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CAPITOLO 4

A PARTIRE DALL’UNITÀ DI DIO


I primi due modelli grazie ai quali la riflessione credente ha tentato di dare ragione del
mistero trinitario assumono come punto di partenza l’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito
Santo. Lo fanno con due approcci differenti, complementari, che pur rappresentando una
ricchezza per il diverso apporto che offrono, tuttavia non poche volte hanno condotto ad
incomprensioni tra i teologi e le Chiese.

Il modello di unità personale (Unus in trinitate)

Il primo modello interpretativo è denominato di unità “personale” perché considera


l’unità come realizzata in forma personale nel Padre: egli è l’ajrchv, l’origine, e la phghv, la fonte
della vita divina, che “possiede” in maniera personale l’essenza divina e, unico senza origine, ne
partecipa eternamente al Figlio, nella generazione, e allo Spirito, nella spirazione o processione.
Tale modello conserva una profonda prossimità al linguaggio ed alle immagini bibliche e,
dunque, all’automanifestazione trinitaria originaria, narrata nella Scrittura. Partendo da tale
narrazione e forti della via che l’assioma fondamentale indica alla riflessione teologica, si può
affermare che, poiché «nel suo farsi incontro agli uomini Dio si mostra così come è in sé, allora le
missioni storico-salvifiche del Figlio e dello Spirito da parte del Padre rimandano al fatto che la
Persona del Padre è origine e fonte del Figlio e dello Spirito anche a livello intratrinitario».1
Tale modello caratterizzò tutta la riflessione teologica dei primi tre secoli ed è oggi tipico
della visione del mistero trinitario propria della tradizione orientale. Lasciamo quindi che sia un
eminente teologo ortodosso, Ioannis Zizioulas, a presentarci i tratti peculiari di tale modello:
L’essere stesso di Dio si identifica con la Persona. Questo processo si realizza durante il dibattito
sulla Trinità, principalmente con la teologia dei Padri Cappadoci, specie di Basilio di Cesarea: teologia
che qui ci interessa soltanto in quanto concerne un punto fondamentale, purtroppo trascurato
d’abitudine. Sappiamo che la formulazione finale del dogma della Trinità dichiara: «Una sostanza, tre
persone». Si potrebbe dedurne che l’unicità di Dio, l’essere di Dio, consista nella sostanza divina. Questo
ci riporterebbe all’ontologia greca: Dio è “prima” Dio (la sua sostanza o natura, il suo Essere) e “poi”
esiste (eternamente certo!) come Trinità, cioè in tre Persone. Questa interpretazione prevalse di fatto
nella teologia occidentale e purtroppo penetrò nella dogmatica ortodossa contemporanea e nei suoi
manuali, dove il capitolo sul Dio Uno precede quello sul Dio trinitario. […]
Ma questa interpretazione è in realtà soltanto una cattiva lettura della teologia trinitaria
primitiva. Per i padri greci l’unicità di Dio, il Dio Uno, così come il principio o causa ontologica della
vita personale-trinitaria di Dio, non consistono nella sostanza unica di Dio ma nell’ipostasi, cioè nella
persona del Padre. Il Dio unico non è la sostanza unica ma il Padre, che è la causa (aitía) della
generazione del Figlio e della processione dello Spirito. Di conseguenza il principio ontologico di Dio è
ricondotto ancora alla persona.2
Il primo fondamento di tale modello interpretativo lo si può ritrovare nello stesso Nuovo
Testamento, ed in particolare nella constatazione che quando qui il nome di Dio è impiegato in
senso assoluto, senza ulteriori precisazioni, è utilizzato per designare appunto il Padre. Dalla
Scrittura questo modo di utilizzare il nome di Dio passerà anche nelle formulazioni della fede
della Chiesa; quando nei Simboli della fede, infatti, si confessa che noi crediamo “in un solo Dio”
non ci si sta riferendo ad una indistinta sostanza divina, ma si sta confessando la fede nel “Padre
onnipotente creatore del cielo e della terra”.
Sarà soprattutto la prima riflessione teologica sul mistero della Trinità a tracciare le
coordinate di questo modello, sottolineando che il Padre è la fonte e l’origine della divinità.

La teologia dei primi tre secoli

Il contributo che la teologia dei primi tre secoli, in modo concorde sia in oriente che in
occidente, ha offerto al riguardo del mistero trinitario è di un’importanza decisiva. Non se ne può
qui illustrare tutta la ricchezza. Si darà voce solo a tre colonne della teologia, due della tradizione

1
GRESHAKE, Il Dio unitrino, 69.
2
I. ZIZIOULAS, L’essere ecclesiale, Qiqajon, Magnano 2007, 38-39.

1
orientale e una di quella occidentale, Origene, Gregorio di Nazianzo e Tertulliano, per il ruolo
particolarmente autorevole da loro assunto in tutta la riflessione teologica e, in particolare, nella
formulazione della dottrina trinitaria.
Origene, in un passaggio del suo meraviglioso commento al vangelo di Giovanni, ed in
particolare alle prime parole del Prologo, utilizza esplicitamente il termine phghv, fonte, per
parlare della Padre
Prima di accostarsi al commento di Origene è necessario riportare nell’originale greco – se
ne comprenderanno a breve le ragioni – il dettato evangelico: jEn ajrch`/ h\n oJ Lovgoç, kaiV oJ Lovgoç
h\n proVç toVn Qeovn, kaiV Qeovç h\n oJ Lovgoç. Ou|toç h\n ejn ajrch`/ proVç toVn Qeovn – ecco la traduzione letterale:
«In principio era il Logos, e il Logos era presso il Dio, e Dio era il Logos. Costui era in principio
presso il Dio» (Gv 1,1-2).
Il commento del Padre Alessandrino si sofferma diffusamente su questi due versetti.

COMMENTO AL PROLOGO DI GIOVANNI

2.13. Affatto intenzionale e non dovuto certo ad ignoranza dell’uso esatto della lingua greca è anche il fatto
che Giovanni talvolta ha messo e talvolta invece ha omesso l’articolo: l’ha messo davanti alla parola Logos, quando
invece parla di Dio talvolta l’ha messo e talvolta no.
14. Mette l’articolo quando il termine «Dio» si riferisce al Creatore increato dell’universo, lo omette invece
quando esso si riferisce al Logos. Come, dunque, vi è differenza tra il termine Dio con l’articolo (oJ qeovç) e senza
articolo (qeovç), così forse vi è differenza tra Logos con l’articolo (oJ lovgoç) e senza articolo (lovgoç): [15] come il
Dio dell’universo è «il Dio» (oJ qeovç), e non semplicemente «un dio» (qeovç), così la fonte del logos che è in ciascun
essere dotato di logos è «il Logos» (oJ lovgoç), mentre non sarebbe esatto chiamare «il Logos» allo stesso titolo del
«primo Logos» quello che è in ciascun [essere dotato di Logos}.
16. Mediante queste distinzioni è possibile trovare una soluzione alla difficoltà che turba molti, i quali
vorrebbero conservare l’amore di Dio, ma per il timore di affermare due dèi incappano all’estremo opposto in dottrine
false ed empie: infatti o negano al Figlio una individualità (ijdiovthta) distinta da quella del Padre, pur ammettendo
che sia Dio colui che, a parer loro, soltanto di nome è chiamato «Figlio»; oppure negano al Figlio la divinità,
salvandone la individualità (ijdiovthta) e la sostanza [individualmente] circoscritta (oujsivan kataV perigrafhvn),
concepita come distinta da quella del Padre.
17. Occorre dire a costoro: Dio (oJ qeovç) è Dio-in-sé (aujtovqeoç); e per questo anche il Salvatore nella sua
preghiera al Padre dice: «Che conoscano te, unico vero Dio» (Gv 17,3). All’infuori del Dio-in-sé, tutti quelli fatti dio
per partecipazione alla divinità di lui si devono chiamare più propriamente «Dio» (qeovç) e non «il Dio» (oJ qeovç). Tra
questi, di gran lunga il più augusto è il «primogenito di ogni creatura» (Col 1,15), in quanto, in virtù dell’essere
«presso Dio», per primo trasse a sé la divinità, divenuto poi ministro di divinizzazione per gli altri dèi che sono dopo
di lui (e dei quali Dio è Dio, secondo quanto dice la Scrittura: «Il Dio degli dèi parlò e convocò la terra» - Sal 49,1),
attingendo da Dio e comunicando loro abbondantemente, secondo la sua bontà, perché fossero divinizzati.

ORIGENE, In Ioh. II,2,13-17, trad. di Eugenio Corsini in ORIGENE, Commento al Vangelo di Giovanni, UTET, Torino 1968,
204-205.

Il testo sembra di non facile comprensione, specie per il riferimento ad alcuni concetti,
quale ad esempio quello di “Dio-in-sé”, che meritano di essere precisati, e per il chiarimento di
cui necessita il “gioco” che Origene pone in campo nel riservare un’attenzione minuziosa, che
pare superflua, all’uso o meno dell’articolo dinanzi a termini quali Logos e “Dio” (e si è già detto
che quando Dio è nominato in senso assoluto, senza altre precisazioni, si riferisce al Padre). Tale
attenzione, tuttavia, non è affatto superflua, in quanto per Origene è indispensabile per
distinguere il Logos da Dio, per salvaguardare così la distinzione delle persone nella Trinità e, a
sua volta, per distinguere il Logos dalle creature “dotate di logos”, salvaguardando così la
distinzione tra la divinità del Figlio e la condizione creaturale degli uomini.
Nelle prime parole del commento, l’Alessandrino, in maniera abbastanza chiara, sottolinea
che vi è una differenza tra “il Dio”, il Padre, il “Creatore increato dell’universo”, e il Logos, che
non essendo “il Dio” deve essere considerato “un Dio” (In Ioh. II,2,14-15), come in italiano si
potrebbe tradurre l’assenza dell’articolo nel testo greco. E per rimarcare ancora più chiaramente
il suo pensiero, Origene – come si è visto – afferma: «Dio (oJ qeovç) è Dio-in-sé (aujtovqeoç); e per
questo anche il Salvatore nella sua preghiera al Padre dice: “Che conoscano te, unico vero Dio”

2
(Gv 17,3). All’infuori del Dio-in-sé, tutti quelli fatti dio per partecipazione alla divinità di lui si
devono chiamare più propriamente “Dio” (qeovç) e non “il Dio” (oJ qeovç)» (In Ioh. II,2,17).
Origene non poteva affermare con più chiarezza la differenza tra “il Dio”, che è l’unico a
poter essere definito aujtovqeoç, e tutti coloro che partecipano della sua divinità. Ma ancor più
sorprendente può risultare l’apparente assimilazione che l’Alessandrino stabilisce tra il Logos e
tutti gli altri uomini, in quanto tutti partecipano della divinità del Padre; “apparente” perché, se
è vero che egli afferma che “tutti” sono fatti partecipi della divinità, sia il Logos che gli esseri
dotati di logos per partecipazione al Logos, è pur vero che lo stesso Origene riconosce che tra tutti
coloro che partecipano della divinità del Padre, «di gran lunga il più augusto è il primogenito di
ogni creatura» (In Ioh. II,2,17), il Figlio di Dio.
In tal modo il Padre Alessandrino pone mirabilmente in luce il ruolo di “ministro di
divinizzazione” del Figlio che, attingendo da Dio, comunica abbondantemente a tutti gli uomini
la divinità del Padre, secondo la sua bontà, perché siano divinizzati.
Si comprende, a questo punto, ciò che Origene afferma nel prosieguo del suo commento
alla pagina evangelica, attribuendo al Padre – come si è detto – il titolo di phghv, fonte:
Il Logos che è in ciascun essere dotato di logos ha, rispetto al Logos che è Dio e che è «nel
principio presso Dio», lo stesso rapporto (lovgon) che il Logos che è Dio ha nei confronti di Dio. Il Padre,
il Dio vero, il Dio-in-sé (oJ aujtovqeoç), sta alla sua immagine e alle immagini dell’immagine (ed è anche
per questo che gli uomini non sono detti «immagini» [di Dio], ma «secondo l’immagine») come il Logos-
in-sé (oJ aujtovlogoç) sta al logos che è in ciascun essere dotato di logos. L’uno e l’altro sono sorgenti
(phgh`ç): di divinità il Padre, di logos il Figlio. E come ci sono molti dèi, ma «per noi c’è un solo Dio, il
Padre» (1Cor 8,5-6); e come ci sono «molti signori», ma per noi «un solo Signore Gesù Cristo», così ci
sono molti logoi, ma noi preghiamo che in noi si trovi il Logos che è «nel principio» e «presso Dio», il
Logos che è Dio. (In Ioh. II,3,20-21)
Dalla visione trinitaria di Origene, quindi, emerge chiaramente che il Padre è fonte (phghv)
della divinità e il Figlio, da sempre Dio presso il Padre, è Dio perché partecipa della sua divinità.
La rilevanza di questa riflessione per il modello trinitario di unità personale la si coglie nel
constatare come lo stesso Origene sviluppi questo suo pensiero proprio per offrire «una soluzione
alla difficoltà che turba molti, i quali vorrebbero conservare l’amore di Dio, ma per il timore di
affermare due dèi incappano all’estremo opposto in dottrine false ed empie: infatti o negano al
Figlio una individualità (ijdiovthta) distinta da quella del Padre, pur ammettendo che sia Dio colui
che, a parer loro, soltanto di nome è chiamato “Figlio”; oppure negano al Figlio la divinità,
salvandone la individualità (ijdiovthta) e la sostanza [individualmente] circoscritta (oujsivan kataV
perigrafhvn), concepita come distinta da quella del Padre» (In Ioh. II,2,16); in altre parole, il suo
obiettivo è proprio quello di dar ragione dell’unità di Dio nel confessare la divinità del Figlio e
quindi la pluralità personale in Dio, e risponde a questo obiettivo annunciando che solo il Padre
è aujtovqeoç.
Uno dei più autorevoli maestri della tradizione orientale fu Gregorio di Nazianzo, il
Teologo; anch’egli affermò, alla scuola di Origene, che il Padre è l’ajrchv, il principio del Figlio:
Non bisogna essere così amanti di Cristo (filocrivstouç) da non rispettare il suo essere Figlio (di
chi, infatti, sarebbe figlio se non lo si riconducesse al Padre come suo principio [ajrchVn]?) e da non
rispettare nel Padre la dignità del principio (toV th`ç ajrch`ç ajxivwma), che gli conviene come Padre e
genitore. Sarebbe infatti il principio di cose piccole ed insignificanti (mikrw`n gaVr a]n ei[h kaiV ajnaxivwn ajrchv),
o piuttosto lo sarebbe in modo piccolo ed insignificante, se non fosse principio della divinità e della
bontà (mhV qeovthtoç w]n ajrchV kaiV ajgaqovthtoç) che è contemplata nel Figlio e nello Spirito, nell’uno come
Figlio e Logos, nell’altro come processione e Spirito indissolubile. (or. 2,38)
Da ciò che il Nazianzeno afferma proseguendo la sua riflessione, si può desumere che, per
il Teologo, confessare il Padre quale ajrchv, “principio”, rappresenti la condizione necessaria per
«conservare un Dio unico e riconoscere tre ipostasi, ognuna con un carattere specifico» (or. 2,38).
Un’analoga attestazione la si può ritrovare nel “discorso di addio” che egli rivolse ai suoi
confratelli vescovi, in occasione dell’abbandono della cattedra episcopale di Costantinopoli, nel
bel mezzo della celebrazione del concilio del 381. Confessando la sua fede, il Teologo afferma:
L’essere senza principio si chiama Padre (o[noma tw` ajnavrcw/ Pathvr), il principio Figlio (th`/ arch`/
UiJovç), e quello che è con il principio Spirito Santo (tw`/ metaV th`ç aJrch`ç Pvneu`ma a{gion). Ai tre appartiene
una sola natura, Dio. L’unione è determinata dal Padre (e{nwsiç deV oJ Pathvr), dal quale proviene e al

3
quale si riconduce ciò che segue, non in modo da essere fuso assieme, ma da essere tenuto assieme,
senza che il tempo né la volontà né la potenza riescano a separarlo.3
Tuttavia, lo stesso Gregorio, nel discorso Sul battesimo, oltre a ribadire quanto già si è
sottolineato, mette opportunamente in guardia dalla deriva subordinazionistica che questa
prospettiva potrebbe assumere. Per la giusta attenzione che a questo rischio si riserverà nelle
pagine successive, è utile accogliere il contributo del Nazianzeno al riguardo:
Voglio dire che il Padre è maggiore (meivzw): da lui deriva agli Esseri che sono uguali l’essere
uguali a Lui e l’esistere. Questo tutti l’ammetteranno. Ma temo il termine “principio” (ajrchvn), che io
non faccia del Padre il principio di esseri a Lui inferiori, offendendolo proprio mentre voglio onorarlo
di più, perché non è gloria per colui dal quale derivano gli altri l’umiliazione di quegli altri che da lui
derivano. Inoltre, devo anche sospettare della tua insaziabilità, perché tu non tagli in due la natura
divina, approfittando della parola “maggiore” (mei`zon) e servendoti di essa in ogni senso. Infatti essa
non fa riferimento alla natura (thVn fuvsin), ma alla causa (thVn aijtivan): tra Esseri consustanziali non ci può
essere il maggiore o il minore. (or. 40,43)
Dopo questo sguardo alla tradizione orientale, si offre ora un cenno circa l’apporto di
quella occidentale. Sia pur con un procedimento argomentativo diverso, che non gode della stessa
ricchezza speculativa di quello di Origene, ma che testimonia comunque la profonda rilevanza
che il mistero trinitario riveste nella coscienza credente della comunità ecclesiale, Tertulliano
giunge in qualche modo alla stessa conclusione che si è ritrovata nei testi del Padre Alessandrino.
Infatti, adoperando le celebri metafore trinitarie, che raccoglie dal libro della natura (radice-
pollone-frutto, sorgente-fiume-corso d’acqua, sole-raggio-fiammella)4 e che mettono chiaramente
in evidenza le relazioni di origine che legano il Padre al Figlio e allo Spirito, propone un modello
di unità fondato sull’unica persona divina che è origine e fonte della divinità, il Padre, per
l’appunto.
Con estrema chiarezza, quindi, Tertulliano afferma che la Trinità deriva dal Padre,
riconoscendo che il Figlio e lo Spirito traggono le loro proprietà da “quell’origine”, da quella
matrix, dall’“utero” del Padre. Per di più, dopo la descrizione delle metafore trinitarie, il modello
di unità personale trova nel testo del teologo africano una sintesi mirabile; Tertulliano, infatti,
conclude il suo ricorso alle metafore con questa lapidaria affermazione: «Il Padre è infatti l’intera
sostanza, mentre il Figlio è una derivazione e una porzione del tutto (Pater enim tota substantia est,
Filius vero derivatio totius et portio), come egli stesso proclama: “Perché il Padre è più grande di
me” (Gv 14,28)» (Adv. Prax. IX, 2).

I limiti e i rischi del modello

Ogni modello teologico ed ogni paradigma utilizzato per esprimere la fede, proprio per la
natura del linguaggio teologico, porta con sé rischi e limiti.
Non ne è esente neanche il modello di unità personale, sebbene esso sia ben radicato nella
stessa Sacra Scrittura e nelle prime espressioni della lettura teologica della fede cristiana.
Il rischio al quale questo modello interpretativo è esposto, come viene ben evidenziato da
Greshake, consisterebbe nel «considerare la Persona del Padre, e l’unità dell’essenza divina che
in essa è personalizzata, indipendentemente dalle altre due Persone e di ritenere il Figlio e lo
Spirito come “integrazioni risultanti”, di grado successivo e dunque subordinate di quel Dio-
Padre già in sé costituito».5 In altre parole, il pericolo è il subordinazionismo; e lo si è potuto
constatare chiaramente nel ripercorrere il pensiero di Origene. È ovvio che l’Alessandrino non sia
subordinazionista; la conoscenza dell’intera sua teologia trinitaria lo mostra con evidenza, in
quanto non mancano testi nei quali egli afferma con estrema chiarezza la fede nella divinità del
Figlio. Uno di questi testi, del resto, è proprio quello citato, nel quale si coglie come la teologia di
Origene abbia lo scopo di salvaguardare, da una parte, l’identità personale del Figlio e, dall’altra,
la sua piena divinità (In Ioh. II,2,16). Tuttavia è innegabile che questo modello di pensiero porti

3
Or. 42.15. La scelta di Gregorio di applicare al Figlio il termine ajrchv e allo Spirito quello di tov metaV th`ç aJrch`ç, specie
in relazione a quanto detto sinora, meriterebbe attente considerazioni. Si rimanda per questo a ciò che si dirà nel
sesto capitolo, commentando il De Spiritu Sancto di Basilio.
4
Per i testi di Tertulliano nei quali sono presentate queste metafore, si rimanda al focus sullo Spirito Santo.
5
GRESHAKE, Il Dio unitrino, 69. Come si è già detto, anche Gregorio di Nazianzo percepì tale rischio e ne prese
decisamente le distanze quando affermò: «Temo il termine “principio” (ajrchvn), che io non faccia del Padre il principio
di essere a Lui inferiori» (or. 40,43).

4
con sé degli elementi che potrebbero dar adito al “subordinazionismo”; una riprova ne è il fatto
che sarà proprio in questo contesto culturale e teologico che prenderà corpo l’eresia ariana nei
primi anni del IV secolo.
È proprio per evitare tale pericolo che si deve precisare come la particolare attenzione alla
Scrittura, che caratterizza questo modello, richieda che, nel porre a fondamento di tale
prospettiva teologica alcune affermazioni scritturistiche, non se ne trascurino altre. Non si deve
dimenticare, ad esempio, che la Scrittura non afferma solo che il Figlio è stato inviato dal Padre e
che tutto da Lui gli è stato dato, ma anche che, solo quando il Figlio consegnerà se stesso al Padre,
Dio (il Padre) sarà «tutto in tutti» (1Cor 15,28). Ciò comporta, osserva Greshake, che «anche
l’essere-Dio del Padre “dipende” dal Figlio e non solo l’essere-Dio del Figlio dal Padre» (Il Dio
unitrino, 70).

Il modello di unità assoluta (Unum in trinitate)

Il modello di unità assoluta, come già è stato anticipato da Zizioulas nella riflessione che
ha introdotto il paragrafo precedente, caratterizza la teologia occidentale e assume questa
denominazione perché considera Dio come la “sostanza assoluta”, la “sostanza suprema”, unico
principio del mondo.
Questo modello interpretativo è tipico della tradizione teologica occidentale; fu elaborato
essenzialmente da Agostino e poi sviluppato dalla riflessione teologica di coloro che, in diverso
modo, si collocarono sulla scia del vescovo di Ippona.

La prospettiva teologica di Agostino e Tommaso

Agostino, nel suo capolavoro teologico, il De Trinitate, assume come punto di partenza
della trattazione il tema dell’unità di Dio, per passare poi in un secondo momento a giustificare
la sua realtà tripersonale, mostrando come le missioni del Figlio e dello Spirito Santo nella storia
della salvezza non contraddicano l’unità della sostanza divina e l’uguaglianza essenziale delle
persone.
Questa lettura della prospettiva teologica di Agostino, comunemente condivisa, è
confortata da alcuni dati significativi. Il primo, particolarmente emblematico, lo si può ritrovare
già nelle prime battute del De Trinitate, ed esattamente nel secondo libro; qui Agostino,
rileggendo la pagina della Genesi in cui Dio passeggia nel giardino dell’Eden (Gen 3,8-10), si
interroga:
Chi era dunque colui che passeggiava: era il Padre o il Figlio o lo Spirito Santo? Ovvero era
semplicemente il Dio Trinità senza distinzione di Persone che parlava all’uomo sotto forma umana? (An
omnino Deus indiscrete ipsa Trinitas in forma hominis homini loquebatur?). (De Tr. II,10,17)
Proseguendo nella lettura della Scrittura, Agostino giunge alla pagina in cui è narrata
l’apparizione ad Abramo nel momento in cui il patriarca, dopo aver abbandonato la sua terra
secondo l’ordine di Dio, giunge alla terra di Canaan. Qui il Signore lo rende destinatario della
promessa (Gen 12,7).

L’APPARIZIONE AD ABRAMO

«Il Signore apparve ad Abramo, e gli disse: Darò questo territorio alla tua discendenza» (Gen 12,7). Ma
nemmeno qui è detto chiaramente sotto quale forma «gli sia apparso il Signore», e se sia apparso il Padre o il Figlio
o lo Spirito Santo. Forse si potrà pensare che sia apparso ad Abramo il Figlio, perché non è detto “gli apparve Dio”,
ma: «gli apparve il Signore» (Gen 12,7; 18,1); e Signore sembra un nome proprio al Figlio per testimonianza
dell’Apostolo: «E sebbene ci siano dei cosiddetti dèi sia in cielo che sulla terra, come ci sono molti dèi e molti signori,
tuttavia per noi c’è un Dio solo, il Padre, dal quale provengono tutte le cose e noi siamo in lui, e un solo Signore
Gesù Cristo, per mezzo del quale sono state create tutte le cose e noi siamo per mezzo di lui» (1Cor 8,5-6). Ma in
molti passi della Scrittura anche il Padre è detto Signore, come: «Il Signore disse a me: Tu sei il mio Figlio, oggi ti
ho generato» (Sal 2,7); ed inoltre: «Disse il Signore al mio Signore: Siedi alla mia destra» (Sal 109,1; Eb 1,13). E vi
sono dei passi in cui anche lo Spirito Santo è detto Signore, come quando l’Apostolo dice: «Il Signore è Spirito»
(2Cor 3,17; Gv 4,24); e, per impedire che qualcuno pensasse trattarsi del Figlio che sarebbe stato chiamato Spirito
per la sua natura immateriale, proseguendo aggiunge: «Dove c’è lo Spirito del Signore c’è la libertà» (2Cor 3,17).

5
Ora nessuno dubiterà che lo Spirito del Signore sia lo Spirito Santo. Pertanto, ritornando al passo di cui si parlava,
non appare chiaro che sia apparsa ad Abramo una Persona della Trinità o lo stesso Dio Trinità, ossia il Dio unico di
cui è stato detto (Neque hic ergo evidenter apparet utrum aliqua ex Trinitate Persona an Deus ipse Trinitas, de quo
uno Deo dictum est): «Adorerai il Signore Dio tuo ed a lui solo servirai» (Dt 6,13).

AGOSTINO, De Trinitate II,10,19, trad. di Giuseppe Beschin in AGOSTINO, La Trinità, NBA IV, Città Nuova, Roma
2
1987, 99

Anche nel commentare questa “apparizione” ad Abramo, Agostino si pone una domanda
analoga alla precedente: «Non appare chiaro che sia apparsa ad Abramo una Persona della Trinità
o lo stesso Dio Trinità, ossia il Dio unico di cui è stato detto (Neque hic ergo evidenter apparet utrum
aliqua ex Trinitate Persona an Deus ipse Trinitas, de quo uno Deo dictum est)» (De Tr. II,10,19).
Percorrendo ancora la narrazione biblica, si giunge alla pagina dell’Esodo in cui è narrato
di Dio che accompagnava il cammino del popolo nel deserto sotto forma di colonna di nube e di
fuoco (Es 13,21-22), Agostino deve riconoscere che qui appare con chiarezza che Dio si sia
manifestato agli uomini come creatura corporea; ma poi, ancora una volta, osserva: «Ma non
appare altrettanto chiaro se si sia manifestato il Padre o il Figlio o lo Spirito Santo ovvero la Trinità
medesima, Dio unico (Sed utrum patrem an Filium an Spiritum Sanctum an ipsam Trinitatem unum
Deum similuter non apparet)» (De Tr. II,14,24).
A conclusione del lungo ed articolato percorso che Agostino conduce attraverso diverse
pagine veterotestamentarie, di cui si è offerto semplicemente un cenno grazie a solo tre dei
numerosi esempi presenti nel trattato, egli giunge finalmente a dichiarare il motivo sotteso alla
sua analisi:
Avevamo deciso di indagare per prima cosa se il Padre o il Figlio o lo Spirito Santo (utrum Pater
an Filius an Spiritus Sanctus) o invece se talora il Padre, talvolta il Figlio, altre volte lo Spirito Santo (an
aliquando Pater, aliquando Filius, aliquando Spiritus Sanctus), ovvero, senza alcuna distinzione tra le
Persone, l’unico e solo Dio, come si dice, cioè la stessa Trinità (an sine ulla distinctione Personarum sicut
dicitur Deus unus et solus, id est ipsa Trinitas) sia apparsa ai Patriarchi per mezzo di quelle forme tratte
dalla creatura. (De Tr. II,18,35)
Agostino non può fare a meno riconoscere che «la natura stessa o la sostanza o l’essenza
(ipsa enim natura vel substantia vel essentia) o con qualunque altro nome si debba chiamare l’essere
stesso di Dio, qualunque esso sia, non si può vedere sensibilmente» (ivi) e, pertanto, è necessario
ammettere che il Figlio o lo Spirito Santo o anche il Padre si siano manifestati «ai sensi degli
uomini sotto una forma o un’immagine corporea» (ivi); tuttavia egli, non essendo sempre in grado
di precisare quale delle tre persone lo abbia fatto, avanza delle ipotesi nel corso del suo
ragionamento che sono particolarmente degne di nota. In particolare, il fatto stesso che Agostino,
ammetta la possibilità, sia pur ipotetica, che a manifestarsi sia stato il Deus indiscrete, o l’unus et
solus Deus, ipse Trinitas, lascia ben intendere il peso che nel sistema di pensiero proprio della sua
prospettiva teologica venga riconosciuto alla substantia o essentia di Dio.
Se è consentito stabilire un confronto con il modello teologico orientale, precedentemente
presentato, si ritiene di non sbagliare né di osare un’affermazione azzardata annotando che mai
un ragionamento simile, o un procedimento razionale analogo a quello utilizzato da Agostino, si
sarebbe potuto ritrovare nei testi dei primi tre secoli o in quelli dei Padri della tradizione orientale.
Accanto a questa prima riflessione suggerita dai testi agostiniani, se ne colloca un’altra,
dettata dalla seguente osservazione di Greshake:
Il vescovo di Ippona non vede la vera e propria analogia di comprensione per la
differenziazione trinitaria nella mutua relazione delle persone umane, bensì nell’intima strutturazione
“trinitaria” della singola persona, cioè dell’anima spirituale. Anche là dove parla della struttura trinitaria
dell’amore (amans – id quod amatur – amor) limita le proprie considerazione all’amore di sé, ovvero ad
una realtà che si dà all’interno della persona. (Il Dio unitrino, 66)
Agostino, quindi, utilizzando l’analogia dell’amore, non si riferisce «all’amore inter-
personale (come sarà in Riccardo di San Vittore) che è rivolto all’altro (diligens, dilectus e
condilectus), ma all’amore spirituale rivolto a se stessi: si tratta cioè dello stesso soggetto (Dio) che
ama, che è amato e che è l’amore».6 È proprio questa precisazione che porta a denominare questo
modello di unità assoluta anche come modello “intra-personale”.


6
GAMBERINI, Un Dio relazione, 91.

6
Una denominazione, del resto, che bene richiama l’analogia psicologica, la preferita da
Agostino. Egli afferma, infatti, che nell’uomo si trovi una strutturazione trinitaria: memoria,
intelligenza e volontà, «che non sono tre vite, ma una vita sola; né tre spiriti, ma un solo spirito;
di conseguenza esse non sono tre sostanze, ma una sostanza sola» (De Tr. X,11,18). Tale
strutturazione trinitaria deve essere letta – come opportunamente fa notare Cozzi – in una
prospettiva teocentrica e di teologia della grazia; infatti, «il compimento dell’uomo nella visione
beata è la realizzazione dell’immagine di Dio, che introduce all’intelligenza del mistero divino
trinitario. L’uomo che diviene ciò che è nell’amore di Dio, ossia l’uomo nello Spirito, è l’uomo che
conosce in sé, ma al di là di sé, il mistero della Trinità. La memoria, intelligenza e amore di Dio è
la verità della memoria, intelligenza e amore di sé. La trinità e unità dello spirito creato trova se
stessa nella trinità-unità dello Spirito increato».7
La prospettiva agostiniana fu ben espressa, successivamente, da un assioma di teologia
trinitaria la cui paternità si deve attribuire ad Anselmo e che, a partire da lui, segnerà tutta la
tradizione teologica occidentale: In Deo omnia sunt unum, ubi non obviat relationis oppositio.
Illustrando il terzo avvio prospettico, si è già avuto modo di soffermarsi su tale assioma,
costatando come abbia via via ricevuto una “enfatizzazione unitaria”; infatti, «mentre il detto nel
senso di Anselmo conserva ancora il bilanciamento tra unità e molteplicità, nel corso ulteriore
della storia della teologia il principio verrà inteso in maniera tale che l’unità di Dio sarebbe
unicamente quel momento determinante che costituisce il quadro previo e la norma previa per la
(successiva) differenziazione trinitaria».8
Numerose sono le attestazioni che sarebbe possibile fornire per mostrare l’ampia fortuna
di cui ha goduto la prospettiva teologica agostiniana nella tradizione occidentale. Ci si limita a
richiamare, al riguardo, il solo pensiero di Tommaso d’Aquino, che nella sua teologia trinitaria
ha fatto proprio lo stesso modello interpretativo di Agostino. Lo si evince dallo schema stesso
della Summa Theologiae che, come è ben noto, dedica le prime questioni della prima parte alla
sostanza divina (qq. 2-26), per passare, solo in un secondo momento, a trattare della distinzione
personale in Dio (qq. 27-43).
Senza addentrarsi ora nelle motivazioni che hanno condotto l’Aquinate ad adottare questa
ripartizione, e senza trattare delle conseguenze che avrà nella riflessione teologica successiva, è
sufficiente osservare, volendo restare fedeli alla genialità del pensiero di Tommaso, come non si
debba trascurare di riconoscere nei suoi testi la significativa presenza anche di elementi propri
del modello interpretativo tipico della tradizione orientale, quello di unità personale.
Emblematico è al riguardo quanto l’Aquinate afferma trattando della questione
dell’appropriazione alle persone divine di alcune caratteristiche essenziali, attestata negli scritti
dei Padri; una di tali attestazioni rimanda proprio ad uno scritto del vescovo di Ippona.9
Commentandola, Tommaso dice:
S. Agostino appropria al Padre l’unità (unitatem), al Figlio l’uguaglianza (aequalitatem), allo
Spirito Santo la concordia o connessione (concordiam sive connexionem). È chiaro che tutte e tre queste
cose implicano il concetto di unità, ma in modi diversi. L’unità infatti lo implica per se stessa, senz’altro
presupposto. E per questo viene appropriata al Padre, che non presuppone un'altra persona, essendo
egli principio senza principio (cum sit principium non de principio). (STh I,39,8, respondeo)
E prosegue mostrando come e perché al Figlio sia appropriata l’uguaglianza e allo Spirito
la concordia. Questa premessa consentirà a Tommaso di affermare che «l’unità si riscontra
immediatamente nel Padre anche se, per impossibile, non esistessero le altre Persone. Quindi le
altre due l’hanno da lui» (ivi): non c’è forma più efficace per esprimere il tratto caratteristico del
modello di unità personale.
Si è ritenuto importante non tralasciare questa precisazione in quanto, oltre che a dare
ragione della complessità del pensiero tomista, permette anche di far presente che lo stesso
pensiero agostiniano è ben più articolato di quanto la lettura qui offerta consenta di cogliere;
infatti, il vescovo di Ippona, pur elaborando un modello interpretativo dell’unità di Dio
chiaramente differente da quello di unità personale, non ha potuto tralasciare di considerare,
nella sua architettura teologica, alcuni elementi tipici di quel modello che maggiormente riesce a

7
COZZI, Manuale di dottrina trinitaria, 426.
8
GRESHAKE, Il Dio unitrino, 68, nota 59.
9
«Nel Padre c’è l’unità, nel Figlio l’uguaglianza, nello Spirito Santo la concordia dell’uguaglianza e dell’unità» (De
doctrina christiana 1,5). Tommaso lo cita in STh I,39,8, videtur 2.

7
dar ragione di alcuni dati della rivelazione trinitaria, quali ad esempio la fontalità del Padre nelle
relazioni trinitarie.
Tornando al pensiero di Tommaso, altre due considerazioni si ritengono necessarie per
completare la presentazione, sia pur essenziale, della sua dottrina trinitaria. La prima è legata al
fatto che una fedele lettura della sua teologia richiederebbe, accanto a ciò che si è detto partendo
dall’analisi della Summa e della sua struttura, la doverosa attenzione a ciò che egli ha scritto nelle
altre sue opere; infatti, non si deve dimenticare né sottovalutare che «nel Commento alle Sentenze
di Pietro Lombardo, l’Aquinate aveva usato l’ordine inverso di esposizione della materia: e ciò
testimonia la “libertà” con cui egli struttura la propria proposta teologica».10
La seconda considerazione è suggerita da quanto l’Aquinate afferma nell’articolo della
Summa in cui si chiede «se il Figlio sia nel Padre e il Padre nel Figlio» (STh I,42,5); è evidente,
infatti, che in quell’articolo Tommaso utilizzi un altro concetto-chiave del mistero trinitario,
quello della pericoresi, che – come si vedrà nel prossimo capitolo – diverrà il paradigma centrale
del modello teologico più utilizzato nella teologia contemporanea. Opportunamente, si potrebbe
quindi concludere che, per Tommaso, «vi sono tre maniere di predicare di Dio l’unità: in senso
assoluto, cioè nella natura di Dio (Dio è uno poiché una è l’essenza); in senso personale, dato che
solo il Padre è fonte ed origine dell’unità; in senso pericoretico: il Figlio è nel Padre e il Padre è nel
Figlio».11

I limiti e i rischi del modello

Uno dei limiti di questo modello, quello che risulta essere maggiormente rilevante, lo si
evince ancora una volta grazie alle osservazioni di Greshake:
Le differenze personali comunicate nella rivelazione storica di questo Dio vengono poi inserite
nel quadro previo di unità sostanziale, senza che il quadro stesso ne subisca un cambiamento o una
modifica di principio. […] Di conseguenza, il problema principale di una simile dottrina della Trinità
consiste nell’interrogativo circa la distinzione delle Persone entro l’unità di Dio (che è data come
presupposta), al punto che la dottrina della Trinità giunge per così dire al suo fine quando ha compreso
come sorgano le differenze in Dio (con la generazione della Parola e la spirazione dell’Amore), senza
che per lo più si faccia riferimento a come queste differenze “ri”-conducano all’unità (ad esempio, grazie
alla reciprocità della conoscenza e dell’amore). (Il Dio unitrino, 65)
Non si può nascondere, infatti, che l’assunzione di questo modello interpretativo abbia
prestato il fianco a diversi “rischi” in teologia trinitaria. Uno è quello della nascita di ben due
trattati teologici su Dio, che via via si sono sempre più separati tra loro: il primo, il De Deo uno,
dedicato a presentare il mistero dell’essenza e dell’esistenza di Dio, senza alcun cenno alla sua
“differenziazione” trinitaria; il secondo, il De Deo trino, mirante a giustificare la distinzione
personale in Dio e a presentare la specificità dei tre. Per di più, il fatto che il trattato De Deo trino
si occupasse esclusivamente di questioni inerenti la Trinità immanente, senza mostrare
un’adeguata attenzione agli eventi della storia della salvezza, come invece avveniva in tutta la
riflessione teologica dell’età patristica, condusse anche ad un’altra separazione, quella tra Trinità
economica e Trinità immanente, dalla quale l’assioma fondamentale – come si è detto nel secondo
avvio prospettico – invita a guardarsi.
Il secondo “rischio” è legato all’“ipostatizzazione” dell’essenza divina, quasi come se la
sostanza stessa di Dio fosse una “persona”. Si fa presente, a tal proposito, che lo stesso Tommaso
non ha esitato «a considerare legittima quella formula ritenuta eretica nella chiesa antica e che
cioè Dio sarebbe una persona».12 Del resto, la stessa analogia psicologica, cara ad Agostino,
suggerendo che le tre facoltà dell’anima umana (memoria, intelligenza e volontà) rimandano alla
trinità delle Persone, induce a considerare analogato della sostanza divina propria la persona,
l’unica persona umana, la cui anima ha, per l’appunto, una struttura trinitaria.


10
G.M. SALVATI, Il De Deo uno e il De Deo trino oggi, in PATH 11 (2012) 402.
11
GAMBERINI, Un Dio relazione, 93.
12
J. RATZINGER, Dogma e predicazione, Queriniana, Brescia 1974, 219. Qui Ratzinger intende riferirsi a STh III,3,3, dove
l’Aquinate afferma che «come, date le tre proprietà personali in Dio, parliamo di tre persone, così togliendo
mentalmente le proprietà personali rimarrà nella nostra considerazione la natura divina come sussistente e come
persona (remanebit in consideratione nostra natura divina ut subsistens, et ut persona)» (ad primum dicendum).

8
Ciò esporrebbe il modello interpretativo di unità assoluta al fraintendimento secondo il
quale l’essenza divina sarebbe un “quarto” elemento, “sopra”, “a fianco” o “dietro” le tre
Persone, come viene confermato dalla seguente riflessione di Moltmann: «Non si può prima
esporre l’Unità della natura di Dio e poi distinguere le tre persone o ipostasi divine, perché allora
si giungerebbe ad affermare quattro unità sostanziali. La natura di Dio diventerebbe l’ipostasi di
Dio».13
Tale pericolo ha realmente preso forma nella storia della teologia. Esempio ne è la reazione
di Gioacchino da Fiore al pensiero di Pietro Lombardo; il monaco calabrese, infatti, leggendo nelle
opere di Pietro Lombardo, e in particolare nelle sue Sentenze, che «vi è una realtà suprema, che è
il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo ed essa né genera né è generata né procede», giunse a
concludere che il Lombardo ammettesse «in Dio non una Trinità, ma una quaternità: ossia tre
persone più quella comune essenza, come un quarto elemento».14
Che quella di Gioacchino non sia la corretta interpretazione da dare al pensiero del
Lombardo è attestato chiaramente dalla condanna che i Padri del concilio Lateranense IV
formalizzeranno nei confronti dell’abate calabrese e dalla contestuale solenne dichiarazione che
«noi crediamo e confessiamo, con Pietro Lombardo, che esiste una sola realtà suprema,
incomprensibile e ineffabile, la quale è veramente Padre, Figlio e Spirito Santo, le tre persone
insieme, e ciascuna di esse singolarmente. In Dio, quindi, vi è solo una Trinità, non una quaternità,
poiché ognuna delle tre persone è quella realtà, cioè sostanza, essenza o natura divina, la quale
soltanto è principio di tutte le cose, e fuori della quale non si può trovare nient’altro. Essa non
genera, non è generata, non procede, ma è il Padre che genera, il Figlio che è generato, lo Spirito
Santo che procede; in tal modo le distinzioni sono nelle persone e l’unità nella natura» (DH 804).
Tuttavia è fuor di dubbio che il fatto stesso che sia stato necessario giungere a questa precisazione
conciliare mostri come tale modello interpretativo presti il fianco all’erronea concezione
dell’essenza divina come un “quarto” elemento accanto alle tre persone.
Da ultimo, si deve riconoscere che questo modello interpretativo porta con sé il pericolo
latente del modalismo, pur precisando che, ovviamente, gli autori citati non cadono affatto in
questa eresia, che segnerà invece la dottrina di diversi autori del II secolo, quali Sabellio, Noeto e
Prassea. Il latente pericolo di modalismo di tale modello è stato accentuato in epoca moderna da
uno sviluppo del concetto di persona i cui tratti caratteristici sono l’essere in-sé e per-sé,
l’autocoscienza, l’autodeterminazione, la libertà. Tutti questi tratti, osserva molto
opportunamente Greshake, «non permettono di riferire una tale concezione di persona alla
triunità delle Persone divine e possono per lo più indirizzarsi all’unico Dio, visto quale “soggetto
assoluto”. Con il fatto, però, che in tal modo viene pensato come Persona solo il Dio unico, mentre
alla sua differenziazione trinitaria la designazione di persona viene negata del tutto oppure
privata di ogni significato vitale» (Il Dio unitrino, 68).
Per evitare che l’accezione moderna del termine persona conduca a ritenere che in Dio vi
siano tre centri di coscienza e di volontà, Karl Barth prima e poi Karl Rahner hanno avanzato la
proposta dell’uso di termini, a parer loro, più adeguati: Seinsweise, “modi d’essere” (è quanto
propone Barth) o Subsistenzweise, “modi di sussistenza” (questa la proposta di Rahner).15 Questi
termini, tuttavia, hanno esposto i due teologi all’accusa di modalismo; ma che Barth e Rahner
non siano modalisti lo si può dedurre, oltre che dall’intera loro teologia, anche dal fatto che loro
parlino esplicitamente di modi di “essere” o di “sussistenza” e non semplicemente di “apparire”
o “manifestarsi”, come afferma invece l’eresia modalista.
Si deve precisare che Rahner, con il termine proposto, non intende sostituire quello di
“persona”, in quanto egli riconosce come il suo uso è sancito da «oltre un millennio e mezzo e
non ce n’è uno realmente migliore, universalmente comprensibile e meno facilmente esposto a
equivoci. È necessario quindi rimanere fedeli ad esso, pur sapendo che ha una sua storia e che,
parlando assolutamente, non s’adatta perfettamente sotto ogni punto di vista ad esprimere ciò

13
J. MOLTMANN, Il Dio crocifisso. La croce di Cristo, fondamento e critica della teologia cristiana, Queriniana, Brescia 1973,
281.
14
Questo è ciò che del pensiero di Gioacchino viene detto al concilio Lateranense IV (cf. DH 803). Si rimanda per
questo all’ultimo paragrafo di questo capitolo.
15
Per una presentazione sintetica delle proposte di Barth e Rahner e per una valutazione critica della loro
opportunità, si rimanda a L.F. LADARIA, Il Dio vivo e vero. Il mistero della Trinità, San Paolo, Cinisello Balsamo 2012,
335-358.

9
che si vuole, né presenta solo dei vantaggi».16 Il suo intento è piuttosto quello di proporre un
termine da accostare a “persona”, per eliminarne l’ambiguità, e quello da lui suggerito è più
vicino all’uso tradizionale di quello proposto da Barth, in quanto con “modi di sussistenza” si
«allude al trovpoç th`ç uJpavrxewç dei Cappadoci, che verrebbe a equivalere a “modo di esistenza o
di essere”».17

Considerazioni sulla relazione tra i due modelli

I due approcci sin qui illustrati rivelano la loro ricchezza per la complementarietà che
offrono alla comprensione del mistero trinitario. Infatti, pongono l’accento sui due aspetti che
caratterizzano tale mistero, entrambi determinanti: il modello orientale, guardando alla persona
del Padre come fonte della vita divina, pone in risalto le relazioni di origine, quella della
generazione del Figlio e quella della processione dello Spirito; il modello occidentale, partendo
dalla realtà della sostanza divina, accentua la consustanzialità delle persone divine.
Anche le espressioni latine utilizzate nella denominazione dei due modelli (unus in trinitate
e unum in trinitate) hanno lo scopo di lasciar intravvedere questa diversa prospettiva. In
particolare, l’uso del maschile (unus) vuole proprio indicare che l’unità di Dio è garantita da una
persona, quella del Padre, per l’appunto, mentre l’uso del neutro (unum) intende richiamare la
realtà della sostanza più che di una delle persone divine.
Si delineano in tal modo le peculiarità dei due approcci che hanno segnato non solo la
storia della teologia trinitaria, ma anche il vissuto spirituale ed ecclesiale delle due tradizioni che
l’hanno elaborata, quella orientale e quella occidentale. Già nel lontano 1892, Théodore de Régnon
intuì l’importanza di delineare i tratti peculiari delle due tradizioni teologiche e offrì un
contributo alla loro determinazione con una formulazione che è divenuta classica:
La filosofia latina ha presente anzitutto la natura essenziale in se stessa e giunge poi al
suppositum [delle persone divine]; la filosofia greca ha presente dapprima il suppositum [del Padre] e
giunge poi a concludere la natura essenziale. Il latino considera l’essere-persona come un modo della
natura essenziale, il greco considera la natura essenziale come contenuto della persona. Abbiamo qui
due diverse prospettive che sviluppano i concetti della medesima realtà a partire da due diversi punti
di partenza.18
In altre parole, quanto afferma de Régnon equivale a dire che la tradizione latina concentra
la sua attenzione teologica anzitutto sulla substantia, mentre quella greca sulla uJpovstasiç. A ben
vedere, tuttavia, se da una parte la lettura di de Régnon sembra delineare semplicemente una
contrapposizione tra le due tradizioni, dovuta al fatto che esse assumono due diversi punti di
partenza, ed è pur vero,19 d’altra parte non si deve fare a meno di porre adeguata attenzione ai
termini utilizzati (substantia e uJpovstasiç); in tal modo, sarà facile constatare come essi, sebbene
siano riferiti ai due diversi aspetti del mistero trinitario (l’unità della sostanza e la trinità delle
ipostasi), siano semanticamente equivalenti (sub-stantia = uJpov-stasiç). Pertanto, si potrà
concludere, in realtà, che le due tradizioni assumano, con prospettive diverse, un medesimo
punto di partenza: la realtà sussistente di Dio.
È pur vero, comunque, – e si desidera qui ribadirlo – che il medesimo punto di partenza è
assunto da ciascuna tradizione con la propria specificità. Tale differenza, come insegna la
magistrale lezione conciliare del decreto sull’ecumenismo del Vaticano II, non la si deve percepire
come fattore di divisione, ma come una fonte di ricchezza da preservare, in quanto pone in risalto
la complementarietà delle due tradizioni, la parzialità di ogni lettura e la necessaria apertura
dell’una all’altra. Si deve sempre sottolineare, infatti, come «nell’indagare la verità rivelata in
Oriente e in Occidente furono usati metodi e prospettive diversi per giungere alla conoscenza e

16
RAHNER, Il Dio trino come fondamento originario e trascendente della storia della salvezza, in Mysterium Salutis 3, 434.
Immediatamente dopo, aggiunge: «Però, se ci si servisse veramente in modo chiaro e sistematico della via economica
per accedere al mistero della Trinità, allora non avremmo bisogno in un tale trattato […] di servirci fin dall’inizio del
concetto di “persona”» (ivi).
17
LADARIA, Il Dio vivo e vero, 343, nota 124. Qui Ladaria richiama il trattato di Basilio sullo Spirito Santo (XVIII,46),
che riceverà ampia attenzione nel sesto capitolo di questo manuale.
18
TH. DE RÉGNON, Études de théologie positive sur la Sainte Trinité, vol. I, Paris 1892, 433.
19
È questa la lettura che ne offre – a mio giudizio – Piero Coda, che afferma: «Si potrebbe dire che il punto di vista
degli orientali è soprattutto quello dell’unico Dio in tre persone, quello degli occidentali delle tre persone nell’unico Dio»
(CODA, Dalla Trinità, 389).

10
alla confessione delle realtà divine (ad divina cognoscenda et confitenda). Non fa quindi meraviglia
che alcuni aspetti del mistero rivelato siano talvolta percepiti in modo più adatto (magis congrue
percepi) e posti in miglior luce dall’uno che non dall’altro, cosicché si può dire allora che quelle
varie formule teologiche non di rado si completino, piuttosto che opporsi» (UR 17: EV 1/553).
Tuttavia, diversi possono essere gli esempi a cui guardare per constatare, purtroppo, come
la diversità e complementarietà degli approcci, che può rivelarsi un’impareggiabile ricchezza
quando e se gli approcci si completano a vicenda, rischi di divenire motivo di dolorosa
opposizione se gli attori del confronto teologico ed ecclesiale non vivono un’adeguata
comprensione reciproca. In tal caso si vengono a creare situazioni che, con un’efficace metafora,
potrebbero essere definiti simili a ciò che accade quando «gli uni giocano a scacchi e gli altri a
dama sulla medesima scacchiera».20
Lo testimoniano la questione del Filioque e le vicende legate alle dichiarazioni magisteriali
del concilio Lateranense IV.

La questione del Filioque

Con questa denominazione, si fa comunemente riferimento alla disputa sorta tra orientali
e occidentali a seguito dell’aggiunta, al terzo articolo di fede del Simbolo constantinopolitano, del
termine latino Filioque, con il quale si confessa così che lo Spirito procede dal Padre “e dal Figlio”.
La differenza delle posizioni assunte nei confronti della questione del Filioque nel
Novecento teologico, che vanno dal rifiuto all’apologia, dall’adesione critica alla critica tollerante,
mostra chiaramente come ci si possa accostare alla questione vivendola come causa di un forte
contrasto o scorgendovi, invece, le possibilità di arricchimento reciproco, se accolta
nell’accettazione della complementarietà delle prospettive teologiche.
Il teologo che, forse più di ogni altro, si accosta al Filioque con un rifiuto nettissimo è
Vladimir Losskij. Per lui, infatti, resta inaccettabile la sua aggiunta al Simbolo di fede, in quanto
da essa derivano – a suo giudizio – «tutte le pecche della teologia e dell’ecclesiologia cattolica: a)
il “cristomonismo”, e cioè l’esagerato cristocentrismo a discapito dello Spirito Santo; b) il
tendenziale razionalismo dimentico del valore noetico della sapienzialità mistica; e c), come
conseguenza di ciò a livello ecclesiologico, il primato romano giuridicamente e assolutisticamente
inteso ed esercitato, a discapito della koinonia sinodale».21
Bruno Forte vi si accosta, invece, lasciando intravvedere l’auspicio che venga recuperata
la capacità «di due diversi mondi di vita e di pensiero, di due diverse esperienze del Dio vivo, di
dialogare e di comprendersi tra loro, in una recezione reciproca e feconda, che sia immagine di
quella mutua delle Persone divine».22
I termini della questione sono stati ben sintetizzati e lucidamente esposti in una
chiarificazione del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani pubblicata da
L’Osservatore Romano il 13 settembre 1995 (EV 14/2966-2992). Si tratta di un documento pregevole,
sia perché è particolarmente ricco di documentazione patristica e conciliare, sia perché si
conclude con un’acuta riflessione teologica circa la questione dei rapporti tra Gesù Cristo e lo
Spirito Santo.
La chiarificazione era introdotta sul quotidiano vaticano da queste parole:
Il Santo Padre, nella sua omelia del 29 giugno 1995 nella Basilica di San Pietro, alla presenza del
patriarca ecumenico Bartolomeo I, ha espresso il desiderio che sia chiarita «la dottrina tradizionale del
Filioque, presente nella versione liturgica del Credo latino, così che ne sia messa in luce la piena armonia
con ciò che il concilio ecumenico di Costantinopoli, nel 381, confessa nel suo simbolo: il Padre come
sorgente di tutta la Trinità, sola origine e del Figlio e dello Spirito Santo». La chiarificazione che Egli ha
chiesto è pubblicata qui di seguito, a cura del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani.
Essa vuole contribuire al dialogo intrapreso dalla Commissione mista internazionale tra la Chiesa
cattolica romana e la Chiesa ortodossa.
La significatività della questione del Filioque nell’ambito dell’analisi dei modelli
interpretativi dell’unità di Dio è ben espressa dalle parole – già citate – con cui Ioannis Zizioulas
presenta il modello di unità personale. Infatti, dopo aver detto che «il Dio unico non è la sostanza

20
D.J. BOSCH, La trasformazione della missione. Mutamenti di paradigmi in missiologia, Queriniana, Brescia 2000, 262.
21
CODA, Dalla Trinità, 396.
22
FORTE, Trinità come storia, 122.

11
unica ma il Padre, che è la causa (aitia) della generazione del Figlio e della processione dello
Spirito», il teologo ortodosso precisa:
Il problema del Filioque è direttamente legato a questo tema. Studiando la teologia trinitaria di
Agostino d’Ippona e di Tommaso d’Aquino, si constata che l’occidente non aveva difficoltà a sostenere
il Filioque, proprio perché identificava l’essere, il principio ontologico di Dio, con la sua sostanza
piuttosto che con la persona del Padre.23
Se questo è stato l’approccio occidentale alla questione, ben diversa è stata, invece, la
reazione dell’Oriente cristiano. Infatti, un orientale non potrebbe mai accogliere l’aggiunta in
quanto, in greco, suonerebbe come l’introduzione nella Trinità di un “secondo principio”,
violando la realtà della monarchia del Padre, unica origine e unica fonte della Trinità, e minando
così la possibilità di confessare il mistero dell’unità di Dio.
Si può, quindi, concludere che «al fondo della controversia fra Oriente e Occidente intorno
al Filioque non c’è solo la più o meno marcata percezione di un problema teologico – quello della
relazione tra il Figlio e lo Spirito –, né solo una differenza di linguaggio: più radicalmente si può
affermare che vi è una diversità di maniera di pensare, una varietà di approcci al mistero. Questa
diversità costituisce il livello ermeneutico del problema del Filioque, nel quale si confrontano due
mondi, due forme di esperienza spirituale, due “paradigmi” del teologizzare».24
Anche Piero Coda è dello stesso avviso. Egli, infatti, contestualizza la questione del Filioque
nel più ampio ambito dei dibattiti teologici dei primi sei secoli e non può fare a meno di
riconoscere quanto sia paradossale che la divisione tra Oriente ed Occidente si realizzi proprio in
merito alla persona divina che realizza la comunione trinitaria:
I Cappadoci e Agostino esprimono anche le diverse sensibilità, in teologia trinitaria, di Oriente
e Occidente. Non si tratta solo di diversità terminologiche – appianate, come s’è visto, dal
Costantinopolitano II nel 553 – ma, più in profondità, di accentuazioni differenti nella prospettiva
teologica e nell’intuizione spirituale. Nulla di così diverso da far deviare l’una o l’altra tradizione
dall’ortodossia, intendiamoci. Ma quando le differenze saranno inalberate e contrapposte, sarà difficile
cogliere quell’unità che – trinitariamente – non può mai significare uniformità. Ci si accorgerà di questo,
dolorosamente, nella polemica intorno al Filioque: così che la dottrina sullo Spirito Santo, vincolo di
comunione in Dio e tra Dio e gli uomini, potrà addirittura diventare occasione di separazione tra i
discepoli di Cristo. In ogni caso, il dibattito acceso attorno a tale questione permetterà di chiarirsi
ulteriormente le idee, come già era avvenuto per le eresie dei primi secoli. Anche se ciò darà i suoi frutti
solo in tempi a noi più vicini. (Dalla Trinità, 388)

La condanna di Gioacchino da Fiore al concilio Lateranense IV

I due “paradigmi del teologizzare”, emersi nell’analisi della questione del Filioque, li si
ritrova anche in un altro caso emblematico sul quale si vuole tornare dopo il rapido cenno che se
ne è fatto presentando i limiti del modello di unità assoluta: la condanna dell’abate Gioacchino
da Fiore decretata nel concilio Lateranense IV (1215), concilio che è ben noto, forse, più che per la
condanna di Gioacchino, per aver formulato – proprio nel testo in cui si precisano i termini
dell’errore dell’abate calabrese – l’assioma a cui è legato imprescindibilmente ogni tentativo
umano di parlare di Dio, e prima ancora di conoscerlo, e che pertanto fonda la natura analogica
del linguaggio teologico: «Tra il Creatore e la creatura, per quanto grande sia la somiglianza,
maggiore è la differenza» (DH 806).
Il caso della condanna di Gioacchino non ha avuto e non ha la stessa rilevanza teologica
che ha assunto il dibattito e la disputa legata alla processione dello Spirito Santo, ma non di meno
rivela in maniera emblematica gli effetti a cui si giunge quando due differenti modi di pensare,
due diversi approcci al mistero trinitario si incontrano, anzi si scontrano, senza riuscire a
dialogare.
Lo si coglie agevolmente studiando con senso critico le ragioni che hanno condotto
Gioacchino da Fiore e i difensori della dottrina di Pietro Lombardo ad assumere posizioni così
radicalmente differenti tra loro, tanto da considerarsi reciprocamente eretici. Da una parte, infatti,
Gioacchino considera eretico Pietro Lombardo; dall’altro i Padri del concilio Lateranense IV,
sostenendo e difendendo le posizioni del Lombardo, decreteranno la condanna di Gioacchino da
Fiore per l’errore della sua dottrina.

23
ZIZIOULAS, L’essere ecclesiale, 39, nota 27.
24
FORTE, Trinità come storia, 127.

12
SULL’ERRORE DELL’ABATE GIOACCHINO

[803] Condanniamo, quindi, e riproviamo l’opuscolo o trattato che l’abate Gioacchino ha pubblicato contro
il maestro Pietro Lombardo sulla unità o essenza della Trinità, dove lo chiama eretico e stolto, per aver detto nelle
sue Sententiae: «Vi è una realtà suprema, che è il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo ed essa né genera né è generata
né procede».
Da ciò egli conclude che il Lombardo ammette in Dio non una Trinità, ma una quaternità: ossia tre persone
più quella comune essenza, come un quarto elemento, affermando chiaramente che non vi è cosa alcuna che sia Padre
e Figlio e Spirito Santo, né essenza né sostanza né natura, quantunque conceda che il Padre e il Figlio e lo Spirito
Santo sono una sola essenza, una sola sostanza, una sola natura. Ma egli ritiene che questa non è vera e propria unità,
bensì qualcosa di collettivo e analogico, come quando si dice che molti uomini sono un popolo, e che molti fedeli
sono una Chiesa, secondo l’espressione della Scrittura: «La moltitudine di coloro che erano venuti alla fede aveva
un cuor solo e un’anima sola» (At 4,32); […].
Ma per provare questa sua affermazione, egli adduce soprattutto quella espressione che Cristo dice a
proposito dei suoi seguaci nell’evangelo: «Voglio, Padre, che essi siano una cosa sola in noi, come noi siamo Uno,
perché siano perfetti nell’unità» (Gv 17,22s.). […].
[806] Quando la Verità prega il Padre per i suoi fedeli, dicendo: «Voglio, Padre, che essi siano una cosa sola
in noi, come noi siamo una cosa sola» (Gv 17,22), il termine «una cosa sola» riferito ai fedeli si deve intendere nel
senso di unione di carità nella grazia, riferito alle persone divine indica l’unità di identità nella natura, come dice la
Verità in un altro passo: «Siate voi dunque perfetti com’è perfetto il Padre vostro celeste» (Mt 5,48), come se dicesse,
più chiaramente: «Siate perfetti» della perfezione della grazia, «come il Padre vostro celeste è perfetto» della
perfezione della natura, cioè ciascuno a suo modo, perché tra il Creatore e la creatura, per quanto grande sia la
somiglianza, maggiore è la differenza.
Se dunque qualcuno intendesse su questo argomento difendere o approvare l’opinione o la dottrina del
suddetto Gioacchino, sia ritenuto da tutti eretico.

CONCILIO LATERANENSE IV (DH 803-806).

Si chiariscano innanzitutto i termini della questione, guidati dallo stesso testo del Concilio:
Gioacchino pensa che Pietro Lombardo sia eretico. Questo perché, a suo avviso, nel sistema di
pensiero del Lombardo la sostanza rappresenterebbe il “quarto” della Trinità. È evidente,
pertanto, che alla base delle loro posizioni vi è innanzitutto una differenza di modelli di
comprensione del mistero trinitario. Se, infatti, dalla dottrina di Pietro Lombardo e dalle
argomentazioni dei padri conciliari che condannano Gioacchino, si evince che il loro modello è
quello di unità assoluta, in quanto tutto centrato sul ruolo assegnato alla sostanza, le riflessioni
di Gioacchino e le forti perplessità con cui egli reagisce alla dottrina del Lombardo mostrano che
il suo modello interpretativo è ben diverso e non gli consente di cogliere il senso dell’importanza
assegnata dagli altri alla sostanza. Le argomentazioni dell’abate calabrese sono perfettamente in
linea con la dottrina degli orientali che caratterizza il modello di unità personale e, in un certo
qual modo, rappresentano una sorte di anticipazione della prospettiva teologica che sarà
sviluppata nel modello pericoretico-comunionale dalla teologia contemporanea.
A ciò si aggiunga che, se la diversità di modelli non consente a Gioacchino di comprendere
le ragioni di Pietro Lombardo, è la stessa diversità di modelli che porta i Padri conciliari a ritenere
troppo deboli le ragioni addotte da Gioacchino nel presentare il mistero dell’unità di Dio, in
quanto alla luce del loro modello di unità assoluta essi non riescono a dare ragione dell’unità di
Dio senza il ricorso alla sostanza.
In altre parole, Gioacchino non è eretico, in quanto non corrisponde a verità che egli non
creda e non affermi con chiarezza e forza l’unità di Dio. Sono numerosi i testi dell’abate calabrese
che mostrano chiaramente l’ortodossia della sua fede per quanto riguarda il mistero dell’unità di
Dio; si veda – ad esempio – quello nel quale egli afferma che «Dio è uno senza confusione delle
Persone. È trino nelle Persone senza divisione della sostanza … Questa sostanza, che è Dio, è una
e sommamente una, e costituisce una natura unica e semplicissima» (Psalterium Decem
Chordarum).
Inoltre, si deve precisare che la stessa condanna del Concilio riguarda solo «l’opera
perduta di Gioacchino, De unitate et essentia Trinitatis, perché in essa l’abate calabrese accusa
Pietro Lombardo di ammettere non una Trinità, ma una quaternità in Dio (persone ed essenza):
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è questa interpretazione del Lombardo che è dichiarata falsa. Di Gioacchino si affermava anzi
esplicitamente l’attaccamento alla fede cattolica».25 Si deve, pertanto, concludere che, anche in
base a questa presa di posizione del Concilio, non è corretto definirlo “eretico”.
D’altra parte, anche Pietro Lombardo non è eretico, in quanto non corrisponde a verità –
come invece affermava Gioacchino – che egli ritenesse che in Dio vi sia una quaternità, più che
una trinità. La vera questione è ancora una volta – come per il dibattito legato al Filioque – «una
diversità di maniera di pensare, una varietà di approcci al mistero. Questa diversità costituisce il
livello ermeneutico del problema nel quale si confrontano due mondi, due forme di esperienza
spirituale, due “paradigmi” del teologizzare».26

PER APPROFONDIRE

CANTALAMESSA R., L’evoluzione del concetto del Dio personale nella spiritualità cristiana, in Concilium
13 (1977) 430-442.
CODA P., Sul luogo della Trinità. Rileggendo il De Trinitate di Agostino, Città Nuova, Roma 2008.
DE LUBAC H., La posterità spirituale di Gioacchino da Fiore, 2 volumi, Jaca Book, Milano 1981-1984.
FERRI R., Il Dio Unitrino nel pensiero di Tommaso d’Aquino dal Commento alle Sentenze al
Compendio di teologia, Città Nuova, Roma 2010.
KOWALCZYK D., La personalità in Dio. Dal metodo trascendentale di Karl Rahner verso un orientamento
dialogico in Heinrich Ott, Editrice Pontificia Università Gregoriana, Roma 1999.
SGUAZZARDO P., Sant’Agostino e la teologia trinitaria del XX secolo. Ricerca storico-ermeneutica e
prospettive speculative, Città Nuova, Roma 2006.
STAGLIANÒ A., L’abate calabrese. Fede cattolica nella Trinità e pensiero teologico della storia in Gioacchino
da Fiore, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2013.

Sul Filioque

CIOFFARI G., Il dibattito sul Filioque nella teologia russa: una finestra sul dialogo cattolico-ortodosso, in
Nicolaos 29 (2002) 53-72.
COZZI A., Il “Filioque” alla luce del principio di reciprocità. L’esigenza di “riconcettualizzare” la dottrina
trinitaria, in Teologia 29 (2004) 43-72.
GARGANO G.I., Lo scoglio del “Filioque”, in ID., Lezioni di Teologia Trinitaria 2. Modi di contemplare il
Mistero, Urbaniana University Press, Città del Vaticano 2015, 107-133.
GIANAZZA P.G., La processione dello Spirito Santo e la questione del Filioque, in Temi di teologia orientale
1, EDB, Bologna 2010, 199-211.
ROSSETTI C.L., Credo in un solo Spirito Santo che procede dall’unico Padre del Figlio unigenito.
Discernimento storico-teologico per un consenso ecumenico sul Filioque, in Lateranum 80 (2014)
371-420.


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Ivi, 85, nota 115. Con l’ultima affermazione, Bruno Forte fa allusione a questa affermazione del decreto del
Lateranense IV «Non intendiamo, tuttavia, con questo togliere nulla al monastero di Fiore, di cui lo stesso Gioacchino
è stato il fondatore, poiché ivi la formazione è regolare e la disciplina salutare, tanto che lo stesso Gioacchino ha
deciso di inviarci tutti i suoi scritti per sottometterli al giudizio della sede apostolica in vista dell’approvazione o
della correzione accompagnandoli con una lettera, da lui dettata e sottoscritta di suo pugno, nella quale confessa
senza tentennamenti di professare la fede della Chiesa di Roma, madre e maestra, per volontà di Dio, di tutti i fedeli»
(DH 807).
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Ivi, 127. Ho voluto intenzionalmente applicare qui alla disputa tra Gioacchino e Pietro Lombardo le affermazioni
con le quali Bruno Forte ha commentato la questione del Filioque (riportate a conclusione del paragrafo precedente)
per mostrare la profonda analogia che vi è tra le due questioni per ciò che attiene l’incontro e lo scontro di due diversi
modelli di pensiero.

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