redazione in cui:
- La prima parte arriva fino al 1790, viene scritta a Parigi e poi modificata durante il soggiorno
fiorentino.
E’ divisa in 4 parti = Puerizia, Adolescenza, Giovinezza, Virilità.
- La parte seconda concepita come una continuazione della 4’ epoca, arriva fino alla morte
dell’autore ed è pubblicata postuma.Il ruolo dell’adolescenza è importante da un lato perché Alfieri si
sente un “altro” e questo dal suo punto di vista ha il sapore della vittoria; in secondo luogo perché,
con una visione modernissima, egli è cosciente di quanto quella “età funesta” abbia un ruolo
importante nella educazione dell’uomo.Tutta la narrazione è proiettata al passaggio dalla 3 alla 4
epoca, quindi da suo stato di inquietudine alla sua “conversione letteraria” che lo porterà a definire la
sua missione di scrittore.
LATRAGEDIA TRA IL CINQUECENTO E IL SEICENTO Il genere tragico non ebbe nel Cinquecento
la stessa fortuna né raggiunse gli stessi risultati qualitativi della commedia.tragedia Opera e
rappresentazione drammatica che si caratterizza, oltre che per il tono e lo stile elevato, per uno
svolgimento e soprattutto una conclusione segnati da fatti luttuosi e violenti, da gravi sventure e
sofferenze.Nella sostanza esso rimase infatti una riproduzione piatta e accademica della tragedia
antica, di cui ripeteva schemi e contenuti senza riuscire a realizzare un collegamento efficace con la
realtà del suo tempo. Queste caratteristiche si riscontrano negli intrecci, largamente prevedibili e in
gran parte ricavati dalla tradizione, nei personaggi, ridotti a simboli poveri di autentica umanità, e
soprattutto nella lingua, rigidamente modellata su schemi classici e priva di quel realismo, di quella
brillantezza e di quella inventiva che avevano invece caratterizzato la commedia e determinato il suo
successo. La tragedia cercò di sopperire alla sua carenza di originalità accentuando gli effetti
orrorifici, con un compiacimento per le scene truculente e sanguinose, che tuttavia non servirono ad
assicurare un'autentica popolarità a questo genere drammaturgico: esso restò infatti confinato
all'interno di una ristretta cerchia di specialisti e di dotti, impegnati in un accanito dibattito sulle regole
formali dettate da Aristotele (l'unità di tempo, di azione e di luogo) e sui modelli (i tragici greci,
Seneca, gli storici latini, l'epica classica).
Si trattava evidentemente di questioni che non potevano coinvolgere un largo pubblico, dando luogo
a testi ammirevoli per rigore filologico e ricchezza dottrinale, ma artificiosi, umanamente freddi, e
statici dal punto di vista scenico. Regole e caratteri del teatro tragico erano già stati fissati nel
Cinquecento, per opera soprattutto di Gian Giorgio Trissino e Giambattista Giraldi, secondo un
canone che intendeva riprodurre i modi della tragedia classica: divisione in cinque atti, presenza del
coro, rispetto delle tre unità aristoteliche di tempo, di azione e di luogo. Questo schema rimane
sostanzialmente invariato anche nel corso del XVII secolo, durante il quale la tragedia, a differenza
della commedia, non presenta innovazioni e soluzioni alternative, scadendo in una mancanza di
originalità e in una monotonia che, pur nella generale fortuna del teatro secentesco, allontanarono il
grande pubblico e confinarono il genere in un ambito ristretto di specialisti e di eruditi. Gli autori
tragici del XVII secolo furono numerosi, ma rimasero oscuri e ignorati dai contemporanei. Degni di
menzione per l'analisi psicologica dei personaggi e per il profondo pessimismo della visione del
mondo, sono i nomi di Federigo della Valle (1560?-1628) e di Carlo de' Dottori (1618-1680). D'altra
parte, è evidente che questi testi furono concepiti più per essere letti che per essere rappresentati: il
numero dei personaggi è limitato, l'intreccio ridotto al minimo, l'azione scenica priva di ritmo e di
dinamismo, i dialoghi costituiti, più che da uno scambio di battute, da un succedersi di lunghi
monologhi. I valori della tragedia secentesca non vanno dunque cercati nel suo specifico teatrale, ma
nella forte concezione morale da cui essa è animata, nella drammatica visione del mondo, nella
capacità di affrontare alcuni dei grandi nodi proposti dalla civiltà del Seicento: in primo luogo, il
rapporto dell'uomo con il potere, sia quello politico (lo Stato, il sovrano), sia quello spirituale (gli
imperativi morali, la volontà di Dio), che spesso entrano in reciproca contraddizione. Sotto il profilo
stilistico, pur non sottraendosi del tutto al gusto del tempo (il compiacimento per i contrasti violenti e
per le situazioni estreme, un linguaggio spesso declamatorio, la tendenza al fastoso e al grandioso),
la tragedia del Seicento riesce a contenere gli eccessi del Barocco e a mantenersi su un livello di
severo classicismo, accentuato dalla consuetudine di scegliere come protagonisti grandi personaggi
tratti dalla storia politica o religiosa.