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Organizzare una scuola su misura per valorizzare la personalizzazione

Diletta Formicola

Abstract
Nel contesto educativo, con il termine personalizzazione si intende una strategia di
intervento didattico che vuole soffermarsi sulla centralità del soggetto, con i suoi metodi e
tempi di apprendimento, i suoi bisogni e i suoi desideri. Il punto di partenza della medesima
strategia è l’idea di una formazione che sia attenta alle differenze del singolo attraverso la
messa in atto di azioni che siano orientate alla valorizzazione di tutte le sue potenzialità.
Tale prospettiva porta ad una differente considerazione del ruolo dell’insegnante il quale,
rimanendo una figura chiave nell’ambito educativo, non si occupa più della semplice
trasmissione di nozioni attraverso lezioni frontali, ma è ora chiamato ad allestire una vera e
propria scuola comunitaria, capace di offrire al bambino gli stimoli necessari per il proprio
sviluppo cognitivo, sociale e affettivo.
Servendomi degli studi e delle letture di documenti di politica scolastica, delle ricerche e
delle mie conoscenze personali, mi propongo di sottolineare l’importanza
dell’organizzazione nelle scuole d’infanzia e primarie come precursore di un’educazione
autonoma cognitiva nel bambino.

Parole chiave: personalizzazione, formazione sensibile, insegnante, scuola comunitaria,


educazione autonoma.

Introduzione

Il Novecento è stato un secolo che ha lasciato un’impronta significativa in ambito educativo,


tanto da essere considerato, grazie al contributo di autori come Ellen Key, Maria Montessori, John
Dewey, Edouard Claparède e Célestin Freinet, il ‘secolo del fanciullo’.
Si tratta di un secolo che si è presentato come una vera e propria sfida nei confronti delle istituzioni
educative, al fine di rivalutare e migliorare alcuni aspetti dell’insegnamento e dell’apprendimento:
tali cambiamenti toccano prima di tutto il ruolo dell’insegnante, considerato fino a quel momento
figura centrale volta a favorire l’apprendimento; tuttavia, si è riscontrato che la posizione di
quest’ultimo era invece quasi opprimente per il bambino, negandogli tempi e spazi indispensabili. È
stata, al contrario, marcata la necessità di mettere al centro la figura del bambino, sostenendo
sempre più il concetto di individualizzazione, cioè “quella famiglia di strategie didattiche il cui

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scopo è quello di garantire a tutti gli studenti il raggiungimento delle competenze fondamentali del
curricolo, attraverso la diversificazione dei percorsi di insegnamento” (Baldacci, 2008, p.27).
Questa strategia prevede la messa in atto di metodi e percorsi di insegnamento differenziati
(selezione dei contenuti, uso di specifici strumenti, …) per il raggiungimento di fini comuni ma, al
contempo, anche di mete personali. Alcuni esempi di scuole predisposte in modo da personalizzare i
percorsi di apprendimento li ritroviamo in Gran Bretagna, Canada e Australia già a partire dalla
seconda metà dell’Ottocento.
La personalizzazione si presenta come una vera e propria sfida difficile da vincere a causa
della diffidenza degli insegnanti nell’attuare nuove metodologie di insegnamento ritenute troppo
lontane, quasi agli antipodi, dal loro metodo tradizionale, probabilmente perché troppo indirizzati
verso una visione educativa ancora poco aperta. Inizialmente, solo autori come quelli sopra citati
avevano compreso il vero significato del termine facendo della collaborazione e del confronto con
l’altro gli elementi chiave per lo sviluppo del bambino; l’esperienza in classe, nonostante non sia
sempre di facile realizzazione è, quindi, la più grande fonte di arricchimento personale.
Per far fronte ad una così pronunciata diffidenza, presente ancora oggi in molte realtà
europee, è opportuno far interagire tradizione e innovazione, facendo conoscere gli obiettivi che si
vogliono perseguire e le modalità con cui lo si vuole fare: solo così, con una continua informazione
e una successiva ricerca di metodologie alternative ma pur sempre ottimali, si potranno ampliare gli
orizzonti non solo degli insegnanti, ma anche dei genitori, talvolta scettici di fronte all’importanza
del ruolo dell’insegnante. Tale sfida educativa non potrà essere vinta se le scuole e le famiglie
saranno lasciate sole, ma solo se la comunità nelle sue diverse articolazioni saprà farsi carico delle
molteplici necessità che caratterizzano il mondo dell’educazione.
Come già affermato, il potere non è più nelle mani dell’insegnante: egli non è più esperto
organizzatore e trasmettitore di conoscenze predefinite, ma è colui che si fa carico di formare
persone capaci di essere autosufficienti, attive e creative, nel rispetto delle diversità individuali e
nella valorizzazione delle caratteristiche personali; si crea una comunità di apprendimento nella
quale l’educatore ha la funzione di guida e segue il discente durante tutto il suo percorso formativo.
La classe diventa estremamente importante dal momento che il bambino passa molto tempo
al suo interno, tanto che, per alcuni pedagogisti come la Montessori, viene denominata “casa dei
bambini”: è quindi bene domandarsi quali siano i criteri seguiti dall’insegnante nel disporre
l’ambiente scolastico in un determinato modo e quale tipo di organizzazione si presenti come più
efficace nel garantire il raggiungimento di un buon sviluppo del bambino.
La mia ipotesi è che la personalizzazione può essere conseguita con successo se si tiene
conto dei tempi, degli spazi e dei bisogni di ogni bambino.

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Alla luce delle fonti da me analizzate, sosterrò l’importanza del metodo di organizzazione scolastica
nelle scuole dell’infanzia e primarie cercando di definirne l’influenza sullo sviluppo cognitivo,
sociale e affettivo del bambino.

Metodi e fonti
Per la stesura del saggio mi sono servita non solo di studi personali dell’anno corrente e di
quelli passati, bensì anche della lettura di materiali informatici e didattici messi a disposizione
durante il corso universitario e il parallelo laboratorio. Per tracciare le dinamiche dell’argomento da
me proposto mi sono fatta propria, in particolare, dell’esperienza pedagogica della Montessori e di
Claparède, ma anche degli spunti offerti durante la conferenza del Festival dell’educazione, tenutasi
a Torino.

L’importanza della pedagogia differenziata


Il primo a servirsi di tale concetto fu Meirieu (1988), affermando la necessità di ordinare il
lavoro scolastico a misura degli allievi secondo pratiche e tecniche individualizzanti, come
l’utilizzo di schede autocorrettive e lavori di recupero e, al contempo, di moltiplicare le metodologie
didattiche in funzione della differenziazione fra gli allievi stessi come, invece, le lezioni frontali, il
lavoro di gruppo e l’impiego di risorse audiovisive.
A poco a poco prende piede la tecnica del cooperative learning, attraverso la quale gli
studenti lavorano in piccoli gruppi per attività di apprendimento, favorendo così la capacità di
confronto e di socializzazione. Questa tecnica è caratterizzata dal perseguimento di un obiettivo
comune e dal fatto che di ogni individuo che vi partecipa debba esserne riconosciuto il contributo;
nel clima di aiuto reciproco che si viene a creare, ogni bambino è chiamato a proporre una strategia
utile per raggiungere un fine precedentemente stabilito: l’insegnante, quindi, oltre ad avere il
compito di fare in modo che non si attenui la responsabilità individuale all’interno del gruppo, ha
anche quello di non indirizzare i discenti verso un’unica strategia possibile ma, al contrario, deve
fare in modo che tutti abbiano la possibilità di seguire la propria idea, accettando il diverso punto di
vista dei compagni con i quali collaborano.
Il Cooperative Learning implica, infatti, come afferma la Cohen, qualcosa di più che il
semplice riunire gli alunni in piccoli gruppi e chiedere loro di completare un compito. Se il lavoro
di gruppo si dovesse limitare a ciò, potrebbe risultare poco produttivo. Questo capita soprattutto
quando nei gruppi sono presenti gli alunni "leader": quelli che parlano più frequentemente,
prendono l’iniziativa, decidono al posto degli altri, interrompono, comandano. Ovviamente perché
l’interazione porti all’apprendimento c’è bisogno di rispettare i bisogni di tutti, mediante una
continua inclusione.
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Secondo la Tomilson (2005), la finalità, anche e soprattutto in questo tipo di apprendimento
per gruppi, è incrementare il potenziale di apprendimento di ciascuno studente mediante l’uso di
feedback, elemento centrale che fa da base alle forme continue di valutazione permettendo al
singolo di apprendere mediante un’interazione continua, come ci dimostra Hattie (2003) con la sua
graduatoria circa i fattori che maggiormente influenzano l’apprendimento.
In questo contesto il ruolo centrale non è più ricoperto dall’insegnante: ora, i protagonisti
sono i discenti, autori del loro lavoro dall’inizio alla fine, dall’organizzazione alla valutazione (parte
integrante e fondamentale della differenziazione), mentre l’insegnante è soprattutto un facilitatore e
un organizzatore dell’attività di apprendimento.
Si tratta di una modalità di apprendimento che, oltre a far sì che i bambini sviluppino
migliori capacità di ragionamento, di pensiero critico e di relazione, provoca un maggiore stato di
benessere psicologico, favorendo lo sviluppo di fattori indispensabili quali autoefficacia e
autostima, e permettendo di sopportare meglio le difficoltà e lo stress anche per quei bambini che
inizialmente si sentono meno capaci ma che poi, attraverso le azioni mirate dell’insegnate, si
sentono indispensabili per il buon funzionamento del gruppo. È quindi opportuno che l’adulto
conosca bene i limiti e le possibilità di ciascuno “attraverso una serie di valutazioni formative, come
i test, i lavori degli studenti e le conversazioni” (Mincu, 2012, estratto di “A ciascuno la sua
scuola”).

Scuola: l’ambiente ‘su misura’ del bambino


Maria Montessori è oggi conosciuta per le innovazioni apportate alla realtà educativa,
proprio a partire dall’organizzazione dell’ambiente scolastico, fino a quel momento pensato e
realizzato su misura dell’adulto. In un ambiente così concepito, il bambino non si trova a suo agio e
quindi nelle condizioni per poter agire spontaneamente.
Dal momento che il bambino deve raggiungere obiettivi propri, oltre a quelli dettati
dall’insegnante, è opportuno offrirgli la possibilità di esplorare e conoscere se stesso e la realtà
circostante realizzando materiale cognitivo specifico per lo sviluppo dell’educazione sensoriale e
motoria, materiale adeguatamente contenuto nei cosiddetti ‘cestini dei tesori’, di cui ne parlò per
prima Elinor Goldshmied.
Alla ricerca, all’esplorazione, all’avventura il bambino deve essere stimolato e incoraggiato.
Per fare in modo che l’educando possa muoversi liberamente, l’ambiente deve essere non più a
misura di adulto, bensì di bambino: ogni cosa, dagli scaffali alle sedie e ai servizi igienici, deve
essere adeguata alle sue esigenze e ai suoi bisogni. Il bambino è libero nella scelta del materiale.
Tutto deve scaturire dal suo interesse spontaneo, sviluppando così un processo di autoeducazione e
di autocontrollo.
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L’ambiente deve dar spazio alla libertà del bambino anche se, attualmente, l’esplorazione e
il gioco sono sempre più spesso confinati in spazi chiusi e dettati da regole, con orari da rispettare
per far rumore. Tuttavia, anche un luogo chiuso deve essere ben strutturato, differenziato,
accogliente, stimolante, comunicativo, ordinato e flessibile, oltre ad essere sicuro. Solo in questo
modo è possibile tenere in considerazione le capacità motorie del piccolo, le capacità mentali e
operative per consentirgli di sentirsi a proprio agio e per rispondere alle esigenze in ogni sua fase di
sviluppo.
In questo senso è interessante osservare come la creatività del bambino riesca ad emergere
in un ambiente che lo faccia sentire a proprio agio: qui, è infatti più facile incamminare il bambino
verso il proprio percorso di apprendimento attraverso un iniziale cold task, cioè brevi esempi di
scrittura, proseguendo con la familiarizzazione del testo mediante l’imitazione: l’insegnante si
presta a raccontare una storia fino a che non verrà raccontata fluentemente a memoria dai discenti;
questi ultimi iniziano a imparare a quattro anni attraverso il ‘talk for writing’ (pratica attraverso cui
si verifica un miglioramento della comunicazione e dell’attenzione nel bambino) quindi, ogni anno,
i testi proposti diventano più difficili. Successivamente, il bambino diventa capace di innovazione,
cioè sostituisce, aggiunge, cambia aspetti della storia ormai conosciuta, basandosi sulla propria vita
affettiva. Infine, l’educando sarà in grado di inventare, costruire una nuova storia, attingendo ad una
vasta gamma di stimoli ed esperienze.
Un esempio concreto di scuola basata sull’insegnamento creativo è la ‘Warren road primary
school’, nel Regno Unito.
Devono essere evitati spazi troppo ampi perché dispersivi e disorientanti: la scelta di spazi
più ridotti risulta, invece, permettere un maggior numero di relazioni. In modo particolare le classi
composte da bambini di età diversa sembrano essere più stimolanti, sia sul piano cognitivo che su
quello relazionale, delle classi con uno stesso livello di sviluppo. In ogni caso, indipendentemente
dal tipo di scelta di suddivisione dei bambini, una sezione crea un ambiente riconosciuto come
proprio dal bambino: il piccolo riconosce che quella è la sua aula, con i suoi compagni e le loro
routines, e tutto ciò crea nel bambino stabilità, continuità e soprattutto rafforza il suo senso di
sicurezza. Emerge quindi quanto la ripetizione e la prevedibilità siano fondamentali nei primi anni
di vita.
Oltre alla Montessori, altro importante pedagogista a parlare di una vera e propria ‘scuola su
misura’ è Edouard Claparède, il quale presenta quattro soluzioni per far fronte alle attitudini (cioè le
predisposizioni naturali a comportarsi in un certo modo, a comprendere o a sentire di preferenza
certe cose o a eseguire certe specie di lavori - attitudine alla musica, al calcolo, alle lingue straniere,
ecc.):

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le classi parallele, le classi mobili, l’aumento del numero delle sezioni nelle scuole secondarie
(sezioni parallele) e, infine, il sistema delle opzioni, con un più largo margine concesso alle
occupazioni individuali di ogni alunno. Le prime si differenziano sia per il fatto che, essendo
minore il numero degli alunni, è possibile curare meglio i singoli; le seconde sono così chiamate
perché ci si riferisce al sistema che permette all’alunno di eseguire, per le diverse materie, lezioni di
grado diverso; le terze permettono un grado di scelta di cui potrà beneficiare la cultura delle
capacità speciali; l’ultima soluzione, invece, riprende il fatto che la scuola debba adattarsi alla
mentalità dei singoli: “la scuola deve essere ben rispondente alle forme delle intelligenze come un
vestito o una calzatura a quelle del corpo o del piede” (Claparède, 1920, p.51). Tuttavia, poiché non
si può avere una scuola per ciascun fanciullo, il sistema che risponderà al massimo ai desideri della
scuola su misura sarà quello che permetterà ad ogni alunno di servirsi di tutti quegli elementi
favorevoli allo sviluppo delle sue attitudini particolari.

Le più recenti innovazioni


Questione rilevante è il rapporto che si stabilisce tra l’apprendimento e le nuove tecnologie
nella ‘società dell’informazione’. Il continuo cambiamento della società inaugura nuove modalità di
produrre e crea nuovi stili di vita legati al mondo della virtualità. Accanto alla società
dell’informazione si è sviluppata la ‘società della rete’: si produce in rete, si lavora in rete, si ricerca
e addirittura si studia in rete.
Possiamo riferire il motto di Albert Einstein “la cosa più strana del mondo è la sua
incomprensibilità” al mondo digitale in quanto la rete costituisce una fonte permanente di
insicurezza. Parallelamente si fa strada la nozione di “mente ecologica”, proposta da Gregory
Bateson (1960), secondo la quale l’apprendimento si configura come l’organizzazione di un
contesto rispetto al nuovo e all’ignoto, cioè come la capacità di reagire, di essere interattivi e di
imparare dall’errore, simile a quanto afferma Edgar Morin (1967): alla ‘ragione della certezza’ si
sostituisce la ‘ragione della possibilità’, sottolineando l’importanza della capacità di confrontarsi
con la multifattorialità. Saper convivere e saper gestire l’incertezza rappresenta una delle condizioni
che portano al raggiungimento del successo educativo.
Pertanto, è opportuno mettere a disposizione dei bambini anche strumenti digitali: saper
usare il computer, saper interagire con un ipertesto, saper ricavare dei materiali culturali dalle
risorse di rete, saper stabilire rapporti di apprendimento con altri a distanza rappresentano altrettante
opportunità per ampliare le strategie cognitive e potenziare le conoscenze del soggetto in
formazione. Gli insegnanti sono, quindi, invitati a colmare ritardi e lacune di tipo tecnico. Una delle
difficoltà è rappresentata dalla cosiddetta ‘divergenza cognitiva’ tra docenti e allievi: questi ultimi
vantano spesso competenze superiori a quelle dei loro insegnanti. Dopo McLuahn, Don Trapscott
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ha osservato che “per la prima volta i figli si muovono con maggiore agio dei loro genitori davanti a
una innovazione centrale per la società e sono più informati e istruiti al riguardo” (Chiosso, 2008,
p.67) e proprio in virtù di questo vantaggio, Ferri afferma che “la net-generation svilupperà e
imporrà la sua cultura al resto della società” (anno in Chiosso, 2002).
Anche in questo caso, l’ambiente gioca un ruolo considerevole: tutto ciò, infatti, presuppone
l’organizzazione di adeguati ambienti di apprendimento dove sperimentare le modalità di
acquisizione delle capacità cognitive, cooperative ed emotive necessarie per il dominio personale
degli strumenti tecnologici. Ciò nonostante, non basta distribuire in modo capillare computer e
lavagne interattive e moltiplicare i contatti in rete per misurare il progresso in campo telematico.
Certamente chi possiede un computer e sa meglio maneggiarlo gode di maggiori opportunità, ma il
fulcro educativo del problema sta nella padronanza strumentale, nella consapevolezza critica con
cui l’uomo si mette in relazione con le nuove tecnologie. Il bambino deve essere, per questo motivo,
educato sin da subito a ragionare in modo critico: il discente capace di giudizio, infatti, si preoccupa
non solo di ‘come fare’, ma si interroga sul ‘perché fare’.
Emerge, in molti casi, ancora la tendenza da parte degli educatori a lasciar poco spazio a
questo tipo di apprendimento, rimanendo ancorati alla tradizione, dove l’insegnamento era basato su
una trasmissione di nozioni tramite strumenti cartacei; bisognerebbe, piuttosto, allargare i propri
orizzonti verso nuove metodologie che potrebbero suscitare nel bambino un maggiore interesse e
una spiccata curiosità.
In molte scuole italiane, purtroppo, gli stimoli ricevuti nel corso della lezione tradizionale
sono ancora nettamente inferiori rispetto a quelli che i bambini sono abituati a ricevere al di fuori
delle mura scolastiche. Non suscita stupore, infatti, il fatto che già nei primi dieci minuti i ragazzi
possano perdere interesse e aver spento la parte ricettiva del cervello.
Già in molti Paesi come l’America, l’Australia e l’Inghilterra i governi stessi hanno
introdotto politiche per fornire le scuole e i docenti non solo della tecnologia necessaria, ma anche
dell’aggiornamento delle competenze e dei nuovi metodi di insegnamento: come sottolinea
Tommaso Cruciani in “Perché la tecnologia nelle scuole”, la dotazione di tablet multimediali agli
studenti renderebbe il loro apprendimento molto più efficace, superando metodi d'insegnamento
oramai inadeguati. Attualmente, in molte scuole europee, le semplici lavagne sono state sostituite da
lavagne digitali dove gli insegnanti possono quotidianamente caricare le lezioni preparate a casa.
Grazie alla creazione di un sito on-line per ciascuna classe, tutte le informazioni perse per assenza o
disattenzione sarebbero a disposizione immediata degli studenti. Questa facile reperibilità delle
informazioni necessarie per uno studio efficace risolverebbe uno dei problemi delle scuole in Italia,
appunto la mancanza di organizzazione.

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Analisi e conclusioni
Il 26 novembre 2016 ho avuto l’opportunità di partecipare al Festival dell’educazione
‘Insegnanti on the move’ a Torino.
Mi sono servita di alcune tracce, studi e ricerche messe a disposizione in questa conferenza per
delineare l’argomento da me proposto e continuo servendomi, invece, dell’esperienze di ex
studentesse (non avendo ancora avuto la possibilità di farne una all’estero): alla Davon school, in
Inghilterra, ho trovato interessante che la giornata tipo inizi presto: gli insegnanti, infatti, arrivano
anche un’ora e mezza prima per organizzare l’ambiente e le attività che verranno proposte nel corso
della giornata: ciò dimostra un forte senso di preoccupazione, di interesse e di disponibilità. Qui gli
ambienti sono molto stimolanti e accessibili e si registra un ampio uso della tecnologia. Attraverso
un processo conosciuto come ‘the learning tree’ (creato nel 2005-2006), in cui le foglie gialle
dell’albero rappresentano le discipline e le abilità che richiedono un miglioramento e quelle verdi
ciò che invece va bene, i bambini vengono divisi per gruppi di abilità, non fissi, per condurre uno
stesso argomento, ma a livelli differenti: gli obiettivi sono strettamente individuali e ogni allievo
riceve feedback costanti e rinforzi positivi indispensabili per rafforzare un comportamento.
Il sistema scolastico considerato al top dagli studi PISA (Programme for International
Student Assessment - Programma per la Valutazione Internazionale dell’Allievo) è quello della
Finlandia, in cui si fa sempre più strada il concetto di personalizzazione: si educa ogni singolo
bambino avendo, però, ben presente l’idea di classe. Le scuole finlandesi sono, probabilmente,
quelle che più di tutte rispettano l’importanza delle pause: ogni 45 minuti di lezione si fanno pause
da 15 minuti per lasciar tempo ai bambini di scaricarsi e sfogarsi, per poi tornare a seguire la
lezione con maggiore attenzione e concentrazione. Oltre a ciò, la pausa offre benefici fisici,
emozionali e sociali, tanto che non deve essere ridotta o negata a causa di un comportamento
scorretto.
All’inizio di ogni lezione, l’insegnante espone gli obiettivi che devono essere raggiunti, per poi
lasciare il bambino libero di scegliere: si tratta di una novità piuttosto recente, il ‘Phenomenon
based learning’, che permette all’alunno di scegliere liberamente l’argomento da affrontare, con chi
lavorare, come organizzare i compiti e come presentare il lavoro; inoltre, il bambino acquisisce
anche un senso di responsabilità attraverso la valutazione propria e del gruppo.
Già da poche righe e pochi concetti possiamo notare quanto il sistema scolastico finlandese sia
funzionale per garantire un’ottimale formazione dei bambini.
Mi hanno colpito in modo particolare gli aspetti sopra citati per il fatto che rappresentano
modalità efficaci al fine di far crescere il bambino indirizzandolo verso il rispetto dei valori e delle
norme della società di appartenenza lasciandolo, al tempo stesso, libero di orientare il proprio
apprendimento sulla base dei suoi bisogni, desideri e capacità.
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Il concetto di ‘libertà del bambino’ è il caposaldo delle scuole democratiche, il cui primo
fondatore fu Alexander Neel. Si tratta della fiducia dell’adulto nei confronti del bambino, cercando
di allontanarsi dalla schiavitù del metodo e lasciando il campo alla contaminazione di tutti coloro
che abbiano qualcosa da insegnare.
Sostengo che, prendendo spunto dalle opportunità offerte e dalle modalità di insegnamento
adottate da altre scuole, probabilmente anche le nostre scuole italiane potranno godere di
miglioramenti significativi, promuovendo un percorso educativo e formativo efficace per ogni
bambino.
In conclusione, quindi, dal momento che molti docenti mostrano difficoltà nel comprendere
il significato del termine ‘personalizzazione’, è opportuno offrire un’adeguata formazione degli
insegnanti mediante una ricerca e un confronto riguardo al suo significato e sui metodi attraverso
cui tale concetto possa essere messo in pratica; questo perché gli insegnanti sono quelli che
influenzano ampiamente la riuscita degli studenti (Hattie, 2003).
L’insegnante, quindi, da semplice dispensatore di contenuti diventa la pedina fondamentale per
offrire un apprendimento differenziato ed è proprio sul tipo di organizzazione delle modalità
educative che egli adotta che bisognerebbe porre la propria attenzione, affinché possa esserci un
continuo progresso.

Bibliografia
Claparède, E. (1969). La scuola su misura. La nuova Italia. (pp. 44-52)

Hattie, J. (2003). Teachers Make a Difference: What is the research evidence?

Chiosso, G. (2008). I significati dell’educazione. Teorie pedagogiche e della formazione


contemporanea. Mondadori

Montessori, M. Educare alla libertà (2008). Mondadori. Disponibile presso:


http://95.85.54.206/B01LXJ426H/educare-alla-liberta.pdf

Quale valutazione nell’ambito della differenziazione? In Mincu, M.E. (2012). A ciascuno la sua
scuola. Torino: Società Editrice Internazionale

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