L’importanza dell’esperienza
Diletta Formicola
Matricola n° 841667
Nato nella seconda metà dell’Ottocento, Dewey è considerato il padre dell’attivismo pedagogico,
che pone le sue basi sul concetto di puerocentrismo: il posto centrale nel contesto educativo non è
più occupato dall’insegnante, bensì dal fanciullo, il quale non deve essere un semplice spettatore
passivo, ma un vero e proprio attore impegnato nella realizzazione della propria conoscenza e del
proprio progetto di vita.
Egli è fermamente convinto che l’educazione non debba essere una semplice trasmissione di saperi,
quanto piuttosto un vero e proprio processo finalizzato all’assimilazione e all’interiorizzazione di
conoscenze, che a loro volta favoriscono lo sviluppo di tecniche e abilità indispensabili nella vita
quotidiana di ognuno.
È proprio a partire da ciò che il pedagogista statunitense attribuì una sempre maggiore importanza
all’esperienza, come fondamento indispensabile per la conoscenza e per lo sviluppo sia sul piano
cognitivo, sia su quello affettivo e sociale: egli afferma, infatti, che l’educazione che valorizza
l’esperienza rafforza la crescita. L’educazione sociale, intenta a garantire l’inserimento del futuro
adulto nella società attraverso la consapevolezza e l’interiorizzazione delle sue regole, è
organicamente legata a quella psicologica che, prendendo in considerazione gli interessi del
ragazzo, rafforza le sue potenzialità individuali. È quindi necessario fare in modo che il bambino
possa apprendere attraverso l’esperienza diretta, un’esperienza che ha inizio nel contesto familiare
per poi allargarsi a quello scolastico e, infine, a quello sociale. La scuola è considerata non solo
come luogo di apprendimento, quanto piuttosto come luogo che al suo interno ripropone aspetti
della società nella quale il bambino dovrà inserirsi: è, non a caso, riconosciuta come luogo di
iniziazione e avviamento del bambino verso la società.
Ciò nonostante, attualmente si riscontra un contrasto tra l’educazione tradizionale e quella
progressiva. Il sistema tradizionale prevede una sorta di imposizione dall’esterno, mediante la
prescrizione di norme, metodi e programmi mostratisi funzionali per la generazione precedente. È
proprio questo il problema dell’educazione tradizionale: gli insegnanti, nella maggior parte dei casi,
si mostrano scettici di fronte alle innovazioni e alle sfide proposte al fine di modificare le modalità
di insegnamento e del conseguente apprendimento, magari andando incontro ad un miglioramento.
Si preferisce rispettare i metodi tradizionali, dove l’apprendimento era trasmesso dall’insegnante
all’alunno attraverso i libri cartacei, considerati i principali strumenti del sapere. Risulterebbe
opportuno osservare quanti bambini hanno e stanno progressivamente perdendo la voglia di
apprendere e la curiosità associata ad essa a causa del modo di cui ne fanno esperienza, e quanti
associano l’apprendimento all’idea di noia. Tale metodo risulta essere una routine: si va a scuola, si
ascolta la lezione dell‘insegnante (lezione frontale) e si prendono appunti sul proprio quaderno. È
dunque facile notare come il bambino, nell’ambiente scolastico, ricopra un ruolo del tutto passivo
mentre il ruolo chiave è ricoperto dall’insegnante, riconosciuto come semplice trasmettitore di
conoscenze.
Se, allora, la semplice routine non è funzionale, si devono cercare i metodi e gli strumenti che
permettano al bambino di non essere un semplice spettatore durante le ore di lezione, quanto
piuttosto un partecipante attivo, un attore. Indubbiamente, la ricerca di un buon metodo e di
materiali appropriati non è semplice, ma porterebbe certamente a risultati ottimali. È bene tener
presente, però, che i materiali devono essere proposti a seconda del bambino che si ha davanti: non
basta che certi materiali e metodi si siano mostrati efficaci con altri allievi in altri tempi, bisogna
rispettare, invece, i bisogni di ognuno perché, come Dewey stesso afferma nel secondo dei suoi
cinque principi del metodo, “il bambino deve operare in azioni pratiche, manipolando gli oggetti ed
esplorando la realtà”. La responsabilità di scegliere è proprio quello che caratterizza la capacità del
maestro di comprendere i bisogni e le attitudini degli individui che imparano. Ogni materiale è
l’oggetto primo del bambino per conoscere il mondo che lo circonda e se stesso: per questo motivo,
il materiale non può essere lo stesso per tutti gli alunni.
L’esperienza più comune è certamente il gioco che, con le sue regole, stabilisce un ordine e un certo
tipo di organizzazione che devono essere rispettati. Se non ci sono regole, allora non c’è gioco. Ed è
proprio in questo contesto che le occasioni in cui l’insegnante può esercitare la propria autorità si
riducono notevolmente: egli deve infatti lasciare liberi i bambini, intervenendo solo quando
necessario. Il gioco comporta interazione, che fa dell’educazione un processo sociale. È tuttavia
assurdo escludere l’insegnante dal gruppo che si viene a creare: egli ha la responsabilità di dirigere
le interazioni all’interno del gruppo stesso.
Anche l’ambiente deve essere “a misura di bambino” e non di adulto, per fare in modo che
l’educando possa muoversi liberamente in esso, scegliendo, prendendo, spostando e costruendo a
proprio piacere, per poi riordinare il tutto. Solo in questo modo, mediante una libera e continua
esperienza, il bambino avrà modo di esprimersi. Quindi, non è da sottovalutare il complesso e al
contempo importante ruolo dell’educatore di individuare e riproporre i fattori, fisici e non, che
rendono possibile la realizzazione di un’esperienza di valore, che rappresenterà una base per le
esperienze future. Più di qualsiasi altra attività, l’educazione esige che si guardi lontano. È, infatti,
importante tener sempre presente che ogni esperienza dovrebbe preparare l’individuo a quelle
future, a sapersi orientare e comportare nella società in cui vive e a fronteggiare criticamente le
sfide poste dalla stessa società.
Attraverso un tipo di educazione che lasci spazio all’esperienza si potrà, dunque, riscontrare un
maggiore livello di autonomia da parte del piccolo: se c’è libertà intellettuale certamente non
mancheranno le occasioni di porsi di fronte a contesti nuovi, caratterizzati da problemi che non
devono essere visti come un ostacolo, bensì come uno stimolo a pensare. Di fronte ad una sfida non
vi è un’unica via d’uscita, un solo tipo di risoluzione, ma le possibilità sono molteplici: Dewey,
infatti, esplicita che “bisogna dar spazio al pensiero del bambino, seppur si presenti come diverso
dall’unica teoria fornita”, permettendo all’educando di poter sperimentare le proprie ipotesi e quindi
verificarle e, se necessario, smentirle. Per trovare la soluzione ottimale ad un problema (che deve
essere adeguato alle capacità del bambino), è efficace operare confronti con i propri collaboratori
(compagni di classe e insegnante, nel contesto scolastico). Attraverso il confronto con l’altro il
bambino può sperimentare nuove idee che saranno alla base di nuove esperienze le quali, a loro
volta, forniranno nuovi problemi.
Appare chiara l’importanza di un tipo di educazione democratica, che possiede un valore etico e
morale e che valorizza la scienza come metodo specifico di una simile forma educativa: solo
attraverso la conoscenza oggettiva (che ha luogo mediante la libera indagine e la verifica
intersoggettiva dei risultati), l’uomo può operare, trasformare la realtà che lo circonda.
L’esperienza, in questo modo, si trasforma sempre più da fattore individuale e sociale a fattore
razionale.
In conclusione si può affermare che l’educazione ha, pertanto, due alternative tra cui poter
scegliere: potrebbe spingere gli insegnanti a tornare ai metodi e agli ideali tradizionali, affidandosi
ad una salda autorità, oppure utilizzare il metodo scientifico, considerato un modello ottimale che
permette di sfruttare le possibilità e le capacità che si sviluppano dall’esperienza.
Condivido il pensiero di Dewey in tutti i suoi termini: a mio avviso, infatti, è estremamente
importante permettere al bambino, già dalla più tenera età, di fare esperienze che possano aiutarlo a
risolvere problemi e a far fronte alle sfide non solo all’interno della scuola o della famiglia ma,
ancor di più, nella sua società di appartenenza. L’esperienza offre al bambino la possibilità di
imparare per tentativi, talvolta anche erronei, ma è proprio a partire da ciò che egli costruirà il
proprio pensiero, che deve essere critico per poter partecipare attivamente alla vita sociale senza
lasciarsi trainare dal pensiero dei “tanti” e per poter costruire autonomamente il proprio progetto di
vita. Tuttavia, il fatto stesso che il bambino possa sbagliare, porta i genitori ad essere troppo
invadenti nella vita del figlio: esperienza è anche arrampicarsi su un albero, azione che potrebbe
essere letta come “se sali sull’albero cadi e ti fai male” portando così il genitore ad essere
iperprotettivo, negando al bambino di arrampicarsi o sgridandolo perché si è sbucciato un
ginocchio. Non vorrei, però, essere fraintesa: a parer mio, come quello di molti pedagogisti prima di
me, bisogna lasciar libertà al bambino, ma ciò non significa abbandonarlo a se stesso. Ci deve
essere preoccupazione e protezione da parte del genitore, ma in modo contenuto: il bambino, per
imparare deve commettere sbagli.