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CLAUDE DEBUSSY

Pelléas et Mélisandre

Pierre Boulez, direttore

ORCHESTRA OF THE WELSH NATIONAL OPERA

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Quando Debussy, passeggiando tra i ‘boulevards’ parigini in una sera estiva del 1892, fu attratto dal
romanzo in vetrina di Maurice Maeterlinck, probabilmente già sentiva che avrebbe finalmente trovato colui
che, com’egli stesso pronunciò, “dicendo le cose a metà, mi permetterà di inserire il mio sogno nel suo”.
L’ispirazione avvenne e quello che Claude Debussy partorì, dopo quasi un decennio di lavoro, è la tenera
incarnazione d’un sogno confuso ed etereo, dove ogni via verso la meraviglia si rende manifesta
nell’impossibilità di poterla attraversare e di vederne così la fine.

Pelléas et Mélisande è un’opera unica, per l’atmosfera, per il linguaggio, per il senso e per la loro evidente
reciprocità. I personaggi sono sovrastati dalla vita e, allo stesso modo, dalla morte, in uno spazio temporale
ciclico che ritorna sempre al vuoto, al nulla e all’indecifrabile. La loro origine è infatti ignota: guardiamo
Mélisande, trovata ai bordi di una fontana da Golaud - anch’egli perso nella foresta - e uno dei primi gesti
della fanciulla è quello di tentare di gettarsi nell’acqua della chiara fontana, non per recuperare la corona
poco prima perduta, bensì come segno di disperazione a causa di un doloroso passato a noi sconosciuto.
Debussy rimase molto fedele alla scrittura di Maeterlinck, scegliendo di tagliare solo alcune scene dal testo
originario. Per la prima volta nella storia del teatro musicale abbiamo un testo interamente in prosa, una
scelta che caratterizzerà ampiamente il teatro del ‘900, basti pensare alla Salomé di Strauss andata in scena
a distanza di pochissimi anni. La rottura degli schemi compositivi, inevitabilmente legati ad una tradizione
che voleva il libretto in versi, ricade su una nuova forma di declamato lirico, una grande novità che allude
sensibilmente all’origine del melodramma, dove la parola è maestra cui la musica si plasma senza
sovrastarla, in un rapporto di sottilissima interdipendenza. In quest’opera la musica aleggia tra i personaggi,
si confonde tra i pensieri e le parole dei cantanti, gioca continuamente con le simbologie nascoste, dialoga
con le voci accompagnandole verso l’ignoto e talvolta lasciandole sospese come funamboli nella notte.

L’orchestrazione di Boulez del 1992 è tra le più acute e sensibili, egli ne dà una lettura precisa, capace di
esaltare la tavolozza timbrica della scrittura debussyana con un tocco sicuro ma delicato. I silenzi sono
sottolineati in modo sopraffino, pensiamo alla celebre dichiarazione d’amore tra Pelléas e Mélisande alla
fine del IV atto, quando i due si ritrovano segretamente per darsi l’ultimo saluto. Il monologo di Pélleas
all’inizio della scena è denso di tormento e confusione, egli vuole fuggire da questo turbine di sentimenti,
ma soprattutto da Mélisande, alla quale dichiarerà «Non sai perché devo andarmene… devo allontanarmi
perché… Ti amo». In questo contrasto tra rabbia e dolcezza l’orchestra d’archi si carica in un grande
crescendo fino ad esaurirsi nel totale silenzio, lasciando sole e fragili le parole di risposta di Mélisande «Ti
amo, ti amo anch’io».

L’acqua, la luna, la grotta, il chiarore, l’oscurità, (…) sono solo alcuni dei simboli che vagano nella vicenda
come archetipi di un’esistenza inconsistente, se non fosse per la loro presenza. Il richiamo all’estetica
romantica è presente, la natura è infatti complice di ogni movimento, come nel guidare i personaggi nella
penombra della notte, rischiarando ed oscurando i loro gesti e sentimenti. Il simbolo e l’immagine insite
nella natura diventano la rivelazione di una realtà nascosta, inaccessibile all’esercizio ordinario dei sensi,
come a quello della comprensione astratta. In questo senso si innesta l’interpretazione scenica di Peter
Stain, attenta a soddisfare gli aspetti simbolici e conturbanti dell’opera. Egli sa accostare i caratteri originari
della vicenda, come ad esempio gli abiti di scena dell’epoca, con una sceneggiatura essenziale ed
innovativa, che rimanda alla dimensione a-temporale della narrazione (particolarmente elegante, a mio
avviso, la scelta di rappresentare il castello con delle semplici linee illuminate che ne idealizzano la forma,
lasciando spazio al contrasto tra i personaggi e l’oscurità).

Le interpretazioni vocali sono pienamente soddisfacenti, la pronuncia è gestita piuttosto bene da tutta la
compagnia di cantati in cui non vi è alcun madre-lingua francese. Spicca in particolare la figura di
Mélisande, interpretata dal soprano Halison Hagley, il cui sguardo sempre vivo («Guardo i vostri occhi, non
chiudete mai gli occhi?» Golaud, Atto I), ci trasporta in un universo di innocenza (Arkel riguardo lo sguardo
di M.: «Non ci vedo che una grande innocenza…», Atto IV) e di perdizione («Non posso accettare i tuoi
occhi…Voglio andarmene al più presto.», Pelléas, Atto IV), riuscendo a pieno nell’interpretazione di un
personaggio così enigmatico e misterioso, grazie ad un timbro leggero che passa dal cantato al quasi
parlato con grande sapienza. Altra figura di spicco è senz’altro quella del re Arkel, interpretato dal basso
Kenneth Cox, cui dona al personaggio un’aurea austera e savia, consona a quanto disegnato da
Maeterlinck. Centrate ma non sensazionali le interpretazioni di Golaud (Donald Maxwell) e di Pélleas (Neil
Archer), l’ultimo in particolare, in rapporto alla presenza e all’eleganza della Hagley, alle volte rischia di non
sorreggerne a pari modo il livello e la qualità recitativa. Anche la voce di Geneviève, ossia di Penelope
Walker, ha un carattere tetro ed austero, sorretto da un colore scuro e da una presenza scenica
penetrante. Il canto tremante del piccolo Yniold, interpretato da Samuel Burkey, riesce muovere nello
spettatore un senso di forte compassione, soprattutto nella tragica violenza subita dal padre in preda alla
gelosia («Babbino, babbino! Non lo farò più…», Yniold a Golaud, Atto III).

Il destino di un capolavoro è di essere a lungo oggetto di discussione e di rivalutazione, con sempre nuove e
diverse interpretazioni, ma delle numerose esecuzioni e per il grande successo riscosso da quest’opera,
sicuramente questa, alla direzione del maestro Boulez, è tra le più centrate e riuscite.

Irene Prosperi

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