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appunti per storia: l’omosessualità

L'omosessualità maschile era "punitiva": si sodomizzavano prigionieri, nemici,


schiavi, liberti, o stranieri, per dominarli. Si soggiogava la virilità altrui. Era una forma di
potere e dominio, non di piacere. Ma dopo l'espansione di Roma in Grecia, nell'Urbe
arrivarono tanti aspetti della cultura greca, e si diffuse anche quello che i romani
definirono il "vizio greco", che avrebbe rammollito l'antico vigore di Roma. I romani
non erano contrari all'omosessualità, perché trovavano del tutto normale che un uomo
sposato (un pater familias) si portasse a letto uno schiavo o pagasse un prostituto per
sodomizzarli. Quello che non potevano accettare erano due cose: la pederastia, cioè l'amore
per un ragazzo libero, e dare piacere a un altro uomo. Promulgarono anche delle leggi in
questo senso, la più famosa delle quali fu la Lex Scatinia, che puniva lo stuprum cum puero,
cioè qualsiasi forma di sesso con ragazzi romani liberi di età inferiore ai 14 anni, e la
posizione passiva di un cittadino romano durante un rapporto omosessuale. La multa
arrivava fino a 10.000 sesterzi. Se sodomizzare (paedicare) un giovane cittadino romano era
vietato, non lo era però sodomizzare i giovani schiavi, che pur essendo anche loro
degli adolescenti, erano considerati semplicemente delle "cose", e così trattati. Non
possiamo che immaginare la sofferenza e i traumi psicologici che subirono milioni di ragazzi
abusati.

Per un uomo romano, insomma, gli amori omosessuali leciti erano quelli con schiavi o
prostituti: e proprio questi ultimi diventarono una categoria particolare nel mondo della
prostituzione, una vera élite. Se le prostitute si vendevano per poco, essi invece chiedevano
somme molto alte e regali costosissimi. Giovani, sensuali, desiderati da tanti, erano spesso
viziati e capricciosi, costringendo i loro amanti a veri salassi economici anche sotto forma di
cibi pregiati (come delle giare di caviale dal Mar Nero). Al punto che Catone il Censore arrivò
a dire che per un prostituto si sperperavano
sesterzi in tal quantità che si sarebbe potuta comprare un'intera fattoria.

Per quanto riguarda le donne, il discorso era diverso. Se l'omosessualità maschile era
accettata, pur con alcuni divieti, quella femminile era invece assolutamente condannata in
tutte le sue forme. La società romana era maschilista, come abbiamo detto, e la
donna veniva vista solo in funzione della sua capacità riproduttiva, dell'educazione
dei figli e della cura della casa. E in questa radicata convinzione del romano sta la ragione
fondamentale della sua assoluta incapacità di concepire che esistessero delle donne che
preferivano essere amate da altre donne:per lui, erano solo delle povere folli, o delle malate
che tentavano vanamente e oltraggiosamente di usurpare le prerogative maschili. Erano
cittadine libere ma avevano comunque tante restrizioni, a cominciare dal fatto, per esempio,
che nei banchetti, sebbene potessero sdraiarsi accanto agli uomini e mangiare,
nella seconda parte del banchetto, quando ci si dedicava al vino, dovevano alzarsi e
allontanarsi. Almeno così avveniva in quel tempo. L'omosessualità femminile, dunque, era
vista come la peggiore delle depravazioni per una donna. Non era solo reputata "contro
natura" (persino
nell'analisi dei sogni erotici di Artemidoro), ma considerata alla stregua di un adulterio, e
come tale poteva essere punita, cosa che invece non accadeva se un uomo
andava a letto con un altro uomo o con un prostituta. Nella testa di un maschio romano,
anche aperto alle gioie del sesso come Marziale, l'omosessualità femminile era
qualcosa di mostruoso e disgustoso. Con l'arrivo del cristianesimo, poi, le cose
peggiorarono: Paolo cita tra le cause dell'ira divina contro i pagani proprio l'omosessualità
delle loro donne... Nonostante questo, le lesbiche segretamente si amavano, si
corteggiavano, si facevano regali e facevano sesso. A Pompei sono riemersi due
graffiti di lesbiche incisi nell'intonaco e indirizzati alle loro compagne. In uno dei due, una
donna mette in guarda la sua "amata" dal tornare ad amare l'uomo, che è inaffidabile e un
poco di buono. Da questo
graffito emerge, insomma, che non solo l'omosessualità, ma anche la
bisessualità era diffusa tra le donne romane.

L'uomo romano era bisessuale. La morale dell'epoca infatti spingeva a


educare e a indirizzare i figli maschi in questa direzione. Perché? Per noi
può sembrare sorprendente, ma duemila anni fa le cose stavano in
modo diverso. E bisogna entrare nella mentalità romana per capire il
motivo. L'uomo romano, il civis Romanus, è innanzitutto spronato fin
dall'infanzia, a essere un dominatore e a imporsi ovunque possibile. Tanto
in guerra, quanto in politica e in società, ma soprattutto in famiglia. Tra le
quattro mura domestiche infatti l'uomo, il pater familias, è il padrone
assoluto, un semidio, con potere persino di vita e di morte su moglie, figli
e schiavi (soprattutto nelle epoche più arcaiche e in età repubblicana). È
un'etica diversa dalla nostra, tipica di una società maschilista. L'uomo
romano in effetti è un "macho"...
Ma allora perché un uomo romano deve essere bisessuale e non invece
spiccatamente eterosessuale, dal momento che per dimostrare il suo ruolo
di maschio gli "basterebbe" dominare la donna? Perché il suo pensiero di
dominio va oltre la donna: deve dominare tutti. La mentalità dell'uomo
romano è di essere un vincente e di imporre la sua volontà su tutti: sui
popoli nemici con le armi e le leggi, sugli altri romani con la ricchezza o lo
status sociale (di solito vanno di pari passo), e su persone di rango
inferiore anche con... la sua sessualità. La sua virilità insomma è uno
strumento per dimostrare la sua superiorità e per sottomettere gli "altri". E
per "altri" intendiamo tutti: uomini, donne e ragazzi.
Non a caso la professoressa Eva Cantarella, profonda conoscitrice della
sessualità in età greca e romana, indica l'uomo romano come un uomo
dalla sessualità prepotente, arrogante, per non dire addirittura predatoria.
L'uomo romano quindi emerge sotto una luce inattesa e sorprendente.
Come considerare allora le poesie di Catullo? Erano poesie vere: l'uomo romano
sapeva essere romantico, ma erano intervalli in un rapporto con la donna (e con gli
"altri") sempre all'insegna della prepotenza. Non a caso, ricorda Eva
Cantarella, mai e poi mai un uomo romano in campo sessuale doveva
essere sottomesso. Ed ecco perché i romani avevano l'abitudine di
sodomizzare i nemici sconfitti. Potremmo così concludere che l'organo sessuale di un
uomo romano, insomma, avesse tre usi molto distinti: procreare, provare piacere (o dare
piacere, e in questo il maschio romano se ne arrogava il monopolio) e
imporre il dominio sugli altri.
Quindi se torniamo alla domanda iniziale, "Perché i romani crescevano i
figli maschi per farli diventare bisessuali?", la risposta è non certo per il
piacere, ma per motivi "politici" e culturali; in una parola: per imporre il
potere. In questo senso va vista anche la leggenda del "ratto delle Sabine",
cioè il rapimento di donne per sesso e riproduzione, se volete uno stupro di
massa che si trova addirittura alla base delle origini di Roma.
Naturalmente questo discorso segue linee generali, molti romani erano
dolci e premurosi e non amavano affatto avere rapporti sessuali con altri
uomini: erano "etero" a tutti gli effetti. E bisogna vedere poi nella pratica
quanto riuscissero a essere "predatori" di altri uomini. Ma quello di cui
stiamo parlando è l'inquadramento etico della società romana. In pratica la
cultura e la mentalità che ogni uomo romano aveva in sé.
Quest'impostazione, ben radicata soprattutto nei primi secoli della storia
di Roma, rimarrà presente comunque fino alla fine. Ma senza andare a
duemila anni fa, sono molte, ancora oggi, le parti del mondo in cui lo
stupro di un uomo da parte di un altro uomo è un segno di dominio.
a differenza dei greci, i romani non ritenevano che, per i ragazzi, essere soggetti passivi di
un rapporto omosessuale fosse educativo. Per certi versi, anch'essi equiparavano i ragazzi
alle donne: ad esempio, perché incapaci di intendere e di volere, e come tali sprovvisti,
giuridicamente, della capacità di agire. Ma sessualmente i ragazzi erano uomini, anche se
solo in potenza: e come tali non dovevano mai essere sottomessi. Mai, nell'intero corso della
vita: soprattutto, per ragioni evidenti, in un momento così delicato come quello
dell'adolescenza.
La mentalità sessuale del maschio romano (in perfetto accordo con la sua etica politica) era
quella dello stupratore. Uno stupratore convinto fino in fondo, tra l'altro, di avere la
prerogativa, sottomettendo, di dispensare il piacere (anche se, in realtà, delle esigenze di chi
sottometteva assai poco si preoccupava). E in questa radicata convinzione del romano sta la
ragione fondamentale della sua assoluta incapacità di concepire che esistessero delle
donne che preferivano essere amate da altre donne:per lui, erano solo delle povere folli, o
delle malate che tentavano vanamente e oltraggiosamente di usurpare le prerogative
maschili. Questa essendo la mentalità del maschio adulto, è evidente che l'educazione
sentimentale del ragazzo romano (se così vogliamo chiamarla) non poteva neppure
lontanamente assomigliare a quella del ragazzo greco. Per non parlare del fatto che, a
Roma, l'adolescenza era breve: a quattordici anni, un ragazzo era già considerato un adulto.

Il cristianesimo aveva introdotto un modo nuovo di guardare al sesso, che discendeva dalla
tradizione ebraica: aveva introdotto il principio della «naturalità» dei soli rapporti
eterosessuali. L'opposizione pagana attività-passività, che identificava la virilità con
l'assunzione del ruolo sessuale attivo, sia con le donne sia con gli uomini (e che aveva
informato, anche se in modo completamente diverso, la morale dei greci e dei romani), era
contraria alla nuova religione di Stato, che condannava l'omosessualità in tutte le sue
manifestazioni. Gli imperatori, per essere coerenti fino in fondo, avrebbero dovuto anche loro
condannarla. Ma far questo avrebbe significato scontrarsi con un'etica ispirata, per secoli, a
una concezione della mascolinità quantomeno in teoria mai venuta meno. La politica
legislativa non poteva non tenerne conto: quel che era possibile fare subito (e venne fatto)
fu, in un primo momento, una sorta di compromesso: la condanna durissima della sola
omosessualità passiva. A partire dal 342, con Costanzo e Costante, la repressione ebbe
inizio. Teodosio I, nel 390, tornò sull'argomento, e nel 438, per volontà di Teodosio II, tutti gli
omosessuali passivi vennero condannati al rogo.
Ma il rispetto della morale cristiana richiedeva ben di più: gli omosessuali, passivi o attivi che
fossero, commettevano il peccato imperdonabile e innominabile, che più di ogni altro
offendeva il Signore. Bisognava garantire che tutti coloro che si davano agli atti «contro
natura» venissero puniti. E Giustiniano lo fece: tutti gli omosessuali, indipendentemente dal
ruolo assunto, furono da lui condannati a morte. Il concetto di natura era cambiato: per
lunghi secoli, per le donne era stato «secondo natura» essere sottomesse, per gli uomini era
stato «secondo natura» sottomettere donne e uomini. Ora, la natura non concedeva scelte
alternative, neppure a loro: l'unico atto «secondo natura» era quello eterosessuale.
Ma i romani, o meglio i “cives” romani, cioè quelli che erano considerati cittadini di Roma,
praticavano l’omosessualità solamente con gli schiavi e con i liberti. La Lex Scatinia (149
a.C.) condannava espressamente l’adulto nel caso di rapporti omosessuali tra adulto e puer
o praetextati (da praetexta, la toga bianca orlata di porpora che portavano i ragazzi ancora
non maturi sessualmente, quindi bisognerebbe parlare di pedofilia), mentre nel caso di
rapporto omosessuale tra cittadini liberi adulti veniva punito quello che tra i due assumeva il
ruolo passivo, con una multa di 10.000 sesterzi.

Uno dei casi più conosciuti di amore omosessuale fu quello fra Adriano e Antinoo: i due si
conobbero durante un viaggio dell’imperatore in Bitinia, paese d’origine del ragazzo, nel 123:
Adriano aveva 45 anni e Antinoo 14. Il ragazzo tornò insieme all’imperatore a Roma e,
vivendo nella sua villa a Tivoli, creò uno speciale legame con l’imperatore grazie all’amore
comune per lettura, arte e caccia. Questo è rappresentato bene nei tondi adrianei, nell’arco
di costantino a roma, in cui possiamo vedere una scena di caccia probabilmente avvenuta
nella realtà. Antinoo morì nel 130 per affogamento durante una crociera con l’imperatore Sul
nilo: alcuni danno la colpa a vibia sabina, la moglie di adriano, per la quale antinoo era
diventato una minaccia, altri ai parenti di adriano, gelosi del rapporto esclusivo che il
ragazzo aveva instaurato con lui, altri pensano si tratti di un semplice incidente. Costernato
per la morte di Antinoo, Adriano, che era sempre stato un ammiratore e sostenitore
appassionato dell'antichità classica greca, così come un benefattore dell'Oracolo di Delfi,
fece ordinare che tutta una serie di statue del bellissimo giovane, che aveva amato così
appassionatamente, fossero erette in tutti i santuari e le città del suo vasto impero. Inoltre,
ordinò l'istituzione e la creazione di giochi in onore di Antinoo, che da allora in poi è stato
onorato e adorato come un dio (venne anche rappresentato come Bacco, Aristeo e Osiride).
Le rappresentazioni che ritengo più belle e significative sono:

1) L'Antinoo di Delfi, rinvenuto nel sacrario di Apollo delfico durante un'operazione di


scavo
2) Ritratto di Antinoo, scoperto nel XVIII secolo nella villa Adriana a Tivoli, oggi al
Museo del Louvre di Parigi
3) Antinoo Farnese, 130-138 d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale

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